Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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CONTRO

TUTTE LE MAFIE

PRIMA PARTE

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio non è un opuscolo opinabile polemico contro l’Italia, ma una constatazione di fatto di quello che è. Un sunto su quanto si è scritto in modo temporale, pluritematico e pluriterritoriale. Gli argomenti ed i territori trattati in questo pamphlet sono aggiornati, completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale attendibile e credibile. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

A COME MAFIA DELL’ABUSO SUI PIU’ DEBOLI.

A COME MAFIA DELL’AFFIDO CONDIVISO.

A COME MAFIA DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

A COME MAFIA DELL’AGROALIMENTARE.

A COME MAFIA DELL’AMBIENTE.

A COME MAFIA DELL’ABUSO SUGLI ANIMALI.

A COME MAFIA DELL'ANTIFASCISMO DEI CRETINI.

C COME MAFIA DEI CAPORALI.

C COME MAFIA DEI CONCORSI PUBBLICI.

C COME MAFIA DEI CONDONI.

C COME MAFIA DEI COLLETTI BIANCHI.

C COME MAFIA DEL CONTRABBANDO.

C COME MAFIA DELLA BUROCRAZIA E DELLA CORRUZIONE.

C COME MAFIA DELLA CULTURA.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA DI STATO.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA BANCARIA.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA ASSICURATIVA (RCA).

G COME MAFIA DEL GIUSTIZIALISMO E DELL’IMPUNITA’.

G COME MAFIA DELLA GIUSTIZIA.

M COME MAFIA DELLE MAFIE E DELLE ANTIMAFIE.

M COME MAFIA DELLE MALEFATTE DELL’ANTIMAFIA.

M COME MAFIA DELLA MASSONERIA.

M COME MAFIA DEI MEDIA.

M COME MAFIA DEI MISTERI DI STATO.

P COME MAFIA DELLA POLITICA E DEI DISSERVIZI E DELLA SOCIETA’.

P COME MAFIA DELLA PRESCRIZIONE E DELLA MALAFEDE DI POLITICI E GIORNALISTI.

R COME MAFIA DELLA RITORSIONE SU CHI DENUNCIA. (SPIONI O ONESTI?). WHISTLEBLOWING: PIU’ DEL MOBBING O DELLO STALKING.  

S COME MAFIA DELLO SCIACALLAGGIO A DANNO DEI TERREMOTATI E DELL’OMERTA’.

S COME MAFIA DELLA SANITA’ E DELLA SCIENZA.

S COME MAFIA DELLA SCUOLA.

S COME MAFIA DELLO SPORT E DELLO SPETTACOLO.

T COME MAFIA DEI TRADITORI.

V COME MAFIA DELLA VIOLENZA E DEGLI OMICIDI DI STATO.

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA

(di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

       ma quest’Italia mica mi piace tanto.  

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012

 

 

 

PRIMA PARTE

 

INTRODUZIONE.

La mafia esiste. Eccome! Scrive Venerdì, 31 agosto 2018 da San Giuseppe d’Arimatea, Casa Spirlì, in Calabria, Nino Spirlì su "Il Giornale". Esiste, esiste… La mafia è nata e non è mai morta. In realtà, non è stata mai neanche ferita. Al limite, è stata disturbata, scossa; a volte, sgualcita. Shakerata, diciamo. Ma niente di più. La mafia è immortale, purtroppo. Perché ha vita in tante vite. Troppe. Palesi, prevedibili, semiimmaginabili, impensabili, impossibili ed oltre ogni codificazione lessicale e mentale.

La mafia è nell’aria e, viva, al di là dell’aria. È nella carne e nei 21 grammi dell’anima. Nei gesti. Nel sudore freddo del sicario e nel silenzio paziente del boss. Nei paroloni reboanti dei comizi. Nella volgare arroganza condominiale. Nelle aquile di marmo fisse sui pilastri dei cancelli e negli aerei privati che scorrazzano strafottenti nei cieli di tutti. Nei contratti paraculi delle mezzecalzette e nelle bave dei leccaculo. La mafia è nei vescovi che coprono i porci in tonaca e nei maestri asserviti che promuovono i somari. Nel pane messo da parte per chi non viene mai a ritirarlo. Nei negri a 20 euro. Nei macchinoni dei familiari a carico. Nel parrucchiere tutti i giorni. Nei vecchi che setacciano, morti di fame, i bidoni del mercato.

La mafia è nelle stragi e nelle carte. Nei documenti spariti e nelle piste abbandonate. Nelle mignotte di Stato e nelle liste per le urne. La mafia è nel pesce marcio cotto comunque. Nei panini di muffa grattugiati e venduti nelle cotolette precotte. La mafia è nel posto riservato. Nell’acqua privatizzata. Nell’antimafia da bigliettino da visita. Nell’ombra di una sovvenzione immeritata. Nel tu paramichevole ad un lei istituzionale.

La mafia è nel cemento impoverito dei ponti e dei palazzi. Nei rifiuti tossici seminati come grano. Nei banchetti cafoni. Negli ospedali assassini. Nei medici ignoranti. Negli anziani abbandonati. Nei disabili picchiati. Nelle adozioni pagate. Nei monumenti funebri spocchiosi.

La mafia è nelle sconfitte dei buoni. Nei ghigni dei cretini. Nelle vittorie dei malfattori. Nei treni pisciati dai violenti.

La mafia è in una donna ammazzata. In un figlio abbandonato. In un animale seviziato.

La mafia è lo scoppio di una bomba al destinatario. La mafia è lo scoppio di una bomba al mittente.

La mafia è la menzogna, il raggiro, la truffa.

È tante cose, la mafia. Tante altre cose…

Esiste, sì, esiste, la mafia. Dai poli all’equatore. Parla le lingue. O tace. La capisci lo stesso. La senti quando c’è. E quando sembra che non ci sia. Ne avverti il fetore. Che, spesso, sa di colonia.

Perché la mafia si pettina, si lava, si lucida e si agghinda. Si imbelletta e tenta la copertura. Tenta.

La mafia sono LORO e siamo anche noi che non riempiamo le piazze. Non diciamo NO. Non urliamo Basta!

La mafia è una matita copiativa che si vende per un favore da niente. O una speranza.

La mafia è la nostra mano nel segreto di quella cabina poco segreta.

Esiste. La mafia esiste. Vero?

La definizione di mafie del dr Antonio Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di due persone specializzati nella produzione di beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che, facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro status quo».

In questo modo si combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi, lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).

Come definire (giuridicamente) tutte le mafie? Scrive il 10 settembre 2018 su "La Repubblica" Lorenzo Picarella - Università di Pisa, Dipartimento Scienze Politiche, direttore del Master professore Alberto Vannucci.  (Con integrazione dell’autore dr Antonio Giangrande).

La criminalità organizzata è un fenomeno che riguarda tutte le aree geografiche del mondo, diventando un attore globale assieme agli Stati, le imprese, le istituzioni internazionali. Le conseguenze della sua presenza su uno o più territori possono comportare gravi problemi non solo di ordine pubblico, ma anche di tipo economico. A tal fine, sia a livello internazionale che di UE, si è cercato di elaborare definizioni giuridiche di criminalità organizzata nella Convenzione ONU di Palermo del 2000 e nella Decisione quadro 2008/841/GAI. Queste nozioni, tuttavia, risultano troppo vaghe e generiche. Esse, infatti, individuano la condotta illecita nella partecipazione ad un'organizzazione, i cui requisiti sono formulati in negativo (si dice ciò che organizzazione non è), composta da più di due persone e finalizzata alla commissione di reati che prevedono pene non inferiori a quattro anni (selezione quantitativa dei reati-scopo).  Inoltre, si incentiva a introdurre, cumulativamente o alternativamente, negli ordinamenti degli Stati membri la fattispecie di conspiracy, tipica dei paesi di common law, che presenta una ancora maggiore genericità. Si tratta, infatti, di un illecito penale consistente in un mero accordo tra almeno due persone per commettere un reato. All'interno di nozioni così ampie, dunque, possono rientrare i più vari fenomeni di delinquenza associata, andando incontro a un rischio di over criminalisation. Siamo in presenza di definizioni che non definiscono. Come superare l'impasse? La questione si presenta complessa. Si devono tener conto e contemperare sia le esperienze e tradizioni giuridiche dei vari ordinamenti che gli studi delle scienze sociali indispensabili ai fini definitori. In sociologia ci si scontra col problema dell'assenza di una nozione largamente condivisa. Tuttavia, a fini normativi, non è necessario trovare la definizione che all'unanimità meglio rappresenti il fenomeno, ma serve sceglierne una capace di inquadrarlo adeguatamente e che sia agevole da tradurre in fattispecie penale. Una classificazione dei gruppi criminali operata, di recente, da Varese e Campana, criminologi italiani che insegnano in Inghilterra, sembra andare in questa direzione. Le organizzazioni criminali vengono suddivise in base al tipo di attività che compiono: sodalizi specializzati nella produzione di beni (e servizi, n.d.a.) illeciti, nel commercio di tali beni e le mafie, gruppi che aspirano a governare territori e mercati. Rimarrebbero escluse le attività cosiddette predatorie (furti, frodi…) che, però, potrebbero formare una quarta categoria. Il minimo comune denominatore di questi gruppi è la presenza di una struttura organizzativa, senza specificare se gerarchica o a rete, idonea al perseguimento delle finalità associative. Introdurre questa classificazione nel contesto giuridico e istituzionale ha una serie di vantaggi e implicazioni potenzialmente fondamentali. Innanzitutto, il concetto di mafia da loro utilizzato riprende la teoria di Gambetta della mafia come industria della protezione che ha avuto applicazioni in vari Paesi del mondo, anche in quelli a non tradizionale presenza mafiosa come l'Inghilterra. Si utilizzerebbe, dunque, una definizione che già in passato è stata capace di individuare gruppi mafiosi, simili a quelli italiani, in altri territori. Uno strumento utile, dunque, per vincere la ritrosia di molti paesi a riconoscere il fenomeno e per dissipare la confusione che si crea attorno alla parola “mafia”. La divisione dei gruppi criminali secondo le attività svolte, poi, si dimostrerebbe utile per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché la varietà delle strutture organizzative e la difficoltà nel descriverle, sotto il profilo normativo, rende necessario tenere questo elemento generico. Inoltre, il trend degli ultimi anni mostra una tendenza verso una maggiore flessibilità e fluidità di tali strutture. È, quindi, sul piano delle finalità che va effettuata la differenziazione e, di conseguenza, la qualificazione dei vari tipi di criminalità organizzata. In secondo luogo, perché suggerisce una selezione qualitativa dei reati-scopo, cioè in base al tipo di reato e non all'entità della pena, che è una modalità di incriminazione piuttosto comune tra i paesi UE e utilizzata nel RICO americano, la normativa più evoluta di contrasto al crimine organizzato tra gli ordinamenti di common law, di cui potrebbe diventare il modello di riferimento. Diverso è il discorso per i gruppi mafiosi per i quali è più congeniale basarsi sul metodo che sui reati-scopo. La categoria di mafia come fornitrice di protezione, che fa leva sulla reputazione e sulla violenza, sembra avvicinarsi al metodo mafioso del 416-bis italiano nel quale si fa riferimento alla forza di intimidazione del vincolo associativo. Apportando qualche modifica per andare incontro alle sensibilità giuridiche di altri ordinamenti, tale fattispecie, dunque, potrebbe costituire un esempio da imitare. L'utilizzo di tale classificazione non solo raggiungerebbe l'obiettivo di meglio definire normativamente la criminalità organizzata, ma, cosa ancora più importante, contribuirebbe a uniformare e chiarire l'interpretazione del fenomeno nei contesti istituzionali. Diventerebbe più semplice riconoscere la presenza del crimine organizzato sul proprio territorio, consapevolezza che storicamente spinge i paesi a contrastarlo con maggiore efficacia, e la cooperazione ne trarrebbe beneficio così come la conoscenza del fenomeno e il dibattito pubblico.

La definizione di mafie del dr Antonio Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di due persone specializzati nella produzione di beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che, facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro status quo».

In questo modo si combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi, lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).

Il ruolo del Pubblico ministero fra mafie e potere, scrive il 9 settembre 2018 su "La Repubblica" Elisa Prestianni - Link Campus University, relatrice professoressa Daniela Mainenti. Tra i principi costituzionalmente garantiti che vincolano il legislatore nella disciplina delle funzioni del P.M. emerge quello dell’obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112 della Costituzione il quale garantisce due ulteriori principi, ossia l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e l’indipendenza del Pubblico Ministero. Nonostante abbia costituito una delle conquiste più qualificanti della nostra Carta costituzionale, oggi esso è oggetto di una ineffettività concreta tale da portare ad interrogarsi sulla possibilità di mantenerlo, oppure di abbandonarlo scorrendo verso forme di discrezionalità controllata. L’inefficacia di tale principio ha da sempre costituito una delle molteplici cause che ha giustificato proposte volte a separare le carriere tra Magistrati giudicanti e requirenti. A partire dalla metà degli anni Novanta, gli eccessi nell’attivismo politico di alcuni magistrati requirenti nel perseguire le infiltrazioni mafiose ed il sistema tangentizio radicati nella pubblica amministrazione, favorirono il diffondersi della convinzione che era necessario introdurre forme di controllo dell’attività del Pubblico Ministero da parte degli organi di indirizzo politico. Inoltre la facilità di passaggio dalla funzione di accusa a quella giudicante, la progressiva accentuazione dell’autonomia del singolo magistrato, il c.d. protagonismo giudiziario hanno spinto di recente l’Unione delle Camere Penali Italiane, al fine di garantire la terzietà del Giudice e più in generale il principio del giusto processo, a presentare una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a separare le carriere di Giudici e di Pubblici Ministeri, prevedendo due distinti organi di autogoverno della Magistratura, la selezione dei magistrati attraverso concorsi separati, e infine la modifica dell’art. 112 della Costituzione, con la previsione di esercizio dell’azione penale «nei casi e secondo i modi previsti dalla legge». Diversa è la posizione dell’Associazione Nazionale Magistrati, a parere della quale la proposta di riforma introduce delle modifiche che stravolgono l’impianto costituzionale e incidono sui presidi posti a tutela della indipendenza e della autonomia della Magistratura e per la quale separare le carriere equivale ad assoggettare il Pubblico Ministero al potere politico. Vi è di più. La prima fase del procedimento penale è quella delle indagini preliminari nella quale l’Autorità giudiziaria dispone direttamente della Polizia Giudiziaria. Considerando che il Pubblico Ministero oggi è indipendente dal potere politico, mentre l’ufficiale o l’agente di Polizia giudiziaria appartiene alle forze di Polizia militarmente organizzate e inserite all’interno di una gerarchia al cui vertice vi è il Ministro a cui rispondono e da cui ricevono gli ordini, conformandosi di conseguenza alle scelte politiche del Governo, ci si chiede: lo “status militis” della Polizia Giudiziaria è compatibile con l’obbligatorietà dell’azione penale? Oppure l’esecutivo potrebbe ottenere il controllo della stessa? Inoltre, si assiste ad un ampliamento degli spazi di autonomia investigativa della Polizia Giudiziaria, cui corrisponde il restringimento della sua dipendenza funzionale dall’organo requirente: allora è ancora corretto considerare il Pubblico Ministero come “dominus” delle investigazioni? Tra i principi che regolano il nostro sistema penale vi è il principio del contraddittorio per il quale, di regola, la prova deve formarsi in dibattimento, oralmente e nella parità delle parti processuali. Esso, quale cardine del modello accusatorio, convive nel nostro ordinamento con il principio di “non dispersione della prova”. Tuttavia troppo spesso si assiste ad una anticipazione della prova, anche mediante l’istituto dell’incidente probatorio, e ad uno “svuotamento” di significato di tale principio. Gli elementi raccolti durante le indagini preliminari tendono a trasformarsi in prove, acquistando una grande forza propulsiva rispetto invece alla prova orale che, sempre più spesso non supera il vaglio del tempo.  Ci si chiede in questo contesto quale sia il vero ruolo del principio del contraddittorio: istruttorio o accusatorio? Altro aspetto “controverso” è quello attinente al rapporto tra il Pubblico Ministero e il Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) in merito al rigetto della richiesta di archiviazione e quindi alla delimitazione dei poteri di controllo attribuiti a quest’ultimo sull’operato del Pubblico Ministero. Il rischio è che il sistema prospettato dal codice di rito possa consentire al G.I.P. di travalicare i confini del lavoro investigativo del Pubblico Ministero con conseguente violazione del principio della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost. e che possa essere condizionata in qualche modo la terzietà della funzione giurisdizionale. Tuttavia se si limitasse il potere del G.I.P. al solo petitum del Pubblico Ministero, impedendo al Giudice di richiedere lo svolgimento di ulteriori indagini su una prospettiva diversa da quella individuata dall'ufficio di Procura, «si delegherebbe all'arbitrio dell'organo assoggettato a controllo, il potere di ritagliare la quantità e la qualità dell'intervento del controllore».

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci.

Oltre all’Ndrangheta adesso l’Italia sta diventando la base logistica delle mafie straniere, scrive A.drea P.sini il 19 dicembre 2018 su "Il Giornale". Ad Oggi in Italia non ci sono solo gli affari della 'Ndrangheta, della camorra, di Cosa Nostra, perché il nostro paese si è trasformato in un importatore di associazioni criminali straniere. A raccontalo è l’ultima relazione della Direzione distrettuale Antimafia dove si spiega con dati alla mano che ogni 4 indagati per 416 bis 1 è straniero. Le gang cinesi a Nord, i nigeriani e i russi nel Centro-Sud e la mafia albanese che coprono tutta la penisola. Gestiscono il narcotraffico, la tratta degli esseri umani, la prostituzione e infettano l’economia con il riciclaggio di danaro sporco. E nel frattempo si associano ai calabresi, siglano patti di non belligeranza con i siciliani, lavorano insieme ai pugliesi e fanno da manovalanza ai camorristi. Non ci sono solo i tentacoli delle mafie italiane a fare il bello e il cattivo tempo in tutta Italia isole comprese ma adesso si sono aggiunte le mafie estere. Non ci sono solo gli affari della ‘ndrangheta e di cosa nostra ad imperversare dalla Lombardia alla Sicilia. Al contrario, invece, dal 2017 fino ad oggi l’Italia si è trasformata in importatrice di associazioni criminali straniere. A raccontarci tutto questo è l’ultima relazione della Direzione Nazionale AntiMafia. Si racconta di come la ‘Ndrangheta sia ormai stabilmente presente in tutti i settori nevralgici del nostro paese, aggiungerei per nostra sfortuna. Ma quello che desta maggiore sconforto è proprio il fatto che nella relazione gli investigatori analizzano nel dettaglio gli affari sul suolo italiano delle mafie straniere in continua crescita. Già negli anni precedenti, per la verità, gli analisti della Dna avevano dedicato alcuni paragrafi delle relazioni alle mafie extra italiane. Questa volta, però, le pagine utilizzate per raccontare gli affari delle mafie estere sono molto più numerose. Il motivo sono i numeri: i quali ci dicono che praticamente ogni quattro persone che le procure antimafia della Penisola hanno indagato per 416 bis, ce n’é almeno una non italiana. Una proporzione in continua crescita che confermano come le associazioni criminali straniere siano ormai la quarta magia d’Italia. Abbiamo gli albanesi che ormai fanno sinergia criminale con i calabresi. La mafia albanese ha di fatto acquisito il totale controllo della rotta balcanica per trasportare armi e droga. Ma non solo. Perché da qualche tempo gli investigatori si sono accorti di una novità: gli albanesi hanno conquistato i due estremi dell’Atlantico dal Sudamerica, da dove partono i carichi da centinaia di chili di cocaina colombiana, ai porti del Vecchio Continente, dove il prodotto viene distribuito ai compratori. In particolare spiegano gli analisti della Dna nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti, tali gruppi criminali sono riusciti a stabilire propri referenti di fiducia in Spagna, nei Paesi del nord Europa e del Sud America, riuscendo ad assicurarsi un ruolo da protagonisti nella gestione di tali traffici delittuosi, secondo una specifica strategia che gli consente di gestire agevolmente l’acquisto, il trasferimento, la custodia e la vendita di notevoli quantitativi di cocaina proveniente direttamente dai predetti Paesi. Un’attività quella della gestione logistica della traffico di cocaina su scala mondiale in cui Tirana ha ormai sostituito i calabresi. Poi abbiamo i russi. L’allargamento dei confini dell’Ue ha accresciuto gli appetiti delle mafie russe.

Tale scenario annota la Dna ha rappresentato per le organizzazioni criminali russe un’occasione per espandere le proprie attività criminali lungo due direttrici: da una parte le attività illegali, quali il traffico di stupefacenti e di armi, il contrabbando di tabacchi e i reati predatori; dall’altra le infiltrazioni nelle attività imprenditoriali legali, attraverso il riciclaggio degli ingenti profitti delittuosi anche in Italia, attraverso appunto investimenti immobiliari, strutture commerciali e nei più famosi centri cittadini, a cominciare dalle località balneari. In pratica, stanno infiltrando l’economia italiana riciclando il proprio denaro. Poi ci sono i mafiosi cinesi. Il vero settore in cui si muovono i cinesi, però, è ovviamente quello finanziario: un ambito al quale si dedicano i colletti bianchi dei clan dagli occhi a mandorla, ormai completamente inseriti nel tessuto italiano. Recenti acquisizioni info investigative si legge sempre nella relazione sembrano confermare l’operatività, in tale ambito, della cosiddetta terza generazione, cui appartengono liberi professionisti ed imprenditori di origine cinese, nati in Italia, dediti a reati di natura economico-finanziaria. Attraverso tali figure professionali, la comunità cinese si conferma capace di operare anche nel reimpiego di capitali illeciti per finanziare attività illegali e speculazioni lecite, quali l’acquisto di immobili, di esercizi commerciali e di imprese in stato di dissesto, risanate con l’utilizzo di forza lavoro clandestina a bassissimo costo. Un’infiltrazione continua dell’economia italiana, un enorme giro di denaro che alla fine torna in madre patria. Gli investigatori, però, hanno documentato come i cinesi utilizzino sempre meno i circuiti tracciabili per movimentare i propri capitali. Poi passiamo alla mafia Nigeriana una della mafie meno conosciuta ma sempre più forte e feroce. Questa mafia si sta sviluppando con sempre maggiore forza nel centro- sud Italia. Questi clan africani stanno stringendo legami con la camorra e con L’Ndrangheta.

A dettare legge tra i clan africani ci sono proprio i nigeriani di Blak Axe, l’ascia nera, nata negli anni ’70 all’università di Benin City come una confraternita di studenti. All’inizio era una gang a metà tra un’associazione religiosa e una banda criminale, che stabiliva riti d’iniziazione e imponeva ai suoi affiliati di portare un copricapo, un basco con un teschio e due ossa incrociate, come il simbolo dei corsari. Adesso si è trasformata in una vera e propria piovra, con i suoi capi, i suoi affari e i suoi traffici protetti dalla più invulnerabili delle leggi: l’omertà. Quanto ai sodalizi nigeriani confermano gli analisti si tratta di gruppi fortemente caratterizzati dalla comune provenienza etnico-tribale dei suoi membri. Tali elementi garantiscono a ciascun sodalizio un’elevata compattezza interna che ne consente un’efficace operatività nonostante la ricorrente suddivisone in cellule, attive in diverse aree territoriali nonché il riconoscimento dei caratteri dell’associazione mafiosa in diversi procedimenti penali. Tali prerogative hanno consentito alla consorteria criminale di affrancarsi dall’assoggettamento ad altri gruppi criminali e di raggiungere una certa autonomia nei traffici perpetrati, nonché di intrattenere proficui rapporti anche con la criminalità organizzata autoctona, come dimostrano alcuni recenti sequestri di hashish proveniente dal Marocco e destinato alle cosche ‘ndranghetiste e ai clan camorristici. Ed in fine abbiamo i sudamericani. Le mini gang studiano da narcos. Questi sono formate da piccoli clan composti quasi sempre da giovanissimi. Gang queste nate per emulare le gesta delle bande ispano-americane. Proliferano nelle periferie delle grosse città del Nord, dettano legge in intere zone dei quartieri in cui vivono, finiscono sempre più spesso sulle pagine dei giornali per episodi cruenti. La presenza di soggetti provenienti dal Sudamerica si spiega nella relazione della Direzione AntiMafia è finalizzata principalmente all’approvvigionamento del narcotico, in particolare cocaina, a prezzi maggiormente competitivi, grazie ai contatti diretti con i fornitori nei Paesi d’origine. Le gang di periferia, insomma, hanno già iniziato a smerciare droga e dai quartieri più lontani puntano al centro delle città. I baby criminali, in pratica, sono pronti a trasformarsi nei narcos del futuro. Solo che non siamo a Medellin e nemmeno in Colombia, e questa non è una serie di Netflix: sono le periferie italiane dove alle mafie autoctone si sono ormai affiancate quelle di mezzo mondo. Il risultato è un cocktail esplosivo, un’internalizzazione del crimine che parla mille lingue e non sembra conoscere argini. E questo continuo dilagare di gruppi criminali nel nostro paese va immediatamente arginato con decisione, con forza e con intelligenza. Non possiamo permettere che nessun tipo di mafia possa minimamente intaccare il nostro tessuto sociale più di quanto già non stia già facendo nel nostro Paese. Lo Stato deve con forza e determinazione combattere tutti i giorni mettendo in campo una seria e concreta strategia per contrastare tutti i tipi di associazioni criminali e proprio su questo dovrebbe prendere spunto dalle idee che il Procuratore AntiMafia Nicolo Gretteri ha poi e poi volte lanciato alla politica che di contro non ha mai forse voluto prendere in considerazione e che invece avrebbe dovuto prendere visto la grande esperienza che ha maturato suo campo il Procuratore AntiMafia più famoso d’Europa. Anche noi cittadini onesti dobbiamo quotidianamente lottare per dare un aiuto concreto alle forze dell’ordine, alla Magistratura ed allo Stato in questa ardua lotta contro Ndrangheta e tutti i tipi di mafia. Io A.drea P.sini che risiedo in un quadrilatero molto difficile in periferia di Milano tra i comuni di Corsico, Buccinasco, Trezzano Sul Naviglio, Cesano Boscone e Rozzano ci metto la faccia con nome e cognome perché, appunto, vivendo in un territorio difficile dove da tempo sono presenti organizzazioni criminali come mafia, Ndrangheta e le organizzazioni criminali extracomunitarie più variegate di qualsiasi nazionalità vi dico che bisogna avere il coraggio di lottare Senza paura al fianco di chi tutti i giorni combatte queste organizzazioni come le forze dell’ordine e la magistratura perché solo dimostrando a questi criminali che la gente per bene non si fa sottomettere e che non ha paura si potrà estirpare questo cancro e vivere da uomini liberi a casa propria.

Oltre alle nostre mafie c'è di più. Dalla Yakuza alla mafia russa, passando per le spietate organizzazioni criminali di Messico e Colombia.

Con mafia ci si riferisce tradizionalmente a gruppi criminali emersi in Sicilia intorno alla metà del XIX° secolo, associazioni volte a controllare il territorio locale in modo organizzato e secondo precise regole di condotta. Oggi, si utilizza in modo generico e canonico il termine "mafia" per indicare associazioni criminali aventi lo scopo di controllare, gestire e preservare i profitti derivanti da traffici illeciti. Lo scrittore e sociologo storico Antonio Giangrande ingloba nel termine mafia, altresì, gli apparati corporativi leciti come le Caste, le Lobbies e le massonerie deviate. Strutture che usano l'affiliazione ed il potere pubblico di cui sono portatori, o ad essi riconosciuto, per abusarne al fine di soddisfare gli interessi personali e collettivi. E' un sistema parallelo che provoca nei cittadini soggezione ed omertà. Spesso e volentieri troviamo la commistione tra i due sistemi (mafia bianca e mafia nera). Ciò è convalidato dal fatto che spesso sono proprio i membri delle istituzioni a far parte dei sodalizi criminali direttamente o indirettamente (appoggio o concorso esterno mafioso). I traffici della mafia vanno dalle armi alla droga, dalle estorsioni al traffico di esseri umani. Niente è tabù per le mafie di tutto il mondo, e le associazioni di crimine organizzato definite in questo modo sono note per la spietatezza nel gestire le loro attività più lucrose. La multinazionale della mafia ha migliaia di sedi in tutto il pianeta. Nessun Paese al mondo può vantare di non essere afflitto dalla piaga della criminalità, organizzata in clan e "famiglie". Si va da quelle storiche asiatiche, la Yakuza e le Triadi cinesi, alla nostrana mafia siciliana, che ha ben attecchito negli Stati Uniti. E poi, i terribili mafiosi messicani e la potente mafia dell'Est, capeggiata dai boss russi che si distinguono per acume e cattiveria. Molti i tratti distintivi dei mafiosi, che prediligono soprattutto i tatuaggi, mentre qualcuno (come in Giappone) per dimostrare l'appartenenza totale al clan Yakuza si amputa le falangi dei mignoli.

Le Mafie italiane. La ’ndrangheta di origine calabrese in Italia è ormai più potente e pericolosa di Mafia (Cosa Nostra e Stidda) di origine siciliana e Camorra di origine campana. Sicuramente dalle 'ndrine calabresi hanno avuto la genesi la Sacra Corona Unita in Puglia (Salento) ed il sodalizio dei Basilischi in Basilicata. Poi ci sono le mafie autoctone: la mafia foggiana, la mafia romana (Spada e Casamonica), la mafia veneta (del Brenta), ecc È radicata e diffusa nel territorio, dalla Calabria alla Lombardia. Gode della fiducia della criminalità di altri Paesi. Ha costruito il suo impero con i sequestri, si procura il cash con l’usura, investe cifre enormi nel commercio della droga. Fa ormai così parte del tessuto sociale che sembra impossibile sconfiggerla. Oggi la 'Ndrangheta è considerata la più pericolosa organizzazione criminale in Italia, ma è anche una delle più potenti al mondo, con una diffusione della presenza anche all'estero (dal Canada ad altri paesi europei meta dell'emigrazione calabrese). Secondo il rapporto Eurispes 2008 ha un giro d'affari di 44 miliardi di euro. La versione americana di Cosa Nostra è relativamente recente: inizia nella metà del secolo scorso, e si caratterizza subito per la sua abilità di progettare attività criminali ad ampio respiro, senza tuttavia lasciare tracce del suo coinvolgimento. Le sue attività vanno dal racket della protezione al traffico di droga e di armi, fino alla mediazione del business criminale di diverse organizzazioni mafiose. Gli appartenenti a questa mafia sono pochi se paragonati ad altre associazioni criminali, ma sono estremamente selezionati e fedeli al clan, e devono seguire severamente la "regola del silenzio". Chiunque sia "affiliato esterno" non sa mai cosa passi per la testa dei boss o degli affiliati più stretti. "La Cosa nostra" (Lcn) continua a essere la più potente, diffusa e temibile organizzazione criminale negli Usa, al primo posto per fatturato nella classifica mondiale delle mafie. Ha collegamenti stabili con altre organizzazioni criminali e con Cosa nostra siciliana, di cui conserva la struttura: un boss, il suo vice, il gruppo di consiglieri, le truppe. È insediata in almeno 19 stati della Confederazione con le famiglie storiche dei Gambino, Colombo, Bonanno, Genovese, Lucchese, e le più recenti De Cavalcante, Patriarca e Scarfo. I suoi interessi primari sono narcotraffico e riciclaggio, ma anche estorsione, gioco d’azzardo, frodi, usura. Condiziona inoltre i settori economici del trasporto su gomma, delle costruzioni, della raccolta dei rifiuti (tossici, in particolare), ristoranti, distribuzione alimentare, carburanti, abbigliamento, corse dei cavalli, pompe funebri. Controlla diversi sindacati dei lavoratori delle costruzioni, del porto e degli aeroporti di New York.

La Mafia Russa. Nata durante l'Unione Sovietica, ha contatti in tutto il mondo, con un'influenza che non ha pari a livello globale. Gli affiliati vanno dai 100.000 ai 500.000, a livello planetario. Le sue attività sono principalmente traffico di droga e di armi, attività terroristiche, pornografia, frodi telematiche e traffico di organi. La regola primaria è "non collaborare mai con la polizia". Se uno dei membri della mafia russa viene catturato, è facile che venga ucciso non appena rilasciato, visto il potenziale pericolo che rappresenta per l'organizzazione. In Russia, tra i diversi gruppi mafiosi, dominano quelli di: Solntsevskaja Bratva, alla periferia di Mosca (traffico di droghe, estorsioni, riciclaggio, contrabbando); Tambovskaja-Malysevkaja, a San Pietroburgo (droghe, riciclaggio e frode); Izmajlovskaja-Dolgoprudnenskaja, presente anche a New York, Los Angeles, Miami, San Francisco (riciclaggio, estorsioni, furti, traffico di droga e omicidi su commissione); Uralmashkaja, attiva anche in Italia, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Cina (materie prime, metalli preziosi, droghe e armi). Il gruppo Tambovskaja è quello più influente nella regione nord-occidentale, dispone di una propria rete bancaria, di industrie legali e istituti di vigilanza privata; controlla l’industria dei combustibili e dell’energia, la produzione alimentare, il mercato immobiliare e dell’intrattenimento. Merita un cenno anche la mafia caucasica, strutturata in gruppi su base etnico-religiosa, tra cui spiccano i ceceni. Questi, a Mosca, nei primi anni Novanta, si dedicavano al traffico di autovetture rubate, poi hanno esteso la loro influenza nelle principali città russe, soprattutto nel settore finanziario. Ogni gruppo ha le sue ‘specializzazioni’: i georgiani, sequestri di persona e furti con scasso; gli azeri, il mercato nero dell’ortofrutta; i daghestani e gli armeni, il racket sui piccoli commercianti; gli osseti, rapine e violenze sessuali.

La Mafia Cinese. E' di sicuro la mafia più potente d'Oriente, con sedi in Cina, Malesia, Singapore, Hong Kong, Taiwan, e via dicendo. Molto attiva anche negli U.S.A., è generalmente coinvolta in furti, omicidi a pagamento, traffico di droga, pirateria ed estorsioni. L'organizzazione mafiosa cinese ha inizio nel XVIII° secolo con il nome di Tian Di Hui, che significa "Società del Cielo e della Terra". Tutto nasce dall'occupazione britannica, che favorisce le attività criminali delle società segrete cinese, che vennero definite "triadi". La mafia cinese, con le Triadi (i tre elementi originari confuciani: il cielo, la terra e l’uomo), ha quasi monopolizzato (oltre 4 milioni di membri), in importanti aree mondiali, la tratta delle persone, oltre a narcotraffico, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, estorsione, contraffazione di marchi, riciclaggio. In passato, in Italia era stata definita una mafia ‘Wuton Wutei’ (draghi senza testa e senza coda), per il basso profilo criminale. Ha struttura stratificata, con a capo il Grande fratello (Testa del Dragone) affiancato da un comitato ristretto. Per questa organizzazione – a differenza della mafia italiana – l’uso della forza per il controllo territoriale continua ad essere solo una conseguenza della ricerca del profitto nelle attività commerciali.

Così la mafia cinese colpisce l'Italia. Omicidi, attentati: da Napoli a Prato, le centrali della criminalità cinese crescono a ritmi sempre più veloci, scrive Giorgio Sturlese Tosi l'11 dicembre 2018 su "Panorama". È l’una di notte quando, nel cuore del distretto tessile di San Giuseppe Vesuviano, 30 chilometri da Napoli, un commando di killer armati di pistole e machete entra nell’albergo-ristorante cinese Villa Paradiso. Gli uomini, urlando, si scagliano su tre persone sedute a un tavolo. Vittime e aggressori sono cinesi. Il sangue schizza fin sugli improbabili affreschi di paesaggi asiatici. Una mattanza. Su Zhi Jian, 28 anni, colpito da trentatré coltellate, muore poco dopo in ospedale.

Questo accadeva una notte di maggio del 2006. Undici anni dopo, è il giugno 2017, nella zona industriale dell’Osmannoro vicino a Firenze due pachistani dipendenti di una ditta di trasporti vengono circondati da un gruppo di cinesi mentre caricano un camion. Vengono feriti gravemente, uno a revolverate e l’altro con martellate al petto. La scia di sangue che lega questi due episodi, avvenuti a centinaia di chilometri di distanza, è quella della mafia cinese in Italia (e con mille diramazioni in molte città europee).

Chi è Zhang Naizhong, l’Uomo nero. Per anni, squadra mobile di Prato e Servizio centrale operativo della polizia hanno pedinato, intercettato, ricostruito gli affari di colui che per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze è il capo dei capi di una potente e feroce organizzazione criminale, con radici nelle regioni cinesi dello Zhejiang e del Fujian e, appunto, «terminazioni» nelle chinatown italiane ed europee: il suo nome è Zhang Naizhong, soprannominato l’Uomo nero. È un imprenditore di successo nel trasporto merci su gomma. Nel nostro Paese si sposta sempre su auto di lusso con autista. Uomo scaltro e spietato, secondo le accuse ha iniziato la sua carriera criminale da clandestino in Francia, a Parigi: qui, negli anni Novanta faceva lo «spallone» nel traffico dei wu ming, i «senza nome» arrivati in Occidente privi di permesso di soggiorno e impiegati poi come manodopera nei laboratori tessili di mezz’Italia. La prima volta Zhang Naizhong è stato arrestato, alla fine degli anni Novanta, nel corso di un’indagine del tribunale di Roma sull’immigrazione clandestina. Scarcerato in breve tempo, ha fondato la società di trasporti Euro Anda, sempre mantenendo i contatti con importanti malviventi in Cina. Parallelamente, ha investito in vari locali notturni della Capitale, in cui è stato accertato lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile, e lo spaccio di droghe pericolose come la ketamina. Zhang ci ha saputo fare e, secondo quanto hanno ricostruito gli inquirenti fiorentini, abbinando fiuto per gli affari e violenze contro rivali e clienti, ha raggiunto alla fine il monopolio italiano nel trasporto merci. Illuminante una frase detta ai suoi (e intercettata): «Prima non sapevo come gestire gli affari perché sapevo solo fare il mafioso...». Il tribunale di Napoli lo ha condannato in primo grado per favoreggiamento proprio per la mattanza nell’hotel ristorante Villa Paradiso di San Giuseppe Vesuviano. Ma è stato poi assolto in appello e ha continuato a ingrandirsi lungo le rotte della logistica nel nostro Paese. Stava puntando così a scalare il mercato europeo quando gli agenti del Servizio centrale operativo della polizia e della Mobile di Prato, nel gennaio scorso, lo hanno scalzato dal trono con l’operazione «China Truck», con 53 indagati. A incastrarlo, oltre agli elementi raccolti negli anni dagli inquirenti, un supertestimone: Deshun Weng, alla testa della Eurotransport, una società di logistica rivale di Naizhong. Anche lui è stato coinvolto negli scontri con gli uomini della Euro Anda, ma è soprattutto un insider che conosce i retroscena di molti episodi di violenza, il Tommaso Buscetta di questa inchiesta.

Il business cinese in Europa. Weng ha confermato le tesi investigative e ha raccontato di sparatorie, attentati incendiari, sequestri e omicidi dietro cui ci sarebbe sempre l’Uomo nero. Sullo sfondo, in uno scenario più vasto, una guerra senza esclusione di colpi per aggiudicarsi le tratte su cui viaggiano le merci provenienti dalla Cina. Un business smisurato e un movente più che concreto: nel 2017, l’Agenzia delle dogane ha registrato più di sei milioni di tonnellate di merci cinesi in ingresso in Italia, per un valore di oltre 25 miliardi di euro. Si tratta di milioni di container che sbarcano nei maggiori porti italiani ed europei: il Pireo in Grecia, Napoli, Amburgo in Germania e Bilbao e Valencia in Spagna. Da questi terminali, ogni giorno, muovono migliaia di tir diretti ai depositi di stoccaggio. E da qui viene alimentata in tutt’Europa la rete del commercio al minuto attraverso una flotta infinita di furgoni...È un business destinato a moltiplicarsi con la «Belt and road iniziative», il piano di investimenti da 100 miliardi di dollari che il presidente Xi Jinping vuol destinare a infrastrutture marittime e viarie, inclusi gli scali italiani, per espandere i commerci cinesi in Occidente. Proprio ricostruendo questi percorsi, le inchieste della gendarmeria francese, della guardia civil spagnola, della bundeskriminalamt tedesca hanno trovato punti di contatto con le indagini della Dda napoletana e fiorentina. Dal canto loro, ogni volta che investigatori e magistrati italiani hanno provato a tracciare le linee commerciali su cui si muovono i mezzi della Euro Anda, con sede a Roma in via del Maggiolino, e filiali a Prato, Parigi, Madrid e Neuss, in Germania, si sono imbattuti in un cadavere.

L'operazione "China Truck" e le altre inchieste. In gennaio, luogotenenti e sicari dell’organizzazione di Zhang Naizhong andranno alla sbarra a Firenze. Tra le accuse: spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, ma anche usura, estorsione e gli immancabili favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e contraffazione di marchi di moda. Tutti reati che, secondo il sostituto procuratore antimafia fiorentino Eligio Paolini, sono serviti a mantenere il potere e a finanziare le attività di trasporti che tale potere hanno alimentato. Il giudice delle indagini preliminari di Firenze ha contestato anche l’aggravante mafiosa: l’assoggettamento degli affiliati, l’intimidazione delle vittime, l’omertà della comunità cinese richiama secondo il gip ruoli e modalità della mafia siciliana degli anni Ottanta, sia pure in modo ancora rozzo e sanguinario. Il tribunale del riesame e la Cassazione hanno tuttavia negato che si tratti di mafia, scarcerando gran parte degli indagati e mettendone altri, come il presunto «capo dei capi», ai domiciliari con il braccialetto elettronico. La complessa partita giudiziaria tuttavia è in corso. «China truck» non è comunque l’unica indagine che ipotizza traffici criminali cinesi in tutto l’Occidente. Altre inchieste svelano punti di contatto inquietanti con l’organizzazione di Zhang Naizhong. In Spagna si sta svolgendo un processo-monstre contro un’associazione a delinquere cinese con interessi nella tratta di clandestini, trasferimenti illegali di miliardi di euro, spaccio di merce contraffatta. A guidarla, secondo l’inchiesta che rischia di coinvolgere personalità di spicco anche istituzionale, ci sarebbe Gao Ping, mecenate d’arte, proprietario di squadre di calcio e amico dei reali di Spagna. Le merci clandestine che ha nascosto a Fuenlabrada, l’enclave commerciale cinese vicino a Madrid, avrebbero viaggiato su camion di criminali cinesi che facevano consegne anche nei depositi di Zhang Naizhong. Ancora: un’inchiesta della guardia di finanza italiana, partita nel 2012 contro 227 imputati e rimasta ferma nel tribunale di Firenze fino alla prescrizione arrivata la scorsa estate, aveva ricostruito il flusso sotterraneo del denaro frutto di attività lecite e illecite, dall’Italia alla Repubblica popolare cinese. Ogni anno, da Prato, attraverso i «money transfer» e la compiacenza di Bank of China, veniva spedito in Oriente oltre mezzo miliardo di euro. Gli inquirenti hanno seguito uno dei corrieri incaricati di inviare il denaro all’estero, il suo nome è Ye Zhekay. In varie tranch ha depositato un milione e 300 mila euro in un’agenzia pratese di trasferimento valuta. Ye Zhekay era il referente di Zhang Naizhong in Francia.

Prato, il fulcro della malavita cinese. In dicembre saranno infine rinviati a giudizio i 92 cinesi indagati per traffico illecito di rifiuti pericolosi dai Carabinieri forestali della Toscana. Hanno scoperto come alcuni trasportatori cinesi di Prato siano stati «collettore» per tonnellate di scarti tessili e plastici. I rifiuti (con la complicità della camorra) venivano raccolti in aziende del Nord e spediti a Shangai come materie prime destinate a nuove produzioni. Oggetti in plastica fuorilegge che la malavita orientale importava clandestinamente, come i 25 milioni di giocattoli pronti per finire sotto gli alberi di Natale e sequestrati lo scorso 26 novembre dalla Finanza in un capannone vicino a Napoli. Intanto a Prato, fulcro della malavita cinese, si continua a sparare. A luglio, in mezzo ai bambini che giocavano in un parco cittadino, due gruppi di cinesi si sono affrontati a colpi di pistola. Poi d’improvviso, alle soglie dei processi che si stanno per celebrare contro le organizzazioni criminali, è cominciata una strana quiete. O, più probabilmente, è un’ennesima e fragile pax mafiosa. 

La storia del capo della mafia cinese in Italia e Europa. Zhang Naizhong, arrestato il 18 gennaio scorso e ora ai domiciliari, solo due mesi prima aveva accompagnato un sottosegretario del governo di Pechino in visita di stato a Roma, per un giro nella capitale. Le intercettazioni svelano le relazioni pericolose, scrive Carmelo Abbate il 16 aprile 2018 su "Panorama". Una stretta di mano nella sede del governo italiano e un messaggio di benvenuto a favore di fotografi e telecamere. Sono le quattro del pomeriggio di lunedì 11 dicembre 2017. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni accoglie la delegazione della Repubblica Popolare Cinese in visita ufficiale di Stato composta da alcuni ministri, diversi sottosegretari e guidata dal vice premier Ma Kai: "È un grande piacere riceverla qui a Palazzo Chigi e darle il benvenuto nella sede del governo. La sua visita, signor Primo ministro, si inserisce in un quadro di relazioni continue e sempre più forti tra Italia e Cina". Nelle stesse ore, sempre sull'asse Italia-Cina si registrano una serie di telefonate che vengono intercettate dalla polizia italiana. La prima è delle 10 circa del mattino. Da Pechino, Lin Gouchun, detto Laolin, chiama Zhang Naizhong a Roma. Gli dice che un amico, un personaggio importante di Pechino, si trova nella capitale e gli chiede di portarlo a visitare la città e di invitarlo a mangiare. Laolin spiega che un amico in Cina gli ha raccomandato di fare questo, e appena chiuderanno la telefonata gli girerà il contatto su Wechat. Per gli investigatori italiani, Laolin è il capo del ramo malavitoso italiano ed europeo proveniente dalla regione cinese del Fujian, il numero due nella piramide gerarchica dell'organizzazione mafiosa cinese che ha la sua base a Prato. In Cina, Laolin ha comprato diverse miniere di carbone, gli affari italiani li ha lasciati sotto la gestione diretta di un suo fidato luogotenente. Pochi minuti dopo la prima telefonata, sempre Laolin richiama Zhang Naizhong e gli dice che deve mettersi in contatto personalmente con quella persona, perché lui è un "capo di Pechino". Naizhong risponde che lui non sta bene, ha mal di schiena, ma chiederà ad Ashang di portarlo al Colosseo e in Vaticano, poi la sera gli farà trovare un ristorante prenotato. Laolin approva e gli dice di mettersi in contatto direttamente con il "capo di Pechino". Sempre per gli investigatori italiani, Zhang Naizhong è il vertice ultimo della piramide, il numero uno, il padrone indiscusso della mafia cinese in Italia ed Europa. La polizia gli sta alle calcagna da anni, lo considera l'uomo nero, il padrino, il capo dei capi. Dopo le dieci e mezza, Naizhong chiama la segretaria Amei e le ordina di far uscire Ashang con la Mercedes. Il presunto leader di Pechino ha due-tre ore di tempo, deve portarlo in giro e poi riaccompagnarlo dove vuole lui. Poco prima delle 11, Ashang telefona a Naizhong, gli conferma che ha sentito il "capo di Pechino" e si vedranno fuori dall'albergo. Due ore più tardi Naizhong richiama Ashang, il quale riferisce che ha preso la persona, gli ha già fatto vedere il Vaticano e sono diretti verso il Colosseo. Naizhong chiede se lo ha fatto mangiare, Ashang risponde che non c'è tempo, alle 15 e 30 lo deve riaccompagnare in albergo perché ha un incontro con dei "leader" italiani. Nel programma ufficiale della visita di Stato in Italia, alle 16 è fissato il ricevimento del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi. Ashang dice che il "capo di Pechino" gli ha dato appuntamento per le 17 e che dopo vuole andare a vedere la partita della Lazio. Naizhong conferma che ceneranno insieme in un ristorante vicino allo stadio Olimpico, saranno in sei, ci sono anche due amici del "capo di Pechino". Ashang dovrà aspettarli e riportarli in albergo al termine della partita. Nei giorni successivi, ricevute le traduzioni delle trascrizioni delle intercettazioni, la polizia effettua tutti i riscontri e ricostruisce l'identità del "capo di Pechino": un sottosegretario del governo cinese che partecipa a tutti gli incontri ufficiali, anche a quello del 12 dicembre con il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Ma è troppo tardi per fermare quello che, con la conoscenza di poi, è andato in scena per le strade di Roma il giorno 11 dicembre 2017: un cortocircuito diplomatico istituzionale, per cui un esponente del governo cinese si muove in proprio con auto e autista messi a disposizione da colui che è ritenuto dagli investigatori italiani il capo della mafia cinese, e viene scortato dalle macchine della polizia italiana. Pure quando il sottosegretario, a bordo dell'auto del padrino, va a cena con il padrino in persona: Zhang Naizhong. Panorama ha contattato la Farnesina e ha chiesto inutilmente i nomi dei componenti la delegazione cinese in visita ufficiale di Stato in Italia. La domanda alla quale cercavamo una risposta è semplice: davvero un sottosegretario del governo cinese si è accompagnato con l'uomo che dalle nostre forze di polizia viene ritenuto il capo della mafia cinese in Italia e in Europa? Se c'è stato un contatto "proibito", era inconsapevole? Certo, la "presa in carico" per un giro a Roma del sottosegretario cinese non è avvenuta in maniera casuale, ma su precisa richiesta arrivata da Pechino da parte di un uomo, Laolin, che per la polizia italiana avrebbe entrature molto forti grazie al business delle miniere di carbone. Uomo che viene considerato il braccio destro dello stesso capo dei capi, Naizhong. Nell'analisi degli elementi per trovare una risposta alla domanda di partenza, gli inquirenti italiani mettono sul tavolo anche un fatto avvenuto ai primi di dicembre dello scorso anno, poco prima della visita ufficiale in Italia. Succede che il figlio del padrino, Zhang Di, viene arrestato in Cina. Il contatto telefonico con persone in stato di fermo dovrebbe essere vietato, anche a Pechino, ma Naizhong alza il telefono dall'Italia e parla direttamente con il figlio. In videochiamata, come spiega successivamente alla nuora, la moglie di Zhang Di, il quale verrà comunque rilasciato pochi giorni dopo. Nel frattempo, il cerchio della polizia italiana partito dal duplice omicidio di due giovani cinesi, uccisi a Prato nel 2010, sta per stringersi. Il 17 gennaio Zhang Naizhong arriva a Prato in compagnia del figlio. Durante il giro delle sue aziende cambia continuamente auto, i poliziotti che gli sono alle costole alla fine ne conteranno otto. Al ristorante durante il pranzo le persone fanno la fila per essere ricevute. Si avvicinano, lo salutano, si inchinano. La notte, in albergo, dorme sul letto con un uomo che lo protegge a vista dal divano. Al mattino, Zhang Naizhong viene arrestato dalla polizia su ordine della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, che spicca un mandato di cattura per 33 persone, tra le quali c'è Laolin e pure il figlio di Naizhong. Altri 54 sono indagati a piede libero. L'accusa per tutti è di associazione per delinquere di stampo mafioso. Il capo dei capi viene portato in questura, si toglie dal polso l'orologio da 25 mila euro, si sfila anche l'anello con un diamante grosso quanto una nocciola, e si chiude nel silenzio. Rimane per molte ore da solo in una stanza della questura, quando i poliziotti lo accompagnano al fotosegnalamento, tutti gli altri arrestati seduti sulle sedie in corridoio, al suo passaggio abbassano la testa in segno di deferenza. Secondo i magistrati, siamo in presenza di una organizzazione mafiosa che gestisce attività illecite come usura, estorsione, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, spaccio di sostanze stupefacenti, importazioni illegali, commercio di merci contraffatte. Una struttura potente che agisce con discrezione, non si pone mai in aperto antagonismo con lo Stato, e che grazie alla gigantesca quantità di denaro contante ricavato dalle attività illecite è riuscita ad acquisire di fatto il controllo assoluto nel settore dei trasporti delle merci su strada. Tutto ciò, secondo gli investigatori, facendo ricorso ad azioni intimidatorie e violente. A questo riguardo, gli uomini della polizia che hanno condotto l'inchiesta sono anche andati a rileggere diversi omicidi di cittadini cinesi avvenuti in Italia negli anni scorsi, e grazie ai nuovi elementi emersi durante le ultime intercettazioni sono arrivati ad alcuni punti fermi: gli autori degli omicidi erano tutti uomini del giro di Zhang Naizhong, e le vittime erano per la maggior parte concorrenti commerciali nel settore cruciale dei trasporti. In un caso specifico, l'assassinio di Su Zhi Jian, per il quale Naizhong era stato condannato per favoreggiamento in primo grado e assolto in appello, le nuove risultanze investigative della polizia vengono ritenute valide al punto da ipotizzare che Naizhong sia il "mandante" di quell'omicidio. Fin qui le certezze degli inquirenti. Ma il tribunale del Riesame di Firenze l'8 febbraio scorso ha provveduto a raffreddare gli animi. Scarcerazione di quasi tutti gli arrestati, la metà dei quali, compreso Naizhong, spediti ai domiciliari con braccialetto elettronico, e riformulazione dei singoli reati che non sarebbero legati da associazione mafiosa. Un duro colpo quello inferto dai giudici alla Procura, che ha già presentato ricorso in Cassazione e che però negli ultimi giorni ha portato a casa un punto importante a favore dell'inchiesta. Chiamato in causa dai legali degli indagati che chiedevano il dissequestro delle 13 società, due delle quali in Francia e tre in Spagna, otto auto di grossa cilindrata, due immobili e 61 fra conti correnti e deposito titoli, lo stesso tribunale del Riesame di Firenze ha infatti respinto la richiesta e mantenuto il sequestro preventivo sulla base di queste motivazioni: "Le società risultano comunque riferibili a Zhang Naizhong", ed è stata provata l'evidenza di come "il capo dell'organizzazione criminale, Zhang Naizhong, poteva disporre di ingenti quantità di denaro che rappresentano i proventi delle attività illecite poste in essere dal gruppo criminale in questione, quali per esempio la contraffazione, il gioco d'azzardo, l'usura, le estorsioni, lo spaccio delle sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione". Una conferma evidente che il sodalizio criminale di cui parla la procura esiste e ha al suo vertice il padrino, l'uomo nero, il capo dei capi: Zhang Naizhong.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 17 di Panorama in edicola da giovedì 12 aprile 2018 con il titolo originale "Il boss di scorta".

Il segreto degli ombrelli Made in Cina. Come fanno gli ambulanti a vendere migliaia di ombrelli in tutta Italia? Questione di organizzazione, scrive Giorgio Sturlese Tosi il 28 novembre 2018 su "Panorama". Sono migliaia in tutta Italia, spuntano quando piove e si raccolgono fuori dalle stazioni ferroviarie o nelle piazze più affollate. Sono i venditori abusivi di ombrelli. Noi camminiamo frettolosamente, scansando le pozzanghere, e li percepiamo appena; a volte sono provvidenziali e allunghiamo loro 5 euro in cambio di un ombrello, che spesso durerà giusto il tempo di un acquazzone. Nessuno sa che con quei 5 euro alimentiamo un mercato clandestino che ne vale milioni, e che parte e finisce in Cina: un mercato che è controllato dalle triadi orientali, le organizzazioni mafiose che dalla Repubblica popolare controllano i traffici in tutto il mondo. Da là infatti partono quegli ombrelli, tutti uguali, che bengalesi e senegalesi vendono nelle nostre città, stipati in centinaia di container spediti via mare o ferrovia. Container che vengono poi scaricati nei porti di Napoli, del Pireo, ma anche di Amburgo, dove ormai transita l’80 per cento di tutte le merci cinesi destinate all’Europa. L’organizzazione per la distribuzione della merce è davvero eccezionale, quasi militare. Aggirati i controlli doganali, i parapioggia (che non hanno né certificazione né etichetta) vengono caricati su camion. E qui entrano in gioco le triadi cinesi. Molte inchieste condotte dalla magistratura spagnola, tedesca e francese, e un’indagine recente della Direzione distrettuale antimafia di Firenze (denominata per l’appunto «China Truck», cioè «camion cinese»), hanno scoperto che il trasporto su gomma di merci cinesi è un monopolio delle organizzazioni criminali di Pechino e Shanghai, disposte a contendersi ogni tratta con la violenza. Il risultato è una lunga scia di sangue, che segue i tragitti dei furgoni con morti e feriti a Duisburg, Parigi, Madrid, ma anche a Prato, Roma e Napoli. Il contrasto è difficile. Eppure ricostruire la filiera di questi oggetti di pessima qualità non lo è affatto. A Milano, per esempio, basta seguire le indicazioni degli ambulanti senegalesi che bazzicano vicino alla stazione centrale o nel cuore della Chinatown cittadina, nelle strade e stradine della zona occidentale attorno a via Paolo Sarpi, dove i negozi sono quasi tutti orientali. Il cronista di Panorama finge di voler acquistare 500 parapioggia. Il prezzo che gli viene chiesto è di 1 euro per quelli piccoli e di 2 euro per quelli grandi. In stazione i bengalesi li rivendono rispettivamente a 5 e 10 euro. Ci fanno scendere in grandi magazzini sotterranei dove sono stipati centinaia di scatoloni pieni di pezzi. Fuori piove, e nei magazzini c’è fermento. Chiediamo di vedere la merce, ma i venditori cinesi sono sbrigativi: altri clienti sono già in coda. Il pagamento avviene solo in contanti, e in nero. Fuori, intanto, ha smesso di piovere, ma il venditore che ci ha preso in carico non si preoccupa. Gli ombrelli invenduti, infatti, vengono tutti nascosti nelle edicole gestite dai bengalesi o nei cespugli delle piazze del centro. Gli ambulanti andranno poi a recuperarli al prossimo acquazzone; e gli ombrelli torneranno ad aprirsi, a migliaia. L’Agenzia delle dogane, nel 2017, ha scoperto e sanzionato 444 tonnellate di merce introdotta in Italia dalla Repubblica popolare aggirando le normative fiscali e doganali, per un valore che supera i 13 milioni di euro: la cifra è piccola, e va considerata come indicativa, perché è vero che deriva da controlli sempre più sofisticati, condotti soprattutto sui container nei porti, ma sono pur sempre fatti «a campione» e quindi casuali. Si stima in realtà che per ogni container pieno di merce illegale colpito dalle verifiche dei nostri doganieri, o della Guardia di finanza, ne passino indenni almeno altri 20. In quei container, è ovvio, ci sono anche gli ombrelli che piovono nelle nostre città. Una volta a destinazione, i parapioggia vengono scaricati nelle Chinatown italiane. Sempre a Milano, la Polizia locale ha creato una squadra proprio per contrastare l’abusivismo commerciale, e dall’inizio dell’anno ha sequestrato oltre cinquemila ombrelli e fatto 520 contravvenzioni. La squadra si mette in azione appena comincia a piovere, anche perché gli ombrelli violano tutte le norme di sicurezza: soprattutto quelli più piccoli hanno parti malcostruite, che spesso si rompono e possono ferire. Gli ombrelli cinesi, però, non sono ancora entrati nella «black list» degli oggetti pericolosi la cui vendita è proibita in Europa. Così chi li mette in commercio, se non ha violato norme fiscali o commerciali, non rischia nulla. È difficile dire se il business della pioggia abbia qualcosa a che fare con la vecchia teoria della farfalla, secondo cui se in oriente un insetto sbatte le ali in occidente può scatenarsi un uragano. Una cosa, però, è certa: se a Milano inizia a cadere qualche goccia, a Hong Kong un mafioso sorride.

#REPORTAGE. La quinta mafia italiana: criminalità cinese tra droga, prostituzione e usura. Roberti: “Non abbasseremo l’attenzione su queste organizzazioni”, scrive il 23 novembre 2016 in Difesa e Sicurezza Nazionale Mary Tagliazucchi su "Ofcs.report". Lazio, Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna e Sicilia. Queste regioni italiane hanno un comune denominatore: la mafia cinese.  Secondo i rapporti della Dia (Direzione investigativa antimafia, e della Scico (Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata) che l’ha definita la “quinta mafia” italiana, è particolarmente radicata a Roma, Napoli, Firenze, Prato, Milano e Padova. Questo nonostante in Italia sia luogo comune pensare che la mafia sia un “business” esclusivo della camorra siciliana, campana e della n’drangheta calabrese. Ma ad allungare i suoi lunghi tentacoli da tempo ormai c’è anche la “Triade”, che ha come simbolo la testa di un dragone e che nel nostro paese ha trovato un vero e proprio paradiso di loschi investimenti fatto di strategiche alleanze e business milionari con le mafie nostrane. Simile alla mafia siciliana, anche la struttura delle famiglie mafiose cinesi hanno riti d’iniziazione e giuramenti. Per entrarne a far parte sembrerebbe sia richiesto un giuramento di rito, a cui segue l’obbligo di bere una bevanda di infuso di riso in cui sono state versate anche alcune gocce del proprio sangue. Molto spiccato il senso dell’onore e il concetto del perdere la faccia o della vendetta. A questo proposito se qualcuno riceve un gladiolo rosso è il segno della condanna a morte, e chiunque della comunità è legittimato ad ucciderlo.

Green Dragon, Black Society e Red Sun, secondo i report dell’Interpol sono fra le gang criminali cinesi più organizzate. Dopo aver messo “gli artigli” su Milano, sono riuscite infatti ad espandersi anche oltre i confini italiani come in Francia, Svizzera e Austria.

Transcrime, il centro di ricerca di criminologia dell’Università Cattolica di Milano, invece, in un rapporto pubblicato nel 2013, evidenziava come in Italia la mafia cinese investa nel commercio, nel tessile, nella ristorazione e nei numerosi punti di money service. Attività (non tutte ovviamente) che vengono sovvenzionate da soldi sporchi, provenienti dalla gestione illegale dei flussi migratori, dal traffico e spaccio di droga, dallo sfruttamento del lavoro e della prostituzione e nell’usura a danno degli stessi connazionali.  Non solo, fra i vari “affari” della mafia cinese c’è anche il traffico illecito di rifiuti e a seguire il riciclaggio di denaro, la contraffazione e il contrabbando di merci.

I nuovi adepti, come scoperto dalla Polizia di Frontiera, partono principalmente da Hong Kong, definita la “base operativa” della mafia “made in china”. Una volta arrivati in Italia cominciano da subito a seguire gli “affari di famiglia”. E non viaggiano via mare o via terra, stipati in qualche camion o barcone. Partono muniti di un visto turistico, tranquillamente in aereo e facendo scalo negli aeroporti internazionali di Fiumicino o Malpensa.  Poi di loro non si sa più nulla.

La Direzione nazionale antimafia sostiene, sempre nella sua relazione, come le città di Firenze e Prato siano state quelle prese d’assalto dalla criminalità cinese. Riscontrando peraltro maggiori difficoltà a livello investigativo rispetto alle indagini sulle altre cosche mafiose. Questo perché i traduttori e interpreti di lingua cinese, sono insufficienti a ricoprire l’importante e delicato compito delle intercettazioni modus operandi principale nelle indagini di questo genere. Nonostante le evidenti difficoltà a Firenze, tempo fa è stato scoperto un trasferimento di denaro verso la Cina, pari a oltre 4 miliardi di euro, naturalmente eseguito in uno dei loro negozi “money trasfer”.

Anche a Roma, dove riuscire ad indagare ed entrare nella criminalità romana cinese è complicato, si è arrivati però a capire come operano questi clan stranieri.  Infatti, se inizialmente la mafia cinese è arrivata in Italia per gestire l’immigrazione clandestina e le estorsioni all’interno delle loro comunità, in seguito grazie all’apertura di numerosi esercizi commerciali è avvenuta una vera e propria colonizzazione.

Nella capitale fra i quartieri più invasi dai cinesi c’è quello di Torpignattara, zona periferica fra la Casilina e Prenestina, piazza Vittorio, Esquilino e Tuscolana. Tra le “chinatown della capitale”, Torpignattara e piazza Vittorio, hanno visto sorgere, a ritmi inarrestabili, molteplici esercizi commerciali. Questo grazie alla facilità di denaro contante di cui dispongono i clan. Tutto a beffa e danno dei commercianti italiani che, non disponendo di cifre simili, non riescono a competere con loro sull’acquisto o affitto di locali da adibire ad attività commerciale. Ogni cosa viene decisa e preventivata a tavolino da queste organizzazioni che si occupano di tutto: rilevamento dell’attività, la zona giusta, i contatti necessari per l’acquisto, l’arredamento e, cosa fondamentale, la scelta del nucleo familiare (cinese) che andrà a gestire questa nuova attività commerciale. Ma non si tratta di un atto di generosità, tutt’altro. Oltre ad essere sfruttata, la famiglia in questione si vedrà richiedere, a tassi maggiorati, i soldi anticipati. E se qualcosa va storto, le conseguenze possono essere terribili. Perché, un altro dato non da trascurare, è la riconoscibilità di queste persone. I tratti somatici dei cinesi inducono molte volte a confonderli l’uno con un altro. Come scambiare un coreano per un giapponese e viceversa. Questa difficoltà per gli italiani e per le forze dell’ordine stesse, è sfruttata a dovere da questi clan, soprattutto quando all’improvviso un loro connazionale “sparisce”. All’interno della comunità criminale cinese, infatti, gli omicidi sarebbero all’ordine del giorno, ma per gli inquirenti è molto difficile venirne a conoscenza proprio per i motivi suddetti. Al momento della scomparsa del malcapitato, è uso che i suoi documenti vengano presi da un suo connazionale, certi che nessuno se ne accorgerà. Alla famiglia della vittima non resterà che continuare a lavorare per i clan nella speranza di estinguere il debito. Queste persone sono, il più delle volte, immigrati clandestini. Fra i tanti business cinesi il traffico di immigrati clandestini costituisce, di fatto, un traffico di schiavi, con una vera e propria attività di compravendita di esseri umani a fini di brutale profitto. Il clandestino che giunge in Italia rimane strettamente assoggettato al vincolo del debito da estinguere con chi ha pagato il prezzo della sua liberazione, o meglio, del suo riscatto: ciò avviene attraverso il lavoro nelle aziende, tessili e di pelletteria, di proprietà di connazionali, con la costrizione a subire orari di lavoro interminabili, con una retribuzione certamente inadeguata e non proporzionata alle prestazioni. Rapine, furti ed estorsioni sono reati interni alla comunità, consumati da cinesi a danno degli stessi connazionali.

Nel quartiere romano di Torpignattara, i residenti ormai non ci fanno più caso, parliamo di quelli più giovani che vivono la multi etnicità di questa zona fin dalla nascita. Ma chi, invece, molti anni prima ha deciso di vivere qui, non riesce ancora ad accettare questo cambiamento. Il quartiere, infatti, assomiglia sempre di più a una delle tante banlieu francesi. Qui la presenza d’immigrati stranieri raddoppia di gran lunga la percentuale di residenti italiani. Abbiamo cercato di testare gli animi dei residenti.  Una signora, proprietaria di un bar, racconta di come lei stessa sia stata avvicinata da questi clan e di come abbia resistito al loro assalto: “Una mattina, mi sono vista entrare tre uomini, di nazionalità cinese. Parlavano italiano stentato, ma hanno fatto capire subito cosa volevano.  Mi hanno proposto una cifra superiore al valore della mia attività e tutto in contanti”. Una proposta allettante visto i tempi. “Certo – aggiunge la donna – ma questo bar appartiene da tre generazioni alla famiglia di mio padre e seppur con difficoltà ho detto, no. Sono tornati altre tre volte, ma la risposta è rimasta quella”. E se a Torpignattara il business dei clan con gli occhi a mandorla sono gli esercizi commerciali, è piazza Vittorio Emanuele la vera China Town di Roma.  Qui intere strade sono piene di negozi appartenenti ai clan criminali dagli occhi a mandorla, ma la maggior parte di questi (non tutti ovviamente) sono solo delle facciate che nascondono retrobottega dove si svolgono attività legate al gioco d’azzardo e riciclaggio di soldi provenienti da prostituzione e traffico di droga. La prostituzione, in particolare, avviene in appartamenti preventivamente acquistati o presi in affitto sempre dai clan cinesi. Secondo gli inquirenti ogni singola prostituta garantisce alla mafia made in china almeno un migliaio di euro al giorno. I clienti vengono adescati sui vari siti internet o su semplici annunci di giornale. Sembra ci siano addirittura dei centralini adibiti appositamente per smistare le richieste dei clienti. Questo accade non solo a Roma, ma anche a Firenze, Pescara, Milano, Avellino, Palermo, Cesena e Prato.  Proprio qui, un anno fa gli agenti della squadra mobile hanno posto sotto sequestro un locale e hanno eseguito dieci misure cautelari nei confronti di 9 persone di origine cinese.  Il blitz era avvenuto in quello che ufficialmente doveva essere un circolo socio culturale e, invece, in realtà era un vero e proprio night club dove i clienti potevano trovare prostitute cinesi e sostanze stupefacenti come cocaina, ketamina ed ectasy.

E proprio a Milano, nell’ambito dell’attività di contrasto delle bande giovanili cinesi, nell’ottobre scorso sono state arrestate 68 persone di nazionalità cinese. Sequestrati, per un valore di vendita al dettaglio pari a circa 2 milioni di euro, circa 3,5 chili di shaboo, la potente metanfetamina conosciuta come la droga più potente e pericolosa al mondo capace di annientare le coscienze di chi ne fa uso. Il traffico avveniva tra le province di Milano, Monza e Brianza, Cagliari, Cremona, Como, Parma, Pavia, Prato, Rovigo, Treviso e addirittura contestualmente anche in Austria, Polonia, Romania e Spagna e Gran Bretagna. Ma nonostante questo, da parte della polizia, ogni volta risulta difficilissimo arrestarli. Questo perché la Triade fa in modo di usare, in Italia e all’estero, appartamenti a rotazione fra prostitute, spacciatori e normali famiglie cinesi. Tutto, naturalmente, al fine di mandare in confusione le indagini delle forze dell’ordine. Sull’andamento di queste organizzazioni criminali abbiamo interpellato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che ha affermato: “Ad oggi, seppur i tentacoli di questa mafia si sono allungati su diverse delle nostre regioni italiane e non solo, stando ai dati dell’ultimo rapporto del 2015 della relazione della Direzione nazionale antimafia, sembra che non vi siano stati ulteriori incrementi di questo fenomeno. Di certo non abbasseremo l’attenzione su queste organizzazioni criminali”.

Blitz della polizia contro la mafia cinese: 33 arresti. L'operazione in diverse città italiane e in Europa ha permesso di scoprire dinamiche, ruoli e alleanze di una vasta organizzazione e il monopolio del traffico su strada di merci di origine cinese, scrive Laura Montanari il 18 gennaio 2018 su "La Repubblica". Avevano quasi il monopolio del traffico su strada delle merci di origine cinese in Italia, Francia, Spagna, Germania e altri paesi. Un giro di centinaia milioni di euro, un calcolo esatto è impossibile al momento farlo. Ma i numeri sono enormi, dicono le accuse. Del resto l’organizzazione scoperta dall’indagine cominciata dalla squadra mobile di Prato ed emersa dall’inchiesta della Dda di Firenze, racconta di un’organizzazione mafiosa cinese che controllava non soltanto la logistica di quello che viene prodotto nelle fabbriche delle varie Chinatown e poi diffuso sui mercati, ma anche bische clandestine a Roma e a Prato, locali notturni, prostituzione, spaccio di droga, estorsione. Trentatré misure di custodia cautelare per cittadini cinesi accusati è far parte di un’organizzazione mafiosa di un gruppo criminale proveniente dal Fujiang, 54 persone indagate. Due anni di indagini per l'operazione chiamata 2China Truck". L’inchiesta parte dal controllo di un'azienda, con sede a Prato che era il cuore dell'attività criminale. Partendo da lì, le indagini si sono ramificate e hanno scoperto una geografia criminale che ha conquistato quasi il monopolio del traffico su strada grazie a un clima di terrore: ricatti, estorsioni, aggressioni all'interno della comunità cinese. Quello che colpisce è l'estensione e di come questa mafia sia cresciuta all'interno dell'Italia e diversi paesi europei inquinando direttamente o indirettamente commerci e imprese. In cima all'organizzazione, secondo le accuse, c’è Zhang Naizhong, 57 anni, residente a Roma e il suo braccio operativo pratese, Lin, ufficialmente residente in Cina nella regione del Fujiang, in realtà il riferimento della mafia per l’area Pratese. Zhang che dai suoi veniva chiamato "l'uomo nero", è stato seguito ieri sera dai poliziotti in borghese della squadra mobile agli ordini di Francesco Nannuncci: era nell’area industriale del Macrolotto di Prato, ha visitato diverse aziende di connazionali e ogni volta che usciva, seguito da uno stuolo di guardie del corpo, cambiava auto. Ha cenato in un ristorante e lì ha ricevuto la visita di altre persone che si inchinavano con deferenza al suo cospetto. Fra le persone arrestate c'è anche una giovane donna, Chen Xiaomian detta Amei, 41 anni, abitante a Prato, segretaria, manager dei capitali leciti e illeciti dell'organizzazione e compagna del boss: nella sua abitazione sono stati sequestrati 30mila euro in contanti. Zhang ha scalato il vertice della mafia cinese in Italia imponendo la 'pace' a Prato dopo una sanguinosa guerra fra bande, costata, come hanno spiegato gli investigatori, numerosi morti in città nel corso degli anni 2000. La sua organizzazione ha potuto così dedicarsi a promuovere infiltrazioni nell'economia legale e a controllare attività criminali compreso usura e raket: "Prima non sapevo come fare gli affari perché sapevo solo fare il mafioso..." dice il boss a uno dei suoi.

Il duplice omicidio del 2010. "L'inchiesta è partita da un duplice omicidio di due giovani cinesi uccisi a Prato nel 2010. Era in corso un guerra fra bande orientali - ha spiegato il paco della mobile di Prato, Francesco Nannucci -, c'erano stati diversi omicidi ogni anno per la conquista dell'economia criminale. Poi questa sequenza di morte si interruppe, per altri anni fino ad ora. Ci fu un ordine a smettere con le violenze. Per noi era impossibile non pensare a un intervento della mafia cinese che impose una sua pace per dedicarsi con tranquillità ai suoi affari senza attirare la nostra attenzione". Il duplice omicidio avvenne in un ristorante e le vittime furono aggredite col machete. Da allora nella città toscana la polizia ha ravvisato una recrudescenza nei rapporti interni alla comunità cinese a Prato in una sparatoria del marzo 2017 in cui non ci furono feriti o vittime, ma danni voluti ad auto: era una spedizione punitiva.

L'inchiesta, coordinata dalla Dda di Firenze, ha previsto misure cautelari scattate oltre che in Italia anche in Francia e Spagna, grazie alla collaborazione delle rispettive polizie. 

 Una lunga indagine, iniziata nel 2011, ha permesso di far luce sulle dinamiche della mafia cinese in Europa e su ruoli e alleanze all'interno dell'organizzazione: la polizia ha evidenziato, in particolare, il quasi monopolio in Francia, Spagna e in altri paesi del traffico su strada di merci di origine cinese, un'egemonia nel campo della logistica, imposta attraverso il metodo mafioso ed alimentata dagli introiti provenienti dalle attività criminali tipiche della mafia cinese.  "Riuscire a individuare una complessa organizzazione mafiosa cinese non è ordinario ma eccezionale - ha detto il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho nel corso della conferenza stampa che si è tenuta in procura a Firenze - . Eccezionale identificare la sua composizione e operatività. Riconoscere i caratteri mafiosi è un fatto quasi incredibile. E' importante tenere alto il livello quando queste associazioni inquinano la nostra economia. Qui si infiltravano nell'economia pulita legale".

Nel blitz che ha portato agli arresti di questa mattina sono stati impegnati gli uomini del Servizio centrale operativo (Sco), delle squadre mobili di Prato, Roma, Firenze, Milano, Padova e Pisa, dei reparti prevenzione crimine oltre a quelli dei reparti volo e cinofili.

L'associazione era composta da soggetti originari di due regioni della Cina, lo Zhejiang e il Fujian, e operava oltre che in Italia anche a Parigi, Neuss, in Germania e a Madrid. I 33 destinatari della misura cautelare in carcere emessa dal Gip di Firenze Alessandro Moneti hanno l'accusa di 416 bis (associazione mafiosa) e altri reati, 21 sono gli indagati a piede libero, di cui 10 sempre per associazione a delinquere di stampo mafioso e 11 per altri reati. La maggior parte dei provvedimenti sono scattati a Prato: 25 indagati, di cui 16 arrestati e 9 denunciati a piede libero mentre sono otto gli arrestati a Roma (dove sono 10 gli indagati). A Milano e Padova sono state arrestate due persone mentre tra Firenze e Pisa gli indagati a piede libero sono 7. Altre 4 persone si trovavano invece già in carcere per altri motivi e due sono i soggetti di origine cinese arrestati in Francia (dove ci sono anche altri due indagati). Infine, due destinatari del provvedimento si trovano attualmente in Cina.

Nell'ambito dell'indagine è anche stato disposto il sequestro di 8 società, 8 veicoli, due immobili e una sessantina tra conti correnti e deposito titoli per un valore di diversi milioni.

Le reazioni. "Sono grato alle donne e agli uomini della Polizia di Stato che hanno lavorato in stretta sinergia con la Magistratura - ha detto il ministro dell'Interno Marco Minniti - andando a colpire al cuore una pericolosa organizzazione, che aveva imposto una vera e propria egemonia nel controllo del trasporto merci su strada, finanziata con gli introiti delle proprie attività criminali". E il procuratore antimafia Cafiero ha aggiunto: "è un risultato, questa indagine, che dà anche contezza di quanto il nostro territorio sia inquinato dalle mafie, non soltanto dalle mafie autoctone ma anche da quelle straniere. La presenza della mafia cinese a Prato si è sempre sospettata, ma oggi abbiamo conferma".

Come funzionava il clan della mafia cinese sgominato a Prato. Una struttura piramidale, ma a rotazione. Dove tutti potevano guadagnare tanto, a turno. E un capo dei capi che comprava corni di rinoceronte, e pretendeva l'inchino, scrive il 18 gennaio 2018 "L'Agi".

Una piramide con un meccanismo circolare, che consentiva a ogni partecipante, a rotazione, di trovarsi all'apice e quindi beneficiare di una certa somma di denaro, o all'ultimo posto, in veste di finanziatore. Questo quanto scoperto dalle indagini sul racket della mafia cinese con l'operazione della Squadra mobile di Prato che su mandato della Dda di Firenze ha arrestato 33 persone per associazione a delinquere di stampo mafioso. Altre 54 sono indagate (La Repubblica).

Il meccanismo piramidale, a rotazione. Il meccanismo 'rotatorio' funzionava in questo modo: a turno si metteva a disposizione dei componenti la gang una somma di circa centomila euro, "da destinare al primo affiliato della lista". Soldi che a utilizzava "per i propri affari". Subito dopo, però "il beneficiario scorreva in fondo alla lista, e il mese successivo concorreva alla dazione" per quello che diventava "il primo". Questo meccanismo interno al clan cinese permetteva, secondo il gip che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare in carcere, di raggiungere "diversi scopi". "Si ricicla denaro all'interno di una cerchia ristretta di persone, si garantisce anonimato esterno, non si ricorre a interessi di banche (o di usurai), si può impiegare il denaro (frutto di attività illecite o, quanto meno di evasione fiscale) in maniera del tutto svincolata da ogni contabilità e, quindi, anche per portare avanti altre attività illecite", sottolinea il giudice.

E poi un capo. Il capo dei capi, a Roma. Negozi in centri commerciali italiani, ma anche costosi status symbol particolarmente richiesti in Cina come i corni di rinoceronte e addirittura la prospettiva di una quota in una miniera di carbone in Cina. Erano questi gli investimenti del boss Zhang Naizhong, arrestato oggi nel blitz della polizia contro la mafia cinese. In qualità di capo dell'organizzazione criminale, scrive il giudice nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, il 57enne dispone di "ingenti quantità di denaro che rappresentano i proventi delle attività illecite poste in essere dal gruppo criminale in argomento, quali ad esempio la contraffazione, il gioco d'azzardo, l'usura, le estorsioni, lo spaccio di sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione" (Corriere della Sera).

Il gip lo ha definito il capo dei capi; lui stesso nelle intercettazioni ambientali si definisce il 'boss' e per lui, residente a Roma ma con numerosi interessi a Prato, gli 'affiliati' lo riverivano con inchini al suo arrivo. Zhang Nai Zhong è ritenuto l'elemento a capo dell'organizzazione. Alla scena degli inchini hanno assistito gli investigatori della squadra mobile di Prato: Zhang era appena arrivato in Toscana, stava pranzando in un ristorante quando gli investigatori hanno assistito a una vera e propria processione di cinesi, arrivati apposta nel locale per salutarlo con un inchino (Il Messaggero). 

Mafia cinese, matrimonio all'Hilton di Roma in stile Casamonica, scrive Giovedì 18 Gennaio 2018 “Il Messaggero". Un matrimonio da favola all'hotel Hilton di Roma con vista sull'intera città, gli invitati fatti arrivare a bordo di Ferrari e Lamborghini, un conto da 80mila euro saldato in contanti. A certificare il ruolo e il carisma di Naizhong Zhang, quello che per gli investigatori è il 'capo dei capì della mafia cinese in Italia e anche in Europa, è la cerimonia di nozze del figlio, Di Zhang, celebrata a Roma il 6 febbraio del 2013. Al matrimonio partecipano circa 500 invitati provenienti da varie parti d'Italia ma anche dalla Francia e dalla Cina. Il boss si è personalmente occupato di non far mancare nulla ai suoi ospiti: alloggio a sue spese, il noleggio di Ferrari e Lamborghini con autista per portare gli invitati all'hotel, il noleggio di due pullman per far arrivare i quasi novanta invitati provenienti da Prato, tra i quali ovviamente i personaggi più influenti della comunità di origine fujianese con la quale, prima dell'accordo che ha siglato la pace, era in contrapposizione. E proprio intercettando le telefonate in cui gli indagati parlavano dell'organizzazione del matrimonio, gli investigatori hanno avuto l'ulteriore conferma che Naizhong fosse da tutti riconosciuto come il capo dell'organizzazione. In una di queste, a gennaio 2013 e dunque un mese prima del matrimonio, il boss parla al telefono con il fratello che si trovava in Francia. Quest'ultimo teme che, poiché i suoi amici «sono mafiosi», che possa scatenarsi una rissa tra loro, magari dopo aver bevuto. Ma Naizhong esclude categoricamente questa possibilità in quanto è sicuro che nessuno gli mancherà di rispetto: «Se vengono qui da me sanno come comportarsi - dice - ...noi non dobbiamo pensare troppo, sono cose che non ci riguardano...Normalmente non può succedere una cosa del genere, anzi non esiste proprio. Chi è che ha il coraggio di litigare a tavola al matrimonio di mio figlio solo perché è ubriaco? Non esiste. Se qualcuno lo farà è evidente che ce l'ha con me! A me non importa se mi dirà che ce l'ha con qualcun altro, per me ce l'ha con me, perché io sto facendo la festa. Quindi non può accadere una cosa di questo genere».

Inchini e riverenze, il matrimonio di lusso in Ferrari e Lamborghini; in manette il capo dei capi della mafia cinese. Arrestato dalla Polizia, nel corso di un’indagine condotta in tutta Europa, Zhang Nai Zhong, il padrino della mafia cinese in Italia. Fermate altre 32 persone, anche in Francia e Spagna, scrive il 18 gennaio 2018 Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera".

Riverito con l’inchino. Riverito non con il baciamano. Ma con gli inchini. Sembrano scene e intercettazioni riguardanti la mafia siciliana: sfarzo, lusso, violenza, tanti soldi riciclati in attività lecite e illecite. Però in manette è finito il «capo dei capi» della mafia cinese in Italia. Ovvero Zhang Nai Zhong, 48 anni, ammanettato ieri assieme ad altre 32 persone nel corso di un’inchiesta condotta in tutta Europa ma partita da Prato, dove il «mammasantissima» aveva la sua base operativa anche se viveva a Roma, in un appartamento a viale Marconi. «D’altro canto chi comanda la mafia cinese nella cittadina toscana comanda le organizzazioni criminali cinesi in tutta Europa». Lo hanno sottolineato gli inquirenti della Dda di Firenze che hanno coordinato l’operazione China Truck partita dalle indagini sulle guerre fra bande in Toscana. Al proposito, come esempio, il capo della squadra mobile di Prato Francesco Nannucci ha ricordato un episodio significativo emerso dalle indagini: «Zhang Naizhong, che si faceva chiamare il “capo dei capi” e come tale è riconosciuto dai suoi connazionali, andò a Parigi per risolvere controversie fra gang cinesi. A chi lo accompagnava disse di chiamarlo “capo” davanti a tutti i capi cinesi in Francia. Così fu e nella sua opera di mediazione criminale Oltralpe ebbe successo acquisendo ulteriore potere e prestigio in Europa». Il business dell’organizzazione mafiosa? Attraverso intimidazioni e vere e proprie violenze il gruppo criminale si è impossessato, passo dopo passo, di tutto il sistema di trasporti delle merci prodotte in Cina, infiltrandosi, più con le cattive che con le buone, in attività apparentemente regolari in Italia e in Europa. Ma con i capitali illeciti derivati da contraffazione, gioco d’azzardo, droga, usura, estorsioni, prostituzione Zhang Naizhong, dava ordini da Prato per fare investimenti in attività redditizie: in Cina puntava a miniere di carbone e a oggetti particolarmente costosi, addirittura corna di rinoceronte; in Italia mirava a rilevare attività redditizie legali come un centro commerciale a Firenze, o illegali, come bische per il gioco d’azzardo.

Un matrimonio da favola. Un matrimonio da favola all’hotel Hilton di Roma con vista sull’intera città, gli invitati fatti arrivare a bordo di Ferrari e Lamborghini, un conto da 80mila euro saldato in contanti. A certificare il ruolo e il carisma di Naizhong Zhang, è la cerimonia di nozze del figlio, Di Zhang, celebrata a Roma il 6 febbraio del 2013. Al matrimonio partecipano circa 500 invitati provenienti da varie parti d’Italia ma anche dalla Francia e dalla Cina. Il boss si è personalmente occupato di non far mancare nulla ai suoi ospiti: alloggio a sue spese, il noleggio di Ferrari e Lamborghini con autista per portare gli invitati all’hotel, il noleggio di due pullman per far arrivare i quasi novanta invitati provenienti da Prato, tra i quali ovviamente i personaggi più influenti della comunità di origine fujianese con la quale, prima dell’accordo che ha siglato la «pace», era in contrapposizione. E proprio intercettando...... le telefonate in cui gli indagati parlavano dell’organizzazione del matrimonio, gli investigatori hanno avuto l’ulteriore conferma che Naizhong fosse da tutti riconosciuto come il capo dell’organizzazione. In una di queste, a gennaio 2013 e dunque un mese prima del matrimonio, il boss parla al telefono con il fratello che si trovava in Francia. Quest’ultimo teme che, poiché i suoi amici «sono mafiosi», che possa scatenarsi una rissa tra loro, magari dopo aver bevuto. Ma Naizhong esclude categoricamente questa possibilità in quanto è sicuro che nessuno gli mancherà di rispetto: «Se vengono qui da me sanno come comportarsi - dice - ...noi non dobbiamo pensare troppo, sono cose che non ci riguardano...Normalmente non può succedere una cosa del genere, anzi non esiste proprio. Chi è che ha il coraggio di litigare a tavola al matrimonio di mio figlio solo perché è ubriaco? Non esiste. Se qualcuno lo farà è evidente che ce l’ha con me! A me non importa se mi dirà che ce l’ha con qualcun altro, per me ce l’ha con me, perché io sto facendo la festa. Quindi non può accadere una cosa di questo genere».

Le attività fuorilegge. Le attività di per sé lecite (trasporto di merci, gestione di locali notturni) sono «svolte con modalità tali — scrive il gip Moneti nell’ordinanza — da schiacciare la concorrenza, altre del tutto illecite, quali l’estorsione, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il gioco d’azzardo, la contraffazione di marchi, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». «Non è casuale che le indagini abbiano rivelato un passato criminale realizzato in Cina per alcuni degli indagati: Wu Guojun», uno dei 54 indagati, «risulta ricercato per omicidio, reato per il quale stava operando in modo che, attraverso propri parenti, potesse corrompere funzionari di polizia cinese e farsi togliere la foto dai terminali e sostituirla con altra».

Firenze, arrestato boss mafia cinese. Zhang: "Sono il più potente in Europa". Sono state arrestate 33 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso, scrive Giovedì 18 Gennaio 2018 Francesco Bongiovanni su "La Presse". "Io sono il più potente in Europa, non mi sto vantando di me stesso, puoi chiederlo a chiunque". Così Zhang Naizhong, 58 anni, considerato il 'capo dei capi' della mafia cinese in Italia, arrestato oggi a casa sua a Roma nell'ambito dell'inchiesta China Truck, intercettato al telefono, parlava di sé con un connazionale.

Il blitz, scattato all'alba, condotto dalla polizia e coordinato dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze, ha portato all'arresto di 33 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso. Altre 21 persone sono indagate a piede libero, di cui 10 sempre per associazione a delinquere di stampo mafioso. Cuore dell'attività criminale sarebbe un'azienda di autotrasporti di Prato. Partendo da lì nel 2011, le indagini si sono ramificate e hanno alzato il velo su un'organizzazione che gestiva bische clandestine, prostituzione, droga, locali notturni e, infine, il monopolio del commercio e del trasporto delle merci contraffatte. Secondo gli investigatori, la mafia cinese di Prato, dove Zhang detta legge e ha i suoi principali interessi economici, comanda in Europa. La sua fama, nell'ambito delle organizzazioni criminali cinesi, è elevata anche perché, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, Zhang si è affermato riportando la pace tra le due bande che si contendevano gli affari illeciti a Prato, con una scia di omicidi. Un'operazione analoga l'avrebbe portata a termine anche in Francia. E il boss dispensava lezioni di 'mafiosità' agli accoliti. "Nella mafia ci sono le regole della mafia, se una persona non rispetta le regole come fa a continuare a camminare nella strada della mafia?", diceva Zhang Naizhong in un'altra telefonata intercettata, esaltando anche la propria carriera di imprenditore dei trasporti e la sua gestione dei rapporti con i connazionali. "Prima - spiegava al telefono - non sapevo come fare gli affari perché sapevo fare solo il mafioso, ora invece non faccio più il mafioso. Non solo capo mafia. Sono cambiato, ci saranno sei mesi di perdita, ho già previsto anche quanto andrà a perdere e ho previsto anche quando migliorerà l'attività". Zhang Naizhong distingueva, in ordine di importanza, le persone fidate in 'fratelli' e 'amici'. Le persone fidate sono quelle più strettamente legate a lui. I fratelli sono gli associati. Gli amici sono quelli legati, ma non affiliati al gruppo. In altre intercettazioni spiegava a un altro interlocutore, parlando di un affiliato al clan: "Ora piano piano sta accettando questa realtà di stare con noi perché nella mafia ci vuole la strategia per andare avanti, hai capito? Alla mafia di oggi non serve più l'arroganza e la violenza, ci vuole la strategia. La persona che ha la strategia migliore vince, le persone che hanno la strategia peggiore perdono". In un'altra lezione telefonica Zhang diceva: "Specialmente un uomo deve avere un carattere forte. Solo così le persone ti rispettano e ti ammirano. A questo punto i fratelli mi rispettano perché sono il capo e quindi il capo può decidere qualsiasi cosa". Strategia per stabilire alleanze e condurre gli affari, ma anche violenza e terrore. E in una telefonata, infine, il boss riassume la sua filosofia mafiosa: "Io non parlo tanto con le persone, io dico solo due frasi alle persone: se lui è mio fratello oppure mio amico, e basta. E se non è amico è un nemico, se sei un nemico allora sei finito".

"Così la mafia cinese di Prato inquinava l’economia legale". Parla il procuratore antimafia Cafiero De Raho, scrive Andrea Sparaciari il 18 gennaio 2017 su "it.businessinsider.com". «Riuscire a individuare una complessa organizzazione mafiosa cinese non è ordinario, ma eccezionale. Eccezionale identificare la sua composizione e operatività. Riconoscere i caratteri mafiosi è un fatto quasi incredibile». Così il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, ha commentato l’operazione che giovedì 18 gennaio a Prato ha sgominato la più importante associazione a delinquere di stampo mafioso “made in Cina” mai scoperta in Italia. Una piovra, nata nelle lontane regioni cinesi dello Zhejiang e del Fujian, che dalla città toscana allungava i suoi tentacoli sull’Italia (Roma, Milano, Padova) e sull’Europa (Francia, Germania e Spagna). Complessivamente sono 54 gli indagati: 33 gli arrestati con l’accusa di 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) e altri reati, 21 gli indagati a piede libero. Sequestrate anche otto aziende a Prato, Roma, Milano, Parigi e in Germania, oltre a immobili, veicoli e 61 tra conti correnti e deposito titoli per un valore di diversi milioni. Il business principale del clan era nei trasporti, ma l’organizzazione gestiva anche bische, ristoranti, locali notturni e money transfer. È la seconda volta che nella storia giudiziaria italiana viene contestata l’associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti di organizzazioni cinesi. Per il gip, Alessandro Moneti, la banda aveva in sé tutti gli elementi tipici della mafia: assoggettamento, omertà, intimidazione e accaparramento di attività anche lecite. Il fulcro era l’azienda “Anda”, specializzata nel settore della logistica e dei trasporti e che di fatto controllava tutto il settore dell’autotrasporto cinese, un giro d’affari stimato in diverse centinaia di milioni l’anno. Ma era solo una parte delle attività illecite. «L’operatività di questa organizzazione mafiosa sconvolge, da un lato controlla locali notturni, prostituzione, spaccio, usura ed estorsioni, dall’altro con i metodi della violenza, si accaparra aziende nei trasporti infiltrando l’economia pulita legale», ha spiegato Cafiero De Raho, «conseguendo un regime di monopolio in un segmento dell’economia», come quello della logistica, grazie ai «metodi dell’intimidazione e della violenza tipici delle mafie tradizionali italiane». A tirare le fila dell’organizzazione, il 58enne Zhang Naizhong, il Capo dei Capi per gli investigatori, quello che ripeteva ossessivamente: «Il capo sono io. Prima sapevo fare solo il mafioso, ora faccio anche e soprattutto gli affari». E li faceva bene. Per capire quanto fosse potente, era riuscito a imporre la fine della guerra tra bande rivali – sempre cinesi – che tra il 2000 e il 2010 aveva lasciato a Prato oltre sessanta morti, e quella molto simile che aveva insanguinato Parigi. Perché, come la ‘Ndrangheta insegna, gli affari prosperano nel silenzio. Zhang, come i boss di Cosa Nostra, amministrava la “giustizia” mediando tra imprenditori in lite o dirimendo questioni inerenti agli affitti dei capannoni. Il giorno prima di essere arrestato, si era recato in un ristorante dove gli imprenditori locali gli avevano reso omaggio, mettendosi in fila e inchinandosi uno dopo l’altro davanti a lui in segno di sottomissione. Un’azione che per il capo della Mobile di Prato, Francesco Nannucci, «ci racconta l’importanza di questa persona e il peso di questa organizzazione in città. Essere forti a Prato significa essere forti in tutta Europa».

L’operazione di Prato conferma – e per certi versi supera – quanto riportato dalla Direzione Investigativa Antimafia circa la mafia cinese nella sua Relazione semestrale del 2016. Per la Dia, «I network criminali cinesi avrebbero nel tempo raggiunto livelli di assoluto rilievo, risultando in grado di gestire, in autonomia, traffici illeciti di portata transnazionale. Tra questi, si segnalano la tratta degli esseri umani, lo sfruttamento della manodopera clandestina e della prostituzione, il traffico di sostanze stupefacenti, la contraffazione e il contrabbando, cui si affiancano l’usura e la gestione di bische clandestine». A tutto ciò, si deve poi aggiungere la pesante evasione fiscale «realizzata con l’utilizzo di partite iva intestate a prestanome irreperibili», come ha dimostrato l’operazione “Colletti Bianchi” del 16 novembre 2016, che sempre a Prato ha portato a 15 arresti e a 83 indagati, tutti sospettato di appartenere a “un sistema finalizzato alla completa elusione della normativa fiscale, contributiva e alle disposizioni disciplinanti l’immigrazione”.

Per gli investigatori, i proventi, soprattutto quelli derivanti da droga e prostituzione, vengono reimpiegati nell’acquisto di attività commerciali lecite e di immobili. Naturalmente, si deve poi ricordare la ricca attività di produzione di capi di abbigliamento contraffatti: «Contraffazione e riciclaggio rappresentano un ulteriore terreno d’incontro tra le organizzazioni cinesi e le mafie italiane, in primis la Camorra» sostiene la Dia. Le strutture create dalle organizzazioni cinesi per la produzione di massa di beni alterati col tempo avrebbero assunto le stesse caratteristiche delle catene di produzione delle imprese legali, adottando anche sofisticate tecnologie per la precisa riproduzione dei beni. «I profitti così generati verrebbero poi dirottati su canali alternativi al sistema bancario ufficiale, per essere riciclati o per finanziare concittadini», scrivono gli investigatori, «in proposito, sono stati rilevati casi in cui il denaro contante prodotto in nero veniva inviato dall’area fiorentino-pratese verso la Cina, mediante agenzie di money transfer o, da Milano, fatto triangolare su istituti di credito britannici» e da quei conti esteri poi i soldi venivano trasferiti in Cina. Alla luce di tutto ciò, ha perfettamente ragione il dottor Cafiero De Raho quando sostiene preoccupato che: «è importante tenere alto il livello perché queste associazioni inquinano la nostra economia».

La Mafia Giapponese. La mafia giapponese ha nella Yakuza (dal punteggio perdente 8-9-3 = ya-ku-za nel gioco di carte dell’Hanafuda), la massima espressione criminale. È riconducibile sostanzialmente a due modelli: lo Yamaguchi-gumi (a struttura piramidale con l’oyabun – ‘padre’ – capo assoluto) e il Sumiyoshi-rengo (federazione di famiglie con l’oyabun primus inter pares). Ha stretto carattere etnico, in quanto riservata soltanto ai giapponesi, e tipico legame di fedeltà e obbedienza degli affiliati al capo. Da ultimo è nata, per scissione interna, anche una terza organizzazione criminale, chiamata Ichiwa-kai. È presente anche negli Usa, Australia, Filippine, America del Sud; opera soprattutto nel traffico di amfetamine, sfruttamento della prostituzione e della pornografia, gioco d’azzardo, usura, estorsione e traffico di persone; controlla interi comparti dell’edilizia, della speculazione immobiliare e finanziaria, dello smaltimento dei rifiuti. La Yakuza è una delle mafie più sanguinarie ed antiche del mondo. Iniziata come organizzazione per il controllo del gioco d'azzardo nel Giappone del XVII° secolo, i suoi membri sono spesso caratterizzati da imponenti tatuaggi che ricoprono buona parte del corpo. Un altro segno distintivo è una falange mancante dal dito mignolo, spesso offerta al boss del clan di appartenenza come segno di rispetto o gesto di scuse. Ha circa 110.000 affiliati, appartenenti a 2.500 famiglie che gestiscono il traffico di prodotti illegali, pornografia, prostituzione ed immigrazione illegale. La mafia? In Giappone è peggio, scrive Pio D'Emilia su “L’Espresso”. La Yakuza controlla un terzo dei parlamentari, è organizzatissima e quasi onnipotente: anche perché le intercettazioni non esistono e i pentiti neppure. Viaggio nell'incredibile malavita organizzata del Sol Levante. Shinjuku è uno dei quartieri non-stop di Tokyo. Il più vivace, il più rappresentativo della metropoli più cara, più efficiente, più sicura, ma anche più corrotta del mondo. Milioni di banconote passano di mano, spesso avvolte in pudichi foulard multicolori (i famosi furoshiki) a titolo di pizzo, commissioni, tangenti mentre milioni di persone escono ed entrano, di giorno, dalle varie stazioni della metropolitana. Di notte poi molti a Shinjuku ci restano, o ci vengono apposta, per alimentare lo spumeggiante e variopinto mercato della "salute", cioè il mondo della prostituzione, e del bakuto, l'impero del gioco e delle scommesse clandestine. Due voci importanti, non certo le uniche, nel megafatturato (tra 2 e 5 mila miliardi di dollari, a seconda delle stime e dei settori che si includono) della mafia più ricca, potente e "trasparente" del mondo: la yakuza. Un impero nell'impero. Dove tutto bolle, si agita e si assesta lontano da sguardi indiscreti e quando emerge in superficie appare immobile nella sua - apparente - armonia. Paese che vai mafia che trovi. In Giappone, dove le cosche sono regolarmente registrate e i boss hanno un bigliettino da visita e viaggiano in treno, è facile incontrarla. Un po' meno combatterla. La yakuza in Giappone è onnipresente: dal Parlamento, dove secondo il mafiologo Kenji Ino almeno un terzo dei deputati viene eletto o ha comunque rapporti stretti con le cosche, al mondo dell'entertainment, degli appalti pubblici, del commercio e, più recentemente, dell'alta finanza. Per non parlare dei "settori" più tradizionali: estorsioni, strozzinaggio, recupero crediti, prostituzione, mondo delle scommesse legali e, ovviamente, illegali. «La yakuza fa parte della nostra storia», sostiene Manabu Miyazaki, figlio di un boss ritiratosi a vita privata e autore di una illuminante autobiografia, "Toppamono" (Fuorilegge). «Proprio come la mafia per voi italiani», prosegue, «e infatti abbiamo gli stessi problemi». All'ultimo piano di un edificio di Kabukicho, la zona più "vispa" di Shinjuku, c'è un ristorante cinese. Alle pareti ritratti di Mao, di Deng e dei nuovi leader, da Hu Jintao e Xi Jinping, che l'ha appena sostituito. Ma anche di Wuer Kaixi, uno dei leader della rivolta di Tienanmen, ricercato numero uno delle autorità cinesi, oggi esiliato a Taiwan e di cui il proprietario si dichiara amico personale. In una saletta interna, protetta solo da una tendina di stoffa, un cameriere chiede a due clienti di spostarsi. Serve l'intera stanza. Una decina di persone, dal look e accento inequivocabile, entrano nel locale e occupano la stanza. Cominciano a mangiare, bere, e parlare ad alta voce. Cosa che i giapponesi non fanno mai. E infatti sono "chairen", mafiosi cinesi "locali", nati e cresciuti in Giappone. Ma che conservano buoni contatti con la madrepatria e che ormai qui, per almeno tre secoli territorio intoccabile della yakuza, la fanno da padrone. Il tutto senza fare "rumore": qualche rissa ogni tanto, ma neanche un morto. Nel giro di una decina d'anni, hanno mutato la struttura del crimine più organizzato e ordinato del pianeta. Il proprietario del locale è uno di loro. Si fa chiamare Li ed è nel suo locale che, 8 anni fa, è stato siglato uno storico patto tra la Sumiyoshi-kai, seconda "cosca" del Paese, pressoché egemone a Tokyo, e le chairen, prime, improvvisate, "avanguardie" cinesi del crimine. Gruppi di vandali in moto che si divertivano a far casino e spaventare commercianti e residenti. I commercianti, ma non tutti, chiamarono la yakuza per proteggerli. Ma gli altri non ne volevano sapere. A qualcuno (il proprietario del locale dove siamo ospiti) venne l'idea di tentare un accordo. Che funzionò. Gli yakuza aggiornavano i cinesi sugli esercizi che si adeguavano e quelli invece "renitenti" al pizzo, e quelli ci andavano giù sempre più pesanti. Ma solo danneggiamenti, mai violenza sulle persone. Nel giro di un paio di anni il pizzo hanno finito per pagarlo tutti e nel quartiere tutti vivono in pace e tranquillità. Alla "pax mafiosa" partecipano anche i coreani, padroni incontrastati dell'enorme business del pachinko, sorta di flipper verticale che vomita - e ingurgita -migliaia di piccole sfere di piombo, che in caso di rara vincita possono essere convertite in contanti (oltre 20 mila esercizi in tutto il Paese, fatturato ufficiale di 300 miliardi di dollari, quattro volte l'intero export di autovetture) e la polizia, senza la cui benevolenza per non dire complicità non potrebbe funzionare. «Ci siamo capiti subito», spiega Li senza tanti problemi, «proprio mentre i nostri rispettivi governi si guardano in cagnesco, noi ci siamo messi d'accordo: la guerra non piace a nessuno e non fa fare quattrini. Meglio dividersi i compiti, cooperare e prosperare assieme». Il ragionamento non fa una piega: Kabukicho ha il più alto tasso di bordelli, koroshi-bako (bische clandestine dove si spennano i ricconi sprovveduti) e spacciatori per metro quadrato al mondo. La sua popolarità, anche in tempi di crisi, resiste perché tutto è organizzato, "oliato" e sicuro. Una pax mafiosa che oltre a giapponesi, cinesi e coreani, unisce e fa prosperare anche altre e meno organizzate minoranze: israeliani, brasiliani, nigeriani, iraniani. La pax mafiosa, che abbraccia cosche, istituzioni, alta finanza e "utilizzatori finali" è garantita, attualmente, da una "cupola" trasparente al cui centro c'è Tsukasa Shinobu, sesto oyabun (padrino) della Yamaguchi-gumi, la cosca più potente del paese, con oltre 7 mila dipendenti "fissi" e 20 mila "precari" che entrano ed escono a seconda del "mercato", uscito due anni fa dal carcere dove ha scontato sei anni per - incredibile ma vero - porto d'armi abusivo altrui. Già, perché tra le varie leggi adottate negli anni '90 dal governo, e che hanno solo lievemente scalfito il potere della Yakuza, ce n'è una che stabilisce non solo la responsabilità civile del boss di una cosca (che in Giappone sono legali: la polizia ne indica nel suo libro bianco 22 di serie A e 51 di serie B) per i danni causati dai suoi "dipendenti" (i mafiosi in Giappone sono regolarmente assunti) ma anche quella penale. Il tutto in un Paese dove non esiste il reato di associazione a delinquere e tanto meno di "stampo mafioso", le intercettazioni non sono consentite che in casi straordinari e dove non esiste un programma di immunità e protezione per eventuali "pentiti". Se in più si aggiunge il fatto che in Giappone vige la discrezionalità dell'azione penale si capisce perché, nonostante l'immagine di efficienza (il 98 per cento dei processi penali termina con una condanna), la lotta contro il crimine organizzato è più formale che sostanziale. Nel 2012, su 22 mila arresti, solo il 67 per cento degli indiziati è stato poi rinviato a giudizio (vent'anni fa era l'88 per cento) e per reati minori: disturbo della quiete pubblica, lesioni personali, guida in stato d'ebbrezza. Di qui la condanna di Tsukasa, che all'epoca, ammise non solo di aver acquistato due pistole (Beretta, che in Giappone sono le più richieste e sul mercato valgono oltre diecimila euro l'una) ma anche di averle date in dotazione ai suoi tirapiedi. Un vero samurai. Accolto come un eroe, all'uscita dal carcere. Ma molto umile: niente elicotteri, auto blindate, scorte vistose e violente: per tornare a casa, dal carcere, ha voluto prendere il treno, come la gente comune, salutando e inchinandosi, tra lo sconcerto delle guardie del corpo e delle autorità. Del resto le beghe delle cosche in Giappone non creano allarme sociale. Anzi. Un meeting della "cupola" - che si riunisce ogni mese a Kobe - affronta e risolve le questioni sul tappeto con grande efficacia. Le statistiche nazionali, del resto, parlano chiaro. La mafia giapponese ha provocato, negli ultimi 10 anni, appena 32 morti.

La Mafia Messicana. E' una sorta di manovalanza mafiosa. Iniziata negli anni '50 all'interno delle carceri con lo scopo di proteggere gli affiliati, è uscita dalle prigioni per riversarsi nelle strade degli Stati Uniti, dove controlla in parte il traffico di droga. Negli U.S.A. ha circa 300.000 affiliati, spesso tatuati per riconoscersi tra le diverse gang di appartenenza. In Messico le mafie dei narcotrafficanti (11 organizzazioni nel 2011, tra cui il cartello del Golfo, di Sinaloa, della Familia Michoacana, dei Los Zetas, di Juárez, dei Los Arellano, dei Beltran Leyva) hanno diversificato i ‘servizi’ offerti: non più solo commercio di droghe, ma sequestri di persona, estorsioni, protezioni ai commercianti, omicidi su commissione, tratta dei migranti. Con strutture dinamiche e mutevoli, disinvolte nelle strategie e nelle alleanze, così come nell’esercizio di una violenza efferata (oltre 34.000 omicidi tra il 2006 e il 2010), questi gruppi esercitano un penetrante condizionamento sulle istituzioni locali e nazionali, mettendo a serio rischio la democrazia, tanto da far parlare di narco-Stato.

La Mafia Colombiana. Il modello messicano ricorda i ben noti cartelli colombiani di Medellín, di Cali, di Pereira, della Costa e di Norte del Valle, oggi frantumati in decine di strutture di piccole-medie dimensioni (cartelitos) e in diverse formazioni paramilitari: Los Rastrojos, Los Macacos, la Oficina de Envigado, Los Paisas, Los Urabeños, Los Cuchillos e altre, specializzate soprattutto nel commercio delle droghe. Robuste le collusioni mafia-politica: dal 2008 al 2010 sono stati ben 77 i parlamentari incriminati perché collusi con narcos e paramilitari. Negli stessi anni, sono stati sequestrati ben 72 submarinos, i semisommergibili costruiti nella giungla per navigare lungo la costa del Pacifico e trasportare la cocaina negli Usa con l’intermediazione delle mafie messicane. Definito anche "Cartello della droga colombiano", è noto al mondo per il monopolio che detiene, da quasi un secolo ormai, sul traffico di droga, in particolare della cocaina, che trasportano in mezzo mondo attraverso i metodi più disparati, anche sommergibili. Opera in tutto il mondo, grazie anche a profonde infiltrazioni nella politica di alcuni Paesi corrotti. I tre cartelli più importanti della mafia colombiana sono il Cartello di Cali, il Cartello di Medellin (paese natale di Pablo Escobar) e quello di Norte del Valle. I cartelli mafiosi colombiani non si occupano solo di droga: sono stati anche coinvolti in rapimenti ed atti di terrorismo.

La Mafia Israeliana. Per quanto poco conosciuta rispetto alle altre mafie, la mafia israeliana ha il controllo del traffico di droga e della prostituzione in molti Paesi. E' nota per la sua spietatezza, non ci pensa due volte ad uccidere chiunque tenti di ostacolarla. Aiutata dalla mafia russa, quella israeliana è penetrata profondamente all'interno del tessuto politico americano, tanto che si fatica a sradicarla.

La Mafia Serba. Diffusa anch'essa in Europa e Stati Uniti, la mafia serba è coinvolta in diverse attività illecite quali traffico di droga, omicidi a pagamento, racket, gioco d'azzardo e rapine. All'interno delle organizzazioni criminali che compongono la mafia serba ci sono tre clan più potenti: Vozdovac, Surcin e Zemun, sotto i quali si trovano organizzazioni più piccole, per un totale di circa 30-40 associazioni mafiose. La mafia serba è stata particolarmente attiva durante le guerre yugoslave, durante le quali ottenne l'appoggio governativo grazie ad una vasta campagna di corruzione. Leader nel traffico internazionale di cocaina, la mafia serba, talvolta associata a quella montenegrina, ha "agenzie" negli Usa, in Sudafrica e nell’Europa occidentale. Si contano una trentina di gruppi nati dalla ‘frantumazione’ dei due nuclei originari guidati dai capi storici Surcin e Zemun. I serbi, grazie all’alleanza consolidata con i colombiani, sono diventati i principali fornitori della cocaina in Italia, Germania, Austria, Spagna e Regno Unito. Si dedicano anche al traffico di armi, di clandestini, di sigarette e alla falsificazione di denaro. Ciascun gruppo (una decina di persone) ha una rigida gerarchia ed è capace di spostarsi rapidamente, alla bisogna, in altra città o paese. Particolarmente violenta, la mafia rumena, in contatto con italiani, albanesi, ucraini e moldavi, si occupa di tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione, traffico di stupefacenti, rapine e furti, in particolare con clonazione di carte elettroniche.

La Mafia Albanese. La mafia albanese è un insieme di organizzazioni criminali con sede in Albania, attive in Europa e negli Stati Uniti soprattutto nel commercio sessuale e nel traffico di droga. Sono tra le mafie più violente in assoluto, soprattutto se motivati da vendetta. Non sempre questi gruppi criminali sono organizzati tra di loro, anzi, molto spesso tendono a farsi concorrenza, o a scatenare vere e proprie guerre interne. Si sa davvero poco sulle organizzazioni criminali albanesi, data la difficoltà nel riuscire a penetrarvi. Si sa per certo, però, che molti dei traffici illeciti che provengono dell'Est europeo passano per l'Albania, e sono diretti dalla mafia albanese o serba. In Albania, la "Mafia delle Aquile" domina l’immigrazione clandestina, lo sfruttamento della prostituzione e il traffico degli stupefacenti, utilizzando basi consolidate in Montenegro, Croazia, Slovenia, Serbia e Kosovo. Ha rapporti con omologhi sodalizi attivi nei paesi europei più ricchi. L’appartenenza dei componenti allo stesso nucleo familiare e territoriale, con un unico capo supremo, regole rigide e il ricorso all’omicidio a scopo punitivo, la rendono simile alla ’ndrangheta.

La Mafia Giamaicana. Gli Yardies, immigrati giamaicani giunti nel Regno Unito negli anni '50 nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita, sono un'associazione mafiosa che generalmente si riunisce in bande violente che generano profitti tramite il traffico di droga o omicidi su commissione. Non hanno mai provato ad infiltrarsi all'interno di organizzazioni di polizia, e dato che commettono frequentemente crimini che vedono coinvolte armi da fuoco sono spesso rintracciabili e perseguibili, vista la severità con cui vengono trattati i crimini violenti in Gran Bretagna.

La Mafia nigeriana. Anch’essa considerata tra le meno violente, è tuttavia una delle più potenti ed estese, con varie comunità sparse nel mondo, grazie alla sua struttura reticolare, favorita da vincoli tribali e omertosi. Spesso usa come copertura "innocue" associazioni culturali di immigrati o confraternite universitarie, note come "gruppi cultisti", di etnia Bini o Igbo, organizzate dai giovani dell’élite dirigenziale nigeriana, responsabili di omicidi e reati predatori. A partire dal suo radicamento nel paese d’origine, afflitto dagli scontri tra gruppi integralisti islamici e cristiani, tra militari e criminali nella regione petrolifera del Delta, la mafia nigeriana costituisce un’ulteriore minaccia per l’intera regione africana.

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

Il vero volto della mafia nigeriana, che ha in pugno la prostituzione in Italia, scrive Andrea Sparaciari il 16/8/2017 su "it.businessinsider.com". Oltre a Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Stidda e Sacra Corona Unita, l’Italia può “vantare” un altro sodalizio mafioso di tutto rispetto: quello nigeriano, gruppi di criminali che tengono saldamente in pugno il mercato della prostituzione, ma non solo. “ll radicamento in Italia di tale consorteria è emerso nel corso di diverse inchieste, che ne hanno evidenziato la natura mafiosa, peraltro confermata da sentenze di condanna passate in giudicato”, scrive la Dia nella relazione sulle sue attività investigative del secondo semestre 2016. Pagine nelle quali i magistrati spiegano, inchiesta per inchiesta, come i nigeriani siano ormai primari protagonisti non solo del traffico di esseri umani, ma anche della droga, delle truffe online e nello sfruttamento della prostituzione. Un ventaglio di attività al quale gli affiliati alle varie bande provenienti dal Paese centroafricano si applicano con spietata efficienza. “Sul piano generale, tra le attività criminali dei gruppi nigeriani, si conferma la tratta di donne di origine nigeriana e sub sahariana, avviate poi alla prostituzione”, si legge nella relazione, che ricorda come il 24 ottobre 2016 la Polizia di Catania, con l’operazione “Skin Trade”, abbia arrestato 15 persone per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone e sfruttamento della prostituzione. Idem per le indagini sui gruppi attivi nella zona di Castel Volturno (CE) che sarebbero riusciti “a organizzare importanti traffici di droga e immigrati clandestini, operando altresì nello sfruttamento della prostituzione”. L’operazione Cultus che nel 2014 portò in carcere 34 persone, illustra perfettamente il modus operandi dei nigeriani: le ragazze erano reclutate in Togo, da dove venivano “importate” in Italia attraverso il Benin. Una volta sbarcate, si ritrovavano un debito per il viaggio – in media tra i 40 ai 70 mila euro – e per saldarlo erano costrette a prostituirsi sotto gli ordini di una Maman. Il pericolo della denuncia era scongiurato perché assoggettate psicologicamente attraverso pratiche esoteriche. A questo proposito, molti giornali hanno spesso scritto di “rituali voodoo”… In realtà, si tratta del rito “Juju”, una credenza religiosa praticata nella regione del Sud-Ovest della Nigeria. Il paradosso è che il rituale utilizzato per schiavizzare le donne africane, convincendole che lo spirito racchiuso in piccoli feticci possa causare enormi sciagure a loro e alla loro famiglia in caso di disobbedienza, non nasce in Africa, ma è stato importato dai primi colonizzatori europei, tanto che mutua il nome dal termine francese “Joujou”. Comunque, le indagini hanno dimostrato che oltre al traffico di esseri umani, l’organizzazione gestiva anche i corrieri della cocaina provenienti da Colombia, nonché quelli della marijuana dall’Albania. I proventi venivano poi spediti in Nigeria e Togo attraverso agenzie di money transfer. Secondo la Dia, appare poi assodato che le mafie nostrane appaltino il lavoro sporco ai nigeriani e che questi, quando agiscono da indipendenti, debbano pagare il pizzo a Cosa Nostra e alle ‘ndrine. Una tassa “mal sopportata”, tanto che a volte scoppia lo scontro, come accadde a Castel Volturno nel 2008, quando i Casalesi spararono indiscriminatamente sulle case dei braccianti immigrati, uccidendo sei persone (per altro non affiliate alle bande). Parliamo di bande, perché l’universo della criminalità nigeriana non è monolitico. Tutt’altro: sarebbero almeno una dozzina i gruppi che si contendono il primato, nel Paese africano e all’estero. Per esempio, in Italia è certa la presenza di almeno tre nuclei, divisi da un conflitto sotterraneo e brutale che va avanti da due decenni: la Aye Confraternite, gli Eiye e i temibili Black Axe. Secondo il rapporto “Global Report on Trafficking in Persons 2014” dello United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), con l’operazione Cultus finirono in manette “membri di due gruppi, chiamati Eiye e Aye Confraternite, operativi in alcune parti d’Italia da almeno il 2008”. Due gruppi che “hanno combattuto per oltre sei anni per il controllo dell’area di Roma (Torre Angela, Tor Bella Monaca e Torrenova, ndr)”, affrontandosi con armi da fuoco, spranghe, coltelli e machete. Una lotta che probabilmente ha spalancato le porte ai Black Axe, tanto che il 13 settembre 2016, con l’operazione “Athenaeum”, in Piemonte finiscono in manette 44 persone per associazione mafiosa, spaccio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lesioni gravi. L’indagine svela che i Black Axe avevano ramificazioni in buona parte dell’Italia oltre Torino, a Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. Ma il nostro Paese è in buona compagnia: nell’aprile scorso, il capo della polizia di Toronto (Canada), Jim Raymer, ha presentato un’operazione che ha scardinato un’organizzazione di ladri d’auto (anche lì tutti Black Axe) la quale avrebbe trafugato veicoli di lusso per oltre 30 milioni di dollari. Sulla nave diretta in Africa bloccata dalla polizia, sono stati ritrovati suv provenienti anche da Spagna e Belgio. In manette sono finiti, oltre ai ladri, anche rivenditori di parti d’auto, camionisti, impiegati delle compagnie di navigazione e portuali, tutti canadesi doc. In Giappone, invece, nel 2014 fece scalpore l’arresto di un nigeriano gestore di un locale notturno del quartiere a luci rosse di Kabukicho, che costringeva le sue hostess filippine a drogare i clienti svuotandone poi le carte di credito. Si scoprì che il gioco andava avanti da anni e che in totale l’uomo si sarebbe appropriato di oltre 7,5 milioni di euro (soldi spediti in Nigeria dove si stava costruendo un vero palazzo reale). Ma le indagini svelarono anche la diretta partecipazione dei nigeriani nei locali a luci rosse di Kabukicho, nonché i loro legami con la Yacuza nella vendita di eroina, nei furti d’auto, nel riciclaggio di denaro e nell’organizzazione di matrimoni finti. Prostituzione in Italia, furti d’auto in Canada, l’eroina in Giappone, tutte joint-venture che dimostrano quanto i nigeriani siano capaci di stringere rapporti proficui con le mafie locali, adattandosi alle diverse realtà. E non deve stupire: chi gestisce i traffici, contrariamente al credo popolare, non sono illetterati provenienti da sperduti villaggi dell’Africa equatoriale. Spesso, anzi, si tratta di laureati o comunque di persone dotate di cultura superiore. Un dato di fatto che deriva dalla stessa storia della mafia nigeriana.

L’università dei gangster. Le bande mafiose nascono infatti come degenerazione dei gruppi cultisti attivi nelle università della regione del Delta del Niger fin dagli anni ’50, gruppi che si opponevano alla dominazione europea. All’inizio erano semplici confraternite universitarie, ma presto si trasformano in associazioni a delinquere che travalicano i muri dei campus. La confraternita originaria fu quella dei Pyrates, negli anni ’70 subì una prima scissione, dalla quale si formarono i Sea Dogs (i Pyrates) e i Bucanieri.  A loro volta, i Bucanieri diedero vita al Movimento Neo-Black dell’Africa, cioè i Black Axe, che divenne egemone all’interno dell’università di Benin nello stato dell’Edo. Ma anche i Black Axe subirono una divisione, con la quale si formò la Eiye Confraternity. Da lì fu un fiorire di gruppi. Oltre a Black Axe e Eiye, oggi in Nigeria si distinguono per brutalità la Junior Vikings Confraternity (JVC), la Supreme Vikings Confraternity (SVC) e la Debam, scissionisti della The Eternal Fraternal Order of the Legion Consortium. Ognuna di esse ha un’uniforme, propri colori e un’università o scuola superiore di riferimento. Con il ritorno del Paese alla democrazia, nel 1999, in Nigeria si aprì un periodo di lotte furibonde tra i vari potentati politici a livello locale, federale e statale. Fu quasi naturale che partiti e uomini politici assoldassero le confraternite come collettori di voti o guardie del corpo, fino a trasformarle in veri eserciti privati, spesso integrati direttamente nelle forze di polizia locali. Ciò ha permesso ai sodalizi criminali di prosperare e di espandesi all’estero. Europa dell’Est, Spagna, Italia, Giappone, Canada, Sudafrica. Una piovra dalle mille teste che fa affari con tutti: da Cosa Nostra ai narcos sud americani, dai trafficanti d’armi dell’Est ai produttori di marijuana albanesi. A ingrossarne le fila, sono gli studenti universitari e delle secondarie, cooptati sia volontariamente che involontariamente. Negli ultimi anni, però, secondo l’Onu, sarebbero aumentati vertiginosamente anche i membri sotto i 12 anni, bambini di strada utilizzati come soldati. Contrariamente agli anni ’70, poi, oggi esistono anche confraternite tutte al femminile, le più note e temibili sono Jezebel e Pink ladies.

Come funzionano. L’UNODC ha studiato il funzionamento delle confraternite, ecco come descrive il funzionamento degli Eiye: “Il gruppo agisce attraverso un sistema di cellule – chiamate Forum – che operano localmente, ma che sono collegate alle altre cellule radicate in diversi Paesi dell’Africa occidentale, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Europa occidentale”. Gli Eiye hanno “una struttura gerarchica rigida, retta da una Direzione. Sebbene ogni forum sia indipendente, i membri hanno un ruolo funzionale specifico e sono uniti tra loro da legami familiari o da altri rapporti relazionali”. Tutte le confraternite hanno un leder carismatico, detto “Capones” (in onore di Al Capone), un comandante in capo, che d ordini ai vari capones locali, dislocati nelle varie università, i suoi generali sul campo. Per divenire capones, la persona “deve aver dato prove inoppugnabili di coraggio e brutalità”. Anche per entrare in una confraternita si deve passare un esame: dopo essere stato scelto, l’aspirante viene sottoposto a un rito iniziatico, che ha luogo di notte, spesso in un cimitero, durante il quale viene drogato, picchiato e costretto a dimostrare il proprio coraggio, meglio se con un omicidio o col rapimento di una donna legata un’altra confraternita. Una volta dentro, al nuovo adepto vengono insegnati il rispetto per la “fortificazione spirituale”, le tattiche di combattimento e l’uso delle armi da fuoco. Qualora il candidato si rifiuti di entrare nella banda o, una volta dentro, voglia uscirne, sa che a pagare sarà – oltre a lui – anche la sua famiglia. Una realtà brutale, che si rispecchia poi nel modo di agire – spietato – delle bande. Una spirale di violenza infinita, già stabilmente impiantata nel nostro Paese e che sta diventando sempre più forte e potente. Una piaga destinata a diventare sempre più purulenta e dolorosa.

Meluzzi: la mafia nigeriana ha assunto il controllo militare del territorio, scrive giovedì 15 novembre 2018 "Imola Oggi". Le cifre pazzesche sui reati compiuti dagli immigrati, Meluzzi: “Basta negazionismo”. “Gli immigrati delinquono di più rispetto al resto della popolazione, sei volte di più. Sette volte di più nei reati sessuali. Incredibile la mafia nigeriana”. Alessandro Meluzzi riporta i dati sulla delinquenza in Italia riferita agli stranieri: “Sono un pericolo enorme e non ci deve essere negazionismo e nessun velo di omertà”. Lo aveva già detto anche il governatore della Campania.

Pd, De Luca: “bande di nigeriani hanno occupato militarmente i territori”, scrive martedì 11 settembre 2018 "Imola Oggi". Vincenzo De Luca contro il suo stesso partito: “C’è un problema di cui il Pd non parla mai. Ci sono zone del paese dove bande di nigeriani hanno occupato militarmente i territori”. Finalmente qualcuno a sinistra inizia a svegliarsi?

La mafia nigeriana in Italia: eroina gialla, prostituzione ed elemosina. Li chiamano «cult», dominano il racket da Torino a Palermo. I legami con i clan di Ballarò. La sottovalutazione di un fenomeno preoccupante e diffuso sul territorio, scrive Goffredo Buccini il 21 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Non sarà ancora controllo del territorio. Ma l’agguato dello scorso settembre ai giardini Alimonda di Torino contro due poliziotti antidroga circondati e pestati da una trentina di spacciatori africani ci va molto vicino. Siamo tra Aurora e Barriera di Milano, accanto a quel corso Giulio Cesare così multietnico che gli ultimi bottegai locali espongono in vetrina il cartello «negozio italiano». La mafia nigeriana comanda qui: e non solo qui.

Cult. «Ho fatto tre informative a tre procure diverse, Roma, Bologna e Palermo, interessate al fenomeno che si sta espandendo a macchia d’olio in tutta Italia e tutta Europa», ha detto alla Commissione parlamentare sulle periferie il commissario della municipale Fabrizio Lotito, che ha lavorato con la procura torinese. Gerarchia, riti d’iniziazione, cosche chiamate «cult»: «Torino è la città con il maggior numero di immigrati nigeriani, a ruota segue l’Emilia Romagna. Le nostre indagini su questo fenomeno mafioso vedono come attori principali i “cult” nigeriani, nati nelle università nigeriane degli anni Sessanta, poi evolutisi fuori e giunti anche in Italia: hanno struttura verticistica e dalle indagini abbiamo potuto ascrivere il 416 bis, l’associazione mafiosa».

Le vittime. Black Axe, Maphite, Supreme Eiye Confraternity, Ayee sono nomi di «cult» che riempiono ormai da anni le nostre cronache; collegandoli come puntini su un foglio mostrerebbero forse un disegno più ampio, imbarazzante per un malinteso senso di correttezza politica: dibattere pubblicamente sui mafiosi nigeriani offre argomenti ai razzisti nostrani? È vero il contrario, perché le prime vittime dei «don» (i capi cultisti) sono ragazze nigeriane vendute come schiave sulla Domiziana e giovani nigeriani (i «baseball cap») ridotti a elemosinare davanti ai bar di Roma o di Milano per ripagare debiti di famiglia contratti in Nigeria.

Traffici milionari. Da Nord a Sud d’Italia s’avanza così la quinta mafia (dopo Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona pugliese) con i suoi traffici milionari di cocaina dalla Colombia al Canada, la nuova eroina «gialla» spacciata nel nostro Nord-Est e i capi dei capi da sempre insediati a Benin City, che resta la casa madre e sta ai «cult» come San Luca sta alle ‘ndrine. Tecnici e puristi diranno che le mafie da noi sono troppe per farne una classifica, dalla russa all’albanese, dalla cinese alla multiforme mafia romana. Proprio il commissario Lotito lamenta inoltre che la mafia nigeriana sia vista «più come un problema di ordine pubblico». Un errore di valutazione, perché nessuna nuova mafia ha la sua pervasività: mille affiliati stimati in Italia (su circa 93 mila nigeriani immigrati), almeno venti città (Torino e Bologna in testa) e dieci regioni coinvolte nella sua rete che conta in giro per il mondo trentamila affiliati in quaranta Stati.

Da Benin City a Palermo. In Italia i mafiosi nigeriani hanno imparato a muoversi strategicamente. Famosa è un’intercettazione in carcere tra due mafiosi del clan Di Giacomo sui boss di Ballarò, centro di Palermo. «Lì ci sono i turchi» (intendendo persone di colore). «Quali?». «I nigeriani... ma sono rispettosi e poi...immagazzinano» (frase che per gli investigatori avrebbe un senso preciso: i «rispettosi» nigeriani di Black Axe detengono grandi partite di droga in accordo con Cosa Nostra). Al Sud dove le mafie autoctone mantengono il controllo militare, la mafia venuta da Benin City cerca patti, come a Ballarò. Al Nord picchia duro: nel 2017, su 12.387 reati firmati dalla criminalità nigeriana (un quinto di quelli commessi da tutti gli stranieri da noi), 8.594 avvengono al Nord, 1.675 al Centro, 1.434 al Sud, 684 nelle Isole.

«Non hanno rispetto per la vita». Torino è teatro dell’operazione Athenaeum dei carabinieri che fotografa il legame tra Maphite e Eiye. Giovanni Falconieri sul Corriere di Torino ha raccontato di un pentito che descrive i Maphite in termini sconvolgenti: «Sono sbarcati a Lampedusa e la gente ha paura di loro... Non hanno rispetto per la vita, hanno già sofferto troppo per arrivare in Italia». Il tema degli sbarchi inquinati dalla mafia di Benin City ormai emerge. Il giudice torinese Stefano Sala, in quasi 700 pagine di ordinanza, motiva le sentenze su 21 membri di Eiye e Maphite, e accende un faro: «I moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni» (...), «tra gli immigrati appena sbarcati vengono reclutati i corrieri che ingoiano cocaina».

Lo stipendio dei capi. Un «don», il capo della struttura locale, può ricevere uno stipendio di 35 mila euro ogni tre mesi. L’entità territoriale minore è la «zona», crescendo si sale al «temple» fino al «murder temple» di Benin City dove si elabora la strategia politica. Sembrano i primi verbali di Buscetta risciacquati nella globalizzazione. Se Torino è la nostra città più permeata dalla migrazione nigeriana, Bologna è considerata «la capitale» del cultismo, lo spaccio nella centrale Bolognina e nelle periferie è da anni in mano ai Black Axe. Ma le ordinanze che si moltiplicano, con le operazioni di carabinieri e polizia, descrivono un’onda assai più lunga: Black Axe, a Palermo, 2016, sul gruppo di Ballarò; Aquile Nere, Caserta, stesso anno. Cults, a Roma, 2014. Niger, Torino 2005. Ancora Black Axe, Castello di Cisterna, Napoli, 2011.

Le schiave. «Noi siamo nate morte», raccontano le schiave nigeriane della Domiziana al sociologo Leonardo Palmisano in un libro prossimo all’uscita, «Ascia Nera». Sono «asce nere», «black axe», i mafiosi che promettono la morte a Palmisano, troppo ostinato nell’indagarne i traffici. I ragazzi venuti da Benin City si sentono ormai abbastanza forti per quest’ultimo, minaccioso passo. Molta acqua è passata da questo allarme del 2011: «Vorrei attirare la vostra attenzione sulla nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenenti a sette segrete... riusciti a entrare in Italia principalmente con scopi criminali». Non il delirio di un balordo xenofobo ma l’informativa dell’ambasciatore nigeriano a Roma.

Mafia nigeriana, iniziazione segreta e violenza: a Palermo parla il “Buscetta nero”. Su FqMillenniuM in edicola. Il mensile in edicola da sabato 10 novembre pubblica in esclusiva le confessioni di Austine Johnbull, già membro del Black Axe, il più potente fra i “culti” criminali nigeriani, che ha svelato ai pm di Palermo riti di affiliazione, guerre fra gang e affari illeciti: "In Italia tregua tra i clan per evitare le indagini", scrive Giuseppe Pipitone il 9 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Sette candele a terra, per disegnare una bara. Un tempio con al centro un’ascia e una coppa colma di liquido – una bevanda a base di droghe come erba, noce di cola, foglia di zobo, pepe di alligatore, panadol – che sarà bevuto, al cospetto del Priest, dai cosiddetti ignoranti. “Sono quelli che aspirano a essere affiliati. Vengono picchiati da quattro saggi che li frustano con il keboko, mentre percorrono in ginocchio un tragitto chiamato Slave Trade”, la tratta degli schiavi. Non è l’iniziazione a una loggia massonica. È il rito di affiliazione della mafia nigeriana. Un rituale antico ma che si ripete continuamente, in gran segreto. E non solo in Africa. A raccontare questo, come tanto altro, è Austine Johnbull: ed è il primo pentito della mafia nigeriana, in Italia. Ha iniziato a collaborare con il pm di Palermo Gaspare Spedale alla fine del 2016: da allora ha riempito centinaia di pagine di verbali, che il nuovo Fq MillenniuM pubblica in esclusiva. Ha fatto nomi e cognomi. Ha indicato gli infami. Ha detto chi sono i capi e i sottocapi. Ha ricostruito riti d’affiliazione quasi mistici e più concreti affari di droga. Ha confessato di aver giurato sul suo stesso sangue, quello delle mani, che gli hanno inciso da palmo a palmo. “Se qualcuno nega le mie affermazioni, io posso guardargli le mani: se ha una linea, come la mia, sta mentendo”. “Non voglio più essere contro lo Stato ed è meglio collaborare”: sono le prime parole pronunciate da quello che è diventato a tutti gli effetti il Tommaso Buscetta nero. Per spiegare l’importanza delle sue dichiarazioni – che hanno portato alle prime condanne emesse a Palermo per una mafia straniera – i giudici citano la descrizione che Giovanni Falcone fece del boss dei due mondi: “Un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti”. Buscetta ha confermato l’esistenza di Cosa nostra, la sua composizione e il suo coinvolgimento dietro a mattanze e omicidi eccellenti. Johnbull ha spiegato che pestaggi e assassinii tra i suoi connazionali sono qualcosa di diverso da semplici risse finite male. Ha svelato che dalla Nigeria si sta espandendo in tutto il mondo una nuova mafia. Anzi più di una: c’è l’odiata Supreme Eiye , l’organizzazione più antica e più numerosa. Ci sono i Vikings. E poi c’è quella a cui apparteneva Johnbull: Black Axe, l’ascia nera, la più potente e pericolosa. “Per ognuno dei nostri che ammazzano, ci vendichiamo uccidendone 10-15 degli altri. Se ne assassinano uno in Nigeria, poi, è guerra totale”. Per gli investigatori, si tratta di un’organizzazione “di tipo massonico e anche mafioso”, strutturata come “uno Stato confederato con ramificazioni in tutto il mondo”. Se agli inizi del Novecento Cosa Nostra e ’ndranghetasono sbarcate negli Stati Uniti seguendo l’espansione di siciliani e calabresi, oggi anche la mafia nigeriana ha esteso i suoi tentacoli negli altri continenti parallelamente ai flussi migratori. In Italia la Black Axe è presente da prima che Johnbull – nome in codice Ewosa, 34 anni – arrivasse da Benin City nel 2009. Ma in quegli anni dalla Nigeria era arrivato l’ordine di mettere “in sonno” l’organizzazione. Dopo le prime condanne emesse nel capoluogo piemontese a seguito di una serie di regolamenti di conti tra Black Axe ed Eye, “il presidente internazionale di Black Axe ha detto – racconta Johnbull – che quello che è successo al Nord, a Torino, a Padova, negli anni 2005-2006, non deve più esistere”. Questo almeno fino al 2010, quando entra in scena Sixco, nome di battaglia di Osalumaghal Uwagboe. Per Johnbull è lui il “Capo dei capi” della mafia nigeriana. Ed è lui che riorganizza Black Axe in Italia. È il 7 luglio 2013: a Verona, Sixco convoca la festa nazionale dell’organizzazione. “Lì c’era gente che arrivava da tutte le città”, dice il pentito. E a quel punto inizia la liturgia. Gli aspiranti Black Axe vengono picchiati, feriti, umiliati con uno sputo in faccia prima di presentarsi al cospetto del “Capo dei capi”. Ora non sono più uomini come gli altri: sono mafiosi, mafiosi nigeriani. Nel Paese inventore delle mafie.

Mafia nigeriana, “in patria protetta dal governo. E i politici la usano per battere gli avversari alle elezioni”. Il racconto del reporter Eric Dumo, autore di diverse inchieste sui "culti" che dal Paese africano stanno diventando protagonisti del crimine globale. L'Italia fra gli snodi più importanti: su Fq Millennium ora in edicola, in esclusiva i verbali resi ai pm di Palermo dal primo pentito dei Black Axe, uno dei gruppi più potenti e sanguinari, scrive Mario Portanova il 17 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". La mafia nigeriana si espande in Italia, come racconta ai pm di Palermo il pentito Austine Johnbull, i cui verbali sono pubblicati in esclusiva su Fq Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez, attualmente in edicola. Ma come operano le gang, detti “culti” dalle loro origini nelle università della Nigeria negli anni Settanta, in patria e nel resto del mondo, dove secondo l’Fbi sono presenti in ottanta paesi e stanno diventando sempre più centrali, specie nel traffico di droga? Lo abbiamo chiesto a Eric Dumo, pluripremiato reporter di The Punch, uno dei più importanti quotidiani della Nigeria, e autore di diverse inchieste sul tema.

In Nigeria tutti i culti sono coinvolti in attività criminali?

«Nei tempi più recenti, molti di loro sì. Per esempio, ci sono politici che li ingaggiano per attaccare gli avversari, specialmente in occasione delle elezioni per le cariche più importanti, locali e federali. Oggi queste gang operano in quasi ogni angolo delle più importanti città nigeriane, dove reclutano ragazzi e ragazze con intimidazioni e minacce».

Per fare cosa?

«Oltre a spaccio di droga, prostituzione e frodi finanziarie di ogni genere, molte di queste gang si dedicano alle rapine a mano armata, per accumulare denaro per finanziare le loro attività illecite e il loro stile di vita. Negli ultimi tempi si registrano coinvolgimenti nel land grabbing e nei sequestri di persona.

La cosiddetta mafia nigeriana è originaria di qualche area specifica del Paese?

«In passato, i culti operavano principalmente nei campus universitari, ma negli ultimi anni si sono rovesciati sulle strade, inquinando comunità un tempo serene e pacifiche. Oggi i culti sono ovunque in Nigeria, anche se con grado di diffusione e modalità operative diverse».

Quali sono i più importanti?

«A parte i Black Axe e gli Eiye (due culti presenti in Italia e già colpiti da condanne per associazione mafiosa, ndr), a livello nazionale ci sono i Buccaneers e i Pirate. Poi esistono dozzine di gang regionali e locali in tutto il Paese. Nel Delta del Niger, per esempio, ci sono culti come Dey Bam, Dey Well, Highlanders e una moltitudine di gruppi pericolosi e spietati».

Che cosa ci può dire di Black Axe e Eiye? Dove sono presenti, in Nigeria e all’estero? Si conoscono i nomi dei loro boss? E quali sono le loro principali attività criminali?

«I Black Axe sono noti per le rapine a mano armata mentre gli Eiye sono più coinvolti in estorsioni e nella criminalità politica. I primi hanno una maggiore diffusione nazionale, mentre gli Eiye hanno la loro roccaforte nel Sudovest della Nigeria, l’area di Lagos, Ogun, Ondo, Oyo, Ekiti e Osun. In ogni comunità, questi gruppi hanno leader altrettanto spietati dei loro “coordinatiori” a livello statale e federale. E’ difficile citare nomi specifici di questi leader, perché cambiano nel tempo».

Queste gang si combattono o cooperano, in Nigeria e all’estero?

«Per lo più si comportano da rivali e si massacrano a vicenda per ogni minima provocazione, ma in certe occasioni collaborano per raggiungere obiettivi comuni. Per esempio, i politici ingaggiano più culti in determinate comunità per manipolare e vincere le elezioni. Offrono loro enormi somme di denaro per essere sicuri che siano tutti sufficientemente soddisfatti per raggiungere l’obiettivo. A parte queste e altre rare occasioni, per lo più i culti non collaborano fra loro».

L’Fbi dice che i culti sono presenti in 80 Paesi del mondo. Secondo i risultati delle sue inchieste, dove sono più forti, e in quali business criminali?

«Penso che fuori dalla Nigeria la loro presenza sia particolarmente forte in Malaysia, Sudafrica, Italia, Spagna, Regno Unito, India e Brasile. In tutti questi Paesi sono attivi nello spaccio di droga e nel traffico di esseri umani. Sono divenuti così spietati che persino la criminalità locale in questi Paesi ha paura di loro. Ormai sono quasi ovunque e terrorizzano cittadini innocenti, in particolare i connazionali nigeriani emigrati che rifiutano di sottomettersi».

Che ruolo hanno i culti nel traffico internazionali di droga? Collaborano con altre grandi organizzazioni criminali?

«Le indagini di Interpol e Fbi hanno dimostrato che non agiscono da sole, ma hanno più alleati in altre parti del mondo, con cui collaborano».

Pensa che la diffusione globale di Culti sia collegato alle ondate migratorie dei nigeriani – naturalmente per la massima parte incolpevoli – come è accaduto in passato per le mafie italiane, per esempio Cosa nostra negli Stati Uniti?

«Sì, il vasto movimento di nigeriani verso altri Paesi del mondo, risultato del sottosviluppo in patria, ha contribuito in modo significativo alla crescita di queste gang nel mondo. Nel disperato tentativo di sfuggire alla povertà, ma anche per espandere il loro raggio d’azione, i membri delle gang si aiutano l’un l’altro a emigrare in Paesi come l’Italia, la Spagna, il Brasile, la Malaysia e altri, per aprire una nuova pagina delle loro carriere criminali. La promessa di una vita migliore e di una ricchezza facile in Europa e in America continua a spingere questo tipo di flussi, che aggiungono problemi a problemi».

I culti sono adeguatamente perseguiti in Nigeria, o godono di appoggi?

«Possono contare su alti personaggi a livello di governo, che li sostengono sistematicamente. Grazie a questo supporto, riescono a sfuggire alle indagini e a evitare le pene più severe in caso di arresto. Possono contare su sostegni anche nella diaspora, il che rende più difficile per le autorità locali contrastare la reale minaccia che rappresentano».

Per quanto ne sa, i culti nigeriani si dedicano anche ad attività lecite? Che cosa si sa su come ripuliscono il denaro sporco?

«Di fatto, solo pochi membri delle gang hanno trovato modi di avviare attività economiche lecite  e di ottenere mezzi di sopravvivenza ufficiali, comunque nella maggior parte dei casi le risorse impiegate provenivano da denaro sporco. Molti creano piuttosto semplici attività di copertura mentre continuano a guadagnare da rapimenti, spaccio, frodi e criminalità politica, per sopravvivere e per mantenere il loro sontuoso stile di vita».

"La mia Castel Volturno preda della mafia nera Lo Stato non esiste più". Il sindaco: «Paese in balìa di Casalesi e nigeriani. Arriva Minniti, mi appello a lui», scrive Nino Materi, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". Dimitri Russo, 47 anni, sindaco di Castel Volturno (Caserta), ha la faccia simpatica di un dj. La sua «musica» però ha il ritmo della passione politica, quella disinteressata dell'impegno sociale. Merce rara, soprattutto in un territorio dove lo Stato sembra aver deposto non solo le armi, ma anche la bandiera bianca con cui pare essersi arreso al dominio della mafia «bianca» dei clan dei casalesi e a quella «nera» della mafia nigeriana; «sembra» e «pare», verbi che lasciano però un filo di speranza. Del resto, il futuro, a Castel Volturno, non può essere peggio del passato. O del presente.

Sindaco Russo, martedì arriverà il ministro dell'Interno, Marco Minniti. Cosa gli dirà?

«Che a Castel Volturno non si può più andare avanti così».

«Così» come?

«Con una percentuale di migranti che supera qualsiasi livello di tolleranza».

Quanti sono?

«Circa 15mila. Su una popolazione residente di poco superiore ai 25mila».

Irregolari?

«La maggior parte».

Problemi di ordine pubblico?

«Criminalità record».

La storia di Castel Volturno in passato è stata macchiata da clamorosi fatti di sangue, da stragi, da scontri di mafie tra casalesi e africani».

«La violenza è sempre pronta a esplodere».

Lei ne sa qualcosa, di recente è stato schiaffeggiato con l'accusa di essere il «sindaco dei neri».

«Io sono solo il sindaco delle persone oneste».

Ma di «onestà» nel suo paese ce n'è poca.

«Invece ce n'è tanta».

Però stenta a venir fuori.

«Perché c'è paura».

Paura della mafia?

«La nostra e la loro».

La «loro», di chi?

«Dei nigeriani. Che si sono impossessati delle centinaia di villette abbandonate lungo il litorale domizio».

Come hanno fatto a occupare centinaia di case?

«Hanno sfondato le porte e sono entrati. Poi le hanno depredate sistematicamente. Ora fanno da basi operative del mercato di droga e prostituzione».

Castel Volturno è ostaggio di questa gente?

«In piazza si vedono pochissime persone di colore. Il Comune è come se fosse diviso in due: in paese gli italiani, in periferia gli africani».

Ghetti fuori dal controllo dello Stato?

«Lì c'è uno Stato parallelo. Fatto di degrado e illegalità».

«È la bomba sociale evocata di recente da Berlusconi.

«Tutto mi separa da Berlusconi, ma su questo aspetto ha ragione. E magari si trattasse solo di bomba sociale...».

Perché, c'è di peggio?

«Sì, esiste il rischio anche di una bomba sanitaria».

Motivo?

«Tra i migranti si registrano molti casi di tubercolosi, malaria e Aids. Ma nella comunità africana ci si cura con metodi tribali. Lungo il litorale non esistono fogne e l'inquinamento ambientale è un incubo».

Ci vorrebbero ingenti opere infrastrutturali.

«Il governo ha proposto investimenti. Al ministro Minniti chiederò che gli impegni vengano rispettati».

C'è bisogno di sicurezza.

«Più forze dell'ordine e maggiore prevenzione».

Senza dimenticare i finanziamenti.

«Le casse del Comune sono a secco. Da settimane abbiamo in ospedale un feto partorito e abbandonato da una mamma africana. Vorremmo garantirgli una onorevole sepoltura. Ma non abbiamo neppure i soldi per il funerale».

È terribile.

«Lo so».

Il vero volto della mafia nigeriana, che ha in pugno la prostituzione in Italia, scrive Andrea Sparaciari il 16/8/2017 su "it.businessinsider.com". Oltre a Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Stidda e Sacra Corona Unita, l’Italia può “vantare” un altro sodalizio mafioso di tutto rispetto: quello nigeriano, gruppi di criminali che tengono saldamente in pugno il mercato della prostituzione, ma non solo. “ll radicamento in Italia di tale consorteria è emerso nel corso di diverse inchieste, che ne hanno evidenziato la natura mafiosa, peraltro confermata da sentenze di condanna passate in giudicato”, scrive la Dia nella relazione sulle sue attività investigative del secondo semestre 2016. Pagine nelle quali i magistrati spiegano, inchiesta per inchiesta, come i nigeriani siano ormai primari protagonisti non solo del traffico di esseri umani, ma anche della droga, delle truffe online e nello sfruttamento della prostituzione. Un ventaglio di attività al quale gli affiliati alle varie bande provenienti dal Paese centroafricano si applicano con spietata efficienza. “Sul piano generale, tra le attività criminali dei gruppi nigeriani, si conferma la tratta di donne di origine nigeriana e sub sahariana, avviate poi alla prostituzione”, si legge nella relazione, che ricorda come il 24 ottobre 2016 la Polizia di Catania, con l’operazione “Skin Trade”, abbia arrestato 15 persone per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone e sfruttamento della prostituzione. Idem per le indagini sui gruppi attivi nella zona di Castel Volturno (CE) che sarebbero riusciti “a organizzare importanti traffici di droga e immigrati clandestini, operando altresì nello sfruttamento della prostituzione”. L’operazione Cultus che nel 2014 portò in carcere 34 persone, illustra perfettamente il modus operandi dei nigeriani: le ragazze erano reclutate in Togo, da dove venivano “importate” in Italia attraverso il Benin. Una volta sbarcate, si ritrovavano un debito per il viaggio – in media tra i 40 ai 70 mila euro – e per saldarlo erano costrette a prostituirsi sotto gli ordini di una Maman. Il pericolo della denuncia era scongiurato perché assoggettate psicologicamente attraverso pratiche esoteriche. A questo proposito, molti giornali hanno spesso scritto di “rituali voodoo”… In realtà, si tratta del rito “Juju”, una credenza religiosa praticata nella regione del Sud-Ovest della Nigeria. Il paradosso è che il rituale utilizzato per schiavizzare le donne africane, convincendole che lo spirito racchiuso in piccoli feticci possa causare enormi sciagure a loro e alla loro famiglia in caso di disobbedienza, non nasce in Africa, ma è stato importato dai primi colonizzatori europei, tanto che mutua il nome dal termine francese “Joujou”. Comunque, le indagini hanno dimostrato che oltre al traffico di esseri umani, l’organizzazione gestiva anche i corrieri della cocaina provenienti da Colombia, nonché quelli della marijuana dall’Albania. I proventi venivano poi spediti in Nigeria e Togo attraverso agenzie di money transfer. Secondo la Dia, appare poi assodato che le mafie nostrane appaltino il lavoro sporco ai nigeriani e che questi, quando agiscono da indipendenti, debbano pagare il pizzo a Cosa Nostra e alle ‘ndrine. Una tassa “mal sopportata”, tanto che a volte scoppia lo scontro, come accadde a Castel Volturno nel 2008, quando i Casalesi spararono indiscriminatamente sulle case dei braccianti immigrati, uccidendo sei persone (per altro non affiliate alle bande). Parliamo di bande, perché l’universo della criminalità nigeriana non è monolitico. Tutt’altro: sarebbero almeno una dozzina i gruppi che si contendono il primato, nel Paese africano e all’estero. Per esempio, in Italia è certa la presenza di almeno tre nuclei, divisi da un conflitto sotterraneo e brutale che va avanti da due decenni: la Aye Confraternite, gli Eiye e i temibili Black Axe. Secondo il rapporto “Global Report on Trafficking in Persons 2014” dello United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), con l’operazione Cultus finirono in manette “membri di due gruppi, chiamati Eiye e Aye Confraternite, operativi in alcune parti d’Italia da almeno il 2008”. Due gruppi che “hanno combattuto per oltre sei anni per il controllo dell’area di Roma (Torre Angela, Tor Bella Monaca e Torrenova, ndr)”, affrontandosi con armi da fuoco, spranghe, coltelli e machete. Una lotta che probabilmente ha spalancato le porte ai Black Axe, tanto che il 13 settembre 2016, con l’operazione “Athenaeum”, in Piemonte finiscono in manette 44 persone per associazione mafiosa, spaccio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lesioni gravi. L’indagine svela che i Black Axe avevano ramificazioni in buona parte dell’Italia oltre Torino, a Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. Ma il nostro Paese è in buona compagnia: nell’aprile scorso, il capo della polizia di Toronto (Canada), Jim Raymer, ha presentato un’operazione che ha scardinato un’organizzazione di ladri d’auto (anche lì tutti Black Axe) la quale avrebbe trafugato veicoli di lusso per oltre 30 milioni di dollari. Sulla nave diretta in Africa bloccata dalla polizia, sono stati ritrovati suv provenienti anche da Spagna e Belgio. In manette sono finiti, oltre ai ladri, anche rivenditori di parti d’auto, camionisti, impiegati delle compagnie di navigazione e portuali, tutti canadesi doc. In Giappone, invece, nel 2014 fece scalpore l’arresto di un nigeriano gestore di un locale notturno del quartiere a luci rosse di Kabukicho, che costringeva le sue hostess filippine a drogare i clienti svuotandone poi le carte di credito. Si scoprì che il gioco andava avanti da anni e che in totale l’uomo si sarebbe appropriato di oltre 7,5 milioni di euro (soldi spediti in Nigeria dove si stava costruendo un vero palazzo reale). Ma le indagini svelarono anche la diretta partecipazione dei nigeriani nei locali a luci rosse di Kabukicho, nonché i loro legami con la Yacuza nella vendita di eroina, nei furti d’auto, nel riciclaggio di denaro e nell’organizzazione di matrimoni finti. Prostituzione in Italia, furti d’auto in Canada, l’eroina in Giappone, tutte joint-venture che dimostrano quanto i nigeriani siano capaci di stringere rapporti proficui con le mafie locali, adattandosi alle diverse realtà. E non deve stupire: chi gestisce i traffici, contrariamente al credo popolare, non sono illetterati provenienti da sperduti villaggi dell’Africa equatoriale. Spesso, anzi, si tratta di laureati o comunque di persone dotate di cultura superiore. Un dato di fatto che deriva dalla stessa storia della mafia nigeriana.

L’università dei gangster. Le bande mafiose nascono infatti come degenerazione dei gruppi cultisti attivi nelle università della regione del Delta del Niger fin dagli anni ’50, gruppi che si opponevano alla dominazione europea. All’inizio erano semplici confraternite universitarie, ma presto si trasformano in associazioni a delinquere che travalicano i muri dei campus. La confraternita originaria fu quella dei Pyrates, negli anni ’70 subì una prima scissione, dalla quale si formarono i Sea Dogs (i Pyrates) e i Bucanieri.  A loro volta, i Bucanieri diedero vita al Movimento Neo-Black dell’Africa, cioè i Black Axe, che divenne egemone all’interno dell’università di Benin nello stato dell’Edo. Ma anche i Black Axe subirono una divisione, con la quale si formò la Eiye Confraternity. Da lì fu un fiorire di gruppi. Oltre a Black Axe e Eiye, oggi in Nigeria si distinguono per brutalità la Junior Vikings Confraternity (JVC), la Supreme Vikings Confraternity (SVC) e la Debam, scissionisti della The Eternal Fraternal Order of the Legion Consortium. Ognuna di esse ha un’uniforme, propri colori e un’università o scuola superiore di riferimento. Con il ritorno del Paese alla democrazia, nel 1999, in Nigeria si aprì un periodo di lotte furibonde tra i vari potentati politici a livello locale, federale e statale. Fu quasi naturale che partiti e uomini politici assoldassero le confraternite come collettori di voti o guardie del corpo, fino a trasformarle in veri eserciti privati, spesso integrati direttamente nelle forze di polizia locali. Ciò ha permesso ai sodalizi criminali di prosperare e di espandesi all’estero. Europa dell’Est, Spagna, Italia, Giappone, Canada, Sudafrica. Una piovra dalle mille teste che fa affari con tutti: da Cosa Nostra ai narcos sud americani, dai trafficanti d’armi dell’Est ai produttori di marijuana albanesi. A ingrossarne le fila, sono gli studenti universitari e delle secondarie, cooptati sia volontariamente che involontariamente. Negli ultimi anni, però, secondo l’Onu, sarebbero aumentati vertiginosamente anche i membri sotto i 12 anni, bambini di strada utilizzati come soldati. Contrariamente agli anni ’70, poi, oggi esistono anche confraternite tutte al femminile, le più note e temibili sono Jezebel e Pink ladies.

Come funzionano. L’UNODC ha studiato il funzionamento delle confraternite, ecco come descrive il funzionamento degli Eiye: “Il gruppo agisce attraverso un sistema di cellule – chiamate Forum – che operano localmente, ma che sono collegate alle altre cellule radicate in diversi Paesi dell’Africa occidentale, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Europa occidentale”. Gli Eiye hanno “una struttura gerarchica rigida, retta da una Direzione. Sebbene ogni forum sia indipendente, i membri hanno un ruolo funzionale specifico e sono uniti tra loro da legami familiari o da altri rapporti relazionali”. Tutte le confraternite hanno un leder carismatico, detto “Capones” (in onore di Al Capone), un comandante in capo, che d ordini ai vari capones locali, dislocati nelle varie università, i suoi generali sul campo. Per divenire capones, la persona “deve aver dato prove inoppugnabili di coraggio e brutalità”. Anche per entrare in una confraternita si deve passare un esame: dopo essere stato scelto, l’aspirante viene sottoposto a un rito iniziatico, che ha luogo di notte, spesso in un cimitero, durante il quale viene drogato, picchiato e costretto a dimostrare il proprio coraggio, meglio se con un omicidio o col rapimento di una donna legata un’altra confraternita. Una volta dentro, al nuovo adepto vengono insegnati il rispetto per la “fortificazione spirituale”, le tattiche di combattimento e l’uso delle armi da fuoco. Qualora il candidato si rifiuti di entrare nella banda o, una volta dentro, voglia uscirne, sa che a pagare sarà – oltre a lui – anche la sua famiglia. Una realtà brutale, che si rispecchia poi nel modo di agire – spietato – delle bande. Una spirale di violenza infinita, già stabilmente impiantata nel nostro Paese e che sta diventando sempre più forte e potente. Una piaga destinata a diventare sempre più purulenta e dolorosa.

Hawala, ecco come fanno lavoratori stranieri, scafisti e terroristi a trasferire soldi senza lasciare tracce, scrivono Lorenzo Bagnoli e Lorenzo Bodrero su "IRPI" riportato il 22 dicembre 2017 su "it.businessinsider.com". Firenze, via Palazzuolo 172 rosso. La Cattedrale di Santa Maria del Fiore dista 15 minuti a piedi. La Stazione di Santa Maria Novella cinque. Il civico corrisponde ad un palazzo anonimo, incastonato tra le case ammassate l’una sull’altra in questa stretta via del centro fiorentino. Su Google, chi cerca “via Palazzuolo 172” trova un nome, Abdalla Osman Hassan, e un negozio, Ilays Money Service. Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Firenze, era una banca clandestina che tra il primo gennaio e il 3 ottobre 2017 ha mosso oltre 400 mila euro. Soldi fuori da ogni radar della Banca d’Italia, che si muovono senza lasciare traccia, come fossero contanti. Ilays Money Service appariva come un semplice money transfer, ma dietro questa facciata nascondeva un sistema di passaggio di denaro parallelo. Il cosiddetto hawala. Hawala in arabo significa “trasferimento” o più spesso “fiducia”, che poi è anche la traduzione di “trust”, che da dizionario economico Treccani è un’ “istituto giuridico caratteristico del diritto anglosassone che consente di dar vita a un fondo con patrimonio autonomo, amministrato da un fiduciario”. In soldoni, rappresenta lo strumento previsto dalla legge che scherma le ricchezze offshore di tutto il mondo. Gli hawala, invece, sono quelli illegali per chi non ha santi nei paradisi fiscali. Strumenti finanziari che hanno una storia millenaria, con i quali si fa riciclaggio ed evasione spesso di piccolo cabotaggio, ma che complessivamente raggiungono cifre difficili persino da immaginare. Hawala è diventato, negli anni, il nome con cui si definiscono tutti i “circuiti informali” attraverso cui soprattutto le comunità straniere portano i propri soldi fuori dall’Italia. Rimesse che dalle autorità italiane non vengono né tassate, né controllate: passano di mano in mano in una lunga catena che si basa proprio sulla fiducia. Il tasso di cambio e la commissione vengono pattuiti tra il “banchiere”, l’hawaladar, e il cliente. Il sistema ha tanti altri nomi con cui viene definito, a seconda delle aree geografiche: chiti o hundi nel subcontinente indiano, Stash-House nelle Americhe, Chop Shop in Cina. In pratica, gli hawala “sono una cambiale, un pagherò, un assegno”, spiega Giovambattista Palumbo, presidente di Eurispes e grande esperto del sistema. “I ‘banchieri’ hawala, che si occupano di raccogliere e trasferire all’estero le risorse finanziarie, esercitano spesso attività commerciali legali (cambia-valute, negozianti, commercianti, agenti di viaggio, orefici) e godono di molta fiducia e rispetto nell’ambito delle rispettive comunità”, aggiunge Palumbo. “La loro attività consiste nel garantire il trasferimento delle somme di denaro derivanti dai profitti, leciti ed illeciti (spesso derivanti da lavoro nero o evasione fiscale), ottenuti dai membri della comunità”. Gli hawaladar sono bottegai della finanza, “broker” da strada la cui attività è prevista anche negli ahadith, libri che interpretano i versi del Corano. Esistono varie sfumature di hawala: il sistema può essere davvero l’unico modo per spedire denaro alla propria famiglia in Paesi dove lo Stato non esiste, oppure un perfetto sistema di riciclaggio ed evasione per milioni di euro, sfruttato anche da organizzazioni terroristiche e criminali. Il passaggio di denaro via hawala appare identico a quello di un money transfer. Quest’ultimo funziona così: un cliente va allo sportello e deposita la cifra di denaro da inviare in un altro Paese. L’operatore consegna al cliente un codice, che a sua volta lo manderà al destinatario finale. Quest’ultimo andrà nel giro di 48 ore in un’agenzia della stessa catena di money transfer con in mano il codice e ritirerà la somma di denaro. La differenza per gli hawala sta tutta in chi muove i soldi e nella commissione applicata. L’hawala è decisamente più conveniente. Gli hawaladar, i banchieri, sono persone con tanto denaro a disposizione sulle quali trasferire il proprio debito. Sono loro che anticipano e che fanno circolare soldi. Anticipano il denaro per conto di altri: i debiti e i crediti tra hawaladar, quello dal Paese di partenza del denaro e quello di arrivo, verranno saldati in un secondo tempo, a seguito di centinaia di operazioni. La fiducia, come sempre, è la base millenaria su cui si poggia questo sistema. L’inchiesta fiorentina è arrivata all’esercizio commerciale di Abdalla Osman Hassan da un vecchio camion militare. Il mezzo era stato spedito dalla Toscana alla Somalia aggirando l’embargo che impedisce la vendita di materiale militare nel Paese. Camion simili vengono riempiti di esplosivo e usati come autobombe: l’ultima del 14 ottobre ha ucciso circa 230 persone a Mogadiscio. Il sistema è noto all’Europol come fonte di approvvigionamento di gruppi terroristici almeno dai tempi della prima Al Qaeda guidata da Osama Bin Laden. Più di recente, Chérif Kouachi, attentatore che insieme al fratello ha compiuto la strage alla redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, ha ammesso di aver ricevuto attraverso questo sistema 20mila euro dal gruppo di Al Qaeda nello Yemen. L’hawala è poi il sistema usato dai trafficanti di esseri umani per farsi pagare dai migranti che attraversano l’Africa, si imbarcano verso l’Italia e dalla nostra penisola si spostano in tutta Europa. A maggio un’importante operazione della Squadra mobile di Bari ha colpito la rete criminale intorno a Hussein Ismail Olahye, somalo classe 1984 che aveva costruito a partire dal suo money transfer Juba Express un’organizzazione che comprava permessi di soggiorno e titoli di viaggio falsi, pagava trafficanti di uomini, corrompeva ufficiali dell’anagrafe e poliziotti alla frontiera, gestiva spostamenti e pernottamenti tra Somalia, Italia, Germania, Svizzera e Svezia. La sua rete era il punto di riferimento per i somali che desideravano arrivare illegalmente in Italia o da qui spostarsi verso un altro paese europeo. In due anni e mezzo, gli inquirenti hanno individuato spostamenti di denaro per 9 milioni di euro. L’organizzazione aveva anche aiutato, nel luglio 2016, due estremisti siriani entrati in Italia via Malta, già condannati per associazione finalizzata al terrorismo in primo grado dal Tribunale di Brescia. Dal 2007 al 2010, secondo le operazioni Cian Liù, Cian Ba 2011 e Cian Ba 2012 condotte tra Prato e Firenze dalla Guardia di finanza fiorentina sono stati mossi attraverso gli hawala cinesi oltre 4,5 miliardi di euro dall’Italia alla Cina. Spesso frutto di lavoro nero. Le operazioni hanno prodotto 24 arresti e 581 denunce. A febbraio 2017, la filiale di Milano della Bank of China ha patteggiato 600 mila euro di multa: la banca era finita sotto inchiesta per riciclaggio. Nel periodo in esame, aveva ricevuto da un money transfer illegale 2,2 miliardi di euro, per i quali aveva ricevuto 758 mila euro in commissioni. Trasferimenti arrivati poi in Cina, senza che fosse possibile stabilire la reale provenienza. Quattro erano i dirigenti sotto inchiesta, accusati di aver omesso il controllo e frazionato le tranche in pagamenti da 1.999 euro, uno sotto alla soglia massima consentita dalla legge. Mai, fino ad oggi, era stato toccato un patrimonio tanto vasto mosso attraverso gli hawala.

La Mafia turca. Essa controlla gran parte del traffico di eroina (e di persone) che giunge in Europa dall’Afghanistan. Si tratta di una miriade di gruppi relativamente ridotti e autonomi, non verticistici, per lo più con membri appartenenti a un’unica struttura familiare. Infatti, si parla di "famiglie" (o "clan"), alcune delle quali sono curde e, a volte, perseguono finalità terroristiche.

Lo Stato nemico dei briganti e amico dei mafiosi, scrive il 20 giugno 2018 su "La Repubblica" Enzo Ciconte, Storico. Perché il Regno d’Italia, nato a seguito dell’impresa di Garibaldi e dei suoi Mille, sin dall’inizio sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione con camorra e mafia – che altro non sono che gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza per ottenere potere e ricchezza – mentre invece combatte i briganti fino alla loro sconfitta finale? È una scelta precisa: lo Stato combatte i briganti fino alla loro distruzione mentre per il fenomeno mafioso imbocca la strada opposta della tolleranza e della convivenza i cui effetti si prolungheranno fino ai nostri giorni. La scelta è fatta per assecondare i desideri della grande proprietà terriera meridionale che non accetta di venire incontro alle richieste dei contadini di avere almeno uno spicchio di terra delle immense distese di terreni demaniali usurpati con l’inganno dai galantuomini. Queste erano le terre richieste, mentre non c’erano rivendicazioni su quelle dell’aristocrazia il cui possesso legittimo non era posto in discussione. Ma la grande paura avvinse gli uni e gli altri preoccupati del fatto che, intaccate le proprietà degli usurpatori, si finisse col prendere di mira anche le altre proprietà. La conseguenza fu che tutte le richieste contadine furono respinte. E ciò alimentò il grande brigantaggio sociale che spinse alla macchia gran parte dei contadini che avendo occupato le terre temevano di finire in prigione. Nel fenomeno del brigantaggio, oltre ai criminali, ci furono anche coloro che sognavano il ritorno al potere della dinastia dei Borbone. Ma il brigantaggio di marca borbonica e clericale è durato un paio d’anni; s’è spento ben presto nell’illusione di far risorgere due regni – quello dei Borbone e quello del papa – che non sarebbero più tornati. Persino il generale Govone, uno degli ufficiali più noti di quel periodo, ha colto la radice sociale del fenomeno scrivendo che il brigantaggio era “una vendetta sociale la quale talora si applica con qualche giustizia”. I proprietari si sentirono minacciati dai briganti e protetti dai militari mentre i mafiosi erano visti, dagli stessi proprietari, come persone con le quali si poteva trattare e raggiungere un accordo. La lotta al brigantaggio è affidata con ampia delega ai militari che mostrano la loro inadeguatezza ad affrontare un nemico che usa i metodi della guerriglia invece che quelli insegnati nelle accademie militari più prestigiose e moderne. La carica in terreno aperto era un sogno irrealizzabile e le bande brigantesche erano favorite perché conoscevano i posti, i boschi e gli anfratti delle montagne. Il potere affidato ai militari ha determinato nei fatti la supremazia sulle autorità civili, prefetti e magistratura compresa. Hanno origine ben presto conflitti tra apparati dello Stato che si manifestano nei primi anni del nuovo Regno e che prelude ad altri, più impegnativi, conflitti. Durante il primo decennio della destra storica si sospendono le garanzie costituzionali per ragioni d’ordine pubblico. Non tutti erano d’accordo, ci furono discussioni e fondati dubbi sulla legalità dei provvedimenti che non vengono bloccati perché riguardano il Mezzogiorno; circostanza, questa, che rese la prima sperimentazione, che è una soluzione di forza, accettabile, o quasi. Eppure, nonostante un dispiegamento impressionante di militari, gli stati d’assedio e l’adozione di leggi eccezionali come la legge Pica, cresce e si rafforza la convinzione nei vertici militari – con l’avallo tacito o esplicito dei ministri e di qualche presidente del Consiglio – che per sconfiggere i briganti ci sia bisogno del terrore e di oltrepassare la stretta legalità adottando misure non consentite dalle leggi ordinarie. Nasce da questa convinzione l’idea che occorra dare mano libera ai militari che fucilano un numero enorme di persone, molte delle quali catturate senza armi in mano, arrestano i parenti dei briganti senza consegnarli alla magistratura, oppure uccidono i briganti mentre sono portati da un luogo ad un altro. Ci sono, inoltre, stragi e incendi dei paesi da parte delle truppe. S’introduce nella cultura dei militari – gran parte dei quali sono i parlamentari del nuovo Regno d’Italia – l’idea che i predecessori francesi e borbonici avevano messo in pratica: bisogna dare l’esempio e terrorizzare le popolazioni, fare stragi, bruciare paesi o case, arrestare tutti i parenti dei briganti per il solo fatto di essere parenti. Emergono una concezione e una cultura che s’impadroniscono della concreta azione dei militari, i quali non trovano ostacoli nel governo se non quando non se ne può proprio fare a meno. Questa è la ragione che spiega il fatto che nessuno degli ufficiali superiori, responsabili di stragi, di assassinii, di violazioni della legalità verrà mai punito. I vertici militari e i vertici governativi copriranno sempre chi ha commesso le violazioni. Dunque, nella lotta ai cafoni meridionali emergono i tratti illiberali e la mentalità coloniale di gruppi dirigenti che si definiscono liberali e che nella pratica sconfessano questa loro appartenenza. Un fatto è certo: la lotta, anzi la guerra vera e propria, intrapresa dai poteri costituiti contro banditi e briganti ha riguardato quasi sempre le classi subalterne, infime come vengono definite in alcuni documenti, i contadini affamati e senza terra, i poveri e i poverissimi, i braccianti senza lavoro, i soggetti più deboli. Per queste ragioni ci furono più guerre oltre a quella militare: una guerra civile che ha contrapposto selvaggiamente italiani del Nord e italiani del Sud, una guerra fratricida, paese per paese, di meridionali contro altri meridionali, una guerra di classe tra proprietari e contadini senza terre. Il brigantaggio è stato un fenomeno sociale e di classe che fu trasformato in un problema criminale. È stato un errore tragico che ha segnato la stessa formazione delle classi dirigenti meridionali ed italiane. In quegli anni di sfiducia profonda e di disprezzo verso i meridionali, sentimenti che aveva una parte della classe dirigente nazionale, si inviarono nel Mezzogiorno, oltre ai quadri dell’esercito e dei carabinieri, anche prefetti, questori, magistrati, personale amministrativo d’origine settentrionale perché solo loro avrebbero potuto risolvere i problemi della realtà meridionale, peraltro del tutto sconosciuta ai nuovi arrivati. Ma fu un’illusione che si rivelò sbagliata e dannosa. Il libro: “La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio”, Laterza

Le origini lontane della mafia. Da "Il Corriere della Sera del 5 ottobre 2000.

Caro Montanelli, I suoi libri di storia m'accompagnano da anni anche qui nel mio esilio in Spagna. Ora, però, debbo chiederle un aiuto, perché sono stanco di sentirmi sempre dire perfino dagli abitanti di questo Paese che, come italiano, sono un mafioso. Al contrario, io ricordo di avere letto alcuni suoi interventi sulle origini spagnole della mafia, ma non sono riuscito a risalirvi. Ha la pazienza (e il tempo) di aiutarmi? Giuseppe Garifo

Caro Garifo, No, ricorda male: io non posso aver scritto che le origini della mafia sono spagnole perché non lo penso. Su queste origini sono state scritte intere biblioteche. Secondo il mio amico Virgilio Titone, uno storico siciliano che, come spesso i siciliani, era un impasto di genialità e di follia, quelle origini sono piuttosto saracene e risalgono al 1200, quando l'esercito del grande imperatore Federico II - lo stupor mundi come veniva con ammirazione chiamato - ch’era appunto composto in stragrande maggioranza di saraceni, si dissolse nell’isola, e un po' per autodifesa, un po' per conservarvi qualche posizione di potere, vi costituì una società di mutuo soccorso: la mafia, appunto. È possibile, ma non ci giurerei. Come non giuro, intendiamoci, su nessuna delle altre innumerevoli teorie che sono state escogitate - ognuna con le sue brave «pezze d'appoggio» - da storici, sociologi, etnologi che a quest'argomento hanno dedicato i loro studi e la loro vita, e fra i quali non le consiglio di arruolarsi. Contentiamoci dunque di riassumere gli ultimi sviluppi della mafia, quelli che le hanno dato i caratteri attuali. Per secoli, i siciliani hanno lamentato l'assenza o l'inefficienza dei poteri centrali - arabi, normanni, spagnoli, francesi e, dall'Ottocento in poi, italiani - che si sono avvicendati sull’isola e che sempre hanno finito per lasciarli in balia dei signori feudali locali che monopolizzavano le ricchezze dell'isola, una ricchezza fatta soprattutto, anzi esclusivamente di terre. La mafia infatti (questo è accertato) ha origini agrarie, e trova i suoi fondatori in quel ceto medio, che sta fra il grande proprietario (il «barone») e il «servo» qual è considerato il contadino. Quest'elemento intermedio, che nell'Italia continentale si chiama «fattore», o «amministratore», è il «massaro», cioè il servo che, più evoluto e scaltro degli altri, diventa il «rappresentante» del barone, che alla vita di «fattoria» - come la si chiama in Toscana - preferisce quella di palazzo in città e vi consuma tutte le sue sostanze, mentre il «massaro» arrotonda le sue derubando il barone e rendendo ancor più esoso lo sfruttamento del servo. I massari sono certamente molto più efficienti dei vecchi signori e capiscono che per poterne ereditare i privilegi debbono avere dalla loro i poteri centrali, cioè quelli del governo: Giustizia, polizia, carabinieri, enti locali eccetera. Ecco la mafia «storica» quale io l'ho conosciuta una cinquantina di anni orsono nel suo ultimo grande capo, Don Calogero Vizzini (nei miei «Incontri» c'è di lui un mio ritratto che credo molto somigliante), ex massaro. La sua mafia, più che ai soldi, teneva al potere e aveva imparato a esercitarlo ricorrendo il meno possibile al sangue (non volle, per esempio, aver a che fare col bandito Salvatore Giuliano, e fu essa ad eliminarlo). A questo punto però avvenne qualcosa di traumatico. Fin allora, quando un mafioso s'inguaiava con la Giustizia, la mafia lo «esportava» in America, la cui mafia non era che una succursale o spurgo di quella siciliana. Dovendo però adattarsi a una società metropolitana, industrializzata e violenta, s'era trasformata in gangsterismo. Nel ’43, per prepararvi il loro sbarco, gli americani mandarono in Sicilia gli ex mafiosi siciliani. I quali non erano più i figli o i nipoti del «massaro», ma i figli e i nipoti del «padrino» di Puzo, col mitra in pugno e i miliardi in banca. È stata questa nuova mafia a fare piazza pulita di quella vecchia dei massari, che comunque, anche senza l'avvento dei «padrini» americani, avrebbe finito per prevalere in una società siciliana che sempre meno si basa sul desolato e giallastro latifondo baronale e sempre più somiglia a quella di una Las Vegas senza freni di tribunale e di pena di morte. Don Calogero fece appena in tempo a morire nel suo letto. Altrimenti ci avrebbero pensato i «corleonesi» di Totò Riina.

Il saggio. Esce in libreria il 6 dicembre il saggio di Salvatore Lupo «La mafia. Cento-sessant’anni di storia», edito da Donzelli (pagine XVI-416, euro 30). Nato a Siena nel 1951, lo storico Salvatore Lupo insegna nell’Università di Palermo.

Mafia, la storia delle origini. Salvatore Lupo (Donzelli) scrive sulle vicende di Cosa nostra dal XIX secolo e smentisce che le cosche siano state favorite dagli americani. Forti riserve sulle teorie complottiste, scrive Paolo Mieli il 26 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Il capomafia Michele Greco (1924- 2008), detto «il papa» per la sua autorevolezza all’interno di Cosa nostra (Ansa). Qui il boss è ritratto a Messina nel novembre 1986 durante il processo d’appello per l’omicidio del magistrato Rocco Chinnici, ucciso nel 1983 a Palermo da un’autobomba con due uomini della scorta.

La mafia nacque a metà Ottocento da una costola in un certo senso della «rivoluzione» siciliana. Questa in sintesi la tesi del libro — La mafia. Centosessant’anni di storia tra Sicilia e America — di un grande studioso di questa materia, Salvatore Lupo. Il libro tira le somme di una serie di precedenti lavori e sta per essere pubblicato da Donzelli. Qualche lontana origine del fenomeno — sostiene Lupo — può essere rinvenuta nel partito democratico del proprietario terriero Francesco Bentivegna il quale nel 1848 a Palermo guidò un manipolo di uomini per sostenere l’insurrezione antiborbonica e successivamente si collegò con i circoli radicali che — dopo la sua morte — avrebbero ispirato la sfortunata impresa di Carlo Pisacane a Sapri; lui nel frattempo aveva mobilitato una «squadra popolare» per «sollevare» nuovamente Palermo, ma era stato catturato e fucilato dai soldati borbonici. I suoi seguaci nel 1860 si schierarono con la corrente radicale garibaldina. Suo fratello, Giuseppe Bentivegna, nel 1862 sarebbe stato a fianco di Garibaldi sull’Aspromonte. Identiche considerazioni valgono per Giovanni Corrao, anche lui rivoluzionario del 1848, finito poi in prigione e in esilio. Mazziniano «spinto», Corrao fu con Garibaldi al tempo dei «Mille» e lo seguì fino alla battaglia finale sul fiume Volturno. Cospiratori antiborbonici erano stati anche due amici di Corrao, Giuseppe Badia e Francesco Bonafede. «È possibile che i Corrao e i Bentivegna», scrive Lupo con le dovute cautele, «si siano rapportati, lungo il loro percorso, anche ad elementi definibili come proto-mafiosi». Quanto a coloro, prosegue Lupo, che furono qualificati come capimafia in tempi successivi, vale a dire in età postunitaria, «troviamo nella loro biografia non pochi punti di contatto con l’esperienza rivoluzionaria». In questo senso Lupo crede «si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una stabilizzazione post-rivoluzionaria».

Come ciò avvenne lo si può capire da un opuscolo pubblicato nel 1864 dal senatore della sinistra «moderata» Nicolò Turrisi: Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in Sicilia. Turrisi racconta come sia nel 1848, sia nel 1860 nell’isola «era in armi tutta la vecchia setta dei ladri, tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano». Poi, dopo l’impresa garibaldina, era mancato un governo in grado di restaurare l’ordine, sicché a quella setta di «tristi» si affiliarono altri personaggi della stessa risma. Turrisi, nota Lupo, non usa il termine «mafia», ma ricorre ad altre parole chiave: «setta» appunto, e poi «camorra», «infamia», «umiltà». In che senso «umiltà»? Spiega Turrisi: «umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati». Due anni dopo lo stesso Turrisi chiamerà la setta con il suo nuovo nome, mafia, testimoniando davanti alla Commissione parlamentare sulla rivolta del 1866. Dirà: questi uomini armati «si fanno o si impongono guardiani della proprietà; proteggono le proprietà e ne sono protetti; ma restano malandrini; la Mafia fu protetta da’ signori che se ne valsero nel ’48». E il cerchio si chiude.

La prima volta che il termine «maffia» (con due effe) compare in un documento governativo è in una relazione del prefetto di Palermo Filippo Gualterio (nel 1865). Il funzionario spiegava che la mafia era una specie di «camorra», un’«associazione malandrinesca» in rapporto con i «potenti», a suo tempo guidata dal già citato Corrao e ora capeggiata dal suo sodale Badia. In altre parole «la faceva coincidere col partito repubblicano, col chiaro intento di delegittimarlo», osserva Lupo. L’operazione politica di Gualterio consisteva nel «mettere insieme promiscuamente l’aspetto politico e quello criminale». Il primo giuramento di mafia registrato in un rapporto di polizia è del 29 febbraio 1876. Il rito, scrive Lupo, ci rinvia non solo al futuro della mafia, ma anche al passato della rivoluzione, in particolare alle «vendite» carbonare e a quei patti «giurati» (di cui dicono le fonti sul 1848), in forza dei quali il popolo prometteva di seguire le classi superiori nella lotta contro il dispotismo borbonico, ma impegnandosi a non mettere in discussione l’ordine sociale». Dopodiché la mafia non solo trasse originariamente suggestioni o modelli dalla massoneria, ma condivise con la stessa massoneria «alcuni caratteri di fondo». Qui Lupo afferma — pur senza «voler criminalizzare la tradizione massonica», mette in chiaro — che «le cosche mafiose e le logge massoniche sono società di confratelli che si basano sull’idea del mutuo sostegno, usano rituali barocchi per l’ammissione dei neofiti, puntano sul mantenimento del segreto». E in questo sono assai simili tra loro. Nel 1874 l’ultimo governo della Destra storica, guidato da Marco Minghetti, propose una legge per l’ordine pubblico, una legge «straordinaria» e specifica per la Sicilia. Minghetti citò la statistica sugli omicidi del 1873 che vedeva l’isola in testa tra le regioni d’Italia, con un omicidio ogni 3.194 persone, laddove la Lombardia era in coda, con un ucciso ogni 44.674 abitanti. Il prefetto di Palermo, Giovacchino Rasponi, protestò per il varo della «legge straordinaria» e si dimise. Quello di Caltanissetta, Guido Fortuzzi, si disse, invece, entusiasta e volle specificare che l’idea di governare i siciliani «con leggi e ordinamenti all’inglese o alla belga, che suppongono un popolo colto e morale come colà o come almeno nella parte superiore della penisola», implica «un azzardoso e terribile esperimento». Destinato a fallire. Successivamente i sospetti di collusione si spostarono sulla destra per iniziativa del procuratore generale del re Diego Tajani, che ebbe uno scontro con il questore di Palermo Giuseppe Albanese, da lui accusato di essere il mandante di una catena di omicidi. Nel giugno del 1875 il caso arriva in Parlamento, dove il deputato della Sinistra Francesco Cordova puntò l’indice contro i banchi governativi: «Signori del governo», urlò, «il centro della maffia è nelle fila della vostra forza pubblica, i manutengoli siete voi». E quando Leopoldo Franchetti con Sidney Sonnino andò a trovare Tajani prima di «scendere» — tra il marzo e il maggio del 1876 — a studiare il «caso siciliano», l’uomo del re rivelò loro che la degenerazione del governo della Destra in Sicilia era cominciata, a suo avviso, nel 1866-67 essendo prefetto Antonio Starabba, marchese Rudinì. Il quale Rudinì, disse Tajani, «principiò a impiegare assassini contro assassini, per modo che per un assassino che distruggeva ne creava quattro». E l’uso della forza per combattere la mafia? Negli anni iniziali della storia d’Italia, quando il Paese fu governato dalla Destra storica (1861-76), «ancora non era ben consolidato il sistema delle garanzie liberali e si era appena avviato il tormentato percorso verso la democrazia politica». La prima battaglia di quell’epoca contro la mafia fu combattuta sotto il segno di un sistema di governo centralistico, autoritario, che non disdegnava di far ricorso allo stato d’assedio e di affidarsi ai militari. Accadeva che «per difendere la propria rozza idea di legalità, indulgesse ad ogni genere di sostanziale illegalismo». In alcuni periodi storici, almeno due, «la lotta alla mafia — sostiene Lupo — confinò con la negazione di valori, che per noi sono irrinunciabili, di rispetto dei diritti individuali e collettivi, insomma di libertà». La mafia, è vero, rappresenta una patologia delle relazioni sociali e dei sistemi rappresentativi. Ma, afferma Lupo, alcune delle soluzioni che storicamente sono state proposte possono ai nostri occhi essere considerate peggiori del male.Dopodiché vanno annotate anche le due stagioni, quella tardo ottocentesca della Sinistra storica e quella della prima età repubblicana, che Lupo definisce del «lungo armistizio». Ne parlò per primo, subito dopo la Grande guerra, il giurista Santi Romano, il quale notò come ai suoi tempi l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si mostrasse tollerante verso quelli «minori» (le associazioni) reagendo solo contro quelle che ne minacciavano il potere (le organizzazioni rivoluzionarie). La mafia poteva agevolmente essere collocata in questo schema. Sotto la minaccia delle leggi statuali, scriveva Santi Romano, «vivono spesso, nell’ombra, associazioni, la cui organizzazione si direbbe quasi analoga, in piccolo, a quella dello Stato: hanno autorità legislative ed esecutive, tribunali che dirimono controversie e puniscono, agenti che eseguono inesorabilmente le punizioni, statuti elaborati e precisi come le leggi statuali». Esse dunque, proseguiva Santi Romano, «realizzano un proprio ordine, come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite». Lo Stato italiano (liberale-monarchico, fascista e repubblicano) ha oscillato tra fasi di tolleranza e fasi di repressione. Ma le prime sono state assai più lunghe delle seconde. Lo storico propone un paragone tra la lotta alla mafia di Cesare Mori (1926-1929) e quella degli anni Ottanta, rilevandone le differenze a partire da quelle concettuali. Il fascismo «aborriva l’idea di una spinta dal basso nonché di un’autonoma partecipazione della società civile» e «sosteneva l’incompatibilità tra logiche liberal-democratiche da un lato e legalità dall’altro». Sul piano pratico la repressione fascista fu pesante, «spesso indiscriminata» e «si accompagnò ad ogni genere di abuso». Però dai processi di quell’epoca la grande maggioranza degli imputati «uscì bene»: molte delle condanne furono di «modesta entità» e seguì un’amnistia. Niente a che vedere, sottolinea l’autore, con le pesantissime pene inflitte ai mafiosi dai tribunali della Repubblica a partire dal 1985-86. Lupo non crede alla «leggenda» («priva di qualsiasi base documentaria») stando alla quale lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 sarebbe stato «il frutto di un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi». E anche a proposito della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) non gli sembra «sia venuto qualcosa di serio dai vari tentativi di dimostrare che gli americani abbiano avuto in essa qualche responsabilità», mentre «è vero», concede, «che, in generale, intorno alla vicenda del bandito Salvatore Giuliano si intrecciarono complotti a ogni livello». Molti sono stati quelli che (in Italia e altrove) hanno ricondotto i successi della mafia nel secondo Novecento alle «trame del governo statunitense o delle sue agenzie di sicurezza, nell’ambito di strategie della tensione destinate ad inquinare in permanenza la vita democratica della nostra Repubblica». Si tratta, per Lupo, di una tesi «che ha avuto fortuna nella cultura di sinistra, sinistra che è stata a lungo antiamericana per definizione». Ma questa tesi ha spopolato anche «su altri versanti che antiamericani non lo sono stati mai». Ora, secondo l’autore, «può darsi che, nei giochi complicati dei servizi segreti, qualche spezzone di qualche agenzia statunitense abbia tramato con qualche banda mafiosa americana o siciliana». Però in sostanza l’unica cosa «provata» è questa: «Più volte il governo statunitense intervenne, anche su sollecitazione dell’agenzia federale antidroga (il Narcotic Bureau) perché le autorità italiane facessero qualcosa contro la mafia, ottenendo scarso successo». Nient’altro. Lupo si dice consapevole che solo parzialmente la ricerca può illuminare gli spazi torbidi oscuri in cui si sviluppa questo fenomeno, la rete di intrighi che «costituisce la storia della mafia». Ritiene però che «la storiografia possa fare la sua parte, dal punto di vista conoscitivo e anche da quello civile, evitando di accreditare le mitologie del Super-complotto». Sottraendosi cioè alla tentazione di «seguire la china della discussione pubblica, che troppo spesso si ubriaca dell’immagine della mafia come invincibile super-potere: finendo per risolversi, quali che siano le sue intenzioni, in una sottile apologia». Un’apologia che rischia di provocare un danno non lieve, che va ad aggiungersi a quelli provocati dalla mafia in sé.

La mafia sono più organizzazioni malavitose, con una struttura univoca e piramidale (Cosa Nostra) o nucleare autonoma estesa e tentacolare (Camorra e 'Ndrangheta), che affondano i loro tentacoli in tutti gli aspetti politici ed economici del paese. E' importante la definizione della mafia data da Franchetti e Sonnino nella relazione finale della Commissione d'inchiesta, istituita nel 1875/76, dove si legge che «la mafia non è un'associazione che abbia forme stabili e organismi speciali... Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male».

Del termine mafia sono state individuate diverse possibili origini etimologiche. Alcuni sostengono che mafia derivi dalla parola araba Ma Hias, "spacconeria", che sta in relazione con la spavalderia mostrata dagli appartenenti a tale organizzazione.

Altra derivazione possibile sarebbe sempre dalla lingua araba dalla parola mu'afak, che significa “protezione dei deboli".

Ancora altri fanno la fanno derivare da maha, "cava di pietra"; dove si rifugiavano fautori dell'unità d'Italia e le squadre rurali occulte in appoggio a Garibaldi, che poi sarebbero stati ribattezzati mafiosi.

Un'altra ricostruzione è quella fatta nel 1897 dallo storico William Heckethorn che considera il termine mafia come acronimo di Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti. Tale appello sarebbe stato rivolto alle organizzazioni segrete che nascevano sull'isola.

Infine, un’altra ricostruzione abbastanza leggendaria narra che un soldato francese chiamato Droetto violentò una giovane e che la madre terrorizzata per quanto accaduto alla figlia corse per le strade, urlando «Ma – ffia! Ma - ffia!» ovvero «mia figlia! mia figlia!» . Il grido della madre, ripetuto da altri, da Palermo si diffuse in tutta la Sicilia. Il termine mafia diventò così parola d'ordine del movimento di resistenza ed ebbe quindi genesi dalla lotta dei siciliani.

L'espressione mafia diviene un termine corrente a partire dal 1863, con il dramma “I mafiusi de la Vicaria” di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, diffondendo il termine su tutto il territorio nazionale.

Il documento ufficiale nel quale appare per la prima volta il termine mafia fu il rapporto del prefetto di Palermo Filippo Gualterio dell'aprile 1865, con riferimento a un'"associazione malandrinesca" ritenuta "dipendente dai partiti" e in particolare collegata con gli oppositori, dai borbonici ai garibaldini, ed era stato indicato tra i capi il generale garibaldino Corrao, ucciso nell'agosto del 1863. 

Le origini. Sul  periodo storico entro il quale collocare la data di nascita della mafia non vi è univocità di opinioni tra gli studiosi che si sono occupati del fenomeno. La diversità di opinioni nasce dal fatto che questa organizzazione, essendo segreta, non ha lasciato documenti scritti della sua costituzione, elenchi dei partecipanti, norme di comportamento, o regolamenti. Alcuni fanno risalire l'origine della mafia ai primi dell’ottocento  a seguito della progressiva scomparsa del mondo feudale e della nascita del processo di privatizzazione delle terre.

Il processo che porta alla stretta connessione tra brigantaggio e mafia è un percorso lungo e radicato nella tradizione sociale meridionale che incomincia a proporsi come problema ufficiale soltanto con l’unificazione d’Italia nel 1861, perché la fusione delle due “Italie”, la realtà settentrionale e quella meridionale, costringe all’inevitabile scontro di sistemi di vita che fino ad allora si erano ignorati reciprocamente. La noncuranza verso il prossimo, il rifiuto d’interesse riguardo ai problemi del Sud da parte del settentrione, però, ha accentuato l’ormai evidente inadeguatezza del meridione nella questione risorgimentale all’interno della quale nessun cittadino appartenente all’ex-regno borbonico avrebbe mai riconosciuto quegli ideali o quegli interessi come propri. Questo perché l’unificazione dello Stato italiano si è presentata fin dall’inizio come una “piemontesizzazione” degli Stati, lasciando così pochissimo o inesistente spazio decisionale alla realtà del Mezzogiorno. Chiaramente, nonostante quest’ufficiosa estromissione del Sud dalla realtà italiana, il problema della coesione tra dimensioni sociali differenti incomincia a farsi sentire con più insistenza rispetto ai secoli precedenti.  L’indubitabile necessità di riforme sociali, di cambiamenti nel settore economico-finanziario, amministrativo e politico sono manifestazioni di una propensione all’unificazione non solo fisica tra Nord e Sud. 

L’annientamento del feudalesimo, la subordinazione economica e sociale del contadino al latifondista, manifestatasi sempre come una sorta di vassallaggio tra bracciante e proprietario, l’eliminazione dei sistemi clientelari, l’emancipazione delle masse dal punto di vista culturale sono stati fin dall’inizio i concreti programmi d’ammodernamento di cui il Mezzogiorno ha avuto un netto bisogno. Ad essi si opponevano le teorie tardo-illuministiche dell’epoca che inquadravano la terra del Sud come il luogo ideale per incoraggiare la rivoluzione, poiché per l’arretratezza del sistema e l’insufficienza d’informazione i contadini non avrebbero fatto resistenza a qualsiasi cambiamento. Ovviamente gli intellettuali del Nord, progressisti e aggiornati, non erano di certo informati sulla chiusura del Sud e le loro illusioni non tenevano conto della realtà. 

Esempio n’è la spedizione di Pisacane, socialista radicale, che nel 1857 vede sconfitta l’illusione di una cooperazione attiva da parte dei contadini a causa della diseducazione politica e della demotivazione delle masse. La sfiducia del popolo meridionale nei confronti delle organizzazioni e delle rappresentazioni democratiche, il binomio “nuovo governo - nuovo padrone”, l’analfabetismo, il distacco dalle questioni politiche, la lontananza dagli ideali e dalle parole d’ordine del tempo, i sistemi d’amministrazione paralleli (quali il clientelismo politico e la protezione criminale), costituiscono un quadro generale di una società che, fin dai primi tempi, si prospetta come un mondo circoscritto alle proprie ristrettezze economiche e alle proprie tradizioni;  una terra sulla quale tutti hanno, però, sempre teso le mani: un’ipotetica “isola del tesoro” in cui fioriscono aranci e limoni, dove la pesca e l’allevamento sono redditizi, dove la terra è pervasa da una sorta di humus alchemico che, unito all’abbondanza d’acque, converge a creare un’economia florida, ma mal sfruttata.

Le prime origini della mafia risalgono alla seconda metà del XIX secolo quando, nonostante le apparenti novità portate dall’unificazione italiana, continuò a mantenersi in Sicilia il sistema feudale che vedeva le grandi proprietà terriere nelle mani di pochi baroni, ai quali si andava a poco a poco sostituendo la nuova classe emergente dei “ burgisi ”. Come gli antichi baroni, anche i nuovi proprietari non coltivavano direttamente i loro feudi, ma ne affidavano la gestione ad un intermediario, “ il gabelloto “, grande affittuario del feudo che dava quote a piccoli coltivatori a compartecipazione. Al servizio del gabelloto c’era il campiere, sorta di guardia armata, cui si affidava il compito di assicurare l’ordine costituito nella campagna. Alle origini e fino alla metà del secolo XX, la mafia fu soprattutto “mafia del feudo” articolata in gruppi di potere ( le cosiddette cosche ) che agivano su territori ben delineati e si arrogavano il diritto di dirimere controversie, ricorrendo anche all’uso della forza. E già fin dai primi anni del regno, si determinò la tendenza del trasferimento, il così detto “sistema mafioso”, al campo dell’attività politica e amministrativa. Fin dalle sue origini, quindi, la mafia si rivelò un elemento determinante della competizione politica come garante del poter costituito. Tale funzione di garante della conservazione fu assolta soprattutto tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo in opposizione al movimento contadino che, dopo la fase protestatoria dei Fasci dei lavoratori, si organizzò in leghe e cooperative per la tutela dei braccianti e per la gestione diretta della terra. Furono quelli gli anni della repressione di ogni forma di rivendicazione: si pensi ai gravi episodi del 1904 contro le cooperative agricole, alla soppressione degli organizzatori dell’occupazione di terre incolte del primo dopoguerra e alle sanguinose rappresaglie di sindacalisti verificatesi tra il 1946 e il 1955.

Cronologia Caduti nella lotta alle mafie e per la democrazia e vittime innocenti (da legalitaegiustizia.it):

1861

3 marzo. A Santa Margherita Belice (Agrigento) viene ucciso il medico Giuseppe Montalbano che guidava i contadini che rivendicavano le terre usurpate da Giovanna Filangeri, nonna dello scrittore Tomasi di Lampedusa.

17 maggio. A Palermo viene ucciso Pietro Sampolo, docente di diritto. Sono rimasti ignoti mandanti ed esecutori, ma si è ipotizzata la pista mafiosa.

1863

3 agosto. A Palermo viene ucciso Giovanni Corrao, generale garibaldino: un delitto “politico-mafioso” teso ad eliminare un protagonista della vita politica, scomodo per le sue doti e per il seguito popolare di cui godeva.

1872

26 novembre. A S. Mauro Castelverde (Palermo) ucciso dalla banda Rocca-Rinaldi il sindaco trentenne Giuseppe Pace Torrisi, che si adoperava per la cattura dei banditi.

1876

15 giugno. A Bagheria (Palermo) viene ucciso il caporale delle guardie campestri Giuseppe Aguglia che si opponeva apertamente alla mafia della zona.

1878

10 marzo. A Palermo scompare la diciassettenne Anna Nocera, ad opera del mafioso Leonardo Amoroso che dopo averla sedotta voleva disfarsi di lei.

1889

25 febbraio. A Castelbuono (Palermo) si suicida il delegato di Pubblica sicurezza Stanislao Rampolla. Aveva denunciato le compromissioni del sindaco di Marineo (Palermo) con la mafia. Il sindaco era rimasto al suo posto e il funzionario era stato trasferito.

1893

20 gennaio. A Caltavuturo (Palermo) l’esercito spara sui contadini che avevano occupato le terre che avrebbero dovuto essere divise per compensare l’abolizione degli usi civici e che erano state usurpate da alcuni borghesi: 13 morti e molti feriti.

1 febbraio. Sul treno tra Trabia e Palermo, viene ucciso Emanuele Notarbartolo, sindaco di Palermo dal 1873 al 1875 e direttore del Banco di Sicilia dal 1876 al 1890. Avveduto amministratore e incorruttibile moralizzatore si era opposto alle manovre speculative per il controllo del Banco.

25 dicembre. Natale di sangue a Lercara Friddi (Palermo). Durante una manifestazione contro le tasse i soldati sparano sui dimostranti. 7 morti: Antonino Di Gregorio,Antonina Greco, Paolo Lo Monaco, Gaspare Mavaro, Francesco Piazza, Teresa Seminerio, Stefano Vicari, e vari feriti. Il “tumulto” di?Lercara si spiega con le ambiguità del Fascio locale e la contrapposizione tra due famiglie rivali. Nel processo ai dirigenti dei Fasci siciliani sarà incriminato e condannato Bernardino Verro.

1894

1 gennaio. A Pietraperzia, attualmente in provincia di Enna, durante una manifestazione contro le tasse comunali, i soldati sparano sulla folla: 8 morti, tra cui una bambina, e 15 feriti. È uno degli ultimi episodi della vicenda dei Fasci siciliani, privi di direzione in seguito all’arresto dei dirigenti, assimilabili alle tradizionali rivolte contadine represse nel sangue dalle forze dell’ordine.

2 gennaio. A Gibellina (Trapani) manifestazione contro le tasse comunali. Alcune guardie campestri e i soldati aprono il fuoco (i militari senza squilli di tromba): 14 morti tra i manifestanti. Il pretore Tommaso Casapinta, che erroneamente si credeva che avesse ordinato il fuoco, viene ucciso a sassate e bastonate.

Lo stesso giorno a Belmonte Mezzagno (Palermo) scontro tra soldati e manifestanti. Due morti: il soldato Francesco Sculli e il contadino Stefano Monte.

3 gennaio. Viene decretato lo stato d’assedio in Sicilia, i Fasci dei lavoratori sono sciolti e i dirigenti vengono arrestati e processati. A Marineo (Palermo) durante una manifestazione contro le tasse le forze dell’ordine sparano sui dimostranti. Rimasero uccisi: Filippo Barbaccia (anni 65), Giorgio Dragotta (26), Antonino Francaviglia(43), Giovanni Greco (24), Concetta Lombardo (o Barcia) (40), Matteo Maneri (36), Ciro (o Andrea) Raineri (42), Michele Russo (25), Filippo Triolo (43). Morirono successivamente: Giuseppe Daidone (40), Santo Lo Pinto (mesi 9), Antonino Mansello (o Manzello) (32), Anna Oliveri (anni 1), Cira Russo (mesi 9),Antonino Salerno (anni 2), Maria Spinella (2), Giuseppe Taormina (46).

5 gennaio. A Santa Caterina Villarmosa (Caltanissetta) manifestazione contro le tasse. L’esercito spara sulla folla: 14 morti e molti feriti.

1896

27 dicembre 1896. A Palermo viene uccisa Emanuela Sansone, figlia diciassettenne della bettoliera Giuseppa Di Sano. I mafiosi sospettavano che la madre li avesse denunciati per fabbricazione di banconote false.

1904

13 settembre. A Castelluzzo, borgata di Monte San Giuliano (l’attuale Erice, in provincia di Trapani), i carabinieri sparano sui contadini soci di una cooperativa, riunitisi per svolgere delle pratiche per prendere in affittanza collettiva dei terreni: 2 morti, Vito Lombardo e Giuseppe Poma, e 8 feriti, tra cui una donna.

1905

14 ottobre. A Corleone (Palermo) viene ucciso Luciano Nicoletti, bracciante, impegnato nelle lotte dei Fasci siciliani e per le affittanze collettive.

1906

12 gennaio. A Corleone uccisione del medico Andrea Orlando che aveva sostenuto le lotte dei contadini per le affittanze collettive e per il rinnovo dell’amministrazione comunale.

1909

12 marzo. A Palermo, in Piazza Marina, uccisione del tenente di polizia degli Stati Uniti Joe Petrosino, in Sicilia per indagare sull’emigrazione clandestina. Indiziato dell’omicidio è il capomafia Vito Cascio Ferro ma il delitto rimane impunito.

1911

16 maggio. A Santo Stefano Quisquina (Agrigento) uccisione di Lorenzo Panepinto, dirigente del movimento contadino e del Partito socialista. Sospettato dell’omicidio è il gabelloto Giuseppe Anzalone, figlioccio del Ministro di Grazia e Giustizia Camillo Finocchiaro Aprile. Il processo svoltosi a Catania vide l’abbandono degli avvocati di parte civile e si concluse con l’assoluzione dell’imputato.

1914

20 maggio. A Piana dei Greci (Palermo) viene assassinato il dirigente socialista Mariano Barbato, cugino di Nicola Barbato, uno dei dirigenti più prestigiosi del movimento contadino, assieme al cognato Giorgio Pecoraro.

1915

3 novembre. A Corleone (Palermo) uccisione di Bernardino Verro, uno dei principali organizzatori del movimento contadino fin dai tempi dei Fasci siciliani, dirigente del Partito socialista, sindaco del paese.

1916

Febbraio. A Palermo, nella borgata di Ciaculli, ucciso il sacerdote Giorgio Gennaro, che aveva denunciato il ruolo dei mafiosi nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche.

1919

29 gennaio. A Corleone (Palermo) uccisione di Giovanni Zangara, dirigente del movimento contadino e assessore comunale della giunta socialista.

6 luglio. A Resuttano (Caltanissetta) muore l’arciprete Costantino Stella. Era stato accoltellato, il 29 giugno sulla porta di casa, da un sicario rimasto sconosciuto. Don Stella era un “prete sociale” impegnato in varie attività e aveva fondato la Cassa rurale e artigiana.

22 settembre. A Prizzi (Palermo) ucciso Giuseppe Rumore, segretario della Lega contadina.

9 ottobre. A Terranova (l’attuale Gela) uccisi durante una manifestazione i contadini socialisti Vincenzo Catutti e Giuseppe Iozza. Il procedimento contro rappresentanti delle forze dell’ordine si concluse con il proscioglimento.

10 dicembre. A Gangi (Palermo) ucciso dal brigante Nicolò Andaloro il maresciallo dei carabinieri Francesco Tralongo.

13 dicembre. A Barrafranca (Enna) uccisione del presidente della Lega per il miglioramento agricolo Alfonso Canzio. Organizzava le lotte contadine per l’esproprio dei latifondi.

1920

29 febbraio. A Prizzi (Palermo) uccisione di Nicolò Alongi, dirigente del movimento contadino. La dirigente socialista Maria Giudice e il segretario del sindacato dei metalmeccanici di Palermo Giovanni Orcel indicano come mandante il capomafia di Prizzi Silvestro Gristina, indicato dallo stesso Alongi come responsabile del suo previsto assassinio, ma il delitto rimarrà impunito.

30 settembre. Nel corso del mese di settembre, nella frazione Raffo di Petralia Soprana (Palermo), sono uccisi Paolo Li Puma e Croce Di Gangi, consiglieri comunali socialisti.

3 ottobre. A Noto (Siracusa) uccisione del sindacalista socialista Paolo Mirmina. Anche in Sicilia orientale negli anni che precedono l’avvento del fascismo è in atto un’offensiva condotta da agrari, mafiosi, dove ci sono, e nazionalisti che attaccano le giunte comunali di sinistra e colpiscono dirigenti e militanti impegnati nelle occupazioni delle terre e nella difesa della democrazia.

14 ottobre. A Palermo, in corso Vittorio Emanuele, con un colpo di pugnale viene assassinato Giovanni Orcel. Segretario della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, direttore del foglio “La Dittatura proletaria”, aveva organizzato l’occupazione del Cantiere navale con l’autogestione operaia e assieme a Nicolò Alongi aveva avviato forme di lotta unitaria con il movimento contadino.

17 ottobre. A Trapani ucciso il socialista Pietro Grammatico.

27 ottobre. A Vita (Trapani) viene ucciso il capolega Giuseppe Monticciuolo. Il prefetto di Trapani scriveva: “La sua fine fu decisa perché Presidente dell’Associazione pel miglioramento dei contadini ed esponente maggiore dell’agitazione agraria in Vita”.

6 novembre. A Monte San Giuliano (l’attuale Erice) ucciso il socialista Giovanni Augugliaro.

27 novembre. A Gibellina (Trapani) viene ucciso l’arciprete Stefano Caronia, organizzatore della sezione locale del Partito popolare, che aveva contrastato la mafia chiedendo di controllare personalmente l’esazione dei censi enfiteutici ecclesiastici.

26 dicembre. A Casteltermini (Agrigento) quattro mafiosi lanciano una bomba nella sezione socialista uccidendo 5 persone: Giuseppe Zaffuto segretario della sezione,Calogero Faldetta, Gaetano Circo, Carmelo Minardi e Salvatore Varsalona. Secondo gli inquirenti responsabili furono mafiosi della Valle del Platani.

1921

29 gennaio. A Vittoria (Ragusa) combattenti di orientamento nazionalista, fascisti e il gruppo mafioso locale devastano il circolo socialista e sparano sui lavoratori, provocando la morte di Giuseppe Compagna, consigliere comunale socialista.

19 febbraio. Nelle campagne di Salemi (Trapani) ucciso il contadino socialista Pietro Ponzo. Impegnato nelle lotte contadine fin dai Fasci siciliani, presidente della Cooperativa Agricola di Salemi. Negli anni 1919-1920 partecipa alle manifestazioni e alle occupazioni delle terre per l’assegnazione dei latifondi.

28 aprile. A Piana dei Greci, dal 1941 degli Albanesi (Palermo), assassinio del presidente della Lega dei contadini Vito Stassi, detto Carusci. Consigliere comunale socialista nel 1907 e nel 1914, era un protagonista delle lotte contadine per l’assegnazione delle terre incolte.

4 maggio. A Piana dei Greci (Palermo) uccisione dei militanti socialisti Vito e Giuseppe Cassarà.

1922

16 gennaio. A Paceco (Trapani) vengono uccisi Domenico Spatola, militante comunista, Mario e Pietro Paolo Spatola, figli del dirigente comunista Giacomo, protagonista delle lotte contadine fin dai Fasci siciliani.

23 gennaio. A Castelvetrano (Trapani), ferito in un agguato Tommaso Mangiapanello, organizzatore delle lotte agrarie e assessore comunale socialista. Muore il giorno dopo.

16 febbraio. A Dattilo-Paceco (Trapani) viene ucciso Antonino Scuderi, consigliere comunale socialista e segretario della locale Società Agricola Cooperativa.

10 giugno. Sulla strada provinciale per Monte San Giuliano (l’attuale Erice, Trapani) viene ucciso Sebastiano Bonfiglio, sindaco socialista del paese. Membro della direzione del Partito socialista, era uno dei più significativi organizzatori delle lotte contadine e della resistenza al fascismo.

1943

2 settembre. Nei pressi di San Giuseppe Jato (Palermo) il ventunenne Salvatore Giuliano uccide il carabiniere Antonio Mancino, di 24 anni, che voleva sequestrargli dei sacchi di grano trasportati in contravvenzione alle norme sul contrabbando. Giuliano si dà alla latitanza e comincia così la sua carriera di bandito che durerà fino al 5 luglio 1950.

1944

29 marzo. A Partinico (Palermo), durante una dimostrazione contro il carovita, rimane ucciso per un colpo d’arma da fuoco il ragazzo Lorenzo Pupillo. Il maresciallo Benedetto Scaglione, ritenuto responsabile dell’uccisione del ragazzo, viene ferito da una bomba a mano e muore dissanguato.

27 maggio. A Regalbuto (Enna), nel corso di disordini in occasione di un raduno separatista, viene ucciso Santi Milisenna, segretario della federazione comunista di Enna.

6 agosto. A Casteldaccia (Palermo) omicidio di Andrea Raia, militante comunista e componente del comitato di controllo sui granai del popolo. “La Voce comunista” del 12 agosto scrive: “Le modalità dell’assassinio sono tali da fare sicuramente ritenere che gli esecutori materiali siano da ricercare tra i maffiosi locali”.

19 ottobre. A Palermo durante una manifestazione contro il carovita davanti alla Prefettura, l’esercito spara sui manifestanti. Secondo le dichiarazioni ufficiali i morti furono 19 e 108 i feriti. Secondo il Comitato di Liberazione i morti furono 30 e i feriti 150. Tra le vittime molti ragazzi. Nel cinquantesimo anniversario della strage a Palazzo Comitini, prima sede della Prefettura ed ora della Provincia, è stata scoperta una lapide che riporta i nomi di 24 caduti: Giuseppe Balistreri di anni 16, Vincenzo Buccio di anni 22, Vincenzo Cacciatore di anni 38, Domenico Cordone di anni 16, Rosario Corsaro di anni 30, Michele Damiano di anni 12, Natale D’Atria di anni 28,Giuseppe Ferrante di anni 18, Vincenzo Galatà di anni 19, Carmelo Gandolfo di anni 25, Francesco Giannotta di anni 22, Salvatore Grifati di anni 9, Eugenio Lanzarone di anni 20, Gioacchino La Spisa di anni 17, Rosario Lo Verde di anni 17, Giuseppe Maligno di anni 22, Erasmo Midolo di anni 19, Andrea Oliveri di anni 15, Salvatore Orlando di anni 17, Cristina Parrinello di anni 68, Anna Pecoraro di anni 37, Vincenzo Puccio di anni 22, Giacomo Venturelli di anni 70, Aldo Volpesdi anni 23.

1945

28 marzo. A Corleone (Palermo) uccisione della guardia campestre Calogero Comajanni. Aveva denunciato un furto commesso da Luciano Liggio.

20 giugno. A San Giuseppe Jato (Palermo) la banda Giuliano uccide il maresciallo dei carabinieri Filippo Scimone.

11 settembre. A Ficarazzi (Palermo) uccisione di Agostino D’Alessandria, guardiano di pozzi e segretario della Camera del lavoro, che aveva avviato una lotta contro il controllo mafioso dell’acqua per l’irrigazione dei giardini.

18 settembre. A Palma di Montechiaro (Agrigento) in un conflitto a fuoco con dei banditi muoiono i carabinieri Calogero Cicero e Fedele De Francisca.

16 ottobre. Nei pressi di Niscemi (Caltanissetta) in un conflitto a fuoco con i banditi cadono tre carabinieri: Michele Di Miceli, Mario Paoletti, Rosario Pagano.

18 novembre. A Cattolica Eraclea (Agrigento) ucciso il segretario della Camera del Lavoro Giuseppe Scalia. In un conflitto a fuoco con i mafiosi viene colpito a morte Scalia e rimane ferito il vicesindaco socialista Aurelio Bentivegna.

4 dicembre. A Ventimiglia (Palermo) viene assassinato Giuseppe Puntarello, segretario della locale sezione del Partito comunista, impegnato nel movimento contadino.

1946

8 gennaio. A Partinico (Palermo) banditi della banda Giuliano uccidono il carabiniere Vincenzo Miserendino.

18 gennaio. Nei pressi di Montelepre (Palermo) in un’imboscata tesa dalla banda Giuliano muoiono 4 militari: Vitangelo Cinquepalmi, Vittorio Epifani, Angelo Lombardi, Imerio Piccini.

28 gennaio. In territorio di Gela (Caltanissetta) agguato della banda dei “niscemesi”. Uccisi i carabinieri Vincenzo Amenduni, Fiorentino Bonfiglio, Mario Boscone,Emanuele Greco, Giovanni La Brocca, Vittorio Levico, Pietro Loria, Mario Spampinato. I corpi, gettati in una miniera, saranno ritrovati il 25 maggio del ’46.

7 marzo. A Burgio (Agrigento) ucciso il segretario della Camera del lavoro Antonino Guarisco. Rimane uccisa anche la passante Marina Spinelli.

25 marzo. Nelle campagne di Pioppo, frazione di Monreale (Palermo), trovato il corpo del carabiniere Francesco Sassano. Accanto un foglio con la scritta: “Questa è la fine delle spie. Giuliano”.

25 aprile. A San Cipirello (Palermo) nella notte tra il 25 e il 26 aprile banditi della banda Giuliano uccidono i fratelli Giuseppe e Mario Misuraca, feriscono l’altro fratello Salvatore e il cognato Salvatore Cappello. È un’esecuzione in piena regola, come punizione per aver abbandonato la banda e avere cominciato a collaborare con la giustizia.

16 maggio. A Favara (Agrigento) viene ucciso il sindaco socialista Gaetano Guarino. Farmacista, nelle elezioni comunali del marzo precedente si era candidato nella lista del Blocco del popolo che aveva ottenuto un gran numero di voti.

28 giugno. Uccisione del sindaco socialista di Naro (Agrigento) e dirigente contadino Pino Camilleri. Colpito con fucile caricato a lupara mentre si recava a cavallo a Riesi (Caltanissetta), al feudo Deliella, oggetto di contesa tra gabelloti mafiosi e contadini.

22 settembre. Ad Alia (Palermo) una bomba lanciata all’interno della casa del segretario della Camera del lavoro, dove si svolgeva una riunione di contadini, uccide Giovanni Castiglione e Girolamo Scaccia e ferisce 13 persone. I contadini stavano preparando l’occupazione dei feudi gestiti da gabelloti mafiosi.

6 ottobre. A Castronovo (Palermo) durante un comizio per le elezioni comunali, una bomba viene lanciata tra la folla: 3 morti e 17 feriti.

22 ottobre. A Santa Ninfa (Trapani) viene ucciso Giuseppe Biondo, mezzadro iscritto alla Federterra, che lottava per l’applicazione della legge sulla divisione del prodotto al 60% per il mezzadro e al 40% per il proprietario. Era stato sfrattato illegalmente dal proprietario del terreno ma era tornato a lavorarvi.

2 novembre. Nelle campagne di Belmonte Mezzagno (Palermo) vengono uccisi i fratelli Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Santangelo, contadini. Con loro erano due ragazzi, fatti allontanare da tredici banditi che sparano ai contadini alla nuca come se si trattasse di un’esecuzione. È rimasto oscuro il movente ma è evidente l’intento di terrorizzare i contadini della zona.

25 novembre. A Joppolo (Agrigento) viene ucciso Giovanni Severino, segretario della Camera del lavoro.

28 novembre. A Calabricata (Crotone) un campiere uccide Giuditta Levato, di 31 anni, madre di due figli e incinta, protagonista delle lotte contadine di Calabria.

21 dicembre. A Baucina (Palermo) attentato a Nicolò Azoti, segretario della Camera del lavoro. Otto giorni prima era stato avvicinato con toni minacciosi dal gabelloto del feudo Traversa che i contadini chiedevano in concessione. Muore il 23 dicembre.

1947

4 gennaio. A Sciacca (Agrigento) uccisione di Accursio Miraglia, segretario della Camera del lavoro e dirigente comunista. Il delitto, come del resto tutti gli omicidi di dirigenti e militanti del movimento contadino, è rimasto impunito.

17 gennaio. A Ficarazzi (Palermo) viene ucciso Pietro Macchiarella, militante del Partito comunista, impegnato nelle lotte contadine.

13 febbraio. A Villabate (Palermo) ucciso il sindacalista Nunzio Sansone.

7 marzo. A Messina, durante una manifestazione contro il carovita, i carabinieri al grido di “Avanti Savoia” (c’era già la Repubblica) sparano sulla folla. Uccisi i manifestantiBiagio Pellegrino e Giuseppe Maiorana. 15 feriti.

13 aprile. A Petilia Policastro (Catanzaro), nel corso di una manifestazione di contadini, la polizia spara uccidendo Francesco Mascaro e Isabella Carvelli e ferendo molti altri manifestanti.

29 aprile. A Potenza, durante una manifestazione per il lavoro, sono uccisi dalle forze dell’ordine Antonio Bastiano e Pietro Rosa.

1 maggio. Strage di Portella della Ginestra (Palermo). Nel pianoro tra Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, dove fin dai tempi dei Fasci siciliani si manifestava per il primo maggio, quell’anno i contadini erano affluiti in gran numero per la festa del lavoro e per festeggiare la vittoria delle sinistre raccolte nel Blocco del popolo alle prime elezioni regionali del 20 aprile. Improvvisamente dalla montagne circostanti si comincia a sparare sulla folla. Secondo le fonti ufficiali ci furono 11 morti e 27 feriti. In realtà i morti furono di più (alcuni morirono successivamente per le ferite riportate) e il numero dei feriti varia da 33 a 65.

Morirono sul colpo: Margherita Clesceri, madre di sei figli e incinta, Giorgio Cusenza, Castrense Intravaia di 18 anni, Vincenzina La Fata di 8 anni, Serafino Lascaridi 15 anni, Giovanni Megna, Francesco Vicari. Morivano pochi giorni dopo: Vito Allotta di 19 anni, Giuseppe Di Maggio di 13 anni, Filippo Di Salvo, Giovanni Grifòdi 12 anni. Morivano successivamente: Provvidenza Greco, Vincenza Spina. Vincenzo La Rocca, padre di Cristina, una bambina di 9 anni ferita a Portella (un esame radiografico del 1997 ha rilevato nel suo corpo la presenza di un frammento metallico, probabilmente una scheggia di granata), con la figlia sulle spalle si recò a piedi a San Cipirello e morì qualche settimana dopo, stremato dalla fatica. Tra i morti del primo maggio c’è anche il campiere Emanuele Busellini, ucciso dai banditi della banda Giuliano che l’avevano incontrato lungo la strada per recarsi sul luogo della strage.

9 maggio. Nelle campagne di Partinico (Palermo) ritrovato il corpo del contadino Michelangelo Salvia, ucciso con colpi di arma da fuoco, probabilmente ad opera di mafiosi del luogo.

22 giugno. In provincia di Palermo attacchi con armi da fuoco e bombe a mano alle sezioni del Partito comunista di Partinico, Borgetto e Cinisi, alle sedi delle Camere del lavoro di Carini e San Giuseppe Jato e alla sezione del Partito socialista di Monreale. A Partinico vengono colpiti a morte Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Jacono. Sul posto viene trovato un volantino firmato dal bandito Giuliano che invita i siciliani a lottare “contro la canea dei rossi” e annuncia la costituzione di un quartiere generale di lotta contro il bolscevismo, promettendo sussidi a quanti si sarebbero presentati alla sede della formazione militare, il feudo Sagana nelle vicinanze.

22 ottobre. A Terrasini (Palermo) uccisione di Giuseppe Maniaci, segretario della Confederterra e militante del Pci. Si era politicizzato nel carcere di Porto Longone, dove era detenuto per reati comuni e aveva conosciuto i dirigenti comunisti Scoccimarro e Terracini.

3 novembre. A San Giuseppe Jato (Palermo) viene ucciso Calogero Caiola. Doveva testimoniare per la strage di Portella.

8 novembre. A Marsala (Trapani) uccisione di Vito Pipitone, segretario della Confederterra, impegnato nelle lotte contadine.

19 novembre. A Gravina (Bari), durante uno sciopero agricolo, negli scontri con le forze dell’ordine muore Ignazio Labadessa.

20 novembre. A Campi Salentini (Lecce), negli scontri con le forze dell’ordine durante una manifestazione contadina, muoiono Antonio Augusti e Santo Niccoli.

21 novembre. A Partinico (Palermo) viene ferito dai banditi il tenente colonnello Luigi Geronazzo, che muore successivamente.

25 novembre. A Bisignano (Cosenza), durante una manifestazione, viene ucciso dalle forze dell’ordine l’operaio Rosmundo Mari.

5 dicembre. A Roma, durante uno sciopero a rovescio degli edili, negli scontri con le forze dell’ordine muore Giuseppe Tanas.

21 dicembre. A Canicattì (Agrigento), durante una manifestazione di disoccupati, un carabiniere spara sulla folla. Segue un conflitto in cui cadono i manifestanti Domenico Amato, Angelo Laura e Salvatore Lupo e viene ferito il carabiniere Giuseppe Iannolino che morirà dopo quattro giorni.

A Campobello di Licata (Agrigento), negli scontri con le forze dell’ordine durante una manifestazione, muore il bracciante Francesco D’Antone.

1948

4 gennaio. La banda Giuliano uccide nelle campagne tra Palermo e Trapani il confidente Carlo Gulino e il nipotino Francesco di 3 anni.

8 febbraio. A San Ferdinando di Puglia (Foggia) militanti di destra e guardie campestri sparano sui partecipanti a una manifestazione del Fronte democratico popolare uccidendo Vincenzo Dionisi, Giuseppe Di Troia e Giuseppe De Michele e ferendo 25 persone. Seguono attacchi alle sedi dei partiti di sinistra, della Camera del lavoro e dell’Anpi con l’uccisione del socialista Nicola Francone e del bambino di 7 anni Raffaele Riondino.

2 marzo. Nella campagne di Petralia Soprana (Palermo) ucciso Epifanio Li Puma, socialista, dirigente del movimento contadino per l’occupazione delle terre incolte. Si era opposto all’ingresso dei mafiosi nella cooperativa “La madre terra”.

10 marzo. A Corleone (Palermo) scompare Placido Rizzotto, partigiano, socialista, segretario della Camera del lavoro, dirigente delle lotte contadine. Il bambino Giuseppe Letizia, in stato di shock per avere assistito all’esecuzione del delitto, muore in seguito alle “cure” prestate dal medico capomafia Michele Navarra e dal dottor Ignazio Dell’Aira.

1 aprile. A Camporeale (Palermo) assassinio del segretario della Confederterra ed esponente socialista Calogero Cangelosi e ferimento dei militanti del movimento contadino Vito Di Salvo e Vincenzo Liotta. Il delitto era stato preceduto da intimidazioni e nel paese, dominato dal capomafia Vanni Sacco, si erano registrati fatti allarmanti: attentati a dirigenti del movimento contadino, incendio della sezione socialista. Il delitto rimane impunito.

13 aprile. Ad Andria (Bari) la polizia spara sui contadini che manifestano per l’assegnazione delle terre. Cade ucciso il bracciante Riccardo Suriano.

20 maggio. A Trecenta (Rovigo), durante uno scipero di braccianti, l’intervento delle forze dell’ordine causa la morte di Evelino Tosarello.

3 giugno. A Spino d’Adda (Cremona) le forze dell’ordine sparano durante una manifestazione di braccianti uccidendo Luigi Venturini.

11 giugno. A Partinico i banditi della banda Giuliano uccidono il possidente Marcantonio Giacalone e il figlio Antonio: si erano rifiutati di sborsare una somma di denaro.

30 giugno. A S. Martino in Rio (Reggio Emilia) l’intervento delle forze dell’ordine durante uno sciopero agricolo causa la morte di Sante Mussini.

3 settembre. A Partinico (Palermo) la banda Giuliano uccide il capitano dei carabinieri Antonino Di Salvo, il maresciallo Nicola Messina e il commissario di Pubblica Sicurezza Celestino Zapponi.

22 settembre. A Pianello (Piacenza) in un’imboscata viene ucciso il segretario della Camera del lavoro Artemio Repetti.

16 dicembre. In un agguato della banda Giuliano cade ucciso il brigadiere di PS Giovanni Tasquier e vengono feriti tre agenti.

1949

4 aprile. A Mazara del Vallo (Trapani) il bracciante Francesco La Rosa muore durante un interrogatorio nella caserma dei carabinieri.

17 maggio. A Molinella (Bologna), durante uno sciopero, il carabiniere Francesco Galati uccide Maria Margotti, 34 anni, mondina, vedova di guerra e madre di due bambine, mentre tornava a casa con un gruppo di compagni, dopo avere ottenuto l’astensione dal lavoro dei “crumiri”, ingaggiati dagli agrari. Il carabiniere fu condannato a sei mesi.

20 maggio. A Mediglia (Milano) un proprietario terriero uccide il diciottenne Pasquale Lombardi che invitava i braccianti allo sciopero.

3 giugno. A Forlì durante uno sciopero la polizia intervenie e uccide l’operaia Iolanda Bertaccini.

11 giugno. A Gambara (Brescia) durante uno sciopero bracciantile le forze dell’ordine uccidono Marziano Girelli.

12 giugno. A San Giovanni in Persiceto (Bologna), mentre un gruppo di braccianti cercava di convincere altri lavoratori a lasciare il lavoro e partecipare allo sciopero, un fattore spara contro i braccianti e uccide il giovane Loredano Bizzarri, militante del sindacato e del Pci. Viene ferito Amedeo Benuzzi. L’autore dell’omicidio, Guido Cenacchi, ex squadrista fascista, venne assolto per “legittima difesa”. Alcuni braccianti che avevano testimoniato al processo vennero condannati con diverse motivazioni.

17 giugno. A Minervino Murge (Bari) durante una manifestazione le forze dell’ordine uccidono il bracciante Felice Magginelli.

2 luglio. A Portella della Paglia (Palermo) in un agguato teso dalla banda Giuliano cadono gli agenti di Pubblica sicurezza Carmelo Agnone, Candeloro Catanese,Carmelo Lentini, Michele Marinaro, Quinto Reda.

19 agosto. Strage di Bellolampo (Palermo). La banda Giuliano fa saltare un automezzo militare: 7 carabinieri morti: Giovan Battista Aloe, Armando Loddo, Sergio Mancini, Pasquale Marcone, Antonio Pabusa, Gabriele Palandrani, Ilario Russo e 11 feriti.

21 agosto. A Sancipirello (Palermo) la banda Giuliano uccide i carabinieri Giovanni Calabrese e Giuseppe Fiorenza.

28 ottobre. A Isola Capo Rizzuto (Catanzaro) la polizia uccide l’anziano contadino Matteo Aceto, tra i promotori delle lotte per l’espropriazione delle terre.

29 ottobre. A Melissa (Catanzaro) un reparto della Celere, la polizia creata dal ministro Scelba, spara sui contadini che occupano il feudo di Fragalà. 3 morti, Francesco Nigro di 29 anni, Giovanni Zito di 15 anni, Angelina Mauro, e 15 feriti, tutti colpiti alle spalle.

28 novembre. A Bagheria (Palermo), in uno scontro a fuoco con dei latitanti, uccisi il maresciallo dei carabinieri Salvatore Messina e l’appuntato Francesco Butifar.

29 novembre. A Torremaggiore (Foggia) la polizia spara sui contadini in lotta per la gestione democratica del collocamento e la riforma agraria e uccide il bracciante Antonio La Vacca e lo stradino comunale Giuseppe Lamedica, militanti del Partito comunista.

14 dicembre. A Montescaglioso (Matera) la polizia spara sui contadini in lotta per la riforma agraria. Cadono colpiti a morte i braccianti Michele Oliva e Giuseppe Novello.

1950

9 gennaio. A Modena, durante uno sciopero, la polizia spara sulla folla uccidendo sei operai, Arturo Chiappelli, Angelo Appiani, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani,Renzo Bersani, Arturo Malagoli, e ferendone circa 200.

28 gennaio. A Salice (Lecce) ucciso in agguato il segretario della Camera del lavoro Donato Leuzzi.

14 febbraio. A Seclà (Lecce) durante una manifestazione di braccianti l’intervento delle forze dell’ordine causa la morte di Antonio Micali.

21 marzo. A Lentella (Chieti), durante uno sciopero a rovescio dei braccianti, le forze dell’ordine colpiscono a morte Nicola Mattia e Cosimo Maciocco.

22 marzo. Durante lo sciopero generale indetto dalla Cgil, scontri con la polizia a Parma, in provincia dell’Aquila e di Foggia con 4 morti: Attila Alberti, Luciano Filippelli,Francesco Laboni, Michele Di Nunzio.

30 aprile. A Celano (L’Aquila) fascisti e carabinieri sparano sui contadini del Fucino in lotta contro il principe Torlonia. Muoiono i braccianti Antonio Berardicuti eAgostino Parvis e il comunista Antonio D’Alessandro.

17 maggio. A Porto Mantovano, nel corso di uno sciopero bracciantile, viene ucciso il bracciante e sindacalista Vittorio Veronesi.

1951

17-18 gennaio. Durante manifestazioni per la pace le forze dell’ordine colpiscono a morte a Piana degli Albanesi (Palermo) il militante comunista Damiano Lo Greco, ad Adrano (Catania) il sindacalista Cisl Girolamo Rosano e Grazia Buscemi, a Comacchio (Ravenna) Antonio Fantinoli.

30 agosto. A Delianuova (Reggio Calabria) il maresciallo Antonio Sanginiti viene ucciso da Angelo Macrì, fratello di Giovanni che era rimasto ucciso durante un conflitto a fuoco con i carabinieri, e di Rocco e Giuseppe che il maresciallo aveva fatto arrestare. Nello stesso giorno, nei pressi del santuario della Madonan di Polsi, Angelo Macrì uccide il pastore Francesco Papalia, ritenendolo un confidente del maresciallo Sanginiti.

3 ottobre. A San Martino di Taurianova (Reggio Calabria) muore la bambina di tre anni Domenica Zucco, colpita durante un agguato contro il padre.

1952

19 marzo. A Villa Literno (Caserta), durante una manifestazione per l’assegnazione delle terre, le forze dell’ordine colpiscono a morte il bracciante Luigi Noviello.

7 agosto. Nelle campagne di Caccamo (Palermo) viene ucciso a colpi d’accetta il contadino Filippo Intile: voleva dividere il prodotto dei campi che aveva a mezzadria al 60% per il mezzadro e il 40% per il proprietario, in base a un decreto del ministro Fausto Gullo dell’ottobre 1944. A molti anni dal decreto agrari e mafiosi pretendevano di dividere ancora al 50%.

1954

16 febbraio. A Mussomeli (Caltanissetta), durante una manifestazione di protesta per la mancanza d’acqua, le forze dell’ordine lanciano bombe lacrimogene contro la folla. Nella ressa restano uccisi: Giuseppina Valenza di 72 anni, Onofria Pellicceri madre di otto figli, Vincenza Messina di 25 anni, madre di tre figli e incinta, Giuseppe Cappalonga di 16 anni.

A Milano, nel corso di una manifestazione di lavoratori dell’Om, le forze dell’ordine aprono il fuoco uccidendo l’operaio Ernesto Leoni.

1955

16 maggio. A Sciara (Palermo) assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale, impegnato nelle lotte contadine e operaie della zona. La madre Francesca Serio accusa i mafiosi come responsabili del delitto e si costituisce parte civile. Al suo fianco, per l’esposto, Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica. Difensore degli imputati in Cassazione Giovanni Leone, che sarà anche lui presidente della Repubblica. I mafiosi incriminati sono condannati in primo grado e assolti in appello.

19 maggio. A Cattolica Eraclea (Agrigento), in un conflitto a fuoco tra una pattuglia di carabinieri e due pregiudicati latitanti ucciso il carabiniere Domenico Barranco.

13 agosto. Uccisione di Giuseppe Spagnolo, dirigente del movimento contadino e sindaco comunista di Cattolica Eraclea (Agrigento).

1956

13 gennaio. A Venosa (Potenza) durante una manifestazione per il lavoro le forze dell’ordine colpiscono a morte il giovane bracciante Rocco Girasole e feriscono 14 persone.

14 marzo. A Barletta (Bari) la polizia spara sulla folla durante un corteo di donne e braccianti. Muoiono Giuseppe Spadaro, Giuseppe Di Corato e Giuseppe Lo Iodice.

1957

25 marzo. A Camporeale (Palermo) viene ucciso Pasquale Almerico e ferito il fratello. Muore il passante Antonino Pollari. Almerico, sindaco democristiano, si opponeva all’ingresso di mafiosi nel partito e si era rivolto al segretario provinciale Giovanni Gioia, senza avere risposta. Il capomafia Vanni Sacco, indiziato del delitto, venne assolto per insufficienza di prove.

9 settembre. A San Donaci (Brindisi), durante una manifestazione di contadini la polizia spara sulla folla. Muoiono Mario Calò, Luciano Valentini e una donna, Antonia Calignano, uscita per mettere al sicuro i suoi bambini.

1958

18 marzo. A Licata (Agrigento) ucciso Vincenzo Di Salvo, dirigente della Lega degli edili. Da una settimana era alla testa dello sciopero dei dipendenti della ditta Jacona, presso cui lavorava, che da più di un mese non ricevevano la paga. Accusato del delitto il capomafia del paese Salvatore Puzzo, che sfugge alla giustizia rifugiandosi in America.

1959

26 giugno. A Palermo uccisa Anna Prestigiacomo, di 15 anni, forse per vendetta nei confronti del padre ritenuto confidente dei carabinieri.

8 settembre. Nei pressi di Corleone (Palermo) ucciso in un conflitto a fuoco con dei banditi il carabiniere Clemente Bovi.

18 settembre. A Palermo durante una sparatoria tra mafiosi cade uccisa la tredicenne Giuseppina Savoca.

26 ottobre. A Godrano (Palermo), in un conflitto tra le cosche mafiose della zona, vengono uccisi il bambino Antonino Pecoraro di 10 anni e il fratellino Vincenzo.

1960

30 marzo. Ad Agrigento, assieme al commissario Cataldo Tandoj viene ucciso un giovane passante, Antonio Damanti. Per la Commissione parlamentare antimafia, l’omicidio di Tandoj va inserito “nel contesto delle relazioni tra il commissario e l’organizzazione mafiosa di Raffadali (Agrigento)”. I mafiosi temevano che il commissario, in procinto di trasferirsi a Roma, potesse rivelare segreti riguardanti delitti e attività della mafia.

5 maggio. Nei pressi di Termini Imerese (Palermo) sui binari della ferrovia viene trovato il corpo senza vita di Cosimo Cristina che aveva fondato un foglio locale ed era corrispondente del giornale “L’Ora” di Palermo. Si era occupato di varie inchieste e in particolare della vicenda dei frati di Mazzarino, processati e condannati per i loro rapporti con mafiosi.

5-8 luglio. Durante le manifestazioni contro il governo di destra presieduto da Tambroni la polizia spara sui manifestanti. Muoiono: il 5 luglio a Licata (Agrigento), Vincenzo Napoli; il 7 luglio a Reggio Emilia, Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli; l’8 luglio a Palermo, Andrea Gangitano, Rosa La Barbera, Giuseppe Malleo, Francesco Vella; a Catania, Salvatore Novembre.

27 settembre. A Lucca Sicula (Agrigento) uccisione di Paolo Bongiorno, dirigente del movimento contadino, operante nell’Agrigentino fin da tempi dei Fasci siciliani.

1961

18 gennaio. A Tommaso Natale, borgata di Palermo, nel corso della faida mafiosa tra le famiglie Cracolici e Riccobono, viene ucciso il tredicenne Paolino Riccobono.

1962

28 maggio. A Ceccano (Frosinone) le forze dell’ordine aprono il fuoco durante una manifestazione operaia. Cade ucciso l’operaio Luigi Mastrogiacomo.

2 luglio. A Bagheria (Palermo) ucciso il bracciante Giacinto Puleo.

27 ottobre. A Bascapè (Pavia) cade l’aereo personale e muore il presidente dell’Eni (Ente nazionale idrocarburi) Enrico Mattei. Anche se le inchieste giudiziarie non hanno dato risultati definitivi, è probabile un ruolo della mafia nella preparazione dell’”incidente” che ha determinato la scomparsa di Mattei, impegnato in una politica energetica concorrenziale con quella delle grandi società petrolifere.

1963

30 giugno. Nella mattinata a Villabate (Palermo) una giulietta imbottita di tritolo scoppia davanti al garage del capomafia Giovanni Di Peri, uccidendo assieme al guardiano del garage Pietro Cannizzaro il fornaio Giuseppe Tesauro che passava nel momento dell’esplosione.

Nel pomeriggio strage di Ciaculli (borgata di Palermo), regno della famiglia mafiosa dei Greco. Era in corso una sanguinosa guerra di mafia tra i Greco e i fratelli La Barbera. Una giulietta al tritolo, destinata ad esplodere vicino all’abitazione di mafiosi della zona, scoppia uccidendo 7 rappresentanti delle forze dell’ordine accorsi sul posto, in seguito a una chiamata telefonica. Muoiono il tenente dei carabinieri Mario Malausa, i marescialli dei carabinieri Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, il maresciallo dell’esercitoPasquale Nuccio, i carabinieri Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il soldato Giorgio Ciacci. Dopo la strage comincia a operare la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia in Sicilia, richiesta fin dal 1948 e costituita nel 1961.

1966

24 marzo. A Tusa (Messina) uccisione del sindacalista Carmelo Battaglia. Assessore comunale socialista, faceva parte della cooperativa di pascolo “Risveglio alesino”.

1967

2 febbraio. A Campobasso ucciso in una sparatoria con un pregiudicato l’appuntato dei carabinieri Nicola Mignogna.

29 dicembre. A Torre del Greco (Napoli) uccisione dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Piani.

1968

2 dicembre. Ad Avola (Siracusa), durante uno sciopero di braccianti le forze dell’ordine sparano sui manifestanti: due morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia e 48 feriti.

1969

9 aprile. A Battipaglia (Salerno), durante una manifestazione per la chiusura di due stabilimenti che davano lavoro a 800 operai, la folla assalta il municipio. Reparti di polizia sparano sui manifestanti. Due morti: Teresa Ricciardi, che si era affacciata al balcone, e Carmine Citro, che era per strada, e 200 feriti. Le aziende saranno riaperte. I sindacati organizzano uno sciopero nazionale che darà l’avvio alle lotte alla Fiat.

27 aprile. Nelle campagne di Altavilla Milicia (Palermo), nel corso di un’operazione per la cattura degli autori di un’estorsione, viene ucciso il carabiniere Orazio Costantino.

10 dicembre. A Palermo strage negli uffici di un’impresa di costruzioni in viale Lazio, ad opera dei “corleonesi”, durante la quale viene ucciso anche il custode Giovanni Domè, riconosciuto vittima innocente.

1970

16 settembre. A Palermo scompare il giornalista Mauro De Mauro, del giornale “L’Ora”. Il delitto è stato messo in relazione con un’inchiesta che De Mauro si accingeva a svolgere sulla morte del Presidente dell’Eni Enrico Mattei e con il fallito golpe Borghese del 1970.

1971

2 febbraio. A Foggia, nel corso di scontri tra scioperanti e forze dell’ordine, muore il bracciante agricolo Domenico Centola.

4 febbraio. A Catanzaro vengono lanciate bombe contro un corteo antifascista. Muore Giuseppe Malacaria e ci sono 14 feriti.

4 aprile. A Caulonia Marina (Reggio Calabria) ucciso il carpentiere Vincenzo Scuteri. Non accettava le forniture della ‘ndrangheta.

5 maggio. A Palermo uccisione del procuratore della Repubblica Pietro Scaglione e dell’autista Antonino Lo Russo. Scaglione era stato chiamato in causa per le vicende relative alla sparizione di Luciano Liggio, ma con sentenza passata in giudicato, dopo la conferma della Cassazione, è stato riconosciuto che si era “attivamente adoperato per l’arresto del Liggio” e aveva preso “numerose iniziative” a carico dello stesso capomafia.

21 maggio. A Delianuova (Reggio Calabria) Domenico Ietto ferito gravemente durante un tentativo di sequestro morirà qualche mese dopo.

1972

16 aprile. A Polistena (Reggio Calabria) ucciso per errore Domenico Cannata. Nel 2005 è stato riconosciuto vittima innocente della ‘ndrangheta.

5 maggio. A Pisa, durante una manifestazione antifascista, negli scontri con la polizia rimane ferito lo studente Franco Serantini. Incarcerato e privo di assistenza morirà due giorni dopo.

27 ottobre. A Ragusa viene ucciso il cronista del giornale “L’Ora” Giovanni Spampinato, di 27 anni. Il delitto è opera del giovane Roberto Cambria, figlio del presidente del tribunale, ed è frutto dei rapporti conflittuali tra neofascisti, servizi segreti e ambienti criminali, su cui Spampinato indagava.

27 dicembre. A Cittanova (Reggio Calabria) ucciso da un proiettile vagante il consigliere comunale del PCI Giovanni Ventra, durante un’imboscata a un uomo del clan Facchineri.

1973

23 gennaio. A Milano, nel corso di scontri tra manifestanti del Movimento studentesco e forze dell’ordine, viene ucciso lo studente Roberto Franceschi.

26 luglio. A Crotone durante una sparatoria viene colpita a morte l’anziana Maria Giovanna Elia.

1974

10 gennaio. Nella borgata palermitana di San Lorenzo ucciso il maresciallo di polizia in pensione Angelo Sorino che collaborava con un collega in servizio a un’inchiesta sulla mafia della zona.

6 febbraio. A Bari ucciso Nicola Ruffo, un macchinista delle ferrovie dello Stato mentre cercava di difendere la titolare di una tabaccheria nel corso di una rapina.

14 ottobre. A Varese, rapito dal clan Zagari, Emanuele Riboli, e ucciso con il veleno dopo che i rapitori avevano scoperto che nella valigetta con il denaro del riscatto c’era una ricetrasmittente.

15 ottobre. A Olginate (Lecco) rapito Giovanni Stucchi, che muore durante il sequestro.

1975

13 febbraio. A Comerio (Varese) rapimento dell’imprenditore Tullio De Micheli, che verrà ucciso.

13 aprile. A Cittanova (Reggio Calabria) in una faida uccisi Michele, di 12 anni, e Domenico Facchineri, di 9 anni, figli di Giuseppe anche lui ucciso. Domenico in ginocchio aveva scongiurato i suoi assassini di non sparare.

17 aprile. A Milano, durante una manifestazione per l’uccisione dello studente Claudio Varalli, avvenuta il giorno prima ad opera di neofascisti, i carabinieri caricano i manifestanti e uccidono Giannino Zibecchi. A Torino, per un colpo di pistola sparato da una guardia giurata, durante una manifestazione per Varalli, muore l’operaioTonino Miccichè di 25 anni.

18 giugno. A Roccamena (Palermo) ucciso Calogero Morreale, segretario socialista e dirigente dell’Alleanza coltivatori. Era stato uno dei principali artefici della vittoria delle sinistre alle elezioni comunali del 15 giugno. Ai funerali partecipano duemila persone e accanto alla vedova è la madre di Salvatore Carnevale, Francesca Serio. Il padre di Morreale, Pietro, accusa come responsabili del delitto i mafiosi della zona, ma le indagini ben presto si arenano e il delitto rimane impunito.

1 luglio. A Eupidio (Como) viene sequestrata Cristina Mazzotti. Il suo corpo verrà trovato due mesi dopo in una discarica.

2 luglio. A Palermo, durante il sequestro dell’imprenditore Angelo Randazzo, viene ucciso l’agente di polizia Gaetano Cappiello.

3 luglio. A Nicastro (Catanzaro) uccisione dell’avvocato generale dello Stato presso la Corte d’appello Francesco Ferlaino. Era stato presidente del Tribunale che aveva processato numerosi mafiosi. Il delitto è rimasto impunito.

1976

5 gennaio. Ad Afragola (Napoli) uccisione del maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio.

27 gennaio. Ad Alcamo Marina (Trapani) uccisi i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Non si è riusciti a individuare il movente. Sono stati condannati: all’ergastolo Giuseppe Gulotta, a 22 anni Gaetano Santangelo e a 14 anni Vincenzo Ferrantelli, gli ultimi due latitanti in Brasile. Era stato incriminato anche Giuseppe Vesco, suicidatosi nel carcere di Trapani nell’ottobre del 1977. I condannati non risultano legati a gruppi mafiosi o a formazioni terroristiche.

4 marzo. A Mezzojuso (Palermo) assassinio del dirigente dell’Alleanza coltivatori Giuseppe Muscarella. Aveva promosso una campagna per l’acquisto collettivo di fertilizzanti rompendo il monopolio delle cosche e aveva proposto la costituzione di una cooperativa.

4 maggio. A Melicuccà (Reggio Calabria) muoiono durante un tentativo di rapimento il 73enne avvocato e possidente Alberto Capua (ex sindaco di Melicuccà) e il suo autista Vincenzo Ranieri.

23 maggio. A Torino sequestrato Mario Ceretto. Il suo corpo fu trovato qualche tempo dopo nelle campagne vicino a Orbassano.

7 luglio. A Catania scompaiono quattro ragazzi, Giovanni La Greca, Riccardo Cristaldi, Lorenzo Pace e Benedetto Zuccaro. Avevano scippato la madre di Nitto Santapaola. Verranno uccisi e gettati in un pozzo.

19 settembre. A Ottaviano (Napoli) uccisione di Pasquale Cappuccio, avvocato e segretario della sezione comunista.

29 settembre. A Taurianova (Reggio Calabria) ucciso il piccolo Rocco Corica, di sette anni, nella faida tra famiglie della ‘ndrangheta.

7 ottobre. A Grotteria (Reggio Calabria) rapimento del farmacista Vincenzo Macrì, che verrà ucciso.

15 ottobre. A Torino viene rapito l’imprenditore Adriano Ruscalla. Muore durante il sequestro.

25 ottobre. A Milano viene rapito l’imprenditore Mario Ceschina, che muore durante il sequestro.

10 dicembre. Nelle campagne di Gioia Tauro (Reggio Calabria) viene ucciso per sbaglio nel corso della faida tra clan rivali il giovane Francesco Vinci, militante comunista impegnato in attività antimafia.

31 dicembre. Ad Africo (Reggio Calabria) ucciso dalla ‘ndrangheta il ventisettenne anarchico Salvatore Barbagallo.

1977

11 marzo. A Bologna negli scontri tra forze dell’ordine e studenti di sinista è ucciso lo studente Francesco Lorusso.

12 marzo. A Giojosa Jonica (Reggio Calabria) ucciso Rocco Gatto, mugnaio, militante comunista impegnato nella lotta contro la ‘ndrangheta. Avevano tentato di estorcergli del denaro e aveva ricevuto minacce.

1 aprile. A Razzà di Taurianova (Reggio Calabria), durante un conflitto a fuoco davanti a una casa nella quale si stava svolgendo un summit di mafia, vengono uccisi l’appuntato dei carabinieri Stefano Condello e il carabiniere Vincenzo Caruso.

12 maggio. A Roma, durante una manifestazione di piazza, intervengono le forze dell’ordine. Cade uccisa la diciottenne Giorgiana Masi.

28 agosto. In Calabria, dove si trovava in vacanza con la famiglia, rapita Mariangela Passiatore, che non è stata più ritrovata.

15 luglio. Ucciso a Sidney Donald Mackay, agente della squadra antidroga che aveva arrestato quattro persone di origini italiane.

20 agosto. Nella piazza del borgo di Ficuzza, nei pressi di Corleone (Palermo), uccisi l’ex colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e l’insegnante Filippo Costa che lo accompagnava. L’omicidio è stato collegato con le indagini del colonnello Russo sul sequestro dell’esattore Corleo e con altre indagini.

30 settembre. A Roma ucciso da un gruppo di neofascisti, alla presenza di un blindato della polizia, il giovane comunista Walter Rossi, mentre effettuava un volantinaggio di protesta per le aggressioni subite nei giorni precedenti da alcuni militanti e simpatizzanti della sinistra.

30 novembre. A Palermo uccisione del maresciallo degli agenti di custodia del carcere Ucciardone Attilio Bonincontro. Un commando di killer lo ha assassinato sotto casa, nei pressi del carcere.

1978

26 gennaio. A Corleone (Palermo) viene ucciso l’avvocato Ugo Triolo, vicepretore onorario di Prizzi. In precedenza aveva ricevuto intimidazioni.

7 febbraio. A Torino viene rapito l’imprenditore Francesco Stola, che morirà durante il sequestro.

18 marzo. A Milano, i giovani Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Iaio) vengono uccisi da killer rimasti ignoti. Il giornalista Mauro Brutto, che si era occupato del delitto, muore il 25 novembre dello stesso anno in un incidente stradale sospetto. Fausto e Iaio avevano collaborato alla redazione di un dossier sulla droga.

9 maggio. Sui binari della ferrovia Trapani-Palermo, nei pressi di Cinisi (Palermo), vengono trovati i resti del corpo di Giuseppe Impastato, dilaniato da un’esplosione. Proveniente da una famiglia mafiosa, giovanissimo aveva rotto con il padre e la parentela e avviato un’attività antimafia, impegnandosi nei gruppi di Nuova Sinistra e conducendo campagne di denunzia e mobilitazione, assieme a un’intensa attività culturale, negli ultimi anni attraverso i microfoni di Radio Aut. Era candidato alle elezioni comunali in una lista di Democrazia proletaria.

22 maggio. A Palermo, assieme al capomafia Giuseppe Sirchia, viene uccisa la moglie, Giacoma Gambino. Sirchia, sapendosi in pericolo, era solito farsi accompagnare dalla moglie perché pensava che i mafiosi non avrebbero ucciso una donna.

21 agosto. A Platì (Reggio Calabria) ucciso il commerciante Fortunato Furore, probabilmente perché non aveva pagato il pizzo.

29 agosto. A Pagani (Salerno) uccisione di Antonio Esposito Ferraioli, di 23 anni. Delegato sindacale della Cgil presso la Fatme, denunciava la pessima qualità delle carni fornite alla mensa aziendale, provenienti dalla macellazione clandestina.

26 settembre. A Bolognetta (Palermo) uccisione del vigile urbano Salvatore Castelbuono. Aveva collaborato con le Forze dell’ordine nella ricerca di latitanti.

9 novembre. A Meda (Milano) rapito e ucciso lo studente Paolo Giorgetti, 16 anni, figlio di un mobiliere.

1979

5 gennaio. A Rizziconi (Reggio Calabria) uccisi Carmelo Di Giorgio e Primo Perdoncini, operai della Montresor e Morselli di Verona. Avevano acquistato agrumi dai produttori di Gioia Tauro turbando il mercato controllato dalla ‘ndrangheta.

11 gennaio. A Palermo uccisione del sottufficiale di PS Filadelfo Aparo, impegnato in indagini di mafia.

26 gennaio. A Palermo uccisione di Mario Francese, cronista del “Giornale di Sicilia”. Si era interessato di speculazioni mafiose nei lavori della costruzione della diga Garcia e aveva documentato l’ascesa del gruppo dei “corleonesi”. Il figlio di Mario, Giuseppe, che si era prodigato per ottenere l’accertamento della verità, ci ha lasciato il 3 settembre 2002.

9 febbraio. A Reggio Calabria vengono uccisi Antonino Tripodo e Rocco Giuseppe Barillà, per avere dato un passaggio in auto al sorvegliato speciale Rocco D’Agostino.

9 marzo. A Palermo uccisione del segretario provinciale democristiano Michele Reina. Anche se non risulta una presa di posizione contro la mafia, il delitto potrebbe essere messo in relazione con i tentativi dell’uomo politico di intrecciare rapporti con l’opposizione. Reina aveva appena partecipato a un congresso del Partito comunista.

26 aprile. A Palermo, durante una rapina alla Cassa di Risparmio, viene ucciso il metronotte Alfonso Sgroi. Facevano parte della banda di rapinatori i mafiosi Pino Greco, detto “scarpuzzedda”, e Pietro Marchese.

4 giugno. In provincia di Agrigento ucciso ad un posto di blocco il carabiniere Baldassare Nastasi.

11 luglio. A Milano uccisione dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Il killer è il mafioso William Aricò, che il 21 febbraio del 1984, durante un processo, cadrà dal nono piano del Memorial Correctional Center di New York. Condannato all’ergastolo come mandante il banchiere Sindona, successivamente morto di veleno in carcere.

21 luglio. A Palermo uccisione del vicequestore Boris Giuliano, particolarmente impegnato nelle inchieste sul traffico internazionale di droga.

31 luglio. A Limbadi (Vibo Valentia) ucciso Orlando Legname, militante del Pci che si occupava dell’azienda agricola della famiglia. Si opponeva alle richieste del clan Mancuso.

28 agosto. A Palermo scompare il vicecomandante delle guardie del carcere Ucciardone Calogero Di Bona. Aveva redatto un rapporto di denuncia sul pestaggio di un agente di custodia avvenuto nel carcere: potrebbe essere stato il movente del delitto. Nel 2011 la Procura di Palermo riapre le indagini su richiesta dei familiari. Nel dicembre del 2012 viene chiesto il rinvio a giudizio per il boss Salvatore Lo Piccolo e per Salvatore Liga, già in carcere per altri reati. Secondo alcune dichiarazioni dei pentiti, dopo essere stato rapito, il maresciallo fu sottoposto a un interrogatorio, su mandato del capomafia Rosario Riccobono: i boss volevano sapere i nomi degli agenti di custodia che avevano spedito una lettera ai giornali, per denunciare la situazione del carcere dell’Ucciardone, dove la nona sezione era stata trasformata dai capi di Cosa nostra in un club esclusivo, che aveva anche come succursale il reparto infermeria. Solo dopo la scomparsa del maresciallo, il ministero della Giustizia mandò un’ispezione.

25 settembre. A Palermo uccisione del magistrato Cesare Terranova e della guardia del corpo e collaboratore maresciallo Lenin Mancuso. Nel corso degli anni ’60 Terranova aveva istruito i principali processi di mafia, sostenendo la tesi dell’esistenza dell’associazione criminale e del coordinamento tra le varie cosche. Successivamente era stato eletto al Parlamento come indipendente nelle liste del Pci e aveva fatto parte della Commissione antimafia, collaborando alla relazione di minoranza del Partito comunista. Tornato a Palermo si accingeva a ricoprire l’incarico di Consigliere istruttore. Del delitto viene incriminato Luciano Liggio, assolto. Successivamente sono stati condannati come mandanti i capi della cupola.

10 novembre. Al casello autostradale di San Gregorio, nei pressi di Catania, durante il trasferimento del detenuto Angelo Pavone, in un agguato vengono uccisi il vicebrigadiere Giovanni Bellissima e gli appuntati Salvatore Bologna e Domenico Marrara. Il triplice omicidio viene consumato durante la visita del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Pavone viene sequestrato e ucciso.

14 novembre. A Milano viene rapito Cesare Pedesini, titolare di un’azienda, che morirà durante il sequestro.

1980

6 gennaio. A Palermo, in via Libertà, uccisione del presidente della Regione e dirigente democristiano Piersanti Mattarella. Si era impegnato in un’azione di moralizzazione della vita pubblica, bloccando alcuni appalti a cui erano interessati imprenditori mafiosi e si adoperava per un rinnovamento del quadro politico aperto al coinvolgimento del Partito comunista.

4 maggio. A Monreale (Palermo) la sera dei festeggiamenti del Santo patrono viene ucciso il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Aveva in braccio la figlia di pochi anni. Si era impegnato in indagini sulla mafia della zona, soprattutto attraverso accertamenti bancari.

11 giugno. A Rosarno (Reggio Calabria) uccisione di Giuseppe Valarioti, giovane dirigente comunista, impegnato nella lotta contro la ‘ndrangheta.

21 giugno. A Cetraro (Cosenza) ucciso Giovanni Losardo, assessore comunale ai Lavori pubblici che si opponeva agli interessi della ‘ndrangheta collegati con gli appalti e i subappalti di opere pubbliche.

13 luglio. A Palermo ucciso l’agente di polizia penitenziaria Pietro Cerulli.

6 agosto. A Palermo, in via Cavour, ucciso il procuratore capo Gaetano Costa. Aveva firmato da solo, poiché i sostituti procuratori si erano rifiutati di farlo, dei mandati di cattura contro vari mafiosi, tra cui gli Inzerillo, implicati nel traffico di droga. Il delitto è rimasto impunito.

28 agosto. Nei pressi dell’aeroporto di Punta Raisi (Palermo) uccisione dell’albergatore Carmelo Iannì. La sua collaborazione con le forze dell’ordine aveva portato all’arresto di mafiosi e del chimico francese André Busquet che raffinava eroina e alloggiava nell’albergo che, dopo la morte del titolare, resterà chiuso per anni.

11 ottobre. A San Giovanni a Teduccio (Napoli). ucciso da un proiettile vagante in una sparatoria tra clan rivali il giovane operaio Ciro Rossetti.

17 ottobre. A Siderno (Reggio Calabria) viene rapito Antonino Colista, procuratore dell’Ufficio delle imposte di Stignano, che muore durante il sequestro.

7 novembre. A Ottaviano (Napoli) ucciso il segretario della sezione comunista e consigliere comunale Domenico Beneventano. Medico chirurgo, si era impegnato nell’attività politica ed era stato eletto consigliere nelle liste del Pci nel 1975 e riconfermato nel 1980. Si era opposto decisamente alle connivenze tra gruppi camorristici e politici locali.

11 dicembre. A Pagani (Salerno) ucciso l’avvocato e sindaco democristiano Marcello Torre, che si opponeva alle infiltrazioni camorristiche negli appalti per la ricostruzione dopo il terremoto nell’Irpinia.

1981

9 febbraio. Ad Alessandria della Rocca (Agrigento) uccisi per sbaglio Domenico Francavilla, Mariano Virone e il dodicenne Vincenzo Mulè in un agguato contro il capomafia del paese.

27 marzo. A Salermo ucciso nel suo studio l’avvocato Leopoldo Gassani per non aver voluto rinunciare alla difesa di un componente di una banda di sequestratori che aveva deciso di collaborare con la giustizia. Con lui è stato ucciso il suo segretario Giuseppe Grimaldi.

14 aprile. A Napoli ucciso dagli uomini di Cutolo il direttore di Poggioreale Giuseppe Salvia.

3 luglio. A Torino viene rapito il costruttore Lorenzo Crosetto, che morirà durante la prigionia.

10 settembre. A Palermo uccisione del maresciallo dei carabinieri Vito Ievolella. Indagava sul contrabbando di sigarette e sul traffico di droga.

29 settembre. A Castronovo di Sicilia (Palermo) uccisi Vincenzo Romano e Michele Ciminnisi in un bar, durante una sparatoria per uccidere il capomafia Calogero Pizzuto.

6 novembre. A Palermo uccisione del chirurgo Sebastiano Bosio. Secondo le dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia, Bosio sarebbe stato ucciso perché secondo i mafiosi aveva curato male Pietro Fascella, che era rimasto ferito dalla polizia, in un blitz durante un summit di mafia.

11 novembre. A Fasano (Brindisi), viene trovata ustionata e agonizzante a casa sua Palmina Martinelli, di 14 anni, che morirà, dopo atroci sofferenze, non senza essere riuscita a parlare e a dire che l’avevano cosparsa di alcol e dato fuoco perché rifiutava di prostituirsi.

25 dicembre. A Bagheria (Palermo) ucciso in una sparatoria tra mafiosi il pensionato Onofrio Valvola.

1982

8 gennaio. A Torre Annunziata (Napoli) ucciso il maresciallo dei carabinieri Luigi D’Alessio, da camorristi che aveva fermato per un controllo. Nella sparatoria è stata uccisa la sedicenne Rosa Visone.

13 gennaio. A Cutro (Catanzaro), durante un attentato al boss Antonio Dragone, rimane ucciso il maresciallo dei carabinieri Francesco Borrelli.

26 gennaio. A Isola delle Femmine (Palermo) uccisione del carabiniere in pensione Nicolò Piombino. Stava collaborando per la ricostruzione di alcuni delitti avvenuti nella zona.

Aprile. A Torre Annunziata (Napoli) ucciso Luigi Cafiero. Secondo la dichiarazione di un collaboratore di giustizia, avvenuta undici anni dopo, sarebbe stato scambiato per un camorrista.

30 aprile. A Palermo uccisione del segretario regionale comunista Pio La Torre e dell’autista e collaboratore Rosario Di Salvo. La Torre, dirigente delle lotte contadine, deputato all’Assemblea regionale siciliana e al Parlamento, dirigente nazionale del partito, era tornato in Sicilia ed era impegnato nella lotta contro la mafia e nella mobilitazione contro l’installazione dei missili a testata nucleare a Comiso. Aveva elaborato il disegno di legge che poi sarà recepito nella legge antimafia del settembre 1982. Condannati per il duplice delitto i capimafia della cupola.

3 maggio. A Reggio Calabria ucciso con un’autobomba l’ingegnere Gennaro Musella. Proprietario di una cava forniva materiali per costruzione. Il delitto è maturato all’interno dei contrasti d’interesse per la costruzione del porto di Bagnara Calabra. La gara d’appalto era stata vinta da un’associazione d’imprese con in testa i “cavalieri” di Catania (gli imprenditori Costanzo, Finocchiaro, Graci e Rendo) e l’ingegnere Musella aveva presentato esposti contro il Genio civile che avrebbe favorito le imprese vincitrici. L’inchiesta è stata archiviata e il delitto è rimasto opera di ignoti.

8 maggio. A Porto Empedocle (Agrigento) uccisi sul loro posto di lavoro Giuseppe Lala, Antonio Valenti e Domenico Vecchio. Sono stati riconosciuti vittime innocenti di un delitto mafioso.

24 maggio. A Palermo nella camera della morte, in Corso dei Mille, vengono strangolati i giovani Rodolfo Buscemi e Matteo Rizzuto. Buscemi indagava sull’omicidio del fratello Salvatore e Rizzuto si trovava solo casualmente in sua compagnia. La sorella Michela si è costituita parte civile nel maxiprocesso contro la cupola mafiosa e i responsabili di una serie di omicidi.

29 maggio. A Cava dei Tirreni viene uccisa Simonetta Lamberti, di 10 anni, da un killer della camorra nel corso di un attentato il cui obiettivo era il padre di Simonetta, il giudice Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina, con il quale stava rincasando.

6 giugno. A Palermo ucciso Antonino Peri, autotrasportatore. Come hanno raccontato alcuni collaboratori di giustizia, aveva inseguito una macchina che aveva tamponato la sua autovettura; a bordo erano due mafiosi che facevano da scorta a un’altra auto nel cui bagagliaio c’era il corpo di un uomo appena ucciso. I mafiosi l’hanno scambiato per un poliziotto.

16 giugno. A Palermo, sulla circonvallazione, un commando mafioso uccide assieme al capomafia Alfio Ferlito, in contrasto con Nitto Santapaola, i carabinieri Luigi Di Barca, Silvano Franzolin, Salvatore Raiti e l’autista Giuseppe Di Lavore.

29 giugno. A Termini Imerese (Palermo) ucciso l’agente penitenziario Antonino Burrafato. Si era rifiutato di fare incontrare Leoluca Bagarella con la madre e la sorella.

2 luglio. A Marano (Napoli) uccisione del carabiniere ventenne Salvatore Nuvoletta ad opera di camorristi su mandato di Francesco Schiavone, detto Sandokan.

11 agosto. Al Policlinico di Palermo uccisione del docente universitario e medico legale Paolo Giaccone. Non aveva voluto modificare una perizia che incolpava Giuseppe Marchese, nipote del capomafia Filippo, degli omicidi avvenuti a Bagheria nel Natale 1981.

30 agosto. A Palermo ucciso il giovane commerciante Vincenzo Spinelli. Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Onorato, aveva fatto arrestare l’autore di una rapina avvenuta nel suo negozio, un giovane parente dei capimafia Giuseppe Savoca e Masino Spadaro.

3 settembre. A Palermo, in via Carini, uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo. Dalla Chiesa era stato nominato prefetto di Palermo dopo l’omicidio di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo.

Nello stesso giorno a Frattaminore (Napoli) ucciso in un agguato il maresciallo della Squadra mobile Andrea Mormile.

14 settembre. A Napoli ucciso dalla camorra il brigadiere Antimo Graziano, che prestava servizio presso la Casa circondariale di Poggioreale.

7 ottobre. Ad Avellino ucciso il carabiniere Elio Di Mella, durante la traduzione dal carcere di Campobasso a quello di Avellino di un detenuto, boss della Nuova camorra organizzata. Alcuni camorristi hanno assaltato il furgone, ucciso Di?Mella cha aveva tentato di reagire e prelevato il detenuto.

15 ottobre. A Cesa (Caserta) viene ucciso l’agente di polizia penitenziaria di Poggioreale (Napoli) Gennaro De Angelis.

9 novembre. A Caraffa del Bianco (Reggio Calabria) ucciso il tredicenne Giovanni Canturi, in un agguato allo zio Rosario Zerilli ucciso per vendetta.

A Castrovillari (Cosenza) viene rapito Eduardo Annichiarico, studente, figlio di un gioielliere. Muore durante il sequestro.

14 novembre. A Palermo, in via Notarbartolo, uccisione dell’agente Calogero Zucchetto, impegnato nella ricerca di mafiosi latitanti.

24 novembre. A San Cataldo (Caltanissetta) ucciso Carmelo Cerruto, probabilmente perché indagava sulla morte del figlio, il giovane Emanuele Cerruto, ucciso il 27 settembre 1981.

10 dicembre. A Locri (Reggio Calabria) ucciso il professore presso il Liceo scientifico Francesco Panzera. Si era attivamente occupato del problema della tossicodipendenza.

1983

2 gennaio. A Vibo Valentia scompare il tredicenne Francesco Pugliese.

25 gennaio. A Valderice (Trapani) viene ucciso il sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto, impegnato in indagini di mafia nel Trapanese.

31 gennaio. A Napoli ucciso, dopo numerose minacce ricevute, Nicandro Izzo, agente in servizio presso l’istituto penitenziario di Poggioreale.

5 marzo. A Santa Maria Capua Vetere (Cosenza) ucciso Pasquale Mandato, maresciallo degli agenti di custodia del carcere.

11 marzo. A Palermo, uccisione del costruttore edile Salvatore Pollara. Aveva collaborato con la giustizia per fare processare i responsabili dell’omicidio del fratello Giovanni, scomparso nel 1979.

27 aprile. A Palermo ucciso l’appuntato dei carabinieri in pensione Gioacchino Crisafulli. Secondo i collaboratori di giustizia, aveva denunciato due ladri.

28 aprile. Sulla Circonvallazione esterna di Napoli ucciso in un agguato il brigadiere dei carabinieri Domenico Celiento.

13 giugno. A Palermo in via Scobar uccisi il capitano dei carabinieri di Monreale Mario D’Aleo e i carabinieri Giuseppe Bommarito e Pietro Morici. Il capitano D’Aleo aveva sostituito il capitano Basile e aveva continuato le indagini sulle attività della mafia del Monrealese.

26 giugno. A Torino uccisione del procuratore capo Bruno Caccia. Indagava sul “clan dei calabresi” e sui mafiosi catanesi operanti nel Nord Italia.

30 giugno. A Figline Vegliaturo (Cosenza) scompare Attilio Aceti, ristoratore; forse un sequestro per vendetta.

29 luglio. A Palermo, in via Pipitone Federico, un’autobomba uccide il consigliere istruttore Rocco Chinnici, gli uomini di scorta Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Chinnici aveva avviato il pool antimafia e aveva avuto un ruolo decisivo nella strategia giudiziaria fondata sul coordinamento dei magistrati impegnati in inchieste sulla mafia, considerata come un fenomeno unitario. Solo nel 2000 sono stati condannati all’ergastolo come mandanti i capi della cupola e condannati a 18 anni come esecutori Giovanni Brusca, Calogero Ganci, Giovan Battista Ferrante e Francesco Paolo Anzelmo, nel frattempo diventati collaboratori di giustizia. Nel 2003 la Cassazione ha confermato le condanne. La strage sarebbe stata voluta da Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori di Salemi su cui Chinnici indagava.

11 ottobre. A Maddaloni (Caserta) ucciso Franco Imposimato, fratello del magistrato Ferdinando che indagava sui rapporti tra la banda della Magliana e Cosa nostra. Una vendetta trasversale compiuta da camorristi su mandato del capomafia Pippo Calò.

Lo stesso giorno, sempre in provincia di Caserta, viene ucciso l’agente penitenziario Ignazio De Florio.

12 ottobre. A Lamezia Terme (Catanzaro) viene rapito Giuseppe Bertolami, florovivaista, che muore durante il sequestro. Due anni dopo il sequestro la famiglia Bertolami denuncia le inerzie degli investigatori.

4 novembre. A San Ferdinando (Reggio Calabria) uccisi i ragazzi Domenico Cannatà, di undici anni, e Serafino Trifarò, di quattordici anni, durante un agguato contro il padre di Domenico.

29 novembre. A Prizzi (Palermo) scompare il piccolo imprenditore Sebastiano Alongi. La moglie, Anna Pecoraro, costituitasi parte civile nel procedimento contro ignoti, ha denunciato i favoritismi e gli interessi mafiosi nella concessione degli appalti, che avrebbero portato all’isolamento e all’uccisione del marito.

2 dicembre. Ucciso, mentre tornava da Poggioreale (Napoli), assieme a un collega rimasto ferito, Antonio Cristiano, agente presso la Casa circondariale.

15 dicembre. A Napoli ucciso Luigi Cangiano, di 10 anni, durante una sparatoria tra polizia e spacciatori.

1984

5 gennaio. A Catania viene ucciso il giornalista e scrittore Giuseppe Fava, autore di inchieste, romanzi e opere teatrali. Aveva diretto il quotidiano “Giornale del Sud” e aveva fondato il mensile “I Siciliani”. Per primo aveva denunziato, in pieno isolamento, la presenza della mafia a Catania e i suoi collegamenti con imprenditori e politici. Dopo una serie di depistaggi, l’impegno dei familiari è riuscito a ottenere giustizia con la condanna dei mafiosi del clan Santapaola.

31 marzo. A Nardò (Lecce) uccisione dell’assessore comunale Renata Fonte, riconosciuta vittima della criminalità organizzata perché si opponeva alla speculazione edilizia.

1 maggio. A Giffone (Reggio Calabria) viene rapito Alfredo Sorbara, che lavorava nell’azienda familiare di movimentazione terra. Muore durante il sequestro.

10 giugno. A Marano (Napoli), durante uno scontro tra i clan Nuvoletta e Bardellino, rimane ucciso il passante sedicenne Salvatore Squillace.

2 dicembre. A Palermo attentato contro Leonardo Vitale. Nel 1973, per motivi religiosi, si era autoaccusato e aveva accusato altri mafiosi di alcuni delitti compiuti nel suo quartiere, Altarello, e aveva denunciato i collegamenti con alcuni uomini politici. Era stato creduto e condannato per i delitti commessi, ma non si era prestato fede alle altre rivelazioni, considerate frutto di disturbi mentali. Era stato rinchiuso nel manicomio criminale e poi inviato al confino. Rientrato a Palermo non aveva nessuna protezione. Muore il 7 dicembre.

7 dicembre. A Bagheria (Palermo) uccisione di Pietro Busetta, cognato di Tommaso Buscetta. Una vendetta trasversale per colpire il collaboratore di giustizia.

23 dicembre. Strage sul rapido 904 Napoli-Milano, nei pressi di San Benedetto in Val di Sambro (Bologna). 15 morti: Giovanbattista Altobelli, Anna Maria Brandi,Angela Calvanese, Susanna Cavalli, Lucia Cerrato, Anna De Simone, Giovanni De Simone, Nicola De Simone, Pier Francesco Leoni, Luisella Matarazzo,Carmine Moccia, Valeria Moratello, Maria Luigia Morini, Federica Taglialatela, Abramo Vastarella; più di 200 feriti, tra cui Giovanni Calabrò e Gioacchino Taglialatela, morti successivamente per i traumi riportati. La Corte d’assise d’appello di Bologna il 14 marzo del 1992 ha condannato i mafiosi Pippo Calò, Guido Cercola, Franco D’Agostino e il neofascista tedesco Friedrich Schaudinn.

1985

6 febbraio. A San Luca (Reggio Calabria) ucciso in un agguato Carmine Tripodi, brigadiere comandante della stazione dei carabinieri.

23 febbraio. A Palermo vengono uccisi l’imprenditore Roberto Parisi e l’autista Giuseppe Mangano. Da recenti dichiarazioni di collaboratori di giustizia risulta che Parisi si sarebbe opposto alle richieste della mafia.

27 febbraio. A Palermo omicidio dell’imprenditore Pietro Patti, titolare di uno stabilimento per la lavorazione della frutta secca nella zona industriale di Brancaccio. Si era rifiutato di pagare il pizzo.

28 febbraio. A Reggio Calabria ucciso il vigile urbano Giuseppe Macheda, impegnato in una squadra per la repressione dell’abusivismo edilizio.

13 marzo. A Palermo uccisione dell’imprenditore Giovanni Carbone: probabilmente aveva resistito a tentativi di estorsione.

Lo stesso giorno, a Cosenza ucciso da uomini della ‘ndrangheta il direttore del carcere Sergio Cosmai, che faceva rispettare le regole, abitualmente trasgredite per favorire i boss imprigionati.

27 marzo. A Platì (Reggio Calabria) ucciso il sindaco Domenico De Maio. Platì è un centro dell’Aspromonte sede di una delle ‘ndrine (così si chiamano i gruppi della ‘ndrangheta) più antica e radicata, ma presente pure in altri Paesi, come, per esempio, in Australia.

2 aprile. A Pizzolungo (Trapani) attentato al magistrato Carlo Palermo. Salta in aria la macchina che passa in quell’istante e fa da scudo: muoiono la signora Barbara Rizzo Asta e i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta di sei anni. Carlo Palermo aveva condotto a Trento un’inchiesta sul traffico internazionale di droga e di armi e aveva chiesto il trasferimento a Trapani per continuare le sue indagini.

28 luglio. A Porticello, a pochi chilometri da Palermo, ucciso il commissario di polizia Beppe Montana, impegnato nella ricerca dei latitanti.

6 agosto. A Palermo, in via Croce Rossa, cadono in un agguato il capo della Squadra mobile Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Scampa all’attentato l’agente Natale Mondo, che sarà ucciso successivamente. Ninni Cassarà era in prima linea nella lotta alla mafia e Roberto Antiochia pur essendo in ferie aveva chiesto di stare al suo fianco.

23 settembre. A Napoli viene ucciso il giornalista Giancarlo Siani. Aveva condotto delle inchieste sui legami tra camorristi e uomini politici nelle speculazioni dopo il terremoto dell’Irpinia.

25 novembre. A Palermo, in via Libertà, un’auto dei carabinieri di scorta ai magistrati Borsellino e Guarnotta sbanda e piomba su un gruppo di studenti in attesa dell’autobus. Muore sul colpo Biagio Siciliano di 14 anni e il primo dicembre muore Giuditta Milella di 17 anni. Molti ragazzi rimangono feriti. Successivamente, il 22 dicembre 2000, morirà Pierluigi Lo Monaco.

29 novembre. A Isola delle Femmine (Palermo) ucciso il brigadiere Enrico Monteleone, nel tentativo di sventare una rapina in atto all’ufficio postale.

12 dicembre. A Villafranca Tirrena (Messina) viene uccisa Graziella Campagna di 17 anni. Lavorava in una lavanderia e aveva trovato in un abito un’agendina del capomafia latitante Gerlando Alberti junior. La ragazza viene sequestrata e uccisa nel timore che possa rivelare l’identità del capomafia.

1986

21 gennaio. A Palermo omicidio dell’imprenditore Paolo Bottone, titolare assieme al padre dell’ISAVIA, una ditta di manutenzioni industriali. Probabilmente il delitto è dovuto al rifiuto di pagare il pizzo.

7 febbraio. A Cosenza ucciso in un agguato Filippo Salsone, maresciallo degli agenti di custodia del carcere, un anno dopo l’uccisione del direttore Sergio Cosmai.

11 febbraio. A Platì (Reggio Calabria) uccisi Francesco Prestia, che era stato più volte sindaco del paese, e la moglie Domenica De Girolamo, nella loro tabaccheria forse durante un tentativo di rapina.

6 aprile. A Napoli ucciso l’agente scelto di polizia Antonio Pianese.

3 maggio. A Bruzzano Zeffirio (Reggio Calabria) uccisi gli studenti Pietro e Fortunata Pezzimenti per una vendetta trasversale.

4 luglio. A Torre Annunziata (Napoli) ucciso Luigi Staiano, un imprenditore edile che si era ribellato al racket.

7 luglio. A Napoli uccisione dell’agente scelto di polizia Vittorio Esposito.

30 luglio. A Salerno ucciso l’agricoltore Antonio Sabia, in un agguato contro Vincenzo Marandino nella guerra di camorra tra gli uomini della Nco di Raffaele Cutolo e i membri della Nuova Famiglia.

26 agosto. Ucciso a Palermo Salvatore Benigno, cassiere presso un cinema, che vide dare alle fiamme un’auto da due mafiosi che avevano commesso un omicidio.

21 settembre. A Porto Empedocle (Agrigento), durante un agguato contro mafiosi rimangono uccisi Filippo Gebbia, mentre passeggiava con la fidanzata, e Antonio Morreale, seduto in un bar con la moglie.

7 ottobre. A Palermo, nel quartiere San Lorenzo, viene ucciso il ragazzo di 11 anni Claudio Domino. Autori del delitto sarebbero stati alcuni spacciatori di droga, uccisi qualche tempo dopo. Claudio potrebbe averli visti mentre spacciavano nel quartiere.

5 novembre. A Licola Mare (Napoli) ucciso Mario Ferillo, impresario teatrale, scambiato per un noto camorrista locale.

17 novembre. A Monreale (Palermo) ucciso il carabiniere ausiliario Rosario Pietro Giaccone.

1987

9 gennaio. In provincia di Catania ucciso Cosimo Aleo, ragazzo di sedici anni, che è stato strangolato e poi finito a colpi di pietre da sicari di Scuto perché aveva rubato in casa di un mafioso.

17 gennaio. A Reggio Calabria ucciso Antonio Scirtò, nel corso di una sparatoria tra le cosche Rosmini e Lo Giudice.

4 marzo. A Polistena (Reggio Calabria) ucciso da un proiettile vagante Giuseppe Richichi, vicepreside dell’istituto magistrale, in un agguato contro Vincenzo Luddeni, direttore della Banca popolare di Polistena, rimasto illeso.

10 aprile. A Cittanova (Reggio Calabria) uccisione del vicebrigadiere dei carabinieri Rosario Iozzia.

15 giugno. A Vibo Valentia ucciso il carabiniere Antonino Civinini.

27 agosto. A Niscemi (Caltanissetta) durante una sparatoria tra due gruppi mafiosi, vengono colpiti a morte i bambini Giuseppe Cutroneo e Rosario Montalto, che giocavano per strada.

4 dicembre. A Castel Morrone (Caserta) uccisione dei carabinieri Carmelo Ganci e Luciano Pignatelli. I carabinieri erano liberi dal servizio ma, appresa la notizia di una rapina, andavano alla ricerca dei rapinatori, inseguendoli con la loro auto. I malviventi aprivano il fuoco e uccidevano i due carabinieri.

20 dicembre. A Napoli, in un mobilificio, ucciso Aniello Giordano da una banda di estorsori.

1988

5 gennaio. A Laureana di Borrello (Reggio Calabria) ucciso il professore Nicola Pititto, forse per vicende legate alle estorsioni.

12 gennaio. A Palermo, in pieno centro, viene ucciso Giuseppe Insalaco, ex sindaco democristiano. Aveva denunziato alla Commissione parlamentare antimafia i collegamenti tra mafia e amministrazione comunale. Insalaco prima viene osteggiato e isolato politicamente, poi è eliminato anche fisicamente.

14 gennaio. A Palermo, nel quartiere Acquasanta, uccisione dell’agente Natale Mondo, scampato all’agguato del 6 agosto 1985 in cui erano morti il capo della Squadra mobile Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Aveva proseguito l’attività investigativa. Si è pensato anche a una vendetta per la morte nei locali della questura di Salvatore Marino, indiziato per l’omicidio del commissario di polizia Beppe Montana.

2 marzo. A Palermo uccisione dell’ingegnere Donato Boscia, direttore del cantiere dell’impresa romana Ferrocementi. Aveva denunciato alla Commissione antimafia i collegamenti tra mafia e amministrazione comunale.

9 luglio. A Gioia Tauro (Reggio Calabria) ucciso in un agguato il carabiniere Pietro Ragno, che aveva preso parte a diverse operazioni antimafia.

31 agosto. A Sant’Ilario sullo Ionio (Reggio Calabria) ucciso il pensionato Francesco Capogreco, probabilmente perché aveva assistito a un delitto.

2 settembre. A Lamezia Terme (Catanzaro) uccisa la guardia giurata Antonio Talarico.

9 settembre. A Gioia Tauro (Reggio Calabria) ucciso per errore il marocchino Abed Manyami.

14 settembre. A Pietretagliate (Trapani) uccisione del giudice in pensione Alberto Giacomelli. Secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, il delitto è stato compiuto perché il magistrato aveva firmato il provvedimento di confisca dei beni del fratello di Riina.

25 settembre. Nei pressi di Canicattì (Agrigento) vengono uccisi il giudice del Tribunale di Palermo Antonino Saetta e il figlio Stefano. È il primo magistrato giudicante ad essere assassinato. Aveva presieduto la Corte d’appello per la strage Chinnici del 29 luglio 1983 e per il delitto Basile del 4 maggio 1980. Era candidato a presiedere la Corte d’appello per il primo maxiprocesso.

26 settembre. Nei pressi di Valderice (Trapani) ucciso Mauro Rostagno. Ex leader del movimento studentesco, poi dirigente di Lotta continua, operava presso la comunità per tossicodipendenti Saman. Denunciava da una televisione locale le attività mafiose e le complicità di partiti e istituzioni.

23 ottobre. A Locri (Reggio Calabria) ucciso il primario di chirurgia Girolamo Marino, perché ritenuto responsabile, dal padre e dallo zio di Caterina Giampaolo, 4 anni, della sua morte dopo un intervento di appendicite. I Giampaolo fanno parte di un clan in lotta con gli Strangio.

10 novembre. A Siracusa ucciso il ragazzo Carmelo Zaccarello, figlio del titolare di un bar: i killer hanno sparato tra la folla per uccidere un mafioso.

12 novembre. A Melfi (Potenza) uccisione di Lucia Montagna, di 14 anni. Responsabili del delitto Maria, Filomena e Rosa Russo, sorelle di Santo Russo, ucciso il 4 ottobre 1988, del cui omicidio è stato accusato il cognato Angelo Montagna, fratello di Lucia. Difficile stabilire se si tratti di criminalità comune o organizzata.

18 novembre. A Camporeale (Palermo) ucciso il medico Giuseppe Montalbano. Con sentenza del 25 luglio 1997 è stato accertato che l’omicidio è stato compiuto da Giovanni Brusca e Santino Di Matteo perché il mafioso Biagio Montalbano sospettava che il medico fosse un confidente dei carabinieri.

15 dicembre. A Palermo uccisione dell’imprenditore Luigi Ranieri, titolare della Sageco, un’impresa edilizia che gestiva grossi appalti. Si sarebbe opposto alla spartizione degli appalti imposta dalle famiglie mafiose.

1989

8 gennaio. A Bianco (Reggio Calabria) scompare il sedicenne Rosario Bevilacqua, successivamente assassinato.

10 gennaio. A Deakin (Australia) ucciso, da un appartenente alla ‘ndrangheta, Colin Winchester, ufficiale di polizia maggiore dell’Australia.

29 gennaio. A Taurianova (Reggio Calabria) viene assassinato il bracciante agricolo Giuseppe Caruso.

14 febbraio. A Niscemi (Caltanissetta) ucciso Francesco Pepi, titolare di un’industria conserviera. Probabilmente il delitto è causato dal rifiuto di pagare il pizzo. In quegli anni a Niscemi c’era uno scontro tra cosche rivali con molti omicidi.

17 febbraio. A Tradate (Varese) viene rapito Andrea Cortellezzi, figlio di un industriale. Muore durante il sequestro.

23 febbraio. A Laureana di Borrello (Reggio Calabria), durante una sparatoria, viene uccisa Marcella Tassone, di 10 anni.

11 marzo. A Scordia (Catania) uccisione dell’imprenditore Nicola D’Antrassi. Intitolata al suo nome l’ASAES (Associazione antiracket e antiestorsioni) di Scordia.

16 marzo. A Palermo, nel borgo di Ciaculli, uccisione di Antonio D’Onufrio ritenuto informatore della polizia.

20 marzo. A Locri (Reggio Calabria) ucciso Vincenzo Grasso, gestore di una concessonaria di auto, che si rifiutava di pagare il pizzo.

9 giugno. A Vittoria (Ragusa) ucciso Salvatore Incardona, imprenditore agricolo, commissionario presso il mercato ortofrutticolo. Si sarebbe opposto alla richiesta di pagare il pizzo al clan Carbonaro-Dominante.

11 luglio. A Camporeale (Palermo) ucciso Paolo Vinci, un giovane di 17 anni, testimone di un agguato in cui è stato ucciso il suo datore di lavoro.

5 agosto. A Villagrazia di Carini (Palermo) uccisione dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castellucci, incinta. Il delitto è stato messo in relazione con il fallito attentato al giudice Falcone all’Addaura del 29 giugno del 1989.

24 agosto. Ad Agropoli (Salerno) uccisa Carmela Pannone, 5 anni, in un agguato contro suo zio Giuseppe Pannone, camorrista di Afragola.

25 agosto. A Melicucco (Reggio Calabria) ucciso Carmelo Curinga, probabilmente perché aveva assistito a un delitto.

A Villa Literno (Caserta) assassinato da una banda di criminali il rifugiato sudafricano Jerry Essan Masslo. Successivamente si svolgono a Villa Literno uno sciopero degli immigrati contro il capolarato e a Roma la prima manifestazione nazionale antirazzista. La mobilitazione porterà alla legge n. 39 del 1990 sulla condizione dello straniero in Italia.

12 settembre. A Gela, durante una sparatoria tra mafiosi appartenenti a gruppi rivali rimane uccisa la casalinga Grazia Scimè.

2 ottobre. A Taranto ucciso il capo della vigilanza all’Italsider, Giovanbattista Tedesco, dalla Sacra corona unita perché aveva denunciato i traffici all’interno dell’acciaieria.

20 ottobre A Statte (Taranto) ucciso Domenico Calviello, 14 anni.

23 ottobre. A Bovalino (Reggio Calabria) ucciso il bancario Giuseppe Tizian, probabilmente perché si rifiutava di riciclare il denaro sporco.

23 novembre. Uccise a Bagheria (Palermo), Leonarda Costantino, Lucia Costantino e Vincenza Marino Mannoia, rispettivamente madre, zia e sorella di Francesco Marino Mannoia, di cui si diceva che forse stava per collaborare con la giustizia.

21 dicembre. A Bianco (Reggio Calabria) viene rapito Vincenzo Medici, imprenditore agricolo, che muore durante il sequestro.

1990

23 gennaio. Ucciso a Monreale (Palermo) l’ingegnere Vincenzo Miceli. Si è autoaccusato come mandante dell’omicidio Giovanni Brusca che ha definito Miceli: “Un onesto lavoratore. Uno che non voleva pagare il pizzo e che faceva delle denunce”.

7 febbraio. A Villa San Giovanni (Reggio Calabria) ucciso dalla ‘ndrangheta il vicesindaco Giovanni Trecroci.

23 febbraio. A Curinga (Catanzaro) scompare Saverio Purita, 11 anni, che viene soffocato e poi bruciato.

16 marzo. A Palermo scompare il giovane Emanuele Piazza, vicino ai servizi segreti. Il 30 dello stesso mese scompare il vigile del fuoco Gaetano Genova, amico di Piazza. Secondo alcuni collaboratori di giustizia, in seguito a informazioni fornite da Piazza e Genova, sarebbero stati arrestati alcuni mafiosi. La scomparsa e l’uccisione di Piazza e di Genova sono state messe in relazione con il fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, del 21 giugno 1989.

18 marzo. A Rosarno (Reggio Calabria) rapito e ucciso (il cadavere è stato trovato dopo 7 anni) il ragazzo Michele Arcangelo Tripodi, per vendetta verso il padre legato al clan dei La Malfa.

21 marzo. A Niscemi (Caltanissetta) ucciso il commerciante Nicola Gioitta. Gli assassini sfregiano l’ucciso tagliandogli la gola.

11 aprile. A Milano ucciso Umberto Mormile, educatore nel carcere di Opera. Condannato come mandante dell’omicidio il boss Mico Papalia. La compagna di Mormile, Armida Miserere, che era stata vice direttrice di Opera, si è suicidata il 19 aprile 2003 nella sua abitazione presso il carcere di Sulmona di cui era diventata direttrice.

9 maggio. A Palermo uccisione di Giovanni Bonsignore, funzionario della Regione siciliana, noto per il suo rigore morale. Per il delitto è stato condannato il funzionario regionale Antonino Velio Sprio. Negli anni ’80 Bonsignore aveva condotto un’inchiesta amministrativa su un finanziamento irregolare ad una cooperativa agricola, di cui Sprio era vicepresidente, legata ai mafiosi di Palma di Montechiaro.

18 maggio. Ucciso a Napoli Nunzio Pandolfi, di due anni, nell’agguato in cui è stato ucciso il padre Gennaro.

24 giugno. A Villa San Giovanni (Reggio Calabria) ucciso l’imprenditore Franco Salsone. I fratelli Domenico e Paolo Condello, latitanti, avevano nascosto delle armi nella sua villa durante il periodo invernale in cui era chiusa.

5 luglio. A Strongoli (Catanzaro) viene assassinato per errore il sedicenne Arturo Caputo.

11 luglio. A Mondragone (Caserta) ucciso il vicesindaco Antonio Nugnes.

12 luglio. A Siderno (Reggio Calabria) viene uccisa durante un tentativo di sequestro l’insegnante Raffaella Scordo.

18 luglio. A San Leone (Agrigento) ucciso il funzionario di banca Giuseppe Tragna da killer del clan Grassonelli.

21 agosto. A Rosarno (Reggio Calabria) ucciso Francesco Tassone, forse testimone involontario di un delitto.

1 settembre. Ucciso a Reggio Calabria con diversi colpi di pistola il sedicenne Domenico Catalano. Forse Catalano e un altro ragazzo rimasto ferito sono stati colpiti per aver assistito involontariamente a qualche fatto delittuoso.

7 settembre. A Palermiti (Catanzaro) uccise Maria Marcella e sua figlia Elisabetta Gagliardi, moglie e figlia rispettivamente di Mario Gagliardi, pluripregiudicato per rapina.

8 settembre. A Bovalino superiore (Reggio Calabria) ucciso il brigadiere dei carabinieri Antonio Marino, che per tre anni aveva comandato la stazione di Platì (Reggio Calabria).

11 settembre. A Villa San Giovanni (Reggio Calabria) ucciso da sicari della ‘ndrangheta l’imprenditore edile Pietro Laface, incensurato. Le indagini seguono la pista degli appalti.

21 settembre. Sullo stradale fra Canicattì e Agrigento viene ucciso il magistrato Rosario Livatino che indagava sui mafiosi dell’Agrigentino. Il rappresentante di commercio Piero Nava, che passava con la sua macchina, ha testimoniato contro gli esecutori del delitto ed è stato costretto a cambiare nome e a risiedere in località segreta. Condannati come esecutori Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro, come mandanti Salvatore Calafato, Antonio Gallea, Giuseppe Montanti e Salvatore Parla, capi della Stidda.

8 ottobre. Ucciso a Commenda di Rende (Cosenza) l’imprenditore edile Pino Chiappetta, che aveva tentato di aggiudicarsi un subappalto.

31 ottobre. A Catania duplice omicidio alle Acciaierie Megara. Vengono uccisi l’amministratore delegato Alessandro Rovetta e il capo del personale Francesco Vecchio. Probabilmente si erano opposti alle imposizioni mafiose.

1991

9 gennaio. A Taranto uccisa Valentina Guarino, di 6 mesi, che si trovava in braccio al padre bersaglio dell’agguato.

In Puglia parecchi minori sono rimasti, intenzionalmente o casualmente, vittime della criminalità.

Marzo. A Casarano (Lecce) scomparsa e uccisa assieme alla madre, per ordine della moglie tradita di un boss Angelica Portoli, di 2 anni.

11 marzo. A Locri (Reggio Calabria) ucciso Antonio Valente, impiegato di una ditta che veniva taglieggiata.

30 marzo. Ucciso a Napoli Salvatore D’Addario, agente della Polizia di Stato, mentre tentava di fermare uno scontro a fuoco tra camorristi tra la folla.

2 aprile. Ad Altofonte (Palermo) ucciso il direttore della Cassa artigiana di Altofonte Francesco Pipitone, perché aveva tentato di opporsi a dei mafiosi che stavano compiendo una rapina.

18 aprile. A Villa Literno (Caserta), durante una sparatoria tra gruppi di camorristi, rimangono uccisi il dodicenne Salvatore Richiello, il padre Michele e il loro amicoPellegrino De Micco, estranei alla faida.

A Briatico (Vibo Valentia) viene rapito il medico Giancarlo Conocchiella, che muore durante il sequestro. Durante il processo la quindicenne Mariangela Vavalà collabora con la giustizia contribuendo alla incriminazione del padre Carlo, condannato per il delitto con sentenza definitiva. Successivamente Vavalà collaborerà con la giustizia e farà ritrovare il corpo di Conocchiella.

24 maggio. A Lamezia Terme (Catanzaro) uccisi, forse per un’azione contro il Comune, Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, operatori ecologici impegnati nella raccolta di rifiuti urbani, in una zona abitata dal clan Sambiase.

13 giugno. A Catania ucciso Vincenzo Leonardi. Lavorava al mercato ortofrutticolo ed era titolare di un’impresa di trasporti.

A Grotteria (Reggio Calabria) ucciso il piccolo imprenditore edile Nicodemo Panetta, assieme all’imprenditore Nicodemo Raschillà. Panetta con le sue denunce aveva fatto arrestare una cinquantina di ‘ndranghetisti vicini alla cosca Ursini.

19 giugno. A Capaci (Palermo) assassinati gli imprenditori Giuseppe e Salvatore Sceusa. Secondo il collaboratore di giustizia Angelo Siino sarebbero stati uccisi perché non si attenevano alle imposizioni della mafia relative agli appalti e non si accordavano per il pizzo.

27 giugno. Sulla strada tra Agrigento e Favara ucciso il metronotte Vincenzo Salvatori, durante un tentativo di rapina a un furgone porta valori.

10 luglio. A Reggio Calabria ucciso il proprietario terriero Antonino Cordopatri. Si era rifiutato di cedere le terre ai capi della ‘ndrangheta.

21 luglio. A San Cipriano d’Aversa (Caserta) durante una sparatoria rimane ucciso il passante Angelo Riccardo.

21 luglio. A Napoli ucciso il bambino Fabio De Pandi, di 10 anni.

24 luglio. Nei pressi di Francolise (Caserta) ucciso il commerciante Alberto Varone. I camorristi volevano rilevare la sua attività.

26 luglio. A Palermo, viene ucciso il bambino di 4 anni Andrea Savoca, assieme al padre, appartenente a famiglia mafiosa.

9 agosto. A Campo Calabro (Reggio Calabria) assassinio del magistrato di Cassazione Antonino Scopelliti. Si doveva occupare del maxiprocesso di Palermo. L’assassinio viene eseguito dalla cosca dei De Stefano, su indicazione della mafia siciliana.

20 agosto. A Soverato (Catanzaro) vengono uccisi i carabinieri Renato Lio e Giuseppe Leone, dagli occupanti di un auto a cui si erano avvicinati per una perquisizione.

25 agosto. A Condofuri (Reggio Calabria) ucciso Domenico Mafrici, allevatore di bestiame, probabilmente perché si era rifiutato di pagare l’estorsione. Era fratello di Bruno, rapito nel 1986 e rilasciato dopo il pagamento di un riscatto.

29 agosto. A Palermo uccisione dell’imprenditore Libero Grassi, titolare dell’azienda tessile Sigma. Si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva denunciato pubblicamente gli estorsori. Aveva suscitato l’interesse dei mezzi d’informazione, scarsa solidarietà (a un’assemblea per sostenere la sua azione avevano partecipato trenta persone) ed era stato isolato dagli altri imprenditori e dalle Associazioni imprenditoriali. I familiari ogni anno sul luogo del delitto appendono un cartello in cui denunciano l’isolamento in cui è stato lasciato Libero Grassi. La vecchia Sigma ha chiuso i battenti e il figlio Davide gestisce l’impresa Sigma Nuova. Condannati i mafiosi della famiglia Madonia.

28 settembre. A Reggio Calabria uccisi Demetrio Quattrone, funzionario dell’Ispettorato del Lavoro che aveva svolto alcune perizie per la Procura di Palmi, e Nicola Soverino, medico omeopata che si trovava assieme a Quattrone.

1 ottobre. A Careri (Reggio Calabria) viene ucciso il pastore Giuseppe Rocca, forse perché aveva assistito a un delitto.

7 ottobre. A Grotteria (Reggio Calabria) viene rapito l’anziano medico radiologo Pasquale Malgeri, che muore durante il sequestro.

12 ottobre. A Palermo ucciso da Salvatore Grigoli, con il metodo della lupara bianca, l’ex agente della polizia Serafino Ogliastro, sospettato dai mafiosi di essere venuto a conoscenza degli autori di un omicidio.

30 ottobre. A Lauro (Avellino) ucciso Nunziante Scibelli, mentre stava attraversando il paese alla guida di un’auto dello stesso modello dei veri bersagli dei killer.

16 dicembre. A Bronte (Catania) uccisa Giuseppa Cozzumbo, titolare di un bar. Probabilmente si era rifiutata di pagare il pizzo.

29 dicembre. A Taranto uccisa Sandra Stranieri, di 14 anni, da una pallottola vagante durante una sparatoria.

31 dicembre. A Palma di Montechiaro (Agrigento), durante una sparatoria all’interno di un bar per uccidere il mafioso Felice Allegro, rimane ucciso il trentenne Giuseppe Aliotto e vengono feriti un bambino e sei persone.

1992

4 gennaio. A Lamezia Terme (Catanzaro) uccisi il sovrintendente di polizia Salvatore Aversa, impegnato da anni in indagini sulla ‘ndrangheta, e la moglie Lucia Precenzano.

22 gennaio. A Randazzo (Catania) uccisi il pastore Antonino Spartà e i figli Vincenzo e Salvatore. Si erano rifiutati di pagare una tangente. Le loro tombe saranno più volte profanate.

11 febbraio. Nei pressi di Rosarno (Reggio Calabria) uccisi gli algerini Abid Abdelgani e Sari Mabini da giovani della ‘ndrangheta che li avevano attirati in un tranello offrendogli un lavoro. Per i rampolli della ‘ndrangheta uccidere gli extracomunitari sarebbe una sorta di rito di iniziazione.

12 febbraio. A Pontecagnano (Salerno), durante un controllo ad un posto di blocco, vengono uccisi i carabinieri Fortunato Arena e Claudio Pezzuto.

22 febbraio. A Bagheria (Palermo) ucciso il commerciante Salvatore Mineo, perché si sarebbe ribellato al racket.

18 marzo. A Catania uccisione del maresciallo dei carabinieri Alfredo Agosta, impegnato in indagini sulla mafia.

21 aprile. A Lucca Sicula (Agrigento) ucciso l’imprenditore Paolo Borsellino. Gestiva un’impresa di movimento terra e con il padre Giuseppe aveva fondato una piccola impresa di calcestruzzi. Si era opposto alla richiesta di mafiosi della zona di cessione di quote aziendali.

23 maggio. Sull’autostrada Palermo-Punta Raisi, nei pressi di Capaci (Palermo), una carica di esplosivo uccide il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli uomini della scorta Rocco Dicillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani. Falcone, dopo essere stato giudice a Trapani e giudice istruttore e procuratore aggiunto a Palermo, imponendosi come uno dei magistrati più impegnati e competenti nelle indagini antimafia, impossibilitato a continuare il suo lavoro dopo lo smantellamento del pool antimafia, si era trasferito a Roma con l’incarico di Direttore generale degli Affari penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia ed era candidato alla carica di Procuratore nazionale antimafia. Sono stati condannati come mandanti alcuni capimafia facenti parte della cupola. Rimane irrisolto il problema dei mandanti esterni.

12 luglio. A Villa di Briano (Caserta) vengono uccisi in una sparatoria tra la folla in un agguato contro un camorrista, Egidio Campaniello e Luigi Sapio.

19 luglio. A Palermo, in via D’Amelio, un’autobomba uccide il magistrato Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Cosina, Emanuela Loi,Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Borsellino aveva fatto parte del pool antimafia, era stato procuratore presso il Tribunale di Marsala, aveva denunciato lo smantellamento del pool antimafia ed era tornato a lavorare presso il Tribunale di Palermo. Dopo la morte di Falcone era stato fatto il suo nome per la carica di Procuratore nazionale antimafia. Condannati come esecutori e come mandanti uomini e capi di Cosa nostra; resta il problema, comune alle altre stragi, dell’individuazione dei mandanti esterni.

26 luglio. A Roma suicidio di Rita Atria, una ragazza di 17 anni, figlia di un capomafia di Partanna (Trapani). Dopo l’uccisione del padre e del fratello, Rita aveva collaborato con la giustizia, assieme alla cognata Piera Aiello, rompendo con la madre. Si era rivolta a Paolo Borsellino, con cui aveva stabilito un rapporto filiale. L’assassinio del magistrato, nell’isolamento del regime di protezione, la getta nello sconforto che la induce al suicidio.

27 luglio. A Catania uccisione dell’ispettore di polizia Giovanni Lizzio. Responsabili del delitto i mafiosi della famiglia Santapaola.

6 agosto. A Villa Literno (Caserta) uccisi, da killer che hanno sparato dentro un’officina per uccidere il titolare imparentato con un camorrista, il contadino Antonio Di Bona, che attendeva la riparazione del proprio trattore, e il meccanico Nicola Palumbo.

28 settembre. A Castellammare del Golfo (Trapani) ucciso il capitano di marina in pensione Paolo Ficalora. Aveva ospitato nel suo residence, senza conoscerne l’identità, l’ex collaboratore di giustizia Salvatore Contorno.

14 ottobre. Ucciso a Porto Empedocle (Agrigento) il sovrintendente di polizia penitenziaria Pasquale Di Lorenzo. Si è accusato dell’omicidio il collaboratore di giustizia Alfonso Falzone. Mandante sarebbe stato Totò Riina che voleva dare un “segnale” contro il carcere duro e avrebbe ordinato di uccidere un agente di custodia per provincia.

6 novembre. A Foggia ucciso l’imprenditore edile Giovanni Panunzio. Si era opposto al racket e aveva fatto arrestare gli estorsori.

10 novembre. A Gela (Caltanissetta) uccisione del commerciante Gaetano Giordano. Viene ferito il figlio Massimo. Giordano si era opposto alle richieste estorsive.

17 dicembre. A Lucca Sicula (Agrigento) ucciso Giuseppe Borsellino, padre dell’imprenditore Paolo, ucciso il 21 aprile. Aveva rivelato alla magistratura i nomi dei mandanti e degli esecutori dell’assassinio del figlio e aveva ricostruito gli intrecci tra mafia, affari e politica nell’Agrigentino.

1993

8 gennaio. A Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) viene ucciso il corrispondente del quotidiano “La Sicilia” Beppe Alfano. Aveva dedicato vari servizi alle attività della mafia della zona e ultimamente aveva denunziato le speculazioni dell’Aias di Milazzo a danno degli handicappati.

8 febbraio. A Poggioreale ucciso Pasquale Campanello, sovrintendente della polizia penitenziaria.

20 marzo. A Locri (Reggio Calabria) viene ucciso il chirurgo Nicolò Pandolfo, probabilmente su mandato della famiglia Cordì per un intervento non riuscito su una bambina con un tumore al cervello.

21 aprile. Sulla strada da Porto Empedocle (Agrigento) ucciso, assieme al pescivendolo Angelo Carlisi, Calogero Zaffuto, vittima innocente.

14 maggio. A Vibo Valentia uccisione del commerciante Nicola Remondino.

17 maggio. A Napoli ucciso Maurizio Estate, di 22 anni: aveva sventato uno scippo e il rapinatore è tornato indietro per ucciderlo.

27 maggio. A Firenze in via dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi, un’autobomba provoca la morte di cinque persone: la custode dell’Accademia dei Georgofili Angela Fiume, il marito Fabrizio Nencioni, le figlie Elisabetta di 8 anni e Caterina di un mese e mezzo, lo studente universitario Dino Capolicchio. Danni agli edifici circostanti e alla Galleria. L’inchiesta è stata unificata con quella della successiva strage di Milano. Sono stati condannati i capimafia della cupola. Restano da individuare i mandanti esterni.

5 luglio. A Gela ucciso, da un pregiudicato del clan Madonia, l’ elettricista Andrea Castelli, 24 anni, che era intervenuto per difendere alcune ragazze.

22 luglio. A Bovalino viene sequestrato dalla ‘ndrangheta Adolfo Cartisano. Il suo corpo è stato ritrovato nel 2003.

27 luglio. A Milano un’autobomba esplode in via Palestro. 5 vittime: i pompieri Carlo Lacatena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto, il vigile urbano Alessandro Ferrari e l’immigrato marocchino Dris Moussafir. Gravi danni al Padiglione d’arte contemporanea. Lo stesso giorno a Roma esplodono due ordigni, uno davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano, l’altro davanti alla chiesa di San Giorgio in Velabro, gravemente danneggiata. Gli attentati di Roma, Firenze e Milano mirano non solo a spostare l’attenzione fuori dalla Sicilia ma soprattutto a imporre alle istituzioni una politica di concessioni all’organizzazione mafiosa Cosa nostra: l’abolizione dell’ergastolo e del carcere duro, l’attenuazione della legislazione antimafia e la revisione dei processi.

15 settembre. A Palermo, nel quartiere Brancaccio, ucciso il parroco Giuseppe Puglisi. Era impegnato in un’opera di educazione dei giovani del quartiere e di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti. Condannati come mandanti i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e come esecutore Salvatore Grigoli, successivamente collaboratore di giustizia.

7 novembre. A Cittanova (Reggio Calabria) assassinato in un agguato mafioso Giovanni Mileto, caposquadra cantonieri, sacrificatosi per salvare un’altra persona.

23 novembre. Ad Altofonte (Palermo) scompare il bambino Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santo. Verrà tenuto in ostaggio fino al gennaio del 1996, strangolato e il corpo sarà sciolto nell’acido. Responsabili del delitto Giovanni Brusca, reo confesso, e altri mafiosi.

1994

18 gennaio. Sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Scilla, uccisi in agguato della ‘ndrangheta i carabinieri Vincenzo Garofalo e Antonino Fava.

18 febbraio. Nelle campagne di Rosarno (Reggio Calabria) agguato contro migranti africani che dormono in un casolare. Rimane ucciso l’ivoriano Mourou Kouakau Sinan.

2 marzo. In Australia ucciso George Bowen, detective impegnato in indagini sulla ‘ndrangheta. Doveva testimoniare al processo contro Domenic Perre un boss delle cosche italo-australiane.

19 marzo. A Casal di Principe (Caserta) viene ucciso don Giuseppe Diana, parroco della chiesa di San Nicola. Aveva cominciato il suo impegno contro la camorra nel 1983 quando dopo una strage aveva organizzato assieme a pochi altri una manifestazione. Nel 1989 aveva rifiutato i soldi messi a disposizione dai camorristi per la festa parrocchiale e lavorato con i giovani e gli extracomunitari. Nel dicembre del 1991 aveva preparato il documento “Per amore del mio popolo non tacerò” e in occasione delle elezioni comunali del 1993 aveva invitato gli elettori a fare delle scelte oculate e i camorristi a farsi da parte. Venne ucciso il giorno del suo onomastico, in chiesa, mentre si accingeva a celebrare la messa. Dopo una serie di depistaggi, nel 2003 sono stati condannati i camorristi responsabili del delitto.

20 marzo. A Mogadiscio, in Somalia, uccisione della giornalista della Rai Ilaria Alpi e del cameraman Miran Hrovatin. La Alpi indagava su traffici internazionali di armi e di rifiuti tossici.

24 marzo. A Gravina di Catania ucciso l’agente di polizia penitenziaria Luigi Bodenza.

Lo stesso giorno, a Bronte (Catania) viene ucciso Enrico Incognito, appartenente a un clan mafioso, che aveva deciso di collaborare con la giustizia. L’omicida è il fratello Marcello, con la complicità dei genitori. Una telecamera, che registrava le rivelazioni di Enrico, ha ripreso la scena del delitto. Incognito, in seguito al suo pentimento, era stato abbandonato dalla moglie.

26 marzo. A Secondigliano, quartiere di Napoli, uccisa Anna Dell’Orme, madre di Domenico Amura, morto per overdose. Lei e l’altro figlio, Carmine, avevano denunciato i trafficanti che avevano venduto al figlio Domenico la droga. Ucciso anche Carmine Amura.

27 marzo. A Locri (Reggio Calabria) uccisa Maria Teresa Pugliese, moglie dell’ex sindaco e impegnata nell’associazionismo. Un figlio era stato coinvolto in fatti di droga. Forse era sulle tracce delle compagnie del figlio.

5 aprile. A San Cipirello (Palermo) ucciso, per una questione di gelosia, il giovane Cosimo Fabio Mazzola, dai mafiosi Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo.

8 aprile. Nei pressi di Napoli uccisa Maria Grazia Cuomo, 56 anni, cognata di Francesco Alfieri, lontano parente del boss della camorra Carmine Alfieri, collaboratore di giustizia. I killer forse volevano uccidere il figlio di Carmine, sono entrati nel casolare dove si era rifugiato e non avendolo trovato hanno ucciso la donna.

30 maggio. A Bivona (Agrigento) uccisione dell’imprenditore Ignazio Panepinto. Gestiva una cava e un impianto per la frantumazione delle pietre. Probabilmente si era rifiutato di sottostare alle richieste della mafia che imponeva un monopolio delle forniture per i lavori nella zona.

25 giugno. A Licata (Agrigento) ucciso l’imprenditore edile Salvatore Bennici, che si opponeva alle richieste della mafia della zona in cui operava. Aveva subito due attentati: l’incendio di un escavatore e un tentato incendio a casa sua.

10 luglio. A Catania uccise Liliana Caruso e Agata Zucchero, moglie e madre del collaboratore di giustizia Riccardo Messina.

16 settembre A Pizzo Calabro (Reggio Calabria) scompare il giovane Francesco Aloi, forse perché si era messo con una donna di una famiglia della ‘ndrangheta.

19 settembre. A Bivona (Agrigento) uccisi l’imprenditore Calogero Panepinto, fratello di Ignazio assassinato il 30 maggio dello stesso anno, e l’operaio Francesco Maniscalco. Dopo l’assassinio del fratello, Panepinto aveva ripreso il lavoro nella cava. Un figlio di Ignazio, Luigi, decide di riprendere i lavori per la produzione di calcestruzzi, ma si presentano solo 6 operai su 25. Gli viene assegnata una scorta che sarà revocata poco tempo dopo. Nel luglio 2008 i giornali riportano la notizia dell’arresto dei fratelli Luigi, Maurizio e Marcello Panepinto. Luigi viene indicato come il capomandamento della zona.

Nello stesso giorno, a Carovigno (Brindisi) ucciso Leonardo Santoro, mentre stava aprendo il cancello dell’abitazione per i giudici della Corte d’assise.

29 settembre. A Mileto (Catanzaro) durante una rapina rimane ucciso il bambino americano Nicholas Green. Nel 1998 è stato condannato all’ergastolo Michele Iannello, già affiliato alla ‘ndrangheta.

12 dicembre. A Napoli uccisa per caso Palmina Scamardella, in un agguato di camorra.

1995

19 gennaio. A Teverola (Caserta) ucciso il giovane Genovese Pagliuca che si era ribellato alle violenze subite dalla fidanzata, che aveva rifiutato una relazione lesbica con Angela Barra, amante di Francesco Bidognetti.

4 febbraio. A Milano ucciso il fioraio ambulante Pietro Sanua, “sindacalista dei fioristi” che per primo denunciò il racket degli ambulanti a Milano.

17 febbraio. A Belmonte Mezzagno (Palermo), in un agguato in una macelleria contro uno dei proprietari, Simone Benigno, rimasto illeso, viene ucciso un cliente, Giovanni Salamone, e sono feriti altri due.

26 febbraio. Nelle vicinanze di Terrasini (Palermo) ritrovato il corpo di Francesco Brugnano, titolare di una cantina vinicola di Partinico, confidente del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo. In seguito, il 4 marzo, suicidio del maresciallo Lombardo, che aveva incontrato Gaetano Badalamenti negli Stati Uniti, probabilmente per convincerlo a collaborare con la giustizia.

6 marzo. A Palermo ucciso Domenico Buscetta, nipote di Tommaso. Una vendetta trasversale per colpire Buscetta.

31 marzo. A Foggia ucciso Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del Registro immobiliare. Il delitto è da collegare con la sua attività di pubblico amministratore e con gli interessi legati al Piano regolatore.

20 aprile. Ad Alessandria della Rocca (Agrigento) ucciso, con il pregiudicato Emanuele Seidita, il manovale incensurato Giovanni Carbone.

25 giugno. A Reggio Calabria ucciso dal racket dei parcheggi Peter Iwule Onjedeke, extracomunitario con regolare permesso di soggiorno, che arrotondava lo stipendio di operaio facendo il posteggiatore abusivo.

30 agosto. A Nicolosi (Catania) uccisione del commerciante Antonino Longo.

3 settembre. A Niscemi (Caltanissetta) scompare il giovane Pierantonio Sandri. I resti verranno trovati nel 2009 in seguito a dichiarazioni di collaboratori di giustizia che hanno parlato di omicidio mafioso. Probabilmente aveva assistito al compimento di un delitto.

1 novembre. A Gioiosa Jonica (Reggio Calabria) ucciso il commerciante Luigi Colucci. I suoi familiari avevano ricevuto intimidazioni, tra cui l’incendio di una paninoteca.

9 novembre. A Catania uccisione dell’avvocato Serafino Famà, legale di alcuni mafiosi. Si parla di contrasti con i suoi difesi, ma non si esclude che l’omicidio possa essere un avvertimento rivolto agli avvocati perché assumano un atteggiamento più “attivo” nella difesa degli imputati mafiosi.

15 novembre. A Somma Vesuviana (Napoli) durante una sparatoria rimane ucciso il bambino Gioacchino Costanzo, di 2 anni.

22 novembre. A Locri (Reggio Calabria) ucciso Fortunato Correale, testimone di giustizia. Gli imputati sono stati condannati in primo grado e assolti in appello.

29 novembre. Ad Avola (Siracusa) ucciso l’imprenditore Antonino Buscemi, titolare di un’impresa edile. Probabilmente si era rifiutato di sottostare al racket o era riuscito ad aggiudicarsi lavori voluti da altri.

23 dicembre. Ucciso a Pietretagliate (Trapani) Giuseppe Montalto, agente di custodia in servizio alle carceri del’Ucciardone di Palermo, nell’ala riservata ai detenuti per mafia. Erano con lui nell’auto la moglie e la figlia di sei mesi. Montalto sarebbe stato ucciso perché si sarebbe rifiutato di favorire qualche capomafia o per ritorsione contro i provvedimenti restrittivi introdotti con il 41 bis.

1996.

1 marzo. A Vinosa (Taranto) muore la bracciante Annamaria Torno, di 18 anni, vittima del caporalato, in un incidente stradale mentre era su un pulmino, che avrebbe dovuto trasportare 9 persone, mentre le lavoratrici erano 14. Il caporalato è un fenomeno diffuso soprattutto in Puglia, legato al reclutamento e sfruttamento della manodopera.

27 aprile. A Lucca Sicula (Agrigento), ucciso Calogero Tramuta, ex agente della Guardia di Finanza, commerciante di arance.

17 giugno. A Santa Eufemia D’ Aspromonte (Reggio Calabria), in un agguato della ‘ndrangheta, ucciso il maresciallo Pasquale Azzolina e ferito il brigadiere Salvatore Coltello.

10 luglio. A Potenza, ucciso l’agente Francesco Tammone da un pregiudicato che stava inseguendo.

20 luglio. A Napoli ucciso il giovane Davide Sannino, da due ragazzi che hanno rubato un motorino e sono tornati indietro a sparargli forse perché li aveva visti.

27 agosto. Nel cimitero di Catania uccisi Santa Puglisi, 22 anni, figlia del boss Nino, e Salvatore Botta, di 13 anni, nipote di Santa. La donna si recava ogni giorno al cimitero sulla tomba del marito, Matteo Romeo, ucciso il 23 novembre dell’anno precedente.

30 settembre. A Varapodio (Reggio Calabria) ucciso l’imprenditore edile Antonino Polifroni che si rifiutava di pagare il pizzo e di acquistare i materiali forniti dalla ‘ndrangheta. I figli hanno rilevato l’azienda e hanno istituito un premio biennale per la pace e la legalità destinato ai ragazzi delle scuole.

16 ottobre. Uccisi a Niscemi (Caltanissetta) il gioielliere Salvatore Frazzetto e il figlio Giacomo. La moglie, Agata Azzolina, aveva riconosciuto i killer che in precedenza avevano tentato di estorcere il gioielliere. Il 23 marzo del 1997 Agata Azzolina muore suicida, dopo aver subìto tentativi di estorsione ed essere stata minacciata di morte assieme alla figlia, nonostante la vigilanza di due militari alla porta di casa.

18 novembre. A Trapani in uno scontro con l’auto del magistrato di Sciacca Bernardo Petralia muoiono Maria Antonietta Savona e il figlio di un mese Riccardo Salerno.

23 novembre. A Torre Annunziata (Napoli) ucciso Raffaele Pastore, un piccolo commerciante che aveva denunciato i camorristi.

29 novembre. A Palizzi (Reggio Calabria) uccisi lo studente Celestino Fava e il giovane contadino Antonino Moio, entrambi incensurati.

20 dicembre. A Gela (Caltanissetta) ucciso il commerciante Rosario Ministeri, secondo gli inquirenti senza legami con la mafia.

1997

4 gennaio. A Partinico (Palermo) viene ucciso il bancario in pensione Giuseppe La Franca. I mafiosi volevano impadronirsi di alcuni terreni di sua proprietà.

26 gennaio. A Ercolano (Napoli) ucciso il sedicenne Ciro Zirpoli, figlio del collaboratore di giustizia Leonardo.

12 febbraio. Al villaggio Mosè di Agrigento ferito alla testa con colpi di arma da fuoco Giulio Castellino, dirigente del Servizio d’igiene pubblica presso la Usl di Agrigento e per oltre un decennio ufficiale sanitario a Palma di Montechiaro. Spirerà il 25 febbraio.

10 giugno. A Taranto, in un agguato contro il padre, pregiudicato per spaccio di droga, rimane uccisa Raffaella Lupoli, di 11 anni.

11 giugno. Uccisa a Napoli da killer che hanno sparato tra la folla Silvia Ruotolo, che stava tornando a casa con il figlio di cinque anni. Morto un pregiudicato, ferito uno studente.

19 giugno. A Palermo ucciso il costruttore Angelo Bruno. Si pensa che avesse avuto richieste estorsive. I familiari dicono che è morto come Libero Grassi, ma l’imprenditore non aveva mai parlato di estorsioni neppure con loro.

30 agosto. Ucciso nelle campagne di Napoli Giovanni Arpa, zio di Rosario Privato, il pentito che ha permesso di arrestare i responsabili della sparatoria in cui è rimasta uccisa Silvia Ruotolo, tra cui il capoclan Giovanni Alfano.

12 settembre. Ad Alcamo (Trapani) si suicida il commerciante Gaspare Stellino. Doveva testimoniare contro gli estorsori.

1998

3 gennaio. A Cinquefrondi (Reggio Calabria), all’uscita da una sala giochi, uccisi da killer che sparano da una macchina, Saverio Ieraci, di 13 anni, e Davide Ladini, di 17 anni.

18 febbraio. A Napoli ucciso Giovanni Gargiulo, di 14 anni, per vendetta della camorra per uno sgarro compiuto dal fratello.

10 aprile. Nei pressi di Catania trovato il corpo di Annalisa Isaia, una ragazza figlia del mafioso Paolo, ucciso nel 1993. Ha confessato il delitto lo zio di Annalisa, Luciano Daniele Trovato, che voleva impedirle di frequentare ragazzi di un clan rivale.

24 aprile. A Cerignola (Bari) muoiono per un incidente stradale Incoronata Sollazzo e Maria Incoronata Ramella, braccianti agricole che viaggiavano su un furgone dei “caporali” stipato di lavoratori.

8 maggio. A Oppido Mamertina (Reggio Calabria), uccisi Mariangela Anzalone, di 8 anni, e suo nonno Giuseppe Biccheri, e feriti la madre della bambina, Francesca Biccheri, e un altro figlio di 7 anni, da killer che hanno sparato all’impazzata per coprire la loro fuga dopo che avevano ucciso due ‘ndranghetisti.

23 maggio. A Gela ucciso durante un tentativo di rapina il commerciante Orazia Sciascio.

4 luglio. A Catania muore suicida Enrico Chiarenza di 18 anni. Il giovane era figlio di Clemente ucciso nel 1995 in un agguato mafioso e nipote di un ex collaboratore di giustizia.

5 luglio. Ad Acerra (Napoli) ucciso per sbaglio il giovane Antonio Ferrara.

20 luglio. A Pomigliano D’Arco (Napoli) uccisi gli operai di un pastificio Salvatore Di Falco, Rosario Flaminio e Alberto Vallefuoco. A Vallefuoco nel dicembre del 2007 è stato intitolato la stadio di Mugnano, comune in cui viveva, come vittima innocente della violenza camorristica.

3 settembre. A Scisciano (Napoli) durante una sparatoria rimane uccisa la passante Giuseppina Guerriero.

25 settembre. A Gioia Tauro (Reggio Calabria) ucciso il medico Luigi Ioculano. Presidente di un’associazione e fondatore di un periodico locale, aveva preso posizione contro il nuovo piano regolatore e gli interessi della ‘ndrangheta.

8 ottobre. A Caccamo (Palermo) ucciso il sindacalista dell’Uil ed ex consigliere provinciale Domenico Geraci. Aveva denunciato gli interessi della mafia della zona e sarebbe stato candidato a sindaco per l’Ulivo nelle imminenti elezioni comunali.

17 novembre. A Palma di Montechiaro (Agrigento) ucciso l’agente penitenziario Antonio Condello. Aveva prestato servizio nel padiglione del carcere di Agrigento in cui sono rinchiusi mafiosi sottoposti al regime del carcere duro (41 bis).

24 dicembre. A Orgosolo (Nuoro) ucciso il viceparroco Graziano Muntoni. Prima insegnante e consigliere comunale democristiano, poi sacerdote, era impegnato soprattutto in attività con i giovani.

1999

2 gennaio. Strage mafiosa a Vittoria (Ragusa) con cinque morti. Tra essi gli incensurati Rosario Salerno e Salvatore Ottone. La strage si inserisce in un conflitto tra cosche mafiose per il controllo delle attività economiche, in gran parte legate al mercato ortofrutticolo, uno dei più grandi della Sicilia.

20 marzo. A Castel Volturno (Caserta) ucciso Francesco Salvo, cameriere in un bar, bruciato vivo in un raid punitivo contro il titolare che aveva tolti i videogiochi del clan.

22 aprile. A Favara (Agrigento) ucciso in un agguato mafioso il dodicenne Stefano Pompeo che si trovava su un’auto di proprietà di Carmelo Cusimano, fratello di Giuseppe indicato come vicino alla famiglia mafiosa di Favara, e guidata dall’incensurato Enzo Quaranta.

Estate. Nelle campagne pugliesi ucciso il migrante albanese Hiso Telaray, vittima della violenza dei caporali che ne sfruttavano il lavoro nei campi.

5 luglio. A Palermo ucciso il funzionario regionale Filippo Basile. Reo confesso del delitto l’esecutore Ignazio Giliberti, che accusa come mandante il funzionario Antonino Velio Sprio. Basile, capo del personale dell’Assessorato dell’Agricoltura, aveva istruito la pratica di licenziamento di Sprio, condannato per associazione a delinquere e per tentato omicidio.

21 luglio. A Gela, durante una sparatoria contro un mafioso, all’interno di una sala di barbiere, viene ucciso anche il giovane Salvatore Sultano, estraneo alla malavita.

25 agosto. Sull’autostrada Bari-Napoli uccisi Ennio Petrosino e Rosa Zaza: una macchina di contrabbandieri ha invertito il senso di marcia a fari spenti e ha travolto la loro auto.

21 settembre. A Foggia ucciso il pensionato Matteo Di Candia da killer che sparavano contro un pregiudicato rimasto ferito.

12 ottobre. A Fasano (Brindisi) travolta e uccisa Anna Pace, da un furgone di trafficanti di sigarette mentre viaggiava sull’auto guidata dal marito.

6 dicembre. Sulla provinciale tra San Donato di Lecce e Copertino durante una rapina a un furgone portavalori uccise tre guardie giurate, Luigi Pulli, Rodolfo Patera eRaffaele Arnesano. La rapina sarebbe opera di elementi della Sacra corona unita.

2000

7 gennaio. Sull’autostrada Milano-Venezia durante un inseguimento per un’operazione antidroga rimane ucciso il sovrintendente di polizia Antonio Lippiello.

5 febbraio. A Sant’Angelo Muxaro (Agrigento) ucciso il piccolo imprenditore e consigliere comunale di Alleanza Nazionale Salvatore Vaccaro Notte. Il 3 novembre del ’99 era stato ucciso il fratello Vincenzo. I fratelli tornati dalla Germania avevano aperto un’agenzia di pompe funebri. Secondo gli inquirenti non si sono piegati alla richiesta di chiudere l’attività, da parte di mafiosi interessati alla gestione di un’altra agenzia.

24 febbraio. A Brindisi uccisi i finanzieri Alberto De Falco e Antonio Sottile e feriti gravemente i colleghi Edoardo Roscica e Sandro Marras. I militari erano a bordo di un’auto speronata da una Rover blindata di contrabbandieri.

26 febbraio. A Strongoli (Crotone) in un agguato contro pregiudicati rimane ucciso il pensionato Ferdinando Chiarotti ed è gravemente ferito il pensionato Giuseppe Marasco.

2 marzo. A Isola Capo Rizzuto (Crotone) durante una sparatoria rimane ucciso assieme al pregiudicato Francesco Arena il giovane Francesco Scerbo, impegnato nel volontariato.

5 marzo. A Giugliano (Napoli) ucciso a colpi di pistola il giovane Ferdinando Liguori. A sparare sono stati alcuni giovani del quartiere Secondigliano con cui Liguori e altri amici avevano litigato in una discoteca.

11 marzo. A Bari ucciso per errore, da killer che hanno sparato nei locali di un circolo, l’incensurato Giuseppe Grandolfo.

2 aprile. Ad Anagni (Frosinone) in un incidente provocato da un’auto occupata probabilmente da trafficanti di droga, che sono fuggiti, rimane ucciso il brigadiere della Guardia di finanza Domenico Stanisci e viene ferito un collega.

13 aprile. A Marina di Gioiosa Jonica (Reggio Calabria) ucciso con un esplosivo posto sotto la sua auto l’imprenditore Domenico Gullaci, contitolare di una ditta di materiali per l’edilizia. Nel 1997 era stato ucciso a Siderno un cognato di Gullaci, il commerciante Francesco Marzano. I Gullaci hanno interessi in Sicilia e gli investigatori sospettano che il delitto sia stato eseguito dalla ‘ndrangheta su richiesta della mafia.

7 giugno. A Bari durante una sparatoria tra due gruppi mafiosi, un proiettile vagante uccide la signora Maria Colangiuli.

14 luglio. A Francavilla Fontana (Brindisi) ucciso il maresciallo dei carabinieri Giovanni Di Mitri, colpito alle spalle dai complici di due rapinatori che aveva tentato di bloccare all’uscita da una banca. Il delitto è compiuto in un contesto in cui è diventato sempre più difficile tracciare un confine netto tra criminalità comune e crimine organizzato.

21 luglio. A Bovalino (Reggio Calabria) ucciso a colpi di fucile il commerciante Saverio Cataldo, ferita gravemente la moglie. L’ucciso aveva resistito alle richieste della ‘ndrangheta di cedere il negozio.

24 luglio. Nel canale di Otranto (Lecce) morti i finanzieri Salvatore De Rosa e Daniele Zoccola, sbalzati in acqua nello scontro tra motoscafi provocato da albanesi che poco prima avevano costretto alcuni emigranti clandestini a gettarsi in mare.

28 luglio. A Torre del Greco (Napoli) ucciso l’imprenditore Giuseppe Falanga da due killer entrati a viso scoperto nel suo cantiere. Gli investigatori ritengono che si tratti di un’azione della camorra, anche se non risulta che l’imprenditore avesse ricevuto richieste di estorsione.

10 agosto. A Napoli uccisi i giovani incensurati Pietro Castaldi e Luigi Sequino, scambiati per dei guardaspalla del capocamorra Rosario Marra.

25 agosto. Ucciso a Mesoraca (Crotone), in un agguato il cui bersaglio era il pregiudicato Armando Ferrazzo rimasto leggermente ferito, il giovane Giuseppe Manfreda che stava transitando in macchina assieme alla moglie, rimasta ferita, e due figlioletti di due mesi, di cui uno è stato ferito ad una spalla.

27 ottobre. A San Giovanni in Fiore (Cosenza) ucciso il quindicenne Giovanni Madia, da killer che hanno sparato contro l’auto per uccidere suo nonno.

12 novembre. A Pollena Trocchia (Napoli) uccisa durante una sparatoria la bambina di due anni Valentina Terracciano, figlia di un trafficante di droga.

2001

12 luglio. A Bari ucciso il sedicenne Michele Fazio, venutosi a trovare in mezzo a una sparatoria. Gli inquirenti sospettano che sia stato usato come scudo da un capo della Sacra corona unita bersaglio dell’agguato.

20 luglio. A Genova, durante le manifestazioni contro il vertice G8, viene ucciso dalle forze dell’ordine il giovane Carlo Giuliani.

6 dicembre. A Calatabiano (Catania) ucciso il commerciante in pensione Carmelo Benvegna. Aveva denunciato e fatto arrestare alcuni estorsori ed era scampato a un agguato.

2002

18 febbraio. A Casal di Principe (Caserta) viene ucciso Federico Del Prete, segretario regionale del sindacato autonomo degli ambulanti, da lui fondato, che aveva denunciato casi di intimidazione della camorra. Avrebbe dovuto testimoniare al processo, nato dalle sue denunce, contro Mattia Sorrentino, un vigile urbano di Maddaloni rinviato a giudizio con l’accusa di estorsione nei riguardi di esercenti dei mercatini per conto del clan La Torre. Il delitto è rimasto impunito.

17 maggio. A Francica (Vibo Valentia) scompare il quattordicenne Luca Cristello. Trasferitosi a Torino lavorava in nero come manovale nell’edilizia e aveva minacciato di denunciare l’impresa.

2003

4 gennaio. A Grumo Nevano (Napoli) ucciso Domenico Pacilio, che nei primi anni ’90 aveva denunciato una banda di estorsori provocando l’arresto e la condanna di uno di loro.

10 marzo. A Lamezia Terme (Catanzaro) ucciso l’imprenditore Antonio Perri che non avrebbe pagato il pizzo.

5 aprile. A San Sebastiano al Vesuvio (Napoli) il diciottenne Paolino Avella muore all’uscita dalla scuola per difendere il motorino dai rapinatori.

29 settembre. A Villa Literno (Caserta) ucciso per sbaglio il giovane Giuseppe Rovescio, in una sparatoria contro un camorrista.

2 ottobre. A Bari ucciso il ragazzo di 16 anni Gaetano Marchitelli, colpito durante una sparatoria davanti alla pizzeria in cui lavorava.

23 ottobre. A Caltanissetta ucciso il commerciante Michele Amico. Si pensa che possa avere respinto una richiesta di estorsione.

9 dicembre. A Napoli ucciso durante una rapina il giovane Claudio Taglialatela.

2004

12 febbraio. A Viterbo viene trovato morto il medico urologo Attilio Manca. Si parla di suicidio, ma la sua morte viene messa in relazione con l’assistenza medica che avrebbe prestato a Bernardo Provenzano, ricoverato con falso nome presso una clinica nei pressi di Marsiglia.

15 febbraio. A Napoli ucciso il giovane Francesco Estatico, forse per un’occhiata di troppo a una ragazza.

1 marzo. A Burgos (Sassari) ucciso, con un ordigno posto davanti casa, Bonifacio Tilocca, padre del sindaco di centrosinistra, fatto segno di numerosi attentati.

26 marzo. A Torre Annunziata (Napoli) uccisa Matilde Sorrentino, che aveva denunciato anni prima un’organizzazione di pedofili.

27 marzo. Uccisa a Napoli, nel quartiere Forcella, in un agguato contro Salvatore Giuliano, la quattordicenne Annalisa Durante.

20 aprile. A Reggio Emilia rimane ucciso il poliziotto Stefano Biondi, travolto da un’auto che fuggiva a un controllo di polizia.

17 maggio. Ucciso a Chiaiano, periferia di Napoli, l’ex imprenditore edile Biagio Avolio. Nei primi anni Novanta era stato accusato di associazione camorristica e estorsione e dopo l’arresto aveva fatto i nomi dei camorristi. Gli uccisori sarebbero coinvolti nei processi nati dalle sue rivelazioni.

11 giugno. A San Paolo Belsito (Napoli) uccisi Antonio Graziano e il nipote Francesco, incensurati, che gestivano dei supermercati in provincia di Avellino. Sarebbero estranei al mondo criminale e sarebbero stati uccisi per il loro cognome, all’interno della faida tra i Graziano e i Cava.

21 luglio. A Paola (Cosenza) ucciso l’operaio forestale Antonio Maiorano, incensurato e senza alcun tipo di legame con la criminalità. Gli inquirenti ipotizzano che gli assassini lo abbiano scambiato per qualcun altro.

24 settembre. A Locri (Reggio Calabria) muore il trentenne Massimiliano Carbone, incensurato e titolare di una cooperativa di servizi che dava lavoro anche a giovani disabili. Era stato ferito il 17 settembre.

2 novembre. A Bruzzano Zeffirio, nella Locride, uccisi l’agricoltore Pasquale Rodà, con piccoli precedenti penali, e il figlio Paolo, di 13 anni.

6 novembre. A Napoli, nel quartiere Scampia, ucciso il giovane disabile Antonio Landieri mentre giocava a bigliardino con degli amici. I camorristi hanno scambiato i ragazzi per un gruppo di spacciatori.

20 novembre. A Migliano (Napoli) ucciso l’incensurato Biagio Migliaccio, cugino di un affiliato al clan Di Lauro di Secondigliano.

Qualche ora dopo, a Napoli, viene ucciso Gennaro Emolo, padre di un giovane vicino al clan che si oppone ai Di Lauro.

21 novembre. A Melito (Napoli) uccisi, dentro una tabaccheria, il titolare Domenico Riccio e il pregiudicato Salvatore Gagliardi, probabile obiettivo dei killer.

22 novembre. A Napoli, nel quartiere Secondigliano, torturata, uccisa e bruciata all’interno di un’auto data alle fiamme, Gelsomina Verde, di 22 anni. I killer probabilmente volevano sapere dove si nascondeva il suo amico, Gennaro Notturno, appartenente al clan contrario ai Di Lauro.

6 dicembre. A Bagnoli, rione di Napoli, trovato il cadavere dell’incensurato Dario Scherillo, con nessun legame con la camorra. Probabilmente è stato ucciso per errore.

28 dicembre. A Sant’Anastasia (Napoli) rimane ferito e morirà successivamente il cinquantenne Francesco Rossi, colpito per errore in un agguato contro dei camorristi.

2005

24 gennaio. A Napoli ucciso nel negozio dove lavorava il giovane incensurato Attilio Romanò, forse scambiato per il titolare, parente di un capo del clan rivale dei Di Lauro.

31 gennaio. Ucciso a Napoli Vittorio Bevilacqua, padre di Massimo, appartenente al clan degli “scissionisti”. Sembra che si tratti di una vendetta trasversale.

24 maggio. A Siderno (Reggio Calabria) viene ucciso il giovane imprenditore Gianluca Congiusta. Nel 2007 verrà arrestato Tommaso Costa, indicato come capo dell’omonima cosca di Siderno e accusato dell’omicidio di Congiusta, che sarebbe stato ucciso per aver cercato di impedire un’estorsione.

26 giugno. A Bovalino (Reggio Calabria), durante il mercato domenicale, ucciso l’artigiano Pepe Laykovac Tunevic. I killer sono rimasti ignoti.

13 agosto. A Bovalino (Reggio Calabria) scompare Renato Vettrice, operaio di un’azienda vivaistica.

16 ottobre. Ucciso a Locri (RC) il vice presidente del Consiglio della Regione Calabria, Francesco Fortugno, da un killer che è entrato nel palazzo dove si svolgevano le primarie del centro-sinistra per le elezioni nazionali e poi si è allontanato indisturbato. L’omicidio di Fortugno, un medico eletto nelle liste della Margherita, viene dopo una serie di intimidazioni e minacce della ‘ndrangheta contro esponenti delle istituzioni, come la busta contenente un proiettile e la scritta “condannato a morte” inviata al presidente della Regione, Agazio Loiero, anch’egli esponente della Margherita. Subito dopo l’omicidio i giovani di Locri manifestano con uno striscione bianco. Ai funerali, che si terranno il 19 ottobre, altri striscioni con le scritte: “E adesso ammazzateci tutti” e “La mafia uccide, il silenzio pure” (quest’ultima richiama le manifestazioni dopo il delitto Impastato).

17 dicembre. A Napoli. ucciso Giuseppe Riccio, di 26 anni, sposato con un figlio, dipendente in una pizzeria dove sono entrati dei giovani con spranghe e pistole, per una spedizione punitiva contro i titolari.

2006

11 giugno. Trovato sulla spiaggia di Briatico (Vibo Valentia) il corpo carbonizzato dell’imprenditore agricolo Fedele Scarcella, dentro la sua auto data alle fiamme. Scarcella, che prima di essere bruciato è stato ucciso con due colpi di pistola, era conosciuto per le sue battaglie antiracket. Nel ’98 aveva denunciato gli uomini del clan Piromalli-Molè che gli avevano chiesto il pizzo.

22 agosto. A Palermo ucciso per errore il pensionato Giuseppe D’Angelo, scambiato per un capomafia. Responsabili del delitto i capimafia Lo Piccolo.

6 settembre. A Pescopagano (Potenza) ucciso, e bruciato nella macchina di servizio, Michele Landa, metronotte a guardia del ripetitore.

30 novembre. A Giugliano (Napoli) ucciso da rapinatori il tabaccaio Antonio Palumbo.

2007

1 agosto. A Reggio Calabria uccisa la guardia giurata Luigi Rende, in un assalto a un furgome porta valori.

27 novembre. A San Giorgio a Cremano (Napoli) ucciso Umberto Improta durante una sparatoria tra due gruppi di giovani.

29 dicembre. A Orgosolo ucciso l’ottantaduenne poeta, sindacalista e militante di sinistra Peppino Marotto. Si occupava in particolare degli anziani del paese ma anche dei problemi dei giovani. Si pensa che nella sua attività sociale possa avere toccato interessi di cui non doveva sapere o che avrebbe potuto mettere in pericolo.

2008

26 marzo. Sulla strada tra Catanzaro e Lamezia Terme viene ucciso l’imprenditore Antonio Longo, parte lesa in un processo in corso a Cosenza per racket.

16 maggio. Ucciso a Castelvortuno (Caserta) Domenico Noviello, titolare di un’autoscuola. Nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte del clan camorristico capeggiato da Francesco Bidognetti.

1 giugno. A Casal di Principe (Caserta) ucciso l’imprenditore Michele Orsi, coinvolto assieme al fratello Sergio nell’inchiesta sul consorzio Eco 4, attivo nello smaltimento dei rifiuti nei comuni del Casertano e che aveva cominciato a collaborare con la giustizia. Il delitto sarebbe stato compiuto dal gruppo dei Casalesi, legato a Francesco Bidognetti

6 giugno. A Pagani.(Salerno), ucciso durante una rapina il sottotenente dei carabinieri Marco Pittoni.

16 giugno. A Marano di Napoli, ferito, in un assalto a un portavalori, la guardia giurata Gennaro Cortumaccio, che morirà due mesi dopo.

11 luglio. A Marina di Varcaturo (Napoli) ucciso, nello stabilimento balneare di cui era gestore, Raffaele Granata che si era rifiutato di pagare il pizzo. Alcuni anni fa aveva denunciato e fatto arrestare i taglieggiatori.

8 settembre. A Pozzuoli (Napoli), ucciso, durante un tentativo di rapina in una pizzeria, la guardia giurata Giuseppe Minopoli.

18 settembre. Uccisi a Castelvolturno (Caserta) 6 extracomunitari: Abada El Hadji, Cristopher Adams, Francis Kwame Antwi Julius, Samuel Kwako, Alex Jeemes,Eric Yeboah Affum, da un commando che ha sparato centinaia di colpi. Gli uccisi sarebbero operai non legati all’ambiente dello spaccio. Il 14 gennaio 2009 verrà arrestato il capocamorra latitante Giuseppe Setola, considerato il mandante della strage e di altri omicidi.

26 settembre. A Casapesenna (Caserta), muoiono gli agenti Francesco Alighieri e Gabriele Rossi, durante l’inseguimento a un auto che non si è fermata al posto di blocco.

2 ottobre. A Giugliano (Napoli) ucciso Lorenzo Riccio, ragioniere di una ditta di pompe funebri, il cui titolare, probabile obiettivo dell’agguato, aveva testimoniato contro il camorrista Francesco Bidognetti.

3 ottobre. Si suicida gettandosi da un viadotto dell’autostrada Messina-Palermo Adolfo Parmaliana. Docente universitario, aveva denunciato le malefatte degli amministratori di Terme Vigliatore e di altri Comuni del Messinese. Le sue denunce erano cadute nel vuoto e ultimamente era stato chiamato in giudizio per calunnia per suoi attacchi ai politici della zona.

5 ottobre. A Casal di Principe (Caserta), all’interno di un circolo ricreativo per anziani, ucciso Stanislao Cantelli, zio del collaboratore di giustizia Luigi Diana.

1 dicembre. A Napoli ucciso durante una rapina il farmacista Raffaele Manna.

2009

10 aprile. A Villaricca, nella periferia di Napoli, si suicida il ragazzo tredicenne Vittorio Maglione, figlio di un boss della camorra. Lascia un biglietto al padre: “Adesso sei contento. Non ti rompo più”. Nel 2005 il fratello era stato ucciso da altri camorristi.

26 maggio. A Napoli, durante una sparatoria tra camorristi, viene colpito il musicista romeno Petru Birlandeanu. Muore dissanguato tra l’indifferenza dei passanti.

25 giugno. A Crotone, durante una partita di calcetto, un killer spara dalla recinzione uccidendo un camorrista e ferendo sei ragazzi, tra cui Domenico Gabriele, di 11 anni, che morirà il 20 settembre dopo tre mesi di coma. Nell’aprile 2010 saranno incriminati i giovani Andrea Tornicchio, come mandante e esecutore, e Vincenzo Dattolo, appartenenti al clan ‘dranghetista Tornicchio e già detenuti assieme ad altri del clan per altri reati.

11 ottobre. A Serra San Bruno (Vibo Valentia) scompare il ragazzo Pasquale Andreacchi. I resti sono stati trovati successivamente.

24 novembre. Scompare la testimone di giustizia di Petilia Policastro (Catanzaro), Lea Garofalo. Verrà torturata, uccisa e sciolta nell’acido.

5 dicembre. A Taurianova (Reggio Calabria) ucciso il diciottenne Francesco Maria Inzitari, figlio di Pasquale esponente dell’Udc e imputato per concorso esterno. Dopo l’omicidio manifestazione dei giovani del territorio.

2010

5 settembre. A Pollica (Salerno) ucciso dalla camorra il sindaco Angelo Vassallo per la sua azione a tutela dell’ambiente e per le sue denunce contro gli spacciatori.

2011

13 gennaio. A Napoli ucciso da un proiettile vagante il meccanico Vincenzo Liguori: stava lavorando nella sua officina dove ha tentato di ripararsi un pregiudicato inseguito e ucciso da due killer.

Paolo Mieli: “La trattativa Stato-mafia comincia con l’Unità d’Italia”, scrive Antonella Sferrazza il 3 novembre 2016 su "I nuovi Vespri". Nel nuovo libro dello storico, nonché ex direttore del Corriere e della Stampa, due capitoli dedicati ai fatti risorgimentali e al Sud Italia. Un tentativo di ripulire la storia da mistificazioni e pregiudizi perché “ad ogni stagione, la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte”. “Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”. “La prima trattativa tra Stato e mafia è di centocinquant’anni fa. Anzi di più. A dicembre del 1861, pochi mesi dopo la morte di Cavour, parlando alla Camera de Deputati, il parlamentare Angelo Brofferio sostiene che «la maggior parte dei disordini che succedono in Italia è da attribuire a forze della pubblica sicurezza in combutta con bande illegali»… “Pezzi di Stato che «non hanno rossore di trattare con i malviventi»”. Comincia così il secondo capitolo del nuovo libro di Paolo Mieli intitolato In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia (Rizzoli, euro20) che in 280 pagine ripercorre eventi storici -non solo italiani -con l’obiettivo di ripulirli da mistificazioni, pregiudizi e strumentalizzazioni. L’ex direttore del Corriere e de la Stampa che ha dedicato gran parte della sua vita allo studio e alla divulgazione della storia, spiega così il senso del suo ultimo lavoro: “Per vincere le guerre del presente e del futuro dobbiamo prima regolare un conto bellico con il passato. Dobbiamo eliminare molte menzogne. Ad ogni stagione la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte. Ogni storico deve muoversi a smentire la versione che ha già in testa, non deve cercare conferme. Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”. Insomma, come sempre, Paolo Mieli (tra i pochissimi intellettuali italiani, ricordiamo, a parlare con onestà dei danni prodotti al Sud dal Risrgimento, sotto un video in proposito), si tiene ben lontano dalla palude degli storici ‘salariati’ senza temere “sorprese e delusioni”. “Se vogliamo essere in pace con il passato – dice Mieli- dobbiamo essere disposti a rivedere qualcosa di importante, anche pezzi della memoria collettiva cui siamo legati”. Nel volume si passano al setaccio eventi quali la Rivoluzione francese, la storia di Israele, personaggi come Stalin e Hitler, ma anche i falsi martiri della fede, Cicerone, Lincoln, D’Annunzio, i primi scandali dell’Unità d’Italia per un totale di 27 piccoli saggi. Tornando al secondo capitolo intitolato “La vera trattativa tra Stato e mafia”, Mieli, oltre alle dichiarazioni del parlamentare Brofferio, cita anche La mala setta di Francesco Benigno che descrive come “Destra e Sinistra storica (e quest’ultima forse ancora di più della prima) intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato Unitario. Anzi, Destra e Sinistra quasi incoraggiarono mafia e camorra a trasformarsi in quello che sarebbero diventate un secolo dopo”. La storiografia non ha mai voluto approfondire questi nessi, “una reticenza che dai testi dell’epoca è transitata nelle pagine degli storici”. Mieli aggiunge che di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1861, “si trattava però di malavitosi di infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali. Nella Palermo liberata da Garibaldi qualche contatto improprio venne addebitato a Giuseppe La Farina, emissario di Cavour”. Lo stesso avvenne a Napoli con Silvio Spaventa: “Questi, che pure aveva avviato una campagna di disinfestazione dai camorristi promossi e legittimati da Garibaldi, a un certo punto venne accusato dalla stampa democratica di usare metodi illegali non troppo diversi da quelli usati dalla famigerata polizia borbonica”. Ma l’uomo simbolo di questa stagione resta Liborio Romano che “garantì il passaggio dal regime borbonico a quello garibaldino garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata”. E, ancora, il fenomeno del brigantaggio e “l’intento propagandistico di inquadrare in quella categoria tutto ciò che che accadde nel Sud Italia dal 1861 al 1865”. Particolarmente interessanti le parole di Diego Tajani, Procuratore del re a Palermo, secondo il quale, come si legge nel volume, “la mafia è temibile non tanto perché pericolosa in sé ma in quanto strumento di governo e perciò fonte di una rete invisibile di protezione”. Interessantissimo anche il capitolo dedicato alla corruzione – intesa come latrocini- dei nuovi politici dello Stato unitario e della stampa al loro servizio. Così come i successivi che offrono una lettura della storia come non l’abbiamo mai letta e che non esita a fare scendere dal piedistallo personaggi celebratissimi (lo stesso Cicerone pare abbia un tantino ‘abusato’ della storia del proconsole Verre in Sicilia “che era un politico in fase di declino”). Va da sé che il volume è un raggio di sole tra le nebbie che avvolgono in particolar modo la vera storia del Sud Italia e del Risorgimento.

La trattativa tra Stato e mafia comincia nel 1860, con Garibaldi in combutta con mafia e camorra, scrive Ignazio Coppola il 7 gennaio 2017 su "I Nuovi Vespri". Senza l’appoggio dei picciotti della mafia, Garibaldi e i Mille, una volta sbarcati a Marsala, avrebbero trovato grandi difficoltà. Invece, grazie ai mafiosi, trovano la strada in ‘discesa’. Idem a Napoli, dove i camorristi giravano con la coccarda tricolore. La testimonianza del boss, Joseph Bonanno. Le tesi di Rocco Chinnici. La lunga stagione dei delitti ‘eccellenti’. Fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio, dove perdono la vita, rispettivamente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e gli uomini e le donne delle rispettive scorte). Con quest’ultimo, ammazzato perché si opponeva alla trattativa tra mafia e Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia che, sin dai tempi dell’invasione garibaldina in Sicilia, si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860, infatti, accorsero, con i loro “famosi picciotti”, in soccorso di Garibaldi, i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele, così bene descritto  da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi, addirittura, diverrà generale garibaldino e verrà ucciso tre anni dopo, nell’agosto del 1863, nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro Storia della mafia, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o n, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Joseph Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra tradizione (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. Di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto, il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia presso il Palazzo di Giustizia di Palermo, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia – di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata, il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’unità d’Italia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti de ‘I pugnalatori’ di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palizzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che, della lotta alla mafia, ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che, da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e per questo ha pagato – per le connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato – con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgete continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare – da 156 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva – la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

Trattativa Stato-Mafia: per sconfiggere il male è giusto trattare. Combattere un Antistato obbliga a infiltrarsi, a promettere e compromettersi. L'Antimafia si basa invece su assurde pretese di purezza. A Palermo i giurati erano indifesi su questo fronte delicatissimo. Ne è uscita una sentenza grillina, scrive Giuliano Ferrara il 2 maggio 2018 su "Panorama". La mafia è un'organizzazione criminale che fa politica, una rete collegata di gruppi territoriali e familiari che combina politica e crimine in mezzo a fumisterie iniziatiche e intimidenti lealtà sostenute dalla violenza. La mafia è grandi reati, piccoli reati, un Antistato medio di insubordinazione e di conformismo ideologico insieme, ruralità e urbanesimo spinti, è annidamento di quartiere, struttura per cosche, cupola dei capi.

Il contrasto è affidato alla legge, la legge è affidata in prima e decisiva battuta agli investigatori specializzati, ai magistrati e all'esecutivo, il governo e gli apparati della forza. Sapevano i giurati di Palermo, che vorrebbero mandare in carcere per sentenza politica i protagonisti del contrasto alla mafia, la consistenza di questi dettagli decisivi? No. Questo è il punto.

L'Italia irriconoscente contro il carabiniere che arrestò Riina. L'Italia unita fece morire Giuseppe Mazzini in clandestinità a Pisa, alla vigilia di un arresto, a Roma già liberata, nel 1872, dopo anni di esilio, elezioni cancellate a norma di legge, galera per il martire e profeta nel carcere militare di Gaeta. E Garibaldi morì nell'esilio autoimposto di Caprera. È un Paese che sa essere irriconoscente, che sa esercitare una sua spavalda ferocia verso i figli maggiori. Non è così strano, per quanto inaudito, che ora voglia tenere in galera per il resto della sua vita il carabiniere che arrestò Riina. Ma per quali ragioni? Purtroppo è tutto molto semplice. Combattere un Antistato vuol dire applicare regole di indagine, a partire dalla raccolta delle informazioni e dalla capacità di infiltrazione e scompaginamento del suo esercito, che discendono dalla cultura politica, gli eterni arcani del machiavellismo. Devi entrare nel male, se necessitato. Per sapere, devi promettere. Per promettere, devi comprometterti. Compromettendoti, in base a un disegno di destabilizzazione e divisione del nemico, sfiori la collusione. Puoi agire quanto vuoi e quanto puoi con i guanti del codice, con le regole della legge e le sue caratteristiche speciali, ma alla fine i risultati importanti si ottengono solo con la decisione politica, delegata al personale militare e della magistratura penale, quelli che poi arrestano il capo dei capi e decapitano la struttura delle cosche.

Per combattere la mafia si deve entrare nel male. Ecco. Il punto è che, se questi sono i termini della lotta titanica tra lo Stato e i suoi nemici, l'Antimafia si basa invece da sempre su un codice moralistico, sulla pretesa che il patto col diavolo, sebbene stipulato entro i confini dello Stato di diritto e del senso comune, sia espressione di purezza, di incorruttibilità di principio, di estraneità reciproca assoluta degli eserciti in guerra. Una pretesa assurda, che apre la via alla calunnia, alla maldicenza, allo spirito critico che tutto nega, e che nel suo travestimento moralistico è una diavoleria, la vera diavoleria. Tutti hanno parlato con i mafiosi, tra coloro che li dovevano combattere per nostro conto, su nostra delega, in nome dello Stato. Lo hanno fatto i Caselli, come i Mori, lo hanno fatto con mafiosi pentiti, con mafiosi interi, dovevano esaminare i margini, che sono sempre un argomento pericoloso, per scompaginare il fronte avversario, dovevano entrare nel male, nei confini di una "trattativa", per far cessare le guerre a suon di bombe, l'assassinio degli alti magistrati, l'eliminazione degli eroi. Avevano alle spalle non già il fantasma evocato per bassa propaganda politica di Berlusconi o Dell'Utri, avevano alle spalle personalità specchiate come Giovanni Conso, Carlo Azeglio Ciampi, e altri investigatori che hanno fatto la storia del contrasto alla mafia, come Gianni De Gennaro, che infatti è in cima alla lista dei calunniati dalla famosa "icona dell'antimafia" e del sistema dei media, quel Massimo Ciancimino alle origini di questo processo e di questa incredibile sentenza. Non potevano fare diversamente, se volevano dare un senso al loro dovere civile. Ma se in una prospettiva moralistica hanno "trattato" con la mafia, in una visione seria, responsabile, giuridica e politica nel senso più alto ed efficace del termine, hanno sconfitto la mafia nella sua stagione culminante, quella delle stragi. E con coraggio, intelligenza, lucidità. Altro che storie.

Una sentenza grillina colpevolista. Al centro di tutto stanno i media, che possono essere la scuola della virtù o il teatro della calunnia, il fomite del venticello che tutto travolge. I giurati di Palermo erano indifesi su questo fronte delicatissimo e decisivo. Dovevano funzionare come imparzialità della legge e del diritto, hanno funzionato come una branca dell'opinione pubblica, e di quella più disinformata, di quella indotta, carezzata e coccolata dalle leggende metropolitane e dai facilismi antimafiosi. Dieci anni di processo e un percorso dibattimentale segnato dalle "lotte", che sono il contrario della azione civile e militare di contrasto alla vera mafia, hanno portato alla formazione di un partito colpevolista che ha interagito con la politica, perfino con le elezioni, con il momentum, il segnacolo o bandiera dei tempi che corrono. Ne è uscita una sentenza grillina, che ha la stessa impronta del mandato d'arresto per Mazzini rifugiato clandestino nella casa di John Brown a Pisa e del bando al generale Garibaldi. Un inaudito pasticcio che solo in anni di dolore repubblicano verrà alfine sanato. Ma tardi. 

(Articolo pubblicato sul n° 19 di Panorama in edicola dal 26 aprile 2018 con il titolo "Se per sconfiggere la mafia devo trattare, trattativa sia")

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

I conoscenti si incontrano.  I compagni ed i parenti si impongono e si subiscono. I coniugi si tollerano. I figli si accettano. Gli amici si scelgono. Io non ho amici per il sol fatto che da loro voglio la perfezione. E, in questo mondo, nessuno è perfetto. (Compreso me).

A molti individui, istituzioni ed intellettuali compresi, si dà una certa importanza, spesso e volentieri mal riposta. Questi, se li si conosce bene, ti portano a ravvisare la loro infimità.

Per questo eliminerò dalla lista tutti coloro che usano FB come strumento di lotta politica, senza costrutto. Si semina odio e non ci si prodiga alla proposta. Terrò tutti coloro che segnalano fatti che arricchiscano il sapere ed allargano gli orizzonti. In politica, per vincere basta essere migliori, forti delle proprie ragioni, e non succubi dei mediocri, senza necessità di eliminare il nemico.

I governanti sono esclusivamente economisti. Loro valutano il costo delle loro decisioni in termini economici, non misurano l’indispensabilità, quindi l’utilità delle loro scelte. Il popolo vuole pane e divertimento. La libertà, per la gleba, può andarsi a fare fottere. Ecco perché i governi scelgono di non far niente. E quel niente è importante che sia più utile che giusto. In questo modo cristallizzano lo status quo.

I Governi sono in balia degli umori del popolo.

I capitalisti non vogliono dare niente, i comunisti vogliono solo avere tutto.

I Governi, dettata l’agenda economica, non avendone la perizia, delegano l’aspetto pratico del governare agli apparati burocratici. I burocrati ed i magistrati legiferano e decretano a loro vantaggio, ammantando il loro potere fossilizzato da abuso ed impunità decennale.

Il popolo tapino subisce e tace, senza scrupolo di coscienza, perché chi non vuol dare, non dà; chi vuole avere, ha!

La liturgia della politica nel nome della democrazia, in fondo, è tutta una presa per il culo….

Perché non esiste politica; non esiste democrazia. Esiste solo l’economia e la finanza. L'utile ed il dilettevole.

I soldi governano il mondo. Non la democrazia o la dittatura, né tanto meno la fede.

Poveri stolti. “Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano” (Matteo 6:19-20).

Vangelo di Matteo, 7, 1: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.”

Col giudizio con cui giudichi sarai giudicato… ma non da Dio – e difatti Gesù non dice minimamente una cosa del genere – ma da te stesso, perché tu sei il tuo unico giudice. La misura la decidi tu, e anche questo Gesù lo dice molto chiaramente, in un modo indubitabile per chiunque non abbia dei paraocchi davanti agli occhi.

Giudica, e sarai giudicato. Perdona, e sarai perdonato. Dai, e ti sarà dato. E sarai sempre tu a giudicarti, a perdonarti e a darti qualcosa, perché sei tu l’unico padrone delle tue energie interiori.

Matteo 7:

1 Non giudicate, per non essere giudicati; 

2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. 

3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? 

5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.

6 Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.

7 Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; 

8 perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 

9 Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? 

10 O se gli chiede un pesce, darà una serpe? 

11 Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!

12 Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.

13 Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; 

14 quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!

15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. 

16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? 

17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 

18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 

19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. 

20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 

22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? 

23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.

24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. 

25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. 

26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 

27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».

28 Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: 

29 egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.

Io, Antonio Giangrande, sono orgoglioso di essere diverso.

Faccio quello che si sento di fare e credo in quello che mi sento di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Da una parte, l’ideologia comunista si è adoperata con la corruzione culturale:

attraverso la televisione di Stato e similari;

con la propaganda ideologica continua dei giornalisti militanti di regime;

con insegnamenti ed indottrinamenti ideologici scolastici ed universitari frutto di una egemonia culturale.

Dall’altra parte, la depravazione culturale messa in opera dalle televisioni commerciali di Berlusconi, anticomuniste ed antimeridionaliste.

Infine con la perversione delle religioni, miranti ad avere il predominio delle masse per il proprio sostentamento.

Insomma. Lavaggio del cervello: dalla culla alla tomba.

Governare e legiferare secondo l’ideologia fascio/comunista? No!

Governare e legiferare secondo i dettati propri di una cattiva fede? No!

Essere liberali vuol dire, in poche parole, che basta agire correttamente ed in buona fede e comportarsi come un buon padre di famiglia.

Agire e comportarsi come un buon padre di famiglia: cosa significa?

In cosa consiste la diligenza del buon padre di famiglia nell’ambito delle obbligazioni del diritto civile: l’obbligo di adempiere alla prestazione in buona fede e in modo corretto.

Adempimento delle obbligazioni: correttezza e buona fede. Il codice civile stabilisce che sia il debitore sia il creditore devono comportarsi correttamente nell’adempimento delle relative obbligazioni, sempre secondo buona fede. La seconda regola imposta dal codice civile in materia di esecuzione del contratto riguarda la diligenza del buon padre di famiglia. Cosa significa e cosa si intende con tale termine? Sicuramente anche in questa ipotesi la legge ha preferito usare un termine generale e astratto. Ma il suo significato è facilmente individuabile. Il “buon padre di famiglia” è colui che “ci tiene” e che è premuroso, colui cioè che fa di tutto pur di realizzare l’interesse dei figli. Il che significa che egli assume l’impegno a conseguire, quanto più possibile, il risultato promesso.

Il codice civile richiama il concetto di buon padre di famiglia in una serie di norme. Eccole qui di seguito elencate:

Art. 382 Codice civile – Responsabilità del tutore e del protutore: «Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli risponde verso il minore di ogni danno a lui cagionato violando i propri doveri».

Art. 1001 Codice civile – Obbligo di restituzione. Misura della diligenza: «L’usufruttuario deve restituire le cose che formano oggetto del suo diritto, al termine dell’usufrutto, salvo quanto è disposto dall’art. 995».

Art. 1176 Codice civile – Diligenza nell’adempimento: «Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 1227 Codice civile – Concorso del fatto colposo del creditore: «Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate».

Art. 1587 Codice civile – Obbligazioni principali del conduttore: «Il conduttore deve prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze (…)».

Art. 1710 Codice civile – Diligenza del mandatario: «Il mandatario è tenuto a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; ma se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore».

Art. 1768 Codice civile – Diligenza nella custodia: «Il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 1804 Codice civile – Obbligazioni del comodatario: «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa».

Art. 1838 Codice civile – Deposito di titoli in amministrazione: «La banca che assume il deposito di titoli in amministrazione deve custodire i titoli, esigerne gli interessi o i dividendi, verificare i sorteggi per l’attribuzione di premi o per il rimborso di capitale, curare le riscossioni per conto del depositante, e in generale provvedere alla tutela dei diritti inerenti ai titoli. Le somme riscosse devono essere accreditate al depositante (…). E’ nullo il patto col quale si esonera la banca dall’osservare, nell’amministrazione dei titoli, l’ordinaria diligenza».

Art. 1957 Codice civile – Scadenza dell’obbligazione principale: «Il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale purchè il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate».

Art. 2104 Codice civile – Diligenza del prestatore di lavoro: «Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale».

Art. 2148 Codice civile – Obblighi di residenza e di custodia: «Il mezzadro ha l’obbligo di risiedere stabilmente nel podere con la famiglia colonica».

Art. 2158 Codice civile – Morte di una delle parti [in tema di mezzadria]: « (….) In tutti i casi, se il podere non è coltivato con la dovuta diligenza il concedente può fare eseguire a sue spese i lavori necessari, salvo rivalsa mediante prelevamento sui prodotti e sugli utili».

Art. 2167 Codice civile – Obblighi del colono: «Il colono deve prestare il lavoro proprio secondo le direttive del concedente e le necessità della coltivazione. Egli deve custodire il fondo e mantenerlo in normale stato di produttività; deve altresì custodire e conservare le altre cose affidategli dal concedente con la diligenza del buon padre di famiglia».

Art. 2174 Codice civile – Obblighi del soccidario: «Il soccidario deve prestare, secondo le direttive del soccidante, il lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, per la lavorazione dei prodotti e per il trasporto sino ai luoghi di ordinario deposito. Il soccidario deve usare la diligenza del buon allevatore».

Nessuno tocchi il “buon padre di famiglia”. E nessuno tocchi i termini “padre” e “madre”, scrive Silvano Moffa venerdì 24 gennaio 2014 su "Il Secolo D’Italia". Dopo il demenziale scardinamento del valore dei termini padre e madre, sostituibili da quelli di genitore 1 e genitore 2, l’idea francese di cancellare il “buon padre di famiglia” fa drizzare i capelli.  L’emendamento approvato dal Parlamento parigino a un progetto di legge sulla pari opportunità tra generi, che elimina dal codice una formula del linguaggio giuridico corrente, non ha senso. Tutto, ovviamente, avviene nel nome di un sessismo e di una presunta modernità nei rapporti relazionali tra le persone, che travalica finanche il senso antico che la locuzione aveva assunto, sopravvivendo al tempo e ai cambiamenti sociali. La questione non è di poco conto, e non va sottovaluta. Non fosse altro che per il fatto che la “diligenza del buon padre di famiglia”, come assioma concettuale e formula di rito nel campo del diritto, è stata abbandonata in Germania in favore di altra considerata più moderna, mentre è sopravvissuta in Italia e, finora, in Francia. La formula compare nelle fonti del diritto romano a partire dal periodo classico. Furono i giuristi dell’epoca a forgiarne il senso, individuando nel bonus, prudens et diligens pater familias il soggetto capace di amministrare accuratamente i propri affari, più o meno come avveniva per il capo dell’azienda agraria domestica, sui cui si basava la civiltà romana dell’epoca. In seguito, con l’introduzione dei codici giustinianei, la nozione si è allargata, fino ad assumere la portata di un criterio generale per individuare i canoni corretti della prestazione, e il comportamento che deve tenere il debitore diligente. Con l’evoluzione dei tempi e della società, la “diligenza del buon padre di famiglia” è arrivata fino ai giorni nostri, scandendo un comportamento medio come sinonimo di saggezza, di legalità, di etica comportamentale. Un criterio applicato in maniera più vasta e diffusa nel corpo legislativo e negli stessi esiti giurisdizionali. Ora, non c’è dubbio che per comprendere la portata di una tale locuzione bisogna risalire alle origini. Come è chiaro che, per il fatto stesso che il concetto sia diventato più diffuso nella sfera del linguaggio giuridico, comporta che le ragioni che ne spiegano l’uso ricorrente e la portata siano fra loro molto differenti.  Ma da qui a decretarne l’abolizione per uno scopo di pari opportunità di genere ne corre.  Pietro de Francisci, uno dei maggiori storici del diritto romano, spiega nei suoi studi come la struttura della società romana primitiva (comunità di patres) fosse l’architrave su cui poggiava tutto il sistema dell’epoca: lo ius Quiritium. Fino alla fine del V secolo, il pater familias viene visto come un dominus, un soggetto dotato di un potere (potestas) che ha natura originaria, pre-politica e pre-statuale. È un sovrano del gruppo, del quale è reggitore e sacerdote, custode dei sacra e degli auspicia, giudice dei filii familias, con diritto di punire, fino a giungere alla possibilità di infliggere la pena di morte. E’ evidente la forza implicita in una tale figura nell’epoca antica, ai primordi del diritto romano. Ed è del pari evidente, come appare persino ovvio, quanto sia superata, anacronistica, lontana  al giorno d’oggi una simile idea di famiglia. Il problema però è un altro. Intanto, la formula, come abbiamo visto, ha assunto un significato del tutto diverso nel tempo, anche all’interno dello stesso diritto romano. In secondo luogo, la diligenza del buon padre di famiglia è un criterio difficilmente sostituibile con una locuzione che possa avere lo stesso effetto e la stessa forza immaginifica. Prendiamo ad esempio una prestazione, nella sua configurazione ordinaria.  Attenti giuristi hanno spiegato come nelle moderne codificazioni che regolano i rapporti dei traffici giuridici e commerciali, sia ormai superato il dualismo tra colpa in astratto e colpa in concreto, cui si ricorreva nel determinare la responsabilità della mancata prestazione. Il modello preferito è ormai quello strettamente oggettivo. Insomma, dire che il debitore è tenuto alla diligenza del buon padre di famiglia vuol dire sottolineare che egli è tenuto ad un grado di diligenza media, in quanto il criterio cui ci si ispira è improntato al buon senso, ad un canone di normalità, ad un comportamento usuale e corretto nello stabilire il livello dei rapporti, e nel parametrare il modo in cui non si può non operare nella generalità dei casi. Nel bonus pater familias residuano, insomma, un nucleo di saggezza, oltre che una storia e una cultura giuridica di cui dovremmo menar vanto. Che c’entra con tutto questo il tema delle pari opportunità tra i sessi, è davvero difficile da comprendere. Altro che modernità. Siamo al cospetto di una colossale stupidità.

Solo i comunisti potevano pensare una Costituzione, il cui principio portante fosse il Lavoro e non la Libertà. Libertà che la Carta pone solo come obbiettivo per poter esercitare alcuni diritti dalla stessa Costituzione elencati. Libertà come strumento e non come principio. Libertà meno importante addirittura dell’Uguaglianza. Questa ultima inserita, addirittura, come principio meno importante del Lavoro e della Solidarietà. Già. Per i comunisti “IL LAVORO RENDE LIBERI”. ARBEIT MACHT FREI (dal tedesco: “Il lavoro rende liberi”) era il motto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento. Una reminiscenza tratta da una ideologia totalitaria che proprio dal socialismo trae origine: il Nazismo.

Cosa vorrei? Vorrei una Costituzione, architrave di poche leggi essenziali, civili e penali, che come fondamento costitutivo avesse il principio assoluto ed imprescindibile della Libertà e come obiettivo per i suoi cittadini avesse il raggiungimento di felicità e contentezza. Vivere come in una favola: liberi, felici e contenti. Insomma, permettere ai propri cittadini di fare quel che cazzo gli pare sulla propria persona e sulla propria proprietà, senza, però, dare fastidio agli altri, di cui si risponderebbe con pene certe. E per il bene comune vorrei da cittadino poter nominare direttamente governanti, amministratori e giudici, i quali, per il loro operato, rispondano per se stessi e per i propri collaboratori, da loro stessi nominati. Niente più concorsi truccati…, insomma, ma merito! E per il bene comune sarei contento di contribuire con prelievo diretto dal mio conto, secondo quanto stabilito in modo proporzionale dal mio reddito conosciuto al Fisco e da questi rendicontatomi il suo impiego.

Invece...

L'influsso (negativo) di chi vuole dominare l'altro. Ci sono persone che sembrano dare energia. Altre, invece, sembra che la tolgano, scrive Francesco Alberoni, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale".

Ci sono persone che sembrano darti energia, che ti arricchiscono.

Altre, invece, sembra che te la prendano, te la succhino come dei vampiri. Dopo un colloquio con loro ti senti svuotato, affaticato, insoddisfatto. Che cosa fanno per produrre su di noi un tale effetto? Alcune ci parlano dei loro malanni, dei loro bisogni e lo fanno in modo tale che tu ti senti ingiustamente privilegiato ed è come se avessi un debito verso di loro.

C'è un secondo tipo di persone che ti sfibra, perché trasforma ogni incontro in un duello. Non appena aprite bocca sostengono la tesi contraria, vi sfidano, vi provocano. Lo fanno perché vogliono mostrare la loro capacità dialettica ma soprattutto per mettersi in evidenza davanti agli altri. Se gli date retta, vi logorano discutendo su cose che non vi interessano.

Ci sono poi quelli che fanno di tutto per farvi sentire ignoranti. Qualunque tesi voi sosteniate, anche l'idea più brillante e ragionevole ecco costoro che arrivano citando una ricerca americana che dice il contrario. Magari qualcosa che hanno letto in un rotocalco, ma tanto basta per rovinare il vostro discorso. Ricordo invece il caso di un mio collega che, per abitudine, nella conversazione, faceva solo domande. All'inizio gli raccontavo le mie ricerche, gli fornivo i dati, gli mostravo i grafici, le tabelle, mi sgolavo e lui, dopo avere ascoltato, faceva subito un'altra domanda su un particolare secondario. E io giù a spiegare di nuovo e lui, alla fine, un'altra domanda...

Abbiamo poi quelli che, quando vi incontrano, vi riferiscono sempre qualche cosa di spiacevole che la gente ha detto su di voi: mai un elogio, mai un apprezzamento, solo critiche, solo pettegolezzi negativi. E, infine, i pessimisti che quando esponete loro un progetto a cui tenete molto, vi mostrano i punti deboli, vi fanno ogni sorta di obiezioni, vi fanno capire che sarà un fallimento. Voi lo difendete ma loro insistono e, alla fine, restate sempre con dei dubbi. Un istante prima eravate pieno di slancio, ottimista, entusiasta e ora siete come un cane bastonato. Cosa hanno in comune tutti questi tipi umani? La volontà di competere, di affermarsi, di dominare, di opprimere.

L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”. (Antonio Giangrande, aforisticamente.com/2018/03/26/frasi-citazioni-aforismi-su-svalutare)

Si stava meglio quando si stava peggio.

I miei nonni paterni Giuseppa Caprino e Leonardo Giangrande, democristiani, contadini beneficiari delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista e genitori di 8 figli, dicevano che con i democristiani nessuno rimaneva indietro e tutti avevano la possibilità di migliorare il loro stato, se ne avevano la voglia (lavorare e non sprecare). Nonostante gli sprechi a vantaggio di alcuni figli a danno di altri e nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, loro hanno migliorato il loro stato ed hanno avuto la pensione.

Mio nonno materno Gaetano Santo, comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 8 figli cresciuti con l’illusione della loro utilità al suo benessere ed alla sua vecchiaia, tra un bicchiere di vino e l’altro affermava che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!

Luigi Malorgio, il nonno materno di mia moglie, prigioniero di guerra e comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 4 figli, tra uno spreco e l’altro affermava, con il solito mantra comunista, che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!

Altro mantra dei comunisti era ed è: gli altri vincono perché, essendo ladri, comprano i voti.

E come dire a detta degli interisti e dei napoletani: la Juventus vince perché ruba e quindi ridistribuiamo i suoi scudetti. L’Inter ed il Napoli son morti, comunque, perdenti.

Dopo tanti anni ho constatato che oggi rispetto al tempo dei nonni, nonostante il progresso tecnologico e culturale, non è più possibile migliorarsi ed arricchirsi. Inoltre oggi se si diventa ricchi per frutto della propria capacità e lavoro, non si è più tacciati di ladrocinio, ma di mafiosità. E se prima non c’era, oggi c’è l’espropriazione proletaria antimafiosa, ma non a favore dei poveri, ma solo a vantaggio dell’antimafia di sinistra, sia essa apparato burocratico di Stato, sia essa apparato associativo comunista, sia esso regime culturale rosso.

Dopo tanti anni ho constatato che, nonostante la magistratura politicizzata che collude ed i media partigiani che tacciono, i moralizzatori solidali erano e sono ladri come tutti gli altri, erano e sono mafiosi come, è più degli altri.

Ergo: ad oggi noi moriremo tutti poveri…e probabilmente senza pensione, accontentandoci di un misero reddito di cittadinanza che prima (indennità di disoccupazione) era privilegio solo dei lavoratori sindacalizzati disoccupati.

Di fatto, nel nome di un ridicolo ambientalismo, ci impediscono di farci una casa, ma ci spingono a comprarci un’auto. 

Questo non è progressismo politico, ma una retrograda deriva culturale che ti porta a dire che:

è meglio non fare niente, perché si fotte tutto lo Stato con il Fisco;

è meglio non avere niente, perché si fotte tutto lo Stato con l’Antimafia.

Quindi, si stava meglio quando si stava peggio.

Ma lasciate che sia il solo a dirlo, così sanno con chi prendersela ed è facile per loro vincere tutti contro uno. Senza una lapide di rimembranza.

Il Belpaese è diventato brutto. Da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale, scrive Ernesto Galli della Loggia il 8 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere. Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora. Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata. Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.

I bei tempi andati? Non esistono. Erano violenti, sessisti e sporchi. Un libro di Michel Serres smonta i luoghi comuni degli anti-moderni, scrive Massimiliano Parente, Martedì 21/08/2018, su "Il Giornale". Ogni giorno in Italia qualcuno dice: «Si stava meglio quando si stava peggio». Ma davvero si stava meglio? E quando? C'è chi elogia il passato, in genere i vecchi che rimpiangono la propria giovinezza, o gli anni Sessanta, o gli anni Cinquanta, e chi addirittura i tempi in cui non era nato: «Mi sarebbe piaciuto vivere negli anni Trenta!». In realtà sono sempre errori della nostra percezione, della nostalgia senile, e spesso anche della nostra scarsa conoscenza del passato. Anni fa uscì un bellissimo saggio dello storico Piero Melograni, La modernità e i suoi nemici (Mondadori), che passava al setaccio tutte le ideologie antimoderne e le visioni idealizzate del passato. Lo scienziato Steven Pinker nel frattempo ha pubblicato un lungo studio, Il declino della violenza (Mondadori), per dimostrare come, al contrario di quanto credano molte persone, la violenza sia diminuita progressivamente nella Storia (ma basta leggere anche il diario di Giacomo Leopardi, che in visita a Roma notava come non fosse possibile uscire di notte senza rischiare di essere uccisi). In questi giorni esce per Bollati Boringhieri un pamphlet intitolato Contro i bei tempi andati dell'epistemologo Michel Serres. L'autore ha ottant'anni, ma non rimpiange niente del suo passato, né del passato in generale. Anzi, in ogni pagina, tra autobiografia e dati storici, ci tiene a mostrare che più andiamo indietro, più il passato fa schifo. A cominciare dalle due guerre mondiali, che hanno insanguinato l'Europa (e erano nate, fra l'altro, da movimenti antimoderni e anticapitalisti come fascismo e comunismo). Viceversa stiamo vivendo da settant'anni il più lungo periodo di pace mai visto nel mondo, «cosa mai accaduta, almeno nell'Europa occidentale, dai tempi dell'Iliade o della Pax Romana». Abbiamo sconfitto epidemie mortali, considerando che «le statistiche dicono che, in tempi più antichi, il numero dei morti per malattie infettive superava di gran lunga quello delle vittime di guerra». Serres elogia le conquiste delle vaccinazioni (malgrado oggi in Italia si torni indietro, abolendo l'obbligo di vaccinarsi). Oggi si parla di razzismo al minimo episodio di cronaca, dimenticando che una volta, poco più di un secolo fa, si pretendeva di dimostrare scientificamente come i negri fossero delle scimmie non evolute, e ai tempi di Mussolini e di Hitler si pubblicavano tranquillamente riviste razziste e antisemite. E l'inquinamento? L'aria dell'Ottocento era molto più inquinata di quella di oggi, e ai tempi di Serres «senza alcuna restrizione le fabbriche spargevano le loro immondizie nell'atmosfera o nel mare, nella Senna, nel Reno, nel Rodano, e le petroliere ripulivano le cisterne in mare aperto». Quanto alla medicina, non esistevano gli antibiotici, si moriva di sifilide e tubercolosi, «come capitò a tutti i grandi uomini illustri del XIX secolo, Schubert, Maupassant o Nietzsche», e non esisteva la sanità pubblica, i poveri soffrivano e morivano senza cure, e i ricchi non se la passavano meglio. Serres, nato nel 1930, ricorda di nuovo come l'assenza di vaccinazioni «lasciò molti dei miei amici segnati dalla poliomelite», e di come l'OMS sia riuscita a eradicare il vaiolo a livello mondiale. Sentiamo molte persone dire che la vita moderna fa male, che i cibi moderni sono cancerogeni, che la vita di una volta era più sana, e spopola l'ideologia del bio e del ritorno all'alimentazione «genuina» di un tempo. Talmente genuina che ci si lasciava la pelle. Serres ricorda come il latte non pastorizzato, munto direttamente dal contadino, spesso portasse malattie e febbri terribili (di cui si ammalò anche lui), mentre oggi i cibi industriali sono molto più controllati (non per altro i casi di botulismo avvengono sempre con il «fatto in casa»). E di come la durata della vita media alla nascita nel corso di un secolo sia quadruplicata. «Da quando sono nato a oggi, in Francia la speranza di vita ha più di ottant'anni, mentre poco prima quanti figli bisognava mettere al mondo per conservarne due o tre?».

Non parliamo dell'igiene, non ci si lavava mai. Neppure le ostetriche si lavavano le mani e le madri morivano di febbre puerperale. Le lenzuola si cambiavano due volte all'anno, le camicie si portavano finché non diventavano nere, e «lo sciacquone del gabinetto venne inventato a Londra, alla fine del XIX secolo e si diffuse cinquant'anni dopo; una volta si pisciava dove si poteva, si cacava dappertutto, un po' come oggi in India si pratica la open defacation». Quanto alle donne, credono di essere discriminate oggi, e accusano di molestie sessuali perfino chi le guarda, mentre prima non solo le donne non avevano diritto di voto, ma se una donna veniva stuprata era colpa sua, altro che #metoo. «Le cifre riguardanti gli abusi sessuali sulle adolescenti all'interno della famiglia sono state rese pubbliche solo di recente, e da poco abbiamo scoperto che ogni due giorni una donna moriva a causa delle sevizie del marito, e che due bambini ogni settimana spiravano per mano dei genitori». Speriamo che chi invoca ogni giorno la famiglia tradizionale non si riferisca a questa, perché questa è stata la famiglia umana dall'antichità a meno di un secolo fa. E dunque, si stava meglio quando si stava peggio? No, quando si stava peggio si stava peggio e basta. E pensare che al governo c'è un movimento fondato sulla filosofia della «decrescita felice» e sulla Piattaforma Rousseau. Sì, Jean-Jacques Rousseau, quello del mito del Buon Selvaggio. Io vorrei come minimo una Piattaforma Steve Jobs.

Ultimi della classe (dirigente). Non ci sono in Italia istituzioni politiche, scientifiche o formative unificanti, scrive Francesco Alberoni, Domenica 08/07/2018, su "Il Giornale". Una classe dirigente, ci insegna il grande sociologo Vilfredo Pareto, è formata da tutti coloro che eccellono nella loro attività. Quindi i politici più abili, i giudici più saggi, i giornalisti più ascoltati, i presentatori più seguiti, ma anche gli imprenditori, gli economisti, gli artisti, i registi, gli scrittori, i filosofi, gli scienziati, i professionisti più eminenti. E ha le sue radici nel passato. Il Paese che più di ogni altro ci ha fornito il modello di una grande classe dirigente è stata l'Inghilterra dove c'è stato sempre l'irrompere del nuovo ma anche la sopravvivenza dei poteri tradizionali e il permanere delle grandi istituzioni unificanti. L'Inghilterra è il Paese che innalzava colonne all'eroe Orazio Nelson mentre lasciava morire di fame Lady Hamilton, che glorificava Winston Churchill mentre lo mandava a casa nelle elezioni. Ma anche un Paese che da secoli ha istituzioni scientifico-culturali come la Royal Society, le università di Oxford e di Cambridge e il collegio di Eton dove si è formata la classe dirigente inglese. Non esiste nulla di simile in Italia dove storicamente si sono succeduti gruppi politico ideologici diversi: prima i liberali, poi i fascisti a cui seguono nel dopoguerra i comunisti e i cattolici. Poi la crisi di Mani pulite che ha fatto emergere il potere della magistratura. In seguito, si formano o movimenti o raggruppamenti attorno a un capo come Berlusconi, Prodi, Renzi, Grillo e ora Salvini. Sono gruppi ristretti, formati da amici, conoscenti, simpatizzanti e «clienti» che egemonizzano il potere e creano istituzioni per loro stessi da cui escludono gli altri. Non ci sono in Italia istituzioni politiche o scientifiche o formative unificanti, non c'è una vera, unica classe dirigente. E sembra che a livello popolare non se ne senta neppure l'esigenza. Il politico non viene eletto per ciò che ha dimostrato di sapere fare e non gli si chiede di avere una formazione culturale adeguata. Grillo arriva a sostenere che i parlamentari dovrebbero essere estratti a sorte tra i cittadini. Questa divisione delle élite lascia il potere in mano alla burocrazia che non ha valori, non ha mete, ostacola la creazione e tende solo a crescere su se stessa.

I bulli che umiliano la cultura. Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione così elevata, sia inutile studiare, scrive Francesco Alberoni Domenica 06/05/2018, su "Il Giornale". Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione giovanile così elevata, sia inutile studiare, inutile imparare, inutile prendere bei voti perché tanto, si dice, nella vita si affermano i forti, i corrotti, i violenti, quelli che sanno dominare gli altri, imporre il loro volere. È questo il pensiero che sta dietro il diffondersi del bullismo in tutte le sue forme. Dal piccolo gruppo di studenti che domina sugli altri, deride e si beffa dei più deboli, li mette a tacere, fino ai gruppi più aggressivi che offendono ed insultano anche i professori in modo che perdano agli occhi dei loro allievi l'ultima autorità loro rimasta. E così denigrano la cultura, il sapere, l'unica forza che nel mondo moderno fa avanzare tanto gli individui che i popoli. Gli individui, perché emergono solo coloro che fanno le scuole e le università migliori e i popoli perché solo alcuni hanno i centri di ricerca più avanzati, gli studiosi più apprezzati e una ferrea organizzazione del lavoro. E questo modo di pensare disastroso si afferma anche in politica col principio anarchico che «uno vale uno» quindi chiunque, anche il più fannullone e ignorante, può dirigere un Paese moderno e affrontare le bufere geopolitiche di oggi. Bisogna riporre in primo piano l'idea che lo strumento fondamentale con cui gli esseri umani lottano, si affermano, si rendono utili agli altri, è il sapere, la cultura. In tutte le forme: scientifica, artistica musicale, linguistica, come capacità di scrivere e di parlare, di calcolare e di prevedere. Ma voi provate a domandare alla gente che cosa desidera. Vi risponderà che desidera viaggiare, fare crociere, una nuova macchina, una barca, un nuovo televisore. Nessuno vi risponde che desidera imparare la matematica, il diritto, le lingue, l'economia, la biologia o l'informatica. Le spese per svago e per divertimenti superano paurosamente le spese culturali. Ci sono ancora persone che leggono libri? Solo una minoranza, quella che studia con fermezza e costituirà la futura élite internazionale. E gli altri? Gli altri saranno tutti dei disoccupati e dei sottoproletari. Basta, cambiate direzione, datevi da fare. Siete ancora in tempo, per poco.

Vuoi scrivere un libro? Leggine cento, scrive il 16 aprile 2018 Paolo Gambi su “Il Giornale”.

“Se scrivo la mia storia vinco il Nobel per la letteratura”.

“Ti racconto il libro che ho in testa, tu lo scrivi e dividiamo gli utili”.

“La mia vita è così incredibile che voglio farne un romanzo da un milione di copie”.

Da quando faccio lo scrittore più o meno ogni giorno vengo approcciato da qualcuno con una frase del genere. La qual cosa mi lusinga molto: ciascuno di noi è un intreccio di parole che si sono fatte carne e pensare di metterle per iscritto, e di chiedere il mio aiuto per farlo, è per me fonte di soddisfazione ed autostima. E contando che ho scritto libri molto diversi che partono dai romanzi e arrivano a biografie di personaggi molto disparati – dal Cardinal Tonini a Raoul Casadei – non trovo strano che ci sia chi mi interpella. Infatti da qualche tempo a questa parte ho deciso di iniziare a costruire una risposta a chi mi pone queste domande. Solo che se poi alle stesse persone che vogliono scrivere un libro chiedo: “qual è l’ultimo libro che hai letto?”, la risposta di solito è qualcosa come:

“Non mi ricordo, alla sera guardo la televisione”.

“È da quando ero alle superiori che non leggo più”.

“Dai valà, non posso mica perdere il mio tempo così”.

Che è un po’ come se qualcuno volesse vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi per i 100 metri stile libero ma si rifiutasse di andare in piscina ad allenarsi. I dati sulla lettura in Italia continuano ad essere impietosi. Sei italiani su dieci, nel 2016, non hanno letto neppure un libro in un anno. Tutti vogliono scrivere. Pochissimi vogliono leggere. Allora, è meraviglioso sognare di diventare la nuova Rowling o scrivere delle nuove sfumature di grigio (possibilmente meno disgustose) impastate con la propria storia. Però se vuoi scrivere un libro inizia a leggerne almeno cento.

Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.

Saviano è il vero intoccabile. Vietato fare satira su di lui. Chi ha provato a scherzare sullo scrittore, da Zalone ai comici Luca e Paolo, è stato subito messo a tacere, scrive Nino Materi, Lunedì 25/06/2018, su "Il Giornale". Scherza con i santi, ma lascia stare Saviano. Giù le mani da Roberto. E poco importa se la mano è quella - innocua - che potresti mettere davanti alla bocca, magari solo per soffocare un inizio di risata. Perché in Italia si può fare ironia su tutti (compresi Papa e presidente della Repubblica), eccetto che sullo scrittore di Gomorra. Chi si è cimentato con la sua parodia, ha subito avvertito la stessa piacevole sensazione di mettere le dita in una presa di corrente. Insomma, Saviano come i fili dell'alta tensione. E una bella scossa, nel corso degli anni, se la sono presa i pochi coraggiosi che hanno tentato di imitarlo comicamente. Niente di pesante, per carità: appena una bonaria presa in giro del suo eloquio da santone in perenne trance sciamanica; del suo incedere messianico sulle acque procellose dell'antimafia; delle sue pause meditative da salvatore della patria in servizio h24; del suo grattarsi la pelata come se pensieri e preoccupazioni fossero solo una sua esclusiva; del suo sapiente gesticolare ostentando più anelli di J-Ax e Fedez messi insieme. Un minimo sindacale satirico che, tuttavia, si è rivelato più che sufficiente per far scendere il «guitto» di turno a più miti consigli. Lo sa bene il grande Checco Zalone che, in uno show televisivo, vestì i panni di uno sfigatissimo Saviano cui tutte le ragazze davano il due di picche «perché la camorra ha il monopolio della f...». Saviano (personaggio che notoriamente non brilla per autoironia), invece di riderci su, si risentì. E con lui si attapirarono tutti i suoi fan secondo i quali «ironizzare su Saviano equivale a fare un favore ai camorristi». Risultato: Checco Zalone, da quella volta, non si «permise» mai più di imitare lo scrittore più scortato del mondo. Stessa parabola censoria anche per il duo comico Luca e Paolo che, addirittura dal palco del Festival di Sanremo, si azzardarono a punzecchiare Roberto, ricordandogli come alcune delle sue denunce equivalessero un po' alla scoperta dell'acqua calda. Apriti cielo. I due artisti furono immediatamente redarguiti dal rigoroso «funzionario Rai» che suggerì loro di «occuparsi d'altro». Meno clamorosa, ma altrettanto deciso il consiglio a «non insistere sull'argomento» indirizzato al cabarettista Sergio Friscia, «reo» di animare un Saviano un po' troppo bozzettistico. La stessa «colpa» attribuita pure ad altri due colleghi di Friscia: Cristian Calabrese, autore di uno sketch dal titolo dissacratorio, Zero Zero Zero ed Enzo Costanza protagonisti di una serie di video esilaranti, ma ritenuti non propriamente savianolly correct. In questi casi non risulta un intervento diretto del giornalista finalizzato a zittire i suoi epigoni parodistici, ma alcune sue dichiarazioni esprimono bene il concetto che Saviano ha rispetto alla creatività umoristica: «La creatività fa, non commenta. E i The Jackal ne sono un esempio». Ma perché mai ai comici dovrebbe essere precluso il diritto al «commento»? e, poi, chi sono «The Jackal»? Al primo quesito Saviano non ha mai risposto; facile invece la risposta al secondo: si tratta di un gruppo di brillanti filmaker che devono il successo a video-parodie cliccatissime su youtube, la più celebre delle quali è: Gli effetti di Gomorra sulla gente. In questo caso, per non correre rischi, Saviano ha voluto prendere parte direttamente ad alcuni ciak. Motivo? I maligni dicono: «Per accertarsi di non essere preso in giro». Intanto lui, un giorno sì e l'altro pure, dà del «buffone», «razzista» e «codardo» al ministro dell'Interno. A offese invertite, Salvini sarebbe già stato costretto alle dimissioni.

LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.

Può la Rai, servizio pubblico di un’azienda di Stato, finanziata con il canone e le tasse dei cittadini, vantare diritti esclusivi di diritto d'autore su fatti di cronaca ed impedire la divulgazione di notizie di interesse pubblico e violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright?

Tutto inizia e finisce con una E-mail.

Venerdì 18/05/2018 19:40 da YouTube <accounts-noreply@youtube.com> ad ANTONIO GIANGRANDE <presidente@ingiustizia.info>: [Avviso di rimozione per violazione del copyright] Il tuo account YouTube verrà disattivato tra 7 giorni.

Salve ANTONIO GIANGRANDE, In seguito a una richiesta di rimozione per violazione del copyright siamo stati costretti a rimuovere il tuo video da YouTube: Titolo del video: Sarah Scazzi. Il processo. 1ª parte. La scomparsa.

Rimozione richiesta da: RAI. Questo significa che non sarà più possibile riprodurre il video su YouTube.  Hai ricevuto un avvertimento sul copyright. Al momento hai 3 avvertimenti sul copyright. Per questo motivo, è prevista la disattivazione del tuo account tra 7 giorni. Il tuo canale rimarrà pubblicato per i prossimi 7 giorni per consentirti di cercare una soluzione e mantenerlo attivo. Se ritieni di non essere in torto in uno o più casi sopra descritti, puoi fare ricorso inviando una contronotifica. Durante l'elaborazione della contronotifica, il tuo account non verrà disattivato. Tieni presente che l'invio di una contronotifica con informazioni false può comportare gravi conseguenze legali. Puoi inoltre contattare l'utente che ha rimosso il tuo video e chiedergli di ritirare la richiesta di rimozione. Durante questo periodo, non potrai caricare nuovi video e gli avvertimenti sul tuo account non scadranno.

Risposta: Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa. In ogni caso le immagini sono di utilizzo pubblico così come stabilito dal tribunale di Taranto in virtù del decreto dell’autorizzazione esclusiva alle telecamere di “Un Giorno in Pretura” con obbligo di condividere i filmati con gli altri media. Su questo filmato altre rivendicazioni analoghe sono state ritirate in seguito alla stessa contestazione. E comunque, stante che il filmato è già stato rimosso da youtube, si chiede alla signoria vostra di ritirare l’avvertimento, affinchè l’intero canale “Antonio Giangrande” con 387 video di Pubblico Interesse non venga disattivato.

Insomma non si presenta la contronotifica, per minaccia di azioni legali del colosso Rai e si genuflette per un diritto.

Ma Youtube non si ferma qua. Già, sul portale di informazione ed approfondimento in oggetto, pagava solo 1 decimo di tutti i video di cui si era chiesto la monetizzazione. E non solo a quel portale.

YouTube: perché (quasi) nessuno ci guadagna davvero? Scrivono Milena Gabanelli e Andrea Marinelli il 25 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Un luogo comune dell’era digitale vuole che basti un po’ di ingegno per fare soldi su YouTube. Guardando i dati però, la realtà è un’altra: il 97 per cento degli YouTuber non riesce a superare i 10.000 euro all’anno. In Gran Bretagna, però, un minorenne su tre sogna di diventare una star del servizio video di Google — addirittura il triplo rispetto a chi sogna di fare il dottore — e di imitare DanTdm, un gamer ventiseienne che lo scorso anno ha incassato 16,5 milioni di dollari giocando ai videogiochi, oppure Zoella, che ha 28 anni e guadagna circa 50 mila sterline al mese pubblicando video su come si veste e si trucca. Tutti pensano che questi soldi li facciano con la pubblicità, ma è vero solo in parte.

Il 97% degli YouTuber non batte chiodo. Google non rivela i numeri esatti, ma secondo le stime i canali YouTube al mondo sono all’incirca 1 miliardo. Di questi, stando a uno studio dell’Università di Offenburg, in Germania, il 97 per cento non batte un chiodo. Il 2 per cento riceve almeno 1,4 milioni di visite al mese e galleggia invece attorno alla soglia di povertà, incassando all’incirca 16.800 dollari all’anno. A guadagnarci davvero è il restante 1 per cento, che ottiene fra i 2 e i 42 milioni di visualizzazioni ogni mese. Secondo l’autore della ricerca Mathias Bartl, professore di Scienze Applicate e fra i primi a esaminare i dati di YouTube, «avere successo nella nuova Hollywood è difficile quanto in quella vecchia». E il risultato è che puoi avere mezzo milione di follower su YouTube, ma essere costretto a lavorare da McDonald’s per mantenerti.

Un milione di visualizzazioni vale 1.000 dollari. La pubblicità su YouTube, infatti, porta all’incirca 1 dollaro ogni 1.000 visualizzazioni (a volte 50 centesimi, altre 5 dollari: dipende dai casi e i dati non sono pubblici). Un milione di visualizzazioni si trasforma dunque in appena 1.000 dollari al mese. Questo però se la pubblicità viene guardata: siccome molti installano programmi che la bloccano e altri la saltano appena parte, la società di marketing britannica Penna Powers calcola che alla fine soltanto il 15% la vedono realmente. E così un milione di visualizzazioni si trasforma in 150.000, e 1.000 dollari diventano appena 150.

Come fare i soldi su internet. In sostanza, Internet è un ottimo palcoscenico per avere visibilità, ma poi bisogna saper approdare alle sponsorizzazioni, ai libri o alle trasmissioni televisive da cui ricevere un cachet: è da lì che arrivano i soldi veri di star come Sofia Viscardi — dal cui libro Succede è appena stato tratto un film omonimo, uscito in Italia a inizio aprile — o Favij, che ha raggiunto il primo posto nella classifica della narrativa italiana con il romanzo fantasy The Cage – Uno di noi mente, pubblicato da Mondadori Electa. Il discorso vale anche per Instagram, che è di proprietà di Facebook: il grosso dei corposi incassi di Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, gli influencer italiani con più follower su Instagram, arriva proprio da sponsorizzazioni e accordi commerciali. Per guadagnarci, quindi, bisogna essere bravi imprenditori.

YouTube ha cambiato l’algoritmo. Non è un caso che la stessa società di streaming voglia aiutare i creatori di contenuti a guadagnare di più, ma anche loro vogliono farlo tramite sponsorizzazioni o programmi di commenti a pagamento: più paghi, più in evidenza saranno le tue parole. A questa situazione contribuisce anche l’algoritmo di YouTube: nel 2006 il 3% dei canali più seguiti totalizzava il 64% delle visualizzazioni totali del sito. Dieci anni più tardi raggiunge il 90%. In pratica, YouTube ha cambiato l’algoritmo per far circolare di più i video migliori, penalizzando tutti gli altri. Recentemente, ha anche stabilito che per poter guadagnare con la pubblicità è necessario avere almeno 1.000 follower e 4.000 ore di visualizzazioni nell’ultimo anno, complicando ulteriormente la strada verso il successo.

Uno su mille ce la fa. Insomma, ce la fanno in pochi, chi ce la fa sempre invece è YouTube, che vuol dire Google, che vuol dire un fatturato globale da 100 miliardi di dollari nel 2017, e 60 miliardi parcheggiati nei paradisi fiscali offshore. In Italia incassa in pubblicità circa 1,5 miliardi di euro all’anno, ma le tasse le paga in Irlanda, al 12,5 per cento. Alla fine anche da noi il colosso californiano è stato costretto a lasciare qualcosa: 306 milioni. Ma solo dopo l’intervento dell’Agenzia delle Entrate e della Procura di Milano.

California, a sparare una youtuber: «Era arrabbiata perché la società le aveva sospeso i pagamenti». Il padre della donna che ha aperto il fuoco, Nasim Aghdam: «Odiava la società». Aghdam, 39 anni scriveva: «Non c'è libertà di parola», scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Era arrabbiata perché «YouTube aveva smesso di pagarla per i video che pubblicava sulla piattaforma». Gli investigatori scavano nel passato di Nasim Aghdam, 39 anni, attivista vegana e animalista residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. A confermare l’ipotesi che la donna fosse furibonda con YouTube, il padre Ismail Aghdam che in un’intervista ad un giornale locale ha spiegato come la figlia fosse sparita lunedì e non rispondesse al telefono da due giorni. «Era arrabbiata perché YouTube aveva sospeso tutto, li odiava», ha dichiarato l’uomo. L’ipotesi è la società avesse sospeso i pagamenti o a causa dei contenuti inappropriati dei filmati postati dalla donna o a causa di un calo dei follower. Secondo la Nbc un suo filmato era stato censurato da YouTube e secondo il New York Times tutti i suoi canali erano stati rimossi martedì notte. Il 20 febbraio YouTube ha stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione e probabilmente i filmati di Aghdam sono rientrati in questo giro di vite.

Cos'è accaduto e chi era la donna. Aghdam, di origini iraniane, aveva una presenza sul web «rilevante», un sito internete postava video dal 2011 con il nickname di Nasim Wonderl e sul suo sito. Il contenuto variava: dalle ricette vegane, passando per le parodie musicali, fino ai commenti contro la violenza sugli animali e gli esercizi di bodybuilding. «Tutti i miei video sono autoprodotti senza l'aiuto di nessuno», scriveva orgogliosa. Aghdam si sarebbe lamentata più volte pubblicamente perché alcuni suoi post erano stati vietati ai minori, un trattamento che la stessa youtuber aveva denunciato non essere applicato a filmati dai contenuti più espliciti come i video clip di Miley Cyrus. «Non c’è libertà di parola nel mondo e verrai perseguitata per aver detto la verità», scriveva. Su Instagram il 18 marzo si lamentava di nuovo della censura di YouTube. La donna era anche un’attivista della Peta e manifestava a favore dei diritti degli animali. «Per me gli animali devono avere gli stessi diritti degli esseri umani», diceva a Los Angeles Times nel 2009.

YouTube sta rendendo più restrittive le regole che consentono agli iscritti di inserire pubblicità nei propri video e di guadagnare soldi. Lo scopo principale dell’iniziativa è quello garantire agli inserzionisti che i propri spot non finiscano all’interno di contenuti inappropriati o con immagini disturbanti, come avvenuto in passato.

La novità è stata annunciata dalla stessa azienda con un post sul blog “YouTube creators”: a partire da ieri, per iscriversi al “Programma partner” sono necessari almeno 1000 iscritti al proprio canale e 4000 ore di visualizzazione nell’arco degli ultimi 12 mesi.

“Le nuove regole ci permetteranno di migliorare in maniera significativa la nostra capacità di individuare i canali che contribuiscono positivamente alla nostra community e ci aiuteranno a generare maggiori entrate pubblicitarie per loro (e a tenerci lontano dai "cattivi attori"). Questi standard più elevati ci aiuteranno anche a evitare che i video potenzialmente inappropriati possano monetizzare, danneggiando i ricavi per tutti”, hanno spiegato Neal Mohan, chief product officer e Robert Kyncl, chief business officer. In precedenza, il requisito minimo per accedere al programma era quello delle 10mila visualizzazioni complessive. La differenza sembra sostanziale: a pagarne le conseguenze saranno sicuramente i canali più piccoli, che non attraggono un pubblico vasto ma che fino due giorni fa potevano guadagnare e perlomeno sostenere la realizzazione dei propri video. Prima di diventare famosi e raggiungere i requisiti richiesti, adesso gli aspiranti Youtuber dovranno trovare delle strade alternative per finanziare i propri progetti. YouTube pensa ovviamente ai propri interessi: un paio di mesi fa, aveva perso milioni di dollari di ricavi, in seguito alla decisione di alcuni inserzionisti – tra i quali Adidas, Mars, Deutsche Bank – di lasciare la piattaforma dopo essersi ritrovati la propria pubblicità sui dei video disseminati di commenti pedofili.

Come sottolinea il sito d’informazione The Next Web, l’approccio sembra contraddittorio: i nuovi criteri rendono la vita più difficile ai canali con pochi iscritti e visualizzazioni, lasciando tuttavia uno spiraglio ai trasgressori che distribuiscono contenuti inappropriati, ma che hanno successo. YouTube pensa di risolvere la questione affidandosi non solo alla metrica quantitativa, ma anche alle segnalazioni che arrivano dalla community e a metodologie di rilevazione di spam o altri abusi più efficaci.

L’annuncio arriva a distanza di una settimana della vicenda che ha coinvolto Logan Paul: il famoso Youtuber, apprezzatissimo tra i teenager, aveva condiviso il video di un suicidio avvenuto in Giappone. A rimuovere il contenuto però non era stato YouTube, bensì il suo stesso creatore. Con le identiche modalità era scomparso il video caricato qualche mese fa da PewPewDie – che con i suoi 12 milioni di dollari è tra le 10 star più pagate del Tubo nel 2017 – nel quale comparivano due uomini a petto nudo che avevano in mano un cartello con la scritta “Death to All Jews”. I due episodi, in particolare, hanno spinto YouTube a modificare anche le regole di Google Preferred, la soluzione di advertising dedicata ai canali più popolari (circa il 5% del totale): tutti i contenuti del programma saranno valutati da un moderatore e approvati manualmente. Se da un lato le mosse appaiono logiche e sensate, soprattutto per non perdere la fiducia degli inserzionisti e milioni di ricavi dalla pubblicità, dall’altro non si può fare a meno di notare che che la nuova policy, rischia di stroncare sul nascere i sogni di migliaia aspiranti youtuber e di rendere esclusiva una piattaforma che ha fatto invece dell’inclusività uno dei fattori chiave del suo successo.

Le migliori alternative a YouTube, scrive "1and1". YouTube è il campione indiscusso tra i portali video e può tranquillamente essere definito come il leader del settore. Con oltre un miliardo di utenti, secondo i dati forniti dalla compagnia stessa, quasi un terzo di tutta l’utenza Internet naviga su YouTube. È indubbio che la piattaforma da tempo sia stata riconosciuta anche come un efficace strumento di marketing. I video sono caricabili con pochi click e tramite la generazione automatica di un codice HTML sono facilmente postabili su siti web esterni. Inoltre, dal 2010, quando YouTube e SIAE hanno firmato un accordo riguardo ai video musicali e ai proventi generati dalle visualizzazioni di questi, è diventato ancora più difficile per la concorrenza. Dunque è lecito porsi la seguente domanda: quali alternative ci sono a YouTube?

Le alternative attive a YouTube presentate in questo articolo sono cinque e sono Vimeo, Dailymotion, Veoh, Vevo e Flickr. Questi quattro servizi offrono agli utenti privati ed a coloro che li utilizzano per lavoro molte possibilità diverse, come guardare e mettere a disposizione contenuti eccezionali.

Dailymotion è un portale video di origine francese, che rappresenta una delle migliori alternative a YouTube in termine di numero utenti, soprattutto nel suo paese di origine. Nel 2015 il servizio ha registrato una utenza attiva del 23%. Comparando a livello internazionale, nessun altro servizio raggiunge un valore simile. In Francia infatti Dailymotion si trova secondo solo a YouTube, che ha una utenza attiva del 57%. Ad ogni modo, anche in altri paesi Dailymotion si trova al secondo posto dietro a YouTube. La compagnia calcola i suoi utenti in giro per il globo attorno ai 300 milioni. Mensilmente vengono visualizzati 3,5 miliardi di video su Dailymotion. In Italia Dailymotion riceve 6 milioni di unique viewers al mese, registrando un totale di circa 65 milioni di visualizzazioni tra tutti i tipi di dispositivi. Dailymotion punta principalmente sulle specifiche di upload: con file video fino a 2GB e 60 minuti di durata. Vengono supportati numerosi formati video e audio, così che è possibile scegliere tra file con estensione .mov, .mpeg4, .mp4, .avi e .wmv. Come codec video e audio vengono consigliati rispettivamente H.264 e AAC con un frame rate di 25FPS. La risoluzione massima possibile è 1080p (Full HD). In questo modo il portale si confà anche agli uploader più esigenti; i file di grandi dimensioni sono ben accetti tanto quanto lo è una qualità convincente dell’immagine. Il layout, di colore blu e bianco, è semplice e comodo da utilizzare. L’ordine degli elementi è decisamente orientato a quello di YouTube, che ha il vantaggio, che anche i principianti riescono a raccapezzarci qualcosa sin da subito. Anche l’integrazione e la condivisione dei video su piattaforme esterne è semplice; con un click il codice HTML corretto viene automaticamente generato. Ci sono inoltre ulteriori funzioni per i cosiddetti partner, i quali hanno la possibilità di guadagnare soldi con Dailymotion esattamente come su YouTube. Anche con Dailymotion si può monetizzare con i video, personalizzare il player e controllare i proventi attraverso il tool di analisi. Perciò Dailymotion è una delle migliori alternative a YouTube particolarmente per i blogger, che vogliono mettere i propri contenuti a disposizione solo a pagamento o che vogliono offrire dei contenuti premium separati. Chi ad esempio vuole usufruire della monetizzazione offerta da Dailymotion per un sito web, può sia attivare il proprio sito sia incorporare un dispositivo speciale del provider. Alcuni partner rinomati hanno già preso parte a questo programma, e tra questi vi sono ad esempio la CNN, la Süddeutsche Zeitung e la Deutsche Welle. Anche la vasta scelta di App di Dailymotion risulta piacevole. L’alternativa a YouTube è presente con apposite App su molte Smart TV, set-top box o sulla Playstation 4 della Sony, e può essere guardata comodamente dal divano di casa. Il servizio può essere utilizzato anche da dispositivo mobile con applicazioni iOS, Android o Windows.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

Dr Antonio Giangrande

Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.

L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.

Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita. 

Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.

Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.

Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.

Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);

Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);

Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);

Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);

Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);

Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).

Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.

Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.

Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.

Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".

Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.

Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?

Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.

Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.

«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?

Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.

Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;

Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;

Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;

Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;

Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;

Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;

Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;

Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;

Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».

Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.

Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.

In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.

Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.

A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.

Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono poveri da aiutare, io vedo degli incapaci o degli sfaticati, ma, in specialmodo, vedo persone a cui è impedita la possibilità di emergere dall’indigenza per ragioni ideologiche o di casta o di lobby. 

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).

Se questa è democrazia… 

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. 

I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. In relazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

A chi votare?

Nell’era contemporanea non si vota per convinzione. Le ideologie sono morte e non ha senso rivangare le guerre puniche o la carboneria o la partigianeria.

Chi sa, a chi deve votare (per riconoscenza), ci dice che comunque bisogna votare e votare il meno peggio (che implicitamente è sottinteso: il suo candidato!).

A costui si deve rispondere:

Votare a chi non ci rappresenta? Votare a chi ci prende per il culo?

I disonesti parlano di onestà; gli incapaci parlano di capacità; i fannulloni parlano di lavoro; i carnefici parlano di diritti.

Nessuno parla di libertà. Libertà di scegliersi il futuro che si merita. Libertà di essere liberi, se innocenti.

La vergogna è che nessuno parla dei nostri figli a cui hanno tolto ogni speranza di onestà, capacità, lavoro e diritti.

Fanno partecipare i nostri figli forzosamente ed onerosamente a concorsi pubblici ed a Esami di Stato (con il trucco) per il sogno di un lavoro. Concorsi od esami inani o che mai supereranno. Partecipazione a concorsi pubblici al fine di diventare piccoli “Fantozzi” sottopagati ed alle dipendenze di un numero immenso di famelici incapaci cooptati dal potere e sostenuti dalle tasse dei pochi sopravvissuti lavoratori.

Ai nostri figli inibiscono l’esercizio di libere professioni per ingordigia delle lobbies.

Ai nostri figli impediscono l’esercizio delle libere imprese per colpa di una burocrazia ottusa e famelica. Ove ci riuscissero li troncherebbero con l’accusa di mafiosità.

Ai nostri figli impediscono di godere della vita, impedendo la realizzazione dei loro sogni o spezzando le loro visioni, infranti contro un’accusa ingiusta di reato.

E’ innegabile che le nostre scuole e le nostre carceri sono pieni, come sono strapieni i nostri uffici pubblici e giudiziari, che si sostengono sulle disgrazie, mentre sono vuoti i nostri campi e le nostre fabbriche che ci sostentano.

L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. E non sarei mai votato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Si deve tener presente che il voto nullo, bianco o di protesta è conteggiato come voto dato.

Quindi io non voto.

Non voto perché un popolo di coglioni votanti sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Informato da chi mette in onda le proprie opinioni, confrontandole esclusivamente con i propri amici o con i propri nemici. Ignorata rimane ogni voce fuori dal coro.

Se nessuno votasse?

In democrazia, se la maggioranza non vota, ai governanti oppressori ed incapaci sarebbe imposto di chiedersi il perché! Allora sì che si inizierebbe a parlare di libertà. Ne andrebbe della loro testa…

Se questa è democrazia. Questo non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996

Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

quasi tutte le canzoni son di destra

se annoiano son di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po’ di destra

ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate

è da scemi più che di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po’ di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La patata per natura è di sinistra

spappolata nel purè è di destra

la pisciata in compagnia é di sinistra

il cesso é sempre in fondo a destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po’ di destra

mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione l’ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera é di destra

la nutella é ancora di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La tangente per natura è di destra

col consenso di chi sta a sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po’ degli anni '20 un po’ romano

è da stronzi oltre che di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia 

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c’è

se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.

Canticchiar con la chitarra è di sinistra

con il karaoke è di destra

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze é più che mai di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

Son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è a destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po’ più di destra

ma un figone resta sempre un’attrazione

che va bene per sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa é nostra

é evidente che la gente é poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra 

Destra sinistra

Basta!

Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.

E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.

Nuntereggae più

Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè con le canzoni

senza fatti e soluzioni

la castità (NUNTEREGGAEPIU')

la verginità (NUNTEREGGAEPIU')

la sposa in bianco, il maschio forte

i ministri puliti, i buffoni di corte

ladri di polli

super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')

ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori

diete politicizzate

evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')

auto blu

sangue blu

cieli blu

amore blu

rock and blues

NUNTEREGGAEPIU'

Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi (NUNTEREGGAEPIU')

dc dc (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi pli pri

dc dc dc dc

Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')

Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli

Susanna Agnelli, Monti, Pirelli

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')

Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')

Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno

Villaggio, Raffa, Guccini

onorevole eccellenza, cavaliere senatore

nobildonna, eminenza, monsignore

vossia, cherie, mon amour

NUNTEREGGAEPIU'

Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè

il numero 5 sta in panchina

s'è alzato male stamattina

mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')

il nostro è un partito serio

disponibile al confronto

nella misura in cui

alternativo

aliena ogni compromess

ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

ci sarà la ress

se quest'estate andremo al mare

solo i soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia

dove sei tu? non m'ami più?

dove sei tu? io voglio tu

soltanto tu dove sei tu?

NUNTEREGGAEPIU'

Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')

il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')

il quindici-diciotto

il prosciutto cotto

il quarantotto

il sessantotto

le pitrentotto

sulla spiaggia di Capocotta

(Cartier Cardin Gucci)

Portobello e illusioni

lotteria trecento milioni

mentre il popolo si gratta

a dama c'è chi fa la patta

a settemezzo c'ho la matta

mentre vedo tanta gente

che non c'ha l'acqua corrente

non c'ha niente

ma chi me sente

ma chi me sente

e allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

ci giurerei

sei meglio tu

che bella sei

che bella sei

NUNTEREGGAEPIU'

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

L'ITALIA ED IL DNA DEGLI ITALIANI.

La bella Italia di Aban feat. Marracash & Gue Pequeno

Ehi, è la mia nazione, niente cambia qua,

Marra, Guè Pequeno, vi porto a fare un giro nella Bella Italia

E dovrei leggere il giornale e guardare il tg, in tv,

per accorgermi che stato e mafia sono intimi,

Dogo Gang, lo sanno già tutti,

Southfam, lo sanno già tutti,

il peggio è che lo sanno già tutti.

Vengo al mondo con il piombo nel '79

con il cielo rosso sangue sopra la nazione

l'anno prima della bomba dentro la stazione

il Paese inginocchiato ai piedi del terrore

l'ambientazione non cambia quando passiamo agli '80

quando è lo stato assassino, sai non esiste condanna

basta una botta di pala per insabbiare la trama

e tutti morti ammazzati dentro le stragi in Italia

poi la nuova alleanza tra politica e mala

la faccia buona e pulita, la mano armata e insanguinata

i pilastri di cemento con i cristiani dentro

l'acido e le vasche, e il primo pentimento

sono gli anni dei maxi processi, la verità viene a galla

lo stato primo assassino, strinse la mano alla mala,

e se volevi lavorare dovevi pagare

l'impiegato, il sindaco, l'appalto comunale.

I nuovi clan del 90 sotto il nome d'azienda

i soldi sporchi riciclati dalle banche di Berna

la politica assassina che soffoca i cittadini

e ruba dallo stipendio per finanziare i partiti

i loro vizi esauditi col sangue degli operai

e i soldi delle pensioni che non bastano mai

12 teste al mese per ogni parlamentare

e 8000 euro all'anno per la fascia popolare

l'onorevole a puttane, l'ha detto il telegiornale

bamba pura di Colombia per l'alto parlamentare

tra i banchi di tribunale c'è chi ha rubato per fame

una vita di lavoro e 5 bocche da sfamare

ma la legge della Bella Italia valuta il prefisso

che davanti al nome è presidente o ministro

e non conta il reato, il verdetto è fisso,

non va dentro Barabba, sconta il povero Cristo.

Non c'è il diavolo contro l'angelo che consiglia

L'alternativa per me è il diavolo o la scimmia

in testa ho merda, fogli in fretta, potere, droga e tette

come in Quirinale, il criminale che non si dimette

ho l'oro bianco al collo frà, ed è gelido come il mio cuore

devo inventarmi soldi, voi vi inventate storie

l'uomo di successo qui è il balordo legalizzato

(???) ci ha promesso che lui non si è mai drogato

la mafia e la politica frà andranno sempre insieme,

come al cesso mano nella mano le due amiche sceme

ed è per questo che molta della mia gente, no, non vota

nella merda frà ci nuota, mentre in tele svolta un altro idiota

questa è la Bella Italia, tira una bella raglia

faccia da galera del magnaccia sul Carrera

scorda i problemi, sogna il montepremi

il frà sul lastrico progetta fuga nel Sud-Est Asiatico.

In Italia di Fabri Fibra feat. Gianna Nannini.

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

Pistole in macchine in Italia

Machiavelli e Foscolo in Italia

I campioni del mondo sono in Italia

Benvenuto in Italia

Fatti una vacanza al mare in Italia

Meglio non farsi operare in Italia

Non andare all'ospedale in Italia

La bella vita in Italia

Le grandi serate e i gala in Italia

Fai affari con la mala in Italia

Il vicino che ti spara in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

I veri mafiosi sono in Italia

I più pericolosi sono in Italia

Le ragazze nella strada in Italia

Mangi pasta fatta in casa in Italia

Poi ti entrano i ladri in casa in Italia

Non trovi un lavoro fisso in Italia

Ma baci il crocifisso in Italia

I monumenti in Italia

Le chiese con i dipinti in Italia

Gente con dei sentimenti in Italia

La campagna e i rapimenti in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

Le ragazze corteggiate in Italia

Le donne fotografate in Italia

Le modelle ricattate in Italia

Impara l'arte in Italia

Gente che legge le carte in Italia

Assassini mai scoperti in Italia

Volti persi e voti certi in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi…

Dove fuggi...

La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese

Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi;

tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate;

il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto:

Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

c'è un commando che ci aspetta per assassinarci un po'.

Commando sì commando no, commando omicida.

Commando pam commando papapapapam, ma se c'è la partita

il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

sventolando il bandierone non più sangue scorrerà;

infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì primario dai, primario fantasma,

io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no.

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò

"fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze. Viva il crogiuolo di panze.

Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così.

Italia sì Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi.

Italia sob Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifì' fufafifì' Italia evviva.

Italia perfetta, perepepè' nanananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo:

in totale molto pizzo, ma l ' Italia non ci sta.

Italia sì Italia no, Italia sì

uè, Italia no, uè uè uè uè uè.

Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. No

L'italiano medio degli Articolo 31

Io mi ricordo collette di Natale

Campi di grano ai lati della provinciale

Il tragico Fantozzi, la satira sociale

Oggi cerco Luttazzi e

Non lo trovo sul canale

Comunque sono un bravo cittadino

Ho aggiornato suonerie del telefonino

E un bicchiere di vino con un panino

Provo felicità se Costanzo fa il trenino

Ho un santino in salotto

Lo prego così vinco all'enalotto

Ho Gerry Scotti col risotto ma è scotto

Che mi fa diventare milionario come Silvio

Col giornale di Paolo e tanta fede in Emilio

Quest'anno ho avuto fame ma per due settimane

Ho fatto il ricco a Porto Cervo. Che bello!

Però ricordo collette di Natale

Campi di grano ora il grano è da buttare

M'importa poco oggi io vado al centro commerciale

E il mio problema è solo dove parcheggiare

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

E datemi Fiorello e Panariello alla tv

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu

Io sono un bravo cittadino onesto

Bevo al mattino un bel caffè corretto

Dopo cena il limoncello in vacanza la tequila

La Gazzetta d'inverno e d'estate novella 2000

Che bella la vita di una stella

marina o Martina o quella della velina

La mora o la bionda è buona e rotonda

Finchè la barca va finchè la barca affonda

E intanto sto perdendo sulla patente il punto

E un auto blu mi sfreccia accanto

Che incanto

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

Non togliermi il pallone e non ti disturbo più

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu

Ohoo

Ma spero che un sogno così non ritorni mai più

Mi voglio svegliare, mai più

Ti voglio fare vedere

Che sono proprio un bravo cittadino

Ho il portafoglio di Valentino

E l'importante è quello che ci metto dentro

Vado con il vento a sinistra a destra

Sabato in centro fino a consumare le suole

Ballo canzoni spagnole così non mi sforzo

A seguire le parole e penso a fare l'amore

Alla villa di Briatore alla nonna senza

Ascensore alla donna del calciatore

A qual è il male minore, l'onore, sua eccellenza

Monsignore ancora baciamo la mano

Che del miracolo italiano

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

E datemi Fiorello e Panariello alla tv

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

Non togliermi il pallone e non ti disturbo più

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu

Ohoo

C'era una volta

E non solo una

Un re che amava così tanto i vestiti nuovi

che spendeva in essi tutto quello che aveva

Possedeva un abito diverso per ogni ora della giornata

Niente importava per lui

Eccetto i suoi vestiti

Eppure non trovava soddisfazione

Il sarto era sull'orlo della disperazione

Disse al re di avere inventato un nuovo tessuto

Che cambiava colore e forma ad ogni momento

Ma rivelava anche coloro che erano stolti, ignoranti e stupidi

A loro il tessuto sarebbe stato invisibile

E pensate, e pensate

Quelli Che Benpensano di Frankie HI-NRG MC

Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi

A far promesse senza mantenerle mai se non per calcolo

Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile

La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere

E non far partecipare nessun altro

Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro

Niente scrupoli o rispetto verso I propri simili

Perché gli ultimi saranno gli ultimi se I primi sono irraggiungibili

Sono tanti, arroganti coi più deboli,

zerbini coi potenti, sono replicanti,

Sono tutti identici, guardali,

stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere.

Come lucertole s'arrampicano,

e se poi perdon la coda la ricomprano.

Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno

spendono, spandono e sono quel che hanno

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

e come le supposte abitano in blisters full-optional,

Con cani oltre I 120 decibel e nani manco fosse Disneyland,

Vivono col timore di poter sembrare poveri

Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano,

In costante escalation col vicino costruiscono

Parton dal pratino e vanno fino in cielo,

han più parabole sul tetto che S.Marco nel Vangelo..

Sono quelli che di sabato lavano automobili

che alla sera sfrecciano tra l'asfalto e I pargoli,

Medi come I ceti cui appartengono,

terra-terra come I missili cui assomigliano.

Tiratissimi, s'infarinano, s'alcolizzano

e poi s'impastano su un albero

Nasi bianchi come Fruit of the Loom

che diventano più rossi d'un livello di Doom

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Ognun per se, Dio per se, mani che si stringono tra I banchi delle chiese alla domenica

mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano

Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano

Mani che poi firman petizioni per lo sgombero,

Mani lisce come olio di ricino,

Mani che brandisco Manganelli, che Farciscono Gioielli,

che si alzano alle spalle dei Fratelli.

Quelli che la notte non si può girare più,

quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan La TV,

Che fanno I boss, che compra Class,

che son sofisticati da chiamare I NAS, incubi di Plastica

Che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara

Ma l'unica che accendono è quella che da loro l'elemosina ogni sera,

Quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sabbie Mobili di Marracash

Non agitarti

Resta immobile

Non agitarti

Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che

Affonda Nelle sabbie mobili

Si perde Nelle sabbie mobili

Penso spesso che potrei farlo

Andare via di punto in bianco

Così altra città. Altro Stato

Potrei se avessi il coraggio

Ho un orizzonte limitato

E' follia stare qua nel miraggio

Che basti essere capaci

Quanti ne ho visti scavalcarmi

Rampolli Rapaci. Raccomandati

Quanti ne ho visti fare viaggi

E dopo non tornare

Restare. Spaccare. Affermarsi

Qui non c'è il mito di chi si è fatto da solo

Perché chi si è fatto da solo di solito è corrotto

Se sei un ragazzo ambizioso

In un sistema corrotto

Non puoi fare il botto

E non uscirne più sporco

Nessuno lascia le poltrone

Niente si muove

Nessuno osa e nessuno dà un occasione

Impantanati in queste sabbie mobili

Si muore comodi

Lo Stato spreca i migliori uomini

Non agitarti. Resta immobile.

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che Affonda

Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Parto dal principio

Io della scuola ricordo un ficus

Cioè la pianta che aveva il preside in ufficio

Vale più un mio testo letto in diretta da Linus

Il paese ha un virus

Una paralisi da ictus

Come prima più di prima

Madonna potrebbe essere mia nonna

A 50 anni è ancora a pecorina

E' il nulla

Come la storia infinita

Come la mummia

Che si sveglia e torna in vita

Puzza di muffa

The beautiful people

The beautiful people

La bella gente pratica il cannibalismo

Sa di già visto

Come un film di cui capisci la fine

Già dall'inizio

I vecchi stanno al potere

Non vanno all'ospizio

E se MTV sta per music television

Vorremmo più video e meno reality e fiction

Sono pesante apposta come chi fa sumo

Tu fai musica che piace a tanti

E non fa impazzire nessuno

Non agitarti. Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che

Affonda. Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Niente di nuovo. Niente di che

Quel rapper che ti piace

Non dice niente di sé

Solo cliché

Attacca il premier

Come se quando cadrà il premier

Vincerà il bene

Se non ci fosse di che parlerebbe

Chi comanda è lì da sempre

E non si elegge con il voto

E prende decisioni senza cuore e senza quorum

E se tornassi indietro io lo rifarei

Il mio incubo era fare la vita dei miei

Sì quella vita strizzata in otto ore

Compressa. La sera sei stanco e c'hai mal di testa

Compressa. Fuori onda il direttore dice che ho ragione

Ma non ci crede

Come chi brinda

Ma poi non beve

Non prendere la bufala

Che tanto non è bufala

E' una bufala

Hai una chance di andartene frà. Usala

Se riesci sei un genio

Se fallisci sei uno zero

Se fai quello che fanno gli altri

Rischi di meno

Quindi. Non agitarti. Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare il paese che

Affonda. Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Io Non Mi Sento Italiano di Giorgio Gaber

Parlato: Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Non è per colpa mia

Ma questa nostra Patria

Non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

Che sia una bella idea

Ma temo che diventi

Una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

Non sento un gran bisogno

Dell'inno nazionale

Di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

Non voglio giudicare

I nostri non lo sanno

O hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Se arrivo all'impudenza

Di dire che non sento

Alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

E altri eroi gloriosi

Non vedo alcun motivo

Per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

Ma ho in mente il fanatismo

Delle camicie nere

Al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

Questa democrazia

Che a farle i complimenti

Ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

Pieno di poesia

Ha tante pretese

Ma nel nostro mondo occidentale

È la periferia.

Mi scusi Presidente

Ma questo nostro Stato

Che voi rappresentate

Mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

Agli occhi della gente

Che tutto è calcolato

E non funziona niente.

Sarà che gli italiani

Per lunga tradizione

Son troppo appassionati

Di ogni discussione.

Persino in parlamento

C'è un'aria incandescente

Si scannano su tutto

E poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Dovete convenire

Che i limiti che abbiamo

Ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

Noi siamo quel che siamo

E abbiamo anche un passato

Che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

Ma forse noi italiani

Per gli altri siamo solo

Spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

Son fiero e me ne vanto

Gli sbatto sulla faccia

Cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

Forse è poco saggio

Ha le idee confuse

Ma se fossi nato in altri luoghi

Poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

Ormai ne ho dette tante

C'è un'altra osservazione

Che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

Noi ci crediamo meno

Ma forse abbiam capito

Che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

Lo so che non gioite

Se il grido "Italia, Italia"

C'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

O forse un po' per celia

Abbiam fatto l'Europa

Facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo

Per fortuna o purtroppo

Per fortuna. Per fortuna lo sono.

Mamma L'Italiani di Après La Classe

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Rivoluzione di Renato Zero

Protesterai

ogni tregua è finita oramai

dalla sabbia la testa alzerai

dritto al cuore colpirai.

Libererai

quello che soffocavi in te

la tua voce è più forte se vuoi

del silenzio e l'omertà

C'è una guerra giusta e devi farla tu

è la tua risposta a chi non chiede più

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

su la testa adesso tocca te

Ti accorgerai

che il nemico è nascosto tra noi

che il futuro non viene da sé

e ogni brivido ha un suo perché

E sentirai

che resistere è pura follia

ci sarà poi chi ride di te

ma è soltanto paura la sua

Perché niente al mondo viene come vuoi

Perché tutto al mondo ha un prezzo d'ora in poi

Rivoluzione è la promessa che mi fai

di calci e sputi non avere mai paura

Non posso andare sempre avanti io

ho già dato e adesso tocca te

Politica assente famiglia vacante

quaggiù si congeda anche Dio

Se la corda si spezza s'incendia la piazza

E ritorno a lottare con te!

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

fuori il cuore adesso tocca te

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

fuori il cuore adesso tocca te

Rivoluzione! Rivoluzione.

Rivoluzione di Frankie hi-nrg mc

In Italia c'è lavoro in qualche punto nero – capita:

ogni volo che finisce sotto a un telo irrita, noi che

qui pure Peppone sa il Vangelo e lo agita, un po' si

esagita, dopo un po' si sventola: senti un po' che

caldo fa… Afa tutto l'anno – più brevemente

“affanno” – non sanno a quale conclusione non

Approderanno. Noi l'Italia siamo e non la stiam

Rappresentando: ciurma! Ai posti di comando!

Mettiamo al bando i vertici politici con tutti i loro

Complici, amici degli amici di chi ha svuotato i

Conti: incassano tangenti celandosi le fonti e han

Cappucci e cornetti sulle fronti.

Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,

sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.

Troppi furbetti nel nostro quartierino e tutti ci

intercettano con il telefonino, ci piazzano vallette

nude sopra allo zerbino e paparazzi sui terrazzi del

vicino: ragazzi che casino! Senza via di

scampo, chiusi dentro al plastico di quel villino ci è

venuto un crampo, siamo titolari confinati a bordo

campo, ci fan pagare l'acqua più salata dello

shampoo. Boh? Magari mi sbaglio, ma vedo tutti

quanti allo sbaraglio, meglio darci un taglio… Figli

mai usciti dal travaglio: qui da masticare non ci

resta che il bavaglio.

Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,

sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.

L'Italia, non lo sai, ha problemi araldici: i baroni

sono pochi e han troppi conti per dei medici. Poi

ha problemi etici, politici, geografici, geologici, ma

i peggio restan quelli genealogici… Visto che la

base del sistema è la clientela e siamo separati

da 6 gradi sì, ma di parentela, maglie di una

ragnatela a forma di stivale, tutti collegati in linea

collaterale come un'unica famiglia in un immenso

psicodramma: sta bravo che altrimenti piange

mamma. Cambio di programma: annulliamo la

rivolta. Abbiamo una famiglia e non dev'essere

coinvolta…

Non si fa la rivoluzione, l'hanno detto in

Televisione… chi c'è andato che delusione! Era

chiuso anche il portone.

"Chi comanda il mondo?" di Povia

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

C’è una dittatura di illusionisti finti

economisti equilibristi

terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti

che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti

gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia

fino a portarci all’apatia

creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa

media, oggetti, nomi, colori, simboli

la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli

dormiamo bene sotto le coperte

siamo servi di queste sorridenti merde

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene

La libertà e la lotta contro l’ingiustizia

non sono né di destra né di sinistra

la musica può arrivare nell’essenziale

dove non arrivano le parole da sole

gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati

da Maastricht a Lisbona

siamo tutti indignati perché questi trattati

annullano ogni costituzione

quì bisogna dare un bel colpo di scopa

e spazzare via ogni stato da quest’Europa

se ogni stato uscisse dall’Euro davvero

magari ogni debito andrebbe a zero

perché per tutti c’è un punto d’arrivo

nessuno lascerà questo mondo da vivo

vogliamo una terra sana, sana

meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma, scrive Oscar di Montigny il 5 giugno 2018 su "Panorama".

"Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire". George Orwell

Al giorno d'oggi siamo impegnati a comunicare senza sosta ma di rado capita di domandarci: sto dicendo veramente quello che voglio dire? Non siamo di certo i primi: da sempre nella storia anche i più grandi e rivoluzionari pensatori hanno dovuto fare i conti con il contesto storico, le pressioni sociali, le censure. Non a caso lo scrittore e giornalista George Orwell ha scritto la frase premessa a queste righe. Oggi, però, comunichiamo di continuo eppure è raro che diciamo esattamente quello che ci sentiremmo di dire. Vogliamo sempre fare la battuta più brillante su Twitter, corriamo a esprimere la nostra opinione sul fatto del giorno, magari senza esserci informati opportunamente, ma abbiamo consapevolezza di ciò che stiamo sacrificando sull'altare di questa gara?

L'era della post-verità. Ecco che le nostre parole vengono distorte, perdono di sincerità, spontaneità ma soprattutto di connessione col reale. Siamo d'altronde in quella che è stata definita era della post-verità. Gli "alternative facts" di cui si è parlato ultimamente negli Stati Uniti di Donald Trump sono un bell'esempio di come anche il linguaggio possa essere piegato a originare contraddizioni fino a poco tempo fa impensabili: i fatti erano fatti, senza alternative. I giornalisti incorruttibili, i profeti scomodi, i difensori del libero arbitrio sembrano martiri degni solo di vecchi film di Hollywood. Le bolle in cui ci immergono i social o i mezzi digitali funzionano invece in un modo autoreferenziale e al contempo pericoloso: ci piacciono perché ci permettono di scegliere con chi relazionarci e scegliamo di farlo sempre con coloro che hanno opinioni che corrispondono al nostro modo di vedere, leggiamo solo cose che ci compiacciono, ma che ci tagliano anche fuori da una parte di società che la pensa diversamente da noi. È questo il terreno in cui proliferano le fake news, piaga apicale del nostro tempo, difficili da smontare senza esporsi ad altre fonti di informazione. È così che evitiamo di andare a fondo nelle cose, a recuperare un senso della dimensione reale. Il politicamente corretto, la paura di offendere, un'isteria legata a quel che va detto e cosa no, limitano la libertà di espressione in un'epoca in cui essa è virtualmente al suo massimo.

Il coraggio di dire quello che si pensa. D'altronde è più comodo così: "Per farsi dei nemici non è necessario dichiarare guerra, basta dire quello che si pensa", diceva Martin Luther King. Se persone come lui si sono sacrificate in nome della libertà forse vuol dire che questi principî non riguardano solo l'opportunità personale, sono invece veri e propri valori culturali. Al contrario stiamo perdendo l'attaccamento alla realtà fattuale delle cose e anche l'inclinazione ad accettare la verità, anche quando è scomoda. Mentre è sempre più facile cadere nelle trappole della propaganda o della disinformazione, sarebbe opportuno correre dei rischi. Non esprimerci solo in modo da ottenere qualche "like" in più o con mille cautele per non disturbare poteri forti o prepotenti di turno. In una recente intervista lo scrittore Eric Emmanuel Schmitt scriveva che siamo in "un'epoca vittimistica, in cui non facciamo altro che definirci vittime di qualcosa o qualcuno". Essere meno vittime forse passa proprio dalla forza che mettiamo nell'intonare la nostra voce su un accordo autonomo rispetto alla babele collettiva.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad arrivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive A.drea P.sini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato.  Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti»

L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.

Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.

Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.

Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.

DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".

Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.

«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.

I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:

Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);

Troppi pubblicisti;

Troppa informazione web;

Troppi italiani non leggono.

La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.  Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.

FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.

Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.

Fake news, Gabanelli: “Polizia postale? Eccessivo. Politici e giornalisti hanno sempre raccontato balle”, scrive Gisella Ruccia il 23 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Fake news? Adesso sono molto di moda. Perdiamo più tempo a parlare di fake news che non a scovare le notizie vere”. Sono le parole della giornalista Milena Gabanelli, ospite di Otto e Mezzo (La7). La storica ex conduttrice di Report spiega: “Non sono molto appassionata di questo argomento. L’allarme sulle fake news è direttamente proporzionale a quanto ne parliamo e a quanto lo gonfiamo. Le balle le hanno sempre raccontate la classe politica e i giornalisti che seguono la politica, per compiacerla o semplicemente per pigrizia”. E aggiunge: “Trovo veramente eccessivo l’intervento della polizia postale. Se questo è finalizzato a essere un deterrente, ha una qualche utilità. Ma non si può pensare che le 2mila persone della polizia postale, oltre a occuparsi di cyber-terrorismo, di e-banking, di pedopornografia, di pedofilia, di giochi e di scommesse online, di tutto il crimine che passa attraverso il web, debbano mettersi lì a rispondere ai cittadini”.

Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».

L'ANNO CHE SARA'...

Gli umani sono una specie animale irriconoscente. Quanti tra loro hanno beneficiato dell’anno che è passato? Quanti di loro hanno fatto fortuna? Sicuramente tanti. Eppure sono lì ha festeggiare la sua fine.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come un’autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

Baba Vanga, le profezie per il 2018: la nuova superpotenza mondiale e l'energia sconosciuta da Venere, scrive il 27 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Ha predetto l'11 settembre, Baba Vanga, così come lo tsunami di Santo Stefano in Thailandia, nel 2004, e "il crollo dell'Unione europea", con la Brexit nel 2016. E per il 2018, spiega il sito del tabloid britannico Daily Mail, la "Nostradamus dei Balcani" avrebbe previsto altri due eventi epocali. Nelle carte della veggente bulgara scomparsa nel 1996 a 85 anni spicca il sorpasso definitivo della Cinasugli Stati Uniti come prima potenza economica e politica mondiale (una previsione fatta negli anni Settanta, quando il regime comunista produceva appena il 4% delle ricchezze mondiali) e la scoperta di una nuova fonte di energia sul pianeta Venere, sebbene nessuna missione spaziale sia prevista, a oggi, in questo senso.

5 fatti del 2017 che condizioneranno il 2018. Dalla situazione politica in Libia alle forze sciite, dai paesi dell'Europa dell'Est alla Terra Santa fino al Russiagate e Julian Assange, scrive il 28 dicembre 2017 Alessandro Turci su Panorama. Se ne è parlato, certo. Ma altre notizie, più tragiche, hanno fatto ombra su almeno cinque fatti cristallizzati dal 2017 e che condizioneranno, a lento rilascio, tutto il 2018.

Il regno del Generale Haftar in Libia. La Comunità Internazionale ha deciso una Libia unita, sotto la guida di Fayez al-Sarraj, Presidente e primo Ministro libico. Peccato che a contenderne il potere ci sia il generale Khalifa Aftar, noto come il Signore della Cirenaica. È con lui che il governo italiano dialoga (dialoga?) per gestire la crisi dei flussi migratori. È sempre lui che a volte lancia minacce ai quattro venti. Di certo passa da Roma dove s’incontra con Minniti, figura cruciale della nostra Intelligence e in subordine titolare di un ministero, per quanto di peso. Insomma, l’Italia – avamposto dell’Europa - riconosce come unico interlocutore Sarraj, ma delle cose molto serie parla con Aftar. E questo suggerisce che la transizione è finita e la Libia a due teste è ormai un dato acquisito.

La forza sciita. Sono finite nel dimenticatoio le analisi di chi dava Bashar al-Assadper spacciato dopo l’inizio della guerra in Siria nel 2011; è cambiato anche l’inquilino della Casa Bianca, quell’Obama che con la sua linea rossa (cioè l’uso dei gas) minacciata e poi lasciata cadere ha spianato la strada all’ascesa russa. Grazie a Vladimir Putin si dirà, ma certo Assad e la minoranza alauita sono al potere a Damasco e del loro avvicendamento non si parla quasi più. Più forte anche l’Iran, Hezbollah sempre reattivo, la galassia sciita non retrocede di un passo e anzi, stabilizzato il vasto Iraq dov’è maggioranza, ottiene vittorie sul sunnismo radicale e anche su quello moderato. Qualcuno ha sbagliato scommessa e adesso, nel valzer delle alleanze, l’Occidente resta coi partner meno talentuosi e si affida una nuova scommessa: il Principe saudita Mohammad Bin Salman conta parecchio ma, al momento, rimane ereditario.

Il Gruppo di Visegrad. Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria, tenuti per mezzo secolo sotto il mantello del Patto di Varsavia, sono l’Europa dell’Est recalcitrante a elaborare la storia e il concetto di “diverso”, e per questo si oppongono all’accoglienza dei migranti. Alla Presidenza ora c’è la Polonia, che Bruxelles vorrebbe mettere in stato d’infrazione, una volta tanto, non sui soldi ma sui principi. Ma a Varsavia, come a Budapest, soffia un vento intollerante che invece d’infiacchirsi, è arrivato fino a Vienna, passando per Praga. A est vincono a mani basse le destre, vince il mito del sangue puro, e Bruxelles non sembra avere la forza per far ragionare sulle quote dei migranti come su altri principi giuridici di civiltà. Visegrad è il grande scisma orientale come la Brexit è stato quello occidentale. L’Unione Europea è più piccola e non basta un enfant prodige come Emmanuel Macron a farsi dar retta.

Stagnazione in Terra santa. Le scelte di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come unica capitale sono state partigiane in Terra Santa, poco ma sicuro, ma la tanto annunciata rabbia palestinese per ora (e per fortuna, certo) si è spenta presto. Questo suggerisce una certa stanchezza su ambo i fronti, perché la road map non solo è faticosa, ma sembra giunta a un punto morto. Fa più politica l’UNESCO, e infatti Trump e Israele lasciano anche questo sodalizio. La coperta è davvero corta e molti sono gli interessi tra i falchi di ambo le parti perché il processo di pace abbia uno sbocco positivo. Venendo a mancare l’arbitro per eccellenza, gli Stati Uniti, l’accordo si è allontanato sine die. Questa è una promessa elettorale mancata da Trump, la sola per ora. Le altre cose promesse, ce ne siamo accorti, sta tentando di mantenerle sul serio.

Julian Assange congelato. Assange è sempre ospite dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Gli Stati Uniti ne reclamano l’estradizione ma poi, se il fondatore di WikiLeaks dovesse mai comparire di fronte a un tribunale americano, scatterebbe la battaglia del secolo sul Primo Emendamento, quello che tra le altre cose sancisce la libertà d’espressione. Inoltre il ruolo di Assange nel Russiagate (fake news o scandalo reale?) non è chiaro. Ha giocato per Trump o ha fatto il doppio gioco in favore di Mosca? Assange è il nodo mai venuto al pettine dell’attuale architettura dei Media globali, declinata tra social e piattaforme cifrate dove il segreto di Stato trema. È lui la tessera del domino che, cadendo o restando congelata, dirà se il sistema dell’informazione di domani sarà quello che conosciamo oggi.

All’Europa diamo più di quanto riceviamo, ma non come dice Renzi, scrive il 09/02/2018 "La Stampa". La Stampa ospita in questo spazio il fact checking realizzato dal Master in Giornalismo Torino e DCPS - UniTo. Il rapporto tra Italia e Unione Europea è un tema che ricorre in programmi e interventi pubblici. Nella serata dell’8 febbraio il segretario Dem Matteo Renzi, ospite della trasmissione Carta Bianca di Bianca Berlinguer su Rai 3 ha detto: «Siamo un Paese contributore e diamo tutte le volte 20 miliardi e ne recuperiamo solo 12». Se per «tutte le volte» si intende «ogni anno», il dato fornito da Renzi è falso. Secondo la relazione della Corte dei Conti del 2017 sui Rapporti Finanziari tra l’Italia e l’Unione Europea, nel 2016 il nostro Paese ha versato all’Unione, a titolo di risorse proprie, 15,7 miliardi di euro (-4,7% rispetto all’anno precedente). E, soprattutto, 4,3 miliardi in meno rispetto a quanto dichiarato da Renzi (21,5% in meno). Errato, seppur di poco, è anche il secondo dato. Renzi parla di 12 miliardi ricevuti all’anno dall’Europa. Leggendo la relazione della Corte dei Conti, però, «nel 2016 l’Unione ha accreditato all’Italia 11,3 miliardi». Questa volta l’errore è meno significativo: all’appello mancano, se si può dire, solamente 700 milioni. Secondo i dati, la differenza tra i versamenti e gli accrediti determina ogni anno un “saldo netto” negativo per i conti del nostro Paese. Questo conferma che l’Italia comunque riceve da Bruxelles meno di quanto versa, anche se non nelle proporzioni indicate dal segretario PD. Nel 2016 la differenza è stata di 4,4 miliardi, valore stabile rispetto a quello registrato nel 2015. In entrambi gli esercizi, l’Italia si è collocata al quinto posto tra i maggiori contributori netti, dopo Germania, Francia, Regno Unito e Paesi Bassi. 

"I fondi? Farsa", "Non è dogma" È scontro tra l'Ue e Di Maio. Il Commissario Oettinger: "Roma versa solo tre miliardi netti a Bruxelles". Il vicepremier insiste: "Veto sul bilancio", scrive Luca Romano, Lunedì 27/08/2018, su "Il Giornale". Il fronte tra Europa e governo resta aperto. Nelle ore calde della vicenda Diciotti, il ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio e il titolare del Viminale, Matteo Salvini hanno minacciato Bruxelles di chiudere i rubinetti e di porre il veto sul bilancio pluriennale che va dal 2021 al 2027. Una posizione quella del governo italiano che ha subito trovato il freno della Farnesina con il ministro Moavero che ha definito un "dovere il pagamento dei fondi Ue da parte dell'Italia". Ma a Di Maio ha anche risposto il Commissario al Bilancio Ue, Guenther Oettinger che ha di fatto smontato le cifre riportate dal vicepremier: "La cifra di 20 miliardi che alcuni esponenti del governo indicano come contributo dell’Italia al bilancio dell’Unione Europea è una farsa", ha tuonato il commissario in un'intervista a Politico.Eu. Poi l'affondo: "Non sono 20 miliardi di euro l’anno. L’Italia contribuisce con 14, 15, 16 miliardi in un anno. Se si tiene in conto ciò che ottiene dal bilancio Ue, il risultato è un contributo netto di 3 miliardi l’anno". La posizione espressa dal "falco" tedesco è stata anche sostenuta dal governo di Berlino che con una nota del portavoce della Merkel ha fatto sapere che "le regole sul Bilancio e sui fondi sono stabilite dai Trattati e questi devono essere rispettati da tutti". E a stretto giro è arrivata la controreplica dello stesso Di Maio che non molla la presa a prosegue nel suo braccio di ferro con Bruxelles: "Secondo l'Europa il veto del governo italiano sul bilancio e sui contributi netti è una farsa. Questo la dice lunga sulla considerazione che hanno del nostro Paese. Evidentemente sono abituati a premier e ministri italiani che vanno a Bruxelles con il cappello in mano. Il commissario Oettinger ammette che sui migranti siamo stati lasciati soli, e poi si accoda sulla scia del 'non si può fare'. La musica in Europa è destinata a cambiare, il finanziamento non è un dogma e non lo sarà nemmeno quando si inizierà a parlare di una vera solidarietà, e non di vincoli insostenibili tanto dal punto di vista sociale quanto da quello economico", ha affermato il vicepremier su Facebook. Infine ha nuovamente minacciato Bruxelles ribadendo il veto al bilancio annunciato nelle scorse ore: "Non è un dogma l'approvazione del quadro finanziario pluriennale dei prossimi sette anni, che vorrebbero far passare in fretta e furia prima delle prossime elezioni europee. Non glielo lasceremo fare, se la situazione sull'immigrazione non cambierà di qui a breve il veto sarà certo". Insomma adesso tra il governo e l'ue è scontro aperto. E il duello è destinato a durare a lungo.

Ecco i Conti che non tornano. Ecco come la UE ci frega i Quattrini. Nicola Porro è da sempre un giornalista attento a quello che accade. Da sempre lotta contro la malapolitica, e i malaffari della cosa pubblica. Laureato in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con un tesi in Tecnica Industriale e Commerciale, è giornalista professionista dal 1997. Ha partecipato a un corso di Business Case Discussion all’Università di Harvard, Cambridge (USA), grazie ad una Borsa di Studio e ad un corso sulla specializzazione finanziaria delle Società di Leasing presso la SDA Bocconi School of Management. Lo ricordiamo alla conduzione di Matrix. Oggi collabora anche con Il Giornale. Da non credere quello che Porro ha scoperto riguardo ai conti dell’UE. Ecco cosa ha detto. “Sul Corriere della Sera è stata pubblicata una tabella per il periodo 2010-2016. L’Italia è stata contributrice all’Europa di 38 miliardi di euro, non 3. Forse il Commissario europeo faceva un calcolo annuale, ma 3 miliardi per 6 anni fa 18, non 38.

Cgia di Mestre: "In 7 anni l'Italia ha pagato 38 miliardi all'Ue". Dal 2006 al 2013, abbiamo versato all'Europa 109,7 miliardi di euro, ricevendo in cambio fondi per 71,8 miliardi. La Cgia di Mestre: "L'Italia è protagonista in Europa". Ma solo a livello economico..., scrive Chiara Sarra, Domenica 12/07/2015, su "Il Giornale". In sette anni abbiamo "perso" quasi 38 miliardi di euro all'Europa. Tra il 2007 e il 2013, infatti, l'Italia ha versato all'Unione Europea 109,7 miliardi di euro, ricevendo in cambio fondi per 71,8 miliardi di euro, con un saldo negativo di 37,9 miliardi di euro. A fare i conti in tasca a Bruxelles è la Cgia di Mestre, secondo cui siamo il quarto paese nella classifica dei "contributori" dopo Germania (83,5 miliardi di euro), Regno Unito (48,8) e Francia (46,5). L'elaborazione dei dati della Commissione europea da parte dell'associazione degli artigiani serve a "fare chiarezza su un aspetto molto importante: individuare quali sono i Paesi che contribuiscono in misura rilevante al sostentamento dell’Ue e, conseguentemente, a rivendicare un ruolo e un peso politico a Bruxelles". Stando a questa classifica, quindi, "l’Italia è tra i protagonisti" dell'Ue. Tra i Paesi, invece, che ricevono più di quanto danno all’Unione la Cgia segnala l’Ungheria (con un saldo positivo di 20,3 miliardi), il Portogallo (21,8), la Grecia (32,2) e la Polonia (57,8).

L'Italia paga più di tutti. Noi diamo i soldi all’Euro­pa, lei a caro prezzo li ammini­stra, e poi ce ne ridà indietro solo una parte, scriveva Nicola Porro, Sabato 10/11/2012, su "Il Giornale". Per tutta la giornata di ieri si è combattuta una delicata batta­glia diplomatica sul bilancio europeo. Si tratta di circa 140 miliardi di euro l’anno che vengono raccattati dai ventisette Paesi membri e resti­tuiti secondo complicate alchi­mie. All’interno della comples­sa trattativa, o se preferite du­rante il mercato delle vacche, è spuntata una proposta choc: bloccare gli aiuti a favore delle zone terremotate dell’Emilia Romagna. La mi­naccia sembra de­stinata a rientra­re. Ma la vicenda è significativa per vari aspetti.

1. Dal 2000 a og­gi l’Italia ha forni­to più risorse al­l’Europa di quan­te ne abbia ottenu­te. Secondo i dati della Commissione in dieci an­ni abbiamo registrato un saldo per noi negativo di 25 miliardi. Per la Ragioneria il valore arri­va a 40 miliardi. E nei prossimi cinque anni daremo alla Ue 25 miliardi in più di quanto incas­seremo. Insomma siamo con­tributori netti del bilancio euro­peo. Siamo oggi ritenuti ricchi e come tali dobbiamo contribu­ire al miglioramento dei Paesi più poveri (in primis Polonia, regina dei contributi). L’impal­catura finanziaria europea è as­surda. Di questa assurdità ab­biamo goduto nel passato, ma con un club ridotto di membri. Oggi ne siamo vittime. E pro­prio nel momento in cui si chie­de una maggiore integrazione continentale, lo spot dell’Emi­lia sembra mal congegnato.

2. La discussione del bilan­cio pluriennale e delle mano­vre annuali, segue sempre un copione sbilenco. Aver gettato sul piatto la ridicola pretesa di non contribuire con il fondo di solidarietà al terremoto emilia­no, avrà conseguenze anche se dovesse rivelarsi un bluff. È una partita a scacchi, o se prefe­rite, a risiko. Io ti do ciò che ti è dovuto, cioè l’Emilia, ma tu non puoi certo pretendere che ti segua nelle richie­ste sulla politica agricola comune. Insomma la bou­tade di ieri in un caso o nell’altro avrà un costo.

3. In Italia ci af­fanniamo a parlare di spen­ding review e tagli. Come è giu­sto che sia. Ma è normale che il 6 per cento del bilancio comu­nitario se ne vada solo per la sua amministrazione? Insom­ma noi diamo i soldi all’Euro­pa, lei a caro prezzo li ammini­stra, e poi ce ne ridà indietro una parte. Che nel caso italia­no è molto inferiore a quanto versato.

Il fallimento politico dell’Eu­ropa è un disastro che gli euro­crati fanno di tutto per alimen­tare. E la minaccia di ieri ri­schia di costarci di più dei sorri­sini complici di Merkel e Sarkozy.

Quanto ci costa l’Europa? Più di 4 miliardi l’anno. Quanto dà e quanto riceve l'Italia dall'Unione europea: siamo in attivo o in passivo con Bruxelles? Quanto ci costa ogni anno l'Europa. Con l'Unione Europea c'è uno scambio reciproco di soldi. A quanto ammonta la differenza tra versamenti ed accrediti? Siamo in attivo o in passivo con Bruxelles? Scrive il 12 luglio 2018 Qui Finanza. Cara Europa. Restare nella Ue ci costa 4 miliardi l’anno. Secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato, complessivamente abbiamo versato all’Europa 230 miliardi e 675 milioni di euro e ne abbiamo incassati 162 miliardi e 330.

CONTI IN ROSSO – E quanto ha ricevuto in cambio da Bruxelles il nostro Paese? Negli ultimi 17 anni l’Italia è sempre stata “in rosso” nei suoi rapporti economici con l’Unione europea. Nel senso che lo stato italiano ha sempre versato alle varie voci del bilancio Ue più soldi di quanti ne abbia ricevuti sotto le più diverse forme. Ad esempio: il nostro Paese ha versato alle casse comunitarie più di quanto abbia ricevuto con i vari fondi europei per lo sviluppo regionale, la ricerca, la competitività e via dicendo. In media, tra il 2014 e il 2016, l’Italia ha speso ogni anno 3,5 miliardi ponendosi come quarto Paese per contributi netti dopo la Germania (13,6 miliardi), Regno Unito (7,6) e Francia (7,4).

I COSTI DELLA UE – L’anno peggiore è stato il 2011 quando lo squilibrio è stato di oltre 7,6 miliardi di euro: quell’anno, in pratica, abbiamo versato il doppio di quanto abbiamo ricevuto. Anche il 2014 è andato male: lo squilibrio è stato di oltre 7,3 miliardi di euro. Il terzo anno peggiore è stato il 2009: 7,2 miliardi di rosso. Nel 2016 abbiamo contribuito con “solo” 4,7 miliardi.

COLPA DEI PAESI DELL’EST – Il motivo di tanta differenza? Nel 2008 sono entrati in Europa i paesi dell’est e agli stati più ricchi (tra cui l’Italia) è stato chiesto di contribuire versando cifre maggiori, per sostenere lo sviluppo dei nuovi arrivati. In pratica si è versato di più e ricevuto di meno, in modo da dirottare i fondi verso i Paesi più poveri, appunto, per fargli raggiungere lo stesso grado di sviluppo dell’Occidente.

PIU’ UE O RISCHIO ARGENTINA – Ed è proprio di questi giorni il monito dei banchieri italiani che lanciano l’allarme Sudamerica per il nostro paese, se i governanti decidessero di allontanarsi dall’Ue. “La scelta strategica deve essere di partecipare maggiormente all’Unione europea impegnando di più l’Italia nelle responsabilità comuni, anche con un portafoglio economico nella prossima Commissione europea”. A ogni costo, dunque.

I FONDI STRUTTURALI – C’è un altro dato, molto interessante, a completare il quadro. Il dato che vede l’Italia fanalino di coda per investimenti di fondi strutturali Ue destinati alle aree più deboli. I fondi comunitari sono strutturati per cicli di sette anni. L’ultimo ciclo è stato avviato nel 2014 e si concluderà quindi nel 2020. Ebbene, a tirata una linea a dicembre 2017, l’Italia aveva speso (solo) il 3% della montagna di soldi che l’Europa ha stanziato per le aree più deboli: 42,67 miliardi.

Per inciso, siamo il secondo Paese dell’Unione destinatario di questi denari (prima di noi solo la Polonia), che può contare su un contributo di circa 105 miliardi di euro.

L'Unione Europea non è la matrigna cattiva e noi non siamo Biancaneve. Quanto ci costa davvero l'Unione europea? E soprattutto cosa c'è di vero nell'affermazione che l'Italia versa 20 miliardi l'anno al bilancio dell'Unione europea? Ecco tutti i numeri che dimostrano un’altra amara verità, scrive Alberto Negri, editorialista e inviato di guerra, il 25 agosto 2018 su Tiscali. L’italiano medio crede ormai fermamente che l’Unione europea sia la matrigna cattiva che gli propina ogni giorno una mela avvelenata. Ma questa è la favola di Biancaneve cui si aggrappano i nostri politici, certo non da oggi, per mascherare i loro fallimenti. Una versione della storia smentita anche dalla Corte dei Conti. Quanto ci costa davvero l'Unione europea? E soprattutto cosa c'è di vero nell'affermazione che l'Italia versa 20 miliardi l'anno al bilancio dell'Unione europea? In realtà l'Unione spende in media circa 12 miliardi l'anno in Italia. Nel 2015, l'Unione europea ha speso da noi 12,3 miliardi e nel 2016 la cifra è stata di 11,6. Ma i versamenti dal ministero del Tesoro italiano al bilancio comunitario sono stati nel 2015 di 14,2 miliardi di euro e nel 2016 di 13,9 miliardi. I dazi doganali incassati per conto dell'Unione europea sono stati pari a 1,7 miliardi nel 2015 e 1,8 miliardi nel 2016. Nel 2016 il saldo netto negativo del nostro paese è stato pari a 2,3 miliardi. La Germania ha avuto un saldo netto negativo nello stesso anno di 12,9 miliardi di euro, la Francia uno di 8,2 miliardi e il Regno Unito di 5.6 miliardi di euro. Il nostro saldo netto negativo non è trascurabile, ma gli altri grandi paesi dell'Unione hanno saldi negativi molto più consistenti del nostro, almeno finora. Nel 2015 la differenza è stata inferiore a 1,9 miliardi di euro, nel 2014 era di 3,7 miliardi scarsi, nel 2013 di 3,2 miliardi, nel 2012 di 4 miliardi e nel 2011 c’era stato il record di 4,75 miliardi. Si può dire che il trend sia stato di una progressiva riduzione del divario tra contributi dati e ricevuti. Il problema è che noi italiani non usiamo bene l’Unione europea. Ma la colpa non è di Bruxelles, è tutta nostra. Come avverte la stessa Corte dei Conti: “la dinamica degli accrediti dipende anche dalla capacità progettuale e gestionale degli operatori nazionali e dall'andamento del ciclo di programmazione, quindi il saldo netto negativo non è di per sé espressione di un “trattamento” deteriore per l'Italia rispetto a quello di Paesi che si suppongono più avvantaggiati”. In poche parole i soldi che arrivano dall’Europa bisogna saperli spendere e l’Italia non brilla particolarmente in questa specialità. Restiamo insomma tra i Paesi ricchi dell’Unione europea che, in base alle regole comunitarie, contribuiscono maggiormente allo sviluppo comune. La differenza tra quanto diamo e riceviamo dipende però anche dalla capacità del Paese di spendere i fondi comunitari che vengono messi a disposizione. L’Italia è seconda nell’Unione per fondi strutturali ricevuti da Bruxelles ma è sestultima su 28 stati membri per utilizzo dei soldi ricevuti. Fa meglio la Polonia di gran lunga il primo beneficiario europeo, mentre l’Italia è sopravanzata anche da Spagna e Romania, rispettivamente terzo e quarto maggiori beneficiari. I dati sono aggiornati alla fine dell’ottobre 2017 dalla Commissione Ue in una relazione sull’uso dei cinque fondi strutturali europei: Fondo agricolo per lo sviluppo rurale, per la Coesione, per lo Sviluppo regionale, per la Pesca e Fondo sociale. Per l’Italia, che nel settennato 2014-2020 può contare su 73,6 miliardi (42,67 provenienti dal bilancio Ue), i fondi impegnati ammontano a 27,1 miliardi di euro, il 37%, ma solo 2,4 di questi _ appena il 3% del totale – sono già stati spesi. Al contrario, la media Ue è di un 44% di fondi già impegnati e un 6% di fondi spesi. Entro il 31 dicembre 2018 regioni e ministeri italiani dovranno spendere 3,6 miliardi di fondi strutturali europei assegnati proprio con la programmazione 2014-2020 attraverso il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr) e il Fondo sociale europeo (Fse). Per chi non ci riuscirà scatterà la tagliola del disimpegno automatico in base alla regola che se entro tre anni dall’impegno di spesa indicato dalla regione o dal ministero non è stata presentata la domanda di pagamento alla Ue, Bruxelles “cancella” automaticamente la relativa quota di finanziamento. Ecco perché l’Unione europea non è lo specchio deformante delle nostre brame, la matrigna non è così cattiva e noi non siamo Biancaneve. Quanto ai sette nani anche i più ingenui capiscono chi sono. E riguardo al principe che risveglia l’Italia non è previsto né dai fratelli Grimm né dalla Disney. 

Magistratura e politica: è tornata la guerra. L’Anm chiede a Bonafede di difendere Patronaggio. Eppure è stato Patronaggio a inquisire Salvini, non il contrario, scrive Piero Sansonetti il 28 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Siamo tornati ai tempi nei quali varie magistrature facevano a gara per incriminare Silvio Berlusconi (e a comunicarlo in anticipo ai giornali). Credo che furono una settantina i sostituti procuratori che gli mandarono un avviso di garanzia, ma il bilancio in termini giudiziari – fu magro: una sola condanna per un’evasione fiscale di una sua azienda, di due o tre milioni di euro su un bilancio miliardario, della quale lui fu considerato responsabile oggettivo, sebbene in quel periodo facesse il presidente del Consiglio, e c’è da supporre che non si occupasse delle dichiarazioni dei redditi di Mediaset. Scarno il bilancio giudiziario ma ricchissimo il bilancio politico: alcuni suoi governi “sgarrettati” e poi il suo allontanamento dal Parlamento. Stavolta un Procuratore ha indagato non proprio il premier ma il leader politico che tutti considerano la vera guida del governo, e cioè Matteo Salvini. E lo ha fatto accusandolo di reati molto altisonanti: sequestro di persona (come l’anonima sarda degli anni settanta), arresto illegale (reato di solito riservato agli agenti di polizia o ai carabinieri) e poi il più classico e diffusissimo abuso d’ufficio. Il risultato di questa operazione? E’ triplice.

Il primo risultato è la quasi certezza che le accuse non supereranno la barriera del tribunale dei ministri se, come tutti ci auguriamo, questo tribunale sarà composto da magistrati saggi e pensanti.

Il secondo risultato sarà l’enorme aumento della popolarità di Salvini e, probabilmente, l’aumento conseguente del sentimento di odio, di una parte non piccola della popolazione, verso i profughi e i migranti.

Il terzo risultato sarà la crescita dell’imbarazzo all’interno del movimento 5Stelle (che già è in gran sofferenza perché una parte del suo elettorato non vede di buon occhio la politica un po’ xenofoba di Salvini), e che ora dovrà anche spiegare perché dopo aver chiesto le dimissioni – per dire della Guidi o di Lupi, o di Alfano (dei tre, solo quest’ultimo era indagato) ora non chiedono anche quelle di Salvini.

In ogni caso da questo momento, comunque vadano le cose, è riaperta, in modo ufficiale, la guerra tra magistratura e politica. E la riapertura delle ostilità è stata certificata dall’Anm (il sindacato dei magistrati che in realtà è il loro massimo organo di rappresentanza politica) il quale ha chiesto al ministro Bonafede di intervenire per frenare gli attacchi di Salvini alla magistratura. Ora a me pare che in questi mesi e in questi giorni Salvini abbia attaccato un sacco di gente, anche con una certa violenza: soprattutto le Ong che fanno soccorso in mare, e i migranti abbandonati, malati e stremati, nelle navi che li hanno soccorsi. E poi la Boldrini, il Pd, Saviano e tanti altri. Ma nel suo rapporto con la magistratura, dobbiamo essere onesti, è lui la vittima di un attacco. Non è che Salvini ha rimosso il dottor Patronaggio o ne ha chiesto la rimozione. No. E’ il dottor Patronaggio che ha inquisito Salvini proponendo accuse contro di lui che – nell’improbabilissima ipotesi che andassero in porto – porterebbero il nostro ministro a un lungo periodo di carcerazione. Sequestro di persona (articolo 605 del codice penale: da 3 a 12 anni se ci sono i minori); arresto illegale (articolo 606 da uno a tre anni); abuso d’ufficio (da 1 a 4 anni). Fate un po’ di conti: da 5 a 19 anni (se non saltano fuori aggravanti…). Ora io dico: uno per il quale vengono proposti 19 anni prigione, avrà o no il diritto, almeno, di protestare? E se protesta è ragionevole che i magistrati chiedano l’intervento di un suo collega ministro che lo zittisca? Si capisce: è tutto un po’ paradossale. Come d’altra parte è paradossale tutta la vicenda della Diciotti. E se Salvini ha fatto un’ottima figura (e i Pm una pessima figura) nella fase finale di questa vicenda, è vero esattamente il contrario per quel che riguarda la fase iniziale.

Riassumiamola. Salvini ha bloccato in porto più di 150 persone, tra le quali parecchi minori e un numero consistente di persone seriamente malate. Le ha bloccate pur sapendo che venivano dall’Eritrea e che avevano certamente diritto all’asilo. Le ha bloccate sebbene fossero vittime di un naufragio. E nonostante le richieste dei medici di farli sbarcare perchè la situazione sanitaria era allarmante. E nonostante gli appelli dell’Onu. E nonostante le pressioni dell’Europa. Perché lo ha fatto? Perché è un uomo spietato? O più probabilmente perchè valuta che in questo modo si aumentano i consensi nell’elettorato? E la necessità di aumentare i consensi può essere la bussola per un uomo di Stato? Non è che se uno fa queste domande è perché ha deciso di fare il tifo contro il governo. Semplicemente le fa perchè ritiene (come il Presidente Mattarella) che il buonsenso non deve avere paura del senso comune. Anzi, deve sfidarlo. E che il senso comune, magari, potrebbe essere più equilibrato se fosse messo a conoscenza di tutti i numeri. Cioè dello stato reale delle cose. Per esempio, se sapesse che i rifugiati in Italia sono 2,4 ogni mille abitanti, mentre in Germania sono 8 ogni mille abitanti, cioè più di tre volte i rifugiati in Italia. In Svezia sono 23 ogni mille abitanti, cioè quasi dieci volte più dei nostri. A Malta, nella tanto vituperata e vigliacca Malta, sono 18 ogni mille abitanti, cioè circa 7 volte più dei nostri. Tra i paesi Europei (se escludiamo la Gran Bretagna, che ormai è fuori) solo la Grecia prende meno rifugiati di noi. Redistribuiamo, giusto, imponiamo all’Europa di farlo. Tenendo però conto che al momento noi siamo quelli che ne hanno di meno. E’ vero che poi ci sono gli irregolari (i cosiddetti clandestini) che secondo le stime dell’Ocse sono circa mezzo milione in Italia, e cioè lievemente al di sopra della media europea (di un paio di decimali: 0,80 per cento contro una media dello 0,65), ma nessuno al mondo, come è ovvio, può chiedere la redistribuzione degli irregolari, che è ovviamente impossibile. Per ridurne il numero ci sono solo due strade: o facilitare la regolarizzazione, cioè concedere più permessi (linea tedesca) o aumentare le espulsioni (linea ungherese). Ciascuno è libero di optare per una o l’altra di queste soluzioni, senza essere accusato di lassismo o di perfidia. Quello che non è bello è nascondere le cifre, impedire che si conoscano le cose come stanno. E se poi qualcuno avesse voglia di fare un paragone con la feroce America di Trump, scoprirebbe che lì gli irregolari sono circa 12 milioni, cioè (sempre in proporzione sulla popolazione) circa cinque volte più che da noi. Da noi c’è circa un irregolare ogni 120 persone, da loro uno ogni 25. Cioè, in percentuale, da noi lo 0,8 per cento, da loro il 4 per cento. Pensate un po’…

Il nemico di Riondino, scrive Mercoledì 29 agosto 2018 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". Dopo cantanti, scrittori e putipù, anche l’attore Michele Riondino ha deciso di annunciare al mondo che Salvini gli sta sulle scatole. In qualità di maestro di cerimonie della Mostra del Cinema di Venezia, Riondino ha affermato di non volere il ministro tra le calli. Se venisse, eviterebbe di incontrarlo, non sentendosi rappresentato da lui. Oddio, adesso quell’altro gli manderà la consueta raffica di bacioni. Per il teorico dei respingimenti non esiste delizia maggiore che sapersi respinto. L’odio ha il potere di rilassarlo: ogni sera prende due tweet di Saviano prima di andare a dormire. Anche nella sua ultima versione riondina (Cinquestelle tendenza Fico), la sinistra conserva il bisogno di definirsi attraverso il rifiuto dell’avversario e la sua trasformazione in nemico. Fu così con Craxi, con Berlusconi (chi scrive diede il suo modesto contributo alla causa) e ora con Salvini, l’ennesimo Male Assoluto. Il guaio di questa astutissima politica è che a sentirsi disprezzato non è mai il bersaglio del disprezzo. Sono gli elettori. Non Salvini, che se ne infischia, ma i sommersi e i salvinizzati, trattati alla stregua di razzistelli che si lasciano spaventare da quattro migranti. Per convincerli ad avere più coraggio, forse basterebbe smettere di irridere le loro paure. Quanto a Riondino, è un vero peccato che non abbia ancora invitato Salvini a Venezia. Il respingitore, non sentendosi più respinto, sarebbe costretto a mostrarsi un po’ meno respingente.

Vittorio Feltri il 13 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano": sono a un passo dal diventare un razzista. Adesso basta. È arrivato il momento di uscire dalla ipocrisia e di dire le cose che pensiamo davvero. Dei migranti non ce ne importa un fico secco. Vadano dove vogliono, ma la smettano di puntare all'Italia quale meta. Non ce ne frega nulla delle Ong (Organizzazioni non governative) né, tantomeno, dei loro scopi umanitari. Non crediamo alle fanfaluche dei piagnoni che sostengono la necessità di salvare in mare i migranti. I quali - è nostra convinzione - non scappano da zone di guerra e neppure di miseria, ma emigrano pagando prezzi salati agli scafisti per giungere qui e farsi mantenere da un Paese che si è costruito volontariamente la fama di grande sacrestia disposta a ricevere chiunque. Chi salpa dalla Libia con l'intenzione di attraccare a Lampedusa, o posti del genere dove ci siano dei pirla pronti a spalancare le porte, non è un disperato ma un opportunista con la faccia di bronzo che intende sfruttare la greppia onde mangiare gratis. Se è vero che il cinismo è una succursale dell'intelligenza dobbiamo cessare di farci impietosire da gente che farebbe meglio a rimanere a casa propria, il luogo migliore per maturare lavorando, e rifiutarci di soccorrere gli accattoni destinati a pesare sulle nostre spalle. In altri termini, sempre più crudi, ne abbiamo piena l'anima di recitare nel ruolo dei buoni samaritani al servizio di madame Boldrini e soci piagnucoloni: pretendiamo che nessuno ci infligga l'obbligo di pagare il conto salato dell'immigrazione. Coloro che si avventurano nel Mediterraneo per approdare nel Bengodi della Penisola si arrangino, rinunciamo a ripescare uomini e donne che poi ci restano in gobba per anni. Ci siamo impoveriti a causa della crisi economica provocata da banche ladre e dalla moneta unica nonché da una Ue deficiente, e non abbiamo i mezzi per nutrire orde di neri ignoranti e desiderosi di vivere a sbafo, quindi blocchiamo gli sbarchi senza fare tante storie, a costo di irritare il Papa, i parroci, i curati e i progressisti che amano i popoli stranieri, magari islamici, e detestano il nostro. Siamo stanchi di subire l'umanitarismo straccione di quelli che poi sfruttano gli extracomunitari per arricchirsi creando un nuovo schiavismo. Finiamola di prenderci in giro e di frignare su quelli che lasciano la loro terra e sanno già che, a poche miglia dalla costa africana, saranno issati su navi le quali li condurranno qui, gratis, e verranno affidati alla pubblica beneficenza, ovviamente finanziata da noi contribuenti straziati dal fisco. Siamo oltre i limiti della sopportazione. Tra un po' ci abbandoneremo alla protesta e poi alla ribellione. Diventeremo razzisti, altro che omofobi. I partiti predicatori dell'accoglienza non prenderanno più un voto ma molti calci nel deretano. Sarà una festa. Vittorio Feltri

Ecco come andrà a finire, scrive Marcello Mantovani su Il Tempo il 28 agosto 2018. Lo so come andrà a finire. Lo so perché conosco la storia, conosco la gente, conosco i potentati, conosco gli immigrati. Li conosco come li conoscete voi, per esperienza, precedenti, realismo e uso di mondo. Fino a ieri la scena era la seguente: non ho sentito un italiano che non fosse d’accordo con Salvini, che non giudicasse assurdo incriminare un ministro dell’interno che fa il suo dovere, oltre che il suo mandato elettorale, di salvaguardare i confini della nazione, come è previsto dalla Costituzione, e tutelare gli italiani, respingere gli arrivi clandestini e ribadire che i migranti non sbarcano in Italia ma in Europa. È assurdo che dobbiamo ricordarci dell’Europa quando si tratta di pagare i debiti o di non sfondare i bilanci. E invece dobbiamo scordarci dell’Europa quando arrivano i migranti perché allora, d’un tratto, diventiamo nazione e ce la dobbiamo sbattere noi. La nostra sovranità consiste nell’obbligo di accoglierli, anche se tutti gli altri non li vogliono. Fino a ieri non c’era una persona con cui ho parlato che in un modo o nell’altro non fosse di questa idea. Viceversa non ho sentito un tg, un programma, un commentatore, un uomo di potere o un giornale che non fosse schierato contro l’Italia, contro gli italiani, contro Salvini e dalla parte dell’Europa che se ne frega dei migranti, dalla parte dei giudici che incriminano i ministri nel nome della legge, dalla parte dei migranti che sbarcano illegalmente. Una partita secca, il popolo compatto da una parte, il potere compatto dall’altra. In compagnia di Salvini quasi nessuno, la Lega c’è ma non si vede, c’è solo lui, c’è la Meloni e poi giù il deserto. I grillini, quando non sono appesi al Fico, e dunque pendono a sinistra, fanno i furbetti come di Maio che pur di galleggiare e di restare dove sta, e giocare a fare il superministro, è pronto a rimangiarsi tutto e a scaricare l’Alleato su cui sono puntati i cannoni mediatico-giudiziari del Palazzo, dai catto-bergogliosi alla sinistra sparsa. Come volete che finisca una partita così, pensate che gli italiani tramite Salvini possano ottenere qualcosa se tutto l’Establishment è compatto ai piedi dell’Europa e in favore degli sbarchi, senza curarsi delle conseguenze, ma solo calcolando i profitti politici che ne deriveranno a loro? Salvini verrà virtualmente imprigionato, fino a che sarà neutralizzato. Non andrà in galera ma sarà emarginato, chimicamente castrato. Ed è curioso pensare che tutti coloro che hanno battuto la sinistra sono sempre stati – di riffa o di raffa – considerati criminali: Berlusconi, Salvini, la destra, perfino Cossiga quando si oppose all’establishment, Leone quando si oppose al compromesso storico e Craxi quando cercò di far valere il primato della politica e dell’Italia e si oppose al catto-comunismo. Ma è possibile che qualunque avversario della sinistra che abbia vinto in Italia col consenso popolare debba essere per definizione un delinquente, per affari e malaffari, eversione e violazione della Costituzione, per fascismo, razzismo o altre fobie ormai a voi note? Cambiano gli attori ma la partita è sempre tra sinistra e delinquenti, tra potentati e malavita. L’avversario della sinistra è tollerato solo se è perdente, se è remissivo, se non dà fastidio, fa tappezzeria e magari si piega a loro. Eppure non ho mai visto tanta eversione, tanto disprezzo degli italiani, tanta prevaricazione, abuso e mafia travestita da legge e da democrazia, d’Europa e di Modernità quanto quella di chi detiene il vero potere in Italia. Quando vincono gli outsider, il governo è una cosa, il potere è un’altra, non coincidono. Al governo magari ci mettono le guardie del sistema, i Moavero e i Tria. Ma per il resto sono circondati, il potere è una cupola che tiene in scacco chi governa e in spregio il popolo che li sostiene. Ma so anche per esperienza come finiranno quelle povere vittime appena sbarcate. La diocesi darà loro un tozzo di pane per un po’ ma saranno poi a larga maggioranza, a carico dello Stato italiano, a partire dalla sanità. Qualcuno diventerà spacciatore o verrà ingaggiato dalla criminalità locale, qualcuno commetterà violenze sessuali e abusi come se ne sente ogni giorno essendo tutti maschi, giovani, sfaccendati e con gli ormoni a mille, qualcuno delinquerà e ruberà per conto suo, qualcuno – più onesto o più sprovveduto – andrà a lavorare in campagna e la sinistra potrà dunque speculare anche sul loro sfruttamento come schiavi dei caporali (che notoriamente li ha istituiti Salvini, prima non esistevano, ai tempi di Renzi e Gentiloni e Prodi erano solo un brutto ricordo del passato). Qualcuno di loro odierà il Paese che li ha accolti, sfamati e vestiti e si darà alla violenza eversiva, talvolta inneggiando sul web, talvolta partecipando attivamente alla guerra contro di noi, fino al terrorismo dei fanatici islamici. E qualcuno, vivaddio, si inserirà nella nostra società e si integrerà. Su 170, forse diciotto, come la nave che li ha portati da noi. Uno su dieci. Per questo so come andrà a finire. Il consenso a Salvini prima o poi si sgonfierà, quando vedranno che non potrà dare i frutti sperati, che il loro Tribuno sarà isolato, le sue decisioni saranno sistematicamente smantellate dai Palazzi. Allora gli italiani si adatteranno, come sempre hanno fatto, abbozzeranno perché non vogliono mica imbarcarsi in una guerra civile. Si rifugeranno nelle tv e negli smartphone. E quello stanno aspettando gli sciacalli e le iene variamente disseminati nei media, nei tribunali, nei palazzi di potere. D’altra parte, è vero, non si può pensare di governare senza creare una classe dirigente, senza dotarsi di una strategia, ma soltanto a pelle, a orecchio, a botte di tweet, video e like. E così resterà quel divario assoluto tra la gente e il potere, ognuno troverà l’alibi per farsi i fatti suoi. E l’Italia sarà bell’e fottuta.

Ricordiamoci i campioni al governo in questi anni, scrive il 19 Maggio 2018 Franco Bechis su Libero Quotidiano. Oh, sì. L’alleanza fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini non è naturale: si sono scontrati in tutta la campagna elettorale. I due non sono espertissimi di governo? Vero. Unire i loro programmi è utopia? Possibile. Però ricordiamoci gli ultimi venti anni, tutti i campioni che sono sfilati a palazzo Chigi e dintorni, il fallimento di ogni programma presentato, l’Italia che di anno in anno è andata indietrom, fino all’ultimo posto nella Ue raggiunto nelle ultime settimane. E chiediamoci: c’è davvero il rischio di fare peggio? E’ matematicamente impossibile…Qualcuno si ricorda dell’espertissimo Mario Monti e della sua superministra, la tecnica Elsa Fornero, quella che ha fatto più errori tecnici con la sua riforma delle pensioni (gli esodati) di qualsiasi studentello alle prime armi? Davvero si può pensare di fare peggio di loro? O di Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni, che durarono solo otto mesi passando alla storia per un paio di provvedimenti pensati solo per le banche e che per altro si sono rivelati inutili, visto che subito dopo sono scoppiate le crisi di Mps, delle popolari e delle venete? Che dire poi delle ricette miracolose di Matteo Renzi, del suo ministro Pier Carlo Padoan e della esperta di banche Maria Elena Boschi? Hanno preso in mano un’Italia sicuramente già scassata dai predecessori, e dal 23° posto sono riusciti a consegnarla a questa legislatura al 28° e ultimo posto europeo in qualsiasi classifica macroeconimica. E senza avere risolto uno solo dei problemi che hanno messo in crisi la maggiore parte delle famiglie italiane. In compenso i loro insuccessi garantiscono una sicurezza: oltre l’ultimo posto non c’è più caduta possibile. Nemmeno per Salvini e Di Maio. E andando indietro con l’orologio della storia? Si va ai due protagonisti della prima parte del ventennio della seconda Repubblica: Romano Prodi, l’uomo dalle cento tasse con i suoi vari Vincenzo Visco, dracula del fisco. O a Silvio Berlusconi con i suoi Giulio Tremonti e Gianfranco Fini (c’è stato un tempo in cui erano culo e camicia). Anche a quell’epoca le promesse erano elettrizanti, e i timori sui conti pubblici altissimi. Qualcuno ha mai visto la flat tax che anche Berlusconi promise nel 2001 con la sua rivoluzione fiscale? Non la portò a casa, e come tutti i premier di questi anni non riuscì a fermare l’inesorabile declino dell’Italia. Poi fu ucciso dallo spread e mandato via da palazzo Chigi da un complotto europeo. Sorprende oggi vederlo dagli assassini dell’epoca a ventilare -lui, proprio lui- lo spauracchio dello spread contro il nuovo governo gialloblù. E allora? Allora il peggio l’abbiamo già passato. E ogni volta che l’abbiamo fatto notare in questi anni invocavamo svolte in gran parte contenute in quel contratto di governo firmato da Lega e M5s. Non è detto siano in grado di realizzarle, è vero. Potrebbero fallire anche loro come tutti i predecessori. Vero come per chiunque: nessuno nasce superman, e anche con tutta la buona volontà di cambiamento gli ostacoli da superare potrebbero rivelarsi invalicabili. Ma in questi 20 e più anni ricordo che solo nei confronti di Berlusconi e solo da un a parte del sistema dei media c’è stato totale scetticismo fin dalla vigilia. Non un dubbio sulle capacità taumaturgiche di Prodi, non un aggrottare di ciglio su Monti, l’uomo che faceva sembrare meraviglioso pure il loden indossato. Entusiasmo per la mediocrità di Letta, tripudio per l’arrivo al potere di Renzi, che avrebbe rivoluzionato l’Italia come un calzino. Mai un fronte scettico a 360 gradi come per Salvini e Di Maio, mai un esercito mondiale di Cassandre come in questo caso. Un atteggiamento che fa ben sperare: la strana coppia parte bene, non incensata a prescindere come tutti gli altri. Può anche combinare qualcosa di buono, questa volta…

Agosto 2011 l’anno in cui gli italiani scoprirono lo spread. La crisi dei debiti sovrani del 2011 fu a tutti gli effetti la seconda ricaduta, più grave e più duratura della prima, scrive Paolo Delgado il 16 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Esattamente sette anni fa, in agosto, gli italiani iniziarono a conoscere e ad adoperare comunemente un termine tecnico che sino a quel momento era rimasto confinato nel perimetro ristretto dei tecnici: “Spread”. Trattasi del differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato tedeschi e quelli dei vari Paesi dell’Unione. Ma nell’opinione diffusa quei numeretti equivalgono da quell’estate in poi a un termometro: indicano quanto alta sia la febbre e quanto metta a rischio la vita stessa del paziente, nel caso i conti pubblici italiani. In quell’agosto 2011 la crisi mordeva già da quattro anni e si era rivelata gravissima, la peggiore dalla Grande Depressione in poi già da tre: da quando cioè il fallimento della Lehman Brothers aveva trascinato prima gli Usa e poi l’Europa in quella che passerà alla storia come Grande Recessione. Ma in quell’estate che pareva dover essere segnata solo dalle all’epoca abituali polemiche sulle abitudini sessuali del dottor Berlusconi e sull’età delle sue amanti, la crisi già arretrava nel Paese- culla, gli Usa. L’incubo lì aveva un nome preciso: double dip, la ricaduta. Non successe su quella sponda dell’Atlantico. Capitò invece in questa. La crisi dei debiti sovrani del 2011 fu a tutti gli effetti il secondo dip, la ricaduta, più grave e più duratura della prima botta. In seguito alla crisi del 2008 i debiti degli Stati si erano impennati e la fiducia degli investitori nella possibilità di rifonderli da parte degli Stati dall’economia più fragile era andata a picco. Le risposte alla crisi della Bce, per molti versi opposte a quelle della Fed americane, centrate cioè sul rigore invece che su massicci investimenti, avevano avuto in effetti risultati opposti: in America la crisi arretrava, in Europa mordeva più a fondo e incideva fino alla carne viva sui debiti pubblici. In Italia la situazione era meno disastrosa di quanto il comportamento “dei mercati” farebbe credere. Il disavanzo era pari al 4,6% del Pil, appena un po’ peggio che in Germania, meglio della Francia e del Regno Unito. L’avanzo primario metteva al riparo dal pericolo di dover contrarre nuovi debiti per pagare gli interessi di quelli già esistenti, all’epoca il 130% del Pil. D’altra parte le tensioni nel governo e la credibilità in picchiata di Berlusconi rappresentavano fianchi esposti. Le resistenze del governo alle richieste rigoriste europee, nonostante fossero finite con una resa segnata dalle misure economiche adottate in luglio, aumentava il pericolo. La manovra economica fu bocciata di fatto dalle agenzie di rating già il primo luglio. Il differenziale, che in gennaio era di 173 punti e che da quel momento aveva preso ad aumentare, passò al galoppo. Il 7 luglio toccava i 226 punti. All’inizio di agosto e nonostante le misure accolte da Berlusconi superava la soglia critica dei 300 punti: quel che rischia di accadere ora. Da quella soglia in poi, effettivamente, la speculazione trova effettivamente praterie di fronte a sé. Nessuna misura fu però adottata dalla Bce guidata dal presidente uscente Trichet per impedire la messa a sacco e la stessa autonomia dei mercati è in realtà sospetta. Di fatto in quell’estate lo Spread giocò lo stesso ruolo delle cannoniere ottocentesche, adoperate per prendere di mira un governo che non appariva agli occhi dell’Europa e dei mercati sufficientemente affidabile quanto a rigorismo e credibilità internazionale. Il 5 agosto Trichet e il suo successore designato, Mario Draghi, inviarono ai governanti italiani una lettera- memorandum segreta nella quale imponevano misure severe, di fatto commissariando la politica italiana. Lo stesso giorno, in conferenza stampa, Berlusconi e il ministro dell’Economia Tremonti annunciarono nuove misure rigoriste. Dell’esistenza della lettera si ebbe notizia, sia pur non ufficiale, subito. Il testo, secretato, fu pubblicato dal Corriere della Sera solo il 29 settembre. L’assedio proseguì nonostante il nuovo giro di vite rigorista. In settembre Standard & Poor’s declassò il debito italiano, avviando un nuovo arrembaggio con ulteriore accelerazione dello spread. Di sfuggita, è quel che rischia di ripetersi nel settembre 2008. La possibilità di un downgrade da parte delle agenzie di rating è elevata. Nella situazione data sarebbe un colpo forse fatale. In ottobre le pressioni su Berlusconi diventarono invincibili, accompagnate da uno spread ormai a 500 punti. Ufficialmente la richiesta era immediato varo di tutte le misure richieste dalla lettera memorandum. Di fatto l’obiettivo erano le dimissioni del governo, sostituito da una figura di assoluta fiducia per la Ue. Il nuovo premier era già stato scelto, Mario Monti. Accettò di sbrigare la faccenda, ha dichiarato pochi mesi fa, perché la sola alternativa era il commissariamento. Le risatine di Angela Merkel e Francois Sarkozy quando il 23 ottobre, in conferenza stampa, fu loro chiesto se ritenevano Berlusconi adeguato a varare le misure draconiane necessarie, fu la campana a morto per il Cavaliere. Le cose cambiano. Oggi proprio Berlusconi è il più convinto assertore della necessità di evitare strappi con la Ue e oggi, di nuovo, la minaccia dello spread rischia di condizionare in ogni suo passaggio la politica di un governo italiano, e forse la sua stessa sopravvivenza.

A COME MAFIA DELL’ABUSO SUI PIU’ DEBOLI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “ABUSOPOLITANIA” E “UGUAGLIANZIOPOLI”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

LA MAFIA DEGLI ASSISTENTI SOCIALI.

«Cambiate avvocato o vi leviamo il bambino. Tanto il giudice è con noi», scrive Simona Musco il 13 gennaio 2018 su "Il Dubbio".  La minaccia degli assistenti sociali a una famiglia di Bari. E il caso finisce in procura. «Cambiate avvocato o il giudice potrebbe portarvi via vostro figlio». È una minaccia in piena regola quella denunciata dal legale Francesco Miraglia e pronunciata da un educatore dei servizi sociali di un paese in provincia di Bari a una madre, colpevole di essersi affidata, assieme al marito, a un avvocato eccessivamente puntiglioso, sgradito per aver messo in discussione il lavoro degli operatori. Una storia quasi incredibile se non fosse che quelle frasi, pronunciate sull’uscio di casa, sono state ripetute anche via sms e registrate su un nastro, per poi finire in un esposto consegnato dall’avvocato al giudice che segue il caso del piccolo. A provocare le ire dell’educatore il comportamento di Miraglia, che, spiega al Dubbio, ha “osato” correggere una relazione depositata in udienza e contenente un particolare non veritiero. Un documento, secondo il legale, potenzialmente dannoso, potendo influenzare negativamente il giudizio del Tribunale e, quindi, compromettere il rientro del bambino in famiglia. «Si tratta di una madre che ha avuto qualche problema di salute mentale a seguito di un grave lutto – spiega Miraglia -. I servizi sociali sono intervenuti dopo la nascita del bambino a causa di alcuni problemi di coppia. Nulla di particolarmente grave: non si tratta di una storia di violenza o di droga ma di un rapporto conflittuale che secondo i servizi comprometteva la serenità del bambino». La donna è stata per un periodo, assieme al figlio, in comunità, un’esperienza che, però, ha vissuto con fatica. Il bambino invece è rimasto nella struttura protetta sotto la tutela dei servizi sociali, mantenendo però un legame molto forte con la madre. Un rapporto che si è deciso di salvaguardare, data anche la collaborazione da parte della donna, seguita regolarmente da uno psichiatra. «I problemi sono sorti leggendo le relazioni dei servizi sociali, che abbiamo sempre contestato perché gonfiate, dipingendo una situazione più grave di quella reale – racconta il legale -. Dopo un periodo di prova, durante il quale il bambino veniva riaccompagnato periodicamente a casa, senza però concretizzare mai il rientro, a ottobre scorso c’è stata un’udienza davanti al giudice che segue il caso della famiglia, al quale gli operatori dei servizi sociali hanno detto di non fidarsi ancora della coppia. Non capiamo bene per quale motivo: il rapporto tra madre e figlio è molto forte e se proprio si vuole prevenire qualche tipo di problema allora si potrebbe affiancare un educatore alla famiglia». Durante l’udienza il legale ha contestato un particolare contenuto nella relazione presentata dai servizi sociali, secondo i quali i genitori non sarebbero in grado di pendersi cura del piccolo, data anche l’assenza di una balaustra a protezione del terrazzo di casa. Un dettaglio assolutamente non veritiero, sottolinea l’avvocato, come dimostrato documentalmente dalla stessa coppia. «Questa inesattezza potrebbe indurre il giudice a credere che effettivamente questi genitori non siano idonei ad occuparsi del figlio – spiega -. Abbiamo prodotto le foto del balcone, pretendendo una rettifica della relazione». Rettifica che, in effetti, è poi arrivata, ma che sarebbe ininfluente, secondo chi ha stilato quella relazione. «Per i servizi sociali evidenzia Miraglia -, tale inesattezza non avrebbe alterato il contenuto dell’atto. Per noi, invece è gravissimo, perché insinua il dubbio che la casa possa non essere sicura e che l’atteggiamento dei genitori non sia idoneo». La rettifica non è però bastata a Miraglia, che ha chiesto al Tribunale di non tenere conto della relazione, riservandosi ulteriori azioni a tutela della famiglia e mettendo in dubbio tutti gli atti precedentemente redatti dai servizi sociali, ai quali ha chiesto di non occuparsi più del caso. Giovedì, però, sarebbero arrivate le «minacce»: nel momento in cui l’educatore ha riaccompagnato a casa il bambino avrebbe “consigliato” ai genitori di cambiare avvocato. «Noi siamo un servizio pubblico e guai a chi si mette contro di noi. Così state facendo in modo che io decida di lasciare che il bambino resti in comunità, perché il giudice fa quello che diciamo noi», avrebbe detto l’operatore alla madre, secondo quanto riportato nell’esposto. «Le ha detto che non conveniva affidarsi a me, che qualsiasi azione legale avrebbero dovuto pagarla loro e che comunque il giudice avrebbe dato ascolto ai servizi sociali. Così ha consigliato loro di prendere un avvocato del posto che potesse provvedere a denunciarmi», racconta Miraglia. Parole confermate dagli sms scambiati successivamente tra la donna e l’educatore e ribadite il giorno successivo faccia a faccia. Un dialogo che la donna ha registrato. Miraglia ha così chiesto al giudice di convocare i servizi e mandare gli atti alla Procura per valutare il comportamento degli educatori. «Perché oltre a costituire una vera e propria minaccia, quelle parole lascerebbero intendere che giudici, avvocati e assistenti sociali operino di comune accordo, in una sorta di “collusione” non sempre a favore del benessere dei bambini allontanati da casa, si potrebbe pure pensare. Sarebbe lo scandalo del secolo – conclude -. Sarebbe gravissimo che la vita di un bambino e di un’intera famiglia possa essere decisa attraverso un “ricatto” di un educatore e non dall’autorità giudiziaria competente».

L'ultimo schiaffo al diritto: il no ai servizi sociali. Il beneficio è a discrezione dei giudici: decisivi la relazione degli assistenti sociali e il "ravvedimento", scrive Luca Fazzo, Mercoledì 9/10/2013, su "Il Giornale". Quanto è disposto ad ammettere, ad abiurare, a concedere, pur di evitare di finire agli arresti? Questa è la vera domanda che attende Silvio Berlusconi nei prossimi mesi, quando verrà avviato l'esame della sua domanda di affidamento ai servizi sociali. Perché, a differenza di quello che in genere si pensa, l'accoglimento dell'istanza del Cavaliere (peraltro non ancora depositata: ma dovrebbe essere questione di giorni) non è affatto scontato. L'affidamento ai servizi sociali può essere rifiutato se il condannato non dimostra di poter essere recuperato alla società, e di voler risarcire il danno compiuto violando la legge. Il problema è che Berlusconi ritiene di non avere alcun bisogno di essere rieducato, perché sostiene di non avere commesso alcun reato. E il suo dialogo con gli assistenti sociali, che i giudici invieranno a parlare con lui, rischia di diventare un surreale dialogo tra sordi. Cosa scriveranno gli assistenti sociali nella loro relazione ai giudici, se Berlusconi ripeterà anche a loro quello che ha detto in lungo e in largo in questi anni parlando del processo per i diritti tv, e cioè di non avere mai gonfiato i prezzi dei film, di non essere socio occulto di Frank Agrama, di avere sempre pagato centinaia di milioni di tasse, eccetera eccetera? La legge sull'ordinamento penitenziario non prevede che per ottenere l'affidamento sia necessario confessare. Ma per capire cosa si aspettino gli assistenti sociali da Berlusconi è sufficiente leggere quanto ieri sera ha dichiarato a Ballarò il capo dell'Ufficio esecuzione penale esterna - ovvero Uepe - di Roma, che si occupa di vagliare le richieste di affidamento presentate nella capitale. In realtà a esaminare la pratica Berlusconi sarà l'Uepe di Milano, la città dove la domanda verrà presentata, ma la linea è unica: «Il soggetto - ha spiegato Antonella Di Spena - deve in qualche modo far prevedere che c'è una voglia di reinserirsi nel migliore dei modi nella società», e per questo andrà valutato anche «l'atteggiamento nei confronti del reato», «l'attività riparativa, la volontà di riparare a quest'azione». Se non è una richiesta di confessione poco ci manca. Come farà il Cavaliere, che si proclama vittima di un eclatante caso di malagiustizia, a dimostrare la sua volontà «riparativa»? Se gli assistenti sociali dovessero dare parere negativo, il tribunale di Sorveglianza avrebbe gioco facile nel respingere la richiesta. A quel punto Berlusconi dovrebbe scontare l'anno di carcere che gli è stato inflitto per frode fiscale agli arresti domiciliari, in una situazione ben più scomoda - chiuso in casa, potendo incontrare solo un numero limitato di persone, e magari con vincoli anche sulle telefonate - che in affidamento. È uno scenario che potrebbe materializzarsi anche a distanza ravvicinata. Mentre di solito il tribunale di Sorveglianza di Milano impiega oltre un anno per esaminare le richieste di affidamento in prova, per l'ex presidente del Consiglio è già pronta una specie di corsia preferenziale, con i tempi dimezzati rispetto ai comuni mortali: pratica gestita direttamente dal capo dell'ufficio, Pasquale Nobile de Santis, e decisione entro maggio.

PARLIAMO DEI RAPIMENTI DI STATO. RAPITI DALLA GIUSTIZIA.

I bambini “rapiti” alla famiglia da giudici e psicologi.

Dossier di “Panorama”

Barbara e Patrizia si sono ritrovate il 2 ottobre del 2009, in una mattinata di pioggia. Barbara, 54 anni, vive in Toscana: ha mento affilato e parole decise. Patrizia, 35 anni, ha la stessa forma del viso e uguale risolutezza. Madre e figlia non immaginavano di assomigliare tanto l’una all’altra. Non si vedevano dal 1976: dal giorno in cui Patrizia venne tolta a Barbara per essere chiusa in un istituto e poi data in adozione. Si sono riabbracciate dopo 33 anni. Per scoprire di essere unite da quel mento affilato e da un’unica sorte. Perché anche a Patrizia hanno portato via un figlio: Davide, di sette anni. “Gliel’hanno sottratto ingiustamente, come successe a me” dice Barbara.

Nel soggiorno di una villa spersa nella campagna veneta, guarda la sua figlia naturale con un misto di rabbia e di dolcezza: “Questa volta, almeno, combatteremo insieme” le promette. Legate dallo stesso destino. Il destino che, dicono gli ultimi dati ufficiali, oggi travolge più di 32 mila minorenni. Il più delle volte allontanati dalle famiglie per motivi giustificati, come gli abusi sessuali, i maltrattamenti o l’indigenza.

Altre per ragioni fumose e impalpabili. Negli ultimi dieci anni il loro numero è aumentato del 29,3 per cento. Più della metà finisce in affidamento temporaneo ad altre famiglie. Il resto in quelli che prima erano chiamati istituti, ma dal 2001 sono stati più formalmente ribattezzati servizi residenziali: oltre un migliaio di comunità che ospitano 15.624 ragazzini.

Un numero enorme, che costa allo Stato mezzo miliardo di euro all’anno solo in rette giornaliere. Ma la cifra, calcolano vari esperti di giustizia minorile, andrebbe più che raddoppiata. Oggi, però, è tutto il sistema a essere sistematicamente messo in discussione. Battagliere associazioni e libri-verità parlano di “bambini rubati dalla giustizia”. Raccontano di assistenti sociali troppo interventisti, di psicologi disattenti, di una magistratura flemmatica, di interessi economici. E di errori giudiziari sempre più frequenti. Come quello in cui sono incappati due fratellini di Basiglio, ricco paesino alle porte di Milano. Il più grande ha 14 anni, la sorella dieci. Il 14 marzo 2008 la polizia locale li preleva da casa e li porta in due comunità protette.

A scuola, una maestra ha trovato un disegno che li descrive mentre fanno sesso insieme. Viene attribuito alla bambina. È invece l’atroce scherzo di una compagna di classe. È stata lei a fare quell’allusiva vignetta: lo conferma il perito grafico del tribunale, che però viene nominato solo dopo 41 giorni. Anche a causa di questo inspiegabile ritardo i ragazzini trascorrono più di due mesi in comunità. Mesi di angosce: il più grande, per la sofferenza, perde 9 chili L’avvocato che si è battuto per fare affiorare la verità è un sardo con baffoni e occhi neri: Antonello Martinez. Vive anche lui a Basiglio, in una casa poco distante da quella dei fratellini. Per due mesi il legale si danna l’anima: fino a quando i bambini non tornano dai genitori con molte scuse.

E fino a ottobre, quando la procura di Milano non chiede il rinvio a giudizio per la preside della scuola, due maestre, uno psicologo e un’assistente sociale del comune. L’accusa è “falsa testimonianza “. L’udienza preliminare è fissata per il 21 gennaio.

Un disegno malinterpretato, esattamente come quello che nel 1995 avvia la macchina giudiziaria nel caso di Angela L.: la sua storia è raccontata nel libro, pubblicato dalla Rizzoli, Rapita dalla giustizia. Il padre di Angela viene accusato di abusi sessuali: un falso da cui la Cassazione lo scagionerà completamente nel 2001. Ma la figlia, di appena sei anni, prima viene reclusa in due centri d’affido temporaneo per quasi 36 mesi; poi è data in adozione a un’altra famiglia. Angela tornerà dai genitori solo nel maggio 2006: a quasi 18 anni, ben dieci dopo il suo “rapimento legalizzato “. Uno sbaglio tragico e clamoroso.

Tanto che la Corte europea per i diritti dell’uomo nell’ottobre 2008 ha condannato lo Stato italiano a risarcire la famiglia: 80 mila euro per un “buco esistenziale” durato un decennio.

Della denuncia di casi come quelli di Angela L. e di Basiglio l’avvocato Martinez ha fatto una battaglia. Da quando si è occupato dei due fratellini, ha ricevuto più di 700 segnalazioni: madri e padri disperati, disposti a tutto pur di riavere indietro i loro figli. È diventato presidente dell’associazione Cresco a casa: “Tutti” accusa “denunciano lo stesso scandalo. I nostri figli sono nelle mani degli assistenti sociali. Scrivono: “I genitori non sono idonei”. Poi mandano la relazione a un magistrato che, senza troppe verifiche, adotta un provvedimento provvisorio. Quello definitivo arriva, quando tutto va bene, anni dopo. Ma i bambini intanto sono usciti di casa”.

Il caso di Basiglio è illuminante: alle 9 di mattina il dirigente scolastico avverte i servizi sociali, che inviano un telefax al tribunale dei minorenni di Milano. Passa solo qualche ora: il giudice dispone che i bambini vengano allontanati dalla famiglia. Di sera, la polizia locale esegue. Per inciso, nessuno aveva mai chiesto spiegazioni: né ai ragazzini né ai genitori. Martinez si infervora, è seduto in una saletta del suo studio di Milano: divani di pelle e boiserie alle pareti. “Questi sono veri sequestri di Stato” prosegue concitato. E attacca: “Ogni giorno vengono portati via 80 bambini. Li chiudono in un centro protetto per anni, e costano allo Stato in media 200 euro al giorno”.

Una cifra che farebbe lievitare considerevolmente la spesa ufficiale per l’accoglienza, stimata in mezzo miliardo di euro. Basta fare due calcoli: 200 euro al giorno fanno un totale di 73 mila euro all’anno per ogni minorenne. Che moltiplicati per i 15.624 ospiti dei centri significa oltre 1,1 miliardi di euro: più del doppio di quanto riveli la cifra in mano ai ministeri, probabilmente troppo prudente.

Chi finisce in queste comunità? Mancando dati nazionali, si può fare riferimento a quelli della Lombardia: per il 34 per cento sono ragazzi dai 15 ai 17 anni; il 28,1 per cento ha dagli 11 ai 14 anni; il 19,4 dai 6 ai 10 anni. Le percentuali sono simili in Veneto, dove i minori fuori famiglia sono quasi 1.700. L’età media è quindi piuttosto alta. Anche perché la permanenza in queste strutture è lunga: a Milano il 53 per cento ci resta più di due anni. Questo significa che centinaia di migliaia di euro vengono spesi per ogni ragazzino. Ciò che accade alla fine di questi allontanamenti forzati è sorprendente: in Piemonte, per esempio, quasi la metà torna a casa.

C’è un altro dato che inquieta: quasi il 77 per cento dei minori viene allontanato per “metodi educativi non idonei” e per l’ “impossibilità di seguire i figli”. “Motivi soggettivi, non reali come i maltrattamenti o l’abbandono” denuncia Gian Luca Vignale, consigliere regionale del Pdl. Il Piemonte, chiarisce, spende 35 milioni di euro all’anno per mantenere 1.179 minorenni nelle comunità. “Mentre solo un terzo di questi soldi viene stanziato per sostegni alle famiglie” considera Vignale. Il costo delle rette spesso soffoca i magri bilanci dei comuni, che a volte arrivano a chiedere un contributo ai genitori cui sono tolti i figli.

Negli anni Novanta, alla famiglia di Angela L. venne recapitata una richiesta d’indennizzo di 60 milioni di lire per i 16 mesi trascorsi dalla bambina nel centro di affido: l’equivalente di quasi 2 mila euro al mese.

Un paradosso in cui è incappata pure Antonella Causin, che vive a Santa Maria di Sala, nel Veneziano. Nello studio del suo avvocato, Luciano Faraon, sventola indignata una lettera che le è stata inviata la scorsa settimana.

I suoi figli, di 12 e 8 anni, vivono dal febbraio del 2007 in due diverse case-famiglia. Il comune ora le chiede “il pagamento delle spese per la permanenza nelle strutture “. “Vogliono la mia busta paga” spiega la donna, 44 anni, sgranando gli occhi azzurri. “Devo pure dargli soldi per avermi rovinato la vita”. Le peripezie della donna cominciano nel 2005. Si separa dal convivente, chiede l’affidamento dei figli. Viene sentita dagli psicologi: racconta che l’uomo, un maresciallo della Guardia di finanza, è finito in strani giri. È violento, distratto.

Non le credono: per i consulenti tecnici è soltanto “una madre esasperata “. Così i ragazzini sono dati al padre. Dopo dieci mesi, però, le accuse della donna diventano reali: l’ex compagno viene arrestato per spaccio di droga. “Da quel momento è cominciato l’inferno” racconta Causin. “Il maschio ha cambiato quattro famiglie e due scuole in pochi mesi. Come fosse un pacco postale”. Anche i genitori della donna avevano dato la loro disponibilità a occuparsi dei nipoti. “Invece li hanno sempre tenuti lontano da loro” racconta la signora. “Addirittura li hanno accusati di un avvicinamento indebito: ma erano andati in chiesa per la prima comunione del più grande”. La storia dimostra quanto a volte sia lenta la giustizia minorile.

In Italia, più di 32mila bambini vengono chiusi nelle comunità o dati in affido.

Il tribunale di Venezia ha disposto l’allontanamento dei due bambini nel dicembre del 2005, con un provvedimento provvisorio. Quattro anni dopo non solo non è stata presa alcuna decisione definitiva, ma la macchina giudiziaria è ripartita. L’avvocato della signora Causin ha denunciato i consulenti del tribunale: il legale sostiene che avrebbero falsificato i test e le dichiarazioni della donna. Il giudice ha nominato una nuova psicologa. Che in sei mesi ha incontrato la donna e il suo ex compagno appena quattro volte. Le critiche a periti tecnici, assistenti sociali e magistrati sono sempre più dure. Il criminologo Luca Steffenoni sui casi di malagiustizia minorile ha appena scritto un libro, Presunto colpevole (editore Chiarelettere).

“I tribunali hanno appaltato tutto all’esterno” sostiene. “Il processo è uscito dall’alveo delle prove, per trasformarsi in approfondimento psicologico. Gli assistenti sociali hanno diritto di vita e di morte sulle persone. Basta uno screzio tra due coniugi per far nascere patologie incurabili, che legittimano la sottrazione dei figli”. Accuse cui ribatte Graziella Povero, assistente sociale di Torino e presidente dell’Asnas, storica associazione di categoria: “C’è un’aggressione continua alle nostre decisioni. Dicono che rubiamo i bambini.

La gente comincia a essere diffidente. Ci accusano di avere convenienze economiche. Attacchi assurdi: che interesse potremmo mai avere a collocare un bimbo in una struttura piuttosto che in un’altra?”. Povero ammette che qualche caso di disonestà ci può essere, “come in tutte le professioni”: “Ma noi siamo dipendenti pubblici” aggiunge. “Il nostro lavoro è sempre subordinato a quello della magistratura, e quindi anche alle sue eventuali lentezze”.

Per indagare su questa presunta indolenza bisogna entrare nel tribunale dei minorenni di Roma, il più grande d’Italia. Da aprile è presieduto da un magistrato d’esperienza: Melita Cavallo.

Nei corridoi del palazzo sul lungotevere che ospita gli uffici si narra del suo interventismo. Appena insediata, Cavallo scopre che un collega ha 1.600 fascicoli arretrati: se ne intesta la metà e “consiglia” al collega il pensionamento. “La permanenza nelle casefamiglia è eccessivamente lunga” dice la presidente. “Un tempo ragionevole è un anno, non cinque, come avviene adesso. Noi magistrati stiamo diventando i notai dello sfacelo dei minori: solo quando sono stati distrutti psicologicamente li diamo in adozione”. Cavallo insiste, parla di “assistenzialismo spinto”: “Si spendono un sacco di soldi” continua. “Faccio un esempio: tre fratelli rimasti in comunità cinque anni sono costati 800 mila euro. Non era meglio, allora, dare un alloggio o un lavoro al padre? Avremmo salvato una famiglia. Invece abbiamo negato l’infanzia ai figli. E oggi i genitori sono più divisi di prima”. Anche le verifiche preliminari spesso sono deficitarie, ammette il magistrato: “Alla prima decisione si arriva con pochi elementi in mano. C’è quasi un rifiuto ad averne altri. Perché i giudici ormai sono molto condizionati e sempre più prudenti”. O, al contrario, troppo interventisti.

La Cassazione ha appena confermato l’ “ammonimento” già inflitto a un sostituto procuratore del tribunale dei minorenni di Roma dal Consiglio superiore della magistratura. Nel dicembre del 2006, il pm aveva ordinato che i carabinieri prelevassero due bambini da casa della madre, per portarli in quella del padre. Adesso però i giudici della suprema corte scrivono: “L’interpretazione delle norme non può costituire un alibi per tenere comportamenti anarchici “.

Insomma, quell’allontanamento è stato “un provvedimento abnorme “, per la Cassazione.

Cavallo non commenta, ma aggiunge: “Purtroppo è diventata tesi diffusa che togliamo i bambini ai poveri per darli ai ricchi”. Questa tesi, in realtà, è sempre più frequentemente sconfessata dai fatti: anche molte famiglie abbienti finiscono nel girone degli allontanamenti. Lidia Reghini di Pontremoli, 51 anni, discende da un nobile casato toscano e vive a Roma. Ha una ragazzina di 13 anni, che ha studiato nei migliori collegi della capitale. È stata affidata a un istituto religioso nell’aprile del 2008. “Per i giudici l’ho voluta mettere contro suo padre, il mio ex convivente, che era stato arrestato per spaccio di cocaina” racconta. Dopo avere deciso l’allontanamento della madre, il tribunale dei minorenni manda gli atti alla procura ordinaria: ipotizza che la madre, con “una condotta criminosa”, abbia inflitto sofferenze psichiche alla figlia. Un’accusa abnorme.

Archiviata dal giudice nel maggio 2008, su richiesta dello stesso pubblico ministero. Ora la donna ha denunciato l’assistente sociale che aveva seguito il suo caso: la procura di Roma ha aperto un’indagine. “Mia figlia chiede solo di tornare a casa. Vuole fare una vita normale, come quella di prima” spiega, mentre si alza dal divano a fiori verdi del soggiorno per preparare un tè. “Ogni giorno mi domando come mai sono finita in questo gorgo: non esiste alcun motivo, se non l’accanimento personale. O un interesse economico”.

Che esistano o meno tornaconti, una cosa è certa: tenere un bambino in una “comunità protetta” costa molto. E non assicura quella stabilità affettiva che potrebbe offrire una famiglia.

Anche per questo motivo il governo sta cercando in ogni modo di incentivare l’affido familiare. “Porterebbe un grande risparmio economico e soprattutto maggiore benessere per i minori” dice Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare. “La soluzione ideale sarebbe chiudere le comunità e collocare temporaneamente tutti i minori in altre famiglie: cosa che oggi è impensabile”.

Un’utopia, appunto. “Il problema è che sono pochi i genitori disponibili” dice il pediatra veronese Marco Mazzi, presidente dell’Associazione famiglie per l’accoglienza: “Su dieci richieste d’affido, riusciamo a dare risposta solo a due”. Una scelta fatta da poche coppie, e di buonissima volontà: ricevono qualche centinaio di euro al mese per un bambino che comunque alla fine non potranno mai tenere con sé.

“E bisogna garantire anche i contatti con i veri genitori, che devono vedere i minorenni periodicamente” chiarisce Mazzi. Le cose, però, spesso vanno diversamente.

Valentina Timofiy, un’ucraina bionda arrivata in Italia come badante, da più di tre anni non vede la figlia dodicenne. È stata affidata “provvisoriamente” a una famiglia di Genova: per scoprirlo ha dovuto assoldare un investigatore privato. Nonostante molte lacrime e mille telefonate, non le hanno mai voluto dare informazioni.

Timofiy, 41 anni, oggi vive a Tortona, in provincia di Alessandria, assieme al suo nuovo compagno. La casa è piena di ninnoli e di foto della figlia. “Le hanno fatto il lavaggio del cervello” accusa. La donna ha la sofferenza stampata sul volto. “L’ultima volta che l’ho vista mi ha domandato: “Mamma, perché mi hai dimenticata?”. Le ho spiegato che io penso a lei ogni minuto della giornata. Ma che mi vietano d’incontrarla”.

Timofiy comincia a piangere. Ha anche tentato di buttarsi da una finestra, ma è stata salvata dal convivente. Ormai vive senza la figlia da quattro anni. Alla fine di ottobre il tribunale dei minorenni di Milano ha deciso… di non decidere: l’ennesimo provvedimento temporaneo. I giudici hanno interrogato anche la coordinatrice del servizio sociale degli stranieri di Milano: “La signora è una madre attenta, in grado di occuparsi della figlia” ha assicurato. “Ma non è stata mai aiutata né sostenuta dai servizi sociali”. Così il tribunale ha stabilito: la madre deve riprendere a incontrare la figlia.

Quella figlia che in tre anni ha visto soltanto una volta, qualche settimana fa. Nascosta nella sua auto, è riuscita a scorgere una ragazzina con i capelli e gli occhi neri: usciva da scuola e dava la mano a una madre. Che però non era lei.

Angela ha 19 anni e due genitori che adora. Ricambiata. Vivono sotto lo stesso tetto, in una bella villetta gialla alle porte di Milano. Angela vuole aprire un negozio di abbigliamento, guarda i programmi di Maria De Filippi e non le dispiacerebbe sedersi nel suo salotto televisivo.

I genitori, Salvatore, piccolo imprenditore edile calabrese, e Raffaella la coccolano con gli occhi e le hanno fatto fare un calendario (castissimo) che è appeso in sala. Ma questa famiglia nasconde un segreto. Quando aprono le loro carte di identità scopri che i tre hanno cognomi diversi. È la cicatrice lasciata da un’odissea durata oltre 12 anni, dal maggio 1994 al dicembre 2006. Perché la burocrazia in Italia va più lenta della ragione e, persino, del buon senso.

«Lo Stato mi ha rubato l’infanzia e l’adolescenza. E ora non mi vuole restituire neppure il mio vecchio cognome» si lamenta Angela. Nel 1995 è stata «rapita» da un magistrato zelante che ha ritenuto di salvarla dagli abusi del padre. Peccato che 6 anni dopo la Cassazione abbia sentenziato che quelle violenze non sono mai avvenute. Ma ormai la vita della famiglia L. era distrutta. Centoventisei mesi dopo Angela è tornata a casa. E ora, dopo essersi goduta un po’ di serenità, ha accettato di raccontare la sua storia.

L’inferno inizia quando una ragazza di 14 anni, Antonella M., denuncia per abusi il fratello. La famiglia è scettica e allora lei, particolarmente fragile (finirà in un ospedale psichiatrico), chiama in causa altri parenti, persino uno zio d’America che nei giorni dei presunti incontri risulterà oltreoceano. Racconta di orchi e di orge.

Il pubblico ministero Pietro Forno annota e aggiunge nomi sul registro degli indagati. Tra le persone che dubitano della versione di Antonella c’è suo cugino, Salvatore L., che finisce sul banco degli imputati. Avrebbe violentato sia Antonella sia sua figlia Angela. L’accusa crede alla giovane, anche se è ancora vergine.

E così, il 24 novembre 1995, due carabinieri, come nella favola di Pinocchio, insieme con un’assistente sociale, prelevano Angela a scuola. «Devi venire con noi» le dicono. Quindi la portano via dal padre, ma anche dalla madre. Cominciano a questo punto le vite parallele di Angela e della sua famiglia, che non si incroceranno più, sino al 2005.

Dei primi giorni di separazione la ragazza, oggi, ricorda la vetrata nel centro di assistenza familiare, un parente dall’altra parte, lei che cerca di raggiungerlo. E poi tante persone, forse dieci, che la placcano, la riportano dentro. Ricorda le notti passate a piangere, le punizioni, le serate con la faccia rivolta all’angolo della camerata. «Non dimentico gli schiaffoni della signora Virgilia. Per castigarci ci faceva fare 100 piegamenti sulle gambe». A bambini di 6-7 anni… «Là dentro mi dicevano che la mia famiglia mi aveva abbandonata, che mi dovevo rassegnare».

Un giorno Angela con cinque compagne organizza un’evasione, ma sei bambine che girano da sole per la città non passano inosservate. E rifiniscono dentro.

Durante le indagini la bambina può vedere solo la cugina Antonella, testimone come lei. «Gli operatori del centro mi assicuravano che era l’unica che mi voleva bene». I giudici d’appello, 4 anni dopo, annotano che Angela potrebbe essere stata «influenzata» da quegli incontri. La ragazzina, nelle stesse settimane, subisce molte altre pressioni.

«Ero piccola, ma ricordo che l’assistente sociale mi diceva che se confermavo certe cose sul papà avrei rivisto la mamma. Una volta sbottai: “Così non vale”». La verità è che Angela non conosce il significato della parola abuso, si limita a ripetere che il padre l’ha trattata male, per poter tornare tra le braccia materne.

Secondo l’accusa, le prove sarebbero almeno due: una testimonianza videoregistrata che, durante il processo, va perduta e i fantasmi disegnati dalla bambina. Per gli strizzacervelli, un simbolo fallico.

I periti del giudice nel processo d’appello sono durissimi: gli schizzi fatti dopo gli incontri con la psicologa non «rappresentano in alcun modo una spontanea e libera espressione figurativa». Una poliziotta appunta: «La bambina vuole disegnare tante bambole e la verbalizzante la invita a smettere. La verbalizzante le chiede di disegnare i letti… le bambole non mi interessano, mi interessano i letti e i fantasmi».

Nel 1997 la corte d’appello infine assolve Salvatore, sottolineando gli errori di consulenti e inquirenti. Sbagli che hanno trasformato in un incubo la vita di una famiglia unita.

Salvatore è quello a cui è toccata l’esperienza peggiore: 2 anni e 4 mesi in carcere, nel girone degli infami, accusato di incesto e pedofilia. «Stavo in una cella con tre albanesi, un marocchino e moltissimi scarafaggi» ricorda. Un giorno prende carta e penna e scrive all’avvocato Guido Bomparola: «Oltre all’accusa, io ho il pensiero quotidiano di mia figlia piccola allontanata dalla mamma (…), di un ragazzo che si trova tutti i giorni a convivere con l’idea di un padre che sta a San Vittore. (…) Non sai quante volte ho la tentazione di farla finita. Sembra assurdo, ma se ti uccidi ti ascoltano. (…) Allora a tutti quanti viene il dubbio che il mostro poteva essere innocente».

Ma Salvatore resiste. Organizza una piccola cooperativa per fare lo spesino per i detenuti più poveri e, da bravo muratore, ristruttura tutte le celle del piano e nella sua costruisce una nicchia in cui mette una madonnina luminosa.

La moglie non sta meglio: «Il momento più brutto della mia vita è stato quando sono andata alla fermata dello scuolabus e non ho trovato mia figlia». I primi mesi, per la vergogna e l’assurdità della vicenda, non esce di casa, quindi tira fuori la rabbia che ha dentro e reagisce: «Avevo un figlio da crescere, ho iniziato a lavorare nella tintoria di mia sorella».

Non sono facili neppure le 40 udienze dei processi, con il marito che arriva in manette: «Lo potevo incontrare solo lì. In aula ho portato anche Francesco, che voleva vedere suo padre». Nel 2001 c’è l’assoluzione definitiva, ma il tribunale per i minorenni, sordo a tutto, conferma l’adottabilità di Angela, «per incapacità genitoriale» di Raffaella e Salvatore.

La ragazza, nel frattempo, è stata affidata a una famiglia di ricchi imprenditori dell’hinterland milanese.

Hanno altri tre figli, due adottivi e una naturale, la più piccola. Angela non conserva un buon ricordo di quegli anni, forse per la severità dei nuovi genitori: «Litigavamo spesso. Non gli assomigliavo e mi imponevano regole ferree: potevo uscire solo la domenica pomeriggio dalle 14.30 alle 17.30, gli altri giorni sbrigavo spesso le faccende domestiche, stiravo per ore».

Ad Angela manca l’infanzia rubata e, quando può, gioca di nascosto con le bambole della sorella più piccola («A me regalavano solo gioielli che finivano in cassaforte»). In famiglia le fanno pesare il confronto con quella che il padre chiama «figlia figlia». A scuola va male, anche se tra i banchi è l’unico momento in cui si sente libera: «Ci andavo con il sorriso e quando tornavo a casa mi deprimevo».

Angela passa ore a scrivere sul diario pensieri sulla vecchia famiglia: «I miei genitori adottivi mi dicevano che quelli naturali mi avevano abbandonato, poi che mia madre era morta di parto. Però io mi ricordavo perfettamente i suoi riccioli». Alle medie impara il significato della parola abuso e si convince di non averlo mai subito: «Con i grandi non parlavo di queste cose per non finire di nuovo all’orfanotrofio».

Tace, sino a quando, dopo anni di ricerche, Salvatore e Raffaella la ritrovano su una spiaggia di Alassio, dove è in vacanza: «Era il 31 luglio 2005 e la riconobbi subito» si illumina Salvatore. Con la moglie Raffaella per 8 mesi si accontenta di seguirla da lontano, di vederla uscire dalla messa. Poi, nel marzo 2006, il fratello Francesco le consegna una lettera in cui le racconta la verità: che loro non l’avevano mai abbandonata e che anzi la cercavano da anni.

Angela decide di tornare dai suoi. Quando bussa la prima volta, dopo oltre 10 anni, è sera. Raffaella spalanca la porta e quasi sviene. Madre e figlia parlano tutta la notte, piangono, ridono.

A questo punto lo Stato mostra, per l’ultima volta, il volto più duro. «Poco prima di tornare a casa definitivamente, un pm ci ha provato ancora. Mi ha detto che se fuggivo di nuovo dalla mia famiglia adottiva mi avrebbero rispedito in un istituto» ricorda Angela. «Io gli ho risposto che potevano mandarmi dove volevano, ma che mio padre non aveva mai abusato di me e che, alla fine, sarei tornata dai miei genitori naturali». I giudici si arrendono.

Angela torna a casa, per sempre. Il 24 dicembre 2006 festeggia il diciottesimo compleanno in un ristorante con 115 invitati. In paese sparano i fuochi d’artificio, i regali si accumulano all’ingresso come un bottino di guerra. Una cameriera guarda stupita e papà Salvatore le sussurra: «Questo non è un compleanno, è un miracolo». Ora manca l’ultimo prodigio.

«Rivoglio il mio cognome» reclama la fu Angela L., che un giudice ha battezzato Angela C.

Un tavolo rotondo di legno al centro del soggiorno di una casa popolare di Quarto Oggiaro, periferia di Milano. Comincia qui, una sera di aprile del 2005, la storia di Pietro Guccio, a cui la giustizia ha portato via tre figli.

Uno scatto d’ira: ha saputo che la sua primogenita, Vanessa, 14 anni, marina la scuola. Un fragoroso pugno sul tavolo apparecchiato per la cena, le stoviglie che cadono a terra, tutti ammutoliti per l’inattesa ira. Lui che va a fumare una sigaretta sul balcone. E poi torna: si siede sul divano, comincia a parlare con quella ragazza in crisi adolescenziale. Un momento di rabbia che gli ha rovinato l’esistenza.

Nella stanza accanto c’è una maestra di sostegno. Viene due volte la settimana per aiutare l’altro figlio, Mirko, di 8 anni, a fare i compiti, avrebbe qualche difficoltà a scuola. L’insegnante riferisce l’accaduto ai servizi sociali: già seguono la famiglia, anche con sostegni economici.

Due giorni più tardi la moglie di Guccio, Tina Riccombeni, viene convocata in consultorio: conferma l’accaduto. Un mese dopo i carabinieri bussano alla porta del loro appartamento: prelevano i tre figli, compresa Sharon, di 4 anni, e li portano in una comunità di Milano assieme alla madre. Due mesi dopo la donna torna a casa dal marito, i due bambini e la ragazzina vengono spediti in un altro centro del Vercellese. Da quel momento inizia una lenta agonia, scandita da carte giudiziarie e incontri mensili di un’ora, sempre davanti agli assistenti sociali. Un pugno che ha sfasciato qualche piatto e un’intera famiglia.

Quattro anni dopo, i Guccio sono seduti attorno allo stesso tavolo del soggiorno. Hanno facce rose dalla sofferenza. Lo scorso Natale, ormai diciottenne, Vanessa è tornata a casa. Parla poco, ha i capelli biondi fermati da un cerchietto bianco, le labbra imbronciate. “Ho buttato la mia giovinezza. Lontano dai miei genitori, senza nessun motivo”.

Ricorda come fosse ieri la sera in cui cominciò tutto: “Non ero stata a scuola. E quando mio fratello mi ha chiesto se sarei andata il giorno dopo, io ho fatto la sbruffona: “Non so se me la sento” è stata la mia risposta. Mio padre l’ha sentito e ha dato quel pugno. Ma ha sbagliato, meritavo uno schiaffo. Invece non ci ha mai sfiorati”.

Tina Riccombeni, 44 anni, sposata con Guccio dal 1988, non si dà pace. È vestita di nero, fuma sigarette senza sosta. Da quando le sono stati tolti i figli ha avuto tre infarti. “Mi hanno convocata al consultorio chiedendomi se mio marito era un violento. Gli ho detto che c’era un po’ di tensione a casa. Mai però avrei pensato di finire in questo incubo”.

Il 27 aprile 2005 il tribunale per i minorenni di Milano decide l’affidamento dei tre bambini ai servizi sociali. I giudici scrivono che la situazione “è andata peggiorando negli ultimi mesi”, c’è un progressivo “disinvestimento di Vanessa nella scuola” e “scarsa reattività in famiglia “. Anche Mirko è peggiorato negli studi, parla poco. “Va bene” scandisce Vanessa mentre continua a toccarsi i braccialetti colorati sul polso destro.

“Non ero una cima a scuola. E allora? Non avevo voglia di studiare. Per questo mi hanno rinchiuso in un istituto?”. In realtà, la decisione del tribunale si fonda pure su un altro assunto: le presunte violenze di Guccio sulla moglie e i figli.

L’omone, emigrato da un paesino dell’entroterra siciliano da ragazzo, comincia a sfogliare nervosamente le carte raccolte in questi cinque anni di calvario: sentenze, ricorsi, pareri degli assistenti sociali.

“Da nessuna parte si fa riferimento a una sola volta in cui ho maltrattato i bambini. Non c’è una dichiarazione o un’accusa. Solo cose generiche e mai provate. La verità è che siamo dei poveracci, per questo dobbiamo solo subire” dice Guccio, che ora lavora come magazziniere. L’uomo è incensurato: mai un problema con la giustizia. A suo carico non risultano indagini né denunce. Il tribunale si ripronuncia il 22 ottobre 2007.

E riconferma la decisione iniziale. Ai genitori è imputato scarso “senso critico” e vaghe carenze educative. I giudici aggiungono: “Sono emersi ulteriori elementi di preoccupazione in ordine agli agiti violenti del padre”. Vanessa commenta: “Nessuno, mentre ero in comunità, mi ha mai chiesto niente sui comportamenti di mio padre”.

La ragazza si rabbuia. L’8 dicembre 2008 è ritornata a casa. Racconta il periodo passato lontano dalla famiglia. “Piangevo e scrivevo, per sfogarmi. Ho perso gli amici. E adesso pure i miei fratelli, che vivono ancora lì”. Sharon e Mirko sono rimasti nel centro del Vercellese che li ospita. Il padre racconta che il figlio, ogni tanto, cerca di telefonargli di nascosto. Mentre qualche tempo fa, quando hanno trovato la più piccola sul tetto, lei ha spiegato: “Volevo scappare per raggiungere papà”.

Sottratti a genitori “indegni” da quattro anni. Ma allora perché non sono stati dati in adozione a un’altra famiglia? Che senso ha farli crescere da soli? Il magazziniere spiega: “Sono stati quelli dei servizi sociali a dirmelo. Per mantenere un bambino in comunità si spendono centinaia di euro al giorno. I miei figli sono già costati allo Stato 2 milioni di euro”.

L’avvocato Claudio Defilippi, che assiste la famiglia, ora ha fatto ricorso anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “La storia dei Guccio è un caso inspiegabile, in cui sono stati accumulati errori e ritardi clamorosi” accusa. L’ultima stranezza è una relazione di due pagine firmata dai servizi sociali di Milano, datata 6 aprile 2009. Si legge: i due bambini vogliono “fare rientro a casa” e i genitori “hanno costantemente espresso questo desiderio”.

L’esito degli incontri è “positivo”, le visite a domicilio sono “soddisfacenti”. Si consiglia dunque “un graduale rientro in famiglia”, preludio a un ritorno definitivo “entro il mese di settembre” 2009. Il giudice risponde qualche giorno dopo: chiede di rallentare gli incontri e annuncia l’apertura di un’istruttoria.

Come se di tempo non ne fosse già passato abbastanza.

L’ODISSEA GUCCIO: NON ANCORA FINITA

3 aprile 2005 - Durante una discussione con la figlia, Pietro Guccio, 48 anni, sbatte un pugno sul tavolo.

Nella stanza accanto c’è una maestra di sostegno che aiuta il figlio per i compiti. L’episodio viene riferito ai servizi sociali.

27 aprile 2005 - Il Tribunale per i minorenni di Milano dispone l’affidamento dei tre figli di Guccio al Comune di Milano. Il padre sarebbe responsabile di “agiti violenti”.

11 maggio 2005 - I carabinieri prelevano da casa i tre bambini: Vanessa (14 anni), Mirko (8 anni) e Sharon (4 anni). Vengono portati in una comunità per minorenni di Milano insieme con la madre, Tina Riccombeni.

24 luglio 2005 - Riccombeni torna a casa dal marito. I figli vengono trasferiti in un’altra comunità in Piemonte.

22 ottobre 2007 - Il tribunale conferma l’affido. Madre e padre avrebbero scarso “senso critico”.

8 dicembre 2008 - Vanessa, che ha compiuto 18 anni, esce dal centro. Torna a vivere a casa dei genitori.

Le pressioni fatte dagli psicologi, le violenze subite in comunità, lo strazio per l’allontanamento da casa. I due fratellini di Basiglio, sottratti a marzo del 2008 ai genitori per un disegno a sfondo sessuale erroneamente attribuito alla bambina, raccontano la loro storia in un’intervista esclusiva a Panorama, in edicola da venerdì 13 novembre.

“Quei due mesi in comunità sono stati un incubo” ricorda il fratello, di 14 anni. “Una volta un ragazzo straniero mi ha puntato il coltello in faccia. Gli educatori hanno tentato di dividerci. Lui urlava che mi voleva ammazzare”. Sua sorella, 10 anni, racconta a Panorama: “Senza i miei genitori sono stata malissimo. Non dormivo la notte. Mi mancavano tantissimo. Mi sentivo molto sola: speravo sempre di tornare a casa”.

Il ragazzo parla pure dell’incontro con uno psicologo: “Quando sono entrato nella stanza ha urlato che se gli dicevo la verità mi avrebbe riportato a casa. Gli ho risposto che non avevo fatto niente con mia sorella. Lui gridava: “Non è vero! Mi devi dire la verità!" Sono uscito piangendo: sentirsi fare un’accusa del genere è stato terribile”. Anche la bambina riferisce a Panorama un episodio analogo: “Mi chiedevano se facevo quelle cose con mio fratello, con un tono molto forte. Ero terrorizzata”.

I due fratellini erano stati portati via da casa il 14 marzo del 2008: una maestra aveva trovato sotto il banco della bambina un disegno che li raffigurava in una scena di sesso. Ma era lo scherzo di una compagna di classe. Sono tornati dai genitori dopo più di due mesi.

Lui è un bel ragazzino di 14 anni con i capelli e gli occhi scuri. Lei è una bambina di 10 anni con lo sguardo vivace, la voce cantilenante e l’apparecchio ai denti. A. e G. vivono in un’accogliente casa di Basiglio, alla porte di Milano. A. cammina a testa bassa, come se fosse perennemente schiacciato dai ricordi. L’hanno incolpato di fare sesso con la sorella: c’era scritto a corredo di un disegno fatto a scuola da una compagna di classe di G. I fratellini sono stati tolti a genitori, poi chiusi in una comunità per più di due mesi. Un errore giudiziario, di cui giornali e televisioni continuano a parlare.

A. e G. raccontano per la prima volta a Panorama quel che hanno patito: il momento in cui sono stati strappati alla famiglia e i terribili giorni in comunità. Fino al ritorno in famiglia.

Ricordate come vi hanno portato via da casa?

A. Era il mio compleanno. Mentre festeggiavo con gli amici, è arrivata mia madre: “Devi venire con me” ha detto. Lì ho trovato due pattuglie e gli assistenti sociali ad aspettarmi. Mi hanno spiegato che dovevamo cambiare i genitori: secondo loro era la scelta migliore.

G. Io, invece, ero già a casa. Gli assistenti sociali mi hanno accompagnato all’ascensore: “Non puoi stare più con tua madre e tuo padre” hanno detto. Dicevano pure che sembravo turbata. Io ho cominciato a piangere: ero disperata. Temevo che non li avrei più visti.

Sapevate il motivo per cui venivate allontanati dai vostri genitori?

A. Io l’ho capito dopo. E quando è successo mi sono messo a piangere. Non era vero che avevo fatto quelle cose con mia sorella. Ho avuto un colpo al cuore.

G. Sì, per colpa di una mia compagna di classe. Aveva scritto che io e A. facevamo delle cose… Poi ha messo il diario sotto al banco. La maestra ha ritirato il disegno. “Non si fanno queste cose con i fratelli” ha detto.

e ho spiegato che non l’avevo scritto io. Lei mi ha risposto: “È la tua calligrafia”. Ho protestato che non era vero. Ha insistito. I miei compagni mi prendevano sempre in giro: dicevano che avevo i denti brutti. Per questo motivo hanno fatto quel disegno.

Come siete stati in comunità?

A. Era un incubo. Un ragazzo straniero mi ha puntato il coltello in faccia. Gli educatori hanno tentato di dividerci, lui urlava che mi voleva ammazzare.

G. Senza i miei genitori sono stata malissimo. Non dormivo la notte. Mi mancavano tantissimo. Mi sentivo molto sola: speravo sempre di tornare a casa.

Avete mai parlato con gli psicologi o gli assistenti sociali?

A. Una volta, con uno psicologo. Quando sono entrato nella stanza ha urlato: “Se mi dici la verità ti riporto a casa”. Gli ho risposto: “Non ho mai fatto niente con mia sorella, non ne sarei capace”. Lui però ha continuato: “Non è vero! Mi devi dire la verità!”. Era aggressivo: gridava. Io ho detto ancora di no. Sono uscito piangendo: sentirsi fare un’accusa del genere è stato terribile.

G. Una volta, anch’io, con uno psicologo. Mi ha detto la stessa cosa. Con un tono bello forte. Mi sono spaventata. Mi chiedevano se facevo quelle cose con mio fratello. Ho risposto di no… Poi sono stata zitta per tutto il tempo.

Siete tornati nella stessa scuola?

A. No, l’ho cambiata. Ma un giorno un compagno di scuola mi ha dato del molestatore. Io non gli ho risposto. Ho calato la testa e tirato dritto. G. Anch’io sono in un’altra scuola, e nessuno mi ha mai detto niente. Però incontro a catechismo le bambine che mi hanno accusato di aver fatto il disegno. Parlano sottovoce di me: le sento. Io non ho mai rivolto loro la parola. Ma quando le vedo provo rabbia. Tanta rabbia.

IL DRAMMATICO DIARIO DI A. DALLA COMUNITÀ

“Oggi è il secondo giorno che sono via dai miei genitori: dov’è mia sorella?”. Comincia così il drammatico diario di A., 14 anni, uno dei due fratellini di Basiglio. È stato rinchiuso per 68 giorni in una comunità alle porte di Milano. Giorni di paura e angoscia: sentimenti che ha trascritto quasi ogni sera, tra marzo e maggio del 2008, in un diario. Panorama ne pubblica in esclusiva alcuni stralci. Pagine che raccontano la sofferenza di un bambino accusato di un’assurdità. E la paura di non rivedere più i propri genitori.

16 marzo: “Uno psicologo mi ha fatto vivere un incubo. Io gli ho chiesto cos’era la comunità e lui mi fa in modo incazzato: “Zitto!” (…). Nel tragitto gli ho fatto un’altra domanda: cosa sarebbe successo a mio padre e mia madre. Lui mi ha risposto che se gli incontri con loro non andavano bene eravamo costretti a cambiare i genitori. Quando siamo arrivati mi ha preso di forza e m’ha spinto giù dall’auto”.

22 marzo: “Mi ritrovo a fare la Pasqua in una comunità dove ci sono i più grandi: quelli del penale, e io non so nemmeno cosa significa penale (…). Non ho fatto niente. Per favore, aiutatemi. Io vorrei scappare, non ne posso più. Stare qui è come in carcere”.

12 aprile: “Mentre uscivo da scuola vedevo tutti i ragazzi che venivano presi dai loro genitori e mi sono messo a piangere. Tornato in comunità mi sono chiesto perché mi trovavo qui, perché io non so niente di questa storia (…). Non riesco a mangiare, aiutatemi”.

20 aprile: “Oggi ho passato un inferno: verso le 20 un ragazzo di 15 anni, dopo che io gli ho detto di smetterla di fare il figo, ha preso un coltello e me l’ha puntato quasi in faccia (…). Ora sto scrivendo il diario sotto le coperte, e non so come ce la faccio. Di notte non dormo perché ho molta paura”.

23 aprile: “Oggi sono stato dall’assistente sociale. Mi ha detto che se gli dicevo la verità mi faceva tornare a casa!”.

5 maggio: “Uno di 15 anni me le ha date a sangue perché gli ho detto di stare zitto, e adesso sono a letto con il ghiaccio”.

22 maggio: “La mia prima notte a casa è stata molto bella. E poi ho ricevuto il bacio della buonanotte”.

Bambini “rapiti” alla famiglia da giudici e psicologi.

«Sua figlia ha disturbi dell’attenzione in classe e crediamo che il motivo sia legato alla sua impossibilità di seguirla appieno o alla sua “inidoneità genitoriale”». In parole poverissime significa: il bambino è lasciato allo sbando e il papà o la mamma non sono genitori come dovrebbero. A qualunque genitore, se in buona fede, un discorso di questo tipo farebbe gelare il sangue. Eppure capita pure questo a padri e a madri che vedono sottrarsi i figli senza un oggettivo motivo, diverso da maltrattamenti, abusi sessuali, condizioni economiche precarie, abbandono.

Secondo i dati dell’Osservatorio per l’infanzia della Regione Piemonte e dell’assessorato alle Politiche sociali, per la maggior parte dei casi (76,8%) gli allontanamenti dei minori non avvengono per fatti gravi, ma per valutazioni “soggettive”. Si parla cioè di “incapacità genitoriale” o di “metodi educativi non idonei”, o ancora di “impossibilità dei genitori a seguire i figli”, che sono croci o appellativi che si portano sulle spalle la grande maggioranza di padri e madri, nonché fenomeno in crescita, tanto che dal 2000 a oggi è aumentato del 20-30%. I minori, invece, allontanati per motivi “oggettivi” sono orfani (3,63% ), in stato di abbandono (9,81%) oppure maltrattati (4,72%). «Per tutti gli altri ci sarebbero degli allontanamenti impropri verso comunità o in famiglie affidatarie – denunciano le associazioni che hanno aderito al Movimento “Cresco a casa”, nato come manifesto associativo per impedire i cosiddetti “allontanamenti impropri dei bambini” - e che oltre a provocare disagio per le famiglie e per gli stessi minori, hanno anche un costo enorme».

Poi ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.

Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità.  Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.

“I dati della Regione piemontese rispecchiano anche quelli a livello nazionale” - dichiara Gian Luca Vignale, consigliere regionale, - “ed indicano che il 76,8 per cento dei bambini vengono allontanati per motivi, che potremmo definire soggettivi: come incapacità dei genitori, o metodi educativi inidonei, oppure per impossibilità di seguire i minori; mentre solo il 18,16 per cento per motivazioni oggettive gravi come abusi, maltrattamenti o abbandono. Inoltre le statistiche dimostrano che su cento denunce per abusi su minori all’interno delle mura domestiche, solo il 3,6 per cento si conclude con una condanna”.

Tutte le altre sono storie di falsi abusi e falsi maltrattamenti che però costringono a sofferenze terribili i bambini e anche le loro famiglie. Spesso innocenti. Come è avvenuto per Laura, adolescente torinese che a “Panorama.it” racconta il periodo di distacco dalla famiglia e la vita in comunità.

“C’era tanta confusione. Un caos. Due donne che non conoscevo sono entrate in casa, si sono sedute in salotto e hanno iniziato a discutere con i miei genitori. Erano da poco trascorse le 11. Era freddo. Ripensandoci, non ho capito se fosse stato il freddo di quella mattina di febbraio, o solo il presentimento di quello che sarebbe accaduto quattro ore dopo”. Laura si ferma un attimo, fa un grande respiro e riprende il suo ricordo di quella mattina. “Mi hanno portato via. Erano le tre del pomeriggio. Non sapevo dove stavo andando, ma mi rassicuravano. Erano due assistenti sociali.

Qualche ora di viaggio in auto e mi sono ritrovata a Pavia, in un appartamento. C’erano altre cinque ragazze della mia stessa età e un bambino di otto anni. Ricordo i loro sguardi e il silenzio. Terribile”.

Torino-Pavia. È stato il primo trasferimento per Laura, quindici anni, studentessa di un liceo del centro storico del capoluogo piemontese; I suoi genitori erano stati accusati di incapacità genitoriale e maltrattamenti.

Tutto nasce da una bugia che Laura, adolescente sensibile e fragile, racconta alla sua insegnante di educazione fisica. Si sente trascurata e dice che la madre non la segue e quando si incrociano in casa nei ritagli di tempo, che avanzano tra il lavoro e la scuola, lei la maltratta, la umilia. L’insegnante ascolta lo sfogo, non capisce che si tratta solo di un bisogno d’amore e dà inizio così al calvario di una normale famiglia torinese. L’insegnante coinvolge la direttrice e senza nessun chiarimento con i genitori di Laura, vengono chiamati gli assistenti sociali.

“Sono rimasta in quell'appartamento per un mese e mezzo. Lavavo e pulivo la casa e stiravo. Ci portavano solo da mangiare. Ma la sofferenza più grande era il non poter parlare con nessuno dei miei familiari. Ero costretta solo ad ascoltare le tragedie di chi era con me e le offese degli assistenti sociali nei confronti dei miei familiari. Li screditavano, li descrivevano come dei mostri e alimentavano il distacco e l’allontanamento”. Laura sospira e poi riprende a raccontare: “Quante volte mi hanno detto che i miei genitori non mi volevano bene. Che mia madre non mi voleva. Con me avevo solo una fotografia di una delle mie due sorelle, Patrizia, che mi era rimasta nel diario di scuola preso il giorno in cui mi avevano portato via da casa”. Quello era solo l’inizio di un periodo durato sette mesi. L’inferno arriva con il trasferimento a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria; Laura rimane, all’interno di una comunità per cinque mesi e mezzo.

“Era una comunità mista” continua “e assieme a noi adolescenti c’erano tanti bambini di sei, sette e otto anni. E’ stato terribile: i più piccoli non riuscivano a trattenere le emozioni e urlavano, piangevano, cercavano i genitori mentre io cercavo di non sentire, volevo stare sola ma non era possibile”. Laura spiega che a quel clima di dolore, rabbia, confusione e abbandono è riuscita a sopravvivere grazie alla complicità, che si era creata con alcune delle ragazze della comunità. “La complicità ti permetteva di continuare a vivere. Non era un’amicizia ma qualcosa di più”. Poi una mattina, dopo cinque mesi che non vedeva e parlava con nessuno dei suoi parenti, le accordano il permesso di incontrare le due sorelle: “Ero come rimbambita, non riuscivo a parlare e anche se avevo voglia di abbracciarle e di farmi portare via da quell’inferno, non riuscivo a chiederglielo. Le ho riviste un’altra volta e mai da sole. Poi basta”.

Laura è la terza di tre figlie di due imprenditori: madre e padre lavorano nell’azienda di famiglia che hanno ereditato. Insieme da trent’anni, avevano cresciuto le figlie senza nessun problema ed erano diventati nonni di due bambine, solo pochi mesi prima che Laura fosse portata via di casa. “Sono ancora in cura da una psicologa” - sussurra Laura - “mi sta aiutando, ma la mia vita è stata segnata. Non potrò più dimenticare quello che ho provato nella comunità e soprattutto come vengono trattati i bambini. Sono pochi gli assistenti sociali, che vivono il loro lavoro come una missione e comprendono la tua sofferenza. Adesso ho diciotto anni, ma questa esperienza mi ha tolto la capacità di dare fiducia alle persone e la fiducia è la prima cosa per affacciarsi al mondo e quindi al futuro”. La vicenda di Laura si è conclusa con una sentenza del Tribunale dei minori, che dichiarava l’inesistenza di situazioni gravi tali da giustificare l’allontanamento da casa.

Trenta associazioni in tutta Italia si sono riunite a Torino, per presentare un manifesto chiamato “Cresco a Casa”. Un documento con il quale chiedono che gli allontanamenti da casa debbano essere eseguiti solo dopo l’acquisizione di prove oggettivi gravi e attendibili. “Le perizie psichiatriche e psicologiche devono avere solo valore di opinioni” puntualizza Vignale “ci batteremo perché non siano più considerate prove fondamentali per l’accertamento della verità durante i procedimenti giudiziari”. Poi prosegue: “Sui giudizi spesso sbagliati di esperti incapaci di decifrare la realtà, vengono sottratti e costretti a violenze psicologiche all’interno di comunità centinaia di bambini e adolescenti di tutta Italia”. Proprio com’è accaduto a Laura.

Queste associazioni, molti avvocati, criminologi e gente comune, s'interrogano sul fenomeno dei bambini sottratti alle famiglie senza alcun valido motivo, ma unicamente in seguito a rapporti, opinioni, di assistenti sociali e (fantomatiche) perizie di psicologie psichiatri.

È notizia nota che due bambini di Basiglio, per ben 40 giorni sono stati sottratti alla famiglia, solo per un disegno che, come dice lo stesso Tribunale dei minori, solleva più di una perplessità; mentre la bambina stessa e la madre non riconoscono la grafia.

Perché un'assistente sociale o uno psicologo invece di fare una verifica, scrive un rapporto che induce il Tribunale a prendere una decisione così drammatica, che può, di fatto segnare per sempre la vita di un bambino e della sua famiglia? Chi pagherà questo danno? Possibile che siano solo errori?

Il fenomeno in Italia coinvolge circa 40-50 mila bambini. Il costo che le amministrazioni pagano, per un bambino ritenuto vittima di "abusi", parte dai 150 per arrivare ai 300 euro al giorno.

Moltiplicate questo per il numero di bambini.

Ci domandiamo qual è la logica che preferisce togliere un bambino alla famiglia di origine perché, per esempio, indigente, facendo pagare alla comunità alcune migliaia di euro quando con 800 euro si potrebbe far fronte all'emergenza immediata e aiutare il padre a trovare lavoro?

Che danno esistenziale viene causato al bambino ed alla famiglia?

Perché l'assistenza sociale non lavora per preservare l'integrità familiare?

Ancora, che valore hanno i rapporti e le perizie di uno psicologo o di un’assistente sociale, che il più delle volte sono unicamente opinioni?

La pretesa di queste categorie è di capire da un disegno o uno scritto che esiste un abuso.

I casi di Rignano, di Basiglio e gli altri drammatici episodi, vedi Brescia, Milano, sono esemplari.

Ciononostante i Tribunali continuano a fare affidamento su queste opinioni.

Qualcuno comincia a capire e a prendere posizione.

Casi eclatanti sono il Giudice Edoardo Mori, di Bolzano, che in un articolo del 21 Aprile 2008 sul giornale Alto Adige, spara a zero sul valore scientifico di queste perizie e rapporti:"Il fatto che si sia dato ingresso alla psicologia come strumento probatorio è una totale assurdità", e ancora: "…non sono scienze esatte, sono scienze sperimentali. Per definizione - prosegue ancora il giudice Mori – sono strumenti che servono più che altro per manipolare la psiche e non hanno alcun bisogno di cercare la verità". Stessa linea viene sostenuta con forza dal dott. Marco Capparella e dal dott. Savio Fortunato coni loro articoli su criminologia.it.

I dubbi sollevati da questi professionisti sono stati fatti propri dall'On. Francesco Lucchese, con la presentazione dell'interpellanza del 27 Giugno 2007 n° 630.

A nessuno, siano essi assistenti, psicologi o psichiatri dovrebbe essere permesso di minare l'integrità della famiglia e la salute del bambino senza una certezza dell'abuso perpetrato. I bambini urlano nel silenzio di una comunità e le vite dei genitori sono distrutte da accuse infamanti. Una società che tollera questi fatti non può definirsi civile. Qualcuno deve intervenire per porre fine a questa incredibile violazione dei diritti che mina il mattone fondamentale della società: la famiglia.

Atto Camera: Interpellanza 2-00630, presentata da FRANCESCO PAOLO LUCCHESE.

Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, il Ministro per le politiche per la famiglia, il Ministro della pubblica istruzione, il Ministro della salute, per sapere - premesso che:

sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l'assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l'innocenza di una persona (vedi casi Cogne, pedofilia a Brescia, pedofilia a Milano, Rignano Flaminio eccetera) senza che queste perizie secondo l'interpellante possano considerarsi prove concrete come dovrebbe essere in un giusto processo;

lo stesso sistema, cioè l'uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all'interpellante come uniche prove, determina le decisioni del Tribunale dei Minori nell'adottare il provvedimento con la formula «urgente e provvisorio» per l'allontanamento dei minori dalle famiglie, diventano gli unici riscontri in fase iniziale per cause di pedofilia: queste perizie si basano secondo l'interpellante non su riscontri oggettivi, come nel caso della criminologia, ma su opinioni degli psicologi e psichiatri;

mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d'ingegneria occorre l'ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico (figura specializzata con corso triennale post-laurea comprendente 22 esami più la tesi di specializzazione, oltre la laurea quadriennale del percorso vecchio ordinamento), ma lo psicologo, lo psichiatra, l'assistente sociale, eccetera. La laurea (in psicologia, medicina, giurisprudenza, lettere o filosofia) era la condizione necessaria per accedere allo studio di criminologia clinica ma insufficiente per potersi occupare di crimine. Abolendo tale specializzazione si è lasciato campo libero a professioni (psicologi e psichiatri) che hanno la pretesa di essere esperti, pretesa mai suffragata da fatti concreti -:

il numero di bambini sottratti alle famiglie e dati in affidamento alle comunità alloggio oscilla tra i 23.000 e i 28.000 con un costo per la comunità di miliardi di euro, senza contare l'indotto in termini di necessità di assistenti sociali, spazi protetti, psicologi e neuropsichiatri infantili;

molti genitori, se vogliono rivedere i loro figli, si devono sottoporre a trattamenti psicologici prolungati ed estenuanti con il ricatto morale di non rivedere più il loro figlio;

quale sia l'entità dei bambini sotto tutela dei servizi sociali e collocati in comunità alloggio o in affido;

quale sia il numero di comunità-alloggio distribuite sul territorio italiano e la loro capacità ricettiva;

quale sia l'entità dei soldi erogati dai Comuni, Province, Regioni e Stato per il mantenimento dei bambini nelle comunità alloggio;

quale sia il tempo medio del procedimento ablativo;

quale sia il numero di bambini che torna nelle famiglie di origine dopo essere stato allontanato;

perché si siano chiuse le scuole di specializzazione post-lauream in criminologia clinica presso le facoltà di medicina e se si intenda ripristinare;

come mai dietro le cattedre di criminologia in Italia, anziché criminologi clinici, siedano quasi tutti psichiatri;

perché anziché promuovere specialisti di criminologia di alto livello si favorisca la nascita di «corsi fast-food», senza rendersi conto che il crimine ed i criminali si aggiornano anche con le tecnologie, mentre le figure che si occupano del crimine in Italia (psicologi, psichiatri, assistenti sociali) non hanno conoscenze ermeneutiche, epistemologiche e scientifiche. (2-00630) «Lucchese».

A COME MAFIA DELL’AFFIDO CONDIVISO.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “ABUSOPOLITANIA” E “UGUAGLIANZIOPOLI”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

SULL’AFFIDO CONDIVISO E’ GUERRA DI GENERE.

Il Matrimonio (di Paola Maffei)

Ho, ma che bel traguardo

è a quello che la giovane tende lo sguardo,

il matrimonio con l’amato

e il sogno di una vita coronato.

Con il matrimonio ci si giura eterno amore,

nella gioia e nel dolore,

di quello che nulla può separare

e ancor più bello è quando lo si dice sull’altare.

Passa il tempo, arrivano i figli

Genitori e zii, elargiscono consigli

Si stringono tutti intorno alla famiglia

Per dare un grosso aiuto al figlio o alla figlia.

Quello che si vive è magia ed incanto

Anche se poi non si sa perché, a volte viene infranto,

all’amore eterno subentrano questioni di denaro ed interesse

il matrimonio si incrina e con esso anche tutte le sue promesse.

Le motivazioni sono sempre i soliti argomenti:

i suoceri, i soldi, le proprietà, i tradimenti…

Che dispiacere per amici e parenti

Vedere che quell’amore eterno attraversa patimenti.

C’è chi si dispera per la loro separazione,

chi piange e chi prega per la loro unione.

C’è anche chi accende le questioni

Con accanimento per far conti e divisioni.

In tutta questa nuova situazione,

a chi meno si rivolge l’attenzione

è ai figli che nel silenzio o in un capriccio

nascondono le vere sofferenze di questo bisticcio.

E’ a loro che voglio dire apertamente:

voi non c’entrate in questo “incidente”.

Se si è scelto di mutilare questa famiglia

L’incoerenza non è in voi, ma in chi è immaturo da tenerne le briglia.

Paola Maffei 6 novembre 2018 ore 14.40

Lei: Voglio il divorzio e l’affidamento esclusivo del bambino!

Lui: Esclusivo, ma è anche mio!

Lei: Tuo? Io l’ho partorito, non tu! I bambini sono delle madri, li facciamo noi e solo noi, sono nostri! E voglio il mantenimento!

Lui: Ma come, è tuo ma vuoi crescerlo coi soldi miei?

Lei: E’ anche tuo, mica l’ho fatto da sola…

La sinistra politica e mediatica e le associazioni di genere sono contro ogni legge egualitaria ed equitaria.

Il ddl Pillon, spiegato bene, scrive sabato 10 novembre 2018 "Il Post". Vuole cambiare le leggi su separazione, divorzio e affido condiviso dei minori: è molto contestato da più fronti, con gli stessi argomenti. Lo scorso agosto è stato assegnato alla commissione Giustizia del Senato il disegno di legge 735, meglio conosciuto come “ddl Pillon”, che introduce una serie di modifiche in materia di diritto di famiglia, separazione e affido condiviso dei e delle minori. Il disegno di legge prende il nome dal senatore della Lega Simone Pillon, uno degli organizzatori del Family Day, uno dei portavoce delle principali battaglie dell’integralismo cattolico e il promotore del gruppo parlamentare Vita famiglia e libertà. È un progetto molto contestato da avvocati, psicologi e operatori che si occupano di famiglia e minori, dai centri antiviolenza e dai movimenti femministi che il 10 novembre manifesteranno in tutta Italia, ma anche dalle relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e la discriminazione contro le donne che lo scorso 22 ottobre hanno inviato una lettera al governo italiano.

Il contratto di governo e l’obiettivo della riforma. Nel “contratto di governo” a cui spesso gli esponenti dell’attuale maggioranza si richiamano, cioè il documento con il quale Lega e M5S hanno definito i progetti della loro alleanza, è presente il contenuto generale del disegno di legge Pillon: equili­brio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari; mantenimento in forma di­retta senza automatismi; contrasto della cosiddetta a­lienazione genitoriale. Non è citata esplicitamente, invece, la mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti figli minorenni. Pillon ha spiegato l’obiettivo della sua legge: una «progressiva de-giurisdizionalizzazione» (il conflitto familiare non deve cioè arrivare di norma in tribunale) e la volontà di rimettere «al centro la famiglia e i genitori» lasciando al giudice il «ruolo residuale di decidere nel caso di mancato accordo». Pillon ha citato anche Arturo Carlo Jemolo, giurista e storico cattolico: «Come soleva dire Arturo Carlo Jemolo, la famiglia è un’isola che il diritto può solo lambire, essendo organismo normalmente capace di equilibri e bilanciamenti che la norma giuridica deve saper rispettare quanto più possibile». Negli ultimi anni le questioni relative all’affidamento dei figli e delle figlie minori nei casi di separazione dei genitori sono state riformate in modo significativo, soprattutto con la legge 8 febbraio 2006, n. 54. Prima del 2006, nonostante fosse comunque previsto l’affidamento congiunto o alternato, il tribunale aveva il compito di stabilire a quale genitore i figli dovessero essere affidati in via esclusiva. Nel 2006 è stato invece messo a regime il principio dell’affido condiviso in caso di separazione, salvo i casi in cui questo potesse essere dannoso per i-le minori. I dati ISTAT mostrano che la legge ha funzionato, e che nelle separazioni e nei divorzi l’affidamento condiviso ha ora percentuali decisamente prevalenti: «Fino al 2005, è stato l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre la tipologia ampiamente prevalente. Nel 2005, i figli minori sono stati affidati alla madre nell’80,7 per cento delle separazioni e nell’82,7 per cento dei divorzi». A partire dal 2006, in concomitanza con l’introduzione della legge numero 54, la quota di affidamenti concessi alla madre si è ridotta. Il sorpasso vero e proprio è avvenuto nel 2007 (72,1 per cento di separazioni con figli in affido condiviso contro il 25,6 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre), per poi consolidarsi ulteriormente. Pillon sostiene però che i dati non mostrino la realtà: che ci sia una «violazione di fatto della legge 54/2006 sull’affido condiviso», che sarebbe rimasta «solo un nome sulla carta». Dice che nel 90 per cento dei casi «non è cambiato nulla» e che «ci si ritrova di fronte a un affido che nei fatti è ancora esclusivo». Pillon fa probabilmente riferimento ad alcuni dati, che riguardano però soprattutto questioni economiche assimilando, di fatto, l’affido esclusivo a quello condiviso con residenza prevalente presso la madre: come scrive Valigia Blu, «per quanto riguarda l’assegnazione della casa coniugale è vero che nel 69 per cento dei casi quando c’è un figlio minore va all’ex moglie e che il 94 per cento delle separazioni con assegno di mantenimento sia corrisposto dal padre».

Il ddl Pillon. Il disegno di legge 735 si compone di ventiquattro articoli e prevede che le disposizioni introdotte, una volta entrate in vigore, si applichino anche ai procedimenti pendenti. Le riforme al diritto di famiglia che il ddl introduce sono principalmente quattro:

1 – mediazione obbligatoria e a pagamento. Il ddl Pillon, per evitare che il conflitto familiare arrivi in tribunale, introduce alcune procedure di ADR, un acronimo che vuol dire Alternative Dispute Resolution: sono metodi stragiudiziali di risoluzione alternativa delle controversie, e ne fanno parte sia la mediazione che la coordinazione genitoriale. Il ddl prevede in particolare di introdurre la mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni «a pena di improcedibilità», dicendo esplicitamente che l’obiettivo del mediatore è «salvaguardare per quanto possibile l’unità della famiglia». Il ddl (all’articolo 1) istituisce quindi l’albo professionale dei mediatori familiari e precisa chi può esercitare quella professione: tra loro «anche agli avvocati iscritti all’ordine professionale da almeno cinque anni e che abbiano trattato almeno dieci nuovi procedimenti in diritto di famiglia e dei minori per ogni anno». Il mediatore familiare (articolo 2) è tenuto al segreto professionale e nessuno degli atti o dei documenti che fanno parte del procedimento di mediazione familiare «può essere prodotto dalle parti nei procedimenti giudiziali», a eccezione dell’accordo finale raggiunto. L’articolo 3 spiega come si svolge questa mediazione. Può durare al massimo sei mesi, i rispettivi legali, dopo il primo incontro, possono essere esclusi negli incontri successivi dal mediatore, e l’accordo raggiunto durante la mediazione (chiamato “piano genitoriale”) deve essere «omologato» dal tribunale entro 15 giorni. Si precisa, infine, che «la partecipazione al procedimento di mediazione familiare è volontariamente scelta», ma più avanti, all’articolo 7, si dice che per le coppie con figli minorenni la mediazione è «obbligatoria». L’articolo 4 aggiunge che è gratuito solo il primo incontro di mediazione, mentre gli altri sono a carico delle due persone che si stanno separando. Se nell’esecuzione del piano genitoriale nascono dei problemi, il ddl prevede l’introduzione di un’ulteriore procedura di ADR, affidata al coordinatore genitoriale: sempre a pagamento. Nel piano genitoriale devono essere presenti, tra le altre cose, una serie di indicazioni molto precise: luoghi abitualmente frequentati dai figli; scuola e percorso educativo del minore; eventuali attività extra-scolastiche, sportive, culturali e formative; frequentazioni parentali e amicali del minore; vacanze.

2 – equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari. Nel ddl si dice (articolo 11) che «indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori» il minore ha diritto a mantenere «un rapporto equilibrato e continuativo con il padre e la madre, a ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambe le figure genitoriali e a trascorrere con ciascuno dei genitori tempi adeguati, paritetici ed equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale». I figli dovranno dunque trascorrere almeno dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, con ciascun genitore, a meno che non ci sia un «motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica» dei figli stessi. Non solo: i figli avranno il doppio domicilio «ai fini delle comunicazioni scolastiche, amministrative e relative alla salute».

3 – mantenimento in forma diretta senza automatismi. Oltre che il tempo, si prevede che anche il mantenimento sia ripartito tra i due genitori. Il mantenimento diventa dunque diretto (ciascun genitore contribuirà per il tempo in cui il figlio gli è affidato) e il piano genitoriale dovrà contenere la ripartizione per ciascun capitolo di spesa, sia delle spese ordinarie che di quelle straordinarie. Si precisa che andranno considerate sempre «le esigenze del minore, il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore». Fermo il doppio domicilio dei minori presso ciascuno dei genitori, si aggiunge che il giudice può stabilire che i figli mantengano la residenza nella casa familiare, indicando in caso di disaccordo quale dei due genitori può continuare a risiedervi. Se la casa è cointestata, il genitore a cui sarà assegnata la dovrà versare all’altro «un indennizzo pari al canone di locazione computato sulla base dei correnti prezzi di mercato». Non può invece «continuare a risedere nella casa familiare il genitore che non ne sia proprietario o titolare di specifico diritto di usufrutto, uso, abitazione, comodato o locazione e che non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio».

4 – alienazione genitoriale. Il ddl vuole contrastare la cosiddetta “alienazione parentale” o “alienazione genitoriale”, intesa come la condotta attivata da uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) per allontanare il figlio dall’altro genitore (definito “genitore alienato”). Nella scheda di presentazione del ddl al Senato si dice che «nelle situazioni di crisi familiare il diritto del minore ad avere entrambi i genitori finisce frequentemente violato con la concreta esclusione di uno dei genitori (il più delle volte il padre) dalla vita dei figli e con il contestuale eccessivo rafforzamento del ruolo dell’altro genitore». Gli articoli 17 e 18 del ddl dicono dunque che se il figlio minore manifesta «comunque» rifiuto, alienazione o estraniazione verso uno dei genitori, «pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori» stessi, il giudice può prendere dei provvedimenti d’urgenza: limitazione o sospensione della responsabilità genitoriale, inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore e anche il «collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata». Di alienazione genitoriale si parla anche all’articolo 9, quando si dice che il giudice può punire con la decadenza della responsabilità genitoriale o con il pagamento di un risarcimento danni le «manipolazioni psichiche» o gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento». E si parla di «ogni caso ove (il giudice, ndr) riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori». In commissione Giustizia del Senato al ddl 735 sono associati altri due atti: il 45 e il 768. Nel primo, presentato da Paola Binetti, tra le altre cose si prevede la sospensione della potestà genitoriale «in caso di calunnia da parte di un genitore o di un soggetto esercente la stessa a danno dell’altro». Modifica poi l’articolo 572 del codice penale, la norma che punisce la violenza domestica: prevede che i maltrattamenti debbano essere sistematici e rivolti «nei confronti di una persona della famiglia o di un minore».

Le critiche al ddl Pillon. Il ddl presentato dal senatore Pillon (che è anche un avvocato e un mediatore familiare) è stato molto criticato e considerato non emendabile, cioè da rifiutare completamente, da diverse associazioni di avvocati, psicologi e operatori che si occupano di famiglia e minori; da giuristi, anche cattolici, da giudici minorili, dai centri antiviolenza, dai movimenti femministi e anche dalle relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e la discriminazione contro le donne, Dubravka Šimonović e Ivana Radačić, che lo scorso 22 ottobre hanno scritto una lettera preoccupata al governo italiano. Nella lettera dell’ONU si dice che le modifiche introdotte dal ddl porteranno a «una grave regressione che alimenterebbe la disuguaglianza di genere» e che non tutelano le donne e i bambini che subiscono violenza in famiglia. Le critiche dell’ONU riprendono punto per punto quelle già avanzate in Italia da vari fronti, che sono tutti compatti e concordi nel dire che cosa nel ddl non funziona.

1 – ostacola il divorzio. Il ddl vuole rendere più complicato e oneroso l’accesso alla separazione e al divorzio, introducendo esplicitamente all’articolo 1 il concetto di “unità familiare” e rendendo di fatto separazione e divorzio procedure complesse e soprattutto accessibili solo a chi se le può permettere dal punto di vista economico. Questo, anche in caso di separazioni consensuali tra persone che hanno un figlio minore. Lo si spiega bene qui: attualmente in una situazione di separazione serena e condivisa «è sufficiente una consulenza legale per presentare istanza al tribunale e definire la pratica con dei tempi abbastanza brevi e dei costi limitati». Se passasse il disegno di legge Pillon, invece, si dovrebbe pagare obbligatoriamente un mediatore; andrebbe steso un piano genitoriale molto dettagliato (anche su amicizie e frequentazioni dei figli); ogni modifica del piano comporterebbe altro tempo e nuove spese (per esempio se il figlio smette di giocare a calcio e decide di giocare a pallavolo). Aumenterebbero, insomma, i costi delle separazioni e questo metterebbe in difficoltà soprattutto le donne, visto che sono il più delle volte la parte economicamente svantaggiata.

2 – logica adultocentrica. A differenza di quanto è stato valido fino a oggi nel diritto di famiglia (la priorità dell’interesse del minore e del genitore più debole), il ddl porta avanti un principio adultocentrico. Il principio di bi-genitorialità – già previsto da molte convenzioni internazionali – prevede che il minore abbia il diritto di avere un rapporto significativo con entrambi i genitori a meno che tale rapporto non sia nocivo per il minore stesso. Il ddl non tutela però l’interesse del minore soprattutto quando entra in gioco il concetto di alienazione parentale, come vedremo. E trasforma la bi-genitorialità in un principio dell’adulto. Non solo: dell’adulto economicamente più forte.

Ancora: il piano genitoriale redatto a pagamento durante la mediazione riduce la libertà di scelta del minore, essendo molto dettagliato e molto rigido nella sua applicazione. Viola, secondo chi lo critica, anche tutte le normative internazionali che chiedono ai legislatori, soprattutto nell’interesse dei e delle minori, di favorire la flessibilità e l’elasticità nelle regolamentazioni. La tutela e il diritto del minore alla massima continuità di vita e di abitudini anche in caso di separazione, viene poi stravolto dalla riforma sull’assegnazione della casa familiare, che mette al centro il principio di proprietà della casa stessa.

3- bi-genitorialità coatta. Sul principio di bi-genitorialità a tutti i costi come principio a favore dell’adulto, l’Unione Camere Minorili ha scritto che il ddl si occupa del minore «come di un “bene” che deve essere diviso esattamente a metà come un oggetto della casa familiare». Il Coordinamento italiano per i servizi maltrattamento all’infanzia (Cismai) ha fatto sapere poi che «la divisione a metà del tempo e la doppia residenza dei figli ledono fortemente il diritto dei minori alla stabilità, alla continuità e alla protezione, per quanto possibile, dalle scissioni e dalle lacerazioni che inevitabilmente le separazioni portano nella vita delle famiglie». Il minore da soggetto, torna ad essere un oggetto del diritto. Il ddl pretende poi un’equiparazione astratta tra genitori, in nome di falsi principi egualitari: ignora cioè le reali condizioni di squilibrio di genere che esistono tra i genitori. Non tiene conto del gap salariale e occupazionale di genere o del fatto che molte donne, come dicono i dati, o lasciano o perdono il lavoro dopo la maternità. Una donna che è anche madre riuscirà difficilmente a dare lo stesso tenore di vita che al figlio era garantito durante la convivenza e che potrà continuare ad essere garantito dal padre, causando enormi squilibri e avendo come conseguenza anche la possibilità di perdere l’affidamento. La bi-genitorialità attraverso la divisione dei tempi e il mantenimento diretto si trasforma dunque, in realtà, in un nuovo principio a vantaggio dell’adulto economicamente più forte. Il genitore che si trova nella situazione più difficile o sceglierà di non separarsi o sarà sottoposto a un ricatto economico dovendo affrontare la separazione al prezzo di una crescente precarietà.

 4 – privatizzazione della violenza. Il ddl propone soluzioni standard che non tengono conto della diversità delle situazioni, e che possono essere devastanti: il ddl introduce infatti l’obbligatorietà del ricorso un mediatore privato a pagamento nelle separazioni con figli minori, comprese quelle legate a violenza e abusi. Può svolgere il ruolo di mediatore anche un avvocato iscritto all’ordine da almeno cinque anni che abbia trattato «almeno dieci nuovi procedimenti in diritto di fami­glia e dei minori per ogni anno». La mediazione è affidata a figure che non possono essere specializzate sul tema della violenza e che dunque non possono affrontare questo tipo di dinamica. Nella lettera delle relatrici delle Nazioni Unite al governo italiano si ricorda che la mediazione familiare può «essere molto dannosa se applicata ai casi di violenza domestica» e che tale imposizione viola la Convenzione di Istanbul che l’Italia ha sottoscritto nel 2003. La mediazione, sostanzialmente, privatizza il conflitto spostandolo in un ambito in cui vale l’obbligo di riservatezza: se durante il percorso di mediazione dovessero verificarsi o emergere degli abusi, questi non risulterebbero. L’obbligo di segretezza, si dice sempre nella lettera, «limita il potere dell’autorità giudiziaria» e istituzionalizza la violenza all’interno della famiglia: sollevando i tribunali dai loro compiti e occultando la violenza per delegata giustizia. Funzionando su soluzioni standard, il ddl “dimentica” infatti i casi in cui le separazioni sono dovute a violenza domestica (psicologica, sessuale, economica o fisica) costringendo la vittima a negoziare con il proprio aggressore. Non definisce poi che cosa sia la «violenza» né la inserisce nell’intero iter giudiziario per la regolamentazione dei rapporti tra genitori. Il testo cita la violenza anche all’articolo 9 quando dice che il giudice può intervenire sull’affidamento in caso di «accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false»: secondo i centri antiviolenza, considerando la violenza come il prodotto di false accuse e sanzionandola, il ddl minaccia apertamente le donne che osano denunciare o anche solo parlare degli abusi che subiscono, ma anche i minori che manifestano paure. Non solo: poiché prevede eccezioni solo nei casi in cui la violenza domestica è “comprovata” costringerà i figli e le figlie, in nome del principio di bi-genitorialità coatta, ad avere rapporti con la figura genitoriale violenta. La giustizia penale non ha infatti gli stessi tempi di quella civile, anzi: e dunque in attesa del giudizio in sede penale i e le minori saranno costretti a frequentare la casa del genitore violento. L’atto numero 45 associato al ddl Pillon sostituisce poi l’abitualità del comportamento violento con la sistematicità affinché il reato sia punibile. Cancella così il tratto distintivo della violenza domestica stessa che si compone di un’alternanza tra abusi e momenti di pentimento e di serenità chiamati “luna di miele”: la violenza domestica, insomma, non è mai continua ma procede tra alti e bassi. Come ha spiegato Teresa Manente, avvocata di Differenza Donna che fa parte della rete DiRe e che da anni si occupa dell’ufficio delle avvocate penaliste all’interno dei centri antiviolenza, «La giurisprudenza ha stabilito che i periodi di normalità non escludono l’abitualità della violenza perché sono fatti apposta per tenere sottomessa la donna nel maltrattamento all’interno del rapporto (..) Per questo togliere l’abitualità e sostituirla con la sistematicità, significa negare il fenomeno della violenza domestica e molti uomini violenti sarebbero assolti». L’atto 45 restringe dunque il reato. Introduce poi la pena accessoria della sospensione della “potestà genitoriale” se il reato di calunnia è commesso da un genitore a danno dell’altro genitore: la modifica proposta disincentiva, di nuovo, la presentazione di denunce da parte delle donne vittime di violenza domestica.

5 – la presunta alienazione parentale. La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (PAS, dalla formula in inglese) è un concetto che venne introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner. Viene descritta come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. Secondo Gardner questa sindrome sarebbe il risultato di una presunta “influenza” sui figli da parte di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che porta i figli a dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore (definito “genitore alienato”). Fin da subito, la teoria di Gardner fu molto contestata nel mondo scientifico-accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Per lo stesso motivo non è nominata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5), che è la principale fonte per i disturbi psichiatrici ufficialmente riconosciuta in tutto il mondo, e non è considerata nemmeno dall’APA (American Psychological Association). Nonostante la mancanza di prove scientifiche a supporto, l’alienazione genitoriale – intesa comunque non come sindrome di cui soffrono i minori (PAS), ma come condotta attivata all’interno di una famiglia che si sta sfaldando e che viene ritenuta esistente nel momento in cui i bambini e le bambine non vogliono più vedere uno dei due genitori (AP) – viene presa in considerazione già molto spesso nelle aule dei tribunali e difesa da diverse associazioni. Soprattutto nelle situazioni di maltrattamento, l’alienazione genitoriale viene infatti utilizzata in maniera strumentale dai padri per screditare le donne che in sede di separazione richiedono protezione a favore dei figli che si rifiutano di incontrare quei padri perché traumatizzati dai loro comportamenti violenti. Il ricorso all’alienazione parentale finisce dunque per non riconoscere il trauma dei bambini e delle bambine e per colpevolizzare invece la madre (già vittima di violenza) ritenendola responsabile di comportamenti inadeguati. Un richiamo all’Italia in questo senso era stato presentato nel 2011 dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite. L’alienazione parentale in nome della bi-genitorialità rischia di far riferimento a un principio di bi-genitorialità a tutti i costi e di genitorialità disgiunta da tutto il resto, o meglio: a prescindere dal contesto, anche quando il contesto è violento. Tende a confondere la violenza con il conflitto interno a una coppia che si sta separando, afferma che uno dei due genitori è responsabile della qualità della relazione tra i figli e il genitore che ha agito con violenza, colpevolizza le vittime e, di fatto, non protegge i bambini che assistono ai maltrattamenti. Il ddl Pillon va oltre: prevede che quando il minore rifiuti il rapporto con uno dei genitori, il giudice sanzioni l’altro «pur in assenza di prove fattuali o legali», come dice esplicitamente il testo. Le sanzioni sono molto gravi e immediate. Considera cioè automaticamente le accuse contro il genitore violento come il risultato di un processo di alienazione messo in atto dall’altro genitore, e propone una logica punitiva nei confronti dei minori considerati – di nuovo e automaticamente – inattendibili.

In conclusione. In molte e molti hanno affermato che il ddl è una proposta maschilista, punitiva nei confronti delle madri e che porta a un arretramento dei diritti dei e delle minori. I movimenti femministi hanno a loro volta ribadito che la riforma è un grave attacco alle donne e alle conquiste ottenute con fatica negli ultimi decenni nell’ambito del diritto e della giurisprudenza sulla famiglia e sulla violenza domestica. La lettera delle Nazioni Unite si spinge anche oltre affermando che è una misura repressiva e il sintomo di «una tendenza, espressa attraverso le dichiarazioni di alcuni funzionari governativi» e attraverso altri provvedimenti dei partiti di maggioranza «contro i diritti delle donne». In Italia, si dice, è in atto, il «tentativo di ripristinare un ordine sociale basato su stereotipi di genere e relazioni di potere diseguali e contrarie agli obblighi internazionali in materia di diritti umani».

Come hanno risposto alle critiche. Se le critiche al ddl sono molto articolate e precise, non altrettanto lo sono state le risposte che, da parte di chi lo sostiene, tendono a riproporre le premesse generali su cui il ddl stesso è stato scritto. Pillon ha detto che non si tratta di un’iniziativa contro le donne e ha genericamente difeso il principio di bi-genitorialità ribandendo che «non possiamo sacrificare un genitore sull’altare dell’habitat del figlio. Certo, per un figlio è meglio una casa sola con entrambi i genitori. Ma se questo non è possibile, è meno male alternare le case che perdere un genitore, che alla fine è quasi sempre il padre». Pillon ha spiegato che la mediazione aiuta i genitori a trovare un accordo, che in caso di violenza il genitore violento sarà escluso dall’affidamento, che il ddl non interviene sull’assegno per il coniuge ma su quello per il figlio, e che il piano genitoriale tiene conto del tenore di vita cui è abituato il figlio: «Chi ha più mezzi contribuisce di più». Rispondendo a una domanda sulla difficoltà che il ddl introduce per decidere di separarsi o di divorziare, Pillon ha detto: «Certo, a me piacerebbe offrire a chi pensa di divorziare degli incentivi per non farlo. Ma sarà un passaggio ulteriore. Questa legge è per i figli». A difendere il ddl e a rivendicarne i passaggi più significativi sono poi le cosiddette associazioni dei padri separati, con le quali Pillon ha dichiarato di aver scritto la proposta. Queste associazioni portano avanti da tempo due battaglie principali, accolte di fatto dal ddl: quella economica (la possibilità di vedersi portare via la casa con l’assegnazione della stessa al minore, collocato spesso con la madre) e la fine dell’assegno di mantenimento nei confronti del minore e del coniuge più debole. In un’intervista su Avvenire Vittorio Vezzetti, pediatra, fondatore dell’associazione “Figli per sempre”, ha spiegato che «era assolutamente urgente colmare l’attuale disparità tra le figure genitoriali dopo la separazione che relega l’Italia agli ultimi posti fra i Paesi occidentali in tema di bigenitorialità».

L’iter del ddl. Il ddl è attualmente in discussione alla commissione Giustizia del Senato, a cui è stato assegnato in sede redigente: cioè può fare tutto il lavoro sulla legge, emendandola, esaminandola e poi votandola articolo per articolo. All’assemblea spetterà solamente la votazione finale sul provvedimento nel suo complesso. Terminato il lavoro in commissione (comprese le audizioni), un quinto della commissione stessa, un decimo di tutti i senatori o il governo possono però chiedere che si torni a lavorare in sede referente, cioè col metodo più tradizionale che prevede che il grosso del lavoro venga svolto dall’aula. Per quanto riguarda il ddl Pillon le audizioni previste sono più di cento e sono iniziate lo scorso 23 ottobre. Non si è dunque ancora arrivati al punto in cui si può chiedere la sede referente. Finora è successo due volte in questa legislatura che due provvedimenti (legittima difesa e voto di scambio) assegnati in sede redigente alla commissione Giustizia siano stati poi trasferiti in sede referente. In base alle dichiarazioni fatte finora dai membri della commissione, è ragionevole pensare che anche il ddl Pillon possa tornare in sede referente. Il ddl ha il sostegno della Lega e del M5S, ma alcuni e alcune esponenti del M5S si sono dichiarate contrarie o ne hanno preso timidamente le distanze. Nell’ultimo numero del settimanale Elle c’è un’intervista a Luigi Di Maio che, tra le altre cose, ha detto che la legge sulla riforma del diritto di famiglia «non è nei programmi di approvazione dei prossimi mesi perché così non va» e che il suo partito la modificherà. Il ddl non è sostenuto né dal PD né da LeU.

No Pillon, da Milano a Napoli in migliaia in piazza contro la legge sull’affido condiviso: “Viola i diritti. Va ritirata”. Le manifestazioni contro il disegno di legge del senatore leghista hanno coinvolto oltre 60 città italiane. A protestare non solo donne, ma anche moltissimi uomini che considerano "fuori tempo" la proposta, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 novembre 2018. Sono scese in piazza a migliaia, da Milano a Roma, passando per Genova, Venezia, Bologna, per dire “no” al Ddl Pillon. Le manifestanti hanno mostrato cartelli e organizzato flashmob travestite da streghe, invadendo letteralmente oltre 60 città italiane. Obiettivo: bloccare la riforma sull’affido condiviso promossa dal senatore leghista Simone Pillon. Ad organizzare la protesta, pacifica, il neo comitato No Pillon, sostenuto da numerose altre associazioni, tra cui Non Una di Meno e Di.Re, la rete dei centri anti violenza. Accanto a donne, che considerano il Ddl ‘discriminatorio’ nei loro confronti, anche moltissimi uomini, convinti anche loro che la proposta di legge debba essere “ritirata”. Secondo le femministe l’approvazione del decreto “viola i diritti” oltre che essere “fuori tempo“. “Sulle nostre vite nessuna mediazione, ora e sempre agitazione”, si legge nei cartelli sventolati a Venezia. O ancora: “Pillon, quanti schiaffi servono per riconoscere la violenza?”. Il riferimento è ad alcuni punti del disegno di legge, tra cui quello che rende obbligatorio l’uso di un mediatore a spese dei due coniugi per almeno sei mesi dopo la separazione, anche se avviene in maniera consenziente. Durante le manifestazioni non sono mancate anche le voci fuori dal coro. Come a Napoli dove in contemporanea è stata organizzata una raccolta firme a favore del Ddl Pillon da parte del gruppo “Movimento per l’Uguaglianza Genitoriale”.

Ddl Pillon, a Reggio Calabria la raccolta firme a sostegno dell’affido condiviso. A Reggio Calabria la raccolta firme in sostegno del ddl, soddisfatto il coordinatore di Mdm, scrive l'11 novembre 2018 Serena Guzzone su Stretto web. “Ottimi risultati anche da Reggio Calabria nella seconda giornata nazionale di raccolta firme a favore del DDL 735 Pillon!”. “Con grande soddisfazione, racconta Massimo Praticò, coordinatore per Reggio Calabria MDM-abbiamo accolto nel nostro gazebo, allestito a piazza Camagna tutta la giornata di ieri 10 novembre, tanta gente costruendo un dialogo ed un confronto aperto in un ambiente di serenità. L’occasione- prosegue- è stata importante per poter illustrare realmente cosa prevede la riforma sull’ affido condiviso, un’iniziativa che finalmente fa luce su un problema attuale ed un esigenza sociale reale sempre più crescente e che necessita di un confronto civile e democratico non più rinviabile. I toni miti della nostra voce, subordinati alla reale condizione di interpretare un bisogno dei figli, sono stati quanto di più nobile potessimo esprimere in una condizione di impoverimento sociale a contrasto di una “società chiusa”. L’incapacità da parte di gruppi politicamente ideologizzati di ascoltare e confrontarsi, corrompe la concezione della realtà facendo scadere il dibattito su polemiche e presunti scontri fra sessi che non hanno alcuna ragione d’essere. L’iniziativa a favore del ddl Pillon, invece, nasce esclusivamente dall’ amore per i nostri figli, ove nessuna notizia, polemica e problematica potrà essere anteposta al supremo interesse degli stessi. Ringraziamo- conclude Praticò– tutti gli uomini e le donne che sostengono questa iniziativa e questa riforma che ha come interesse non quello di avvantaggiare una parte della coppia o un genere sessuale sull’altro, ma che si concentra solo sull’interesse e sulla tutela del bambino. 

Ringraziamo come sempre la forte collaborazione e partecipazione dell’associazione culturale ‘Stanza 101’, che ci supporta ad ogni iniziativa”.

Manifestazioni No PIllon: è davvero così? "Il DDL 735 non intende in nessuna maniera avallare le condotte violente di un genitore verso l’altro o, peggio, verso i figli", scrive l'11 novembre 2018 ADAMO ASSOCIAZIONE su Basilicata 24. Come ampiamente annunciato, nella giornata odierna in moltissimi centri italiani si sono tenute manifestazioni e iniziative di protesta contro il DDL 735. Gli attori coinvolti, associazioni di tutela dei diritti delle donne, sindacati e numerosi esponenti della sinistra italiana hanno ritenuto opportuno palesare la propria contrarietà argomentando che l’iniziativa del Senatore Pillon intende, tra le altre cose, avallare la violenza genitoriale (dove “genitoriale” sta ovviamente per “paterna”) e ripristinare la più becera cultura maschilista. Se il DDL Pillon intendesse davvero propugnare quanto appena ipotizzato, noi saremmo in prima linea a protestare insieme a tutti coloro che stamane hanno affollato strade e piazze. E lo faremmo con assoluta convinzione e veemenza. Perché nessuno più di noi ha orrore della violenza e nessuno più di noi vuole essere propositivo e partecipe ad un progresso culturale che porti ad una genitorialità consapevole, moderna e sempre in linea con le esigenze dei figli. Purtroppo, spiace notare che, ancora una volta, la mobilitazione generale di oggi risulta assolutamente mal riposta e del tutto immotivata. Viene da chiedersi, senza nessuna velleità polemica e con poca tema di smentite, se gli organizzatori abbiano davvero letto e compreso quali sono gli intenti del disegno di legge. Addirittura, ci sarebbe da interrogarsi su quali scopi strumentali risiedano dietro ad una sollevazione che ha come obiettivo una proposta che mira unicamente a rinnovare e ad allineare le norme per l’affido dei minori, superando finalmente la aberratio legis del genitore collocatario (dove per “genitore collocatario” sta ovviamente per “madre”) e di un assetto standardizzato e volto a sancire una monogenitorialità di fatto, mascherata da un affido congiunto in realtà squisitamente formale. Il DDL 735 non intende in nessuna maniera avallare le condotte violente di un genitore verso l’altro o, peggio, verso i figli. Al contrario: in maniera estremamente circostanziata e cristallina, stabilisce che eventuali condotte inopportune (non solo violenza fisica o psicologica ma anche trascuratezza e negligenza) comportano in automatico l’allontanamento del genitore che se ne è macchiato. In merito all’altra vexata quaestio relativa all’assetto economico, è assolutamente vero che viene cancellato l’automatismo dell’assegno di mantenimento per i figli (corrisposto nel 97% dai padri) ma solo perché viene sostituito da una forma diretta che obbliga i genitori a corrispondere in maniera non mediata dall’altro coniuge le somme di volta in volta necessarie a soddisfare le esigenze dei minori, dividendole per capitoli di spesa ed in proporzione al reddito di ciascuno. Per quanto riguarda gli allarmi relativi all’assegno perequativo spettante all’ex coniuge, davvero non si capisce quale sia la ragione di tanto clamore: questa norma, infatti, nulla aggiunge e nulla toglie ai vigenti provvedimenti in materia, dato che legifera unicamente sulle modalità di affidamento dei minori. In estrema sintesi, il DDL vuole principalmente garantire il diritto del minore di beneficiare, nel miglior modo possibile, della possibilità di frequentare entrambi i genitori, con tempi quanto più possibile simili a quelli dei figli di coppie non separate. Anzi, paradossalmente, impone a genitori negligenti che intendono in qualche modo ridimensionare il proprio tempo e le proprie risorse nei confronti della prole, di affrontare le proprie responsabilità e di partecipare attivamente all’educazione e al sostegno dei bambini senza mai lasciare da solo l‘altro genitore. È, quindi, una legge moderna, in linea con molti Paesi che comunemente consideriamo come dei laboratori di progresso sociale e civile e soprattutto va incontro a quelle che sono le direttive stabilite dalla CEDU che, proprio per l’inosservanza dell’articolo 8, ha sanzionato numerose volte il nostro Paese in virtù delle infinite sentenze che esautorano le prerogative genitoriali. La mediazione assistita, inoltre, permette di calibrare perfettamente sulle esigenze di ciascuna famiglia il piano genitoriale. Consente un confronto e favorisce il dialogo tra i coniugi guidandoli a scrivere da soli dei provvedimenti che saranno poi ratificati. E si pone come una valida e civile alternativa alle sentenze scritte con il ciclostile che pretendono di adattare a ciascun contesto delle risoluzioni che sono meramente giurisprudenziali e odiosamente standardizzate (casa di proprietà al coniuge collocatario, assegno medio di 500 euro, frequentazione per il non collocatario stabilita in due pomeriggi a settimana e un weekend alternato). Davvero è difficile comprendere le ragioni di un tale e immotivato ostracismo ma rispettiamo le opinioni purtroppo discutibili di chi, probabilmente, interpreta la realtà non con le idee o gli ideali ma con l’ideologia. Ci rammaricano gli attacchi di chi intende dipingere i padri separati come una potente lobby che vuole imporre i propri interessi e sminuire conquiste sociali che, invece, salutiamo con partecipazione e sosteniamo convintamente, ma la lotta per i diritti dei nostri figli ci impone energia ed ottimismo. E quindi, anche in questo frangente, restiamo speranzosi che si riesca a dialogare con serenità e pacatezza e a contribuire all’ulteriore miglioramento di un progetto finalmente dalla parte dei cittadini.

Famiglia, relazioni affettive - Affidamento dei figli naturali - Chi ha paura del ddl Pillon e della bigenitorialità? Scrive Adriano Marcello Mazzola il 21/09/2018 su Persona e Danno.

Lo status quo nel diritto di famiglia. Il disegno di legge 735/2018 a firma del senatore Pillon “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità” è giunto una settimana fa in Commissione al Senato ed ha subito aperto il Vaso di Pandora. Si è immediatamente scatenata una opposizione esclusivamente e grettamente ideologica da parte di chi intende mantenere lo status quo, ovvero per chi sia ignaro, quello di una post famiglia (dopo lo scioglimento dell’unione padre/madre) composta dal passaggio della c.d. separazione dei genitori alla c.d. separazione daigenitori, ed ancor più correttamente quanto alla realtà, alla c.d. separazione da uno solo dei genitori. Che è nel 94% dei casi il padre, atteso che viene scelta sempre la madre come “collocataria” (termine e fattispecie inventata dalla giurisprudenza), così avendo vanificato e reso inefficace la l. 54/2006 che ha all’opposto voluto far cessare l’affido esclusivo in favore di quello condiviso. Infatti da molto tempo (almeno da 20/30 anni, ante e post 2006 nulla è cambiato) quello che si realizza di fatto e per decisione dei Tribunali è il seguente consolidato schema:

il padre deve lasciare la casa famiglia (perché?)

nella casa di famiglia rimane la donna-madre con i figli (perché?)

il padre continuerà a pagare l’eventuale quota di mutuo

il padre dovrà reperirsi un alloggio a sue spese

il padre dovrà versare il mantenimento per i figli (assegno perequativo calcolato a spanne)

il padre dovrà versare nel mantenimento per i figli anche le spese straordinarie (che sono tutto tranne che imprevedibili, perché?)

il padre perderà il contatto ed il rapporto con i figli e nell’ipotesi migliore trascorrerà con gli stessi 59 gg/anno, ossia il 16% della vita degli stessi (perché, se prima ne trascorreva il 30/40/50%?)

i genitori (e il ramo parentale) del padre perderanno il contatto ed il rapporto con i nipoti/ etc.

Questo è quello che accade e questo è quello che gli ideologi del (finto) “miglior interesse dei figli” vogliono che continui ad accadere. Una post famiglia composta da una sola regina e da un re dismesso e possibilmente allontanato. La cui regina deve continuare però a mantenere ogni privilegio: la casa ed almeno un assegno, nonchè il potere assoluto sui figli. La post famiglia dunque deve essere esclusivamente matriarcale. Il padre spettatore pagante.

La metafora. Potreste mai definire velista colui che non porta la barca - tra i venti, in mezzo al mare, sentendo l’odore del mare, stupendosi ogni giorno, certo anche nella tempesta -, non issa la vela, non poggia, non cazza, non lisca, non stramba, non regge la barra del timone, non può seguire la rotta, non può salpare l’ancora? Potreste mai definire velista solo l’armatore, ossia colui che paga il viaggio ma non partecipa al viaggio? Ebbene il velista si godrà il viaggio e le emozioni del viaggio, assumendone le decisioni, e portando la truppa dove vorrà.

L’armatore avrà pagato ed al più avrà qualche informazione a riguardo del viaggio.

Il primo veleggia, il secondo no. Il primo vive il mare. Il secondo no.

Questa è la differenza abissale ed incolmabile tra il velista/genitore collocatario ergo genitore (de facto) con affido esclusivo e armatore/genitore non collocatario.

Dunque di quale bigenitorialità vogliamo discutere? Di quella virtuale? Di quella immaginifica? Di quella raccontata fintamente? Di quella travestita da monogenitorialità?

Il diritto di famiglia fondato sulla disuguaglianza. La legge 54/2006 avrebbe dovuto già aver rivoluzionato il diritto di famiglia da tempo. Se solo la si fosse applicata. Infatti il palese ed esplicito intento della legge di 12 anni fa era di abbandonare l’affido esclusivo del minore (monogenitoriale dunque) in favore della salvaguardia della bigenitorialità. Bigenitorialità significa che entrambi i genitori devono continuare (pur dopo il dissolvimento dell’unione) a mantenere rapporti significativi e continuativi con il figlio. E per farlo uno dei due genitori non deve divenire (per volontà del giudice o per volontà dell’altro genitore) un ologramma. E l’ologramma si manifesta divenendo, da genitore presente nella vita di tutti i giorni del figlio anche seguendolo per il 30/50% del tempo, a genitore relegato a “frequentatore”/”visitatore” al 16% (w.e. alternati + 15 gg di vacanza estive) come da prassi consolidata dei tribunali. In questi 12 anni si è così consumata una aberratio legis tipica del nostro costume, ipocrita e gattopardesco: cambiato il nome, ignorata la ratio legis, il “sistema” (giurisprudenziale, fondato su quello perlomeno in parte socio-culturale ovviamente) ha sì donato formalmente l’affido condiviso a tutti o quasi (98%), relegando formalmente l’affido esclusivo solo nei casi di particolare gravità, ma sostanzialmente rimanendo sempre un affido esclusivo! Infatti come altro lo vogliamo chiamare quello in cui un genitore (nel 94% dei casi il padre, perché la mamma è sempre la mamma…) diviene “frequentatore/visitatore”, con diritto di godere del rapporto filiare solo a week end alternati (e solo da poco, anche generosamente un giorno a settimana, ovviamente dopo la scuola e sino alla cena), 15 giorni di vacanza estiva, Pasqua e Natale alternati, e telefonata programmata al pari di un carcerato? Come lo vogliamo chiamare un genitore che d’improvviso passa da una gestione equilibrata (30/40/50%) del tempo con il figlio/figli, obtorto collo al 15% come deciso dal giudice? Vogliamo continuare a chiamarlo affido condiviso solo per prenderci in giro? Questo hanno fatto quasi tutte le nostre corti di giustizia, ponendo su un piedistallo un genitore (quasi sempre la mamma) e un metro sotto (appunto, seppellendolo) l’altro genitore. Con ciò, paradossalmente, demolendo le fondamenta di una famiglia che seppure scioltasi, deve però continuare a garantire saldo il rapporto genitoriale. Per il bene dei minori, per il bene dei genitori che amano i propri figli e non ultimo per il bene della società tutta. Poiché indebolendo la cellula della famiglia si compromettono lo sviluppo emotivo, cognitivo, psicologico delle persone. E si creano soggetti disturbati, disagiati, sofferenti. Con un costo enorme di salute pubblica. Si discute della demolizione, della rimozione, della violazione di diritti inviolabili, fondamentali ex artt. 29 e 30 Cost., e art. 8 Cedu. Non di quisquillie, non di diritti reali. La discussione e la battaglia sulla bigenitorialià, come oramai ripeto da quasi un decennio, è oramai una serissima battaglia sui diritti civili. E’ la contrapposizione tra chi vuole realmente una realtà adultocentrica (con la sola mamma al centro) e chi vuole che entrambi i genitori abbiano eguali diritti e doveri dinanzi ai figli. E per farlo devono essere presenti nella vita dei figli. Chi contrasta questa uguaglianza racconta falsamente ancora oggi di una famiglia composta da un padre lavoratore indefesso che saltuariamente torna a casa e che solo raramente (e in modo rude e grezzo) si occupa dell’educazione e della cura dei figli, e di una madre che svolge l’impegnativo ruolo di casalinga e accuditrice amorevole della nutrita prole. Una cartolina dell’Italia fino agli anni ’50. La narrazione del padre minatore o camionista. Ma la società è fortemente cambiata e la gestione paritaria (amorevole e felice) nei ruoli genitoriali, nonché nell’organizzazione e nel lavoro, sono la realtà.

Il Ddl Pillon e l’Anticristo. Il senatore Pillon è diventato in queste settimane l’Anticristo, ossia il nemico escatologico del Messia, dove il Messia è rappresentato dal dogma che l’attuale assetto del diritto di famiglia italiano sia già semplicemente perfetto. Poco importa che sia invece graniticamente contrario alla bigenitorialità e fondato sull’Ancien Regime della monogenitorialità. Pillon dunque – in un oppositivo crescendo mediatico tale da ricordare l’olio di ricino e gli strumenti della propaganda fascista, quella vera, quella che disprezza con arroganza e violenza ogni altra prospettiva diversa dalla propria, raccontando l’esistenza assoluta di un’unica verità - è stato accusato di essere misogino, adultocentrico, cattolico integralista al pari dei crociati, a favore della violenza sulle donne e della pedofilia, rozzo, in conflitto d’interessi (essendo per formazione culturale anche mediatore) e chi più ne ha ne metta. E’ divenuto in un crescendo rossiniano il responsabile di tutti i mali del mondo, addirittura (pare) meritandosi una feroce satira attraverso l’imitazione di Crozza (il che a ben vedere non potrà che celebrarlo positivamente, attese le conseguenze iconiche del bravo Crozza).  I suoi sostenitori sono seguaci da abbattere ed eliminare. Citerò solo l’esempio di un’associazione (MdM) a favore della genitorialità che ad agosto ha ottenuto il patrocinio con entusiasmo (e la sala prestigiosa a Castel dell’Ovo a Napoli) per un convegno/evento che si terrà domani e che ieri ha ricevuto la revoca di detto patrocinio, su istanza di tre presunte associazioni, poiché si è azzardata l’associazione MdM a condividere il Ddl Pillon! Ideologicamente si sono subito levate le critiche feroci da più parti, soprattutto anche da noti avvocati matrimonialisti (Rimini, Bernardini De Pace, Gassani) e da varie associazioni. Scomodando argomentazioni surreali e poco pertinenti, quali “occorre affrontare caso per caso e non decidere con ciclostilati” (che è proprio quello che è avvenuto sino ad oggi! Si pensi infatti come in vari tribunali il provvedimento prestampato dell’ordinanza presidenziale indicava come genitore “collocatario” la mamma del minore). Oppure spendendo argomentazioni assurde ed inverosimili (es. “non dimentichiamoci che la violenza in famiglia è la prima causa di morte”, oggi su CorSera pag. 21), così sprofondando nella farsa: cosa c’entra il Ddl Pillon con la violenza in famiglia, che è peraltro ubiquitaria e certo non la prima causa di morte? Critiche farsesche pseudogiuridiche sono state spese da chi millanta di conoscere la materia, quali: a) esiste un divario reddituale notevole tra donna e uomo (ma che c’entra con il Ddl Pillon che si occupa del mantenimento dei figli, peraltro sempre assicurato nella sua interezza?); 2) il Ddl favorirà la violenza in famiglia, la pedofilia e gli abusi (ma che c’entra?); 3) il Ddl danneggerà le donne e i minori (ma che c’entra?); 4) il Ddl aumenterà la conflittualità (indicando gli strumenti per eliminarla?); 5) i figli non sono pacchi postali (ma il Ddl non prevede corrispondenza ma autentica condivisione); 6) il Ddl è incostituzionale (senza spiegare perché). Critiche incredibili poiché il Ddl non si occupa in alcun modo di tutto ciò. E quanto alla costituzionalità si occupa appunto invece di dare attuazione agli artt. 29 e 30 Cost.! Non è pervenuta al momento una sola critica nel merito sui principi e sugli articoli del Ddl Pillon. Ciò dimostra come il contrasto sia solo di natura ideologica ed anche politica. Una discussione squallida e meschina, occorre dirlo a voce alta. Si discute di una materia incandescente e di straordinaria importanza poiché coinvolge numeri impressionanti: qualche milione di persone, tra “separati” passati, separati attuali e separandi, coinvolgendo genitori, figli minori e non (coinvolti se vogliamo anche sino ai 26 anni quanto agli effetti del mantenimento), nonni e parenti. Un numero impressionante di persone, un problema di salute pubblica, le fondamenta stessa della società civile. Una discussione impostata con le lenti miopi di chi ideologicamente la rifiuta e la avversa nuoce gravemente alla salute di qualche milione di persone. La ammorba, la avvelena. La discussione va impostata nel merito: cosa ti piace e cosa no, spiegandone tecnicamente i perché, ma soprattutto centrando il merito non invocando aspetti che nulla attengono al decreto. Ritengo che il Ddl Pillon non sia affatto perfetto ma che sia fondato su principi assolutamente condivisibili, che devono essere salvaguardati e che per di più sono la stessa proiezione di quelli statuiti già con la l. 54/2006 sull’affidamento condiviso.

Per i pochi che l’hanno letto occorre ricordare i sacrosanti principi su cui è fondato il Ddl Pillon:

1) bigenitorialità autentica (tempi paritetici o quasi, dunque conseguentemente anche mantenimento diretto); 2) gestione immediata e ragionevole della conflittualità al fine di non trascinarla dannosamente per anni (mediazione, piano genitoriale, coordinatore genitoriale);

3) contrasto all’alienazione genitoriale, ossia uno dei fenomeni più gravi, odiosi, dannosi e impuniti.

Il Ddl Pillon vuole semplicemente garantire l’uguaglianza dei genitori dinanzi ai figli e soffocare nel minor tempo possibile la conflittualità tra i genitori.

Chi è contrario a tutto ciò lo fa per vari motivi non meglio esplicitati:

a) è a favore della disuguaglianza tra i genitori dinanzi ai figli, ritenendo un genitore più dotato e meritevole dell’altro;

b) ritiene che questa disuguaglianza sia indispensabile per continuare a garantire privilegi (casa di famiglia e assegno perequativo senza rendicontazione, potere assoluto sui figli);

c) è utile per continuare a raccontare la narrazione della donna-vittima e dell’uomo-aguzzino;

d) intende mantenere molto alta la conflittualità nel diritto di famiglia (cause lunghe, patrocini onerosissimi, consulenze infinite etc.) per motivi grettamente economici.

Occorre dire le cose come stanno, squarciando un obbrobrioso e peloso velo di ipocrisia. Entriamo finalmente nel merito del Ddl Pillon. La relazione introduttiva del Ddl è già assai chiara: “I criteri (…) sono sostanzialmente quattro: a) mediazione civile obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni; b) equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari; c) mantenimento in forma diretta senza automatismi; d) contrasto della alienazione genitoriale.”. I principi fondamentali del Ddl devono essere pienamente condivisi, proprio perché finalmente tesi a realizzare l’autentico interesse del minore. La mediazione familiare (art. 3) è volontariamente scelta dalle parti e può essere interrotta in qualsiasi momento. L'esperimento della mediazione familiare è condizione di procedibilità della “causa” e dunque l’obbligo permane solo all’inizio. La mediazione può evitare anni di grave conflittualità tra i genitori, con effetti devastanti. Certo, sappiamo che funziona solo dove non c’è elevata conflittualità ma anche quando i contendenti vengono trattati paritariamente sin dall’inizio. E’ evidente che potrà avere un senso ed una funzione solo se affidata a mediatori straordinariamente preparati, non alla qualunque. La mediazione potrà risolvere solo una parte dei conflitti/contenziosi, ad es. un quarto o un quinto? Ebbene, si avrà un quarto o un quinto di genitori in meno che si massacreranno per anni nelle aule giudiziarie!     

Il Ddl prevede che nel caso di separazione consensuale i genitori di figli minori debbano indicare nel ricorso il piano genitoriale concordato (art. 10), il che impone di dettagliare la gestione dei figli, con la misura e la modalità con cui ciascuno dei genitori provvede al mantenimento diretto dei figli, sia per le spese ordinarie sia per quelle straordinarie, anche attribuendo a ciascuno specifici capitoli di spesa, in misura proporzionale al proprio reddito e ai tempi di permanenza. Il piano genitoriale è il libretto di istruzioni che responsabilizza i genitori, senza farselo dettare dal tribunale. Si può non essere d’accordo? La figura del coordinatore genitoriale (art. 4) è già stata introdotta in alcuni tribunali e consente, su richiesta dei genitori, di gestire in via stragiudiziale le controversie eventualmente sorte tra i genitori relativamente all’esecuzione del piano genitoriale. Ad oggi spesso i genitori “separati” continuano a discutere sino allo sfinimento dopo la separazione, attraverso la triangolazione degli avvocati o mediante istanze defatiganti al Giudice, in una grave spirale di conflittualità. Ben venga il coordinatore genitoriale quale unico filtro laddove i genitori non siano capaci di gestirsi in autonomia. Si garantiscono tempi paritari (art. 11) qualora anche uno solo dei genitori ne faccia richiesta, con la permanenza di non meno di 12 giorni al mese (per evitare ampia discrezionalità del Giudice, allo stato esercitata nella sola formula stereotipata “w.e. alternati, Pasqua e Natale alternati e 15 gg di vacanze estive”, incurante delle diverse situazioni prospettate), compresi i pernottamenti, salvo comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio in casi tassativamente individuati. Il che giustifica il mantenimento diretto degli stessi.

Si prescrive al Giudice di intervenire in caso di alienazione genitoriale (artt. 17, 18) (ossia delle gravi condotte ostacolanti e finalizzate ad allontanare e cancellare l’altro genitore, pari a migliaia di casi ogni anno, e non della Pas, ossia della Sindrome da Alienazione Parentale, come molti disonesti o confusi intellettualmente continuano ancora a scrivere), ordinando al genitore che abbia tenuto la condotta pregiudizievole per il minore la cessazione della stessa condotta; disponendo con provvedimento d’urgenza la limitazione o sospensione della sua responsabilità genitoriale o l'inversione della residenza abituale del figlio minore presso l'altro genitore ovvero il collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata. Finalmente si affronta un grave fenomeno che deve essere contrastato con nettezza e non con l’impunità che ancora oggi alimenta l’alienazione genitoriale!

In conclusione. Il conflitto familiare deve essere prevenuto, immediatamente interrotto e devono essere “disarmati” i contendenti. E con regole paritarie, chiare e nette, questo avviene. Con l’ipocrisia no, con la disonestà intellettuale no, con il paraocchi ideologico no.

Chi vuole realmente l’interesse del minore si preoccupa di mettere sullo stesso piano i genitori, non di fare scivolare uno dei due verso l’abisso.

Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta- che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”. Il fenomeno della violenza fisica, sessuale, psicologica e di atti persecutori, come è stato rilevato da numerose ricerche condotte in altri Paesi, anche in Italia vede vittime soggetti di sesso maschile con modalità che non differiscono troppo rispetto all’altro sesso. Non solo. “I dati dimostrano che le modalità aggressive non trovano limiti nella prestanza fisica o nello sviluppo muscolare - continua la psicologa - anche un soggetto apparentemente più “fragile” della propria vittima può utilizzare armi improprie, percosse a mani nude, calci e pugni secondo modalità che solo i preconcetti classificano come esclusive maschili”. Ma la maggior parte dei soggetti intervistati da Sara Pezzuolo che hanno dichiarato di avere figli, ha fatto emergere l’effettiva strumentalizzazione che i bambini hanno all’interno della coppia in crisi. “E’ proprio la separazione e la cessazione della convivenza, specialmente in presenza di bambini a costituire un terreno particolarmente fertile per comportamenti che implicano una violenza psicologica”. Quali sono le pressioni più frequenti attuate dalle donne che si trasformano in vere e proprie violenze? Il 68,4% del “gentil sesso” minaccia costantemente il compagno di chiedere la separazione, togliergli casa e risorse e di ridurlo in rovina; il 58,2% lo minaccia di portargli via i figli mentre il 59,4% di ostacolare i contatti con il proprio figli. Il 43,8% delle donne addirittura minaccia il compagno di impedirgli definitivamente ogni contatto con i figli. Ma questa violenza femminile talvolta non travolge solamente il compagno: “La violenza psicologica- continua Pezzuolo - si estende spesso all’interno ambito parentale paterno. La minaccia implica pertanto che i figli non potranno avere più alcun contatto non solo col padre, ma nemmeno con nonni, zii, cugini”. L’utilizzo strumentale dei figli come mezzo di rivalsa emerge in percentuali rilevanti, indifferentemente nelle coppie coniugate, conviventi o separate, sia prima, durante e dopo la separazione. Inoltre dall’indagine emergono tipologie di violenze psicologiche sul maschio anche nell’atto della procreazione. “La paternità imposta con l’inganno comprende perlopiù casi in cui la gravidanza non è frutto di un rapporto consolidato. La partner (114 risposte, in 21 casi la moglie o compagna stabile, in 93 casi una compagna occasionale) matura la decisione di procreare e ne tiene all’oscuro l’uomo - prosegue la psicologa - mettendo in atto strategie ingannevoli, mentendo sulla sua fertilità e/o sull’uso di anticoncezionali, per poi chiedergli di “assumersi le proprie responsabilità”. Questi atteggiamenti come vengono subiti e vissuti dagli uomini? “Tale assunzione di responsabilità, quando è frutto di una scelta unilaterale imposta all’altro con l’inganno, risulta essere vissuta - e descritta nelle domande aperte - come una grave forma di violenza e prevaricazione; va detto che in alcuni casi la descrizione avviene anche attraverso toni particolarmente aspri, rabbiosi, offensivi”. L’interruzione della gravidanza contro il parere paterno si verifica nel 9,6% dei casi, la paternità imposta con l’inganno nel 10,7% mentre l’attribuzione fraudolenta di paternità, o tentativo di attribuzione nel 2,7% dei casi presi in esame. Altro fenomeno emergente che il questionario ha rilevato è proprio quello delle false denunce o accuse costruite nell’ambito delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni di convivenza. Tale problematica emerge in 512 casi sul totale 1.058 casi esaminati proprio ad appannaggio dei soggetti appartenenti alle categorie in questione. E la domanda posta agli uomini da Sara Pezzuolo che ha raccolto il maggior numero di risposte positive con il 77,2% riguarda proprio le provocazioni fisiche e verbali. Ecco alcune delle domande del questionario che Panorama.it, vi mostra con il numero dei soggetti e la percentuale di risposta.

1 - è capitato che una tua partner si sia arrabbiata nel vederti parlare con un’altra donna (Risposte: 726) 68,6%.

2 - è capitato che una tua partner ti abbia umiliato o offeso di fronte ad altre persone, trattandoti da sciocco, mettendo in ridicolo le tue idee o raccontando tuoi fatti personali (99) 66,1%.

3 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato sgradevolmente perché non riesci a guadagnare abbastanza(538) 50,8%.

4 - è capitato che una tua partner ti abbia invitato sarcastica a trovare un secondo o terzo lavoro (373) 35,2%.

5 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato perché le fai fare una vita modesta (526) 50,2%.

6 - è capitato che una tua partner ti abbia paragonato, irridendoti, a conoscenti, colleghi, mariti di amiche etc., che godono di posizioni economiche migliori della tua (405) 38,2%.

7 - è capitato che una tua partner abbia rifiutato di partecipare economicamente alla gestione familiare in maniera proporzionale al suo reddito (511) 48,2%.

8 - è capitato che una tua partner abbia criticato e/o offeso i tuoi parenti pur sapendo che questo ti ferisce (767) 72,4%.

9 - è capitato che l'atteggiamento di una tua partner sia diventato ostile quando non era lei ad avere l’ultima parola sulle scelte comuni (726) 68,2%

10 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato, in pubblico o in privato, per difetti fisici (bassa statura, calvizie, occhiali) (311) 29,3%.

11 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato, in pubblico o in privato, per abbigliamento, calzature, pettinatura, barba incolta, aspetto in generale (519) 49,1%.

12 - è capitato che una tua partner ti abbia criticato per come ti occupi della casa o per come educhi i figli, ad esempio dicendoti che sei un incapace, un buono a nulla etc. (650) 61,4%.

13 - è capitato che una tua partner ti abbia ignorato, non ti abbia parlato, non abbia preso in considerazione ciò che dici o non abbia risposto alle tue domande (720) 68,1%.

14 - è capitato che una tua partner ti abbia insultato o preso a male parole in un modo che ti ha fatto stare male (798) 75,4%.

15 - è capitato che una tua partner abbia cercato di limitare i tuoi rapporti con la tua famiglia, i tuoi figli o i tuoi amici (728) 68,8%.

16 - è capitato che una tua partner ti abbia impedito o cercato di impedirti di fare sport, di coltivare un hobby o altre attività da svolgere fuori casa (471) 44,5%.

17 - è capitato che una tua partner ti abbia imposto o cercato di importi come vestirti, pettinarti o comportarti in pubblico (418) 39,5%.

18 - è capitato che una tua partner abbia messo insistentemente in dubbio la tua fedeltà e/o la tua sincerità (638) 60,3%.

19 - è capitato che una tua partner ti abbia seguito e/o abbia controllato i tuoi spostamenti (389) 36,7%.

20 - è capitato che una tua partner abbia controllato costantemente quanto e come spendi il tuo denaro (349) 32,9%.

21 - è capitato che una tua partner abbia danneggiato o distrutto i tuoi oggetti o beni personali, o minacciato di farlo (498) 47,1%.

22 - è capitato che una partner abbia fatto del male o minacciato di farlo ai vostri figli (282) 26,6%.

23 - è capitato che una tua partner abbia fatto del male o minacciato di farlo a persone a te vicine (243) 22,9%.

24 - è capitato che una tua partner abbia fatto del male o minacciato di farlo ai vostri animali domestici (85) 8,1%.

25 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di uccidersi, o altri gesti di autolesionismo (343) 32,4%.

26 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di chiedere la separazione e/o sbatterti fuori di casa e/o volerti vedere ridotto in rovina (724) 68,4%.

27 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di portarti via i figli (615) 58,2%.

28 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di non farti più vedere i figli o di farteli vedere se e quando vuole lei (631) 59,4%.

29 - è capitato che una tua partner abbia minacciato di non farti avere più alcun contatto con i tuoi figli, nemmeno telefonico, escludendo definitivamente dalla loro vita te e la tua famiglia (464) 43,8%.

30 - è capitato che una tua partner ti abbia negato la paternità, interrompendo una gravidanza che tu avresti desiderato fosse portata a termine (102) 9,6%.

31 – è capitato che una tua partner ti abbia imposto una paternità con l'inganno (114) 10,7%.

32 - è capitato che una tua partner ti abbia fatto credere o abbia tentato di farti credere che fosse tuo un figlio concepito con un altro uomo (29) 2,7%.

33 - è capitato che una tua partner abbia provato a costruire false accuse di molestie e/o percosse nei tuoi confronti, nei confronti di tuoi familiari o nei confronti dei vostri figli (512) 48,4%.

34 - hai mai avuto l’impressione che una tua partner provasse a provocarti, verbalmente e/o fisicamente, con l’intento di scatenare una tua reazione (816) 77,2%.

35 – non ho mai subito violenze psicologiche o economiche da parte di una donna (22) 2,1%. 

Sesso e psiche: quando le donne violentano gli uomini. Sono sempre di più gli uomini che denunciano violenze fisiche e psicologiche da parte delle compagne, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. Uomini violentati, uomini perseguitati. Anche loro vittime di stalking. Oltre il 30% degli uomini subiscono danneggiamenti, pedinamenti, telefonate indesiderate da ex mogli o compagne. Non sono solamente le donne ad essere minacciate, violentate anche psicologicamente e ridotte in fin di vita da uomini malati d’amore e di desiderio di possesso. Dietro la violenza si nasconde anche la sofferenza di molti uomini. “La “normalizzazione” pubblica della violenza femminile attraverso messaggi pubblicitari, spettacoli  televisivi, cinema, stampa, video web sta creando assuefazione ed abbassando l’allarme sociale- spiega a Panorama.it, Sara Pezzuolo psicologa forense e autrice della ricerca “Violenza verso il maschile”- la scena di un uomo che schiaffeggia una donna in un reality suscita sdegno e scatena, giustamente, la condanna pubblica ma a ruoli invertiti, la stessa scena non suscita uguale sentimento ed uguali reazioni. Anzi, viene minimizzata diviene “normale”, perfino ironica”. Perché? Quali sono le differenze? E poi, gli episodi di violenza diventano “proponibili” anche pubblicamente, solo se ne sono vittime gli uomini? I dati della prima ricerca condotta in Italia sulle violenze sul sesso maschile sono sconcertanti, tanto quanto quelle sulle donne. Il 58,1% degli oltre mille uomini intervistati (1058), dichiara di subire violenze fisiche dalla propria partner con modalità tipiche maschili ovvero con percosse come calci o pugni. “Oltre il 63% degli uomini hanno dichiarato di subire la minaccia di violenze fisiche da parte della compagna e nel 60,5% dei casi, la violenza fisica risulta essere stata effettivamente messa in atto con modalità tipicamente femminili come graffi, morsi, capelli strappati - continua la psicologa – mentre il lancio di oggetti si attesta poco oltre il 50%”. Molto inferiore risulta la percentuale (8,4%) di coloro che dichiarano che una donna abbia posto in essere un’aggressione alla propria incolumità personale attraverso atti violenti che avrebbero potuto causare il decesso, come ad esempio il soffocamento, avvelenamento oppure ustioni. Resta però, l’utilizzo di armi proprie ed improprie che appare in circa un quarto (23,5% dei casi) delle violenze femminili. Il 15, 7% degli uomini di un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, invece, ha dichiarato di essere stato vittima di altre forme di violenza non contemplate nella ricerca come ad esempio: tentativi di folgorazione con la corrente elettrica, investimenti con l’auto, mani schiacciate nelle porte (in un caso nel cassetto), spinte dalle scale. Ma ad essere inquietanti per quanto sorprendenti sono i dati relativi alle violenze sessuali subite dagli uomini. Infatti, l’8,6% sono gli uomini vittime di violenza sessuale attraverso l’utilizzo della forza o delle minacce. In questi casi l’uomo denuncia di essere costretto ad avere rapporti sessuali in forme a loro non gradite come ad esempio rapporti sado-maso oppure rapporti nel periodo mestruale. Non solo, il 4,1% dei soggetti intervistati dichiara di essere stato forzato ad avere rapporti sessuali con altre persone incluso sesso di gruppo o scambi di coppia. “Ma ad essere risultate interessanti sono le note che hanno inserito negli spazi, previsti in ogni batteria di domande, per l’aggiunta facoltativa di ulteriori dettagli”, continua la psicologa. Tra le costrizioni sgradite, infatti, figurano alcune richieste “estrose”, ma vissute con disagio, vergogna o turbamento da parte degli uomini. E quali sono? La pretesa di accoppiamenti in luoghi aperti pur potendo disporre di un’abitazione, la presenza sul letto dei due gatti della partner, la richiesta da parte della moglie di solo sesso orale escludendo per 18 mesi la penetrazione. “Ed alcune richieste più “violente” in merito alle quali non sembra opportuno scendere nei dettagli - precisa Pezzuolo - ma che comunque comportano lesioni visibili, in alcuni casi permanenti come piccole cicatrici ed ustioni”. Solo il 2,2% degli uomini ha dichiarato di non aver mai subito alcun tipo di violenza sessuale. “Affrontando nella ricerca l’argomento della sessualità, risulta evidente come la difficoltà maschile nel riconoscere di aver subito violenza sessuale sia sensibilmente minore rispetto alla percezione di subire violenza fisica o psicologica - prosegue Sara Pezzuolo - infatti nessun item sulla violenza sessuale registra risposte positive in percentuali superiori al 50%”. La percentuale maggiore, il 48,7% dei casi, riguarda il rapporto intimo avviato ma poi interrotto dalla partner senza motivi comprensibili. “Gli uomini, pur riconoscendo alla donna la libertà di interrompere il rapporto sessuale in qualsiasi momento, riferiscono di rimanerne mortificati, umiliati, depressi. Nessun maschio afferma di pretendere la continuazione di un rapporto non più desiderato dalla donna, o tanto meno di costringerla a portarlo a termine; i soggetti intervistati esprimono la libertà di non essere costretti a fingere indifferenza e/o a negare la frustrazione che deriva dal rifiuto, nonché le conseguenze sul piano fisico ed emotivo.  La gamma di turbamenti riferiti va dal malessere fisico all’insonnia, dalla mortificazione nel sentirsi rifiutato al dubbio di non essere più desiderato; dal timore di non essere in grado di soddisfare la partner al dubbio che in precedenza la stessa abbia simulato un desiderio ed un piacere che non ha mai provato; dal dubbio del tradimento alla sensazione di inadeguatezza; dal timore per la stabilità della coppia al calo dell’autostima”. Insomma forme di violenza fisiche che violentano anche la mente. Ma la violenza che colpisce i 3/4 degli uomini è quella psicologica ed economica. Oltre il 75,4% dichiara di essere insultato, umiliato e di provare sofferenza dalle parole utilizzate dalla propria compagna. Ma quali sono le forme di “controllo e costrizione psicologica” più frequenti? Il 68,8% degli uomini subiscono limitazioni o impedimenti nell’incontrare i figli o la propria famiglia d’origine mentre il 44,5% per le attività esterne: sport, hobby, amicizie; il 39,5% denuncia imposizioni in merito ad aspetto e comportamento in pubblico; controllo sul denaro speso, quanto e come nel 32,9% dei casi. Ma la forma più frequente è atteggiamento ostile della donna qualora non avesse l’ultima parola sulle scelte comuni. E questo accade nel 68,2% dei casi. L’uomo è costretto a subire, a differenza delle donne, le “minacce trasversali” ovvero aggressione verso oggetti personali della vittima, persone care e persino animali domestici. “Altro fenomeno emergente rilevato dal questionario è quello delle false denunce o accuse costruite nell’ambito delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni di convivenza – conclude la psicologa Pezzuolo - tale problematica compare in 512 casi sul totale dei casi esaminati (48,4%) proprio ad appannaggio dei soggetti appartenenti alle categorie in questione. La domanda che ha raccolto il maggior numero di risposte positive riguarda le provocazioni fisiche e verbali nel 77,2% dei casi”.

Allarme maschicidi Gli uomini vittime quanto le donne Ma nessuno ne parla. Non solo femminicidi. Gli uomini uccisi in coppia, tra amici, vicini di casa e colleghi sono stati 120 l'anno scorso. Una cifra identica agli omicidi ai danni di mogli e compagne, scrive Barbara Benedettelli, Sabato 09/06/2018, su "Il Giornale".  Centoventi donne. Centoventi uomini. Sono le vittime di omicidi in famiglia, in coppia, tra amici, vicini di casa, colleghi di lavoro. Tante, troppe. Donne e uomini italiani uccisi in egual misura. All'interno delle Relazioni interpersonali significative (Ris), dove dovrebbero esserci amore, affetto, protezione e solidarietà, si muore di morte violenta più che in ambito criminale. Secondo gli ultimi dati del Viminale nell'Italia del 2017 sono state uccise volontariamente 355 persone: di queste, ben 236 nelle Ris. Le donne sono 120, gli uomini 116 più 4 ammazzati all'estero dalle loro partner che non avevano accettato la fine della relazione, o per soldi. Sono i drammatici dati che emergono dall'indagine «Violenza domestica e di prossimità: i numeri oltre il genere nel 2017», realizzata attraverso la ricerca dei fatti sulle testate web locali e nazionali. In occasione della stesura del pamphlet Il maschicidio silenzioso (Collana Fuori dal Coro, Il Giornale), e di 50 Sfumature di violenza (Cairo), mi sono posta semplici domande: perché, nonostante tutto quello che si fa per contrastare la violenza di genere, le donne muoiono in media nello stesso numero? Perché se alla base del fenomeno c'è una relazione, lo si guarda da un solo lato e con uno schema fisso e semplicistico che non tiene conto della complessità e della natura di ciò che si osserva? È nata così l'indagine di cui pubblichiamo parte dello sconcertante risultato. La raccolta dei dati, poi divisi con criteri in grado di dare a ogni omicidio la corretta collocazione, si è avvalsa dello stesso gioco di prestigio che i teorici del femminicidio fanno nel rilevare le vittime femminili: non tener conto del fondamentale rapporto vittima/carnefice e del movente, fondamentali, invece, per determinare le cause e intraprendere le giuste azioni preventive. E se facciamo lo stesso esercizio mistificatorio e la stessa deviazione culturale, potremmo dire che nel 2017 escludendo i delitti in ambito criminale - i «maschicidi» sono stati più dei «femminicidi»: 133 contro 128. Dati che emergono dai fatti e i fatti, per dirla con Hannah Arendt, sono ostinati. Ma si possono davvero chiamare così? Il numero emerge dalla somma tra gli omicidi avvenuti nelle Ris e quelli il cui autore è uno sconosciuto che ha ucciso persone innocenti: è la stessa somma fatta da chi sostiene a spada tratta il femminicidio, e che, per esempio, conta anche le donne massacrate in casa o in strada da chi voleva rapinarle. Ma non sono state uccise in quanto donne, semmai in quanto vulnerabili. In questo ambito muoiono soprattutto anziani e ragazzi, e in particolare sono i maschi a essere uccisi in modo sproporzionato: 17, contro 8 donne, nel 2017. Sproporzione che rimane anche negli omicidi di prossimità, quelli tra vicini di casa, conoscenti, amici, colleghi: le vittime maschili qui sono 39, 14 quelle femminili. La parità si raggiunge dove c'è un legame di sangue: 40 e 40. Però solo l'ingiusta morte delle donne suscita scandalo, orrore, impegno civile e politico. Per gli uomini assassinati all'interno delle stesse relazioni e per gli stessi motivi, niente pietas né phatos, niente liste tragiche con nomi e cognomi. Li abbiamo contati noi, per farli contare. Lo chiede la Convenzione di Istanbul, che riconosce anche le vittime maschili. Ottanta persone massacrate in famiglia: tra i carnefici anche 15 donne, che hanno ucciso più femmine (8) che maschi (7). Di queste, 8 sono madri (due suicidate), contro 3 padri (tutti suicidati); questi undici assassini hanno ucciso 16 minori: 8 maschi e 8 femmine, 3 delle quali, più un bambino, morti per mano di un solo papà. La moglie che maltrattava il suo compagno e i quattro figli era in cura, lui doveva occuparsi di loro e aveva smesso di lavorare, aveva problemi economici ed è entrato in una devastante depressione. Dov'erano le istituzioni? Proprio qui c'è un'inquietante parità di genere per le vittime e un'inquietante disparità: le madri uccidono di più, e più dei padri sanno sopravvivere al senso di colpa e all'orrore che hanno commesso. Anche in ambito cosiddetto passionale le donne, quando ammazzano o sono lasciate, difficilmente si tolgono la vita. Gli omicidi-suicidi in ambito familiare e di coppia sono 30: 28 uomini e 2 donne; i suicidi noti, dove la causa è legata alla fine di una relazione, sono 39: 32 uomini, almeno 8 dei quali disperati per il distacco forzato dai figli, e 7 donne, tra cui due bambine di 12 e 14 anni che soffrivano la separazione dei genitori. Ancora in ambito cosiddetto passionale, su 66 omicidi con vittime femminili quelli che tecnicamente si potrebbero definire femicidi sono 42 (esclusi 4 casi non risolti), di cui 14 commessi da stranieri provenienti soprattutto dai Paesi dell'Est e dal Nordafrica. Gli altri 20, in cui il movente non ha a che fare col genere, sono coniunxcidi (da coniunx= coniuge), neologismo adottato nell'indagine che vale sia per gli uomini che per le donne a differenza di uxoricidio (da uxor=moglie). Gli italiani che hanno perso la vita per mano di una donna che avrebbe dovuto amarli sono 19. Le assassine hanno agito tutte per difesa o perché maltrattate come retorica femminista comanda? No. Lo hanno sostenuto in 6, così come hanno fatto 5 uomini, in linea con i risultati di una meta-analisi che prende in considerazione le indagini fatte in diversi paesi: la media di questo movente varia in base alla nazionalità dal 5% al 35% quando a colpire sono le donne e dallo 0 al 20% quando sono gli uomini. In ambito omosessuale le vittime sono 2, mentre sono 20 (tra cui 2 minorenni) gli uomini massacrati dai rivali o dagli ex delle loro compagne: maschicidi che hanno a che fare con il senso di possesso e l'onore, dunque anche, ma non solo, con la cultura patriarcale. E anche qui gli autori stranieri sono tanti (12). Insomma, siamo di fronte a un'enorme costellazione d'orrore e di disperazione, che deve essere colta nel suo tremendo e allarmante insieme. In totale i morti sono 309 se contiamo anche i suicidi: 129 femmine e 180 maschi. Non riconoscere la psicopatologia, l'isolamento di coppie e persone sole di fronte alle difficoltà e ai drammi della vita, valutare solo le ragioni antropologiche e culturali, concentrarsi solo sulle vittime senza mai guardare, con rispetto, se hanno qualche responsabilità, tutto questo non permette di attuare azioni capaci di impedire scelte folli, che non vanno mai giustificate, ma devono essere studiate e comprese per quello che sono. Senza mistificazioni inique, né teoremi ideologici politicamente e scientificamente scorretti.

A COME MAFIA DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “AMBIENTOPOLI” e “IL TERREMOTO E…”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

La Natura vive. Alterna periodi di siccità a periodi di alluvioni e conseguenti inondazioni.

La Natura ha i suoi tempi ed i suoi spazi.

Anche l’uomo ha i suoi tempi ed i suoi spazi. Natura ed Uomo interagiscono, spesso interferiscono.

Un fenomeno naturale diventa allarmismo anti uomo degli ambientalisti.

Da sempre in montagna si è costruito in vetta o sottocima, sul versante o sul piede od a valle.

Da sempre in pianura si è costruito sul greto di fiumi e torrenti.

Da sempre lungo le coste si è costruito sul litorale.

Cosa ci sia di più pericoloso di costruire là, non è dato da sapere. Eppure da sempre si è costruito ovunque perché l’uomo ha bisogno di una casa, come gli animali hanno bisogno di una tana.

Invece, anziché pulire gli alvei (letti) dei fiumi o mettere in sicurezza i costoni dei monti per renderli sicuri, si impongono vincoli sempre più impossibili da rispettare.

Invece di predisporre un idoneo ed aggiornato Piano Regolatore Generale (Piano Urbanistico Comunale) e limitare tempi e costi della burocrazia, si prevedono sanzioni per chi costruisce la sua dimora.

A questo punto, quando vi sono delle disgrazie, l’allarmismo dell’ambientalismo ideologico se la prende con l’uomo. L’uomo razzista ed ignorante se la prende con i meridionali: colpa loro perché costruiscono abusivamente contro ogni vincolo esistente.

Peccato che le disgrazie toccano tutti: in pianura come in montagna o sulla costa, a prescindere dagli abusi o meno fatti da Nord a Sud.

Solo che al Nord le calamità sono disgrazie, al Sud sono colpe.

Peccato che i media razzisti nordisti si concentrano solo su temi che discriminano le gesta dei loro padroni.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc... Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Vittorio Feltri, case abusive e stragi: ecco come funziona al Sud nel nostro Paese, scrive il 6 Novembre 2018 Libero Quotidiano". Di seguito, pubblichiamo l'intervento di Azzurra Noemi Barbuto e la risposta di Vittorio Feltri sull'abusivismo al Sud.

Caro direttore, sembra essere una naturale ed irrefrenabile propensione di ciascuno di noi, non solo dei politici, cercare i colpevoli senza mettersi mai in discussione. Oggi la responsabilità dei 32 morti che abbiamo avuto negli ultimi giorni è del cambiamento climatico, di una Natura, «Madre maligna», che ci massacra perché insensibile nei confronti degli esseri umani, come se noi non potessimo farci niente, al massimo fare un po' di manutenzione del verde. Il premier Conte ha dichiarato a Palermo: «Spesso abbiamo registrato qualche intralcio burocratico per la ripulitura dei corsi d' acqua, ci sono vincoli paesaggistici per la rimozione di un albero». Eppure non è questo il problema, semmai il suo opposto: è la mancata osservazione dei limiti imposti dal paesaggio stesso a seminare morti. È la mania di costruire ovunque e ad ogni costo, come se si fosse padroni indiscussi del territorio, in barba ad ogni legge e soprattutto ad uno Stato che si vuole sempre fottere, in quanto avvertito come ostile, ad uccidere. Ed ecco che si edifica sul letto del torrente, «ché tanto è da decenni che è semi-asciutto», o sull' orlo del precipizio, «ché tanto qui non passa nessuno», o addirittura sulla spiaggia, «ché così è più comodo fare il bagno a mare». Codesto modo di pensare è così impresso nelle menti di coloro che abitano in certe aree della penisola, dove «ognuno fa quel che gli pare», che risulta addirittura normale vedere che il vicino ingrandisce il suo immobile, o costruisce un altro piano, il tutto senza autorizzazioni e senza conseguenze. L' illegalità è un modus vivendi, un'abitudine sedimentata. Tale comportamento viene emulato, anzi chi non lo imita è un idiota. Ed ecco cosa questo lassismo e questa malversazione perpetrata alla luce del sole hanno determinato: lo spettacolo desolato di un territorio in cui edifici sorgono come funghi, senza che ci sia un piano regolatore, e restano in uno stato permanente di incompletezza, che contribuisce a rendere lo scenario terribilmente triste e degradato. La mia amata terra, la Calabria, è martoriata dalle costruzioni mai completate, sono prive di intonaco e prodotte con materiali scadenti. Restano incompiute per decenni, o per sempre, tanto non importa a nessuno, il piano superiore non è che un rudere, eppure quegli schizzi sono considerati un nido sicuro da coloro che vi abitano. Tante volte, osservando le opere mai finite, le dimore messe in piedi sui burroni, o addirittura su quei fiumiciattoli che noi chiamiamo «fiumare», mi sono chiesta quali motivi avessero spinto i proprietari illegittimi di quei beni illegittimi ad investire i propri risparmi nella erezione di qualcosa che probabilmente sarebbe stato abbattuto. Alla fine mi sono data una risposta: è la certezza del fatto che tanto quella pila di mattoni non sarà distrutta mai. Ossia che lo Stato non ci ficcherà più di tanto il naso, perché sta da un'altra parte. Solo le calamità naturali potranno abbatterle, ma è un'ipotesi mai considerata. E purtroppo a volte si muore, perché l'abusivismo uccide. E allora ci si accorge all' improvviso di quelle case, che non dovrebbero stare lì, ma che continuano a stare lì. Quelle case davanti alle quali tutti quanti abbiamo chiuso un occhio. A volte anche due. Tali abitazioni raccontano della mia terra un altro aspetto, che mi suscita un'estrema e dolorosa tenerezza: l'arte di arrangiarsi che il calabrese ha dovuto acquisire ed interiorizzare per andare avanti in una regione continuamente depredata dagli invasori giunti da ogni dove. Allora ci si ritaglia il proprio spazio, aggiungendo un mattoncino qui e uno lì, per campare. Oggi, però, questo spirito di sopravvivenza ai danni magari del padrone non ha più motivo di esistere. Esso si è tradotto ed è tracimato in un'arroganza ed in un disprezzo della legge che non possono essere più tollerati. Chi perpetra o chi accetta l'abusivismo fa del male al suo territorio, a se stesso e alla sua famiglia. Dovrebbe essere diffusa qualcosa che adesso è del tutto assente: la cultura della sicurezza. La coscienza che in una zona a forte rischio sismico e non idonea alla costruzione sia da folli e pericoloso andare a vivere potrebbe costituire un deterrente ben più forte rispetto alla consapevolezza di stare violando la legge. In fondo, chi non ci tiene alla pellaccia? Azzurra Noemi Barbuto

Cara la mia calabresella il problema è addirittura più complesso di come tu lo poni. L'abusivismo edilizio è diffuso al Sud per un motivo semplice: non v'è chi lo combatte, nemmeno gli enti locali che avrebbero l'obbligo di controllare cosa accade sul territorio. In Molise 71 case su 100 sono illegali eppure mai alcuno, né sindaci né assessori, si è sognato di impedirne la costruzione. Se io edifico laddove non si può, non lo faccio in una settimana, mi servono almeno sei mesi. Possibile che durante tutto questo tempo nessuno dell'amministrazione comunale si accorga che sto compiendo una operazione illegittima? È inammissibile. Significa che esiste una complicità tra il costruttore e coloro che dovrebbero verificare la liceità del manufatto. Tu privato fai quello che vuoi, io uomo delle istituzioni fingo di non saperlo e, dopo alcuni anni, il comune è pieno zeppo di villette abusive, che non c' è anima che provvederà ad abbattere. Perché al Sud usa così. Tu mi assicuri il voto per le prossime elezioni e io consento che tu compia le irregolarità che ti garbano. Non vi sono implicazioni antropologiche. I terroni sono identici ai nordici. La questione è diversa: l'ambiente condiziona i comportamenti. Se sai che in Calabria nessuno ti punisce qualora ti venga in mente di erigere una palazzina abusiva, la erigi e amen. Così fan tutti? Così fai pure tu, essendo convinto che ciò nella sostanza sia possibile. Se aggiungi che non avrai difficoltà ad ottenere nella tua abitazione illegale l'allacciamento elettrico, dell'acqua e del gas, non ti verrà mai il sospetto di aver commesso un reato. Il sistema crea quindi una rete di complicità che produce disastri: gli amministratori comunali non fiatano di fronte alle tue porcherie per motivi elettorali, le aziende fornitrici di energie abbozzano per convenienza, ovvio che l'intera torta condivisa diventi di dominio pubblico. Non c' è nulla da aggiungere. Se delinquere è tollerato dal costume sociale, chiunque delinque persuaso di averne diritto. Vittorio Feltri

Ma Vittorio Feltri ne ha anche per Genova.

Genova? Costruita male. Un miracolo se non crolla. Una fragilità connaturata che la scellerata opera degli uomini ha reso ancora più vulnerabile. E queste sono le conseguenze, scrive Vittorio Feltri, Venerdì 17/10/2014, su "Il Giornale". Un lettore attento mi segnala: giusti i suoi rilievi critici mossi a Beppe Grillo, ma c'è dell'altro - e più importante - che spiega il disastro recente di Genova. Rino Fruttini infatti mi fa notare che la città si è espansa in modo scriteriato, negli ultimi 60 anni, creando le premesse della propria fragilità in occasione di intemperie particolarmente violente. Egli ha ragione. Ma il mio articolo di ieri non affrontava questioni tecniche, peraltro non di mia competenza; si limitava agli aspetti politici. Cerco ora di colmare la lacuna osservando che, in effetti, come segnala il nostro Fruttini, il capoluogo ligure presenta una situazione urbanistica da brivido. Sulle colline attorno al centro è stato costruito un vespaio di edifici orrendi, condomini colossali che danno l'impressione di reggersi in piedi per miracolo, casermoni - gli uni adesi agli altri - disgustosi sotto l'aspetto estetico e minacciosi sotto quello della sicurezza. Li guardi e pensi con terrore che da un momento all'altro possano crollare provocando una sciagura. Senza contare il resto, cioè la precarietà del sistema idrogeologico visibile a occhio nudo. Agglomerati cementizi edificati nelle zone più a rischio, case tirate su alla meno peggio lungo gli argini di torrenti gonfi d'acqua, alcune addirittura a cavallo dei medesimi. Genova, un tempo bellissima e armonica, è stata trasformata con la complicità di amministratori locali fuori di senno in un agglomerato predestinato a scoppiare e a radersi al suolo in un cumulo di macerie. Ci sarà pure qualche responsabile di un simile scempio inguardabile: sindaci, assessori, ingegneri, geometri e impresari edili. Nessuno fiata. Il mugugno e le proteste sono rivolte soltanto al solito governo, sempre ladro qualora piova e tiri vento. Si dice che la colpa sia dello Stato che ha bloccato i finanziamenti destinati ad aggiustare i guasti e a prevenire le esondazioni; e si accusano il sindaco attuale e la prefettura, si prendono di mira Tizio e Caio che non avrebbero informato preventivamente la popolazione dei pericoli incombenti, che avrebbero taciuto sui rischi che correva la città in caso di maltempo senza requie. In questi giorni tribolati lo sport più praticato in zona è il tiro al bersaglio, un intreccio di accuse che confondono le idee degli abitanti, vittime inconsapevoli di imbecilli che nel momento della tragedia hanno evitato con cura di esporsi e si rimpallano adesso colpe indefinite. Questa è l'Italia, questa è Genova, una metropoli in balia degli speculatori e di amministratori senza scrupoli che, interrogati nel merito dello sfacelo urbano, rispondono con un sorriso beota: non sappiamo nulla. Ma andate a morire ammazzati. Come fate a non sapere chi ha rilasciato licenze edilizie criminali, chi ha autorizzato la realizzazione di tanti obbrobriosi insediamenti, trascurando la morfologia naturale dei luoghi pedemontani? Tutto ciò che sta in alto, dicevano i nostri vecchi, è destinato a cadere in basso. Appesantire le colline di schifezze architettoniche significa programmare sfaceli, non solo rovinare l'ambiente e renderlo minaccioso per l'incolumità dei residenti. Le cause delle calamità odierne risalgono al passato più o meno recente. Possibile che gli autori dei delitti contro la cittadinanza non siano identificabili? Tirate fuori i nomi di coloro che hanno firmato la condanna a morte di Genova e processateli, invece di prendervela col governo in carica. Si faccia giustizia una volta per tutte. Così si scoprirà finalmente che i malfattori non sono i soliti fessi di destra, ma i bulli di sinistra che da decenni amministrano questo povero capoluogo ligure. E si capirà che le storture italiane non sono dovute alle balordaggini democristiane o berlusconiane, ma dipendono da chi ha governato il territorio - la sinistra - in spregio a qualsiasi norma civile. Qui forse non c'entra la corruzione (e sottolineo forse), ma è un fatto che se la città è stata devastata dagli elementi naturali, qualcuno li ha agevolati nel compiere la catastrofe. Fuori i nomi e i cognomi dei pessimi personaggi che l'hanno provocata.

Non è vero che gli architetti non servono a niente, è che non li fanno lavorare. Replica a Vittorio Feltri e ai lamentosi del "magna-magna", scrive Manuel Orazi il 18 Gennaio 2018 su "Il Foglio". Che bel complimento, quello di Vittorio Feltri, agli architetti (“non servono a un cazzo”). Bisogna accoglierlo col sorriso sulle labbra, perché senza volerlo li ha messi sullo stesso piano degli artisti, che per statuto non devono contare niente – l’arte è inutile o non è. Gli architetti in Italia non contano molto perché visti come artisti e non tecnici al servizio della vita associata. Non c’è una legge sull’architettura come in Francia o altri paesi civili, e infatti realizzano appena il 2 per cento del costruito. Tutto il resto è una questione fra ingegneri, geometri, società di servizi, interventi opachi commissionati direttamente dagli enti pubblici facendo attenzione a evitare l’incarico e quindi la parcella dell’architetto. Clamorosi i recenti bandi comunali in Calabria, ma non solo, per piani regolatori a zero euro per il progettista “in cambio di pubblicità”. Lo abbiamo visto anche nella ricostruzione del terremoto del centro Italia: per mesi l’ex commissario Vasco Errani auspicava e poi conferiva incarichi “sotto soglia” vale a dire sotto i quarantamila euro sopra i quali scatta la necessità di un bando fatto come al solito al ribasso, in modo che vincano scientificamente i peggiori. Lo scorso aprile Stefano Boeri ha accettato l’incarico per varare un centro di coordinamento per i PRG dei comuni del cratere, ma poi in ottobre si è dimesso subito dopo Errani visto che nessuno gli dava più retta. Solo le iniziative private, con donazioni dirette all’americana, sono state realizzate celermente e inaugurate già nel 2017, tutto il resto della macchina pubblica per la ricostruzione arranca o mette i bastoni fra le ruote come nel caso dell’inchiesta del pm di Spoleto contro il centro polifunzionale ad Ancarano di Norcia (realizzato grazie alla Caritas) e l’incredibile avviso di garanzia al sindaco. Inoltre non c’è verso di far lavorare i più bravi, scatta sempre il disco rotto del magna-magna che ha sostituito quello del bunga-bunga. Eppure abbiamo più architetti che qualsiasi altro paese al mondo e l’architettura in ogni paese è parlato attraverso parole italiane: colonna, portico, terrazzo, ecc. esistono in ogni lingua. Torniamo a Feltri però. Il suo è uno dei tanti atti d’accusa trasversali che vanno da Beppe Grillo a Vittorio Sgarbi, dal Fatto quotidiano a Libero&Giornale, da Italia Nostra alla Zanzara, da Casa Pound ai No Tav-no Triv-no Tap-no tutto. Un’eco trasversale che fa gola alle procure di provincia. Gli arruffapopolo e gli accademici con la seconda casa in Toscana, gli avventurieri, gli strapaesani e i facinorosi: tutti uniti contro gli architetti, colpevoli di distruggere “il paesaggio”, “la bellezza” e il quieto vivere. Eppure Dio solo sa quanto l’Italia avrebbe bisogno di piani regolatori, piani strategici, piani paesaggistici fatti da professionisti con un pensiero e non da oscuri funzionari o uffici tecnici. Esiste una via migliore per frenare l’abusivismo edilizio e il dissesto idrogeologico? Dio solo sa quanto le nostre città, a partire dalla capitale, avrebbero bisogno di ammodernamento, opere pubbliche e private, riqualificazioni di infrastrutture e certo, demolizioni di massa. Non occorre essere keynesiani per capire le ricadute economiche e lavorative di tutto questo. Gli architetti non servono a un cazzo però, perché tanto facciamo tutto già come ci pare, senza progetto e magari senza permesso. La Milano caffeina d’Europa che non piace a Massimo Fini né a Feltri, vive la primavera che vive grazie alla sua architettura. Non è vero che l’architettura poi sia espressione solo dei regimi totalitari o liberisti: in Spagna e Portogallo, dalla fine degli anni Sessanta si guardava già all’Italia del Dopoguerra, quella democraticamente imperfetta ma ricca di maestri del cemento armato, da Pier Luigi Nervi a Riccardo Morandi, da Ignazio Gardella a Gio Ponti. E’ guardando questi modelli che le socialdemocrazie iberiche sono diventati paesi modello per l’architettura degli ultimi 30-40 anni e i loro architetti, come Alvaro Siza e Rafael Moneo, modelli di rinascita di tutto il paese – entrambi Pritzker Prize. L’Italia invece no, del resto è un paese che non crede al proprio futuro cioè in se stesso, infatti non fa più figli né progetti, l’unica utopia rimasta è sempre e solo venale: reddito di cittadinanza o pensione per stare a casa. Tuttavia, visto che si avvicina il centenario di Bruno Zevi, energico ottimista anche a Londra sotto le bombe naziste e poi nelle sue lotte civili e politiche, vogliamo rinnovare una sua antica idea: un anno di architettura dovrebbe essere obbligatorio per tutti, come il servizio militare.

Il vizio del moralista Grillo Sanate megaville e società. Il comico tuona contro i condoni ma li ha sfruttati per la residenza a Genova e l'immobiliare col fratello, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". Beppe Grillo sul blog denuncia da anni la piaga dell'evasione fiscale in Italia, anche se - raccontò l'ex impresario Lello Liguori - il comico pretendeva di farsi pagare i suoi spettacoli in nero. Ma Beppe Grillo denuncia da anni anche la malapianta dei condoni fatti dai vari governi. «Il cittadino deve sentirsi rispettato come contribuente, non preso per il culo da una serie infinita di condoni e dallo Scudo Fiscale» tuonava nel 2012. «I politici sono ectoplasmi che rinnovano la loro esistenza grazie a palliativi, l'ultimo è il condono per le abitazioni abusive» ammoniva nel 2013, epoca governo del «porporato Nipote Letta», cioè Enrico. Il M5s in Parlamento si occupa delle vere emergenze nazionali mentre «loro» si occupano solo di «salvare Berlusconi, salvare il Monte dei Paschi di Siena e fare il condono edilizio» sentenziava sempre sul blog nel 2013. «Il governo strizza l'occhio ai furboni con la procedura di condono nota come «voluntary disclosure» rituonava il comico nel 2017. Ma quando si trattava di condonare la roba sua, Grillo non si è schifato per nulla. Anzi più volte il fondatore del M5s ha approfittato della possibilità di sanare gli abusi. Nel suo caso per tre volte, con due tipologie diversi di condoni. I primi due sono scritti nei bilanci della Gestimar Srl, società immobiliare con sede a Genova proprietaria di una decina di immobili fra Liguria e Sardegna, di cui Beppe Grillo era socio al 99%, insieme al fratello Andrea. Ebbene nei bilanci 2002 e 2003 si legge: «In considerazione della possibilità concessa dalla legge finanziaria 2003 di definire la propria posizione fiscale con riferimento ai periodi di imposta dal 1997 al 2001, fermo restando il convincimento circa la correttezza e la liceità dell'operato sinora eseguito, si è ritenuto opportuno di avvalersi della fattispecie definitoria di cui all'articolo 9 della predetta legge», ovvero il condono tombale dell'allora governo Berlusconi, ministro Tremonti, ovvero del «nano di Arcore» e «Tremorti», come li soprannominava gentilmente il comico. Il loro condono però lo prendeva sul serio. Come l'altro, edilizio, quello che i suoi fan diventati ministri giustificano in Sicilia e promuovono ad Ischia. Del condono edilizio di Grillo scrisse Filippo Facci sul Giornale ricostruendo l'epopea del comico-fustigatore di costumi: «Nel 1986, poco in linea con certe sue intransigenze future, fu protagonista di alcuni spot per gli yogurt Yomo: Ci hanno messo 40 anni per farlo così buono, diceva indossando una felpa con scritto University of Catanzaro. Lo yogurt è un prodotto buono, si difese lui. Per quella pubblicità vinse un Telegatto. È il periodo in cui andò a vivere a Sant'Ilario, la Hollywood di Genova: una bellissima villa rosa salmone, affacciata sul Monte di Portofino, con ulivi e palme e i citati frutti e ortaggi di plastica. Non fece scavare una piscina, ma due: cosa che piacque poco ai vicini e soprattutto al dirimpettaio Adriano Sansa, già poco entusiasta del terrazzo di 100 metri quadri che Grillo fece interamente ricoprire inciampando in un clamoroso abuso edilizio cui pose rimedio con uno di quei condoni contro cui è solito scagliarsi». È un artista, mica si può chiedergli la coerenza. Del resto Grillo ha fatto l'apologia della decrescita, del pianeta slow, delle auto ad acqua che non inquinano e non consumano petrolio, ma ha posseduto Ferrari e barche a motore. L'altra megavilla, quella a Bibbona a pochi metri dal mare che affitta a 15mila euro a settimana, ha la fortuna di essere stata accatastata solo come A7 (villino), invece che A8 (villa), come pure quella di Sant'Ilario. Comico, condonato e anche fortunato.

Salvini attacca gli "ambientalisti da salotto": «Se non tocchi l'alberello poi ti arriva il conto», scrive Domenica 4 Novembre 2018 Il Gazzettino. «Troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto che non ti fanno toccare l'albero nell'alveo ecco che l'alberello ti presenta il conto». Lo ha detto il ministro dell'Interno Matteo Salvini a Belluno con il presidente del Veneto Luca Zaia dove ha sorvolato le zone colpite dall'eccezionale maltempo dei giorni scorsi. «Il bosco vive e deve essere curato e il greto del torrente dragato - ha aggiunto -. L'inerzia, l'assenza e l'ignoranza a volte sono alla base di questi fatti. La tutela della montagna dovrebbe essere affidata alle comunità locali. Salvini ha annunciato che «in settimana ci sarà un Consiglio dei ministri per questi eventi».

Casteldaccia la tragedia non è solo colpa dell'abusivismo. Il geologo: «Eventi prima ventennali si ripetono ogni anno». Alluvioni come fenomeni sempre più frequenti, e ormai poco straordinari. Davanti ai quali i cittadini sono ancora disinformati, pure quelli che vivono in aree a rischio idrogeologico. È il quadro presentato da Emanuele Doria, alla guida della Società italiana geologia ambientale, scrive Gabriele Ruggieri il 6 novembre 2018 su palermo.meridionews.it. Le immagini del disastro di sabato notte sono ancora negli occhi di tutti. La caccia al colpevole si muove senza sosta e l'abusivismo è stato individuato come il principale di tutti i mali. Quella casa lì non doveva starci, questo appare indubbio dalle analisi che si sprecano sui media e negli uffici. L'abusivismo non può però essere considerato l'unico responsabile di una tragedia che sicuramente poteva essere evitata. «Dal punto di vista idrogeologico - spiega a MeridioNews Emanuele Doria, ex presidente dell'ordine dei geologi di Sicilia e attualmente alla guida della Società italiana geologia ambientale, che conosce bene la zona di Casteldaccia - siamo in un contesto tipico torrentizio siciliano: corsi d'acqua non molto estesi con un discreto numero di affluenti che in occasione di precipitazioni eccezionali sono in grado di veicolare notevoli quantità di acqua mista a fango, detriti, residui vegetali, materiali di risulta. In quella zona per esempio ci sono diverse discariche abusive e quant'altro per cui il greto del fiume si riempie e si ostruisce abbastanza facilmente. E queste sono condizioni che possono facilmente portare a formarsi un'onda di piena anche di una certa dimensione». Doria conosce anche la situazione dell'abusivismo locale, ne parla come di un «fattore deleterio contro se stesso, non fa altro che restringere gli spazi naturali delle acque. Dove si è verificata la tragedia di Casteldaccia è uno spazio golenale, un'area che il fiume si è precedentemente creato in esondazioni passate, che è uno spazio naturale di ampliamento del letto del fiume. E in questi spazi è proibito costruire da leggi che risalgono ai primi del '900. Possono essere utilizzati come campi coltivati, perché sono zone fertili, ma sicuramente non per realizzare abitazioni». Ma il regolare rilascio o meno dei permessi costruttivi o i risultati di un condono edilizio o di una sanatoria non sono la discriminante fondamentale perché un'abitazione sia completamente sicura. «Già nel 2009 - continua il geologo - si era verificata un'esondazione di una certa importanza che non era arrivata a procurare danni così evidenti alle case, tuttavia la cosa più importante a mio avviso è che spesso noi ignoriamo di vivere in aree a rischio. Nonostante ci siano a disposizione molti strumenti di conoscenza spesso il cittadino non sa di abitare in una zona a rischio idrogeologico, al di là del fatto che la sua casa sia abusiva o meno». Informarsi, dunque, per tentare di prevenire le evenienze. «Un evento come quello di Casteldaccia può avvenire una volta nella vita e non ripetersi più per cento anni, i tempi di ritorno di queste precipitazioni così intense possono essere anche prolungati. Dobbiamo però ricordare una cosa: dal 2009 a questa parte, dall'alluvione di Giampilieri in poi, il ripetersi di questi eventi sta assumendo una cadenza che prima era ventennale, adesso è quasi annuale. Prima si chiamavano eventi eccezionali, ora l'eccezionalità sta diventando routine nei nostri territori. Quello che va rivisto - conclude Doria - è prima di tutto la formazione del cittadino, che deve essere consapevole, nel giusto o nel torto, di stare vivendo in una zona a rischio. La politica del territorio deve cambiare, con un indirizzo volto alla pianificazione, alla tutela, che tenga conto che in certe zone non si può più costruire e quello che c'è di già costruito va eliminato, altrimenti si mette a rischio una fetta della popolazione».

Maltempo: perché i fenomeni atmosferici sono sempre più violenti. Mareggiate, piogge, ma anche caldo e interminabili periodi di siccità saranno sempre più frequenti e non solo in Italia. Mareggiate, piogge, ma anche caldo e interminabili periodi di siccità saranno sempre più frequenti e non solo in Italia, scrive Barbara Massaro il 5 novembre 2018 su "Panorama". La parola chiave è "Record". Quando si parla di fenomeni meteorologici in Europa, che siano d'estate o d'inverno, sempre più spesso esperti, studiosi e mezzi d'informazione bollano con il sigillo record il caldo, il freddo, il vento, le mareggiate o le piogge.

Cosa sta succedendo al clima. In realtà, però, non si tratta di anomalie circostanziate al cospetto delle quali rimanere con la bocca aperta o col punto di domanda disegnato sulla fronte, ma di eventi atmosferici che sono la diretta conseguenza dell'innalzamento della temperatura terrestre, dei cambiamenti climatici e della perdita di biodiversità che si registrano su scala globale. Ecco che allora i 156 centimetri d'acqua a Venezia della scorsa settimana o i venti che hanno soffiato a 180 chilometri l'ora causando onde di cinque metri nell'Adriatico sono parenti stretti dei 35 gradi di temperatura registrati in Norvegia lo scorso agosto o dell'alga tossica che si è sviluppata per il troppo caldo sul litorale polacco. Dalla Mongolia colpita dalla siccità alla Thailandia messa in ginocchio dalle alluvioni; dall'Australia devastata dagli incendi alle comunità dell'Himalaya minacciate dallo scioglimento dei ghiacciai la situazione climatica a livello mondiale è frutto della cattiva gestione che l'essere umano sta facendo del pianeta che lo ospita.

Il caso Italia. L'ondata di maltempo che è arrivata sull'Italia lo scorso lunedì, ad esempio, era attesa, ma a sette giorni di distanza dall'inizio della perturbazione nessuno si sarebbe aspettato di dover contare 12 morti, 150 mila persone rimaste senza luce, 100 mila senza acqua potabile, danni alle coltivazioni, strade allagate da nord a sud, il 70% di Venezia sotto l'acqua, fiumi esondati e 500 mila alberi abbattuti dalle frane. Il problema è che, nonostante l'allarme lanciato da anni da qualsiasi organismo e organizzazione che si occupi di ambiente dall'ONU in giù sia a livello politico sia a livello territoriale sia nella percezione stessa della coscienza ecologica del singolo cittadino non si fa abbastanza e si sottovaluta la complessità del problema. Perché è vero che il riscaldamento globale dovuto alla continua crescita e concentrazione delle emissioni di gas a effetto serra come il biossido di carbonio (o CO2), il metano e il protossido di azoto rende l’atmosfera più calda e instabile e aumenta l'evaporazione, ma è anche vero che a minacciare gli equilibri del nostro pianeta non è soltanto l'innalzamento della temperatura.

Difendere la biodiversità. Cristiana Paşca Palmer, numero uno dell'Onu in tema di biodiversità, intervistata dal Guardian ha parlato di un "killer silenzioso" che sta minacciano il nostro pianeta. Si tratta della perdita di biodiversità. "La perdita di biodiversità è un killer silenzioso - ha spiegato - È diversa dai cambiamenti climatici i cui effetti sono visibili alle persone nella vita di tutti i giorni. Con la biodiversità non è così chiaro, ma nel momento in cui scopri ciò che sta accadendo, potrebbe essere troppo tardi". Secondo la Palmer entro il 2020 deve essere sottoscritto un accordo globale affine a quello firmato al termine della conferenza sul clima di Parigi del 2015 che responsabilizzi e impegni i Paesi sul tema della tutela delle diversità biologiche nel pianeta. Entro il 2050, infatti, ci si aspetta che l'Africa perda il 50% dei suoi uccelli e mammiferi e che la pesca in Asia crolli completamente. La perdita di piante e vita marina ridurrà la capacità della Terra di assorbire il carbonio, creando un circolo vizioso dalle conseguenze devastanti che porterà a un ulteriore innalzamento delle temperature che determinerà il precipitare di una situazione già ora al limite del collasso. Secondo Greenpeace l'essere umano potrebbe essere il primo a documentare la sua stessa estinzione. I cambiamenti climatici nella storia della Terra sono sempre avvenuti a causa dell'oscillazione dell'asse terrestre o della caduta di meteoriti o di altri fenomeni prettamente naturali, ma sono stati più graduali di quello messo in atto per mano dell'uomo.

L'anomalia italiana. La situazione dell'Italia, poi, è particolarmente grave. Oltre al fatto che rispetto alla media globale la temperatura nel nostro Paese si stia innalzando a una velocità doppia si assommano una serie di concause endemiche che determinano danni a persone e cose che sarebbero stati evitabili se il territorio fosse stato gestito con più cura. Basti pensare a quanto detto dal geologo Fabio Tortorici, presidente della Fondazione Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi e consigliere dello stesso. Tortorici è stato intervistato da Ansa a proposito della tragedia di Casteldaccia dove 9 persone hanno perso la vita a causa dell'esondazione del fiume Milicia che ha invaso la villetta abusiva abitata da una famiglia palermitana. E' vero che quella villetta avrebbe dovuto essere abbattuta due anni fa, ma è anche vero che il problema della cura e mantenimento dei bacini idrogeologici in Italia è sottovalutato. "Bisogna considerare tutto il bacino idrografico - ha ammonito il geologo - che è esteso 130 chilometri quadrati, se comprende canali o torrentelli". Tortorici ha ricordato inoltre che "Le norme che si occupano della pulizia idraulica risalgono al 1904 e quindi va rivisto il governo del territorio, che non è cosa di semplice soluzione. Da decine di anni nei territori non c'è un'adeguata manutenzione. La questione della pulizia idraulica investe tutta l'Italia". Poi c'è il tema degli smottamenti e delle frane. Come è possibile che per la pioggia cadano 500 mila alberi in pochi giorni?

La forza della natura vs l'incuria umana. I boschi spazzati via in Veneto con gli scenari apocalittici che si sono creati sulle Dolomiti sono l'esito dell'eccessiva forestazione del primo dopo guerra quando per far tornare a vivere l'area carsica sono stati piantati troppi alberi oggi crollati come fossero fuscelli. E poi ci sono i paesi edificati troppo a ridosso del mare (Genova ad esempio) o alle pendici di montagne che rischiano smottamenti (il disastro del Vajont) vicino a vulcani (Napoli) o in zone sismiche. Il male tutto italiano è quello di sottovalutare la forza della natura e pensare che l'uomo possa insidiarsi in maniera approssimativa senza fare i conti con il territorio. Perciò oltre a politiche volte alla riduzione delle emissioni di gas serra per limitare i danni futuri, l'Italia ha urgenza di mettere in atto strategie di adattamento rispetto alla conseguenze dei cambiamenti del clima che sono già in corso. Il prossimo appuntamento politico per parlare di clima e biodiversità è nel 2019 al G7 in Francia a Biarritz a febbraio. Lì bisognerà, tra l'altro, rivedere gli impegni presi a Parigi nel 2015 (dopo l'uscita degli USA) e approfondire il tema della tutela delle biodiversità, dell'economia ecosostenibile e della riduzione degli inquinanti nella grande industria. L'impegno a non superare il 1,5 gradi centigradi d'innalzamento della temperatura non basta; per cercare di salvare il pianeta bisogna fare di più e più in fretta perché la natura si sta ribellando e il tempo è quello che manca all'uomo.

Le alluvioni ricorrenti di novembre in Italia. Incredibile lista di eventi, scrive Mauro Meloni su meteogiornale.it il 06-11-2018. Non c'è solo il 4 novembre del 1966 nell'elenco delle gravi alluvioni che hanno colpito l'Italia in questo mese, fino ad arrivare a quanto accaduto quest'anno.

Quella di 52 anni fa è stata una data passata alla storia su Firenze per la peggior alluvione di cui abbia sofferto in tempi recenti (ci furono alcuni eventi ancor maggiori nel Medioevo). Le incessanti piogge causarono la tracimazione dell'Arno nel cuore vecchio della città, fecero 34 vittime e danni inestimabili al patrimonio artistico. Link all'approfondimento. Oltre a Firenze, sempre in Toscana l'alluvione colpì anche Grosseto e la Maremma. Nello stesso giorno di Firenze l'alluvione interessò anche vaste parti del Triveneto, con l'esondazione di numerosi grandi fiumi e un tragico bilancio di vittime, più di 30 in totale. Fu un evento non dissimile da quello avvenuto quest'anno, con anche migliaia e migliaia di alberi abbattuti dal vento. L'alluvione di Firenze e del Triveneto non è stata l'unica disastrosa alluvione nel mese di novembre in Italia. Novembre è anzi il mese in cui più facilmente la nostra nazione è interessata da violente perturbazioni atmosferiche, in quanto mese di passaggio dal semestre caldo a quello freddo.

Masse d'aria di origine diversa tendono a scontrarsi, quando il mare è ancora piuttosto caldo e in grado di fornire un surplus di energia. L'altra grande alluvione novembrina passata alla storia è quella che ha interessato il Polesine nel 1951, quando la grande piena del Po causò ben 84 vittime. Ma non fu la sola. Due anni dopo l'alluvione di Firenze, toccò al biellese soffrire di una gravissima alluvione. Tra l'1 e il 4 novembre del 1968 le eccezionali piogge causarono 72 vittime. 

Arriviamo quindi al 1994 per la successiva grande alluvione novembrina. È il 5 novembre quando le piogge eccezionali causano le alluvioni nel cuneese, nell'alessandrino e nell'astigiano, soprattutto lungo la Valle del Tanaro e in parte di quella del Po. Le vittime alla fine saranno 70. 

Passano ancora gli anni. Il Ponente Ligure è scosso da una grave alluvione nel novembre 2000, dopo che in ottobre un evento ancora maggiore aveva colpito Piemonte e Valle d'Aosta. Arriviamo agli ultimi anni, in cui gli eventi si sono moltiplicati.

Tra l'1 e il 2 novembre 2010 l'alluvione colpisce il Veneto causando 3 vittime. Link all'approfondimento. È il 4 novembre del 2011 quando l'alluvione colpisce alcuni quartieri di Genova causando 6 vittime (10 giorni prima l'alluvione aveva colpito Cinque Terre e Lunigiana). 

Il 22 novembre 2011 l'alluvione colpisce invece il messinese causando 3 vittime. Link all'approfondimento. Nel novembre del 2012 varie alluvioni colpiscono la Toscana e parte dell'Umbria. La più grave è quella della Maremma che causa 6 vittime. Link all'approfondimento.

Siamo al 2013 e all'evento tragico che ha colpito parte della Sardegna, soprattutto Olbia, il 18 novembre. Le vittime furono 18. Link all'approfondimento. Questa lunga lista di eventi alluvionali luttuosi è andata avanti nel novembre del 2014, quando le alluvioni colpirono la Toscana e la Liguria, causando nel complesso 4 vittime.

Grandi alluvioni ci sono state anche in altri mesi, specialmente in settembre e ottobre, tra queste ricordiamo le grandi alluvioni del 1951 tra Sardegna, Calabria e Sicilia, quella del 1953 ancora in Calabria, quella del 1954 a Salerno.

Poi spicca l'alluvione del 1970 a Genova, quelle del 1977 e 2000 nel Nord-Ovest, quella di Soverato (Calabria) nel 2000, quella del cagliaritano (Capoterra) nel 2008, quella del messinese nel 2009, quella delle Cinque Terre nel 2011. Più rare, ma non assenti, le grandi alluvioni negli altri mesi dell'anno.

Da Sarno a Palermo, 20 anni di alluvioni e frane, scrive il 5 novembre 2018 “Il Sole 24 ore. La tragedia della villetta sommersa dall'acqua e dal fango del fiume Milicia, vicino a Palermo, che ha causato 12 vittime, è solo l'ultimo di una serie di disastri che regolarmente investono vaste zone d'Italia a causa del maltempo ma anche di un dissesto idrogeologico che rende il territorio sempre più fragile in assenza di un controllo e di una prevenzione adeguati. Da lunedì scorso sono in totale 30 le persone che hanno trovato la morte a causa del maltempo.

Ecco le principali catastrofi degli ultimi 20 anni.

5 maggio 1998 - Interi quartieri cancellati da tonnellate di fango, una marea nera che ha travolto case e persone scendendo a valle dalla montagna sotto l'azione della pioggia: un incubo che a Sarno provoca 137 morti.

9 settembre 2000 - Tre giorni consecutivi di pioggia martellano la Calabria, e il campeggio 'Le Giare' di Soverato si trasforma improvvisamente in un fiume in piena che travolge tutto: 13 i morti.

1 ottobre 2009 - Il dissesto idrogeologico e le forti piogge provocano in provincia di Messina gigantesche colate di detriti che travolgono abitazioni e automobilisti tra Giampilieri superiore e Scaletta Zanclea. 37 i morti.

4 novembre 2011 - Disastrosa alluvione a Genova a seguito di un'eccezionale precipitazione in alcuni quartieri del levante della città in Val Bisagno. I morti sono 6.

18 novembre 2013 - 20 ore di precipitazioni devastano la Sardegna nord orientale. Ponti crollati, campagne allagate e una vera e propria tempesta si abbatte su Olbia. Le vittime sono 18.

25 ottobre 2011 - Una delle peggiori alluvioni della storia della Liguria si abbatte sulle Cinque Terre. Vernazza è invasa da un fiume di fango e danni gravissimi si registrano anche a Monterosso. Le vittime furono 18. I danni sono calcolati in centinaia di milioni di euro.

2 agosto 2014 - Un impressionante nubifragio colpisce la valle del torrente Lierza (Treviso) che straripa investendo un centinaio di persone riunite nono lontano per una manifestazione locale. I morti sono 4.

18 gennaio 2017 - Una slavina di dimensioni gigantesche si stacca dalle pendici del Gran Sasso e si incanala in un canalone in località Farindola dove è stato costruito l'hotel Rigopiano che sepolto da metri e metri di neve. I morti sono 29.

9/10 settembre 2017 - Il preavviso della Protezione civile e la diffusione di un'allerta arancione non bastano a evitare il disastro di alluvione che, complice un territorio compromesso da una carente manutenzione, colpisce Livorno e provoca la morte di 9 persone. 

20 agosto 2018 - Nove escursionisti e una guida muoiono dopo essere stati sorpresi da un violento temporale e dalla conseguente ondata di piena delle gole del torrente Raganello, in provincia di Cosenza.

3 novembre 2018 - Nove le vittime della tragedia di Casteldaccia (Palermo), morte a causa dello straripamento del fiume Milicia per le piogge. Tra le vittime dell'esondazione del fiume Milicia a Casteldaccia (Palermo) vi sono due bambini di uno e tre anni. Nella casa travolta dall'acqua si trovavano due nuclei familiari. Le vittime sono: la piccola Rachele Giordano di 1 anno e il piccolo Francesco Rughò, 3 anni. Poi Federico Giordano di 15 anni, che ha tentato di salvare la sorellina, la madre Stefania Catanzaro, 32 anni e moglie di uno dei tre sopravvissuti Giuseppe Giordano che si trova in ospedale con una bambina. Il nonno Antonino Giordano, 65 anni, e la moglie Matilde Comito, 57 anni; il figlio Marco Giordano, di 32 anni, e la sorella Monia Giordano, di 40; Nunzia Flamia, 65 anni.

Da Genova a Messina, le differenze di un'Italia flagellata, scrive il 23 novembre 2011 La Repubblica. La furia della natura distrugge sviluppo e sottosviluppo: gli edifici abusivi del meridione e la bellezza delle città storiche. Provocando lo stesso dolore ma reazioni diverse: rassegnazione al Sud e rabbia al Nord portando la macchina della solidarietà in direzioni diverse.

DOPO IL VIDEO EDITORIALE SULLE ALLUVIONI IN ITALIA. La Repubblica dei pregiudizi. Un paio di risposte a Merlo, scrive il 24/11/2011 Elena Di Dio su Blog Sicilia. A Saponara, un piccolo paese a 23 chilometri da Messina, si spala fango, si scava alla ricerca dei morti, si piange la fine vergognosa di un bimbo di dieci anni. In provincia di Messina la pioggia ancora una volta ha portato la morte. Val la pena ricordare tre date: 1998 morirono in cinque, 2009 Giampilieri ha perso 37 suoi cittadini, 2011 Saponara conta tre morti. Mentre ancora si contavano danni e ci si leccava le ferite, si cercavano nel fango di contrada Scarcelli i corpi di Giuseppe e Luigi Valla e mentre la madre di Luca, Piera in ospedale chiedeva alla sorella di occuparsi del suo piccolo, negando un’evidenza che i suoi occhi hanno visto ma la sua testa non si arrende ad accettare, Francesco Merlo, editorialista di Repubblica confezionava il suo commento.

Postato su repubblica.it, Merlo fotografa l’Italia delle alluvioni mettendo a confronto le immagini di Genova e Messina. Le sue parole sono chiare, i suoi giudizi sibillini, i suoi pregiudizi evidenti. Eccone alcuni stralci, riportati anche nell’estratto video che alleghiamo: “E’ la stessa Italia che viene portata via, la stessa Italia che diventa fragile di fronte alla violenza della natura. Però, appena l’occhio si abitua al flagello, ecco qui si distingue il fiume che corre e distrugge il centro storico, qui invece le case sono abusive, qui viene sgretolata un’edilizia improvvisata e qui ci sono le stratificazioni urbanistiche di secoli, il mattone selvaggio e invece lo spazio pubblico celebrato. La forza dell’acqua distrugge sviluppo e sottosviluppo… Di là c’è l’accozzaglia di laterizi e qua c’è la bellezza di città che sono storicamente costruite per piacere, per aiutare l’uomo a vivere e non a sopravvivere… E però poi, diciamo la verità, la pietà è diversa… però la disgrazia di Genova fece esplodere gli animi e anche mettere mani al portafoglio mentre questa disgrazia qui, in corso, provoca rassegnazione e diffidenza al Sud… una stanca pietà che molto di rado riesce a diventare solidarietà, aiuto e partecipazione…Non c’è persona perbene che non pensi che il Sud sia violento, imprevedibile, inaffidabile, sprecone, confusionario, corrotto, mafioso, camorristico e quindi non c’è persona che non pensi che aiutare il sud possa risultare pericoloso, fortemente pericoloso…”.

Ha ragione però Merlo, perché rivendicare senza ammettere le proprie responsabilità, fa perdere credibilità al proprio pensiero. Ha ragione quando accenna appena al vero problema di questo territorio che sembra fatto di pasta frolla. Il vero problema è un’urbanizzazione galoppante, un’aggressione del territorio senza alcuna saggezza amministrativa, la cecità idiota di amministratori locali che confondono lo sviluppo con le costruzioni. Ha ragione, ma non lo sa Merlo. Perché queste sono accuse che non esprime. Si sofferma con una superficialità colpevole – visto che scrive dalla sua comoda poltrona romana – all’assioma sud=sottosviluppo, sud=abusivismo, sud=corruzione. No, Francesco Merlo, su questo si sbaglia. Le case di Saponara che è un piccolo paesino a 23 chilometri da Messina, fu feudo dei Di Giovanni, principi di Trecastagni e poi passò ai Principi di Alliata, non sono abusive, nessuna costruzione a ridosso della battigia (visto che non è sul mare), nessun abuso edilizio (non così evidente, insomma, e non desumibile da una fotografia). E comunque non certificato e dimostrato da Merlo nel suo commento. Che mostra solo il volto più ambiguo degli intellettuali progressisti e snob che sempre più evidentemente danno fiato a quegli istinti razzisti che la Lega interpreta con tanto dilagante successo. Una convinzione, quella della deriva razzista della grande stampa nazionale, sentendo le parole di Francesco Merlo abbinate alle immagini che il giornalista di Repubblica commenta, comune a tanti dei 5000 lettori che hanno condiviso il documento video su Fb o l’hanno commentato su Twitter.

Come Melissa SynSmash che scrive: “Io sono sconvolta, questo servizio è vergognoso!”. “I nostri morti, le nostre sciagure – commenta invece il professore Massimo Costa, docente di Economia aziendale all’Università di Palermo – sono occasione, l’ennesima, per il linciaggio mediatico dei territori e dei popoli che già hanno subito più di tutti la cosiddetta unità d’italia che il presidente Napolitano tanto sbandiera ogni giorno, tanto tronfia, quanto desolantemente ipocrita e vuota. Credetemi, dopo aver visto questo video, mi sono convinto che non c’è più nessuna possibilità che esista, almeno per noi siciliani, un paese chiamato Italia”.

Luciano Marabello, architetto messinese, commentando su Fb l’editoriale di Repubblica.it scrive: “Merlo estetizza il mondo e sbaglia, confonde reddito e sviluppo, confonde colate di cemento cattive e secondo lui buone, tagga il primato della cubatura edilizia (assurda) di Genova etichettandola come stratificazione urbanistica e inchioda al pubblico disprezzo la cubatura spregevole dei nostri luoghi, ha le visioni e trasfigura i torrenti intubati genovesi in infrastrutture dello sviluppo e guarda con pietà sprezzante le fiumare intubate del messinese spappolate alla stessa maniera di quelle liguri. Il clima e il territorio sono fatti complessi. Non basta sparare parole d’ordine legalità, abusivismo, bellezza, bruttezza e per questo avere capito cosa succede e cosa fare. Occorre ridisegnare le città e i territori togliendo e decrescendo. E’ questa la sola frontiera dello sviluppo”.

“Vergognatevi di un video del genere che giustifica il razzismo” twitta invece dani_libertad.

Marco Papale: “Con quale coraggio avete potuto pubblicare un video del genere? Vergognatevi di fronte a tutta l’Italia”.

O la mail inviata al direttore di Repubblica da linkxvi. O il commento di Fefola che insieme a migliaia di altri cittadini ha chiesto a Fiorello che fra i primi su Twitter ha partecipato alla tragedia di Messina, di dare un segnale. E Fiorello oggi twitta una notizia importante: “Si ragazzi, ho fatto la richiesta!!! (numero x aiuti alluvione da dare lunedì in puntata!!)”.

Un coro di proteste unanime che raccoglie un sentimento sempre più diffuso fra chi sempre più convintamente, individua una campagna antimeridionalista sulla grande stampa. Forse non è poi così falso.

“Da Genova a Messina, le differenze di un'Italia flagellata”: Merlo racconta i pregiudizi di chi ci guarda dall’alto dello stivale, ma viene equivocato. Sui social network si susseguono le reazioni, le risposte e gli attacchi al giornalista di Repubblica, che in un video pubblicato sul sito on line del famoso quotidiano mette a confronto le due alluvioni ed il modo in cui sono state percepite dall'opinione pubblica, spesso incline a giudicare in base a stereotipi consolidati senza reale cognizione dei fatti. Per non incorrere nello stesso errore dei nostri connazionali del nord ed evitare di cadere nella facile tentazione di intervenire nelle questioni pervasi da stupidi pregiudizi, vi proponiamo il video integrale pubblicato da Merlo su Repubblica.it, da ascoltare attentamente e sino alla fine, scrive su tempostretto.it Danila La Torre Lunedì, 28 Novembre 2011. «La furia della natura distrugge sviluppo e sottosviluppo: gli edifici abusivi del meridione e la bellezza delle città storiche». Parla così Francesco Merlo nel video pubblicato sul quotidiano on line “La Repubblica” all’indomani dell’alluvione che ha colpito il territorio messinese e flagellato i comuni di Saponara e Barcellona Pozzo di Gotto. Parole dure, inaccettabili che per molti hanno rappresentato ed ancora oggi rappresentano una pugnalata al cuore, in un momento in cui il cuore continua a sanguinare per un dolore che non trova giustificazione. Parole che hanno fatto il giro dei social network ed hanno provocato la reazione sdegnata, incazzata ed orgogliosa di tanti messinesi e  siciliani che non si arrendono all’idea di sapere che, per chi osserva da fuori -  come nel caso del giornalista de “La Repubblica”, siciliano d’origine ma emigrato al Nord -  nei nostri territori ,devastati dalla furia della natura tanto quanto quelli che sorgono ad altre latitudini, ci sia solo «un’accozzaglia di laterizi» , mentre altrove prevale la «bellezza di città storicamente costruite per piacere». Chi scrive ha trovato inopportune e prive di sensibilità le parole pronunciate da Francesco Merlo in quel video, ma si è dovuta ricredere dopo una visione ed un ascolto più attenti. Il racconto di Merlo si snoda attraverso parole che sono il frutto di un pensiero diffuso e superficiale, che tuttavia non appartiene all’autore ma a molti, moltissimi italiani che ci guardano dall’alto dello stivale, con supponenza e senso di superiorità. Nella sequenza di scatti e riflessioni a voce alta, Merlo mette a confronto le tragedie di Genova da una parte e Saponara e Barcellona Pozzo di Gotto dall’altra: le immagini di distruzione e devastazione sono uguali ed è difficile scorgere le differenze.  Eppure, le due alluvioni sono   distanti, non solo geograficamente ma soprattutto nel modo in cui l’opinione pubblica, certa opinione pubblica, le ha percepite e giudicate affidandosi probabilmente, come lo stesso Merlo ipotizza negli ultimi 3 secondi del video, ad un pregiudizio più che ad un giudizio. Per non incorrere nello stesso errore dei nostri connazionali del nord ed evitare di cadere nella facile tentazione di intervenire nelle questioni pervasi da stupidi pregiudizi, vi proponiamo il video di Francesco Merlo e ci permettiamo di darvi un consiglio: non vi fermate alle apparenze ed ascoltate attentamente e sino in fondo.

Maltempo: perché i fenomeni atmosferici sono sempre Abusivismo. C’è Necessità di Abbattere Tecnici e Politici. Ecco la Posizione di Freebacoli del 16 dicembre 2011. Come da proposta dei Consiglieri Adele Schiavo e Josi Della Ragione, presentata nel corso del penultimo Consiglio Comunale, ribadiamo che siamo completamente contrari all’abusivismo, che è un cancro per il nostro territorio. Ciò detto non si può nascondere la testa come gli struzzi e fare finta che un problema così grave e complesso come quello dell’abusivismo possa essere risolto abbattendo qualche casa di persone che hanno effettivamente commesso un abuso, ma per viverci dentro, non per specularci sopra, soprattutto in un territorio come quello della Campania, e di Bacoli in particolare, dove si fa fatica a trovare qualche costruzione che sia completamente in regola. Ricordiamo poi che lo scempio di un territorio non è fatto soltanto con nuove volumetrie o incrementando quelle preesistenti, ma anche distruggendo o alterando facciate, scale ed altri elementi tipici del luogo, che costituiscono patrimonio del nostro territorio, alterando così l’essenza stessa dei nostri centri storici. Noi siamo per la legalità e per la Giustizia, quella con la G maiuscola, non per il becero giustizialismo, dettato purtroppo molto speso da faide e ritorsioni personali; noi crediamo fermamente nello Stato di diritto. Cominciamo pertanto dai numeri, quelli che spesso danno risposte molto chiare. Nel 1950 Bacoli contava circa 18.000 abitanti; nel 2000 circa 27.000, con un incremento del 50%. È stata data a tutte queste persone la possibilità di poter trovare un alloggio e di poter edificare una propria casa? A Bacoli davvero non c’era spazio a sufficienza per poter costruire, in nessuna frazione della città? Questo senza tener conto che per uno sviluppo turistico serio, bisognerebbe anche prevedere l’incremento delle necessarie strutture. La massima ammirazione, e lo diciamo senza alcuna retorica, per quel lettore che ci scrive ripetutamente dicendoci che lui, piuttosto che piegarsi ad edificare abusivamente, ha preferito lasciare Bacoli. Lui ha fatto non bene, ma benissimo, ma male, anzi malissimo hanno fatto tutti quegli Amministratori e funzionari pubblici che non hanno tenuto in nessun conto le esigenze delle persone. O peggio, ben conoscendo le necessità della gente, ci hanno speculato sopra. Le case non nascono come i funghi ma ci vuole tempo per costruirle; è mai possibile che nessuno si sia accorto e ancora oggi non voglia accorgersi, che vengono edificate abusivamente delle costruzioni? E perché non si provvede ad abbatterle immediatamente, prima che vengano completate, arrecando così un danno minore all’abusivo? Dove erano tutti, quando ad esempio si è costruito quello scheletro di ecomostro a 10 metri dal Complesso Vanvitelliano del Fusaro, a fronte strada? Dove erano, intendiamo, non soltanto le “Autorità”, ma anche tutti i cittadini che girano la testa e non denunciano le irregolarità. Il cittadino che costruisce abusivamente sbaglia, sicuramente sbaglia, ma non è il solo a sbagliare; è molto più colpevole chi ha chiuso entrambi gli occhi, dicendo a chi voleva costruire abusivamente: “la licenza edilizia non te la do, ma tu costruisci, io chiudo un occhio”, ed ha trasformato quello che era il diritto ad avere un’abitazione, in un piacere da elargire. Questo è il maggior sbaglio di chi ha costruito abusivamente, l’aver accettato questo stato di cose come ineluttabile, facendosi poi, come mi diceva qualche giorno fa in maniera molto colorita una signora “prendere per il cravattino”. E come pagano i tecnici, amministratori e politici, complici di chi ha edificato? Il piano regolatore di Bacoli ha più di 40 anni.  È mai possibile che ci debbano essere vincoli tali, dappertutto, per cui nulla è permesso? Generalmente quando nulla è permesso, tutto è poi concesso. E così politici, tecnici e funzionari hanno a volte fatto, fortunatamente non tutti, la loro fortuna sfruttando questo stato delle cose. E, se a qualche cittadini abusivista, scelto a caso dalla sorte, o molto più frequentemente denunciato per beghe varie da qualche vicino, viene abbattuta la casa, la casa dovrebbe poi essere abbattuta a tutti, ma davvero a tutti, quelli che hanno commesso abusi edilizi. A Bacoli ci sono migliaia di case abusive e, a quanto si dice, 70.000 in tutta la Campania. Si abbatteranno tutte queste 70.000 case? E quale sarà il dramma sociale che si creerà così. Le due leggi regionali di Bassolino, che negavano il condono del 2003, sono state cancellate poi da due sentenze. Perché la Campania deve essere trattata differentemente dal resto dell’Italia? Sono le ville dei camorristi, come dice Bossi, quelle che stanno abbattendo? Ha ragione lui che liquida il grave problema con una squallida battuta? Vogliamo evidenziare che troppo frequentemente è purtroppo il cittadino meno ricco, che non ha le giuste conoscenze, che non riesce ad avere i permessi o a far ritardare le pratiche ad avere la peggio. Ci si provi a chiedere, ad esempio, quanti alberghi o complessi turistici siano, in tutta la Campania, stati colpiti da ordini di abbattimento, e quante, invece, le prime case di comuni cittadini. E tutti gli abusi edilizi che sono stati commessi su suolo pubblico, come quelli del Centro Ittico Campano e che non potranno neanche mai sperare in un condono edilizio? E tutti quelli costruiti su beni archeologici? Quelli devono essere semplicemente ignorati? Siamo assolutamente contrari all’abusivismo edilizio e non siamo contro gli abbattimenti. Soltanto questi abbattimenti devono essere fatti con una logica, colpendo soprattutto gli abusi più gravi e speculativi, non quelli di chi ha costruito per sé, su suolo di sua proprietà, specialmente in aree NON soggette a vincolo. Quello che noi chiediamo è una legge che corregga queste aberrazioni e che introduca la responsabilità di chi, nell’ambito della Pubblica Amministrazione ha il dovere di dare risposte concrete. Dobbiamo diventare un Paese serio, dove c’è la certezza di quello che si può fare o non si può fare e dove i tempi siano “tempi certi” non sottoposti all’arbitrio di chi, se non li rispetta, non paga poi niente. La Magistratura, come dichiarato dallo stesso Sindaco Ermanno Schiano in Consiglio Comunale, è stata così inflessibile, anche perché la credibilità del nostro Comune presso i Magistrati ed indirettamente verso i cittadini è molto scarsa. È questa credibilità che con i fatti, non a parole, deve essere recuperata. Facciamo presente che non è la sola Magistratura che può ordinare gli abbattimenti, che dovrebbero poi essere effettuati a seconda della data in cui la sentenza è passata in giudicato, ma anche il Comune, che potrebbe invece graduarli secondo la gravità del reato commesso e secondo lo stato di necessità.

Case abusive in Italia; la mappa. Non solo si costruiscono case in maniera illegale, ma le ordinanze di demolizione non vengono eseguite (in attesa di condono), scrive Barbara Massaro il 6 novembre 2018 su "Panorama". Quella delle case abusive è una piaga tutta italiana. Quello che è successo alla villetta travolta dalla piena del fiume Milicia nei pressi di Casteldaccia sarebbe potuto accadere ad altri 71.000 immobili sui quali pende da anni una sentenza passata in giudicato di demolizione. Case, alberghi, uffici e ville costruite in luoghi dove per mille motivi non è sicuro o lecito edificare. Nonostante leggi e buon senso dicano che entro 150 metri dalla costa non sia permesso cementificare o costruire case vicino ai fiumi, a ridosso delle montagne o in luoghi dove la natura possa ribellarsi alla stupidità umana, queste strutture, mattone dopo mattone, giorno dopo giorno sono state terminate e abitate da persone - come nel caso della famiglia di Casteldaccia - che neppure sapevano di vivere in una casa abusiva.

Un fenomeno tutto italiano. Questo, però, è solo il primo aspetto di un fenomeno squisitamente italiano che non solo consente di edificare laddove non si può, ma permette che poi, a danni fatti, si possa chiedere un condono allo Stato. Che poi sarebbe come trovare il ragazzino con le mani nel barattolo della marmellata che chiede scusa ai genitori e pretende anche di portarsela via quella marmellata che non avrebbe dovuto mai toccare. Il terzo step del paradosso dell'abusivismo made in Italy è però il più assurdo. Perché il ragazzetto della marmellata dopo aver chiesto di potersi tenere il barattolo preso in maniera illecita e dopo aver ricevuto un no dai genitori quel barattolo se lo tiene lo stesso, perché è esattamente questo quello che succede nel nostro Paese. Cosa dice Legambiente. Secondo il report di Legambiente che s'intitola Abbatti l'abuso solo il 20% delle 71.000 ordinanze di demolizione che gravano su altrettanti abusi edilizi è stato eseguito, questo vuol dire che l'80% degli ecomostri sono ancora lì dove non dovrebbero essere, come nel caso della villetta di Casteldaccia. E' inutile poi cospargersi il capo di cenere, raccogliere fondi e accusare la natura e il clima pazzo di aver ucciso 9 innocenti che stavano in casa propria. L'unico responsabile del disastro è l'homus italicus con la sua ontologica predisposizione a credersi più furbo del prossimo e a pensare che "fatta la legge, trovato l'inganno".

La mappa dell'abusivismo in Italia. La mappa dell'abusivismo edilizio nel nostro paese parla chiaro. Secondo i dati Istat dell'ultimo rapporto Bes (benessere equo e sostenibile), il 19,7% delle case costruite in Italia lo sono abusivamente con dati che sono raddoppiati tra il 2005 e il 2015 con differenze tra nord e sud. Nel 2015 il 47,3% del patrimonio immobiliare del sud era stato edificato commettendo illeciti; nelle regioni del Centro la percentuale era del 18,9% e al Nord del 6,7%. 

Il caso Campania. La Campania è la regione dove il fenomeno è più esteso con il 50,6% di immobili fuorilegge. Seconda è la Calabria con il 46,6%seguono Molise e Abruzzo, con il 45,8% e Sicilia con il 40%. In Campania la situazione è la più complessa. Nella sola Isola di Ischia ben 600 case sono in attesa di demolizione da anni perché costruite a meno di 150 metri dalla costa o su costiere traballanti e instabili e nel corso dei 3 condoni edilizi più recenti le domande presentate sono state 27.000 circa, cioè 1,2 per ogni famiglia. Nella stessa regione il 97% delle esecuzioni di demolizione non viene eseguita. Si tratta di sentenze già passate in giudicato che risalgono agli anni '90 e che non riguardano solo la Campania. In Lazio, ad Ardea, provincia di Roma, solo gli immobili per cui la Procura ha intimato al Comune di procedere alla demolizione in forza di una sentenza penale definitiva oggi sono 240. Eppure la legge parla chiaro: se il proprietario di un immobile abusivo non provvede alla demolizione entro 90 giorni, l'edificio deve passare al patrimonio immobiliare pubblico (art. 31, comma 3, DPR 380/2001). In pratica questo significa che il Comune può demolire l’immobile o destinarlo ad altri utilizzi di pubblica utilità. Secondo Legambiente, però, solamente il 3,2% degli abusi non demoliti viene effettivamente acquisito al patrimonio comunale sebbene la non acquisizione sia un'omissione di atti d'ufficio e di una responsabilità penale per danno erariale.

Il rapporto tra abusivismo e mafie. C'è poi l'esempio di Licata, in Sicilia, dove le case costruite illegalmente sono quasi 17.000 su un territorio di 180 chilometri quadrati. Si tratta di edifici che si trovano sulla spiaggia, lungo la costa o villini arroccati in zone non adatte allo sviluppo di immobili residenziali. I permessi per mettere la prima pietra sono stati, però, firmati 20 o 30 anni fa quando su 200 concessioni edilizie 130 erano illegali e strettamente connesse a favori tra clan, ecomafie o riciclaggio di denaro sporco. Perché anche questo è un aspetto del fenomeno da prendere in considerazione. Come ricorda il dossier di Legambiente dal titolo L'abusivismo in Italia: "Non bisogna mai dimenticare poi che ad alimentare il fenomeno dell’abusivismo edilizio è anche la connivenza delle pubbliche amministrazioni con la criminalità organizzata, come raccontano le pagine di Ecomafia. L’analisi dei decreti di scioglimento delle amministrazioni locali condizionate dalla mafia restituisce un dato inequivocabile: l’81% dei Comuni sciolti in Campania dal 1991 ad 2013, vede, tra le motivazioni, un diffuso abusivismo edilizio, casi ripetuti di speculazione immobiliare, pratiche di demolizione inevase".

Gli esempi virtuosi. Tra le regioni virtuose sul fronte della demolizione degli edifici abusivi c'è il Friuli Venezia Giulia che già parte da un dato di abusivismo molto ridotto (1,1% della media nazionale) e procede alla demolizione del 65,1% di quell'1,1% contro il 3% di demolizioni della Campania che "vanta" il 23% di edifici abusivi su media nazionale. Risultano buoni i risultati della Lombardia, che - con il 6,9% delle ordinanze nazionali - ne ha eseguite il 37,3%, del Veneto (9,5%delle ordinanze nazionali di cui eseguite il 31,5%) e della Toscana (7,1% delle ordinanze nazionali di cui eseguite il 24,8%). 

Case abusive: perché in Italia è difficile demolirle. La tragedia di Casteldaccia è la prova di un male cronico. Ecco cosa ferma le ruspe, scrive Eleonora Lorusso il 6 novembre 2018 su "Panorama". In Italia ci sono oltre 57.400 case abusive, censite e non demolite. Solo il 3% di questi, pari a 1.850, è stato acquisito come patrimonio del Demanio, come previsto dalla legge in questi casi allo scadere dei 90 giorni del decreto giudiziario. Le demolizioni sono pari al 19,6%: in pratica, in meno di un caso su 5 si interviene con le ruspeper abbattere case, capannoni o villette abusive come quella di Casteldaccia, in provincia di Palermo, dove sono morte 9 persone per l’esondazione del torrente Milicia che si trovava a soli 150 metri. A dirlo sono i dati del rapporto Abbatti l’abuso di Legambiente, presentati proprio a Palermo meno di due mesi fa. Colpa della burocrazia, ma anche della mancanza di personale per eseguire controlli o notificare le ordinanze comunali. Senza contare i costi di demolizione vera e propria che spesso ricadono sui Comuni, già alla prese con problemi economici, se non di vero e proprio dissesto, come nel caso della località siciliana. Esiste poi un problema legato alla giustizia italiana.

Ricorsi, sospensioni e giustizia lenta. “Da un punto di vista legale il motivo principale per cui non si riesce a intervenire con le demolizioni è legato all’iter giudiziario: le ordinanze di demolizione emesse dai Comuni nella maggior parte dei casi vengono impugnate dai proprietari degli immobili davanti agli organi della giustizia amministrativa, ossia il Tar. Questi normalmente chiedono la cosiddetta sospensiva che permette di rimanenere nell’appartamento o nell’edificio ai proprietari, che nel frattempo presentano un ulteriore ricorso al Consiglio di Stato. Il Comune avrebbe teoricamente vinto e quindi sarebbe legittimato a intervenire con la ruspa, ma non lo fa perché, nel caso in cui il Consiglio di Stato dovesse dare ragione al proprietario, si troverebbe costretto a pagare i danni. Il problema è che le udienze davanti al Consiglio di Stato sono fissate con tempi lunghissimi e una sentenza può arrivare anche dopo 5 o 6 anni” spiega a Panorama.it Raffaele Bergaglio, avvocato penalista del Foro di Milano. 

Mancanza di organici. Nel caso di Casteldaccia, l’ex sindaco Fabio Spatafora, ha parlato di migliaia di richieste di sanatoria inevase, per mancanza di personale: l’Amministrazione contava solo su 6 vigili per effettuare sopralluoghi su tutto il territorio comunale. Anche nei casi nei quali il Comune aveva emesso ordini di demolizione, spesso i proprietari o non permettevano di effettuare i controlli o non avevano ottemperato, ricorrendo al Tar, come nel caso di Casteldaccia; oppure ancora avevano ignorato l’ordinanza. Nel caso in cui il proprietario non rispetta l’ordinanza entro 90 giorni, poi, la legge prevede che il bene immobile sia acquisito dal demanio, che deve procedere alla demolizione. Ma se mancano i fondi? E gli occupanti dell’appartamento o dell’edificio, sono obbligati a lasciarlo? “Presupposti per sgomberare ci sarebbero, ma il timore di un ricorso al Consiglio di Stato frena le Amministrazioni. In caso di sospensiva, come detto, i proprietari possono continuare ad abitare nell’immobile, nonostante un primo riconoscimento dell’abuso edilizio. Il problema vero è che in Italia la giustizia è lenta: lo è quella penale, lo è di più quella civile e lo è ancora di più quella amministrativa” dice l’avvocato Bergaglio.

Demolire costa troppo?

La mancanza di fondi per la demolizione rappresenta spesso un ostacolo per le Amministrazioni comunali. Ma anche quando questi ci sono, spesso non sono utilizzati, come accade al Fondo per la demolizione delle opere abusive, creato dalla Cassa Depositi e Prestiti, di cui sarebbe stato usato poco più della metà (55%). I Sindaci potrebbero contare anche su 50 milioni di euro, a disposizione dall'ottobre del 2004 (a rotazione e senza interessi) per l'anticipo delle spese sostenute e che poi spetterebbe ai proprietari degli immobili abusivi rifondere interamente. Ma solo 140 Amministrazioni ne hanno fatto richiesta nel 2014, per un totale di 509 mila euro. A questo si aggiungano le lungaggini burocratiche che disincentivano il ricorso a questi fondi: il Comune che ne fa richiesta deve presentare un’apposita documentazione a supporto, poi procede con la demolizione e solo a lavori ultimati viene rimborsato sulla base di quanto fatturato dall’azienda incaricata. Una procedura tale da bloccarsi spesso prima di partire.

Le regioni più "abusive". Secondo il report di Legambiente il primato negativo spetta alla Campania, dove dal 2004 ad oggi solo il 3% delle costruzioni abusive è stato demolito. A seguire ci sono la Calabria (6%), la Puglia, (16,3%) e la Sicilia (16,4%). La regione più virtuosa risulta, invece, il Friuli Venezia Giulia, con il 65,1% di edifici illegali rasi al suolo, seguita dalla Lombardia (37,7%) e dal Veneto (31,5%). L’unica regione del centro-sud ad attestarsi ai primi posti è la Toscana, con il 24,8% di demolizioni.

Un problema “storico”. A confermare una situazione di forte differenziazione a livello territoriale è il presidente di Assoedilizia, Achille Colombo Clerici: “Purtroppo il fenomeno di un certo abusivismo è localizzato prevalentemente al sud, ma occorre fare delle distinzioni e soprattutto inquadrare il fenomeno a livello storico: fino al 1942 non c’erano piani regolatori, il 30% del patrimonio edilizio è stato realizzato prima, tra gli anni '20 e '30. Qualcuno oggi si ritrova semplicemente vecchie case, realizzate in assenza di norme e riammodernate. In questo caso i cittadini non vanno criminalizzati” spiega Colombo Clerici, che è anche presidente di Federlombardia Edilizia. “Ben diverso è il caso dell’abusivismo per speculazione o quello di immobili realizzati in situazioni di compromissione grave dell’ambiente da un punto di vista paesaggistico, o ancora se ci sono pericoli per quanto riguarda la condizione idrogeologica. Per tutto ciò che non rientra in questa casistica, però, occorre procedere con cautela, anche perché siamo in una situazione di farragine normativa: non c’è uniformità di leggi a livello nazionale e la frammentazione regionale rende tutto più difficile” dice il presidente di Assoedilizia. Il ministro dell'Ambiente, Costa, ha chiesto una norma veloce contro gli abusi edilizi: “Sono d’accordo, occorre una legge urbanistica, così come una normativa sul regime dei suoli e il consumo dei suoli, che però non sia pensata modulando quelle di paesi come Francia o Gran Bretagna, ma che tenga conto delle peculiarità del territorio italiano” conclude Colombo Clerici.

"Sulla villa della tragedia pendeva un ordine di demolizione che è stato impugnato dai proprietari davanti al Tar. Da quanto ci risulta, il tribunale amministrativo non ha ancora provveduto, per cui la demolizione non è stata possibile". A dichiararlo è il sindaco di Casteldaccia, Giovanni Di Giacinto. La villetta travolta dal fango e dall'acqua provenienti dal fiume Milicia, nel palermitano, dove hanno perso la vita nove persone, non è l'unica abitazione sulla quale pendeva un ordine di demolizione. Secondo un recente dossier di Legambiente, c'è un'Italia abusiva che resiste alle ruspe. Nel Belpaese, infatti, oltre 71mila immobili sono interessati da ordinanze di demolizione, e più dell'80% non sono ancora state eseguite.

Abusivismo edilizio: le regioni più esposte al fenomeno. Per fare una stima dei metri cubi di cemento fuorilegge, Legambiente si affida al rapporto "Bes" dell’Istat, secondo il quale nel 2015 l’abusivismo edilizio riguardava il 47,3% del patrimonio immobiliare al Sud, il 18,9% nelle regioni del Centro e il 6,7% al Nord. Analizzando il periodo dal 2005 al 2015, al Sud il dato non è mai sceso sotto il 24%, percentuale relativa al 2007. La Campania si conferma la regione più esposta al fenomeno, con una quota di 50,6 immobili fuorilegge ogni cento. Seconda è la Calabria con il 46,6% di edilizia illegale e terza è il Molise, con il 45,8%. Il dato nazionale dal 2005 al 2017 sale dall’11,9% al 19,4%. Per anni, denuncia ancora Legambiente, il fenomeno dell'abusivismo "è stato totalmente fuori controllo".

La mappa delle case fuorilegge: il filo dell'abusivismo lega nord e sud. Oltre 71mila immobili sono interessati da ordinanze di demolizione, e più dell'80% non sono ancora state eseguite: è l'Italia abusiva che resiste alle ruspe, scrive la Redazione di Today il 5 novembre 2018. Ad Ardea, comune della provincia di Roma, solo gli immobili per cui la Procura ha intimato al Comune di procedere alla demolizione in forza di una sentenza penale definitiva oggi sono 240. In Campania, il Procuratore generale di Napoli Luigi Riello ha recentemente ricordato che il 62% degli immobili è stato realizzato abusivamente. Solo sull’isola di Ischia, prosegue il dossier, le case abusive colpite da ordine definitivo di abbattimento sono 600 e le pratiche di condono presentate in occasione delle tre sanatorie arrivano al ragguardevole numero di 27mila, una media di quasi una per famiglia. Tra Torre del Greco e Massa Lubrense, nel golfo di Napoli, secondo la Procura della Repubblica di Torre Annunziata guidata da Alessandro Pennasilico, che ha istituito un apposito ufficio, gli immobili da abbattere con sentenza passata in giudicato raggiungono la cifra impressionante di 3.353.

Spostandoci in Sicilia, la situazione non cambia. A Termini Imerese, denuncia ancora Legambiente, giacciono in attesa di esecuzione ben 850 ordinanze definitive, di cui molte con sentenza che risale all’inizio degli anni ’90. Il Procuratore Capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, intervenendo a un convegno organizzato da Legambiente ad aprile, ha dichiarato che nei comuni della provincia di Pirandello, Sciascia e Camilleri, pendono oltre 36mila istanze di condono. Di queste, 9.998 sono nel comune di Palma di Montechiaro, con una media di 1,2 per famiglia. Stessa realtà di Licata, dove le case illegali sono 17mila, anche qui 1,2 a famiglia, su un territorio di 180 chilometri quadrati. Di queste, 400 sorgono entro la fascia d’inedificabilità assoluta dei 150 metri dal mare, e la gran parte risale agli anni Ottanta e Novanta, quando a fronte di 150-200 concessioni edilizie, contestualmente si rilevavano 100-130 abusi. Le domande di condono sono state 10.500, quasi tutte evase dal comune con esito negativo e quindi relative a case che devono essere demolite senza alcuna via di scampo.

Le ordinanze di demolizione eseguite sono solo il 19,6%. Dal 2004 a oggi, in Italia, risultano eseguite il 19,6% delle ordinanze di demolizione emesse, ovvero ne mancano all’appello oltre l’80%, scrive nel dossier Legambiente. Se si considera il rapporto tra ordini di demolizione e abbattimenti, la performance migliore è quella del Friuli Venezia Giulia, con il 65.1%, quella peggiore è della Campania, con il 3% di esecuzioni. Se si considera il numero assoluto di ordinanze in ogni regione in relazione al dato nazionale, allora la prospettiva si corregge: il Friuli Venezia Giulia ha un tasso di demolizioni alto a fronte di un numero basso di ordinanze (l’1,1% a livello nazionale), mentre la Campania detiene il record di ordinanze, oltre il 23% del totale nazionale. Risultano buoni i risultati della Lombardia, che con il 6,9% delle ordinanze nazionali ne ha eseguite il 37,3%, del Veneto (9,5% delle ordinanze nazionali di cui eseguite il 31,5%) e della Toscana (7,1% delle ordinanze nazionali di cui eseguite il 24,8%). Se guardiamo alle regioni storicamente più esposte al fenomeno dell’abusivismo, la Sicilia ha il 9,3% del totale nazionale delle ordinanze emesse e di queste ne ha eseguite il 16,4%, la Puglia ha abbattuto il 16,3% degli immobili colpiti da ordinanza che sono il 3,2% del dato nazionale, la Calabria, sul 3,9% delle ordinanze nazionali ha solo il 6% delle esecuzioni. Il fenomeno dell’abusivismo è più rilevante nei Comuni costieri. Se nell'entroterra la media delle ordinanze di demolizione è di 23,3 a comune, spostandoci al mare, il dato decuplica, arrivando a 247,5. Anche in questo caso, la Campania guida la classifica delle regioni, per numero di ordinanze emesse, sia nei comuni costieri che nei comuni dell’entroterra.

Sicilia: storia e cronaca dell'abusivismo edilizio. Oltre 700 mila richieste di condono, più di 10 mila quelle ferme dal 1985. La demolizione rimane ancora un tabù, scrive Carmelo Caruso il 19 maggio 2016 su "Panorama". Prima di punire gli abusi edilizi bisogna accerchiare gli uffici urbanistici. Prima ancora di spedire la ruspa risanatrice e ripristinare la legalità casa per casa, litorale per litorale, in Sicilia è necessario inseguire e multare gli ingeneri municipali che non verificano e non decidono. Riposti negli archivi e protetti dagli armadiacci, dormono, infatti, in questa sciagurata zona rossa, quasi un milione di richieste di condono edilizio (770 mila) di cui 28.043 inevase dal 1985, 12.627 stagionate dal 1994 e 13.121 dal non meno lontano 2003. Servendosi del tempo guasto della burocrazia, i furfanti della casa illegale confidano nella lentezza dei tecnici comunali che non esaminano e nella tenerezza dei governi che condonano. È accaduto per ben tre volte e con tre leggi, 47/1985, 724/94, 326/2003, che hanno allargato i termini della sanatoria edilizia e promesso la salvezza. «E dato che qui è tutto speciale, la politica regionale ha fatto di più. Ha promesso il perdono epocale, la legge incostituzionale per eccellenza. Parlo della promessa di condono per tutti gli edifici costruiti a meno di 150 metri dal mare previsto in un emendamento depositato in Regione da un consigliere. Naturalmente è una legge irrealizzabile, ma i deputati regionali la sventolano per illudere e raccogliere consenso malato» racconta Giorgio Zanna, presidente di Legambiente Sicilia, che non è un fanatico dell’ambientalismo e neppure un antipolitico infuriato. In Sicilia ha ripreso a fare notizia la demolizione. A Licata, da alcune settimane, la Sicilia è tornata a essere stato di diritto e non giungla senza norme. Eseguendo le sentenze della procura di Agrigento che disponevano la distruzione di 10 edifici abusivi costruiti nel 1985, il sindaco, Angelo Cambiano, ha rispettato i suoi poteri e i suoi doveri. Dopo pochi giorni, Cambiano ha subìto un attentato. Degli incappucciati hanno incendiato la casa di campagna del padre. Eroe? «Ci sono delle sentenze passate in giudicato che devono essere eseguite se non si vuole incorrere in altri reati come l’abuso d’ufficio. Qualsiasi sindaco non può sottrarsi» spiega Ignazio Fonzo, un tenace magistrato di una procura, Agrigento, tra le più sensibili e angosciate dal fenomeno dell’abusivismo. In questa provincia è storia sia l’abusivismo quanto l’eversione di alcuni abitanti di Agrigento, Palma di Montechiaro, Licata, Favara, lazzari in cammino, canaglie antistato in difesa del terrazzo illecito. Non c’è abusivo di questi territori che non sia servito di qualsiasi espediente fornito dalla giurisprudenza per ritardare il giudizio, allontanare i denti dell’escavatrice. Il ribaldo del pilastro irregolare si è dunque riparato con le garanzie previste dal codice civile e penale. «È vero che gli uffici tecnici siano lenti, che non esaminano a sufficienza anche per la mole di pratiche. Ma l’abusivo è più protetto di un rifugiato politico. Nel civile servono quasi dieci anni prima di una sentenza di demolizione tra primo grado, ricorso al Tar, sospensiva del procedimento, decisione del Consiglio di stato. E poi c’è sempre un cavillo, un errore di procedura in cui penetrare per contestare. Nel penale invece possono trascorrere anche trent’anni percorrendo i tre gradi di giudizio. Oggi si stanno buttando giù edifici del 1985» rivela l’architetto del comune di Agrigento, Gaetano Greco, un uomo di competenza che però preferirebbe l’obiezione di coscienza, l’addio alla professione. Per provare a demolire l’arretrato che rimane il vero flagello, il direttore del dipartimento Urbanistica della Regione Siciliana, Rino Giglione, ha perfino paracadutato i suoi uomini in 190 comuni e così far accelerare l’esame delle istanze. Lo sa anche Giglione, il quale grazie a un efficientissimo sistema informatico chiamato Siab monitora i dati dell’abuso, che la partita si vince negli angusti uffici tecnici di ogni comune. «Devono esaminare di più, demolire con frequenza e finanziarsi con le demolizioni stesse». In Sicilia la demolizione è come il sacramento della confessione. Si fa per frenare i rigurgiti dello spirito. È sporadica. Si dice che demolire abbia un costo. È vero. Ma è anche vero che la spesa, prescrive la legge, deve essere a carico di chi ha commesso il reato. Nel 2016 il rapporto tra ingiunzioni alla demolizione e demolizioni davvero effettuate dai privati è questo: Agrigento 167/22; Catania 82/3; Caltanissetta 73/6; Enna 43/9; Messina 503/21; Ragusa 9/0; Siracusa 177/9 a Trapani 76/31. E ancora meno sono quelle ordinate dalla procura che i comuni riescono a effettuare. Ad Agrigento nel 2016 sono state 9, a Palermo 14. Ed è un’eccezione speciale Catania soltanto grazie alla dottrina dell’ex procuratore generale Giovanni Salvi e dell’attuale procuratore Giuseppe Toscano. Insieme, la procura e il comune guidato da Enzo Bianco, sono riusciti ad abbattere negli ultimi tre anni 95 manufatti lungo l’oasi del Simeto, un paradiso terrestre infettato da sterminatori di paesaggio. «Ma demolire rimane ancora troppo difficile. Le imprese edili non partecipano ai bandi di demolizione perché temono ritorsioni e i comuni non hanno i mezzi necessari e il denaro. Una soluzione potrebbe essere quella di affidarle al genio militare. E non possiamo neppure dimenticare un altro aspetto. Mi riferisco al danno erariale. I municipi lasciano le case, acquisite a patrimonio, nelle disponibilità degli abusivi senza riscuotere i canoni di affitto. Adesso indaga pure la Corte dei conti» dice ancora il procuratore Fonzo consapevole non solo dello strappo paesaggistico ma anche della rovina economica che l’abusivismo ha generato. La verità è che abusano, abitano ed evadono pure. La Guardia di Finanza sta setacciando i municipi e rovistando i bilanci. A Caltagirone, in provincia di Catania, è ormai certo. Il comune ha permesso in questi anni che 82 abusivi continuassero a risiedere senza saldare il canone di locazione. E va detto chiaro che non si parla dell’abusivismo di necessità, delle baraccacce di Luigi Comencini dove Alberto Sordi giocava a “scopone scientifico” e che ha sviscerato Paolo Berdini in “Breve storia dell’abusivismo edilizio” (edizione Donzelli). È abusivismo di speculazione, quello dei Caisotti di Italo Calvino, «squali senza mento», esaltati dallo sbocco a mare, dal posto al sole. «Sono tutte seconde case, villette edificate a ridosso della spiaggia» conferma ancora Fonzo che conosce non solo i dati catastali ma anche i consumi elettrici. Insomma, non solo è impossibile l’indulgenza ma è un’associazione nel delitto ritardare la tabula rasa, frenare e attendere, comprendere e aspettare. Non è solo abusivismo ma separatismo civile. Anche due scrittori, irregolari e contestatori, come Carlo Fruttero e Franco Lucentini di fronte alla villa fuorilegge invocavano l’epifania della macchina “demolitrice e vendicatrice”. Solo la delicatezza della ruspa può liberarci da questi clandestini con la residenza.

Quando l'abusivismo edilizio è targato Nord Italia, scrive il 04/05/2016 Rossella Muroni, Ecologista e deputata di Liberi e Uguali. Già presidente Nazionale di Legambiente su huffingtonpost.it. Il cemento illegale in questo paese è una piaga nazionale. Legambiente lo ha sempre ribadito, ben consapevole delle differenze che il fenomeno assume tra il Sud, dove si concentra un abusivismo fatto di seconde case, a volte intere cittadelle, specialmente sulla costa nelle zone di maggior pregio turistico; e il Centro Nord, dove prende le forme del micro abuso, dell'ampliamento di cubatura, della terrazza coperta. Senza tralasciare le grandi speculazioni, siano esse fatte di edilizia residenziale, mega alberghi o servizi. Una tradizione, quella di costruire fuorilegge o truccando le carte, che non sopisce nemmeno con la forte crisi dell'edilizia di questi anni. Perché se è vero che anche il mattone selvaggio ha subito una lieve flessione è pur sempre vero che tirare su una casa senza regole costa sempre molto meno. Così, se negli ultimi otto anni il settore edile ha subito una contrazione che l'Istat calcola intorno al 60%, il mercato illegale parallelo si è fermato al 30. E i tentativi di favorire nuovi condoni edilizi, piuttosto che quelli di fermare le demolizioni che negli ultimi tempi sono riprese in molti luoghi simbolo tra Puglia, Sicilia e Campania, sono ancora all'ordine del giorno. Come lo sciagurato Disegno di Legge Falanga, all'esame della Camera proprio in queste settimane. Che anche nel profondo Nord, costruire aggirando le leggi è una pratica consolidata lo dimostrerebbe il caso di Borgo Berga, a Vicenza, dove la Procura della Repubblica nel 2013 ha aperto un'inchiesta su esposto della nostra associazione e del Comitato contro gli abusi edilizi ipotizzando il reato di lottizzazione abusiva e iscrivendo, poche settimane or sono, 17 persone nel registro degli indagati. Parliamo di un'ex area industriale, 100 mila metri quadrati di territorio fragile dal punto di vista idrogeologico racchiusi tra i fiumi Bacchiglione e Retrone, dove fino alla metà degli anni ottanta sorgeva la Cotorossi, storico cotonificio della città, e che nel 2002 è diventata sede di un grosso progetto immobiliare, grazie a una provvidenziale variante urbanistica e alla cessione di numerosi lotti di proprietà del Comune. Nel corso degli anni duemila, il progetto ha preso corpo, la società che ha acquistato i terreni ha ottenuto l'ampliamento delle aree edificabili e il Comune, in cambio, la realizzazione dei Tribunale. Già, perché oggi, nella lottizzazione di Borgo Berga, ha la sua sede anche il Palazzo di Giustizia. E, se non bastasse, a breve, in uno degli edifici già completati, si trasferirà anche l'Agenzia delle Entrate. Peccato che, secondo la stessa Procura e il Gip, i permessi rilasciati per quella lottizzazione, quindi la lottizzazione stessa, siano illegittimi. Vicenda complicata, dunque, su cui pendono interessi imprenditoriali forti e che a oggi, ha prodotto solo il parziale sequestro dell'area. Una scelta, quest'ultima, che ci preoccupa molto, essendo stati messi i sigilli a un lotto non ancora edificato e non alle aree di cantiere, dove le gru continuano indisturbate a costruire palazzi residenziali, aree commerciali e uffici. In un dossier del giugno del 2014 intitolato "Il tribunale di Vicenza. L'ecomostro Padano", Legambiente Veneto denunciava puntualmente fatti e misfatti della lottizzazione di Borgo Berga: dalla mancata bonifica delle aree un tempo sede di industria tessile, al rispetto delle distanze di legge dal corso dei fiumi, in particolare il Bacchiglione, noto alle cronache per la disastrosa esondazione del 2010. Dalla scelta di demolire un importante sito di archeologia industriale alla svendita dei terreni da parte del Comune con indiscutibile danno erariale, dai pareri ammorbiditi alla mancanza di Valutazione ambientale strategica in area a vincolo idrogeologico. E la lista delle irregolarità non finisce qui. Per questo riteniamo che questo cemento illegale targato Veneto debba avere la stessa attenzione che si riserva agli abusi più eclatanti, quelli degli alberghi a picco sul mare e delle villette sulla sabbia che hanno sfregiato le più belle località di mare del nostro Sud. Perché il territorio e il rispetto delle leggi vanno difesi dagli interessi privati illegittimi lungo tutto lo stivale e senza sconti.

Abusivismo al Sud? Il record è a Milano, che ha due volte le richieste di condono di Napoli, scrive Maurizio Zaccone il 25 agosto 2017 su identitainsorgenti.com. Cari Napoletani rassegnatevi. La colpa è vostra. Costruite le case abusive e vi crollano in testa? E ora da chi lo volete? E’ questo il pensiero comune di mezza Italia, lanciato da Feltri e ripreso da tanti. Anche se le case non erano abusive, mica è questo il punto. Anche se gli occupanti non erano i costruttori ma villeggianti innocenti. Anche se una delle 2 vittime è stata colpita dai calcinacci della Chiesa. No, se c’è il terremoto a Ischia, la colpa è dei Napoletani che fanno le case abusive. Nel resto d’Italia mica sono così…Poi ti vai a leggere il rapporto 2012 dell’Agenzia del territorio relativo agli immobili abusivi al 2011 in Italia. E scopri che in Umbria sono state scoperte 3071 unità immobiliari abusive ogni 100.000 abitanti, contro le 2222 della Campania. E al Nord? Ogni 100.000 abitanti sono abusivi 1119 immobili in Veneto, 1573 in Toscana,1600 in Emilia Romagna e 1914 in Piemonte. Ma saranno tutti Napoletani emigrati. Per non parlare delle richieste di condono edilizio che a Milano sono quasi il doppio di Napoli, superata anche da Roma, Firenze e Torino. E che solo lo 0,9% dei Comuni in Italia non ha avuto richieste di sanatoria in materia di abusi. Ma abusivismo non è solo la casetta costruita per viverci. Spesso è intreccio tra politica, imprenditoria e mafie. Legambiente nel 2012 presentò un dossier, “Cemento Spa” che mostra i dati degli intrecci del malaffare al Nord. “La Liguria è la prima regione per numero d’illeciti (al Nord), seguono Lombardia ed Emilia Romagna. Sono 26 i clan censiti dalla Direzione nazionale antimafia, 1.431 i beni confiscati. Lombardia al terzo posto in Italia per aziende sottratte alle organizzazioni mafiose. Milano è al quinto posto per gli immobili tolti ai clan. Senza contare lo scioglimento forzato o le dimissioni anticipate di consigli comunali per infiltrazioni mafiose, Piani di governo del territorio (Pgt) scritti e riscritti “sotto dettatura”, professionisti sorpresi con la mazzetta in mano – e ancora omicidi, sequestri, denunce…e quando non compaiono i boss, capita di imbattersi negli abusivi di professione, che anche al Nord Italia impastano cemento e sfregiano il territorio.” Ma il problema è sempre Napoli, mi raccomando. Perché in tutte le tragedie che hanno colpito l’Italia in questi anni sono state avviate inchieste e spesso accertati abusi, mancati controlli e responsabilità umane a più livelli. Ma l’Italia è bravissima a unire i cuori per ogni tragedia, dando luogo a catene di solidarietà immense, a patto però che non succedano a Napoli, perché lì la spiegazione è sempre un’altra. Avrei tanto voluto che tutti i commentatori da scrivania con la verità in tasca che sputavano veleno su Napoli mentre Ciro era ancora incagliato sotto la rete, per un attimo si fossero trovati lì vicino alle macerie per sussurrarle a Ciro le loro verità. Forse avreste continuato a sputare veleno; ma Ciro, minimo, vi avrebbe sputato in faccia. Maurizio Zaccone

Abusivismo, le verità non dette: le abitazioni irregolari costano la metà (e sono tutte seconde case). Inutile parlare di ritardi nei piani regolatori e abusivismo di necessità. Le persone che costruiscono case lo fanno perché risparmiano. E se affittano ci guadagnano. Ma il prezzo è una casa insicura (e invendibile), scrive il 24 agosto 2017 L’Inkiesta. Non perdiamo tempo tirando in ballo la lentezza della burocrazia, i ritardi nei comuni nei piani regolatori o l’abusivismo di necessità. C’è una piccola verità non detta sull’abusivismo: che costruire una casa al di fuori delle regole costa molto molto meno. Quanto? Circa la metà, spesso meno della metà di una casa regolare. Tra chi lo dice apertamente c’è Legambiente, che lo ricorda all’inizio di uno speciale sull’abusivismo sul proprio sito. Abbiamo chiesto a Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente che è architetto e ha insegnato urbanistica nelle Università di Roma e Pescara, come si arrivi a quella stima. La risposta è che si passa da cinque fattori. Primo: il costo del terreno su cui si costruisce una casa abusiva, tipicamente un terreno agricolo non edificabile o un terreno sottoposto a vincolo, è molto inferiore a quello di un terreno edificabile. Può costare anche un decimo di un terreno edificabile. Secondo: quando si costruisce abusivamente non c’è bisogno di un architetto che firmi il progetto. Terzo: non si pagano gli oneri di urbanizzazione, legati ai servizi comunali (come i servizi idrici) e gli oneri di costruzione, legati al valore aggiunto che si ha costruendo una casa. Quarto: si costruisce con materiale di scarso valore, non fatturato e non certificato. Visto che per costruire abusivamente bisogna fare in fretta, si usa tipicamente del cemento armato. I mattoni spesso sono degradati, tanto non ci sono verifiche. Quinto e ultimo: il costo del lavoro è dimezzato, perché è tutto in nero e realizzato non con imprese ma con manovali presi per due soldi. Le conseguenze sulla sicurezza del lavoro, oltre che sulla concorrenza sleale di chi opera in questo modo, sono superflue. Più importante è ricordare che questa economia sommersa si lega a doppio filo alle cave fuorilegge, alla movimentazione terra e al calcestruzzo e alle imprese dei clan. Zanchini tira anche le somme: il costo di costruzione di una casa legale, senza contare costi del progettista e oneri di urbanizzazione e costruzione, è di circa mille euro al metro quadrato (chiaramente con differenze grandi tra Nord e Sud, dove costa meno). Aggiungendo progettisti e oneri, si arriva a circa 1.400-1.500 euro al metro quadrato. Per contro, una casa abusiva costa tra i 500 e i 700 euro al metro quadrato. «Sono stime, ma ho avuto modo di verificare personalmente questi valori», commenta. Un secondo parere è arrivato a Linkiesta da Nomisma. L’amministratore delegato Luca Dondiconferma sostanzialmente la stima. «Non abbiamo fatto studi - premette -. Tra le voci di risparmio, oltre all'evasione fiscale (dalle imposte all'utilizzo di manodopera in nero, all’acquisto di materiali non fatturati) occorre considerare che la costruzione avviene quasi sempre su terreni che non sono edificabili. Fatto 100 il valore dell'edificio, il 20-25% è riconducibile al terreno, con l’ovvia variabilità territoriale. Nelle grandi città si può arrivare al 30, nei piccoli centri scendere al 15. A conti fatti, il risparmio che si può stimare per l'abusivismo con ogni probabilità eccede il 50 per cento». Costruire una casa abusiva significa edificare una casa insicura, frutto dell’evasione fiscale e destinata a gonfiare gli interessi della malavita. Basta dare un’occhiata alle voci di risparmio: lavoro nero, materiali in nero e non certificati, nessuna firma di un architetto, nessun onere di urbanizzazione, terreni agricoli o vincolati dal costo irrisorio. Che considerazioni si possono trarre da questi dati? Intanto che sarebbe il caso di parlare di questi dati, prima di lanciarsi in riflessioni sulle lentezze della burocrazia e sulla necessità di liberalizzare i permessi di costruire (su questo si rimanda a un post dell’economista Thomas Manfredi). Tutte queste condizioni, in secondo luogo, concorrono a rendere l’edificio, oltre che più economico, anche più insicuro. Spiega Zanchini: «L’abusivismo non è solo quello nuovo e il caso di Ischia lo mostra chiaramente. Nell’isola ci sono state 28mila domande di condono e in larga parte si tratta di secondi e terzi piani di edifici costruiti negli anni Trenta o Cinquanta, spesso originariamente a un piano e senza fondamenta. Nei piani superiori, per fare in fretta in modo che i lavori non vengano bloccati, si costruisce con strutture in cemento armato. Questo è pesante ed è rigido, in caso di sisma si spezza e schiaccia tutto quello che c’è sotto, è una delle condizioni più pericolose in caso di terremoto». Una tipica casa abusiva non nasce completa ma è frutto di continui accrescimenti, spesso da edifici agricoli nati come capanni per attrezzi. Una terza considerazione riguarda l’“abusivismo di necessità”. Secondo Zanchini di questo fenomeno si può parlare fino agli anni Ottanta e inizio Novanta, quando c’era una “fame di casa”, ossia c’era più domanda di case che offerta. «In città come Roma e Napoli sono sorti interi quartieri abusivi, sono l’immagine del malgoverno», commenta. Nel 2017, però, è scorretto rievocare quel termine. «Oggi parlare di necessità vuol dire scusare comportamenti molto diversi. Le case abusive in Italia sono in larga parte seconde case, belle o brutte, in aree più o meno piacevoli, in zone sostanzialmente agricole. Ci sono anche quelli di cui non vogliamo parlare: i rom che si tirano una casa un po’ meglio, gli immigrati. Di questo dovremmo parlare, di chi ha bisogno davvero di una casa e se la costruisce così abusivamente. Ci sono poi i fenomeni, che ancora ci sono in larga parte d’Italia, di vere e proprie speculazioni. Ci sono venditori che si mettono a lottizzare i terreni, a dividerli per fare insediamenti abusivi che provano a rivendere (o affittarle, ndr). E poi c‘è chi si fa la villa sul mare». «L’abusivismo non è solo quello nuovo e il caso di Ischia lo mostra chiaramente. In larga parte si tratta di secondi e terzi piani di edifici costruiti negli anni ’30 o ’50, originariamente a un piano e senza fondamenta. Nei piani superiori si costruisce con strutture in cemento armato. Questo è pesante ed è rigido, in caso di sisma si spezza e schiaccia tutto quello che c’è sotto». A oltre 30 anni dalla legge Galasso del 1985, che ha vietato questo tipo di costruzioni, succede ancora. «Il sindaco di Carini, in provincia di Palermo, nei giorni scorsi mi ha confermato che continuano a costruire a due passi dal mare, dove qualcuno possiede un terreno agricolo -continua Zanchini -. Sta portando avanti le demolizioni, un po’ alla volta. Qual è lo stato di necessità di costruire una casa sul mare a Carini? Nessuno. Normalmente se per qualcuno figura come prima casa è perché è intestata a un membro della famiglia in modo fittiizo». Per il vicepresidente di Legambiente la strada delle demolizioni potrebbe essere affiancata da altre misure. «Andiamo fino in fondo - commenta -. Ci sono delle situazioni, penso a comuni interni del casertano e del napoletano, di abusivismo con persone che non hanno nient’altro. Io dico: diamo ai comuni gli strumenti. Ci sono centinaia di case vuote, diamo ai comuni il potere di sequestrare e affittare a prezzi calmierati quelle case vuote, invece che farli diventare proprietari di una casa abusiva». Per Zanchini uno dei banchi di prova per verificare la serietà del governo, dopo le parole sulla sicurezza e abusivismo arrivate prima a cavallo di Ferragosto e poi dopo il terremoto di Ischia, è l’inserimento nella prossima legge di Bilancio dell’obbligo del fascicolo del fabbricato per chi vende una casa. «Sarebbe un modo per rendere consapevoli gli italiani dei rischi che corrono nelle loro abitazioni. Per questo le associazioni dei proprietari di casa lo osteggiano tanto, gli inquilini chiederebbero di pagare meno affitti perché le case sono insicure. Penso che il ministro Graziano Delrio abbia capito il probleme e sembra convinto, ma in Parlamento diventerà un tema elettorale. Quello che preoccupa di più è il cambiamento di toni dei Cinque Stelle. Finora la loro opposizione era stata uno stimolo per il governo, come nel caso degli ecoreati. Ora stanno andando sulle posizioni più classiche del Centro-Destra, quella per cui la casa di proprietà non si tocca per nessun motivo». «Qual è lo stato di necessità di costruire una casa sul mare a Carini? Nessuno. Normalmente se per qualcuno figura come prima casa è perché è intestata a un membro della famiglia in modo fittiizo».

Case crollate, strade ridotte ad un cumulo di fango e detriti, auto accartocciate, oggetti sparsi ovunque e morti, tanti morti. Un inferno d'acqua colpisce periodicamente i territori italiani. Alla rabbia e al dolore per la perdita di vite umane si aggiungono i tanti, troppi danni materiali, quantificabili in milioni e milioni di euro. Sono quelli che servono alla ricostruzione di case e ponti crollati, alla rimozione dei detriti, al ripristino degli ambienti danneggiati e speriamo, alla messa in sicurezza dei fiumi. Ma tutto questo si può evitare? Difficile dirlo ma certo, si può fare molto per prevenire quei danni, dovuti certo alla portata straordinaria delle piogge, ma soprattutto alla grave incuria di territori sottoposti addirittura a stretto regime di tutela, spesso entro i confini di un parco nazionale. Sul web, in particolare su Facebook e Twitter, censurati dai media si formano gruppi improvvisati di cittadini che protestano inascoltati per le gravi mancanze istituzionali. Per esempio il parco delle “Cinque Terre” è stato nell'occhio del ciclone per l'arresto del presidente e di alcuni funzionari, accusati di intascarsi i fondi destinati alla protezione.

Ma quello che tanti cittadini denunciano, al di là delle responsabilità individuali e di quelle governative (lo Stato destina pochissimi fondi a questo scopo), è il sistema protezionista italiano affidato a pseudo tutele ambientaliste di ideologia sinistroide: capace di sbraitare per le piccole questioni di abusivismo edilizio, ma assente su fronti importanti come quello della manutenzione dei corsi d'acqua e della messa in sicurezza di zone a rischio frane e smottamenti. “Fra un anno staremo qui a piangere ancora i morti – scrive Piero I. sul gruppo No alluvione del Magra – Altri morti immolati alla verde ecologica follia dell'impatto antropico!”. Il suo giudizio è drastico “la gente crepa affogata – scrive – perché ovunque si devono salvare i passerotti”. “Il fiume va pulito – scrive ancora - questa estate si vedevano ancora i "relitti" della scorsa alluvione…pare che sia vietato andare a prendere i tronchi…non ci posso credere”. Lo conferma Giampiero B., geometra di una ditta rimasta sotto il fango, che commenta: “anni e anni fa lavoravamo anche noi nel fiume estraendo ghiaia e tutti questi problemi come oggi non c'erano...sicuramente la pulizia e l'estrazione non sono le uniche soluzioni ma ci vogliono varie opere a sostegno, iniziamo a fare qualcosa perchè la prossima volta sarà ancora peggio”.

Uno dei luoghi comuni più ricorrenti ogni volta che capita un’esondazione e che questa sarebbe dovuta all’accumulo di ghiaia nei fiumi e nei torrenti, da dove non verrebbe più rimossa. In consiglio regionale del Piemonte è stato approvato il 30 marzo 2011 un ordine del giorno per ‘rendere i fiumi dragabili e per finanziare la pulizia dei torrenti’. Contro questo ordine del giorno insorge Sinistra Ecologia e Libertà, nelle parole del coordinatore regionale, il casalese Fabio Lavagno, e Vanda Bonardo responsabile ambiente della segreteria.

Questo è: tutto uno schierarsi per ideologie.

Esemplare è quello che è successo a Genova. Tutta una città martoriata, e non certo una città costruita abusivamente. Ma non dite che non si poteva fare niente. Ma non dite che non era prevedibile. Da giorni di sapeva che una violenta perturbazione avrebbe colpito di nuovo la Liguria, dopo la catastrofe delle Cinque Terre, e ci siamo specializzati in meteorologia spicciola, isobare e cumulonembi, sapevamo tutto della pioggia che sarebbe caduta, del rischio idrogeologico, del pericolo frane. Si sono riempite pagine di giornali annunciando ogni singola goccerella attesa dal cielo e spiegando le ragioni dell'inevitabile allarme. Dopo l’alluvione sulle Cinque Terre con morti e disastri si annunciava una nuova perturbazione, forse più grave. E poi che cos'è successo? È successo quello che era stato previsto. E il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, invece, salta subito fuori a dire che «non era prevedibile». E che dunque «non si poteva fare niente».

Ma come non era prevedibile? L'evento meteorologico più previsto e annunciato dell'era contemporanea non era prevedibile? Con tutti quei “giuliacci” che pontificano in ogni angolo della Tv, le protezioni civili riunite in seduta permanente, le centrali operative attrezzate con satelliti che scrutano ogni acquazzone e anticipano ogni refolo di vento, come si fa a dire che un evento simile non era prevedibile? Con che coraggio, di fronte a quei sette morti, di fronte al dolore dei loro famigliari, di fronte alla devastazione di una città colpita al cuore, si dice che «non si poteva fare niente»? Non è un po' troppo comodo?

Mettiamola in modo ancor più crudo: gli amministratori usano l'acqua dei fiumi in piena per lavarsi le mani, come tanti Ponzio Pilato in versione nubifragio. E pazienza se quell'acqua in cui si lavano le mani è la stessa che trascina via i cadaveri dei loro concittadini. Non hanno ritegno, non hanno pudore. Si presentano davanti alle telecamere, davanti ai microfoni, davanti ai taccuini. E dicono che loro non c'entrano, che è uno tsunami, un fatto straordinario. Oppure iniziano il gioco dello scaricabarile: il Comune attacca la Provincia, la Provincia attacca la Regione, tutti attaccano il governo, che a sua volta attaccherà non si sa chi. Non vi sembra ora di mettere fino all'assurdo giochino? È inaccettabile che si ripetano le tragedie. Soprattutto è inaccettabile che le tragedie non abbiano mai un responsabile.

Ma che ci lamentiamo, se siamo solo e sempre noi a rivotare sta gente.

Per esempio: Marta Vincenzi è stata la prima donna a ricoprire l'incarico di presidente della Provincia di Genova; se non bastasse, non trovando nessun altro, poi l'hanno eletta sindaco della città di Genova.

Non è questione di sinistra, destra, amministratori di qua o di là. Non se ne deve fare una speculazione politica, non se ne deve fare una polemica di parte. Nessuno può permettersi di sciacallare sui corpi di due bambine trascinate via dal fiume in piena. Ma c'è una questione di dignità, c'è una questione di responsabilità. Davanti a quei due bambini, così come davanti alle altre vittime di Genova o quelle delle Cinque Terre o quelle di ogni territorio italiano per ogni tempo, non possiamo rispondere ancora una volta che «non era prevedibile», che «non si poteva fare niente». Non lo può fare la classe dirigente di questo Paese perché altrimenti che diavolo ci sta a fare nel ruolo di classe dirigente? Se «non si può mai fare niente», se «non ci sono mai responsabili», se «non era compito mio», perché mai dovremmo mantenere un esercito di politici e amministratori che, come numero, non ha pari nel mondo? Per sentirci dire ogni volta che "non si poteva fare niente"?

Ai funerali ad Aulla i parenti delle vittime non hanno voluto politici. E la scelta la dice lunga su quale sia il sentimento diffuso nel Paese. Nessuno ne può più di persone che giocano a nascondino, di rimpalli su fax mandati o non mandati, distinguo di lana caprina sulle competenze. Perché a Genova le scuole ieri erano aperte? Perché i fiumi non erano stati puliti? Le foto pubblicate dai giornali mostravano il Bisagno sporco, bisognoso di interventi e di cura. Perché nessuno li ha fatti? A chi toccavano? Perché la città di New York è stata chiusa e si è salvata da un uragano violentissimo e a Genova, nonostante i precedenti e gli avvisi, nessuno s'è preso la responsabilità di fare altrettanto? La gente era stata informata dei rischi? Ad Aulla era arrivato un fax di pericolo della Protezione civile, ma ai cittadini non gliel'aveva comunicato nessuno: e a Genova? Quali iniziative erano state prese per spingere la gente all'«auto protezione»? Quali strade sono state chiuse? Quali torrenti sono stati monitorati?

Non si tratta di fare polemiche ciniche. Il vero cinismo è di chi dice: «Non si poteva fare nulla». Il vero cinismo è di chi dice: «Non era prevedibile». Il vero cinismo è di coloro che continuano a nascondersi dietro frasi di circostanza, per cercare di scaricare la loro coscienza che gronda fango e lutto. Il vero cinismo è di chi usa lacrime per nascondere scuse, di chi assume incarichi dimenticando che sono incarichi di responsabilità. E la responsabilità è una cosa seria. Per evitare le tragedie ci vogliono i soldi, è vero. Se dalla Finanziaria 2012, come denuncia il Wwf, sono spariti i 500 milioni previsti per la prevenzione del dissesto idrogeologico, ebbene si tratta di una bischerata. Ma i soldi bisogna anche usarli bene: se davvero il problema è la mancanza di fondi, perché a Genova si sta costruendo per 17,8 milioni di euro un nuovo palazzo amministrativo per i dirigenti della Asl 3? È più importante sistemare i letti dei fiumi o le scrivanie dei burocrati?

Per rispetto delle vittime dell'alluvione bisogna evitare in ogni modo di trasformare la tragedia in una rissa, la solita rissa, Regione contro governo, centrodestra contro centrosinistra, berlusconiani contro antiberlusconiani. Ma bisogna dire, con la stessa chiarezza, che nessuno si può sottrarre alle sue responsabilità....

Che non permetteremo di ripetere a tutti che «non si poteva fare niente» e che «non era prevedibile». Ci sono sette persone a Genova trascinate via dal fango nel mezzo della loro città, ci sono bambine strappati alla vita mentre passeggiavano nel loro quartiere. Le due piccole pensavano che quei posti fossero sicuri come la loro casa, invece erano a rischio. Lo sapevano tutti, qualcuno ora deve risponderne.

«L'Italia del fango sta mostrando la sua faccia, il suo ghigno, il suo sberleffo. L'Italia senza giustizia che manda in galera chi denuncia. L'Italia senza legge con un Parlamento incostituzionale, presidenti di Regione illegittimi, al terzo e al quarto mandato consecutivo, come Formigoni, Errani, Iorio. Dove sono i magistrati? Dove la Corte Costituzionale? Il cittadino è solo, senza riferimenti, senza informazione, senza rappresentanti. L'Italia del cemento lo sta seppellendo vivo. Non c'è governo, non c'è opposizione, ma un comitato di affari che si spartisce il Paese senza vergogna». Parole di Beppe Grillo, ligure doc, di fronte alla tragedia di Genova e nei giorni precedenti in altre zone della regione. Parole affidate alla rete dal suo blog: «Oggi mi sento impotente - dice l'esponente politico - la distruzione di Genova era annunciata. E io non ho potuto fare nulla. Ho visto la mia città trasformata in fanghiglia con le auto che cadevano sul porto insieme alla pioggia e ai morti sapendo che si poteva evitare». Per Grillo «nel prossimo Parlamento non uno di questi senatori e deputati deve presentarsi. Camera e Senato vanno svuotati come secchi di merda».

C'è anche un attacco al capo dello Stato: «Il Colle ha detto su Genova "Capire le cause!". La causa - dice Grillo - è una classe politica di cui Napolitano fa parte dal dopoguerra, da 66 anni!». E nel ricordare che proprio oggi «a Roma il Pdmenoelle va in piazza per "Ricostruire l'Italia" insieme all'Idv e con la partecipazione straordinaria dell'ebetino di Firenze (il sindaco Renzi)», Grillo sottolinea: «Ricostruire? Bersani dovrebbe cambiare nome alla manifestazione, chiamarla 'Distruggere l'Italia. Questa finta opposizione che vuole la Tav, la Gronda, che ha cementificato la Liguria, che ha in Regione Burlando e come sindaco di Genova Marta Vincenzi, ci prende pure per il culo? Il senso di estraniamento, di solitudine del cittadino che non ha più nessuno dalla sua parte non so a cosa porterà. In Val di Susa hanno arrestato due ragazze incensurate che prestavano soccorso ai manifestanti. Donne che erano lì, a Chiomonte, per evitare lo sfacelo del territorio. Erano lì anche per i morti di Genova e della Lunigiana. Chi arresteranno ora per disastro colposo? I meteorologi?».

CHI COMBATTE L'ABUSIVISMO EDILIZIO ???

VIDEO INCHIESTA PRESUNTI ABUSI EDILIZI

VIDEO PUNTA PEROTTI: ABBATTIMENTO E CONDANNA

WATERFRONT, IL MARE RUBATO. Inchiesta di “La Repubblica”.

Dalla Liguria alla Sicilia, sulle coste italiane proliferano i progetti di nuovi porti turistici che portano con sé una cospicua dote di appartamenti, residence, alberghi, centri commerciali, e via cementificando. Italia Nostra, Legambiente e Wwf sono sul piede di guerra. Ma alcune battaglie sembrano ormai perdute. Vediamo quali, porto per porto... Così un business miliardario conquista le spiagge "inedificabili". Santa Margherita Ligure, Marina di Massa, Napoli, Siracusa, Lipari... Stando alle leggi e ai piani regolatori non è possibile costruire alcunché a meno di centocinquanta metri dal mare. Ma ecco che una nuova parola magica, "Waterfront", sta spianando la strada a opere edilizie che, da sole, valgono al momento un miliardo e mezzo di euro. Nella Liguria devastata dall'alluvione c'è chi è pronto a mettere altro cemento su una costa che non regge più all'urto dell'acqua che scende dai monti. In Sicilia invece il cemento si vuole depositare direttamente davanti al mare, nel cuore di un sito Unesco. Ecco le mani sulle coste d'Italia. Le ruspe di colossi delle costruzioni e dell'impiantistica, di magnati del petrolio o di imprenditori sconosciuti, hanno già acceso i motori. Vogliono prendersi le rive del Belpaese, che in teoria - cioè secondo la legge - sono inedificabili. Per metterci palazzoni, alberghi, ristoranti e centri commerciali. La parola magica che consente di aggirare il divieto assoluto di costruire entro i 150 metri dalla battigia è "waterfront", declinata in sigle del tipo "rifacimento della costa" o "nuovo porto turistico".

Da Santa Margherita Ligure a Siracusa, passando per Marina di Massa, Cecina, Fiumicino, Napoli, Brindisi o Lipari, ecco i grandi affari in riva al mare. In campo imprese e società pronte a gettarsi a capofitto su un business che solo di opere edilizie vale al momento 1,5 miliardi di euro, che si moltiplicano a dismisura se si aggiungono gli affari commerciali collaterali una volta ultimate le costruzioni. Per cercare di arginare quelle che gli ambientalisti definiscono "le mille Val di Susa in riva al mare" si battono giornalmente associazioni come Italia Nostra, Wwf e Legambiente, e sparuti comitati di cittadini spesso lasciati soli dalla politica locale a fronteggiare poteri forti, anzi fortissimi, visto che in tempi record riescono a farsi approvare varianti urbanistiche su misura come non accadeva nemmeno nella Palermo o nella Napoli del sacco edilizio.

 Il viaggio nei waterfront d'Italia parte dalla Liguria, da Santa Margherita. Qui la società Santa Benessere, guidata da Gianantonio Bandiera, imprenditore ligure noto per il rifacimento del teatro Alcione e per il progetto del contestato porticciolo a Punta Vagno, ha presentato al Comune un progetto da 70 milioni di euro e la richiesta di concessione demaniale dell'area portuale per i prossimi 90 anni. Cosa vuole realizzare? Un centro di talassoterapia da 30 mila presenze annue e l'allungamento del molo e della diga foranea per chiudere il golfo e consentire anche a megayacht di 50 metri di poter attraccare a Santa Margherita. Dal Fai ad archistar come Renzo Piano, in tanti contestano il piano della Santa Benessere, che dietro di sé ha soci e finanziatori più o meno occulti. L'azionista di maggioranza della società che ha presentato il progetto è un trust inglese, la Rochester holding, che a sua volta ha tra i finanziatori Gabriele Volpi, magnate diventato miliardario con il petrolio nigeriano e che oggi guida un gruppo da 1,4 miliardi di fatturato con proprietà che vanno dalla logistica petrolifera alla pallanuoto e al calcio: è proprietario della Pro Recco e dello Spezia. I soldi insomma ci sono. Lui, Volpi, prende le distanze dicendo di non sapere nulla di questo progetto e di avere investito "soltanto nel trust inglese". In realtà nel cda della Santa Benessere siedono Bandiera e Andrea Corradino, entrambi soci dello Spezia calcio. Il Comune ligure ha dato tempo fino a tutto novembre per presentare osservazioni al piano. Una torre di otto piani sul mare a guardia di un porto da 800 posti. Tra Marina di Carrara e Marina di Massa è a buon punto un progetto, gradito alle amministrazioni comunali, che attorno al nuovo "marina" prevede quaranta appartamenti, un residence a tre piani, uno yacht club, una piazza da seimila metri quadrati e il piccolo "grattacielo". Pochi chilometri più a Sud di Santa Margherita altre ruspe e altri costruttori si stanno muovendo per realizzare alberghi sul mare laddove sulla carta non si potrebbe piazzare nemmeno un palo della luce. Tra Marina di Carrara e Marina di Massa il gruppo di Francesco Caltagirone Bellavista vuole costruire un porto turistico da 800 posti. Peccato però che tra le strutture a supporto metta anche "40 appartamenti, uno yacht club e un residence a tre piani". "E perfino una torre di otto piani e una piazza da 6 mila metri quadrati", dice Antonio Delle Mura, presidente di Italia Nostra Toscana. Le amministrazioni comunali guardano con molto interesse all'iniziativa, in ballo ci sono investimenti per 250 milioni di euro e lavoro per molti concittadini. "Nessuno pensa alle conseguenze ambientali e all'impatto devastante per quest'area, con il rischio di erosione della spiaggia e occultamento della vista a mare: tutti sembrano essersi dimenticati, inoltre, che il progetto presentato ricalca una iniziativa del 2001 presentata dall'Autorità portuale e bocciata allora dal ministero dell'Ambiente", aggiunge Delle Mura. Italia Nostra in Toscana insieme al Wwf è impegnata però anche su un altro fronte, quello di Cecina. In campo c'è una cordata d'imprenditori locali raccolta nel Club nautico che vuole rivoltare come un calzino il vecchio porticciolo, allargandone la capienza a mille posti barca. Fin qui nulla di strano. Se non fosse che accanto al porto si vorrebbe realizzare un parcheggio da 2 mila posti auto, 400 box attrezzati, 40 esercizi commerciali, un hotel a 4 stelle, un centro benessere e 80 appartamenti. E, ciliegina sulla torta, un padiglione esposizioni per la nautica e un mercatino del pesce, con ristorante ed eliporto. "Cosa c'entra tutto questo con un porto turistico?", si chiede la professoressa Roberta De Monticelli, che ha denunciato quanto sta accadendo a Cecina alla Commissione Europea: "Spostare una foce e realizzare un pennello a mare che cambierà le correnti, il tutto in una riserva dello Stato, insomma è davvero incredibile", aggiunge la De Monticelli.

Ma è a una manciata di chilometri da Napoli che si sta giocando una delle partite edilizie più importanti del Mezzogiorno. E precisamente a Pozzuoli nell'ex area industriale Sofer-Ansaldo, oggi di proprietà della Waterfront flegreo: società, questa, del gruppo dell'ingegnere Livio Cosenza, settantenne, grande elettore dell'attuale sindaco di Pozzuoli Agostino Magliulo, padre dell'onorevole Giulia e di Francesco, 35 anni, amministratore delegato della Watefront. Nel board della società in questione siede inoltre Carlo Bianco, consigliere d'amministrazione della Pirelli Re. La partita inizia quando il Comune nel 2007 affida all'architetto Peter Eisenman un piano di riqualificazione dell'area. Il piano viene consegnato all'amministrazione, che a sua volta firma subito un protocollo d'intesa con la Waterfront. Cosa prevede il mega progetto di Eisenman? Semplice, la realizzazione di un polo turistico alberghiero con annesso centro commerciale, un polo per la nautica da diporto con tanto di accademia della vela e un terzo polo definito genericamente "polifunzionale". La Waterfront affida subito la progettazione esecutiva a uno studio locale, nel quale lavora tra gli altri la figlia del sindaco di Pozzuoli. Il Cipe, nel frattempo, stanzia 40 milioni di euro per la bretella che collegherà l'area all'autostrada, con tanto di parere positivo della commissione parlamentare Ambiente e territorio nella quale siede l'onorevole Cosenza. Le ruspe sono pronte, visto che le carte ci sono tutte e sono in regola. In arrivo 600 milioni di euro d'investimenti, con tanto di anticipo già approvato da Intesa Sanpaolo. Per il professore d'economia dell'Università di Napoli Ugo Marani si tratta "di un bel progetto che sarà trasformato in scempio" e per questo "va fermato".  E nel golfo incantato di Ortigia si punta a costruire sull'acqua. Siamo nel cuore di uno dei luoghi patrimonio dell'Unesco: l'isola che ospita l'antico centro di Siracusa. Qui i progetti di nuovi porti sono due: il primo chiamato Marina di Archimede è già avviato, mentre il secondo prevede una piattaforma a mare, da edificare, grande come sette campi di calcio. L'opposizione di Pozzuoli, dal Pd a Rifondazione protesta, ma al momento l'iter burocratico è già concluso e c'è poco da fare. Altri affari sono in corso nelle grandi città. Sul litorale romano, a esempio, il sindaco Gianni Alemanno ha in mente progetti in grande stile: attraverso l'Eur spa punta a stravolgere il waterfront di Ostia, costruendo beauty farm, alberghi, centri commerciali, ristoranti e perfino una scuola di surf, il tutto con la scusa di raddoppiare il porto attuale. A Palermo, invece, il consiglio comunale ha appena approvato il nuovo piano regolatore del porto, che prevede la realizzazione di un ennesimo porticciolo turistico nella zona di Sant'Erasmo, a due passi dal centro storico della città e nonostante vi siano già altri tre porti turistici in funzione sul lungomare palermitano. Nel capoluogo siciliano gli ambientalisti da anni contestano la riqualificazione di Sant'Erasmo, che sarà affidata a una società privata che gestirà il porticciolo per i prossimi trent'anni.

Le ruspe e le betoniere sono invece già in azione nel cuore di un luogo protetto dall'Unesco: Ortigia, centro storico di Siracusa che si affaccia sul bellissimo golfo aretuseo intriso di storia e leggende greche. Qui il gruppo Acqua Pia Marcia del costruttore Francesco Caltagirone Bellavista ha iniziato i lavori d'interramento per il nuovo porto turistico che sarà chiamato Marina di Archimede. Il progetto da 80 milioni di euro, presentato nel 2007 da una società locale, approvato dal Comune a tempo di record e acquistato in corsa dal gruppo Caltagirone, prevede lavori su un'area di 147 mila metri quadrati, 50 mila dei quali in riva al mare: saranno realizzati 507 posti barca, ma anche "uffici, negozi ristorante, caffetteria, centro benessere e un albergo", dice il deputato regionale del Pd, Roberto De Benedictis. Ma al Comune è arrivata una seconda richiesta, questa volta da parte di una società d'imprenditori locali, la Spero srl, che vuole realizzare un altro porto a fianco di quello di Caltagirone. La Spero vuole investire 100 milioni di euro per costruire un molo da 430 posti barca e sul mare una piattaforma - grande quanto sette campi di calcio - da rendere edificabile per mettere in piedi alberghi, centri commerciali, uffici pubblici, ristoranti, tabaccherie e anche una libreria, per dare un tocco di cultura a un'operazione che, come sostiene il deputato Pd Bruno Marziano, "realizzerebbe il sogno di qualsiasi costruttore: cementificare il mare". Il Comune ha già approvato il progetto e l'ha inviato alla Regione per l'autorizzazione integrata ambientale. "Ci si chiede però come sia possibile costruire alberghi in riva al mare o sul mare, in un sito protetto dall'Unesco. Sarebbe una follia", dice ancora De Benedictis. Intanto Legambiente annuncia battaglia: "Difenderemo Ortigia da queste speculazioni", giura il presidente regionale Domenico Fontana.

Santa Margherita, Massa Carrara, Napoli, Siracusa, sono soltanto la punta di un iceberg fatto di speculazioni sulle coste in nome dell'esigenza di nuovi posti barca che servono per attrarre turisti ma anche per costruire in zone inedificabili. Italia Nostra ha in corso una ventina di battaglie per bloccare la costruzione di nuovi porti, come quelli di Cecina, San Vincenzo e Talamone in Toscana, o Fiumicino, Anzio e Civitavecchia nel Lazio e, ancora, risalendo, quelli di Sarzana e Ventimiglia in Liguria. Soltanto in Sicilia sono già stati varati, o stanno per essere approvati, progetti di costruzione di ben 12 porti, da Menfi a Licata, da Marsala a Capo d'Orlando e Lipari, benedetti da 24 milioni di euro dell'Unione europea. Soldi pubblici per porti che saranno gestiti da privati scelti spesso senza alcuna procedura di evidenza pubblica. "Il territorio costiero è evidentemente sotto attacco", dice la presidente di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino. Secondo Sebastiano Venneri, presidente nazionale di Legambiente, si tratta di puri e semplici affari perché basterebbe riqualificare i vecchi porti per ottenere migliaia di nuovi posti barca senza ulteriori cementificazioni: "Abbiamo appena completato uno studio che mette nero su bianco come sia possibile ottenere ben 39.100 nuovi posti barca semplicemente riqualificando i porti abbandonati - dice Venneri - circa 13 mila posti sono attivabili immediatamente con piccolissime opere di restauro, 9 mila posti in tempi brevi e altri 15.800 con lavori che non vanno oltre i 24 mesi". Ma in questo caso il business sarebbe molto meno appetibile. Almeno per i signori del cemento. Incendi, bombe, buste con pallottole La malavita all'attacco del Circeo. Pressioni e minacce contro chi è chiamato alla tutela dei 22 chilometri di costa laziale praticamente intatta. L'abusivismo le prova tutte in attesa delle sanatorie. La difesa di un modello economico che ha al centro i valori della natura che possono essere messi a frutto Un ordigno incendiario con 8 inneschi davanti alla sede del parco del Circeo. Due pallottole inviate al presidente del parco del Pollino. Migliaia di richieste di sanatoria pendenti nei territori sotto tutela. Villette travestite da serra che spuntano fidando nel prossimo condono. E' dura la vita degli ambientalisti nell'era delle norme edilizie fluttuanti e dei piani casa che suggeriscono allargamenti fino a ieri proibiti. Ed è dura in particolare nelle regioni in cui gli interessi della criminalità organizzata sono in espansione. "In alcune zone la crescita della tensione è palpabile", spiega Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi. "Penso al Cilento, dove Angelo Vassallo, il sindaco che si opponeva alla speculazione edilizia che premeva sul parco, è stato assassinato. Al Pollino delle intimidazioni contro il presidente, che ha ricevuto una busta con due pallottole. Ai roghi usati come arma di pressione. E a molti altri casi in rispettare la legge diventa pericoloso" L'ultimo e più evidente di questi casi è il Circeo, un parco pioniere che rischia di essere travolto dalla pressione di chi vuole mettere le mani su quei 22 chilometri di costa quasi intatta. Nato nel 1933, terzo dopo il Gran Paradiso e il parco d'Abruzzo, il Circeo ha resistito - sia pure con qualche fatica - all'assalto alla baionetta degli anni Sessanta: ha perso il tratto più settentrionale, divorato dalle case, ma la controffensiva di metà degli anni Settanta gli ha fatto guadagnare tre piccoli laghi nell'entroterra. E' una storia che si può leggere anche senza un libro. Basta arrampicarsi sul promontorio della maga Circe per ottenere un colpo d'occhio più eloquente di un trattato. Il paesaggio è disegnato con precisione: la sagoma regolare della grande foresta planiziale, 3.500 ettari che costituiscono l'ultimo retaggio delle selve di pianura che coprivano l'Italia; il centro urbano di Sabaudia, un agglomerato senza sbavature; la linea delle dune, che si estende per 22 chilometri, spezzata solo da rarissime costruzioni. E poi, appena lo sguardo esce da questo mondo ordinato, si comprende il significato del termine "area protetta". Nei luoghi non tutelati lo sviluppo degli ultimi decenni non ha concesso quartiere: l'assedio del cemento, dell'asfalto, delle serre balza agli occhi. Il confine tra questi due mondi è netto, un tratto che segue i contorni del parco circoscrivendolo con precisione. "Da queste parti la storia dell'abusivismo è lunga", racconta Sergio Zerunian, responsabile dell'ufficio territoriale per la biodiversità che la Forestale mantiene a Fogliano, accanto al giardino botanico creato dai Caetani alla fine dell'Ottocento. "Si è cominciato con gli interventi in aree molto delicate, con tracce di storia millenaria, si è andati avanti con la proliferazione dei posti barca e delle villette che alle volte vengono nascoste, durante i lavori, dietro gabbie di granturco o pareti di una finta serra". E si va avanti ancora oggi con la moltiplicazione dei roghi nelle aree più pregiate del promontorio - che come ricorda il direttore del parco del Circeo Giuliano Tallone - hanno messo in pericolo anche le case vicine; con la pressione che ha portato a 3.500 domande di condono all'interno del parco; con l'attentato in pieno giorno che ha distrutto i materiali didattici davanti alla sede del parco. Tanto che il presidente della commissione urbanistica del Comune di Sabaudia, Francesco Sanna, parla di "piano preordinato". Chi sono i nemici del parco? "Il proliferare di incendi e l'attentato vanno letti come un sintomo, un malessere. Un malessere che però è di pochi e nasce da un cambio di prospettiva non accettato", risponde Gaetano Benedetto, il presidente del parco del Circeo. "Proprio perché questo territorio si è salvato vale di più e gli investimenti hanno una redditività maggiore. Ma per passare da un modello usa e getta a un modello di valorizzazione bisogna rispettare le regole. A qualcuno dà fastidio? Noi riteniamo di fare gli interessi di chi vive nel parco arginando il nuovo cemento non previsto dai piani regolatori". La scommessa - continua Benedetto - è costruire un sistema in cui la bellezza crea valore al di là dei vecchi modelli economici: "Il piano casa della Regione Lazio agisce in deroga al piano paesaggistico e blocca la legge salva coste, consentendo di aumentare le cubature. Ma qui non è applicabile perché una legge nazionale di salvaguardia non può essere vanificata da una legge regionale". Da una parte il tentativo di realizzare un modello economico capace di far fruttare nel lungo periodo le risorse della natura, dall'altra un coagulo di interessi in cui trovano spazio anche i clan. "La malavita organizzata, come dimostrano le inchieste sui Casalesi e sulla 'ndrangheta, ha deciso che questo territorio deve diventare uno dei centri di riciclaggio del denaro sporco", precisa Marco Omizzolo, di Legambiente. "Pressioni di tutti i tipi sono in aumento nel Lazio: molti parchi vivono una fase di asfissia economica voluta, altri sono commissariati, altri sono coinvolti nelle inchieste sul ciclo illegale dei rifiuti. Anche Ventotene, nell'arcipelago di fronte al Circeo, un'isola con straordinarie potenzialità, da anni è oggetto di speculazioni e di progetti proposti dalle amministrazioni locali che vanno in senso contrario alla tutela sbandierata: l'ultimo è il costosissimo tunnel che dovrebbe devastare l'isola per far più posto alle macchine". Parliamo di un'area in cui è stato costituito un "vero sistema criminale che Libera, l'associazione antimafia presieduta da don Ciotti, non ha esitato a chiamare la Quinta mafia", aggiunge il deputato Pd Ermete Realacci in un'interrogazione parlamentare in cui si elencano molti episodi di intimidazioni e aggressioni contro funzionari di polizia e dirigenti del Comune di San felice Circeo e di Sabaudia. "Una mafia che ha soprattutto nel ciclo del cemento la sua manifestazione più eclatante. Basti pensare che stando ai dati delle forze dell'ordine nel parco nazionale del Circeo sono 1 milione e 200.000 i metri cubi fuori legge, 2 abusi edili per ogni ettaro. Secondo gli investigatori una parte è imputabile, direttamente o indirettamente, a esponenti della malavita organizzata e a quel sottobosco politico-economico che sta suscitando grande attenzione negli inquirenti".

Case abusive e condoni edilizi

Mai dire mai. La Campania vuole un altro condono. Parola di Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Ma certo che tocca il cuore, vedere le ruspe abbattere la casa di Bacoli dove viveva Jessica, la ragazza disabile presa a simbolo da tutti gli abusivi. Ed è vero che troppo spesso le rare case buttate giù sono di poveracci che non hanno l'avvocato giusto. Ma la soluzione qual è: un'altra sanatoria come vorrebbe la Regione Campania? Giurando che stavolta sarà davvero l'ultimissimissima? È ipocrita e pelosa, la solidarietà di troppi politici campani verso gli abusivi (pochi) che in questi giorni, un sacco di anni dopo le prime denunce e le prime sentenze, si sono ritrovati alla porta i caterpillar. Dove erano, mentre intorno a loro la regione intera si riempiva di baracche e villini e laboratori e autorimesse fuorilegge? Dov'erano mentre la nobile via Domiziana veniva stuprata da fabbricati illegali costruiti perfino in mezzo all'antico tracciato sventrando il meraviglioso basolato romano? Dov'erano mentre nella «zona rossa» dei 18 comuni vesuviani, assolutamente vietata, si accatastavano case su case a dispetto degli allarmi su una possibile eruzione («Hiiiii! Facimm' 'e corna!») e del piano di evacuazione di circa mezzo milione di sfollati che richiederebbe 12 giorni? Dice l'autore della proposta galeotta, il pidiellino Luciano Schifone («nomen omen», ringhiano gli ambientalisti) che si tratta solo di sanare i «piccoli abusi» e cioè, come ha spiegato al Mattino, gli aumenti volumetrici non oltre il 35% previsti dal piano casa regionale varato nel dicembre 2009 e ritoccato nel 2010, ma realizzati prima che quel piano fosse approvato. Per di più, dice, «è previsto un aumento del 20% degli oneri di urbanizzazione». Sintesi: in fondo gli abusivi hanno abusato prima che l'abuso fosse legalizzato dalla legge della Regione. Tornano in mente le assicurazioni di Giuliano Urbani, allora ministro dei Beni Culturali davanti a chi temeva disastri dal condono berlusconiano del 2003: «È solo per piccoli abusi, finestre aperte o chiuse, che riguardano la gente perbene». Alla fine, dopo avere scatenato i peggiori istinti cementieri, finì per essere parzialmente utilizzato anche dai palazzinari che ad Acilia, ad esempio, avevano tirato su a due passi dalla tenuta presidenziale di Castelporziano una selva di condomini per un totale di 283 mila metri cubi totalmente abusivi. Sanati con 1.360 (milletrecentosessanta: uno per appartamento) condoni individuali. Mettiamo che ogni appartamento avesse solo una decina di finestre: 13.600 finestre. Piccoli abusi... I numeri sono mostruosi. Secondo l'urbanista Paolo Berdini autore di una ricerca capillare su tutta la penisola, «dal 1948 a oggi sono stati (...) compiuti oltre 4.600.000 abusi, più di 74.000 ogni anno, 203 al giorno». E l'Agenzia del Territorio, come ricorda il dossier Legambiente del 2010, «dal 2007 a oggi ha censito più di due milioni di edifici non accatastasti, per l'esattezza 2.076.250 particelle clandestine». Nella grande maggioranza concentrati al Sud. E chi è in testa alle regioni-canaglia secondo un'indagine del Cresme, con 19,8 case abusive su 100 esistenti? La Campania. Nonostante un dossier dell'Ispra dica che «l'Italia è uno dei Paesi a maggiore pericolosità vulcanica» e che «le condizioni di maggior rischio riguardano l'area vesuviana e flegrea, l'isola d' Ischia...». Non si dica che si tratta solo di scelte sventurate di povera gente educata da una cattiva politica ad arrangiarsi «perché tanto prima o poi con lo Stato ci si mette d' accordo». Certo, questa è la tesi. Che non a caso ha scelto come simbolo la famiglia di quella Jessica di cui dicevamo all'inizio, difesa l'altra sera da una fiaccolata per le vie di Bacoli, in faccia a Pozzuoli, alla quale ha partecipato («È solo per stare vicino alle famiglie che hanno fatto le case in modo illegale, ma non per speculazione. Non hanno altro e una volta messi fuori che faranno?») perfino il vescovo Gennaro Pascarella. No, c'è di più. Lo spiega un recente rapporto di Legambiente: «In Campania ben il 67% dei Comuni che sono stati sciolti per mafia dal 1991 a oggi, lo sono stati proprio per abusivismo edilizio. A Giugliano, nell'hinterland napoletano, la Procura di Napoli procede all'arresto di ben 23 vigili urbani e individua nel locale Comando dei vigili il "covo" dal quale si gestiva il business dell'abusivismo sull'intero territorio comunale. E ancora il triste primato detenuto dagli abitanti di quel luogo che un tempo si definiva "agro" sarnese nocerino, tredici comuni per un totale di 158 chilometri quadrati e che di agricolo hanno conservato ben poco, dove circa il 10% della popolazione residente, neonati compresi (ben 27.000 persone su 285.000), è stato denunciato almeno una volta per abusi edilizi». Vale per Giugliano, vale per il Lago Patria devastato dal mattone illegale e selvaggio, vale per Ischia che con 62 mila abitanti vanta il record di 28 mila abusi edilizi, vale per San Sebastiano al Vesuvio dove il sindaco Giuseppe Capasso, nel contempo presidente della Comunità del Parco del Vesuvio, si spinse a lagnarsi con l'allora governatore Antonio Bassolino perché «i tanto attesi effetti di una possibile ripresa economica» dovuti al «piano casa» spinto da Silvio Berlusconi avrebbero potuto «non investire l'area vesuviana» a causa proprio delle regole sulla «zona rossa». Zona ad alto rischio che sta nel gozzo anche al sindaco di Sant' Anastasia, Carmine Esposito, che un paio di settimane fa si è avventurato a sostenere che «la Regione Campania deve un ristoro economico per aver bloccato i territori vesuviani in zona rossa». Parole che Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica assassinato nel settembre 2010 perché cercava di difendere il parco del Cilento dall'assalto del cemento camorrista, non avrebbe mai pronunciato. Mai. Ma lui cercava di spiegare ai suoi cittadini che la difesa dell'ambiente era innanzitutto un interesse «loro». Non ammiccava alle cattive abitudini per raccattare voti...

I diversi tipi di abusivismo edilizio

Il fenomeno complessivo di devastazione ambientale mista a inefficienza e corruzione che dall'ultimo dopoguerra sta distruggendo il territorio italiano non può essere semplicemente ascritto alla voce "abusivismo"

E' di grande attualità in questo momento il tema dell'abusivismo. Quarant'anni di edilizia selvaggia ha arrecato gravi danni al territorio, all'ambiente, alla convivenza civile e al concetto stesso di legalità. Ma il fenomeno complessivo di devastazione ambientale mista a inefficienza e corruzione che dall'ultimo dopoguerra sta distruggendo il territorio italiano non può essere semplicemente ascritto alla voce "abusivismo".

Il quadro delle illegalità e delle devastazioni è assai variegato, e un tentativo di riassumerlo con tutti i necessari "distinguo" comporterebbe la stesura di un trattato. Si possono porre una serie di "punti fermi": catalogare cioè in forma necessariamente telegrafica le varie situazioni e tipologie di quel che oggi genericamente viene indicato come "abusivismo" tout court, ovvero "mostri di cemento" o simili. Ecco dunque in breve sintesi:

1) ABUSIVISMO VERO E PROPRIO. Trattasi essenzialmente di edifici realizzati in totale assenza di concessione edilizia, in genere su aree dove gli strumenti urbanistici non ne consentirebbero comunque il rilascio. E' un fenomeno esploso nelle periferie cittadine nel dopoguerra, ed è innegabile che, in buona misura, abbia costituito una risposta emergenziale alla necessità di abitazioni degli strati più poveri della popolazione inurbata. Indagare sulle cause dell'inefficienza pubblica di fronte all'espansione demografica porterebbe assai lontano. Qui basti dire che in molti casi l'abusivismo è stato un "sottoprodotto" della grande speculazione edilizia e fondiaria, in certo modo ad essa funzionale, e che tutti i tentativi di dare in tempo utile al Paese una normativa urbanistica capace di porre un freno all'abuso dello jus aedificandi sono falliti di fronte alla coalizione di forze politiche ed economiche variamente assortite (v. il "caso legge Sullo" dei primi anni '60!).

Ma era nella logica stessa del fenomeno che - sistemate in qualche modo le folle di senza tetto - esso si volgesse verso obiettivi più remunerativi. In epoca più recente è quindi iniziato il fenomeno dell'assalto alle coste, alle spiagge, ai boschi delle località turistiche, sovente con la copertura "morale" di presunte necessità abitative, di fatto inconsistenti.

Questo tipo di abusivismo - quello totale- ha colpito l'Italia in modo assai discontinuo. Sarebbe un grosso errore dire che il territorio -anche solo quello costiero- è stato devastato dagli "abusi" edilizi; in realtà danni enormi sono stati arrecati da quella che si potrebbe definire edilizia semilegale, o solo formalmente legale (di cui si dirà ai punti successivi). Resta tuttavia innegabile che l'abusivismo, concentrato soprattutto in alcune zone di ogni Regione, ha avuto effetti devastanti: le campagne intorno alle grandi città, la via Prenestina a Roma, l'area Vesuviana, Ischia e Capri, i Campi Flegrei, l'agro nocerino-sarnese e mille altri luoghi, a volte carichi di bellezza e di storia, sono stati massacrati, insieme a centinaia di Km di coste, da questo fenomeno incivile. Caso paradigmatico quello del Monte Argentario - luogo mitico e supervincolato della "civile Toscana"- laddove nel '74 le denunce del WWF portarono alla scoperta di centinaia di edifici abusivi (o falsamente legali, ad esesmpio per essere stato autorizzato il "restauro" di manufatti inesistenti!), che nell'insieme stavano trasformando il Promontorio in una sola lottizzazione abusiva. E qui più che altrove è apparsa con chiarezza la mistificazione demagogica messa in atto da chi - politici e amministratori in primo luogo- ha cercato di spacciare per "piccolo abusivismo dei contadini locali" quel che invece era la costruzione di vere e proprie ville (o embrioni di esse), da rivendere ad alto prezzo ad acquirenti esterni....

2) ABUSIVISMO LEGALIZZATO. Ci si riferisce, ovviamente, al frutto dei vari condoni, sempre più simili nei loro effetti a un'incivile "sanatoria permanente" (rischio inutilmente fatto presente dal WWF fin da quando si cominciò a parlare di un condono). Per come è stata gestita tutta l'operazione condono non ha fatto che rafforzare la diffusa convinzione che, prima o poi, tutto sarebbe stato sanato, anche gli abusi a venire. Oltre a ciò, il gravissimo problema dei controlli, affidato in toto a amministrazioni locali sovente corresponsabili e a Soprintendenze dai mezzi irrisori, aveva fatto temere il peggio, che puntualmente si è verificato.

Leggiamo oggi (stime del CRESME) che dal 31/12/1993 (ultima data utile per l'ammissione di immobili al condono) ad oggi sono state realizzate oltre 200.000 nuove abitazioni abusive. Ed altre 230.000 case erano sorte nel giro di appena due anni (1983/4) come conseguenza del primo condono. E' dunque chiarissimo che gli abusivi incalliti non hanno mai creduto nel "giro di vite" annunciato al termine della sanatoria, ma che al contrario hanno approfittato dei condoni per realizzare sempre nuove costruzioni, anche a termini di condonabilità scaduti, contando di riuscire in qualche modo a sanarle (per successiva riapertura dei termini, ovvero truccando le denunce per quanto concerne le date di costruzione).

A riprova del caos venutosi a creare, due casi limite: la rivolta (apertamente spalleggiata da certi sindaci) degli abusivi organizzati in Sicilia - quelli di speculazione ben mascherati dietro quelli "di necessità"- i quali semplicemente non volevano pagare per nessun tipo di condono, e il tentativo di far condonare perfino...il "Mostro di Fuenti". Anni addietro infatti l'allora Ministro dei Beni CC.AA. V. Bono Parrino, sul finire del proprio mandato si accingeva a firmare un parere positivo preliminare al condono (essendo la zona vincolata), in quanto il Mostro "non sembrava in contrasto con rilevanti interessi ambientali...". Una macroscopica svista, almeno si spera, ma che dimostra la superficialità e l'improvvisazione con le quali tutta la sciagurata vicenda dei condoni è stata gestita.

3) EDILIZIA SEMILEGALE, O SOLO FORMALMENTE LEGALE. Qui il discorso si fa ben più complesso. Infatti se per edifici "semilegali" si possono intendere quelli realizzati in grave difformità dai progetti approvati, ovvero sulla base di progetti che non avrebbero potuto essere approvati (esempio classico: villette munite di "regolare" concessione edilizia, ma che nell'insieme formano una lottizzazione), per edifici "formalmente legali" si debbono intendere invece quelli muniti di tutti i "pezzi di carta" necessari, ma che ugualmente hanno sul territorio un impatto devastante.

Ed in quest' ultima categoria rientrano proprio le colate di cemento più inconsulte ed oltraggiose dall' ultimo dopoguerra. Dalle orrende periferie urbane degli anni '60 alle lottizzazioni negli ultimi boschi e pinete costiere (vedi il "caso Capocotta"). Da certi squallidi villaggi turistici sulle Alpi e sugli Appennini ai tentativi scellerati di costruire ville di lusso lungo tutta l'Appia Antica (chi, tra gli "addetti ai lavori" non ricorda le vibranti invettive di Antonio Cederna?) dai vari "mostri" come quello di Fuenti (che in effetti era sostanzialmente dotato di varie autorizzazioni) alle ignominiose lottizzazioni che hanno cancellato in gran parte la morfologia stessa delle nostre coste. Tutto questo, ed altro ancora, è stato fatto almeno in gran parte dei casi nel sostanziale rispetto della legalità formale, e di conseguenza spesse volte confortato da sentenze dei vari TAR, del Cons. di Stato. Quante volte, dietro edifici che costituiscono un insulto alle regole del buon gusto e del viver civile, e di cui ci si domanda chi sia stato così folle da progettarli e autorizzarli, c'è una sentenza emessa "nel nome del popolo italiano"....

E qui per essere più chiari occorrerebbe rifare la storia delle leggi sull' urbanistica e sul paesaggio (teoricamente interfacciate, secondo il legislatore degli anni '30 e '40; di fatto tenute ermeticamente separate, e conculcata fino a tempi recenti la seconda). Il "tradimento" delle leggi urbanistiche si è consumato attraverso il rifiuto di considerare il paesaggio e l'ambiente come invarianti del territorio e limiti naturali all'edificabilità. Attraverso le fallimentari vicende della legge "Ponte" n° 765 (che, nata per mettere un argine allo scempio, grazie al vergognoso "anno di moratoria" sulle licenze edilizie e alla sopravvivenza degli anacronistici Programmi di Fabbricazione si risolse in un colpo di acceleratore per tutte le lottizzazioni), attraverso il rifiuto di porre alcun serio vincolo all'edificabilità almeno nelle aree extraurbane di maggior pregio. O attraverso la permissività irresponsabile con la quale sono stati approvati pessimi strumenti urbanistici locali (tra i quali i Programmi di Fabbricazione, concepiti su misura per le esigenze della proprietà fondiaria e delle lottizzazioni), ecc.

Oggi il quadro generale è indubbiamente mutato: costruita gran parte del costruibile l'attenzione va fatalmente spostandosi verso la salvaguardia di ciò che è rimasto, e verso un parziale recupero dell'ambiente - laddove possibile- che passa per la demolizione degli abusi peggiori e la "decostruzione" di manufatti anche legali ma ambientalmente insostenibili (riconversione di aree industriali obsolete, difesa dei terreni agricoli, ecc.). Qui molto altro ci sarebbe da dire sul sistema dei Parchi e Riserve (nazionali e regionali) faticosamente avviato, sui Piani Paesistici che, con forti ritardi e molte incongruenze, sono ovunque in via di approvazione, ecc. Tuttavia affrontare anche questi aspetti pur fondamentali porterebbe a sviluppi eccezionali. Emerge invece una nuova preoccupante tendenza fra molte Regioni, le quali, nella perdurante assenza di un Testo Unico statale sull'urbanistica e sulla scia dell'esempio della Toscana, stanno dotandosi di una propria legislazione urbanistica fortemente innovativa (cosa non esente da critiche sul piano della costituzionalità), ed improntata a criteri di "elasticità", flessibilità e completa valorizzazione delle autonomie locali. Cosicchè, ad esempio sarebbero gli stessi Comuni ad approvare i propri strumenti urbanistici (ribattezzati "Piani Strutturali", anzichè "Regolatori", a sottolinearne il valore programmatico e non vincolante), spettando alle varie autorità "di controllo" solo il potere di presentare delle "osservazioni", ecc.

Anche questo è un discorso che porterebbe lontano, ed è quindi il caso di fermarsi a un accenno. Resta tuttavia l'ineludibile esigenza di fare ordine e chiarezza nella materia urbanistico/edilizia, cominciando con l'approvare quella legge-quadro (o Testo Unico) nazionale di cui si parla inutilmente fin dal dopoguerra. Altra questione di grande portata ed attualità, certamente non risolta da Tangentopoli, è quella della moralizzazione di tutta la politica, e conseguentemente della pubblica Amministrazione. Non c'è infatti il minimo dubbio che gran parte della devastazione territoriale che si è cercato finora di descrivere sia stata provocata dalla pura e semplice corruzione (e in vaste aree da veri e propri interessi di mafia), il territorio essendo stato ridotto a merce di scambio tra politici, mercanti di aree e costruttori.

E allora, tornando al tema delle demolizioni, oltre a casi emblematici quali ad esempio il "Mostro di Fuenti" e suoi consanguinei, occorrerebbe cominciare a pensare seriamente - stabilendo una scala di priorità a seconda della gravità ambientale - alla demolizione almeno di una buona parte di quegli oltre 18.000 abusi non sanabili verificatisi a partire dall'entrata in vigore della legge 47/1985 nelle aree vincolate paesaggisticamente, nei Parchi e sul Demanio.

ll fenomeno è molto complesso.

C'è quello che viene definito abuso di necessità, proprio di chi ha costruito una casa per abitarci, cioè una "prima casa" e non una casa di villeggiatura o "seconda casa". In ogni caso questi abusivi hanno infranto la legge e non sembra giusto "condonare" perché agli italiani onesti (la maggioranza) che la casa l'hanno costruita in modo legale (naturalmente pagando le tasse relative, cosa che gli abusivi non fanno) può sembrare un premio ai "furbi".

E c'è poi l'abusivismo legato alla grande criminalità organizzata (Mafia, Camorra, 'Ndrangheta), che non di rado si intreccia con il primo. Orientarsi è difficile, ma qui di seguito riportiamo alcuni dati, ufficiali.

GLI ECOMOSTRI

Gli ecomostri sono le enormi costruzioni di cemento che deturpano siti archeologici, spiagge e oasi naturalistiche (da qui il nome, mostro ecologico). Si tratta di costruzioni abusive nate dalla "collaborazione" tra imprenditori disonesti e politici locali corrotti. In Italia i mostri di cemento erano 14, ora ne sono rimasti 11 perché il Governo ha finalmente cominciato la guerra contro l'abusivismo edilizio.

Il primo mostro abbattuto è stato il FUENTI, un mega albergo costruito alla fine degli anni '70 sulla costiera amalfitana: 34 mila metri cubi di cemento, 24 metri di altezza (sette piani), 2000 metri quadri di superficie. Tutto questo in un'area che l'Unesco aveva dichiarato patrimonio dell'umanità. È stato definito un "misfatto ecologico esemplare". 

LE TAPPE DELLA STORIA DEL "FUENTI"

1968 Il 5 agosto del 1968 il Comune di Vietri sul Mare concede la licenza edilizia e la Sovrintendenza della Campania dà il nulla-osta paesaggistico. L'area è già sottoposta a vincolo

1971 L'edificio viene terminato nel 1971, dopo polemiche e sospensioni dei lavori. Nello stesso anno la Sovrintendenza revoca il nulla-osta poiché la costruzione non corrisponde ai progetti presentati. Anche il Comune annulla la licenza e i provvedimenti sono confermati dal Consiglio di Stato nel 1981.

1985 Con il condono edilizio del 1985 la società proprietaria chiede la sanatoria dell'edificio: la Regione Campania dà parere favorevole, ma il Ministero dei Beni culturali annulla il nulla-osta della Regione.

1992 Una sentenza del Tar (Tribunale amministrativo regionale) della Campania conferma la decisione del Ministero dei Beni Culturali.

1997 Una sentenza del Consiglio di Stato (dicembre) stabilisce che l'albergo non può essere condonato. L'Hotel Fuenti è stato utilizzato solo per i terremotati dell'Irpinia.

Il secondo ecomostro abbattuto è stato PUNTA PEROTTI - Complesso residenziale costituito da due edifici di 11 e 13 piani sul lungomare di Bari. Il complesso è stato realizzato nell' ambito di due piani di lottizzazione che prevedono la realizzazione di 290.000 metri cubi complessivi. La struttura è stata edificata ad una distanza inferiore a 300 metri dal mare e posizionato in modo da nascondere totalmente la vista del lungomare a sud di Bari.

02/04/2006 - Conclusa la prima fase della tanto attesa demolizione dell'ecomostro Punta Perotti a Bari. Tutto come previsto: 350 chilogrammi di tritolo hanno fatto implodere i due terzi della saracinesca che da oltre dieci anni taglia il lungomare barese. 

23/04/2006 - Seconda esplosione: crolla anche la seconda parte dell'ecomostro. Il 24 aprile è attesa l'ultima esplosione che demolirà interamente la costruzione.

Nel gennaio 2001 il Ministro dell'Ambiente e il Ministro dei Beni Culturali hanno presentato un disegno di legge per la tutela ambientale ed il recupero dei siti compromessi dalla speculazione. È previsto l'abbattimento degli 11 ecomostri ancora esistenti. Eccone l'elenco:

SPALMATOIO DI GIANNUTRI - Complesso edilizio destinato a mini-appartamenti grande complessivamente 11.000 metri cubi, realizzato in una zona ad elevato pregio paesaggistico all' interno del Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano.

SCHELETRO DI PALMARIA - Complesso edilizio destinato ad albergo e miniappartamenti, alto circa 25 metri e con un volume di 10.000 metri cubi. L' area si trova nel territorio del Parco nazionale delle Cinque Terre.

CONCA DI ALIMURI - Struttura edilizia destinata ad uso alberghiero realizzata a ridosso della battigia, non ancora ultimata. Il complesso ricade all' interno del Piano urbanistico territoriale della penisola sorrentino-amalfitana.

BAIA PUNTA LICOSA - Si tratta di 53 edifici destinati a residenza, costruiti, ma non ancora ultimati, all' interno di un'area caratterizzata dalla presenza di alberi di particolare pregio (pino d' Aleppo). L' area si trova all' interno del territorio del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano.

PIETRA DI POLIGNANO A MARE - Complesso turistico costituito da una struttura alberghiera ed alcuni villini, per un volume complessivo di 34.000 metri cubi. Il complesso ricade nella fascia di 300 metri dalla battigia, in area soggetta a vincolo paesistico di tutela assoluta.

FOSSA MAESTRA - Complesso edilizio vicino Massa Carrara destinato ad accogliere 65 mini appartamenti e locali accessori. Si trova in un'area classificata come zona di valore paesaggistico ed ambientale da sottoporre a conservazione.

BAIA DI COPANELLO - Complesso edilizio costituito da albergo ed abitazioni a schiera, realizzato in assenza di concessione edilizia.

VILLAGGIO SINDONA - Complesso costituito da 12 edifici a schiera realizzato in località Cala Galera e non ancora ultimato. L' area ricade nella riserva naturale di Lampedusa, soggetta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico. È inoltre sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta.

CAPO ROSSELLO - Complesso di edifici residenziali per complessivi 9.000 metri cubi, realizzato in prossimità della battigia.

CALA DEI TURCHI - Complesso alberghiero vicino Agrigento di circa 15.000 metri cubi. L' edificio non è stato ancora completato.

IL CONDONO EDILIZIO

Il condono edilizio non è mai stato una soluzione positiva al problema. Anzi. Non appena si comincia a parlare di condono edilizio, il numero di edifici abusivi cresce enormemente: tutti sperano di essere "condonati", cioè di vedersi riconosciuti legittimi proprietari di una casa costruita illegalmente. Ad esempio, l'anno precedente al condono edilizio del 1985 voluto dal Governo Craxi, cioè il 1984, è stato l'anno peggiore per l'abusivismo: su un totale di 270.000 nuove abitazioni circa un terzo (80.000 unità) erano abusive. Le cose recentemente vanno un po' meglio, ma i dati sono sempre gravi.

Secondo gli studi di Legambiente e dell'Istituto di ricerca Cresme, nel quinquennio 1994-1998, cioè dopo il condono approvato dal "Governo Berlusconi-Radice", sono state realizzate 232.000 nuove case abusive, per una superficie complessiva di 32.5 milioni di metri quadrati e un valore immobiliare di 29.000 miliardi di lire. L'evasione fiscale è di 6.700 miliardi di lire.

Solo nel corso del 1998 sono stati costruiti ben 25.000 stabili abusivi (3,5 milioni di mq, un valore di mercato stimato superiore ai 3.000 miliardi di lire e una evasione fiscale pari a 730 miliardi). Il 76,3% delle costruzioni illegali (vedi tabella a fianco) è concentrato nelle regioni meridionali e nelle isole; al Centro la percentuale scende al 9,7% mentre al Nord risale al 14%.

Le regioni più corrette sono per lo più al Nord (la Valle D'Aosta con lo 0%, il Trentino con lo 0,5 %, l'Umbria con lo 0,6 % e la Liguria con lo 0,9%).  Il mattone illegale è invece ancora abbastanza presente nel Lazio (4,8%), in Lombardia (3,8%) ed in Veneto (3,9%).

Al Sud, in particolare il fenomeno è concentrato in Campania (19,8%), Sicilia (18,2%), Puglia (12,8%) e Calabria (8,8%), dove esiste quasi il 60% del totale nazionale delle costruzioni illegali. Ciò dimostra che il fenomeno dell'abusivismo è legato al fenomeno delle organizzazioni criminali e mafiose, che sono particolarmente radicate nelle quattro regioni citate.

Concludiamo con una novità sulla "tipologia dell'abusivo" come è emersa da un'indagine di Legambiente sull'abusivismo a Roma e nel Lazio negli ultimi anni: i "costruttori spontanei" hanno abbandonato le periferie per spostarsi su aree pregiate. La maggior parte degli abusivismi, infatti, è stata individuata all'interno dei parchi: 33 lottizzazioni su un totale di 74, estese per 209 ettari su un totale di 314. I restanti abusi si registrano nelle aree adiacenti ai parchi e in zone esterne agli stessi.

Si vede che anche gli abusivi romani, come quelli agrigentini della Valle dei Templi, sono sensibili alle bellezze naturalistiche e archeologiche. Popolo di poeti, di artisti, di pensatori, di santi, di scienziati....

Norme antisismiche violate. Abruzzo lunedì 6 aprile 2009, ore 3,32

Gli allarmi inascoltati. La scossa devastatrice. Le vite spezzate. La disperazione dei sopravvissuti. Il dramma dei bambini. Eroi e vecchi camion. Un reportage da “Il Corriere della Sera” a “L’Espresso” e “Panorama”.

I vigili del fuoco arrivati da tutto il Paese sono stati costretti a portare in Abruzzo anche vecchi camion scassati.

Bestioni appesantiti da venti anni di servizio o ancora di più. Che a volte, dopo un rantolo del motore, si sono fermati in autostrada e, come certi muli di una volta, non han voluto saperne di ripartire. Eccole qui, la faccia dello Stato. L’Italia dei vetusti «Fiat Om 90», «AF Combi» o «APS Eurofire» in servizio dai tempi lontani in cui il centravanti della nazionale era Paolino Rossi. Carrette di lamiera che dopo essere state lasciate «dieci anni nei capannoni» (parole di un comunicato ufficiale del sindacato di base Rdb-Cub) sono finite «fuori uso per problemi di ribaltamento e rotture ai supporti del serbatoio dell’acqua» e abbandonate lungo il percorso. Non puoi sentirti orgoglioso di come sgobbano i carabinieri e i poliziotti, le guardie di finanza e i forestali e tutti gli altri, senza ribollire d’insofferenza a guardare la mattina dopo, tra le macerie di Onna, la delusione dei volontari della Protezione civile del Friuli, che sono venuti giù coi loro cani e le loro tende e le loro attrezzature e stanno lì impotenti nelle loro divise nuove di zecca che non riescono a sporcare: «Sono già le dieci, siamo qua da ieri sera e nessuno ci ha ancora detto come possiamo renderci utili. Che modo è?».

È l’Italia. La «nostra» Italia. Piccoli egoismi e fantastica dedizione, efficienza e sciatteria, ripiegamenti individualisti e straordinario altruismo di uomini e donne accorsi da tutte le contrade a dare una mano.

Il gran Sasso, lassù in alto, domina severo. L’impresario edile Bruno Canali, ai margini di quella Onna in cui le ruspe scavano solchi tra le montagne di macerie per ricostruire il tracciato delle vecchie strade, mostra il suo villino: «Non c’è una crepa». Spiega che l’ha costruita seguendo «tutti i criteri antisismici». A pochi metri, le altre case si sono sgretolate. Da lui non è caduto un soprammobile. Come fai a non arrabbiarti, a guardare le fotografie della biblioteca della scuola elementare crollata a Goriano Sicoli o, peggio ancora, dell’ospedale (l’ospedale!) dell’Aquila? Sono anni che si sa come si dovrebbe costruire, nelle aree a rischio. Non sono serviti a niente la durissima lezione del terremoto ad Avezzano né gli avvertimenti degli esperti che da decenni ricordano come le zone più esposte siano quella a cavallo dello Stretto di Messina, la Sila in Calabria, il Forlivese, la Garfagnana e la Marsica né il disastro di qualche anno fa in cui morirono i piccoli di san Giuliano. A niente. «Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani», disse furente Jean-Jacques Rousseau a proposito del catastrofico terremoto di Lisbona del 1755. L’uomo non può sfidare impunemente la natura: questo voleva dire. Non può contare, spensieratamente, solo sulla buona sorte. Eppure così è sempre stato, da noi. E decine di migliaia di persone hanno continuato ad ammucchiarsi disordinatamente intorno al Vesuvio nonostante siano passati solo pochi decenni dall’ultima eruzione del 1944 quando la gente pazza di paura prese a girare con la statua di San Gennaro perché fermasse la lava già bloccata quarant’anni prima dal santo a un passo da Trecase. E migliaia di sindaci e assessori e vigili urbani hanno chiuso gli occhi per anni sul modo in cui, anche nelle zone più pericolose, venivano tirati su spesso con cemento scadente e piloni gracili i condomini e le scuole e gli edifici pubblici. Per non dire di chi aveva le responsabilità più gravi. Ma, come accusava Il Sole 24 ore del 7 aprile 2009, il varo delle nuove regole si è via via impantanato di ritocco in ritocco, di rinvio in rinvio, di proroga in proroga. Colpa della destra, colpa della sinistra. Basti ricordare che fu solo la Corte Costituzionale, nel 2006, tra i lamenti e gli strilli dei costruttori («Siamo molto preoccupati per il rischio di paralisi nei cantieri, si potrebbe bloccare l’edilizia!») a bloccare una legge troppo permissiva della Regione Toscana spiegando che no, «in zona sismica, non si possono iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico».

Ed è sbalorditivo, oggi, tornare indietro soltanto di qualche giorno dal sisma. E trovare la conferma che mai, prima dell’apocalisse del 6 aprile 2009, erano state nominate parole come sisma o terremoti nella proposta edilizia del governo Berlusconi alle Regioni del giugno 2008, mai nella prima bozza del «piano casa», mai nell’in­tesa del 31 marzo 2009. Mai. Con il terremoto in Abruzzo Claudio Scajola detta alle agenzie che il piano casa «dovrà essere utile anche per le protezioni antisismiche» e il nuovo documento dato alle Regioni, ritoccato in tutta fretta, ha un «articolo 2» nuovo nuovo. Dove si spiega, sotto il titolo «misure urgenti in materia antisismica» che «gli interventi di ampliamento nonché di demolizione e ricostruzione di immobili e gli interventi, che comunque riguardino parti strutturali di edifici, non possono essere assentiti né realizzati e per i medesimi non può essere previsto né concesso alcun premio urbanistico sotto alcuna forma ed in particolare come aumento di cubatura, ove non sia documentalmente provato il rispetto della vigente normativa antisismica».

Evviva. Ci sono voluti i lutti di Onna e la distruzione dell’Aquila e quelle file di bare allineate, però, per cambiare il testo originale dato alle Regioni solo una settimana prima. Dove l’articolo 6, precipitosamente soppresso dopo il cataclisma abruzzese, era intitolato «Semplificazioni in materia antisismica». Meglio tardi che mai. Purché dopo una settimana, un mese, un anno, non torni tutto come prima.

Qualcuno adesso dovrà indagare. Una volta sepolti i morti e sistemati gli sfollati, dovrà spiegare perché a L'Aquila il cemento impastato dieci o vent'anni prima già si sbriciola come pane secco. Dovrà dire perché queste travi si sono spezzate e hanno fatto un massacro. Come in Abruzzo, con il brivido delle scosse di assestamento e il vento del Gran Sasso che spazza le macerie di via Luigi Sturzo, centro città, cento per cento di morti nelle case nuove là in fondo alla strada. Nuove. Eppure sono venute giù.

Se due mesi di sciame sismico riducono così il cemento, allora l'allarme lo dovevano dare molto prima. Invece questo passerà alla storia come il primo terremoto previsto in Italia. E, purtroppo, anche come il primo snobbato dalle autorità. Hanno ignorato l'annuncio del disastro molti sindaci della provincia per finire, su su, agli esperti della Protezione civile.

Eppure la previsione di Giampaolo Giuliani, tecnico del laboratorio scientifico del Gran Sasso insultato e denunciato per procurato allarme, non è uno scoop da premio Nobel. Che la liberazione di gas radon dagli strati profondi delle rocce riveli l'arrivo di un forte terremoto, lo si impara al primo anno di Geologia all'università. Anche in Italia. È vero che non è possibile conoscere con precisione quando colpirà la scossa. Ma a L'Aquila e lungo l'Appennino la terra tremava e da fine febbraio. Avere un laboratorio di fisica proprio dentro il Gran Sasso, la montagna attraversata dalle faglie e dalle tensioni geologiche di questo disastro, era poi una immensa opportunità. Forse bastava sfruttarla. Nessun preallarme nemmeno per i soccorsi in una regione fatta di antichi paesi di sassi e pietre.

Lunedì 6 mattina a Civita, una frazione a pochi chilometri da Onna, vicino all'epicentro in provincia, gli abitanti hanno dovuto sbarrare la strada a un convoglio dei vigili del fuoco per chiedere loro di estrarre due persone. Le hanno tirate fuori che erano già morte. I pompieri son ripartiti subito per L'Aquila. I cadaveri sono rimasti a Civita, per terra, fino alle quattro del pomeriggio: "Quando è arrivata un'auto delle pompe funebri", raccontano i testimoni. Sono le priorità a stabilire dove si devono fermare i convogli. I primi sono stati inviati dove c'erano più cadaveri: a L'Aquila, a Onna, a Paganica. Così gli abitanti delle piccole frazioni hanno dovuto aspettare. Non c'erano alternative. Da martedì, secondo la Protezione civile, con l'arrivo dei rinforzi da tutta Italia, anche i centri più piccoli sono stati raggiunti. Nonostante la previsione del terremoto, però, gli abitanti della città e di tutta la provincia avevano creduto alle rassicurazioni degli esperti della commissione Grandi rischi, riprese dal capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, dal governo e dalle autorità locali. Nessuno immaginava che perfino le costruzioni più moderne di L'Aquila fossero trappole. Non lo sapevano i ragazzi italiani e stranieri morti e feriti nel pensionato universitario, nemmeno i quattro studenti sepolti in due stanze prese in affitto in un'altra villa in via Sturzo. Non lo poteva immaginare.

Gran parte delle strade di L'Aquila in quei giorni era al buio. In molte case però non mancava la luce. Vedi le finestre illuminate dentro le tapparelle abbassate. Credi che ci sia qualcuno lassù. Invece è la fotografia di lunedì 6 aprile, ore 3,32, il momento esatto della scossa, 5,9 gradi della scala Richter, nemmeno un record in Italia.

A metà di via Sturzo la fuga di una famiglia su un'Alfa Romeo è rimasta bloccata al cancello, quando un grosso pezzo di cornicione l'ha colpita in pieno. In una camera da letto spogliata dai muri perimetrali è ancora accesa l'abat-jour sul comodino. Sui balconi sopravvissuti al crollo, il bucato steso la domenica sera. I libri negli scaffali. Le sveglie che ancora suonano la mattina presto. Persiane semichiuse che ricordano le ville calcificate di Pompei. Istantanee di vita quotidiana. Al buio si intuisce la sagoma di quattro donne avvolte nelle coperte di lana. Si fanno coraggio insieme e dormono sulle sedie davanti alla casa di una di loro. Non hanno voluto andarsene al centro di raccolta. Pochi passi più avanti, in fondo a via Sturzo, le fotoelettriche illuminano il vuoto. Due ruspe rimuovono il groviglio di tondini di ferro. L'armatura a queste costruzioni non manca. Stupisce l'apparente fragilità del cemento. Tre o quattro ville, tutte uguali, si sono accasciate sui loro piani. Resta soltanto il tetto di due. In una sono morti due anziani. Nella seconda almeno quattro studenti tra i quali un ragazzo della zona di Vasto, in Abruzzo. La sua mamma sostenuta da un'amica piange da ore. «Ho provato a far suonare il suo telefonino», sussurra, «risulta irraggiungibile. Un collega di università di mio figlio ha invece chiamato il telefonino di un suo compagno di stanza sepolto là sotto. Quello suona ancora, ma da domenica notte nessuno risponde».

Subito più avanti il cumulo di macerie nasconde la bimba di tre anni e tutta la sua famiglia. Rimossi i blocchi di cemento, trovano prima il piccolo materasso del lettino. Si vede subito che apparirà un bambino. Non ci sono più bare. Nemmeno bodybag, i sacchi utili per trasportare le vittime delle emergenze, che l'Italia ha regalato negli anni scorsi alla Libia. I soccorritori liberano dai calcinacci una coperta di lana. La ripiegano per usarla come barella. Avvolgono la piccola nella lana e la adagiano sulla terra. Vigili del fuoco e guardia forestale interrompono per qualche minuto il lavoro a mani nude nei detriti. Li guida un abitante del quartiere in tuta blu, grigio di polvere fin nei capelli. «Adesso restano da trovare un'altra bambina, la sua mamma e il suo papà», spiega l'uomo al capo operazioni dei pompieri: «Poi dobbiamo tirare fuori gli anziani che abbiamo visto nella casa accanto. Ma non so quanti sono». Arriva finalmente l'ambulanza, allontanata per caricare le macerie su due grossi camion. «Come si chiama questa bambina?», chiede un'infermiera della Croce rossa. Nessuno sa rispondere. Non ci sono parenti. Non ci sono vicini. Tutti sotto le macerie. Forse una quindicina di morti. Tutti sepolti dal crollo di case relativamente nuove. Intorno le costruzioni più vecchie e i condomini sono rimasti in piedi. Hanno danni strutturali. La facciate bombardate. Ma i loro abitanti hanno almeno avuto il tempo di svegliarsi e fuggire.

In via Sant'Andrea all'angolo con Generale Francesco Rossi, prega la mamma di Armando Cristiani. Per arrivare fin qui bisogna sfidare i calcinacci che le scosse sparano come cecchini dalle cime dei palazzi. Antonio Rossi, il papà, cammina su e giù con un piccolo ombrello in mano e un sacchetto di biscotti sottobraccio. Era la cena che un vigile urbano gli ha regalato. Sulla montagna di macerie continua il lavoro di altri eroi. Rischiano la vita e altri crolli per salvare Marta, un'altra studentessa tradita dalle norme antisismiche dei palazzi dell'Aquila. Una ragazza raggiunta nel pomeriggio dagli speleologi e dai soccorritori del Club alpino italiano. «Marta ci ha detto di aver sentito delle grida salire dalla tromba delle scale. Una voce molto più sotto di lei», racconta uno speleologo: «Abbiamo chiamato, abbiamo provato ma non ci ha risposto nessuno». Antonio Cristiani è convinto che suo figlio sia lì ad aspettare che qualcuno lo tiri fuori. Erano sei studenti in affitto, in un appartamento al terzo piano. Tutti dispersi. «Ho sentito mio figlio sabato sera», racconta la mamma, «mi ha detto che c'era appena stata una forte scossa. Eravamo preoccupati, ma lui diceva che poi passava».

Trema ancora la terra. Scosse forti che fanno crollare i muri che ormai non si reggono più. Gli speleologi portano in superficie Marta, la avvolgono, la caricano su un'ambulanza. «La ragazza era incastrata accanto a un armadio», racconta il soccorritore che l'ha liberata: «Sotto c'era il vuoto e dovevamo stare molto attenti a non farla cascare più in basso». Questi soccorritori sono ragazzi di poche parole. Lo speleologo dice solo che di mestiere fa il carpentiere- saldatore: «Niente nomi, non servono». E se ne va sulla montagna di macerie a cercare Martina, studentessa di Ingegneria gestionale. È la grande Italia dei volontari, quanto mai uniti da Nord a Sud. I genitori di Martina aspettano avvolti in una coperta. Il padre è rassegnato: «Ormai mi devo mettere il cuore in pace». In via Persichetti, altro quartiere, altra strage. I condomini sono sbrecciati. Le case dell'Ottocento sembrano quasi indenni. In mezzo il crollo delle palazzine più nuove ha spianato l'isolato. Due bare attendono in mezzo alla strada che qualcuno le recuperi. “L'Aquila - Visa Persichetti, non identificata", scrive un soccorritore con il pennarello sul nastro adesivo. L'assenza di funzionari dell'anagrafe impedisce al momento di sapere chi sono i residenti a ogni indirizzo. L'identificazione verrà fatta nei prossimi giorni. Anche se la mancanza di numero civico sul nastro adesivo non sarà d'aiuto. Appare nel buio Pasqua E., la mamma di Alice Dal Brollo. È arrivata da Cerete in provincia di Bergamo e scopre che nessuno sta scavando nella casa di sua figlia. Poco fa c'è stata una scossa oltre il quarto grado Richter. Per questo i vigili del fuoco si sono allontanati. Tornano poco dopo con la guardia forestale. «Alice è sicuramente lì. Una sua compagna di stanza l'hanno già trovata morta. Un'altra, ritornata a L'Aquila da Sora poco prima del terremoto, è riuscita a scappare. Forse mia figlia è bloccata». La quarta studentessa, anche lei di Sora, deve ringraziare l'influenza che si è presa. E domenica sera non è tornata a L'Aquila. Alle nove del mattino i genitori scoprono che Alice è morta. Come Luigi Giugno, 34 anni, guardia forestale, ucciso nell'unica camera da letto crollata nel loro palazzo. L'hanno trovato sopra il lettino del suo bimbo, Francesco, 2 anni, che ha tentato inutilmente di proteggere. Accanto il cadavere della moglie e la valigia già pronta per il ricovero al reparto maternità. Francesco questa settimana avrebbe avuto una sorellina. Anche la loro casa sembrava sicura. Dovremmo costruire case antisismiche, come in Giappone e in California dove i palazzi tremano ma pochi si fanno male. Invece spenderemo quei soldi per un grande ponte a Messina. Silvio Berlusconi l'ha ripetuto in questi giorni. Dove? Dopo aver visto le macerie a L'Aquila.

Il crollo della prefettura. L'ospedale lesionato. La questura inagibile. Così i soccorsi sono rimasti senza testa. Perché nonostante le scosse nessuno aveva verificato gli edifici?

Giù la Prefettura: quello che doveva essere il centro nevralgico della gestione dell'emergenza è completamente fuori uso e ridotto a un cumulo di macerie. Inutilizzabile anche la questura, altro luogo considerato fondamentale per affrontare le grandi calamità. E poi si sbriciolano anche gli impianti dell'ospedale San Salvatore, inaugurato dieci anni fa, costruito con colonne in cemento armato e sale operatorie di cartapesta. Così il terremoto spazza via tre dei pilastri dei soccorsi: obbliga la Protezione civile a rivedere da zero i piani di intervento, in una zona che da sempre si conosce come sismica e che da settimane vive una sciame di scosse. Ma dove nessuno si era preoccupato di verificare la robustezza dei capisaldi per affrontare la crisi più drammatica: fino a domenica il palazzo ottocentesco della Prefettura era il fulcro di ogni strategia.

Davanti al collasso di queste strutture, il professor Franco Barberi, vulcanologo e presidente vicario della Commissione grandi rischi, non usa mezzi termini. "È desolante vedere un simile spettacolo di inefficienza e imprevidenza in un paese come il nostro che a misurarsi con le conseguenze dei forti terremoti dovrebbe essere abituato da sempre". E accusa: "Le responsabilità sono diffuse a tutti i livelli, purtroppo siamo un paese che non impara le lezioni". Invece l'emergenza è stata doppia, trasformando la pianificazione in improvvisazione.

Guido Bertolaso, sottosegretario e commissario straordinario per questo disastro, è stato persino costretto a sdoppiare la sala operativa, il cervello di tutte le operazioni. Una parte è finita nei locali della scuola sottufficiali delle Fiamme Gialle, una parte ha dovuto addirittura chiedere ospitalità a una struttura privata come la Reiss Romoli: un centro di alta formazione per le telecomunicazioni appartenente a Telecom Italia. Eppure, mai come questa volta si poteva essere pronti a scattare. Bastava rispettare la legge e ascoltare i segnali della natura, usando buon senso.

Dopo la strage di San Giuliano di Puglia, dopo l'assurdità di un terremoto che rade al suolo soltanto la scuola ossia l'edificio che doveva essere più solido, dopo la morte di quei ventisette bambini erano state varate nuove regole. Ma sono passati sette anni da quel sisma, scioccante ma di dimensioni limitate, e i controlli sui palazzi pubblici non sono ancora diventati operativi: rinvio dopo rinvio, l'entrata in vigore delle norme continua a slittare. La legge ignora i tempi della terra. E così in Abruzzo tanti sono morti per colpa di verifiche che i legislatori hanno preferito rimandare. Con oltre 70 mila edifici da esaminare, finora in tutta Italia di verifiche ne sono state fatte sette mila, appena il dieci per cento del totale. In Abruzzo la media è ancora più bassa. Quanto, nessuno lo sa esattamente. Un alto responsabile della Protezione civile che preferisce mantenere l'anonimato confessa con rabbia a “L'Espresso” di avere chiesto questi dati alla Regione Abruzzo senza riuscire ad ottenerli. Quello che è sicuro invece è che nessun intervento è stato fatto negli ultimi anni sugli edifici crollati all'Aquila, nonostante la Protezione civile disponesse di 280 milioni di euro per l'analisi della vulnerabilità e la messa in sicurezza delle strutture strategiche.

Il palazzo della Prefettura, per esempio, per la sua storica usura, secondo il professor Barberi andava pesantemente rinforzato. Oppure, in mancanza di volontà o di risorse, abbandonato a favore di un'altra sede sicura che ospitasse il quartiere generale dei soccorsi. Altre strade da seguire non ce n'erano. Non aver fatto né una cosa né l'altra apre un delicato capitolo sul fronte delle responsabilità che, secondo Barberi, "vanno comunque individuate". Il crollo della Prefettura ha infatti fatto perdere ore chiave. Subito dopo quella maledetta scossa delle 3.32 la macchina dell'emergenza a L'Aquila è rimasta senza testa: nessuna centrale, nessuna rete di collegamenti per coordinare il territorio con le strutture nazionali. Per indirizzare i soccorsi verso i paesi più colpiti, per orientare i mezzi a seconda delle necessità. "C'era un gravissimo problema di reti telefoniche e non riuscivo a contattare, dirigenti della provincia e sindaci", denuncia il presidente della Provincia, Stefania Pezzopane: "La gravità di quello che stavamo vivendo non è stata percepita subito".

I vertici delle operazioni si sono prima installati nella scuola di Telecom Italia, poi si sono trasferiti nella base della Guardia di Finanza, che disponeva di spazi per i veicoli e di connessioni con tutti gli apparati dello stato. Per ore c'è stato incertezza su come rintracciare i responsabili delle operazioni e sulla gestione delle informazioni. Ore preziose, in cui altre persone potevano essere salvate: altri superstiti oltre ai cento estratti dal coraggio di abitanti e soccorritori. Perchè nessuno ha verificato la stabilità della Prefettura? I piani di intervento, che la indicavano come centrale dell'emergenza, ricadono sotto la responsabilità della Protezione civile. Ed è incredibile che nonostante lo sciame di scosse che da giorni sia mancata la minima precauzione. Stefania Pezzopane parla di "tragedia annunciata": "Soprattutto dopo quello che succedeva da due mesi con numerosissime scosse come quella forte del 30 marzo che ci aveva portato alla chiusura di scuole". A più di dieci ore dal sisma, dichiara sempre la presidente della Provincia: "Ho l'impressione che la situazione del circondario sia stata sottovalutata".

La scossa del 30 marzo poteva essere un segnale d'allarme per mettere la macchina della Protezione civile in posizione di lancio. L'area interessata dai fenomeni sismici dista pochissimo da Roma, da Pescara e da Ancona, con una rete autostradale celebre per la sua estensione. Ci sono a distanze ridotte aeroporti civili e militari, ci sono basi di elicotteri, ci sono caserme dell'esercito e delle forze dell'ordine. C'era tutto per essere ineccepibili. E invece sono venuti a crollare i pilastri per la gestione dell'emergenza, lasciando nella confusione le prime ore, quelle più importanti per salvare le persone intrappolate tra le macerie.

Ancora più grave il caso dell'ospedale San Salvatore, entrato in funzione nel 1994 e che avrebbe dovuto resistere ad ogni genere di sisma. Invece è stato addirittura evacuato per le pesanti lesioni strutturali registrate anche nell'armatura del cemento. "E pensare che è costato tantissimo", afferma il suo direttore generale Roberto Merzetti: "In più, secondo le carte di cui disponiamo era stato a suo tempo garantito per resistere a terremoti addirittura più forti di quello che abbiamo appena registrato".

Non si sa quali garanzie siano a suo tempo state date per la Casa dello studente crollata e costata la vita di alcuni ragazzi. Anch'essa però era stata realizzata in cemento armato puntualmente spappolatosi sotto la spinta del sisma. Cemento del tutto particolare e inadatto alla bisogna e sul quale, sospettano in Regione, costruttori disonesti potrebbero avere speculato realizzando armature di scarsa qualità. Su tutto questo già si invoca l'intervento della magistratura. Perché i soccorritori arrivati sul posto lunedì si sono prodigati per tirare fuori dalle macerie quante più persone possibili, ma quelle ore chiave perse nell'assenza di un quartiere generale possono avere determinato la fine per molte altre vite imprigionate tra le travi. Nella speranza che almeno questa volte la lezione serva a evitare altri disastri futuri.

“Qui sono cadute anche le case nuove”. Parole di allarme del sindaco de L’Aquila a conferma che non sono crollate soltanto le vecchie case in pietra del centro storico: il terremoto del 6 aprile ha distrutto o danneggiato in modo tale da renderli inabitabili anche palazzi moderni. L’ospedale, un presidio che non dovrebbe solo restare in piedi ma anche funzionare in emergenza, è stato evacuato e dichiarato inagibile (per il 90%). Come l’hotel “Duca degli Abruzzi”, che non era in un palazzo di pietra antica e si è accartocciato su se stesso. O la chiesa di Tempera, a sette chilometri dall’Aquila, che era un edificio moderno, fino alla ormai tristemente nota Casa dello studente, in via XX Settembre, costruita a metà degli anni sessanta e crollata su se stessa.

Un problema non solo dell’Abruzzo, che pure è zona ad elevato rischio sismico. La Protezione civile calcola che in Italia siano 80 mila gli edifici pubblici “vulnerabili”: scuole, ospedali, uffici, caserme. A essi vanno aggiunte le infrastrutture presenti in zona (strade, ferrovie, ponti). Le scuole costituiscono una vera emergenza: quelle edificate in zone a rischio sarebbero 22 mila, 16 mila delle quali in aree ad alto rischio; di queste circa novemila sarebbero prive di criteri antisismici e potrebbero subire danni in caso di scosse. Si calcola che gli ospedali da mettere a norma siano invece 500. Ma a chi tocca intervenire? Chi decide le priorità, anche economiche? Un’autorità centrale specifica non esiste e gli enti responsabili sono una quantità enorme: le regioni hanno competenza per ospedali e strutture sanitarie, province e comuni per le scuole, lo Stato per prefetture e caserme. Dal 2003 la Protezione civile dirama con regolarità ordini di verifica, i controlli però sono impossibili, così come capire quali siano le priorità: bisognerebbe pianificare interventi in un lungo arco di tempo, almeno un decennio. Lo stesso discorso andrebbe fatto per il patrimonio edilizio privato. Un monitoraggio completo su scala nazionale non è stato fatto, ma soltanto una mappatura in alcune aree particolarmente a rischio.

Secondo statistiche Istat elaborate dall’ Associazione Nazionale dei Costruttori Edile (ANCE), le case costruite in base alla normativa del 1974 sono un terzo del totale in quanto gli immobili a uso abitativo costruiti prima di quell’anno sono 7,2 milioni, il 64 per cento. Si stima che tre milioni di italiani vivano in zone a elevata sismicità, soprattutto lungo la dorsale appenninica del Centro e Sud Italia (dalle Marche alla Calabria fino alla Sicilia), quasi 21 milioni in aree a media sismicità, più di 15 milioni e mezzo in aree a bassa sismicità e circa 20 milioni in aree a sismicità minima. Oltre un terzo del territorio nazionale presenta un rischio terremoti medio - alto.

Il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Paolo Stefanelli, è stato molto netto: “Non stupisce affatto che della Casa dello studente sia crollata la parte più giovane. Tutti gli edifici costruiti negli anni ‘50 e ‘60, a causa del tipo di cemento armato usato, sono a rischio sismico in un tempo tra i 5 e i 30 anni”. E, a proposito del piano casa presentato dal Governo, dice: “Questo piano potrebbe rappresentare uno stimolo importante per ricostruire edifici a rischio a costo zero per lo Stato. Chi demolisce un edificio per ricostruirlo ampliato del 35 per cento potrebbe dare in permuta la volumetria aggiuntiva all’impresa che fa l’intervento ed avere un’abitazione sicura praticamente a costo zero con la consapevolezza che tanto prima o poi quell’edificio avrebbe richiesto un intervento radicale ai fini della sicurezza”.

A oggi, dice Stefanelli, manca ancora una norma che renda obbligatorio il monitoraggio sul tempo di vita delle costruzioni. Forse solo quella, perché di norme sull’edilizia antisismica l’Italia ne ha quattro, tutte contemporaneamente in vigore. Il decreto ministeriale 16 gennaio 1996 (“Norme tecniche per le costruzioni in zona sismica”) seguito, dopo il terremoto del 2003 in Molise, dall’Ordinanza della Protezione Civile 3274, che ha rimappato il territorio nazionale, aggiungendo zone sismiche o elevandone la classe. E poi altri due decreti, uno del 2005, l’ultimo del 2008, denominato “Nuove norme tecniche per le costruzioni in zona sismica”. Scienziati e tecnologi parlano chiaro: serviranno strutture antisismiche. Così a mettere le proprie competenze a disposizione delle popolazioni colpite dal sisma scende in campo il CNR che ha progettato, e testato con successo un anno fa in Giappone, una casa antisismica in legno, capace di resistere all’onda d’urto di magnitudo 7,2 della scala Richter, pari al sisma di Kobe che uccise, nel 1995, oltre seimila persone. Il progetto si chiama Sofie, Sistema costruttivo fiemme, ed è un prototipo messo a punto dall’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio nazionale delle ricerche (IVALSA CNR), insieme alla Provincia di Trento.

A convalidare il progetto italiano, spiega il CNR, “sono stati i laboratori dell’Istituto nazionale di ricerca sulla prevenzione disastri (NIED) di Miki, in Giappone, dove, alla fine del 2007, la casa di legno di sette piani e 24 metri di altezza realizzata dall’Ivalsa-Cnr di San Michele all’Adige ha resistito con successo al test antisismico considerato il più distruttivo per le opere civili: la simulazione del terremoto di Kobe di magnitudo 7,2 sulla scala Richter”. “Il legno è una valida alternativa ai metodi costruttivi tradizionali, in acciaio o muratura, e soprattutto un’alternativa economica, visto che, a parità di costi, le prestazioni e i rendimenti sono migliori”, dice una nota del Cnr. Attualmente, il primo esempio di rigorosa applicazione della tecnologia Sofie a un edificio pubblico è in fase di realizzazione a Trento, con un collegio universitario di 5 piani che ospiterà, in piena sicurezza, circa 130 studenti.

ISCHIA. TERREMOTO, POLEMICHE E LA SINDROME DEGLI ABUSI EDILIZI.

Sciacallaggio mediatico. Il terremoto? Colpa dell’abusivismo.

È così che l’Italia ipocrita si assolve.

In tutte le parti d’Italia da sempre si vede dalle immagini che le costruzioni crollate a causa delle scosse telluriche erano tenute su con gli sputi: pietra su pietra. Ma quando si tratta del terremoto nel Sud Italia scatta la polemica per gli abusi edilizi.

"Crolli a Ischia? Abusivismo non c'entra". Ma Legambiente attacca i sindaci. I sindaci dell'isola: "Non esistono legami tra i danni causati dal terremoto che ha scosso Ischia e l'abusivismo edilizio", scrive Luca Romano, Martedì 22/08/2017, su "Il Giornale". Non esistono legami tra i danni causati dal terremoto che ha scosso Ischia e l'abusivismo edilizio. A sostenerlo, in una nota congiunta, i sei sindaci dell'isola che "deplorano le notizie false relative a presunti danni e crolli in tutta l'isola e alle inesistenti connessioni tra l'evento sismico e i fenomeni legati all' abusivismo edilizio". I sindaci hanno sottolineato che i crolli hanno interessato "per lo più strutture antiche tra le quali una chiesa già distrutta dal terremoto del 1883 e poi riedificata". Ma alle parole dei sindaci risponde Legambiente che punta il dito proprio contro l'amministrazione locale: "Ischia è da sempre simbolo di abusivismo edilizio, di cementificazione disordinata e di impunità. Davanti a questa ennesima tragedia speriamo che chi in queste settimane sta cavalcando il tema dell'abusivismo di necessità, per ricercare consenso elettorale, si fermi". In Campania, aggiunge l'associazione ambientalista, "una legge regionale battezza di fatto l'abusivismo di Stato; in Sicilia il Sindaco di Licata viene defenestrato perché combatte il cemento illegale; in Sardegna la legge in discussione cerca di riaprire la cementificazione lungo le coste; nelle Marche la giunta regionale approva in tutta fretta una legge per snellire le procedure della ricostruzione passando sopra a regole e piani. Non è così che si guida un Paese e si fanno gli interessi dei cittadini. In un paese civile e democratico l'illegalità si combatte e non può essere autorizzata o giustificata dalla politica".

TERREMOTO ISCHIA. Burocrazia e abusivismo, le ambiguità che provocano tragedie. Un terremoto ha causato morti e feriti a Ischia. Inevitabile qualche riflessione su una scossa lieve che causa tanti danni in un territorio a rischio, scrive Alfonso Ruffo il 23 agosto 2017 su "Il Sussudiario". Di fronte ai morti (due), ai feriti (39) e agli sfollati (2.600) non c'è nulla di più antipatico che fare la predica. Eppure nel caso del terremoto a Ischia, località Casamicciola, le ragioni ci sarebbero tutte per distribuire rimproveri a destra e manca. Come giustificare altrimenti che un movimento della terra classificato di quarto grado sulla scala Mercalli, e dunque lieve, possa aver combinato il disastro al quale abbiamo dovuto assistere? Che quello fosse un territorio a rischio era risaputo. E infatti tutte le cronache riportano il ricordo del famoso e famigerato sisma del 1883 che rase letteralmente al suolo il piccolo comune isolano inghiottendo tra i tanti anche i parenti di Benedetto Croce e Giustino Fortunato in persona, che tanto aveva tuonato contro lo sfasciume urbanistico del Mezzogiorno e pertanto pure della ridente, fino a prova contraria, località balneare. Altrettanto risaputo era che la qualità delle costruzioni, senza generalizzare ma di certo in gran parte, non fosse delle migliori. Non è la prima volta infatti che di fronte a un evento della natura - la scorsa volta si trattò di un'alluvione - qualche abitazione è destinata a crollare e più di una vita a spegnersi. Conseguenza della fretta e dell'approssimazione che derivano dalla necessità di costruire di nascosto perché senza permesso. Tempi accelerati per l'abusivismo, manufatti scadenti, caratteristiche geologiche dei luoghi sono elementi sufficienti a far ritenere un miracolo che le cose nel tempo non siano andate peggio: per il disappunto dei buontemponi che hanno avuto lo stomaco di scrivere in rete, in disprezzo dei napoletani. Speravamo nel Vesuvio, ma va bene anche così. Il danno e la beffa per un popolo che ha fatto dell'arte di arrangiarsi un codice di vita. Non a caso proprio in Campania il governatore De Luca sta combattendo con il ministro Delrio per difendere la propria legge che distingue tra abusi di speculazione e abusi di necessità nel tentativo di salvare questi ultimi dalle ruspe che il governo avrebbe intenzione di azionare per radere al suolo quello che non andava edificato. Questa sciagura sarà ora un ostacolo ulteriore al raggiungimento di una, semmai, possibile intesa. Il fatto è che l'eccesso di vincoli e burocrazia - di cui tutti sono oggi consapevoli, ma che nessuno riesce davvero a contrastare - è un propellente formidabile e fornisce anche un alibi culturale per chi, già allergico di suo al rispetto delle regole, decide di passare all'azione senza sottostare alle forche caudine di un'amministrazione vissuta come occhiuta nemica e avida divoratrice di risorse. Chiedere una licenza, in questi casi, è tempo perso. E allora al di là dei risvolti di cronaca che nella loro logica e sequenza si somigliano un po' tutti -compreso l'eroismo di chi scava nelle macerie e salva vite o l'altruismo dei medici in vacanza che apprestano volontariamente le prime cure - bisognerebbe fare finalmente di necessità virtù e uscire dall'ambiguità di un rapporto così fragile tra la norma e il suo rispetto, il bisogno e l'azzardo, che basta uno starnuto a provocare una tragedia.

Sisma, la rabbia dei residenti additati come abusivi. Ad Ischia ci sono 600 case abusive con ordine definitivo di abbattimento e 27 mila pratiche di condono presentate in occasione di tre sanatorie nazionali. Una situazione, fotografata da Legambiente, che ha aumentato gli effetti della scossa di magnitudo 4.0 sull’isola, insieme alla particolare struttura morfologica del territorio. Ma gli ischitani reagiscono con rabbia ad accuse che, dicono, fanno ricadere la colpa solo su di loro. “Noi siamo dei cittadini sempre martoriati, sempre additati, e ci dicono abusivi, ma noi siamo nati qui, i nostri nonni ci hanno lasciato la casa abbiamo fatto cuci e scuci come dice lo Stato perché altrimenti non puoi costruire e allora? Fortunatamente non ci è caduta addosso la casa”, dice una signora. “Fate in modo che cittadino abbia la possibilità di costruire facendo le cose per bene non additandoci”. “Se voi non ci date delle regole e volete che noi facciamo i figli, questi figli da una parte devono andare ad abitare – aggiunge una concittadina – tu mi dai la residenza in Comune? E allora tu accetti questa cosa, non puoi venire a dire a me che sono io sempre l’abusivo. Non ci dare la luce, non ci allacciare niente e noi non costruiamo la casa. Siamo abusivi leciti, da parte di Comune e Stato”.

Carlo Conti, polemica sui social dopo il sisma di Ischia. Subito dopo il sisma di Ischia, Conti ha commentato così la notizia su Instagram. Ma le sue parole hanno scatenato gli utenti, scrive Luca Romano, Martedì 22/08/2017, su "Il Giornale". Un post, poi gli attacchi sui social. Non è stata una serata facile quella di ieri per Carlo Conti. Subito dopo il sisma di Ischia, il conduttore Rai ha commentato così la notizia su Instagram: "C'è stata una scossa piccola di terremoto a Ischia. Tutto bene, c'è un mio amico, la situazione è tranquilla". In realtà la situazione a Ischia era non proprio "tranquilla" e così i follower di Conti non hanno perso tempo e lo hanno messo nel mirino. "Alcune volte sarebbe meglio tacere piuttosto che scrivere tanto per far vedere di essere presenti, soprattutto quando si è personaggi definiti 'vip'", si legge in un commento. E ancora: "Ci sono morti, feriti, case crollate. Non c'è nulla di tranquillo". Ma c'è anche chi difende il conduttore: "Rilassatevi, evidentemente quando ha scritto non si era ancora a conoscenza dei danni". Dopo gli attacchi Conti ha deciso di rispondere agli utenti: "Voi che attaccate sempre! Senza sapere la situazione d'Ischia, isola dove ho una abitazione! Ecco il commento del sindaco che smentisce tutte le false notizie che stanno portando solo panico sull'isola". Conti a questo punto posta le parole del primo cittadino: "In queste ore l'isola è vittima di una forma di sciacallaggio mediatico è importante sottolineare che gli immobili che sono crollati nel comune di Casamicciola sono di vecchia fattura ed è solo ed esclusivamente per questo che si sono registrati danni ingenti. Sull'intera isola i trasporti pubblici non si sono mai interrotti, le strutture turistico-ricettive e gli esercizi pubblici sono tutti aperti e a disposizione degli ospiti che possono continuare in tranquillità la loro vacanza". Ma queste parole non bastano a placare i commenti de follower contro Conti che alla fine molla la presa sotto i colpi degli "haters" del web. 

Fra distruzione e letteratura. La tragica bellezza di Ischia. Auden, Ibsen, Pasolini e Capote hanno cantato l'isola che li ha ospitati. Il sisma del 1883 colpì Benedetto Croce, scrive Giancristiano Desiderio, Mercoledì 23/08/2017, su "Il Giornale". «O tell me the truth about love», cantava il poeta inglese Wystan Hugh Auden sull'isola d'Ischia negli anni Cinquanta e la sua più nota poesia, La verità, vi prego, sull'amore, ben si presta alla parafrasi: la verità, vi prego, su Ischia. Perché il nome dell'isola cara alla bellissima Lucrezia d'Alagno è legata più di ogni altro scoglio dell'arcipelago delle isole Flegree all'amore e all'amore per la letteratura. Giovanni Boccaccio, che s'intendeva dell'uno e dell'altra, fa raccontare a Pampinea, nella quinta giornata del Decamerone, una storia ricavata dalla leggenda di Fiorio e Biancifiore e così inizia: «Ischia è un'isola assai vicina di Napoli, nella quale fu già tra l'altre una giovinetta bella e lieta molto, il cui nome fu Restituta». In fondo, il fascino dell'isola, che non è piccola come Capri, né grande come l'immensa Sicilia, è nella sua misteriosa concentrata varietà fatta di acqua salata e acqua termale ricercata da Garibaldi e Cavour, di storia e natura che uno scrittore come Giovanni Comisso rapito a Forio descriveva così: «Quando ci si volse dall'altra parte, su dal mare in tumulto, si vide definita e chiara tutta la costa dell'Italia, da Miseno fino al Circeo, con le cime dei monti bianche di neve al sole. Era la stessa visione che aveva avuto Enea e anche Ulisse e si decise di fermarci». La verità, vi prego, su Ischia. Certo, non si può sbarcare a Ischia un giorno e andar via. Chi ci va ci resta. Una volta Raffaele La Capria, legatissimo a Capri, ha raccontato che Truman Capote mentre scendeva dal vaporetto inciampò, cadde e ruppe l'orologio. Un chiaro presagio: l'isola non era fatta per la fretta e la furia delle cose e Capote, che vi rimase quattro lunghi mesi nel 1949, scriveva Summer Crossing attratto dall'isola, dal vino e dai pescatori: «Che posto strano, e stranamente incantato è questo. È un'isola al largo della costa di Napoli, molto primitiva, abitata per la maggior parte da viticultori e da pescatori di capre, da W.H. Auden e dalla famiglia Mussolini». Non era quella la Ischia di oggi, era un'altra isola ma Truman Capote se la passava bene senz'altro sul tetto della pensione con l'odore meridionale del glicine e le foglie di limone: «L'avevo decorato con delle lanterne giapponesi, ed erano venute circa cinquanta persone, compresi tutti i più bei pescatori dell'isola. Se la spassavano tutti. Tutti, cioè eccetto Wystan che non ballava con nessuno, e non parlava con nessuno e se ne stava seduto in un angolo da solo, con la faccia tetra». La verità, vi prego, su Ischia. Sulla spiaggia di Casamicciola ancora oggi si aggira un fantasma: Henrik Ibsen. Solo e pensoso, attratto e respinto dal mare, il Grande Norvegese era chiamato proprio così dai pescatori nell'Ottocento: il fantasma. Il suo eroe errabondo Peer Gynt prese corpo e anima ad Ischia e in fondo la capanna di Solvejg è nei castagneti di Casamicciola e la nordica e fredda Norvegia è la meridionale e calda Ischia. A star dietro a tutti i letterati che hanno messo piede sull'isola e, incantati, ne hanno scritto si rischia di scrivere una storia universale della letteratura. Lo si può capire Nietzsche che tra Sorrento e Ischia avrebbe voluto fondare un «piccolo convento laico» come scrisse Guy de Pourtalès in Nietzsche in Italia. E si può capire Alfonso V d'Aragona quando, innamorato dell'isola e ancor di più della sua bella Lucrezia, viveva e godeva nei boschi d'Ischia. Quegli stessi boschi sorgenti dal mare dal quale anche l'altra sera è venuto il boato sordo che annunciava il terremoto. Avvenne così la sera del 28 luglio 1883 - «rombo cupo e prolungato, e nell'attimo stesso l'edifizio si sgretolò» - quando il giovinetto Benedetto Croce, che l'amore di Alfonso e Lucrezia avrebbe poi raccontato, che soggiornava sulla collina di Casamicciola nella pensione Villa Verde perse la madre, il padre e la sorellina e rimase una notte e un giorno sepolto fino al collo: «Vidi in un baleno mio padre levarsi in piedi, e mia sorella gettarsi nelle braccia di mia madre - scrisse nelle Memorie della mia vita - ; io istintivamente sbalzai sulla terrazza, che mi si aprì sotto i piedi, e perdetti ogni coscienza. Rinvenni a notte alta, e mi trovai sepolto fino al collo e sul mio capo scintillavano le stelle...». Il giorno dopo Benedetto fu estratto da due soldati e sulla sua salvezza è nata coi nostri tristi giorni anche una polemica tra Roberto Saviano e Marta Herling, nipote di Croce: secondo l'autore di Gomorra il giovinetto si salvò perché seguì il consiglio del padre che morente gli avrebbe detto «offri centomila lire a chi ti salva». Una leggenda infondata e del tutto vana perché l'importanza di quella notte non è nei soldi ma nella filosofia. Quel «tremuoto» di Casamicciola cambiò la vita del diciassettenne Croce e lo stesso pensiero filosofico, la verità, che, in fondo, è sempre venuta al mondo nel tentativo di superare provvisoriamente il «tremore» della Terra. La verità, vi prego, su Ischia.

Ischia, il terremoto del 1883 ed il racconto di Benedetto Croce. Il racconto del filosofo scampato a 17 anni alla catastrofe: «I miei anni più dolorosi», scrive Antonio Castaldo il 22 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". «È successa una Casamicciola», si dice ancora a Napoli per indicare un grosso disastro. Un modo anche scherzoso per parlare di un «guaio capitato» che dopo i fatti della serata di lunedì 21 agosto assume tutt’altra connotazione. Non è la prima volta che la terra trema e scuote fino alle fondamenta il borgo di mare sulla costa settentrionale dell’isola. Il 28 luglio del 1883 un sisma molto più devastante distrusse quasi completamente quello che all’epoca era un villaggio di pescatori e di villeggianti. In quel caso la magnitudo fu di 5,8 gradi, ci furono ben 2.313 morti, anche nei comuni di Lacco Ameno e Forio. Tra le vittime anche il padre, la madre e la sorella di Benedetto Croce. Il grande filosofo napoletano, allora 17enne, si salvò ma con gravi ferite che segnarono il suo corpo e la sua psiche in modo indelebile. Per tutta la vita, come ricordò la figlia Lidia, rivisse quei momenti: «Aveva appena conseguito la licenza liceale ed era in vacanza presso con la famiglia quando la terra tremò. Mio padre si salvò e fu estratto dalle macerie dopo due notti riportando la frattura di una gamba e di un braccio». Era stato lo stesso Croce a lasciare un resoconto di quelle drammatiche giornate. Raccontò il momento esatto della scossa. Si trovava nel soggiorno della Villa Verde, dove la famiglia del proprietario terriero Pasquale Croce risiedeva per le vacanze. Il terremoto fece sprofondare il padre ingoiato dalle macerie, Benedetto Croce vide la sorella sbalzata verso il soffitto, quindi raggiunse la madre che si era rifugiata sul balcone, e da lì entrambi precipitarono: «Rinvenni a notte alta - scrisse poi il filosofo nel Contributo alla critica di me stesso del 1915 - e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò ch’era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina (ma più tardi), fui cavato fuori, se ben ricordo, da due soldati e steso su una barella all’aperto. Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio».

Cronache dal terremoto, una scia dal 1883 fino a oggi. Casamicciola. Ora come allora, il cuore del sisma era intorno a piazza Maio, colpì un pugno di strade. Gli ischitani adesso vogliono divincolarsi da un racconto che dice: ve la siete cercata, scrive Andrea Fabozzi il 24.08.2017 su "Il Manifesto". «Il secondo disastro di Casamicciola» è il titolo di un giornale del 1883. Anche allora il disastro c’era già stato. Il terremoto aveva colpito il 4 marzo 1881, accompagnato da un rombo assordante, all’una e quindici minuti del pomeriggio. 126 morti, 249 case crollate, vittime e danni concentrati in un fazzoletto di strade: piazza Maio, il Purgatorio, Montecito, Maddalena, La Rita. Gli stessi nomi, gli stessi luoghi dove si contano i danni adesso, anno 2017. Gli stessi del resto già bersagliati nel 1828, allora i morti furono 30. Nel 1883 fu vera strage, 2.300 morti e la distruzione estesa alla parte più bassa di Casamicciola. Ma il cuore del terremoto era ancora una volta lì, intorno a piazza Maio, dove c’era la cattedrale della Maddalena. Distrutta, assieme all’altra chiesa, quella dell’Assunta nella più bassa piazza Bagni. Ragione per cui quando si trattò di ricostruire la parrocchia della Maddalena fu costruita a metà strada. Tirata su prima della fine dell’Ottocento, non ha subito alcun danno dall’ultima scossa. La vediamo intatta, neanche una crepa. Le vecchie carte con il progetto dell’ingegnere Giovanni Gambara svelano il segreto: fondamenta profonde e uno scheletro di legno elastico. Dell’altra chiesa completamente distrutta nel 1883 resta solo qualche pietra in piazza Maio. Ricostruita anche questa, la piccola chiesa del Purgatorio dà il nome alla zona e la sua madonna ieri ha fatto un giro in Apecar verso la marina. L’hanno messa in salvo dopo che la facciata è collassata sul sagrato e su una delle due vittime di questo terremoto. Di questo nuovo disastro annunciato.

«Dite come stanno realmente le cose – ha quasi gridato ai giornalisti ieri, per il secondo giorno, il sindaco di Ischia porto, Enzo Ferrandino – Ischia non è un’isola terremotata e la nostra non è una comunità di abusivi, state facendo più danni del terremoto». La preoccupazione, lo si capisce, è per la stagione turistica. Ed è vero che a distanza di cento metri dalle poche strade devastate dal terremoto, vacanze e affari vanno avanti come al solito. L’estate non sta finendo. Ma c’è di più, c’è l’urgenza degli ischitani di divincolarsi da un racconto che dice: ve la siete cercata. E magari meritata. Il sindaco, tutti i sindaci dell’isola, trovano facilmente alleati nei politici campani che hanno scoperto il vantaggio elettorale degli abusivisti «di necessità» quando Di Maio non era neanche nato. E nel «governatore» De Luca, che dà la colpa di tutto «agli ambientalisti». Eppure nemmeno la polemica con i giornalisti è inedita. Scrive nel 1883 il medico Andrea Giuochi, assiduo frequentatore dell’isola, casa distrutta dal terremoto: «Abbiamo il diritto di rivolgere una parola di rimprovero a quella parte della stampa che si mostrò troppo crudele verso gli abitanti, ritenendoli responsabili delle funeste conseguenze, mentre secondo essi avanti il disastro furono avvertiti segni non dubbi di una prossima catastrofe».

Il terremoto del 28 luglio 1883 arrivò alle 21.30, mezz’ora prima di quello di lunedì scorso. Allora era un sabato. «S’ode improvviso un rombo cupo e profondo, un boato orribile e tremendo o come una specie di mina che esplodendo sotto i piedi volesse sprofondare e inabissare la terra. In soli tredici secondi ebbe termine l’opera istantanea di distruzione». A parte la durata, allora molto più lunga, potrebbe essere la cronaca dell’ultima scossa e non la ricostruzione di De Andreis del 1883. Il racconto coincide. «Ho sentito un boato impressionante, lungo, come un tuono sotto la terra, poi la strada ha cominciato ad alzarsi come se ci fosse qualcosa che volesse uscire», raccontava ieri Angela, con altre due amiche è al porto di Casamicciola aspettando di partire. In quella serata di 134 anni fa Enrico Petito, uno dei più celebri Pulcinella dell’Ottocento, stava entrando in scena in piazza Bagni. Pare proprio con una parodia di chi ha paura del terremoto, a voler credere al racconto di Carlo Del Balzo – autore che però risulta aver romanzato parecchio. Fatto sta che il teatrino tirato su nella piazza, tutto in legno, fu una delle poche cose che restarono in piedi dopo la scossa. Assieme alle baracche costruite nel 1881 per ospitare gli sfollati, ancora oggi non del tutto scomparse dalla zona bassa del Perrone. Sono di legno anche queste.

Nel 1883 furono registrate sei scosse di assestamento durante la giornata successiva al disastro. Alla sera un improvviso temporale estivo contribuì a rallentare i soccorsi. I cadaveri erano ancora nelle strade quando arrivò a Casamicciola in visita il re Umberto I, era il 2 agosto. Tanti furono seppelliti sul posto, sotto la calce. Ieri splendeva il sole quando la ministra della difesa Pinotti è salita al secondo piano dell’ospedale Rizzoli per regalare una medaglia a Ciro, l’undicenne uscito per ultimo dalle macerie della sua palazzina, al Purgatorio. Tra cinque giorni il Consiglio dei ministri decreterà lo stato di emergenza per Ischia, la regione Campania ieri ha stanziato 2,5 milioni e l’Anci ha avviato una raccolta di fondi. Nel 1883 in diverse città italiane nacquero delle associazioni di solidarietà con Ischia che per raccogliere contributi diedero alle stampe racconti e poesie ispirate al terremoto. La biblioteca antoniana di Ischia ne conserva una bella raccolta. C’è anche un racconto di Giuseppe Verga che descrive l’isola dal mare.

A Casamicciola, lì dove c’era villa Verde che nel 1883 ospitava la famiglia Croce, c’è oggi l’hotel Coralba, tre stelle. Non ha subito danni. Sulla facciata una targa del 1954 ricorda la sventura di don Benedetto, allora diciassettenne, sopravvissuto al crollo nel quale morirono padre, madre e una sorella. Risalire all’intensità del terremoto di 134 anni fa non è semplice. Il vulcanologo Giuseppe Mastrolorenzo spiega che sulla base dei danni si può calcolare un’intensità superiore al quinto grado. Ma le stime comunemente accettate sono assai più basse, girano attorno al quarto grado. Lo stesso del terremoto di lunedì scorso. Giuseppe Luongo, vulcanologo e storico dei terremoti, ha scritto che per quanto la stima possa apparire troppo bassa è la superficialità degli eventi a spiegare la vastità dei danni. Anche il terremoto di lunedì è stato un terremoto superficiale. Una scossa più leggera, ma nella stessa zona, c’era stata anche alla fine dello scorso agosto. Qualche danno, nessuna vittima. Una vittima l’aveva fatta l’alluvione, portandosi via nel novembre del 2009 una ragazza di 15 anni. E sempre a Casamicciola, in piazza Bagni, nello stesso luogo di un’altra tragica inondazione del 1910. Le previsioni qui a Ischia si possono fare in biblioteca. Oggi nelle strade che scendono dalla montagna e otto anni fa si gonfiarono di fango – via Nizzola, via Ombrasco – non ci sono solo le tante costruzioni che c’erano allora, incastrate una nell’altra come un Tetris urbanistico, ma anche le macerie dei muretti a secco venuti giù per il terremoto e qualche grosso masso di tufo che ostruisce il passaggio. Tra poco arriveranno le piogge.

La cronaca più efficace del terremoto del 1883 è probabilmente quella di Ernesto Dantone, scritta a ridosso dei fatti. Con un’introduzione: «Non erano davvero mancati gli avvertimenti. Il più recente, il più terribile di tutti era stato il terremoto del 1881… si sapeva dunque che il mostro di fuoco rinchiuso nelle viscere dell’isola era desto e minaccioso: eppure non solo non si provvide prima, ma neppure si provvide dopo».

Ischia, The Day After, scrive Giuseppe Magaldi su "Ischia Blog" il 23 agosto 2017. Dopo una notte insonne o quasi, per molti, passata sotto una coperta di stelle, la popolazione ischitana, turisti compresi, si è svegliata e subito incollata ai televisori e ai social. Il ritratto fornito dai media è di gran lunga differente dalla realtà. Sull’isola d’Ischia la scossa sismica del 21 Agosto 2017 ha causato danni seri ad un numero di abitazioni limitatissimo dislocate per la stragrande maggioranza nel solo comune di Casamicciola Terme. Non vi è dubbio che chi ha perso la casa e gli affetti vive una tragedia infinita ed a tutti loro va un pensiero di solidarietà. Ma per fortuna è una piccolissima porzione di popolazione isolana. Ovvio che se si inquadrano o si fotografano le stesse macerie da angolazioni diverse, si ha l’impressione di una devastazione di dimensioni epocali, cosa che per fortuna non è stata. Questo non ha nulla a che vedere con le operazioni di recupero (ben riuscite) dei tre bambini vivi da sotto le macerie o con il recupero delle due salme. Un nugolo di feriti prontamente medicati e in pochi casi ricoverati in terra ferma perché in gravi condizioni completa il bilancio. Tutto grazie all’intervento massiccio dei soccorritori sia locali che giunti sul posto dal continente notte tempo. La spettacolarizzazione delle operazioni di soccorso e la loro enfasi non è giustificata anche perché per fortuna il sisma registrato è ben poca roba rispetto ai disastri degli scorsi anni, dove, è vero, ci furono soccorsi massivi ma spesso sottodimensionati rispetto alla dimensione della catastrofe ed in ritardo. Nel caso ischitano forse lo Stato ha voluto mostrare la sua efficienza nello spegnere un fuocherello con un fiume in piena… le immagini dei primi soccorritori che sbarcavano ad Ischia Porto mostravano vari automezzi dei pompieri e varie auto della Polizia di Stato, con al seguito volontari generosi (a tutti va il grazie e la riconoscenza dell’intera popolazione), ma forse se questa solerzia nell’intervento e queste competenze di prim’ordine si applicassero nella prevenzione i bilanci di fenomeni naturali come i terremoti risulterebbero meno pesanti e meno da prima pagina. Poi è stata montata la polemica sull’abusivismo, tutto grasso che cola per i giornalisti superficiali ed a caccia della notizia bomba. Non ci si nasconde dietro un dito, molte abitazioni a Ischia risultano essere abusive (guarda un po’ non sono quelle crollate con il sisma), ma nessuno si chiede il perché. L’abusivismo è diffuso sull’isola verde grazie al mal governo sia centrale che locale degli ultimi sessanta anni: centrale perché il legislatore ha spesso legiferato in maniera carente e poi concesso i condoni edilizi, condoni che sono una vera e propria istigazione a delinquere (fai… fai… poi si condona…); locale perché la mancanza di piani regolatori e di zone ad espansione urbanistica ha fatto comodo alle varie amministrazioni per ottenere una moneta di scambio elettorale ed un cravattino da tirare al momento giusto quando l’elettore “tirava la testa fuori dal sacco” paventando sequestri e abbattimenti. Il tutto con la quasi assenza di edilizia popolare (e che le regaliamo le case?) abituando il cittadino a chiedere il piacere per ciò che gli spetta e per ciò che non gli spetta.

Per ultimo ma non meno importante è il fattore terrore instillato nei turisti di ogni dove che avevano prenotato la vacanza ad Ischia o che volevano farla. Ischia è un’isola vulcanica con un rischio sismico al pari di tante altre località turistiche. Rischio non così alto visto che negli ultimi 130 anni sono stai due i terremoti con vittime e danni 1883 e 2017. Le strutture alberghiere e le case dell’isola d’Ischia hanno dimostrato di essere sicure e di superare indenni una scossa di magnitudo 4,0 quale altra prova si deve esibire? Ma è più facile parlare e prevedere catastrofi anziché rassicurare ed essere razionali. Per non dimenticare: 1881 terremoto a Casamicciola Terme, in quel caso il luminare chiamato ad esprimersi minimizzò sull’accaduto rassicurando tutti, tanto che le case lesionate (quasi la totalità delle abitazioni di Casamicciola) non furono in molti casi ristrutturate; 28 luglio 1883 nuovo terremoto di magnitudo modesta provocò oltre 2300 morti. La storia dovrebbe insegnare.

Ischia: le notizie esagerate sul terremoto distolgono l'opinione pubblica, scrive G.B.F. il 23 Agosto 2017 su "A Sud". Terremoto ad Ischia. Diciamolo pure che i media italiani stanno esagerando e che a qualcuno fa comodo creare polemiche che distolgono l'attenzione dell'opinione pubblica. Ischia non è sprofondata. Ad Ischia non è crollato tutto. Non si capisce perché ma i media italiani stanno esagerando alla grande per parlare di questo terremoto che ha provocato due morti, 40 feriti e 2.600 sfollati oltre a numerosi danni tra case piuttosto vecchie. A parlare è la popolazione di Ischia che se la prende con i giornalisti. Non è vero che è tutto crollato come non è vero che una parte dell'isola sia sprofondata. Troppi film catastrofici in tv, probabilmente. La fervida fantasia o la smodata ricerca della notizia han fatto sì di trasformare un evento come il terremoto in una sorta di mega catastrofe. E, guarda caso (trattandosi di Meridione), subito è scoppiata la polemica contro le case abusive, le concessioni e le autorizzazioni facili. Una bella polemica esagerata che distoglie l'attenzione dell'opinione pubblica dalle mancanze dello Stato a L'Aquila, di Amatrice e delle aree limitrofe. In Italia fa notizia solo l'ultimo fatto avvenuto. Più se ne parla e meno la gente si ricorda di ciò che era accaduto prima. A parte che, il buonsenso e il buongusto, avrebbero dovuto far slittare le polemiche a qualche tempo dopo, sembrerebbe che - trattandosi di Sud - sia necessario trovare subito un colpevole. E se dei colpevoli ci sono, non sono di certo tutti gli abitanti dell'isola, della Campania o dell'intero Sud. Vogliamo forse negare che casi di cattiva pubblica amministrazione siano piuttosto diffusi nel nostro Paese? Vogliamo forse negare che la maggior parte dei media nazionali hanno le sedi da Roma in su? E allora se quando si parla di Meridione si deve parlare sempre male perché fa "politicamente" bene ai media, io me ne tiro fuori cercando di ristabilire un po' di verità. Perché cose che non funzionano bene, al Nord, ce ne sono a bizzeffe solo che non se ne parla quasi mai perché fa più comodo addossare il problema al Sud non appena se ne presenta l'occasione. Del resto la Storia d'Italia, fin dai tempi dell'Unità, è piena di soprusi ai danni della gente del Sud. Solo chi non ha studiato (e non ha capito cosa studiava non lo sa). Prima delle polemiche, personalmente credo sia necessario pensare ai feriti e ai 2.600 sfollati. La stagione fredda è alle porte e bisogna fare in fretta. Ultima nota su quegli imbecilli che sui social network, siti che raccolgono la feccia dell'umanità e la mettono alla pari con persone normali, sperano e auspicano un'eruzione distruttiva del Vesuvio: siete da ricovero. Così come quelle persone del Sud che, invece, di dimostrare solidarietà puntano il dito contro "l'abusivismo" (così, in generale stile analfabeta funzionale), fregandosene delle persone in difficoltà. Dovreste vergognarvi.

Terremoto Ischia. Lite tra il sindaco e il conduttore de La Vita in Diretta: "questo è sciacallaggio!". Terremoto Ischia, il sindaco Ferrandino infuriato nel collegamento a La Vita in Diretta sbotta contro Paolo Poggio: "Questo è sciacallaggio mediatico", scrive il 22 agosto 2'17 Anna Montesano su "Il Sussidiario". Inevitabile che in tv e sui media sia il terremoto a Ischia il tema di cui discutere. Anche nell'odierno appuntamento con La vita in diretta su raiUno, i conduttori Benedetta Rinaldi e Paolo Poggio si sono dedicati all'analisi della situazione attuale sull'isola campana con esperti in studio e il sindaco Ferrandino in collegamento. I toni si sono però infuocati in breve, quando si è iniziato a parlare di migliaia di abitazioni abusive e Ferrandino ha accusato i media di sciacallaggio, cosa che ha portato un battibecco anche col conduttore del programma. D'altronde non sono le prime accuse del sindaco del comune di Ischia. Enzo Ferrandino, attraverso Facebook ci ha aggiornato sulla situazione attuale dell'isola: "Nel comune di Ischia la situazione si è normalizzata. Il sisma di ieri sera non ha causato danni a cose e/o persone. Come Amministrazione Comunale siamo vicini alle famiglie delle vittime e ci stringiamo ai cittadini che hanno avuto forti danni”. Il sindaco ha inoltre affermato che Ischia è vittima di un attacco mediatico ingiustificato. Il classico sciacallaggio. Per rassicurare i turisti ha inoltre aggiunto che: "Sull’intera isola i trasporti pubblici non si sono mai interrotti, le strutture turistico-ricettive e gli esercizi pubblici sono tutti aperti e a disposizione degli ospiti che possono continuare in tranquillità la loro vacanza". Per chiudere ha ringraziato i Vigili del fuoco, la Protezione Civile, le Forze dell’ordine e il personale medico e paramedico dell’Ospedale per la straordinaria opera di assistenza alla popolazione. “Il Vostro è terrorismo mediatico. Le vostre penne e le vostre telecamere rischiano di produrre un danno maggiore del terremoto. State presentando Ischia come un’isola di sfollati, ma nel comune di Ischia non ci sono sfollati, né edifici lesionati. Le case crollate neo erano abusive, ma vetuste”, afferma il sindaco. “Inaudito confondere l’informazione con il terrorismo mediatico - replica Paolo Poggio – anzitutto perché il terremoto ha causato delle vittime e poi anche in considerazione del sincero sentimento di dolore con cui l’intero paese ha vissuto la drammatica vicenda. Le nostre telecamere restano a disposizione delle Istituzioni isolane per ascoltarne le esigenze e diffonderne i messaggi, ma se lei insiste in un tale atteggiamento, è, evidentemente, che abbiamo sbagliato nella scelta dell’interlocutore”.

Lite col sindaco per il terremoto: Timperi lascia lo studio. Il conduttore di Uno Mattina ha lasciato lo studio durante l'intervista al primo cittadino per poi tornare e togliergli la linea, scrive Vincenzo Sbrizzi su "Napoli Today" il 24 agosto 2017. Un vero e proprio litigio con il sindaco di Ischia ha costretto Tiberio Timperi a lasciare lo studio di Uno Mattina. Il conduttore ha lasciato gli studi Rai nel corso della diretta durante un'intervista al primo cittadino ischitano. Spazientito dai modi del sindaco, il giornalista ha lasciato lo studio e la conduzione del programma. «Vabbé, non mi fa parlare? Faccia lei» ha detto al primo cittadino, diventato un fiume in piena, ed ha lasciato lo studio. Dopo è tornato sui suoi passi ma l'atmosfera in studio era tutt'altro che tranquilla ed ha chiesto alla regia di togliere l'audio all'ospite. Sono diverse ore che infiamma la polemica tra i cittadini dell'isola verde e i media nazionali, rei di aver ingigantito la situazione dopo il terremoto di lunedì sera. Un altro nervo scoperto è quello dell'abusivismo edilizio sull'isola su cui proprio il primo cittadino stava dibattendo al momento del litigio. Una polemica che non sembra essere destinata a placarsi a breve e di cui stanno spesso pagando le spese i giornalisti inviati sull'isola.  

"Basta sciacallaggio su Ischia, ci state rovinando". La rabbia del sindaco contro il conduttore Rai, scrive il 24 agosto 2017 "Tiscali". Mattina tra il conduttore Tiberio Timperi e il sindaco di Ischia Vincenzo Ferrandino, chiamato in collegamento a rispondere sulla situazione dopo il terremoto che ha colpito l'isola il 21 agosto. Il primo cittadino ha difeso il comune dalle accuse di abusivismo edilizio, sostenendo come la stampa italiana stia travisando i fatti offrendo informazioni sbagliate al pubblico. "Siamo 60mila operatori economici seri che con dignità stanno cercando di portare avanti un'economia che è un fiore all'occhiello dell'Italia intera e non è giusto che si travisino i fatti - ha detto il primo cittadino - Si parla di 4mila pratiche di condono nel comune di Ischia, è vero, ma non sono 4mila case abusive. Sono pratiche inerenti balconi, finestre, tettoie, perché abbiamo una normativa giustamente stringente da un punto di vista paesaggistico, per cui a volte delle piccole modifiche sulle facciate dei fabbricate devono essere condonate, allorquando realizzate senza i parametri". A quel punto, Timperi ha cercato di prendere la parola, ma inutilmente: Ferrandino ha continuato a parlare, tanto che il conduttore ha sbottato e ha lasciato lo studio con un "Prego, faccia lei. Arrivederci". Tornato dopo alcuni secondi, ha fatto togliere l'audio a Ferrandino chiedendogli di rispettare l'operato della stampa. "La invitiamo a rispettare il nostro lavoro, lei è da due mesi che è lì quindi non è colpevole - ha detto Timperi prima di abbandonare lo studio per protesta - Ha ereditato la situazione. Noi non siamo tecnici, ma abbiamo fatto parlare la protezione civile. Facciamo semplicemente informazione".

Ischia, il sindaco contro la Rai: “Ci fate più male del terremoto, siamo indignati!”, scrive Vesuvio Live il 23 agosto 2017. Dopo tre giorni di polemiche e veleni sul terremoto e l’abusivismo edilizio, il sindaco di Ischia, Enzo Ferrandino se la prende con i giornalisti, in particolare con la troupe della Rai. Il primo cittadino interviene al termine di un servizio di Uno Mattina dedicato proprio agli abusi commessi sull’isola verde e connessi al sisma e a voce grossa dice: “State raccontando cose non vere, le telecamere stanno facendo più danni del sisma, un gruppo di persone ci sta manipolando”. “Sono indignato a nome di tutti gli ischitani”, ha concluso Ferrandino chiedendo ai giornalisti di Rai Uno “di venire sul posto per guardare davvero e dal vivo, in prima persona come stanno le cose”.

Terremoto Ischia: a Casamicciola: "via i giornalisti sciacalli". "Via giornalisti sciacalli". E' quanto hanno urlato alcune persone a Casamicciola all'indirizzo dei cronisti giunti per raccontare quanto successo dopo il sisma di lunedì, scrive Antonella Petris il 23 agosto 2017 su "Meteo Web". “Via giornalisti sciacalli”. E’ quanto hanno urlato alcune persone a Casamicciola all’indirizzo dei cronisti giunti per raccontare quanto successo dopo il sisma di lunedì. A parere di chi contestava i giornalisti avrebbero fatto indebiti riferimenti all’abusivismo edilizio.

A Ischia, negli uffici comunali allestiti nell'ex bar Capriccio (nella zona del porto), un uomo inveisce contro i giornalisti. La protesta si trasforma in pochi secondi in una rivolta contro gli operatori dell'informazione presenti sul posto, per le notizie sull'abusivismo. Nella stanza accanto agli uffici è stata allestita infatti una sala stampa. Tra le urla emerge la rabbia per le conseguenze sul turismo nel post terremoto, scrive repubblica tv il 23 agosto 2017.

Il terremoto? Colpa dell’abusivismo. È così che l’Italia ipocrita si assolve, scrive Gioacchino Rossello mercoledì 23 agosto 2017 su " Il Secolo d’Italia". Insomma, la colpa del terremoto è l’abusivismo. Meno male che c’è stato, perciò, questo sisma a Casamicciola così che siamo tutti consapevoli del problema: eliminiamo l’abusivismo e scompariranno i terremoti. L’Italia è magnifica anche per questo. Si trova sempre un colpevole per qualunque evento. Cosicchè, mentre un gruppo di Vigili del Fuoco (gli unici davvero e sempre encomiabili) scavava per salvare quei tre ragazzini sepolti dalle macerie cadute loro addosso da un paio di piani evidentemente costruiti a risparmio, tutto il resto del Paese si accapigliava su chi è più o meno abusivo e su di chi è più o meno la colpa. Certo, la Chiesa di Santa Maria del Suffragio un cui cornicione ha travolto la signora Lina che pure portava tra le mani una Bibbia non si può dire abusiva. È del XVII secolo, ma pare che fosse recente il manufatto crollato. Il cornicione, appunto. Dal che se ne dovrebbe evincere che non l’abusivismo o la vetustà, ma la scadente qualità dei manufatti provoca, in caso di terremoto, danni e morti. Per cui l’obbligo, per tutti, dovrebbe essere di restaurare e costruire con norme antisismiche. Lo dicono, ma chi lo fa? In questa nostra Italia si può sempre soprassedere alla realtà, soprattutto se non ha risvolti clamorosi. Più facile e pure più redditizio ululare contro l’abusivismo tout court, perciò. Fa più trendy, è più in linea. E poi, alla fin fine se lo dicono tutti vorrà pur dire che è vero. Perciò sarà facile credere che sanare l’abusivismo farà sparire i terremoti. Qualcuno che ci crede lo si troverà sempre. Più di qualcuno. Che magari creda che abusiva era la Messina del 1908, spazzata letteralmente via; abusivo il Belice e l’Irpinia e il Friuli fino all’Emilia e poi l’Abruzzo e Amatrice. Ci vuol poco. Tutti i giornali, tutte le tv, tutta la fuffa via internet e il risultato è servito: il terremoto si batte eliminando l’abusivismo. Fino alla prossima scossa. Che non si sa dove e quando ci sarà. Ma che spazzerà via anche quest’ennesima ipocrisia.

[L'intervista] “Smettetela, le case crollate erano vecchie ma non abusive". La rivolta di Ischia dopo il sisma. Parla Benedetto Valentino, organizzatore del Premio Ischia: "Le case crollate? Sono di fine Ottocento, non c'entrano nulla con l'abusivismo. Non alla criminalizzazione dell'isola", scrive Antonio Menna il 23 agosto 2017 su "Tiscali notizie". “L'abusivismo e le mancate demolizioni non c'entrano nulla con i danni del terremoto. Le case crollate sono di fine Ottocento. Evitiamo strumentalizzazioni”. A parlare è Benedetto Valentino, giornalista storico di Ischia, organizzatore da decenni del Premio internazionale di giornalismo intitolato proprio all'isola verde. Risponde con gentilezza alle domande mentre è al bar con alcuni amici. “Prendiamo un caffé e siamo sereni. Non c'è un clima da fine del mondo, qui – racconta -. Una buona parte dell'isola non ha subito danni e sta vivendo la sua giornata senza agitazione. Naturalmente, c'è paura, c'è apprensione. Il pensiero fisso sulle vittime, sugli sfollati. Ma c'è anche grande lucidità e nessun allarmismo”.

I numeri, però, sull'abusivismo a Ischia sono drammatici.

«Non voglio minimizzare. Nessuno di noi dice che non ci sono stati abusi. Ma prima di stabilire una correlazione così diretta tra i danni di ieri sera e il fenomeno abusivismo bisogna vedere quali sono le case che hanno subito danni e per quali motivi».

Ce lo dica lei.

Una delle vittime è una signora anziana colpita dal crollo di una chiesa. Si tratta della chiesetta di Santa Maria dei suffragi, detta del Purgatorio. E' un edificio costruito nel 1695. Poi crollato nel famoso terremoto del 1883 e ricostruita con le stesse pietre, nello stesso posto. Lo stesso vale per molte delle case crollate. Alcune di esse erano già venute giù con il sisma di fine Ottocento e poi rifatte lì, con gli stessi materiali. Non c'entrano molto con i condoni, l'abusivismo e le demolizioni».

Ma ricostruire nello stesso posto di un crollo, con le stesse pietre e senza rispetto di alcuna normativa non è rischioso?

«Questo è un discorso vero ma è un altro tema. Certamente è mancata una politica seria di programmazione sul territorio. Con leggi urbanistiche vetuste, nessuna pianificazione. Evidentemente, in questo contesto, si costruisce male, senza criterio. Lo fanno i palazzinari, gli speculatori, e lo hanno fatto anche i piccoli contadini che si sono fatti la casa sul loro terreno». 

Hanno quale responsabilità anche loro?

«La responsabilità individuale esiste e ciascuno prende le sue. Ma il tema va affrontato nelle sue linee generali. Possiamo prendercela sempre con gli ultimi? Esiste un clima generale da cui non possiamo prescindere». 

L'abusivismo a Ischia, però, c'è. E le demolizioni mancate mettono a rischio le persone.

«Nessuno lo nega. Il tema c'è a Ischia come altrove. L'abusivismo è un fenomeno complesso. Ci sono responsabilità pubbliche e sottovalutazioni individuali. Ma, in questa fase, con il terremoto di ieri sera, non c'è una correlazione diretta ed è giusto farlo notare». 

Un piccolo terremoto con grandi danni. Non è uno scandalo?

«Bisogna conoscere il territorio per capire. L'Osservatorio Vesuviano ha condotto studi chiarissimi su questo. Cito solo quello di Carlino ma ce ne sono altri. Vanno studiati i terremoti storici. Casamicciola ha già vissuto un sisma simile. Quella è un'area con particolarità geologiche. Ha un sottosuolo che amplifica i fenomeni». 

E poi c'è la cattiva edilizia.

«C'è anche un patrimonio abitativo vetusto, diffuso sul territorio, che ne ha risentito anche a causa delle caratteristiche morfologiche della zona. Ripeto, non neghiamo gli abusi e le situazioni di fatto. Ma la cosa va analizzata con equilibrio. Evitiamo lo scaricabarile sui più deboli». 

Com'è il clima, adesso, a Ischia?

«L'isola, per buona parte e per fortuna, non ha registrato danni. I problemi sono circoscritti e definiti. Ma la paura c'è. E' questo oggi il sentimento più forte. I terremoti sono imprevedibili e questo proietta sempre, per istinto, il timore che ti arrivi addosso all'improvviso. Ma c'è anche molto ragionamento, molta solidarietà e fermezza. La popolazione sta reagendo in maniera equilibrata». 

Allarmismo mediatico, quindi?

«La notizia c'è, ci sono i crolli. Ci sono le vittime, gli sfollati e c'è una parte emotiva forte. Ma evitiamo sia di generare un clima di esasperazione sia di fare pericolose generalizzazioni. Ischia uguale abusivismo, non è così. Vanno capiti i fenomeni storici e scientifici. Non aggiungiamo danno al danno, per favore. Ok».

E ora gli isolani si ribellano alle critiche: «Costretti agli illeciti dalla burocrazia». Gli abitanti accusano: imposti vincoli che impediscono pure di restaurare, scrive Massimo Malpica, Giovedì 24/08/2017, su "Il Giornale". La mano della natura contro la mano dell'uomo. E il braccio di ferro, comunque impari, si trasforma in una piccola rivolta quando gli abitanti di Casamicciola e Lacco Ameno se la prendono con i media che avrebbero sposato l'equazione che lega i danni provocati dal terremoto agli abusi edilizi che incontestabilmente sono una delle piaghe dell'isola, che «vanta» 33mila richieste di condono ancora in attesa di essere evase, più o meno due ogni tre abitanti. A incendiare gli animi nel centro di coordinamento dei soccorsi, nella marina di Casamicciola, ieri mattina, il confronto tra alcuni cronisti e i sindaci di Lacco Ameno e della stessa Casamicciola, Giacomo Pascale e Giovan Battista Castagna. I due primi cittadini criticavano l'associazione tra abusivismo edilizio e bilancio del sisma, quando un gruppetto di residenti presenti ha cominciato a inveire contro i giornalisti lamentando il danno per il turismo seguito al terremoto. Che, comunque, non ha molta attinenza con il tema del «peso» dell'edilizia selvaggia. Ma certo qui, vista la situazione dei condoni e la presenza di 600 abitazioni sotto la spada di Damocle di un ordine di demolizione, il partito del cemento raccoglie facili proseliti. Per strappare il condono ci sono percorsi ormai codificati, con soldi da pagare e avvocati specializzati per questo. Dopo lustri di inerzia della Regione Campania, nel 1995 il governo provvide a varare un piano urbanistico per l'Isola, sostanzialmente aggiungendo solo vincoli e divieti, col paradosso di incentivare gli abusi invece di contenerli, perché un territorio che vive di turismo non poteva e non voleva restare immobile sul fronte immobiliare. Il tema, però, torna attuale quasi solo dopo ogni disastro, che sia una frana, un allagamento o appunto un terremoto. E spacca subito il fronte tra chi vive qui e gli altri, che siano ambientalisti, giornalisti o politici. La crescita selvaggia ha certo generato mostri. E, va detto, anche i tentativi di arginarla hanno spesso provocato più danni che benefici. Come ricordavano ieri i sindaci e i residenti, per esempio, è complicato ristrutturare un edificio, quasi impossibile adeguarlo sismicamente, soprattutto se d'epoca. Colpa dei vincoli, che rendono il parere della soprintendenza una sorta di spiaggia dove invece di prendere il sole si fanno arenare le domande. E il risultato è un disastro, perché non potendo demolire e ricostruire - e spesso nemmeno ottenere il nulla osta per spostare una finestra - va di moda il fai da te con dribbling dei lacci burocratici. Così le case vengono «ristrutturate» a pezzetti, un pilastro alla volta, un ambiente dopo l'altro. Con evidenti limiti di qualità costruttiva e tenuta. Che magari non saranno collegati al tragico bilancio del sisma di lunedì, ma rendono questo gioiello del Mediterraneo una triste capitale dell'abusivismo.

Il dolore di Casamicciola (che difendeva l'abusivismo). Nel 2010 insulti e sassaiole contro la polizia per impedire che le ruspe abbattessero gli edifici fuorilegge, scrive Lodovica Bulian, Mercoledì 23/08/2017, su "Il Giornale". C'è la prevenzione del giorno dopo. Ci sono le accuse dei geologi e il muro di gomma dei sindaci. C'è il mea culpa dell'abusivismo e la sua negazione nel day after di Ischia e di un comune, Casamicciola, che trema e piange le due vittime restituite da una notte trascorsa a scavare. Eppure questo paese ferito è lo stesso che pochi anni fa fu teatro di una violenta guerriglia urbana scatenata da residenti scesi in piazza come black block per fermare le ruspe e salvare gli abusi edilizi. E per impedire con le sassate agli agenti di polizia giunti in tenuta antisommossa, di abbattere una delle 600 case dichiarate fuori legge da sentenze passate in giudicato. Sono trascorsi sette anni da quegli scontri e 599 abitazioni sono ancora lì. Scheletri di ciò che resta di una battaglia persa dallo Stato davanti alle barricate degli abitanti. I poliziotti spediti sull'isola il 28 gennaio del 2010 su mandato della Procura di Napoli per far rispettare le esecuzioni, finirono in ospedale con una prognosi da due a sei giorni per i colpi incassati da un esercito di trecento abitanti inferociti. Determinati a sbarrare con ogni mezzo l'accesso a una villetta da 60 metri quadrati che la magistratura aveva stabilito di demolire perché fuori legge. Pedane di legno, scaldabagni, massi e roghi incendiari, tra cui quello di una roulotte, bottiglie contro i poliziotti. Il manto stradale cosparso di nafta. Finì tutto dopo 24 ore di scontri e nove persone denunciate per resistenza a pubblico ufficiale. Le cariche della polizia ebbero la meglio sulla villetta, che rimase la prima e l'ultima a finire sotto la ruspa. Oggi al procuratore aggiunto di allora, Aldo De Chiara, non resta che constatare che a quegli edifici illegittimi si sono aggiunte pure «molte delle costruzioni che non avrebbero mai dovuto esistere», ha detto al Corriere. La sua non è che una voce nel coro di accuse che si leva contro «l'impunità» della piaga che da decenni regna nell'isola: «Ischia è da sempre simbolo di abusivismo edilizio, di cementificazione disordinata», denuncia Legambiente. Su 60mila abitanti, «sono 600 le case abusive colpite da ordine definitivo di abbattimento e 27 mila le pratiche di condono presentate negli ultimi 30 anni in occasione delle tre leggi nazionali sulle sanatorie edilizie». I sei sindaci isolani non accettano di finire sulla graticola delle responsabilità. In una nota congiunta «deplorano le notizie false relative a presunti danni e crolli in tutta l'isola e alle inesistenti connessioni tra l'evento sismico e i fenomeni legati all'abusivismo edilizio». Ribattono che le macerie «hanno interessato per lo più strutture antiche, tra le quali finanche una chiesa già distrutta dal terremoto del 1883 e poi riedificata». Eppure l'allarme di geologi e urbanisti in queste ore è chiaro: l'abusivismo, per Sandro Simoncini, docente della Sapienza, non è affatto questione marginale come sostenuto dagli amministratori: «Al netto delle peculiarità geologiche di quel territorio, che rendono il sottosuolo particolarmente fragile, non si può non rimarcare come si sia costruito anche là dove leggi e buon senso non lo avrebbero permesso e, in molti casi, lo si è fatto utilizzando materiali e tecniche di scarsa qualità». Sotto accusa, dal coordinatore dei Verdi Angelo Bonelli, c'è anche la legge regionale approvata a giugno dal consiglio regionale della Campania governata dal Vincenzo De Luca: «Dovrebbe avere l'onestà intellettuale di ritirarla». Nella regione, dati Legambiente, in dieci anni sono sorte 60mila case abusive: «Non abusi di necessità, ma soggetti organizzati che hanno tirato su interi quartieri».

Quando nel 2010 a Casamicciola si difendevano le costruzioni abusive. Clamoroso episodio sette anni fa quando in via Montecito, nel comune ischitano, centinaia di persone si scontrarono con la polizia che doveva demolire una casa abusiva. Lanci di pietre e bottiglie. A nulla valsero gli appelli a rispettare la legalità, scrive Katia Riccardi il 22 agosto 2017 su "La Repubblica". L'isola di Ischia paga oggi - colpita da un terremoto di magnitudo 4 che non avrebbe dovuto far crollare nulla -  il conto dei suoi errori, quelli di un territorio disseminato di abusi e segnato da inchieste giudiziarie di cemento. Con case su case incastrate, dai rilievi fino al mare. Più abitazioni, più turismo, una terra che in questi giorni di fine agosto era in overbooking. E che sette anni fa lanciava pietre per difendere abusi. È Casamicciola oggi la località più fragile, la più colpita. Avrebbe dovuto ricordare, nel 1883 le scosse del decimo grado della scala Mercalli, uccisero 2.313 persone. Eppure alla fine di gennaio del 2010, in via Montecito circa 300 manifestanti alzarono barricate e lanciarono pietre contro 150 poliziotti e alcune decine di carabinieri sbarcati da Napoli che avevano l'ordine di demolire una villetta abusiva a Casamicciola Terme. Una sentenza passata in giudicato, sospesa per qualche giorno dopo manifestazioni pacifiche di protesta che piano piano urlarono più forte. Un "muro umano" davanti all'accesso della casa da abbattere, un picchetto fisso, perfino una veglia di preghiera. Infine gli scontri e poi, comunque, le ruspe. L'isola è soggetta a vincolo paesaggistico e ambientale ed è spesso teatro di frane e smottamenti che in alcuni casi fanno anche vittime. Ci sono tantissimi edifici che rischiano di essere abbattuti, non solo giganti di cemento ma anche comuni abitazioni. Quella notte del 2010 finì con nove dimostranti arrestati, sei agenti feriti, un vicequestore colpito alla testa da una bastonata. "I poliziotti erano stati disposti in linea orizzontale, un posizionamento per far capire ai manifestanti che dovevano sgomberare, dovevano consentire che le operazioni iniziassero e per lanciare un segnale a chi aveva posto di traverso un automezzo. Nel giorno dell'azione che ci condusse allo sgombero, sul posto erano dislocati oltre centoventi uomini compresi quelli del commissariato di Ischia" ha raccontato al processo l'agente Luigi Peluso, allora dirigente che coordinava le operazioni. "Quei manifestanti - continua Peluso - erano là col solo intento di impedire un'attività di polizia. Occupando l'intera area stradale per diverso tempo. Io comunque ribadisco che non ho visto chi abbia lanciato gli oggetti. Ma quelli identificati erano tra i più attivi nel manifestare, nell'impedire il lavoro delle forze dell'ordine". I fatti risalgono a oltre sette anni fa e tra non molto si giungerà al traguardo dei sette anni e mezzo che ne sancisce la prescrizione, salvo che non vi siano rinvii per degli impegni presi dal collegio difensivo o per l’impossibilità di uno o più dei nove imputati, accusati di resistenza e minaccia a pubblico ufficiale nonché lesioni aggravate. Solo quell'anno nell'isola di Ischia sarebbero dovute essere abbattute 600 abitazioni. Secondo le stime di Legambiente, "da Ischia provengono la maggior parte delle richieste di condono edilizio (27mila in 30 anni) dovute ad anni in cui le amministrazioni locali hanno lasciato fare". Nel 2010 a nulla valsero neanche gli appelli della diocesi di Ischia contro l'abusivismo: "Ischitani fermatevi, in nome di Dio evitiamo l'illegalità" chiedeva don Gaetano Pugliese. "I 600 abbattimenti previsti rappresentano un disastro anche ambientale ed economico, mentre c'è chi soffre perché non trova casa e non riesce a mettere su famiglia. L'emergenza isola d'Ischia va portata all'attenzione del governo italiano e delle massime cariche istituzionali. Ma ciascuno di noi deve fare la sua parte. Non è possibile scaricare su poche persone la responsabilità di tirarci fuori dal tunnel e continuare a costruire illegalmente. Ogni bene personale che danneggia il bene comune è un male che, prima o poi, si paga, materialmente e in vari altri modi: la vita insegna". Ma stavolta la scossa è stata lieve in confronto a quella di fine Ottocento. E "i danni provocati sono assolutamente inaccettabili, data l'intensità del sisma" incalza il segretario generale della Filca-Cisl Nazionale, Franco Turri, "le vittime di questo terremoto sono il tragico e doloroso risultato della mancata cultura della prevenzione, più volte annunciata e mai attuata. La prevenzione e un'edilizia di qualità avrebbero evitato una nuova strage e danni ingenti". E oggi che i turisti scappano dalle macerie e dalla paura, l'appello dell'Abbac, associazione dei B&B e affittacamere della Campania, suona disperato: "Siamo disponibili a fornire soggiorni in alloggi e B&B a Napoli nell'intero comprensorio che non sono state coinvolte dalle scosse telluriche - dice Agostino Ingenito -, garantiamo agevolazioni e sconti in accordo con i nostri soci gestori disponibili per evitare l'abbandono anche della Campania". "Ricordo - continua Ingenito invitando i turisti a spostarsi senza tornare indietro - che molte strutture ricettive alberghiere non sono più agibili e l'isola in questi giorni era in overbooking. La Regione provveda ad emanare gli atti amministrativi necessari per decretare lo stato di calamità o altra formula adoperata nel caso di emergenza e in accordo con gli armatori operanti nel golfo di Napoli proceda a garantire passaggi gratuiti per favorire il decorso dei turisti verso la terraferma".

E poi c’è il solito Tozzi…Terremoto a Ischia: perché è stato così devastante. L'incredulità dei geologi "Uccisi da una piccola scossa". Mario Tozzi, ricercatore del Cnr: «In Italia manca la cultura della prevenzione. Eppure basterebbe poco», scrive Francesco Curridori, Mercoledì 23/08/2017, su "Il Giornale". «Vi prego, piantiamola di chiamarlo terremoto forte, questo è debole/medio-basso. Di forte non c'è proprio nulla». Mario Tozzi, geologo e ricercatore del Cnr, non ha dubbi: un sisma di magnitudo 4.0 come quello che ha colpito Ischia non avrebbe dovuto provocare tutti questi danni. Invece, purtroppo, il bilancio parla di due morti, decine di feriti e tre bambini salvati per miracolo dalle macerie. Secondo Tozzi «ignoranza, malaffare e scarsa memoria» sono le cause che stanno alla base di costruzioni eseguite male e della manutenzione inadeguata. L'intensità, stavolta, non è un fattore determinante. «Il terremoto del 1883 sì che è stato forte, questo non lo è», ricorda il geologo che non si sbilancia sugli sviluppi futuri che potrebbe avere questo sisma. Al momento, infatti, non è possibile sapere se e quante scosse di assestamento potranno esserci nei prossimi giorni. Tutto «dipende dall'attività della camera magmatica». «I terremoti è impossibile prevederli ma è bene tenere l'attenzione alta», spiega Tozzi parlando dell'eventualità che il Vesuvio si risvegli: «Non capisco perché pensiamo al vulcano come a un elemento dormiente, continua a manifestare la sua attività e bisogna tenerla sotto controllo». «Se il Vesuvio facesse un'eruzione come quella del 79 dopo Cristo, cioè quella di Pompei ed Ercolano, avremmo un esodo più che un'evacuazione perché nessuno torna indietro da una cosa del genere», ammonisce il ricercatore del Cnr. Se, viceversa, ci fosse un'eruzione come quella del 1531, allora avremmo uno scenario meno catastrofico ma in entrambi i casi «ci sarebbe il tempo per organizzare dei piani di evacuazione anti-esodo», anche se non sempre ci sono delle avvisaglie dell'arrivo di un terremoto. «Normalmente tutti gli sciami sismici, per il 90%, finiscono senza dare un terremoto forte. Non è una regola che ci sia un avvertimento prima», chiarisce Tozzi. Quali siano le aree più a rischio, però, si sa da tempo: «C'è tutto l'arco appenninico dalla Garfagnana fino allo Stretto di Messina. Poi tutta l'Irpinia, l'Aspromonte, la Calabria e la zona di Catania, forse quella più a rischio, e infine l'area della Pianura padana come abbiamo visto nel 2012». In sintesi, tutta Italia è un territorio sismico, eccetto, forse, la Capitale. «È vero che tutti i laghi attorno a Roma sono vulcani la cui attività è tarda, cioè non sono spenti ma precisa Tozzi - le loro ultime attività importanti sono state migliaia di anni fa e perciò non destano preoccupazioni». La Capitale rischia solo di incorrere nel risentimento dei terremoti dell'Appennino anche se «in questo caso conta più la resistenza del patrimonio costruttivo». Per mettere in sicurezza le zone più a rischio basterebbe fare la giusta prevenzione. Che, però, ha un costo. Ma, a volte, la mancanza di soldi è solo una giustificazione che non ha motivo di esistere: «È possibile fare prevenzione anche con poco. Non c'è mica bisogno di ricostruire da capo dice Tozzi -. Bisogna fare piccoli interventi e monitorare gli edifici pubblici: scuole, ospedali, sedi governative, amministrative e comunali». Ma non è sufficiente. Anche i privati devono fare la loro parte e non sono sempre necessari interventi costosi. «Per evitare i morti in quella casa di Ischia, forse, bastava infilarci delle chiavi e dei tiranti che tenessero i solai solidali con le mura», spiega il geologo che, in fondo al tunnel, vede una speranza. «Amatrice e Ischia ci dicono che ci siamo mossi male, mentre Norcia viene ripopolata perché si è ricostruito bene». Tozzi, infine, rivolge un invito anche ai sindaci dei Comuni a rischio: «Sarebbe un bel segnale se, insieme alla ricostruzione, pretendessero la demolizione degli immobili abusivi in territori a rischio. Ma credo che non la vedrò».

La morfologia dei terreni vulcanici amplifica la magnitudo. L'intervista a un vulcanologo dell'Università di Pisa, scrive il 22 agosto 2017 Nadia Francalacci su Panorama. “Quando si parla dell’Isola di Ischia e di fenomeni sismici, si fa riferimento sempre a eventi particolari in quanto si tratta di una formazione di origine vulcanica e come tale ha dei terreni che amplificano moltissimo la magnitudo”. A fare il punto sul terremoto che ha colpito ieri sera l’isola al largo delle coste partenopee, è il geologo Mauro Rosi, professore ordinario di Vulcanologia presso l’Università di Pisa. “Gli effetti del sisma in terra vulcanica sono decisamente maggiori rispetto ad un terremoto di pari magnitudo in terra appenninica- prosegue il professor Rosi -  e questo per due ordini di motivi. Il primo è la morfologia del terreno vulcanico che, per natura, amplifica enormemente ogni movimento del sottosuolo rispetto ad un terreno di tipo roccioso o a quelli di origine alluvionale. Il secondo aspetto è la presenza in queste aree di fattori concorrenti, ovvero, il calore e fluidi, come il magma, nel sottosuolo”. Il professor Rosi, che per anni è stato anche Direttore generale, con la mansione di Direttore dell'Ufficio Rischio sismico e Vulcanico, del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile, conosce perfettamente l’area campana dei Campi Flegrei e dell’isola di Ischia. “Nei terremoti tettonici che avvengono, ad esempio, in zone appenniniche, si cominciano a rilevare dei danni importanti a partire da un magnitudo 4.6, questo è, infatti, il livello minimo indicato- continua- diverso invece per i terremoti di tipo vulcanico dove una magnitudo di 4.0, come si è potuto vedere, ha degli effetti già importanti sulle strutture senza considerare, ovviamente, quelle che possono essere le fragilità ‘proprie’ dei singoli edifici”. Il professore è cauto a parlare di faglia tirrenica.  “Questo terremoto che sembra essere di origine tettonica, potrebbe essersi originato nella faglia Nord- Sud che si trova ad ovest dell’isola che non sembrerebbe essere legata a quella tirrenica. Bisogna ancora attendere dati e rilievi esatti. Ma nell’area interessata dal sisma di ieri sera vi è un complesso “sistema vulcanico” proprio di Ischia, un sistema in grado di originare terremoti di natura diversa in conseguenza allo spostamento di gas o di magma”. “Questi terremoti sono classificati come “a bassa frequenza” perché hanno oscillazioni lente, rispetto a quelle di origine tettonica, ovvero attorno al secondo- spiega Rosi – ma sempre a causa della morfologia del terreno, e alla presenza importante di sorgenti termali, risultano essere più devastanti negli effetti”. Il professore, inoltre, esclude che vi possano essere collegamenti con i movimenti sismici registrati negli scorsi mesi nei Campi Flegrei. E le scosse di assestamento? “Dipende dall’origine del terremoto, conclude il professore, c’è da augurarsi, calcolando la non prevedibilità dell’evento sismico, che avvenga come nel terremoto di fine secolo scorso che fece registrare una forte scossa iniziale e poi una lieve attività di assestamento”.    

Terremoto a Ischia: il "rebus" della magnitudo. Alla base delle difficoltà nel rilevare la corretta intensità del sisma c'è la sua origine vulcanica, più superficiale di quella tettonica, scrive il 22 agosto 2017 Panorama. I primi calcoli automatici del sisma che ha colpito ieri Ischia segnalavano una magnitudo 3.6: un valore che non tornava con le prime testimonianze, che parlavano di un terremoto "fortissimo", e le macerie sotto le quali sono rimaste uccisa due persone e ferite altre 39. Successivamente il calcolo è stato rivisto, con un valore di 4.0, grazie ai dati registrati dalla rete sismica dell'Osservatorio Vesuviano dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). Come è accaduto? Qualcuno, forse, ha temuto un altro errore del sistema, come quello che il 15 giugno scorso aveva associato la magnitudo 5.1 di un terremoto nelle Filippine al sisma di magnitudo 1.6 registrato a Pieve Torina (Macerata). Niente del genere, questa volta. Non c'è stato in realtà alcun errore, ma solo la grande difficoltà di dover calcolare la magnitudo di un terremoto che appartiene a uno dei tipi più rari e anomali: quelli che avvengono sotto i vulcani. Non sono certamente studiati come lo sono quelli tettonici che scuotono continuamente la penisola e può accadere, come nel caso di Ischia, che i primi sismografi a registrare l'evento siano distanti alcuni chilometri. Sulla base di queste prime rilevazioni viene di solito calcolata la magnitudo locale (ML), che nel caso dei terremoti tettonici, come quelli che avvengono lungo l'Appennino, è un valore molto affidabile. Quando il terremoto avviene sotto un vulcano, però, la situazione è molto diversa. Per questo dopo il primo calcolo di 3.6, sono stati utilizzati i dati della rete sismica dell'Osservatorio Vesuviano per ricalcolare la magnitudo sulla base della durata dell'evento, ottenendo il valore di 4.0. Un valore ancora provvisorio in quanto quello definitivo, relativo alla "magnitudo momento", viene calcolato dai ricercatori e si basa sulla stima del momento sismico, ossia su una durata più ampia del sismogramma, fino a 30 minuti. I nuovi dati della rete sismica dell'Osservatorio Vesuviano hanno inoltre permesso di ricalcolare la profondità dell'evento, correggendo a cinque chilometri il valore iniziale di dieci. E' stata un'ulteriore conferma di quanto si sa finora dei terremoti vulcanici. "Una caratteristica comune a tutti è di essere molto più superficiali, al punto da superare molto difficilmente la profondità di cinque chilometri", ha osservato il sismologo Gianluca Valensise, dell'Ingv. "Questo - ha proseguito - accade perché al di sotto di cinque chilometri la crosta diventa troppo calda per generare una rottura". Il fatto che i terremoti che avvengono sotto i vulcani siano superficiali spiega anche perché si risentano maggiormente.

Sisma a Ischia, 2 morti e polemiche. Case vecchie o abusivismo? Italia ostaggio del solito tormentone, scrive Andrea Zambrano il 23-08-2017 su "La nuova Bussola Quotidiana”. Nell’estate delle granite (il caldo), le granate (gli attentati terroristici) non potevano non mancare i calcinacci del terremoto. Prendiamo a prestito il successo di Francesco Gabbani perché, purtroppo, raccontare i terremoti in Italia è diventato ormai un tormentone. Non avevamo ancora finito di fare il punto sul devastante crollo di Amatrice di un anno fa esatto quando ecco che a Ischia la terra ha tremato. Così, puntuale, assieme alla macchina dei soccorsi è partita la macchina della speculazione politica. Alla fine il bilancio è di due morti, una madre di sei figli residente nell’isola e una turista bresciana, 39 feriti e più di 2000 sfollati. Il più coinvolto il comune di Casamicciola. Poteva andare peggio, si dice. Ma peggio di così non è una consolazione. L’unica cosa certa è la magnitudo del sisma di lunedì sera: 4.0 troppo poco per poter fare crolli e morti. Troppo poco per evacuare ospedali e alberghi. Si racconta che nel corso del sisma di 6.3 che toccò la Bassa emiliana nel 1996 e che fece parecchi danni, alcuni dirigenti giapponesi di una multinazionale impegnati in una visita in uno stabilimento chimico si stupirono di fronte al fuggi fuggi dei dipendenti terrorizzati. Perché a loro non sembrava nemmeno una scossa di terremoto, tanto erano abituati alla terra ballare sotto i loro piedi. Così rimasero al loro posto mentre tutti scappavano. Eppure quei giapponesi non sapevano che l’Italia è il Paese dove basta un crollo per trasformare una scossa in una tragedia. Colpa delle costruzioni fragili, si dice perché non è il terremoto a fare danni, ma le cattive costruzioni. Infatti anche questa volta è partito puntuale il balletto sulle responsabilità. Sotto accusa l’abusivismo che nell’isola è cresciuto negli ultimi 50 anni vorticosamente con un turismo di massa a fronte di un’isola modeste dimensioni. Case costruite a ridosso sul mare senza rispettare i vincoli paesaggistici e soprattutto condoni. Tanti condoni per terrazze, sottotetti e pareti allargate. La denuncia l’ha fatta la Protezione Civile, che ha notato come un sisma di 4.0 non possa fare morti: “Molte costruzioni sono realizzate con materiali scadenti che non corrispondono alla normativa vigente, per questo alcuni palazzi sono crollati o rimasti danneggiati”, ha detto il neo capo della Protezione Civile Angelo Borrelli al suo esordio alla guida dell’agenzia del Governo alludendo alla costruzione di case con materiali scadenti. Spalleggiato dal presidente del Consiglio nazionale dei Geologi Francesco Peduto: "È francamente allucinante che un terremoto di tale magnitudo possa provocare danni e vittime nel nostro Paese. Che si conferma estremamente vulnerabile. Quello che lascia più interdetti è la mancanza di atti concreti per la prevenzione”. E qui entra in gioco la politica, proprio quando pochi giorni fa il Governo e la Regione Campania avevano avviato un braccio di ferro per una legge regionale che avrebbe concesso criteri più generosi alle abitazioni abusive da condonare in una terra, che conta 67mila case da demolire. Anche un ex magistrato napoletano, Aldo De Chiara ha sottolineato ciò che da anni denuncia: che a Ischia l’abusivismo avrebbe potuto creare dei disastri anche con un terremoto di modesta entità. E’ puntualmente successo, ma difficilmente si potrà ascrivere il giudice in pensione tra le Cassandre. «Al momento non so bene cosa sia crollato. Mi dicono una chiesa e varie abitazioni. Non so a che epoca risalgono e mi voglio augurare che anche la chiesa non sia abusiva», è lui stesso a mettere le mani avanti. Intanto però la palla della lotta all’abusivismo è stata lanciata. Ognuno ha ottenuto il suo quarto d’ora di celebrità, da Legambiente al Governo che per bocca del ministro Delrio ha ribadito la necessità della prevenzione. Insomma: ad ogni terremoto c’è un colpevole da ricercare. Ad Amatrice il dibattito e le polemiche si erano concentrate sulla previsione. Posto però che un terremoto non si può prevedere, bisogna passare a puntare il dito sulla mancanza di prevenzione. E qui casca l’asino. Certo, che le abitazioni siano crollate non c’è dubbio. Ma di quali abitazioni stiamo parlando? I crolli circoscritti alla zona colpita, hanno interessato per lo più strutture antiche tra le quali una chiesa già distrutta dal terremoto del 1883 e poi riedificata. E’ la chiesa crollata nel sisma in cui rimase illeso il giovane Benedetto Croce. Dunque, una prevenzione-previsione c’è ed è attendibile: la storia. Ogni geologo che si rispetti non si stancherà mai di ripeterlo: l’unico modo per prevenire i terremoti è quello di studiarne la storia. Se c’è stato un sisma, tranquilli che questo si ripeterà. Ma non sappiamo quando. Ecco il punto. Nel frattempo bisogna attrezzarsi garantendo alle strutture la miglior tenuta agli edifici. Però i sindaci sono forse gli unici a caldo a testimoniare la tipologia delle abitazioni crollate. Non alberghi sulla costa, ma case nei centri cittadini – dicono -, sufficientemente vecchie per essere obsolete dal punto di vista strutturale, ma non per questo abusive. Perché ci può essere una costruzione abusiva che resta in piedi e un’altra, perfettamente in regola con le leggi dell’epoca in cui è stata fatta, che si sbriciola come cartapesta. E i materiali scadenti con i quali sono state costruite alcune case poi crollate, cui allude la Protezione Civile potrebbero essere non frutto di illeciti urbanistici o di costruzione, ma semplicemente manufatti antichi che non hanno retto in assenza di manutenzione e pertanto sono oggi giudicati scadenti. L’inchiesta sarà lunga e sarà volta ad accertare se le abitazioni crollate fossero davvero costruite con cemento impoverito. Ma dalle prime verifiche sembra che a crollare siano state le abitazioni, come accade spesso, costruite nei secoli scorsi e che non hanno mai avuto interventi di manutenzione straordinaria delle travi o delle fondazioni. Si può incolpare una scarsa cultura italica nel prevenire e nel non essere riusciti in tempo, per indisponibilità o incuria, a prepararsi al big one, ma non che si sia speculato con mafie e piani regolatori ad hoc. Perché quello è un altro problema, non necessariamente protagonista nei terremoti.  

Terremoto in Centro Italia un anno dopo: cosa non ha funzionato, scrive il 22 ed il 23 agosto 2017 Tele Ischia. “E’ assurdo strumentalizzare, come sta accadendo da più parti, tragedie come quella che hanno colpito Ischia a fini politici. In questo momento le istituzioni dovrebbero dimostrare unità e fare fronte comune per risolvere con solerzia la situazione di emergenza che attanaglia l’isola e la sua popolazione”. Così, in una nota, il senatore Ciro Falanga del gruppo Ala-Scelta Civica. “In particolare – aggiunge – destano stupore le dichiarazioni del dottor De Chiara, magistrato che si è prestato a un’operazione politica di sciacallaggio. De Chiara chiarisca se la chiesa crollata a Casamicciola era abusiva e, insieme a Bonelli e altri, dia uno sguardo alle notizie relative al terremoto del 1883 in cui persero la vita i genitori di Benedetto Croce, in un epoca in cui non esisteva l’abusivismo. Sono quindi lieto che i sindaci dei comuni ischitani abbiano tentato immediatamente di stroncare le polemiche relative a un presunto legame tra i danni causati dal sisma e gli abusi edilizi”. “Ad ogni modo, sono d’accordo con il ministro Delrio nel sostenere che i manufatti abusivi debbano essere demoliti, ma sono tanto più vicino alla posizione del titolare del dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti che si è detto favorevole all’individuazione di criteri atti a stabilire delle priorità negli abbattimenti. È precisamente questo lo scopo del Ddl a mia prima firma che attende il via libera definitivo alla Camera”, conclude Falanga. 

“L’abusivismo non c’entra niente in questo terremoto, i giornalisti che lo dicono sono dei disgraziati. Non nego che ci sia abusivismo, come in tutta Italia”, ma “definirci capitale dell’abusivismo è un affronto al popolo di Casamicciola. Quelle venute giù son case vecchie di cent’anni”. Così il sindaco di Casamicciola, Giovan Battista Castagna. “A Casamicciola ci sono sicuramente case condonate. E allora? Condonate significa messe in regola, il proprietario ha ammesso di aver costruito qualcosa in difformità e ha pagato una sanzione, come previsto dalla legge. Vogliamo criminalizzarli per questo?”, dice Castagna. “Noi siamo zona sismica quindi tutte le nuove case e gli interventi sulle case esistenti sono a norma”, o almeno “dovrebbero essere fatti a norma”, prosegue il sindaco. “Se qualcuno non lo fa, e ci sarà pure, sbaglia. Ma da qui a gettare la croce addosso su Casamicciola, ce ne corre”.

Ischia: De Luca, abusivismo non c'entra. Sono venute giù una casa vecchia e cornicioni secolo scorso, scrive l'Ansa il 22 agosto 2017. "In Italia siamo abituati ad avere due facce delle tragedie, quella drammatica, dei feriti, dei morti, delle attività economiche messe in crisi, e un'altra faccia che è quella dello sciacallismo, delle strumentalizzazioni, della confusione tra questioni che non c'entrano niente con il terremoto. È crollata un'abitazione vecchia e sono crollati dei cornicioni di un immobile costruito nel secolo scorso. Nessuna connessione tra questi fatti e l'abusivismo". Così il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, stasera sui luoghi del terremoto.

“Non ho mai parlato di sanatoria o di condono. Io sostengo che si deve uscire dalla situazione di impasse attuale con scelte secche. Quel che va abbattuto, si abbatta. Quel che si deve salvare, si salvi. Però si deve prendere una decisione. Io voglio uscire da questo ambientalismo parolaio, perché a furia di fare finto ambientalismo, in questi 25 anni gli immobili sono rimasti lì e gli sversamenti sono finiti nei terreni. Ma si sono tutti ripuliti la coscienza con grandi chiacchiere”. Così il governatore della Campania, Vincenzo De Luca. “La nostra legge sostiene che bisogna distinguere. Ci sono quattro casistiche che non si possono ammettere: se si è costruito in zone di vincolo idrogeologico, se c’è un vincolo assoluto di inedificabilità, se hanno costruito imprese colluse con la camorra, se il proprietario ha altre proprietà, allora bisogna abbattere”, spiega De Luca. “Con queste demolizioni, già un 30 o 40% delle case abusive verrebbe demolito. Il resto, a discrezione dei Consigli comunali, può essere requisito e destinato a edilizia sociale”. Ad Ischia, dove c’è un vincolo di inedificabilità, secondo questa legge si dovrebbe demolire. “Se c’è un vincolo assoluto, bisogna abbattere. Così come – prosegue De Luca – non possiamo mica ammettere che ci sia una casa costruita su un soffione. È buonsenso. Ma il resto deve venire alla luce. Non è possibile che, siccome sono abusivi, non possono collegarsi alla fogna e così versano dove capita. Non è possibile che non paghino gli oneri della Bucalossi”. “La nostra non è una collettività di abusivi. Ora basta”. Lo ha detto il sindaco di Ischia (Napoli), Enzo Ferrandino, che ha lanciato un appello alla stampa: “Dite come realmente stanno le cose”. “L’Isola d’Ischia non è un’isola terremotata – ha proseguito – una diversa rappresentazione della vicenda sta arrecando più danni del terremoto”.

Il sindaco di Procida continua a manifestare la suo grande solidarietà al popolo ischitano e fotografa con grande obiettività il dopo terremoto. Ecco una sua dichiarazione.

“Avevamo detto che saremmo stati vicini agli ischitani secondo le loro necessità.  Per i soccorsi, la Protezione Civile ha dimostrato ancora una volta che è capace ed insostituibile.  Per la comunicazione, occorre aiutare a far capire che al momento l’isola d’Ischia è un luogo sicuro allo stesso livello del resto d’Italia.  Non sono stati decisi piani di evacuazione che altrimenti avrebbero dovuto riguardare anche i residenti! Dico questo perché addirittura a Procida chiamano turisti allarmati chiedendo informazioni sul terremoto. E Procida è un’isola piatta che mai nella sua storia ha subito particolari danni dai movimenti della terra! La scossa di ieri non ha avuto da noi alcuna conseguenza, come è stato per la grandissima parte del territorio di Ischia. Per questo abbiamo l’obbligo di rassicurare i residenti e gli ospiti che non c’è alcuna ragione per considerare le nostre isole a rischio più di quanto non lo siano altri comuni d’Italia. Ischia è viva e Ischia continua ad essere una terra eccezionale”.

Sindaci di Ischia: non c'è correlazione tra i crolli e l'abusivismo, scrive il 22 Agosto 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". I sei sindaci dei comuni dell’isola di Ischia, in una nota congiunta, «deplorano le notizie false relative a presunti danni e crolli in tutta l'isola e alle inesistenti connessioni tra l’evento sismico e i fenomeni legati all’abusivismo edilizio, rilevando che i crolli circoscritti alla zona colpita, hanno interessato per lo più strutture antiche e risalenti tra le quali finanche una chiesa già distrutta dal terremoto del 1883 e poi riedificata». I sei sindaci dell’isola di Ischia, in una nota congiunta, «esprimono vivo cordoglio e vicinanza alle famiglie delle vittime del terremoto che ha colpito la zona nord-occidentale dell’isola e in particolare il comune di Casamicciola terme». Ringraziano inoltre «i soccorritori, i Vigili del fuoco, la Protezione civile e le forze dell’ordine per la straordinaria opera di assistenza alla popolazione». Invitano infine «la popolazione residente e gli ospiti dell’isola a stringersi ai soccorritori non facendo mancare il sostegno della vicinanza e della solidarietà».

Terremoto, l’urbanista: “chi parla oggi di abusivismo a Ischia strumentalizza”, scrive "L'Adnkronos il 22 Agosto 2017. Oliviero, Casamicciola è storicamente la zona di Ischia più vulnerabile ai terremoti. “La zona di Casamicciola è storicamente la più vulnerabile ai terremoti a Ischia. Lo dicono i dati storici. Parlare di abusivismo edilizio in questi casi vuol dire strumentalizzare la vicenda”. Così Antonio Oliviero, architetto urbanista che sta redigendo il piano urbanistico di Forio, uno dei comuni di Ischia, commenta con Labitalia il terremoto che ha colpito ieri sera l’isola. Secondo Oliviero “l’abusivismo edilizio va contrastato seriamente: esiste sull’isola, in Campania e nel resto d’Italia, ma parlarne adesso non credo che sia corretto, è banalizzare la vicenda”. Per l’esperto “il territorio va gestito con interventi nel tempo e non aspettando le calamità, come avviene in Italia. Qui da noi al dibattito dopo i crolli e le tragedie non seguono mai interventi concreti con investimenti di risorse”.

L’ITALIA DEGLI ABUSI EDILIZI PER NECESSITA’.

L'Italia dei condoni. Mansarde, villette e seminterrati. Regione che vai, sanatoria che trovi. La motivazione è sempre la stessa: "Contenere il consumo del suolo”. In realtà spesso è la formula usata dalla politica per aggirare le norme e aggiustare gli abusi edilizi, scrive Sergio Rizzo il 31 luglio 2017 su "La Repubblica". La foglia di fico è sempre la stessa, e quando la mettono si aspettano persino l'applauso: "Contenere il consumo del suolo". C'è scritto questo nella sanatoria delle mansarde, che la Regione Lazio sta prorogando da otto anni a questa parte, e c'è scritto questo pure nella sanatoria delle cantine, fresca di pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione Abruzzo. Avete capito bene: le cantine. Chi non sottoscriverebbe una legge regionale sul "Contenimento del consumo del suolo attraverso il recupero dei vani e locali del patrimonio edilizio esistente"? Leggendo il titolo si potrebbe immaginare un provvedimento per favorire il riuso degli immobili abbandonati, spesso così belli da lasciare senza fiato, dei quali l'Italia è piena. Prima però di aver scorso il testo, scoprendo che delimita invece quel recupero ai "vani e locali seminterrati " da destinare "a uso residenziale, direzionale, commerciale o artigianale ". Ma non religioso: sia chiaro. Perché la sanatoria delle cantine decretata dalla Regione Abruzzo esclude invece espressamente, all'articolo 3, la possibilità di cambiare la destinazione d'uso dei seminterrati "per la trasformazione in luoghi di culto". Insomma, fateci tutto, anche un bed & breakfast (non è forse attività residenziale?). Tranne che una moschea. Certo, per ottenere questo curioso condono (termine che di sicuro i proponenti rigetteranno sdegnati) bisognerà pagare gli "oneri concessori". Se però l'intervento riguarda la prima casa è previsto uno sconto del 30 per cento. Va pure da sé che i locali debbano avere determinate caratteristiche. Per farci abitare gli esseri umani sono necessari impianti di "aero-illuminazione" (testuale nella legge) e l'altezza dei locali non può essere inferiore a due metri e quaranta. Ma a trovarle, cantine così alte... Niente paura. Anche in questo caso la legge della Regione Abruzzo offre una elegante scappatoia. Eccola: "Ai fini del raggiungimento dell'altezza minima è consentito effettuare la rimozione di eventuali controsoffittature, l'abbassamento del pavimento o l'innalzamento del solaio sovrastante ". Il vostro scantinato tocca a malapena uno e novanta? Niente paura: scavate un altro mezzo metro o alzate il solaio di cinquanta centimetri. Sempre rispettando "le norme antisismiche ", però. Dopo quello che è successo in Abruzzo, è il minimo. Già... Ma colpisce che nemmeno il terremoto sia stato capace di frenare lo stillicidio delle sanatorie. Anzi. Qualche mese fa c'è stato chi ha rivelato che i contributi pubblici per il sisma non avrebbero discriminato le case abusive. Suscitando la reazione risentita delle strutture commissariali, anche se nessuna smentita ha potuto cambiare la realtà dei fatti: per ottenere i denari statali è sufficiente autocertificare che l'abitazione andata distrutta non era interamente abusiva. E poi presentare domanda di sanatoria. La prova, se ce ne fosse ancora il bisogno, che abusivismo e condoni se ne infischiano anche delle scosse telluriche del settimo grado. Il vecchio caro condono edilizio ha così pian piano cambiato pelle. Sbarrata la strada in Parlamento, si è aperto la via nelle pieghe delle leggi regionali assumendo le forme più subdole e creative. Non soltanto per i sottotetti, come nel Lazio e in Lombardia (Regione che ha deliberato anch'essa il salvataggio delle mansarde), o per le cantine, come in Abruzzo. Emblematico è il caso della Campania, dove il Consiglio regionale ha appena sfornato una legge per l'adozione di "linee guida per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi". Tradotto dal burocratese, sono le direttive alle quali si devono attenere i Comuni per evitare di buttare giù le costruzioni illegali. Per esempio, si deve valutare "il prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione". Come pure tenere debitamente conto dei "criteri per la valutazione del non contrasto dell'opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell'assetto idrogeologico ". E che dire dei "criteri di determinazione del requisito soggettivo di 'occupante per necessità"? Ecco dunque gli abusivi per bisogno, quella figura mitica capace di spazzare via ogni tabù ambientale con relativo senso di colpa. In Campania sono il corpo elettorale fra i più consistenti e la tentazione di grattargli la pancia, tipica di certa destra, ha ormai fatto breccia anche presso certa sinistra. I Verdi hanno adesso chiesto al governo di Paolo Gentiloni di impugnare la legge votata dalla Regione governata dal suo compagno di partito Vincenzo De Luca e di stroncare insieme anche la sanatoria delle cantine che ha fatto breccia nel cuore dell'Abruzzo presieduto da un altro dem: Luciano D'Alfonso. Arduo prevedere con quali speranze di successo. Probabilmente non più di quante ne abbiano gli oppositori di una recentissima leggina della Regione Sardegna, ora governata dal centrosinistra di Francesco Pigliaru, per bloccare la possibile invasione delle coste dell'isola con bungalow e casette di legno. Nel provvedimento sul turismo è spuntata infatti la possibilità per i camping isolani di piazzare costruzioni mobili (ma nella versione iniziale erano ammesse anche nella versione non amovibile) al fine di "soddisfare esigenze di carattere turistico". Le quali, precisa il disegno di legge, "non costituiscono attività rilevante ai fini urbanistici ed edilizi". Sono quindi case vere e proprie, ma è come se non lo fossero. Bisogna ricordare che questa non è una novità assoluta. Anche in precedenza le leggi regionali consentivano di impiantare strutture del genere nei camping. Ma all'inizio non si poteva superare il 25 per cento della capacità ricettiva di un campeggio. Poi si è saliti al 40. E ora al 45. Arrivare al 100, di questo passo, sarà uno scherzo...

E' facile parlare di lotta all'abusivismo edilizio da parte di chi l'abitazione ce l'ha, per eredità, per censo o per occupazione/assegnazione di una casa di edilizia popolare a spese della collettività. Ma chi tutela chi la casa non ce l'ha per colpa di amministratori negligenti ed incompetenti, che mai predispongono i piani urbanistici generali o i servizi urbanistici primari?

Questa deriva comunista-giustizialista fa diventare reato anche un sacrosanto diritto di avere un tetto sulla testa.

Diritto all'abitazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo (...) all'abitazione.» (Articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani).

Il diritto all'abitazione (conosciuto anche come "diritto alla casa" oppure "diritto all'alloggio") è il diritto economico, sociale e culturale ad un adeguato alloggio e riparo. È presente in molte costituzioni nazionali, nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e nella Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali art. 31, uno dei primi documenti a farne menzione esplicita, nel Trattato di Lisbona art. 34.3.

Il diritto all'abitazione viene riconosciuto in una serie di trattati internazionali sui diritti umani:

L'articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e l'articolo 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR) riconoscono il diritto alla casa come parte del diritto ad un adeguato standard di vita. Nel diritto internazionale dei diritti umani, il diritto all'abitazione è considerato un diritto indipendente; infatti il Commento Generale n.4/1991 sullo "adeguato alloggio" approvato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali fornisce un'interpretazione autorevole in termini legali e ai sensi del diritto internazionale.

I Principi di Yogyakarta sull'applicazione del diritto internazionale dei diritti umani in materia di orientamento sessuale ed identità di genere afferma che "ognuno ha il diritto ad un alloggio adeguato, compresa la protezione dallo sfratto, senza discriminazioni e che gli Stati membri devono prendere tutte le necessarie misure legislative, amministrative e di altro tipo per garantire la sicurezza del possesso e per l'accesso a prezzi convenienti per case abitabili, accessibili, culturalmente appropriate e sicure, comprese i ripari ed altri alloggi di emergenza, senza discriminazioni derivanti dall'orientamento sessuale, identità di genere o dallo status materiale o familiare;

adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e altre misure per vietare l'esecuzione di sfratti che non siano conformi agli obblighi internazionali sui diritti umani e garantire che i rimedi legali idonei siano adeguati, efficaci e disponibili per colui che ritenga che il diritto alla protezione contro gli sfratti forzati è stato violato o è sotto la minaccia di violazione, compreso il diritto di reinsediamento, che include il diritto ad una alternativa di migliore o uguale qualità e ad un alloggio adeguato, senza discriminazioni.

Il diritto alla casa è altresì sancito anche dall'articolo 28 della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, dall'articolo 16 della Carta sociale europea (articolo 31 della Carta sociale europea riveduta) e nella Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli. Secondo il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, gli aspetti del diritto alla casa includono: la sicurezza legale del possesso; la disponibilità di servizi, materiali, strutture e infrastrutture; l'accessibilità; l'abitabilità; l'adeguatezza della posizione e della culturale. Come obiettivo politico, il diritto alla casa è stato dichiarato nel celebre discorso del 1944 di Franklin Delano Roosevelt sul Second Bill of Rights, ed è sostenuto da varie associazioni di cittadini. La disciplina francese e tedesca della locazione abitativa costruiscono dagli anni '80 un modello di locazione a tempo indeterminato con recesso del locatore solo per giusta causa, in cui il diritto all'abitazione è trattato come un diritto soggettivo perfetto, essendo il locatario destinato a essere maggiormente tutelato quale parte contrattuale debole rispetto al locatore. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha considerato che la perdita dell'abitazione costituisce una violazione al diritto al rispetto del (la libertà di) domicilio (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea art. 7) e che qualsiasi persona che rischi di esserne vittima avrebbe diritto, in linea di principio, a poter far esaminare la proporzionalità di tale misura (v. sentenze Corte EDU, McCann c. Regno Unito, n. 19009/04, § 50, CEDU 2998, e Rousk c. Svezia, n. 27183/04, § 137).

Nella Costituzione italiana il diritto all'abitazione è richiamato all'art. 47 e in ripetute sentenze della Consulta:

<<è doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione>> (n. 49/1987);

<<Il diritto all'abitazione rientra infatti, fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione>> (Corte cost., sent. n. 217 del 1988.);

<<il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona>> (Corte cost. sent. n. 119 del 24 marzo 1999);

<<Creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all'abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l'immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso>> (Corte cost. sent. n. 217 del 25 febbraio 1988);

<<indubbiamente l'abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell'individuo, un bene primario che deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge>> (sentenza n. 252 del 1983)

Con sentenze 310/03 e 155/04 il blocco degli sfratti è dichiarato giustificato solo in quanto di carattere transitorio e per <<esigenze di approntamento delle misure atte ad incrementare la disponibilità di edilizia abitativa per i meno abbienti in situazioni di particolari difficoltà>>, senza che esso possa tradursi in una eccessiva compressione dei diritti del proprietario, interamente onerato dei costi relativi alla soddisfazione di tale diritto.

DDL Falanga, fine dei giochi a settembre diventa legge! La gradualità che “salva” le case stabilmente abitate. Scrive Gaetano Di Meglio il 2 agosto 2017 su "Il Dispari Quotidiano”. Con la dichiarazione di irricevibilità degli emendamenti proposti in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, si è conclusa oggi l’ultima tappa dell’iter legislativo del Disegno di legge “Disposizioni in materia di criteri di priorità per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi”, prima del suo approdo nell’Aula di Montecitorio previsto per i primi di settembre. Lo annuncia l’onorevole Carlo Sarro (FI), componente dell’organismo parlamentare, che ha ricevuto dalla Commissione Giustizia il mandato di Relatore d’Aula unitamente all’onorevole Marco di Lello (Correlatore). “Con la calendarizzazione a settembre del provvedimento – spiega l’esponente di Forza Italia -, si chiude definitivamente l’iter di approvazione del disegno di legge e, quindi, si potrà finalmente fare riferimento a criteri oggettivi e preventivi per stabilire l’ordine di priorità nell’esecuzione delle demolizioni”. “Dunque – conclude l’onorevole Sarro -, non più arbìtri ma riferimenti oggettivi e certi”. Per quanti credono nella bontà della legge voluta dal senatore azzurro Ciro Falanga sì ad un passo dal traguardo. Ora che la Commissione Bilancio e la Commissione Giustizia della Camera hanno dato il via libera alla calendarizzazione in aula del testo la strada si fa tutta in discesa.

Insieme con il senatore Falanga e l’onorevole Carlo Sarro, da sempre, l’avvocato Bruno Molinaro è uno di quelli che ci hanno messo la faccia e si sono esposti, in maniera chiara, anche davanti alle posizioni della Procura, dei Verdi e di quanti, senza considerare l’aspetto umano legato alla tragedia dell’abusivismo edilizio, riescono solo a restare fermi, come cani legati, ad abbaiare, rabbiosi, contro ogni iniziativa che sappia contemperare anche l’aspetto umano di molte RESA. Non c’è solo la camorra, non c’è solo la speculazione. Ma tra tanta camorra e tanta speculazione c’è anche una fetta di umanità e di necessità che merita di essere tutelata. «Apprendo con soddisfazione – ci ha detto l’avvocato Molinaro – che anche la VII Commissione della Camera dei Deputati ha confermato la piena legittimità costituzionale del DDL FALANGA, soprattutto alla luce del fatto che il principio di obbligatorietà dell’azione penale non ne risulta minimamente intaccato, vieppiù se si considera che trattasi non già di sanare abusi edilizi ma di eseguire piuttosto, sia pure secondo modalità predefinite, sentenze di condanna passate in cosa giudicata e che, in ogni caso, allorquando il DDL elegge a criterio di priorità (“di regola”) quello della demolizione dei fabbricati in corso di costruzione, non fa altro che rafforzare la volontà del legislatore di evitare che gli illeciti accertati vengano portati a conseguenze ulteriori. Da notare che il parere appena licenziato si segnala anche per l’esplicita ammissione secondo cui la norma in questione “riduce l’insorgenza di eventuale contenzioso e di incidenti di esecuzione”. Molti ricorderanno – evidenzia Molinaro – che qualche tempo fa il Procuratore Generale di Napoli Luigi Riello, in una intervista al quotidiano La Stampa, aveva invece affermato che la “legge”, per oggettive difficoltà interpretative ed applicative, finisce per determinare un vertiginoso aumento del contenzioso, con gli avvocati chiamati a fare il loro mestiere, e nuovi carichi di lavoro per i magistrati. Personalmente sono sempre stato convinto del contrario perché un avvocato serio ed intellettualmente onesto non ha alcun interesse a consigliare al proprio cliente di proporre un incidente di esecuzione per opporsi alla demolizione di un fabbricato allo stato grezzo. E di fabbricati grezzi, scheletri ed ecomostri incompleti il territorio italiano, purtroppo, soprattutto nella fascia costiera, è pieno. Dunque, con il DDL Falanga, una volta approvato, si fa giustizia di queste brutture, si aiuta l’ambiente e si riduce il numero delle cause. Il DDL Falanga, inoltre, contrariamente a quanto sostenuto da qualche parlamentare sprovveduto, non vanifica affatto, né ridimensiona in qualche modo gli effetti dell’ottima proposta di legge volta all’azzeramento del consumo del suolo entro il 2050, già approvata alla Camera. Quest’ultima, infatti, prevede, a grandi linee, incentivi alla rigenerazione urbana ed il riuso degli edifici sfitti e delle aree dismesse, occupandosi, altresì, della riqualificazione energetica e della demolizione e ricostruzione degli edifici energivori. Si tratta, quindi, di una “legge” che va ad incidere sul patrimonio edilizio esistente ma – beninteso – solo su quello legittimo, non anche su quello abusivo, oggetto, peraltro, di sentenze irrevocabili. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti, in quanto il patrimonio edilizio abusivo non può nemmeno formare oggetto di interventi di manutenzione, dovendo essere demolito. Rigenerazione, riuso e riqualificazione sono, per forza di cose, termini assolutamente incompatibili – conclude l’avvocato ischitano – con la gestione delle opere abusive la cui unica sorte è soltanto quella di essere eliminate prima o poi».

All’articolo 1 del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 6, dopo la lettera c) è aggiunta la seguente: « c-bis) i criteri per l’esecuzione degli ordini di demolizione delle opere abusive disposti ai sensi dell’articolo 31, comma 9, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e degli ordini di rimessione in pristino dello stato dei luoghi disposti ai sensi dell’articolo 181, comma 2, del codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nell’ambito dei quali è data adeguata considerazione:

1) agli immobili di rilevante impatto ambientale o costruiti su area demaniale o in zona soggetta a vincolo ambientale e paesaggistico o a vincolo sismico o a vincolo idrogeologico o a vincolo archeologico o storico-artistico;

2) agli immobili che per qualunque motivo costituiscono un pericolo per la pubblica e privata incolumità, nell’ambito del necessario coordinamento con le autorità amministrative preposte;

3) agli immobili che sono nella disponibilità di soggetti condannati per i reati di cui all’articolo 416-bis del codice penale o per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, o di soggetti ai quali sono state applicate misure di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 »; b) dopo il comma 6 è inserito il seguente: « 6-bis. Nell’ambito di ciascuna tipologia di cui alla lettera c-bis) del comma 6, determinata con provvedimento del titolare dell’ufficio requirente, tenendo conto dei criteri di cui alla medesima lettera e delle specificità del territorio di competenza, la priorità è attribuita, di regola, agli immobili in corso di costruzione o comunque non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado e agli immobili non stabilmente abitati».

De Luca: “Salvo l’abusivismo di necessità”, scrive il 6 giugno 2015 "Il Dispari Quotidiano". Ai microfoni di Radio24 dopo le anticipazioni al “Dispari”: «Una sanatoria per le case non a rischio». De Luca, come ci ha abituato da sempre, non le manda certo a dire. “Non vendo fumo e al di là delle chiacchiere da salotto noi siamo già qui a lavorare” ha commentato deciso, in queste ore, al giornalista di Radio24 che lo ha intervistato sui grandi temi della sua campagna elettorale. E così Vincenzo De Luca, che è in attesa della proclamazione ufficiale per insediarsi come governatore della Regione Campania, ha le idee ben chiare anche per quanto riguarda l’abusivismo, con una sanatoria che investirebbe tutti meno tre categorie di abuso ben precise. Pratico come sempre, dichiara – come aveva peraltro anticipato in un’intervista al Dispari – che è materialmente impossibile abbattere tutto ciò che è stato giudicato abusivo. “Se potessimo abbattere tutto lo avremmo già fatto – ha aggiunto ai microfoni di Radio24 – noi viviamo di ipocrisia, abbiamo in Campania credo la legislazione vincolistica più stringente del mondo, tremila leggi. Con il risultato che abbiamo il tasso più alto di abusivismo. 80.000 alloggi abusivi. Lei mi sa dire chi è in grado di demolire 80.000 alloggi? Faccio solo un esempio, avete le cave dove portare il materiale di risulta?”. Ed ecco la soluzione firmata De Luca: “Bisogna fare una cosa di grande buon senso. Nella mia ipotesi escludo la possibilità di sanatoria per tre categorie: primo abusivismo in luoghi di vincolo assoluto, se hai costruito sotto Ravello o Sorrento devi essere demolito; impossibilità di sanatoria per chi ha costruito in zone con pericolo per la pubblica incolumità, se costruisci sul greto del fiume devi essere demolito e non puoi essere sanato se avevi già un alloggio di proprietà e hai fatto l’abuso. Per il resto si approvano leggi per consentire, nell’ambito di piani di recupero, di mettere ordine e far pagare il dovuto a chi ha fatto abusivismo di necessità.” Un progetto lineare che non è da considerarsi come un condono. Ma come sanatoria “per quelli che non rientrano nelle tre categorie. Poi se c’è un povero cristo che in una zona interna della Campania senza danneggiare il paesaggio ha fatto un abuso siccome non abbiamo alternative, verrà applicata una legge – continua De Luca – a me non piace la sanatoria, ma mi confronto con la realtà: è materialmente impossibile demolire 80.000 alloggi. Se c’è qualcuno che ha una idea in proposito io sono il primo a mettermi avanti e non dietro per metterla in atto.”

"In Sicilia abusivismo di necessità". E Mannino attacca Cancelleri, scrive Salvo Cataldo Mercoledì 9 Agosto 2017 su "Live Sicilia". Giancarlo Cancelleri distingue tra "l'abusivismo che non è tollerabile" e "l'abusivismo di necessità", e la deputata alla Camera Claudia Mannino, grillina della prima ora ma autosospesa dal gruppo parlamentare M5s per via dell'inchiesta sulle presunte firme false di Palermo, va all'attacco del candidato governatore pentastellato: "Sono davvero sorpresa nel prendere atto che il M5S abbia cambiato posizione sull'abusivismo edilizio, allineandosi al pensiero di vari sostenitori di una categoria di comodo, talvolta inesistente, che essi definiscono 'abusivismo di necessità'", sono le parole che la deputata scrive sul suo profilo Facebook. Parole che arrivano all'indomani del collegamento televisivo della trasmissione 'In Onda', su La7, nel corso della quale Cancelleri aveva affrontato il tema dell'abusivismo edilizio. "Dobbiamo distinguere tra due canali: il primo è un abusivismo che non è tollerabile e che ha invaso le nostre coste, che è a meno di 150 metri dal mare e che insiste in zone di inedificabilità assoluta - afferma -. Poi c'è un abusivismo di necessità, perché in questa regione non sono mai stati fatti i piani casa, perchè L'Istituto autonomo case popolari non ha dato la casa a chi ne aveva bisogno e allora - aggiunge Cancelleri - chi non aveva soldi ma aveva un po' di arte la casa se l'è fatta". Secondo Cancelleri "i territori non sono tutti uguali. A Bagheria - prosegue - abbiamo fatto un regolamento comunale che non butta giù le case della povera gente che però non insistono nei 150 metri o nelle zone di vincolo e inedificabilità assoluta". E infine aggiunge: "Davanti a una ordinanza di demolizione della magistratura saremo i primi a portarla a termine". Parole che accendono la risposta di Mannino, componente della commissione sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. "Parlare di abusi di necessità significa non affrontare un cancro che devasta quotidianamente la Sicilia e tante altre regioni d'Italia. Non è solo una questione di legalità e rispetto dell'ambiente ma anche di sicurezza. Non lamentiamoci poi quando dopo qualche precipitazione le case vengono giù". Secondo Mannino "gli argomenti di Cancelleri sono gli stessi di chi tenta di far passare l'ipotesi dell'ennesima sanatoria e del governatore campano De Luca". La deputata palermitana poi chiede ironicamente: "Se dovesse essere eletto anche Cancelleri assisteremo ad un regno abusivo delle due Sicilie?". Critiche anche sulla frase delle ordinanze di demolizione: "La Regione non se ne occupa, le emettono magistratura e comuni, e non eseguirle costituisce reato. Il modello Bagheria? Non esiste, c'è una legge e va rispettata...sempre che non si pensi ad una nuova sanatoria regionale". E infine l'affondo contro Cancelleri: "Schierarsi improvvisamente dalla parte degli abusivi, dopo anni di lotte spesi per contrastare questo grave problema, è un voltafaccia inaspettato, che ha sapore di opportunismo elettorale.

Di Maio: "Se l’abusivismo è colpa della politica la casa resta un diritto". Il leader M5S. La linea dalla Sicilia: "Si abbatta quando lo ordina il giudice, ma non si voltino le spalle a chi paga l'assenza di pianificazione", scrive Annalisa Cuzzocrea il 13 agosto 2017 su "La Repubblica". "Se un giudice dice che un immobile va abbattuto, si fa. Ma non possiamo voltare le spalle a chi ha una casa abusiva perché la politica non ha fatto il suo dovere". Luigi Di Maio spiega così le parole del candidato governatore M5S in Sicilia Giancarlo Cancelleri sugli "abusivi di necessità ". "La prima casa è un diritto, con noi al governo non si potrà pignorare", dice il vicepresidente della Camera. Che è ancora sull'isola, nonostante il tour con Cancelleri e Alessandro Di Battista sia sospeso per qualche giorno. Il tempo di passare ferragosto in famiglia e ricaricare i pulmini elettrici.

Con l'abusivismo edilizio bisogna essere intransigenti o no?

"La polemica sulle parole di Cancelleri è incomprensibile. Ciò che la magistratura dice di abbattere, si butta giù. Ma Giancarlo ha anche detto che non puoi voltare le spalle a quei cittadini che oggi si ritrovano con una casa abusiva a causa di una politica che per anni non ha fatto il suo dovere, cioè piano casa e piani di zona. Sia chiaro, la casa è un diritto e se andremo al governo introdurremmo anche l'impignorabilità della prima casa, da parte dello Stato e delle banche. Uno Stato democratico deve garantire i diritti primari dei suoi cittadini".

Il banale giornalismo dell’ambientalismo. Riflessione di Giuseppe Mazzella su Teleischia il 7 agosto 2017. Roberto Della Seta è un giornalista, saggista e politico italiano di 58 anni che è nato e vive a Roma.E’ stato presidente di Legambiente, membro dell’assemblea costituente del PD, senatore del PD nel 2008 e non ricandidato nel 2013, ha fondato un movimento ecologista che si chiama Green Italia. Ha un blog dove dichiara che ha una laurea in storia contemporanea. Ha scritto un articolo su “ Repubblica” domenica 6 agosto 2017 dal titolo “ Il condono declassato” in cui esprime la sua contrarietà alla cosiddetta “ Legge Falanga”, già approvata al Senato ed ora al voto finale alla Camera.“ La norma è apparentemente banale, fissa una gerarchia di priorità per gli interventi di demolizione degli immobili abusivi: per primi vanno abbattuti quelli in costruzione, poi gli edifici realizzati in aree demaniali o in zone di pregio paesaggistico o a rischio idrogeologico dopo ancora quelli in uso a mafiosi e camorristi” spiega Della Seta che afferma anche che “ per la prima volta in una legge dello Stato verrebbe istituzionalizzato il principio dell’ abusivismo “ di necessità”.“ Ora, chiunque conosca un poco la storia dell’ abusivismo edilizio in Italia – continua il giornalista, saggista e politico –sa bene che proprio l’ abusivismo “ di necessità” è stato il pretesto con cui si sono giustificate le grandi sanatorie e con cui centinaia di amministratori hanno colpevolmente, spesso dolosamente chiuso gli occhi davanti al fenomeno”. De Seta ritiene che “abusivismo “di necessità e “abusivismo speculativo” sono il più delle volte indistinguibili” e per dimostrarlo cita il caso dell’isola d’ Ischia dove “le case abusive sono sorte come i funghi per poi affittarle a 1000 o 2000 euro a settimana”. De Seta esprime anche la sua contrarietà ai “condoni edilizi” ricordando che in Italia ce ne sono stati tre di cui gli ultimi nel 1994 e nel 2003 firmati da Berlusconi. Ancora. De Seta critica il PD che vuole votare la “Legge Falanga” e chiede un “ripensamento” poiché sostiene che “la logica delle grandi intese è nemica dell’interesse generale”. Francamente ritengo questo giornalismo “banale” dell’ambientalismo italiano capace solo di dire NO a tutto ed incapace di dire “SI MA…” e cioè di mettere in esecuzione una seria e realistica Pianificazione Territoriale. De Seta – da laureato in storica contemporanea – dovrebbe conoscere la storia della “ mancata “ pianificazione territoriale proprio nell’ isola d’ Ischia, esempio paradigmatico di un lunghissimo periodo – circa 70 anni – in cui le classi politiche di tutti i colori della prima e della seconda Repubblica sono state incapaci di mettere in esecuzione una REALISTICA Pianificazione Territoriale con una altrettanto REALISTICA Programmazione Economica perché l’ isola d’ Ischia non ha mai avuto un Piano Regolatore Generale in esecuzione ed ha avuto un Piano Paesistico solo nel 1942 “ inapplicato” per 28 anni e cioè fino al 1970 mentre ha avuto un Ente di Diritto Pubblico nel 1952 con durata ventennale preposto alla “ Valorizzazione” con una incentivazione finanziaria dello Stato attraverso la Cassa per il Mezzogiorno affinchè si costruissero alberghi, terme, case vacanze, attività commerciali per permettere lo sviluppo economico dell’ isola. De Seta troverà la storia di uno sviluppo edilizio ed economico senza programmazione dal 1949 al 2012 nel mio libretto “Ischia, la pianificazione mancata (OSIS-2012). La mancanza di una SERIA Pianificazione Territoriale quella che avrebbe dovuto dire “SI MA…” e cioè costruire per lo sviluppo ma difendere l’ambiente e conciliare le due cose apparentemente inconciliabili – ma è questo è il compito della Politica – ha favorito l’ “abusivismo” perché era la strada obbligata in assenza di norme per l’ edificazione sia per chi voleva “ speculare” sia per chi voleva costruire una casa per se stesso o per i propri figli. Per avere un nuovo Piano Paesistico Urbanistico Territoriale che è strumento di tutela “ passiva” del territorio e non “ attiva” come dicono gli urbanisti bisogna aspettare il 1995 quando un Ministro “ tecnico” di un Governo “ tecnico” ( il Ministro dei Beni Culturali Paolucci del Governo Dini) approva con decreto e su dati obsoleti un Piano che si limita a vietare ogni modifica del territorio “ ingessando” uno sviluppo economico che per definizione non può essere “ ingessato” in una “ economia aperta” come dicono gli economisti. Il Ministro Paolucci lo fece esercitando i poteri “surrogatori” del Governo nei confronti della Regione Campania “inadempiente” per 11 anni ai sensi della “Legge Galasso” del 1984. In un anno i sei Comuni dell’isola avrebbero dovuto approntare un piano di “dettaglio” per le due leggi di condono edilizio del 1984 e del 1994 che hanno prodotto oltre 20mila pratiche di condono che NON è mai stato né fatto né approvato. Se oggi la Soprintendenza ai Beni Ambientali “approva” una “domanda di sanatoria” per i due condoni edilizi lo fa in modo del tutto “discrezionale”. Il condono del 2003 – per decisione del consiglio regionale della Campania – non si applica all’isola d’ Ischia considerata nella sua interezza di 46Km2 area di particolare interesse ambientale. Al dottor De Seta consiglio di leggere e studiare con attenzione il capitolo decimo della monumentale monografia sul terremoto di Casamicciola nell’ isola d’ Ischia del 28 luglio 1883 ( 1999- Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato) dal titolo “ la ricostruzione tra cronaca e storia” curato dall’arch. prof.ssa Ilia Delizia dove in dettaglio scrupoloso potrà conoscere la storia dei piani regolatori dei cinque Comuni colpiti dal 1884 al 1891, il ruolo dell’ ufficio distaccato del Genio Civile, il lavoro della commissione edilizia dell’ isola d’ Ischia soppressa il 26 aprile 1891. Bisogna vivere una realtà per poter capire un sistema economico e sociale, studiarne le contraddizioni e chiedere ma ottenere norme di civiltà praticabili in un quadro di un Diritto Certo e non sottoposto alla “discrezionalità” dei poteri pubblici. Da almeno 30 anni le popolazioni dell’isola – siamo circa 63 mila residenti – vivono in una “incertezza” del diritto che finisce per favorire la “speculazione edilizia” – fra l’altro praticamente estinta in questi ultimi 10 anni a causa di una visibile recessione economica – e punire proprio l’ “abusivismo di necessità” che invece si distingue, a mio parere, chiaramente dall’ “ abusivismo di rapina” praticato soprattutto negli anni ‘ 70 del ‘ 900. Se si spara nel mucchio si finisce di colpire l’innocente. 

Che cosa hanno in comune Ischia e Roma, scrive Roberto Arditti il 26 agosto 2017 su "Formiche.net". Sono o non sono la stessa cosa le vicende dello sgombero del palazzo abusivamente occupato a Roma e del terremoto a Ischia che colpisce e uccide anche a causa dell’abusivismo edilizio?

Purtroppo sono esattamente la stessa cosa, anche se è doloroso ammetterlo. Certo, lo sgombero ci porta alla complessa vicenda dei flussi migratori, mentre il terremoto, lasciati da parte gli aspetti imprevedibili, attiene alla gestione del territorio e di come costruiamo case e edifici pubblici.

In comune c’è però il modo tutto italiano di fare, autorizzare, condonare. Un modo dove le scartoffie sono tutto e i fatti seguono raramente alle parole vergate su carta bollata.

Prendiamo lo sgombero attuato a Roma, atto sacrosanto anche se maldestramente gestito. Punto primo quell’immobile è rimasto illegalmente occupato per quattro anni, un tempo scandaloso. Punto secondo a Roma sono oltre cento gli edifici in analoghe condizioni. Punto terzo abbiamo visto un palleggio scandaloso di responsabilità tra forze dell’ordine, comune e regione. Con il risultato che oggi il ministro Minniti ci informa che ha disposto (comprensibilmente) un stop agli sgomberi in attesa di definirne meglio i metodi.

Andiamo a Ischia. Sull’isola (divisa in sei comuni, ripeto sei comuni diversi) giacciono negli uffici oltre 20.000 domande di condono per ogni tipo di intervento sugli edifici. Questa è la Caporetto nazionale della gestione degli immobili, perché significa alzare la braccia di fronte al mostro che finisce per creare, quello secondo cui ognuno fa quel che vuole, poi si vedrà in sede di sanatoria. Per finire poi al paradosso più grave, che è quello delle demolizioni. Già perché pochi sanno come funziona, anche se è semplicissimo (in teoria). La demolizione viene disposta dall’autorità giudiziaria ma eseguita dal comune. Il quale spesso non vuole e qualche volta non può per mancanza di fondi. Con il risultato che nulla accade e la decisione resta valida solo sulla carta. Proprio come sulla carta sono gran parte delle attività amministrative in materia di sgomberi.

Ecco che il cerchio si chiude. È la Repubblica della carte bollate ipocrite e inconcludenti quella che andrebbe rasa al suolo. Sarebbe uno sgombero da Oscar.

Abusivi buoni e cattivi. Non tutti gli abusivi sono evidentemente uguali: quelli ischitani, quelli dei piani rialzati, sono da condannare senza processo, quelli africani che occupano un palazzo al centro di Roma sono da tollerare, scrive Nicola Porro, Sabato 26/08/2017, su "Il Giornale". Non tutti gli abusivi sono evidentemente uguali: quelli ischitani, quelli dei piani rialzati, sono da condannare senza processo, quelli africani che occupano un palazzo al centro di Roma sono da tollerare. Eppure entrambe le categorie sono illegali. Ed entrambe le categorie hanno a che fare con la casa e il suo diritto di proprietà. Ma come negli anni '70 un'infelice legislazione ha stabilito che nei rapporti di lavoro c'è una parte debole (il lavoratore) che gode di una presunzione di innocenza in un'eventuale controversia, così l'«occupante abusivo» di uno stabile gode di una protezione superiore al legittimo proprietario dello stesso. Se poi l'occupante è un centro sociale (ultimo il caso scandaloso di Bologna e del sindaco Merola) o un emigrante, la posizione debole si rafforza. Dicevamo che al centro di tutto vi è il diritto di proprietà. Gli abusivi ischitani lo hanno interpretato in senso estensivo e contro una legge di ordine pubblico. Costruiscono dove non devono o ampliano senza permesso. Ci si trova, i giuristi sofisticati ci perdoneranno, nel campo del diritto amministrativo-pubblico. Gli occupanti africani dello stabile a Roma violano invece una norma fondante del diritto privato: e cioè la tutela della proprietà. Per un liberale il diritto privato è alla base della nostra convivenza civile. Per farlo rispettare abbiamo inventato lo Stato, i tribunali, e abbiamo concesso loro il monopolio della violenza. Se potessimo fare una classifica degli orrori illiberali, verrebbe decisamente prima il furto della proprietà (ciò che banalmente succede quando un immobile viene occupato) rispetto all'utilizzo contro le norme pubblicistiche della stessa (l'apertura di una finestra, l'innalzamento di un piano). Non si capisce dunque come sia possibile tutta questa comprensione per i poveri cittadini sgomberati (il discorso non vale solo per gli eritrei di piazza Indipendenza) e l'implacabile pugno di ferro per gli abusivi ischitani e non solo. Non prendiamo le parti né dei primi né dei secondi. Ma cerchiamo semplicemente di dire che per un liberale la differenza tra il sindaco Merola che concede locali pubblici ad un centro sociale dopo averli sgomberati da un altro edificio, e il sindaco che non procede alle demolizioni, non esiste. Anzi Merola commette un delitto ancor maggiore.

Ps. Vivi complimenti al prefetto di Roma che ha rivendicato lo sgombero senza nulla cedere al piagnisteo collettivo.

Ischia, dalla magnitudo all'epicentro: i dati sbagliati sul terremoto, scrive il 26 agosto 2017 "Skytg24". La relazione dell'Ingv alla Commissione grandi rischi rivede la localizzazione del sisma: non in mare, ma a 1 km a sud ovest da Casamicciola Terme (dove ci sono stati i danni maggiori e le vittime) e a circa 2 km di profondità.

Confermata la forza, già salita da 3.6 a 4. Prima la magnitudo, poi l’epicentro e la profondità. Il terremoto di Ischia, che ha provocato due vittime, decine di feriti e diversi crolli, è anche il sisma degli errori degli scienziati. I dati sulla scossa del 21 agosto, infatti, sono stati rivisti dagli esperti a giorni di distanza: dopo la magnitudo corretta, l’epicentro è passato dal mare a Casamicciola e la profondità è diminuita.

Rivisti epicentro e profondità. Nella relazione presentata dall’Ingv alla Commissione grandi rischi, l’epicentro del terremoto non è più in mare e a 10 chilometri di profondità, ma è a 1 chilometro a sud ovest da Casamicciola Terme e a circa 2 chilometri di profondità. In pratica, nella zona in cui si sono registrati i danni maggiori e le vittime. “Il forte danneggiamento rilevato nella zona alta di Casamicciola con intensità macrosismica VIII, oltre alla scarsa resilienza del costruito, è dunque imputabile sia alla superficialità dell’evento, che all’amplificazione locale dei terreni”, ha spiegato l’Ingv. A poche ore dal sisma, l’istituto aveva rivisto anche la magnitudo: era passata da un iniziale 3.6 a 4.

La spiegazione dell’Ingv. Per giustificare i dati rivisti, l’Ingv ha spiegato che, “per poter essere localizzati con precisione, i terremoti in zone vulcaniche richiedono modelli di velocità specifici dell’area. Tali modelli sono disponibili e ben verificati per l’area vesuviana e quella etnea, ma non per l’Isola d’Ischia perché, per essere messi a punto e calibrati, deve essere utilizzata la sismicità locale stessa. Dal 1999 a Ischia vi sono stati in media meno di 5 terremoti l’anno, insufficienti per elaborare un modello di velocità di riferimento affidabile”. I primi risultati, quindi, “erano approssimativi” e sono stati corretti dopo analisi più approfondite.

Polemiche sui dati sbagliati. Le polemiche sui dati sbagliati, però, non si fermano. Soprattutto perché fin da subito alcuni scienziati hanno messo in dubbio i numeri, ma ci sono voluti giorni perché gli errori venissero riconosciuti e corretti. “Il terremoto è necessariamente più superficiale”, aveva detto a Sky TG24 a ridosso del sisma Giuseppe Luongo, professore emerito di Vulcanologia all’università Napoli. In un’intervista al Mattino, l’ex presidente dell’Ingv Enzo Boschi attacca: “È inammissibile sbagliare così la magnitudo, la direzione del sisma, l'epicentro, e soprattutto la profondità focale del sisma con un margine di errore così ampio. Inconcepibile, senza precedenti”. “Se si fosse detto da subito che l'epicentro del terremoto era circoscritto a una piccola porzione di Casamicciola, proprio com'era intuibile soltanto guardando la tv, migliaia di turisti non avrebbero lasciato Ischia in preda al panico”, ha aggiunto Boschi. Concetto ripreso ai microfoni di Sky TG24 anche da Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale dei Verdi in Campania. Oltre a chiedere le dimissioni dei vertici dell’Osservatorio Vesuviano, Borrelli ha sottolineato come la “comunità ischitana sia stata massacrata perché un piccolo terremoto di basso magnitudo ha fatto cadere le case”, mentre i nuovi dati hanno mostrato che “le case sono cadute perché è come se fosse esplosa una bomba lì in mezzo”.

Verifiche sull’abusivismo. Nonostante i nuovi dati, comunque, continua il lavoro della magistratura per accertare se le responsabilità dei crolli siano non solo delle scosse ma anche dell’abusivismo edilizio, di lavori non a norma, di materiali scadenti utilizzati. Sull’isola d’Ischia, come spiega un’inchiesta di Sky TG24 sugli abusi edilizi, ci sono complessivamente 28mila richieste di condoni edilizi.

Terremoto di Ischia, magnitudo giusta solo dopo 4 giorni, scrive Mariagiovanna Capone, Sabato 26 Agosto 2017, su "Il Messaggero". Quattro giorni per ottenere la rilevazione del terremoto di Ischia. Quattro giorni di dati ballerini, di vulcanologi e sismologi allibiti da valori incongruenti rispetto a quello che la storia sismica del luogo insegnava. Ma come è andata davvero?

LA MAGNITUDO. Venti minuti dopo la scossa delle 20.57 di lunedì scorso, avremo magnitudo locale (Ml) 3.6, profondità ipocentrale 10 chilometri, epicentro a mare, al largo di Forio nel settore Ovest come dirà l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, basando il dato sull’elaborazione di 197 stazioni della rete nazionale. Poco dopo la mezzanotte dall’Osservatorio Vesuviano, sede napoletana dell’Ingv, arrivano i dati rielaborati con magnitudo durata (Md) 4.0, ipocentro a 5 chilometri di profondità e un epicentro sempre a mare ma stavolta a circa 3 chilometri dalla costa Nord. La comunità scientifica immediatamente reagisce storcendo il naso perché vada per la magnitudo, essendo misurata con parametri differenti poiché una e Ml e un’altra Md, ma le differenze tra epicentro ed ipocentro appaiono troppo diverse tra loro e il dubbio si insinua anche tra illustri scienziati come Enzo Boschi, ex presidente Ingv fin da quando si chiamava ancora Ing, e Giuseppe Luongo, ex direttore dell’Ov. Un dubbio che all’indomani diventa conferma poiché negli uffici di via Diocleziano che ospitano i ricercatori dell’Osservatorio Vesuviano, chi ha studiato la sismicità dell’isola di Ischia trova i dati troppo discordanti rispetto a quelli storici e rielabora personalmente i valori dell’evento di martedì. Risultato? Magnitudo 4.0, epicentro a poche centinaia di metri dalla via Borbonica a Casamicciola alta, e profondità di circa 2 chilometri. Anche altri colleghi fanno la stessa rielaborazione usando altri modelli e il risultato è praticamente identico. Il tam tam negli ambienti di ricerca è immediato ma resta circoscritto. Da mercoledì mattina, quindi, sono in molti a sapere dell’effettiva rilevazione del sisma ischitano, e seppure comunicandolo a chi di dovere, hanno visto il dato invariato. Cambierà quattro giorni dopo appunto, ufficializzando ieri pomeriggio una magnitudo durata di 4.0, una profondità ipocentrale di 1 chilometro 730 metri e un epicentro su via Santa Barbara, nella parte alta di piazza Bagni. È chiaro che qualcosa non ha funzionato. Cosa è avvenuto, dunque? Un errore molto semplice e non affatto strano: nei minuti immediatamente successivi alla scossa chi era di turno all’Ov ha usato un modello di velocità 3D dei Campi Flegrei che tocca solo marginalmente Ischia. Il dato finale quindi ha completamente spostato il posizionamento, trascinandolo verso la costa flegrea. Per l’elaborazione avvenuta nella mattinata di mercoledì e ufficializzata soltanto ieri, invece, si è usato un modello di velocità «1D». Nel software usato dall’Osservatorio Vesuviano, chiamato NonLinLoc, sono stati immessi cioè dei riferimenti e delle formule diverse, valide proprio per Ischia, poiché ogni luogo ha caratteristiche differenti in superficie e nel sottosuolo, per intenderci, e a maggior ragione in aree vulcaniche. Rilievi ottenibili nel giro di minuti, al massimo ore, ma di certo non in quattro giorni come si vuole far credere.

I DATI. Ufficialmente, invece, Ingv e Ov lo hanno divulgato soltanto ieri. «Compito di un istituto di ricerca è di fornire una prima elaborazione per permettere alla macchina della Protezione Civile di mettersi in moto e inviare i soccorsi» spiega la direttrice dell’Ov Francesca Bianco. «Poi si studia il fenomeno, anche con differenti approcci, rielaborando i dati con differenti algoritmi, modelli di velocità, e così via. Non ci siamo infatti fermati e oggi (ieri, ndr) abbiamo ottenuto un dato che riteniamo più valido. Non perché fosse sbagliato quello precedente, ma perché i modelli usati erano diversi. Non lo abbiamo localizzato, che so, a Stromboli, sempre a Ischia era. Mi chiedo, che scienziati saremmo se ci fermassimo alla prima elaborazione? È aggiungo altro che continuiamo a considerarlo preliminare perché le elaborazioni proseguono». La comunità scientifica ha tirato un sospiro di sollievo alla vista dei dati corretti e pubblicati ieri pomeriggio. «Pare che si siano convinti 4 giorni dopo. Adesso è ufficiale finalmente» esulta Giuseppe De Natale, ex direttore dell’Ov. «Molti mi hanno chiesto - continua - se sia possibile che un modello di velocità non appropriato possa causare uno spostamento dell’epicentro di vari chilometri, in un’area come Ischia e con stazioni sismiche localizzate entro pochi chilometri una dall’altra. Da sismologo, rispondo che in teoria è possibile, ma solo se il modello di velocità errato, completamente campato in aria. Quindi, in un contesto ragionevolmente equilibrato, da sismologo risponderei senz’altro: è impossibile. Ciò che invece sarebbe possibile, ma è cosa diversa, è che, senza utilizzare le stazioni sismiche vicine per la localizzazione, si fossero usate solo stazioni molto lontane (rete nazionale). Ma non sarebbe comprensibile, perché almeno tre stazioni di Ischia funzionavano bene, ed indicano chiaramente l’epicentro sotto Casamicciola, a circa 2 chilometri di profondità».

Il terremoto di Ischia ha fatto sprofondare il terreno di 4 centimetri. I satelliti italiani ed europei hanno mostrato con chiarezza la deformazione del suolo. L'epicentro del sisma non era in mare come annunciato in un primo momento, ma molto vicino al centro di Casamicciola. Piccolo sciame sismico registrato anche sull'Etna, scrive Elena Dusi, il 26 agosto 2017 su "La Repubblica". Il terremoto di Ischia ha fatto abbassare il suolo di 4 centimetri a Casamicciola. Le immagini dallo spazio mostrano lo sprofondamento di una porzione del versante nord del vulcano Epomeo. Il movimento della terra durante la scossa del 21 agosto è stato registrato dai satelliti europei Sentinel-1 e italiani Cosmo-SkyMed, che sono passati sopra all’isola prima e dopo il sisma. I dati acquisiti dall’Agenzia Spaziale Italiana (che gestisce la flotta Cosmo-SkyMed insieme alla Difesa) sono stati elaborati dall’Istituto per il rilevamento elettromagnetico dell’ambiente del Cnr e forniti alla Protezione Civile. E’ proprio sotto il versante sprofondato che la scossa probabilmente ha avuto origine. L’istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) ha ricalcolato la posizione, che è stata aggiornata anche nelle mappe dell’Usgs, il servizio geologico americano. Il nuovo ipocentro si trova un chilometro a sud-ovest di Casamicciola e a 1,7 chilometri di profondità. Le stime della magnitudo si sono assestate su tre valori. La magnitudo Richter è stata 3.6. Si tratta del metodo di calcolo più rapido, che viene usato immediatamente dopo ogni scossa nella sala sismica dell’Ingv a Roma e ha sempre un'incertezza di 0,2 gradi. L’Osservatorio Vesuviano di Napoli (una sezione dell’Ingv) ha calcolato anche la magnitudo durata, che tiene conto di quanto tempo i sismografi hanno oscillato, ed è stata 4.0. L’Usgs infine, che utilizza una propria rete di stazioni sismiche installate in tutto il mondo ed è in genere meno precisa rispetto alle reti locali per le piccole scosse, ha pubblicato un valore di 4.2 di magnitudo di onde di volume (un terzo metodo di calcolo). A seconda del tipo di rocce e della loro temperatura infatti le onde sismiche si propagano a velocità diverse (tre chilometri sotto all’Epomeo si raggiungono i 400 gradi e la terra è già simile a cioccolato fuso). I segnali dei sismogrammi vanno dunque interpretati sulla base delle variazioni delle caratteristiche della crosta. Quel che sappiamo da tempo è che il monte Epomeo sta lentamente abbassandosi, soprattutto sul versante sud. La scossa di lunedì sera potrebbe essere la risposta all’accumulo delle tensioni sotterranee causate da questi spostamenti di lungo periodo. Purtroppo però due delle quattro stazioni sismiche installate sull’isola non sono riuscite a trasmettere le loro registrazioni alla rete nazionale a causa del black out elettrico. L’Ingv, in una nota di venerdì sera, ha spiegato che “per essere localizzati con precisione, i terremoti in zone vulcaniche richiedono modelli di velocità delle onde sismiche specifici dell’area. Tali modelli sono ben verificati per l’area vesuviana e quella etnea, ma non per l’isola di Ischia. Per metterli a punto e calibrarli, infatti, bisogna sfruttare la sismicità locale del passato. Dal 1999 a Ischia ci sono stati in media meno di 5 terremoti all’anno e tutti di magnitudo inferiore a 2.5, insufficienti per elaborare un modello di velocità affidabile”. La scossa di lunedì sera, proprio perché poco profonda, vicinissima al centro abitato e in parte amplificata da un terreno leggero e franoso, è stata comunque molto violenta. Ha scosso il suolo a una velocità di quasi 18 centimetri al secondo, con un'accelerazione pari a 0,28 volte la gravità. Sull'Etna intanto la notte di venerdì si è verificato un piccolo sciame di una quindicina di scosse. La più intensa ha raggiunto una magnitudo Richter 3.3. La zona interessata è stata quella del versante sud (Santa Maria di Licodia, Ragalna, Pedara), su una faglia ben nota ai ricercatori. Gli abitanti dei paesi sono usciti in strada dallo spavento. I tremori indicano probabilmente dei movimenti di magma nel sottosuolo. Il fenomeno è considerato normale, visto che l'Etna è il secondo vulcano più attivo del mondo, dopo il Kilauea alle Hawaii.

«Errori di calcolo inammissibili e assenza di trasparenza. È evidente che da qualche tempo nell'istituto qualcosa non funziona più a dovere». La sentenza del sismologo Enzo Boschi, ventotto anni di carriera all'Ingv di cui dodici anni alla presidenza, è lapidaria, scrive il 26 agosto 2017 "Il Mattino.

Lei è stato il primo, poco dopo il sisma, a dire che la magnitudo e l'ipocentro erano stati sottostimati. E lo ha fatto sulla base delle semplici immagini televisive. Perché invece chi aveva a disposizione dati e strumenti ha fatto valutazioni errate?

«Chi ha un minimo di competenza sulla sismicità dell'isola, sa bene che lì si sono verificati in passato terremoti poco profondi a breve distanza da Casamicciola. Evidentemente, chi quella notte nell'istituto si è occupato delle rilevazioni, non era in possesso di nozioni e competenza sufficiente. È solo una questione di stupidità e ignoranza».

L'Ingv ha imputato gli errori al fatto che le valutazioni di terremoti che avvengono in zone vulcaniche sono più complesse e più soggette ad errori.

«Si tratta di operazioni di calcolo semplicissime, con un margine di errore quantificabile nello 0,2 di magnitudo. Per le valutazioni di terremoti in aree vulcaniche sono a disposizione modelli internazionali che funzionano benissimo. Basta applicarli, e saperli leggere correttamente. Ma lei comprende che danno è stato fatto all'Isola?».

Ce lo spieghi.

«Se si fosse detto da subito che l'epicentro del terremoto era circoscritto a una piccola porzione di Casamicciola, proprio com'era intuibile soltanto guardando la tv, migliaia di turisti non avrebbero lasciato Ischia in preda al panico».

Ipotizza quindi che qualcuno chiederà i danni?

«È già accaduto in passato. Una class action contro chi ha diffuso dati errati, con conseguenti danni d'immagine al territorio interessato».

Perché tanti errori?

«Già il 15 giugno scorso avvenne un fatto incredibile, quando l'istituto associò la magnitudo 5.1 di un terremoto nelle Filippine al sisma di magnitudo 1.6 registrato a Pieve Torina, vicino Macerata. Probabilmente c'è qualcosa che non va nella nuova gestione».

Problemi di risorse?

«I fondi ci sono, circa 50 milioni all'anno, di cui 15 dalla Protezione civile. Credo si tratti piuttosto di problemi di organizzazione interni. Ad agosto ci sono le ferie: la pratica sarà finita nelle mani di qualcuno che forse non aveva l'esperienza sufficiente per gestirla. È inammissibile sbagliare così la magnitudo, la direzione del sisma, l'epicentro, e soprattutto la profondità focale del sisma con un margine di errore così ampio. Da un ipocentro stimato a 10 km di profondità siamo passati a uno di 1,75. Inconcepibile, senza precedenti».

Mai successo niente di simile, nei dodici anni che ha guidato l'Istituto?

«Qualche errore fu commesso, ma mai nulla di simile. E quando si verificò ne rendemmo immediatamente conto. Chiedemmo scusa, nella più totale trasparenza».

Dice che c'è stato anche un cortocircuito comunicativo?

«Suppongo che si siano voluti tenere gli errori sottotraccia, onde evitare di dovere licenziare i responsabili del pasticcio. Ma era meglio dire: scusate, abbiamo sbagliato. La trasparenza è la maniera migliore per preservare la credibilità scientifica».

La doppia articolazione Ingv-Osservatorio vesuviano può avere provocato un cortocircuito nel coordinamento?

«È plausibile, ma non ne ho contezza. So per certo che nel corso della mia presidenza è sempre filato tutto liscio».

TERREMOTO DI ISCHIA E SISMICITA' INDOTTA: ALCUNE CONSIDERAZIONI. Scrive Albina Colella sabato 26 agosto 2017. Terremoto di Ischia del 21 agosto 2017: mentre sui media si accendeva la polemica sulle rilevazioni iniziali di INGV secondo alcuni sbagliate, con stime della profondità focale e dell'epicentro del sisma riviste in maniera sostanziale, e con comunicazioni di magnitudo diverse, non si può fare a meno di pensare se il problema della sismicità indotta/innescata c'entri qualcosa in questa vicenda o meno. Il motivo? La fattibilità dell'Impianto Pilota Geotermico "Serrara Fontana" a Ischia, che potrebbe essere compromessa da una valutazione poco favorevole delle condizioni geologiche del sottosuolo. Nel 2015 la società Ischia GeoTermia s.r.l. ha infatti avviato le pratiche autorizzative per la realizzazione di un impianto per la produzione di energia elettrica sfruttando fluidi geotermici: esso prevede la realizzazione di una centrale di produzione elettrica, di due pozzi di produzione e di un pozzo di reiniezione di tale fluido, con una profondità verticale dei pozzi dal piano campagna di circa 1.300 m. L'impianto ricade nell'area del permesso di ricerca "Ischia Forio" in cui è compreso anche il territorio di Casamicciola Terme, dove si sono verificati i maggiori danni del terremoto suddetto. Di sismicità indotta in Italia si è sempre parlato poco, tranne recentemente: l'argomento è sempre stato scomodo, contestato, quasi tabù. Il motivo è che essa può a volte porre serie limitazioni alle attività industriali di sfruttamento delle risorge energetiche del sottosuolo, come quelle geotermiche e petrolifere, dove ci sono grandi interessi economici in gioco. Cosa è la sismicità indotta? E' una sismicità generata da attività umane e non da processi naturali legati alla deformazione tettonica della crosta terrestre. Come avviene? Alcune attività antropiche alterano l'equilibrio meccanico del sottosuolo modificandone lo stato di sforzo e possono portare alla rottura delle rocce o causare movimenti lungo faglie preesistenti, con lo sviluppo di terremoti in genere di bassa magnitudo. In territori ad alta pericolosità sismica c'è il rischio tuttavia che, lì dove nel sottosuolo sono presenti faglie sismogenetiche e condizioni favorevoli, la sismicità indotta inneschi, anticipandoli, terremoti naturali di origine tettonica con elevati valori di magnitudo. Quali sono le attività antropiche che possono causare sismicità indotta? Le più importanti sono: 1) reiniezione di fluidi nel sottosuolo, 2) sfruttamento dell'energia geotermica, in cui la sismicità è indotta da iniezioni ed estrazioni di fluidi per il trasporto del calore, 3) estrazione di idrocarburi, 4) stoccaggio di gas, 5) variazioni di carico nei bacini idrici, 6) attività mineraria, 7) costruzione di strutture massicce, ecc. In Italia ci sono casi acclarati di sismicità indotta? In un rapporto del 2014 l'ISPRA ha documentato/ipotizzato 16 casi di sismi indotti da attività antropica a partire dal 1960, ma il problema per alcuni di questi è discusso. Il pubblico dibattito tra esperti che è seguito al sisma del 21 agosto 2017 ha delineato uno scenario geologico molto meno tranquillizzante rispetto a quello iniziale. Se infatti in una intervista a Quark dell'aprile 2017 la direttrice dell’Osservatorio Vesuviano (INGV) Francesca Bianco aveva dichiarato che “la sismicità a Ischia era estremamente rara”, il Prof. Franco Ortolani ha invece recentemente ricordato i vari eventi sismici ischitani (circa 14) a partire dal 1228 fino a quello devastante del 1883, che avrebbe provocato circa 2000 vittime. Se le valutazioni iniziali dell'INGV ponevano la profondità focale del sisma a oltre 10 km e l'epicentro ad alcuni chilometri in mare a nord di Ischia, quelle attuali le pongono a poco meno di 2 km di profondità e a 1 km a SO di Casamicciola Terme. Ciò rafforza l'ipotesi che la struttura sismogenetica dell’evento del 21 agosto 2017 sia ubicata proprio nel sottosuolo delle zone alte di Lacco Ameno e Casamicciola alle pendici del Monte Epomeo e non ad alcuni chilometri di distanza dalla costa in mare a nord dell’isola. Se la società Ischia GeoTermia s.r.l. nello Studio di Impatto Ambientale dichiara che nell'area del previsto impianto (vicina a Casamicciola) sono assenti strutture tettoniche sismogenetiche, secondo il Prof. Ortolani invece gli effetti al suolo del sisma del 2017 sono correlabili con quelli dell’evento del 1883 causato da una faglia sismogenetica ubicata a circa 2 km di profondità nel sottosuolo di Casamicciola e Lacco Ameno. E' dunque ovvio che tale nuovo scenario è molto meno favorevole alla realizzazione dell'impianto geotermico, in quanto la sua attività di estrazione e reiniezione di fluidi in prossimità di una faglia sismogenetica potrebbe causare non solo sismicità indotta di bassa magnitudo ma anche sismicità innescata con i relativi danni alle strutture e alle persone. Sarebbe interessante conoscere, come dichiara il Prof. Boschi, cosa è successo nelle sale di sorveglianza dell'INGV di Roma e di Napoli la sera del 21 agosto e soprattutto chi ha materialmente fatto e comunicato le prime valutazioni, e se è vero quel che si dice, e cioè che la rete sismica nell'isola di Ischia durante il sisma funzionava molto parzialmente.

"Terremoto ad Ischia magnitudo 4.0. Ischia docet?" Scrive il Coordinamento associazioni Orvietano, Tuscia e Lago di Bolsena aderente alla Rete Nazionale "No Geotermia Elettrica Speculativa e Inquinante", venerdì 25 agosto 2017. Nessuno ha detto che nell'Isola è prevista una centrale geotermica a Serrara Fontana secondo il piano Berlusconi-Scajola (e che il Governo di centrosinistra non ha modificato). Saggiamente la Regione Campania a giugno scorso ha bocciato tale impianto per la prevedibile sismicità indotta (e si appresta a bocciarne, per gli stessi motivi un altro identico previsto ai Campi Flegrei), mentre dopo il terremoto di Castel Giorgio del 30.05.2016 di magnitudo 4.1 la Regione Umbria - che pure è stata tra le regioni ampiamente colpite dal terremoto appenninico di un anno fa - ancora non si decide a bocciare l’impianto geotermico previsto a Castel Giorgio, ma anzi recentemente ha autorizzato altre ricerche geotermiche sulla Piana dell'Alfina! La motivazione di fondo della bocciatura dell’impianto geotermico di Serrara Fontana, uno dei sei comuni dell’isola di Ischia, sta nella sismicità indotta e danni rilevanti al turismo. Dice infatti la decisione della Regione Campania (Decreto Dirigenziale n. 15 del 16/06/2017 in allegato geo.1669): “Il modello geologico-geotermico e sismo-tettonico presentato dal proponente, anche a seguito delle indagini magnetotelluriche effettuate, è inadeguato e non consente di escludere con ragionevole certezza il verificarsi di sismicità indotta/innescabile connessa all’esercizio dell’impianto, con particolare riferimento alle fasi di estrazione e re-immissione dei fluidi geotermici….Ed ancora: “In base ai dati presentati dal Proponente, l’avvertibilità e i potenziali effetti del terremoto indotto considerato dal progetto (M=2,5) sono da ritenere non del tutto trascurabili. Lo stesso Proponente evidenzia che i terremoti sarebbero avvertibili già per una magnitudo di 1,5 se con ipocentro entro 1 km di profondità. Gli effetti della percezione dei terremoti da parte della popolazione non sono stati adeguatamente considerati, come pure non sono stati considerati i potenziali impatti sull’economia turistica dell’isola, aspetti che allo stato attuale non sembrano essere stati approfonditi adeguatamente”. Ed inoltre: In tale siffatto contesto ambientale, antropico e socio economico il proponente non solo non ha adeguatamente indagato gli stress introdotti dall’attività geotermica (sismicità indotta/innescabile) e i possibili effetti negativi sul sistema delle acque minerali e termali, al fine di escluderli con ragionevole certezza, ma inoltre non ha previsto nessuna garanzia economica in caso di danni a beni e persone derivanti dall’esercizio dell’impianto, ritenendo quindi implicitamente che tutte le esternalità negative debbano essere assunte, nel caso, dalla collettività a fronte di un “interesse pubblico” finalizzato alla produzione di soli 5 MW …”. Continua così il Decreto Dirigenziale: “Allo scarso rilievo strategico dell’impianto, in termini di contributo all’energia da FER producibile in Campania, si associa, invece, un elevatissimo rischio antropico che impatta negativamente sul rischio ambientale, già alto nell’Isola d’Ischia, con conseguenze negative anche sul contesto socio economico, determinato dagli impatti che, in assenza di adeguate indagini e caratterizzazioni come nel caso di specie e considerato il contesto di riferimento, produce in termini di sismicità indotta/innescabile, impatti sul sistema delle acque minerali e termali, impatto paesaggistico, rischio idrogeologico nonché sul rischio vulcanico. Per concludere così: “…Per tutto quanto rappresentato si ritiene che l’impianto, nel contesto ambientale, antropico e socio economico che caratterizza l’Isola d’Ischia, determina rilevanti impatti negativi, in termini di sismicità indotta/innescabile e conseguenti danni a beni e persone, non mitigabili di alcun modo, nonché, conseguentemente, anche al sistema socio economico fondato sul turismo”. Le stesse motivazioni indotte dalla Regione Campania per “bocciare” Serrara Fontana e cioè: sismicità, assenza di garanzia economica in caso di danni a beni e persone derivanti dall’esercizio dell’impianto, scarso rilievo strategico dell’impianto (produzione di soli 5 MW!), impatti negativi sul sistema socioeconomico fondato sul turismo, potrebbero valere anche per “bocciare” il previsto impianto di Castel Giorgio ( e di Torre Alfina), come richiedono tutti i sindaci dell’area ed anche il Consiglio Regionale dell’Umbria. Peraltro il terremoto del 30 maggio del 2016 ha avuto proprio l’epicentro nella aree individuate da ITW-LKW per gli impianti pilota di Castel Giorgio e di Torre Alfina. Questa ennesima posizione della Giunta regionale Campania è un ulteriore dimostrazione che “bocciare “gli impianti pericolosi si può, tutelando i cittadini: se la Regione Umbria, anche dopo tale sollecitazione, non lo farà ai cittadini non rimarrà che punire alle prossime elezioni politiche e regionali il Partito della Presidente (che ha la responsabilità della gestione della regione Umbria), nonostante che a livello locale e regionale il PD hanno preso posizione contro le centrali geotermiche nella piana dell’Alfina. Quanto è successo ad Amatrice e ora a Ischia mostra la gravità della situazione sismica del nostro Paese: non tenerne conto è puramente criminale. Il nostro paese è sismico di per sé: vanno perciò eliminate le cause “antropiche” non essenziali come la produzione di 5 MW di energia elettrica (su un totale di 130.000 MW nazionali)! Riportiamo alcune dichiarazioni a caldo – apparse sul Corriere della Sera del 23.08.2017 (da cui è derivata la immagine di Ischia sopra riportata) - del prof. Doglioni, presidente dell’INGV:” La ferita di Amatrice può ripetersi anche in altre parti d’Italia. La penisola si dilata di 3-4 millimetri l’anno, che ogni qualche secolo determinano movimenti di qualche metro. Potrà capitare di nuovo. Il fenomeno è lo stesso: a chiazze, il terreno sprofonda” e alla domanda di quanto ci vuole a mettere in sicurezza l’Italia Doglioni risponde così:” Non basterebbero cinquant’anni per come siamo messi. I terremoti si dimenticano presto, è naturale eliminare un dolore. Questo aiuta la ricostruzione, ma non la prevenzione, perché induce atteggiamenti fatalisti e a non far nulla. Gli italiani metteranno in sicurezza le case solo quando avranno paura”. E i cittadini che debbono fare? Contare solo i danni ed i morti? La presidente della Regione Marini e l’assessore Cecchini ci rispondano finalmente!

Ischia, traghetti a pagamento: scoppia il caos sul web, scrive il 22/08/2017 "Adnkronos.com". "E' uno schifo, i biglietti per i traghetti per lasciare Ischia erano a pagamento". Divampa la polemica sul web dopo il terremoto che ha scosso Ischia. A far discutere, in particolare su Facebook, la partenza precipitosa di centinaia di turisti dall'isola, con traghetti presi d'assalto e biglietti, a quanto pare, regolarmente venduti in una situazione di panico. "Vergogna ad Ischia. Stanotte la gente, a migliaia, nel panico più totale, è stata costretta a pagare prima il biglietto e poi ci si poteva imbarcare dopo ore ed ore di attesa alle biglietterie. Molte persone hanno fatto a botte per accaparrarsi un biglietto. Quello che andava fatto, era invadere le navi e buttare a mare chiunque si permetteva di chiedere il titolo di viaggio. E' uno schifo. Spero che ci siano avvocati pronti ad intervenire per fare causa alle compagnie di navigazione, al comune di Ischia, allo stato italiano. In una situazione di altissimo stato di emergenza, questa cosa è imperdonabile", si legge in un post pubblicato da Gaetano Di Vaio, che spiega: "Mia nipote è ancora ad Ischia con il marito e i due bambini piccoli. Mi ha riferito tutto lei". "Ora bisogna agire. Oltre alla restituzione dei soldi dei biglietti, vanno chiesti i danni alle compagnie di navigazione e alle istituzioni che non sono intervenute", dice ancora. Le affermazioni innescano un dibattito acceso. Molti utenti condividono la posizione critica nei confronti delle compagnie. Altri, però, non concordano. "Perché la compagnia non doveva farsi pagare il biglietto? Tra l'altro il ticket va fatto un ogni caso per ordine pubblico...immaginate cosa sarebbe accaduto se fosse stato possibile prendere la nave senza biglietto...", fa notare qualcuno. "Ma perché avreste dovuto salire a bordo tutti gratuitamente???", domanda un'altra persona. "Il problema sono i 18 euro di una nave che offre un servizio ??? Tu e chi ti sostiene siete fuori di testa. Questo è il modo per creare altra tensione in un momento molto delicato". Contattata via email e telefonicamente, la compagnia chiamata in causa direttamente dal post pubblicato su Facebook si limita a far sapere che "siamo tutti al lavoro per l'emergenza". Un'altra compagnia, la Snav, dalla propria pagina Facebook "informa l'utenza che, di concerto con l’Assessorato ai Trasporti della Regione Campania e la Prefettura di Napoli, ha immediatamente rinforzato la linea veloce Casamicciola – Napoli con proprie unità aventi trasportabilità di circa 700 passeggeri. E' stata data disposizione di monitorare il flusso alle biglietterie di Casamicciola, che al momento è regolare, rinforzando o raddoppiando le corse nel momento in cui ci fosse reale richiesta di maggiore trasportabilità". "La SNAV è fortemente solidale con la popolazione di Ischia ed è pronta a soddisfare tutte le richieste di assistenza all’isola come sempre avvenuto in caso di necessità", si legge nel messaggio firmato dal Comandante Raffaele Aiello, amministratore delegato della società. Dopo il sisma, anche Alilauro -si legge su Facebook- "ha prontamente allertato i propri uomini affinché nell'immediato si fossero resi disponibili a salpare dai porti di Ischia e Forio verso la terraferma. La celerità degli interventi istituzionali ha sino a questo momento garantito che le operazioni di soccorso procedessero nel migliore dei modi. L'Alilauro a sostegno della popolazione terremotata garantirà la mobilità di quanti lo chiederanno effettuando partenze verso la terraferma ogni 30 minuti. Alla Regione Campania e alle Istituzioni Locali e' stata resa nota la disponibilità del personale tutto a collaborare alla grave emergenza sismica che ha colpito l'isola Verde". Anche Medmar, con un post, nelle ore immediatamente successiva al sisma ha disposto "corse straordinarie per la terraferma dall'isola d'Ischia" da Casamicciola e da Ischia, entrambe per Pozzuoli.

Terremoto Ischia, i furbetti della paura: «fuggiti» senza pagare il conto, scrivono Ciro Cenatiempo e Massimo Zivelli il 24 agosto 2017 su “Il Mattino”. Ischia. La scossa di terremoto e la paura. Per molti villeggianti l’occasione è stata colta al volo. Una buona scusa per scappare senza saldare il fitto della casa delle vacanze, in alcuni casi anche quello pendente presso alberghi e pensioncine. È accaduto anche questo l’altra notte a Ischia, quando nelle ore successive all’evento sismico che ha interessato l’isola, interi eserciti di villeggianti si sono riversati in maniera caotica sui porti di Ischia e Casamicciola con l’intento di partire in tutta fretta alla volta della terraferma e quindi sottrarsi al terremoto e ai suoi effetti. Con le forze dell’ordine completamente impegnate nei soccorsi e nello sgombero dalle aree maggiormente colpite, e contando anche sull’immancabile clima di confusione generale, per tanti l’esodo anticipato di qualche giorno ha fornito l’alibi perfetto per abbandonare senza pagare le case prese in fitto per le vacanze di agosto. O quanto meno, senza completare il pagamento, dopo aver versato solo la caparra all’arrivo. Parecchi i casi che si sono verificati, anche se la notizia è venuta fuori solo adesso, con i riflettori che gradatamente si vanno spegnendo sui fatti principali della drammatica notte di lunedì, mentre arriva il tempo delle valutazioni e dei bilanci. Soprattutto di quanto è costato e quanto peserà in negativo nelle prossime settimane sul bilancio della più importante realtà turistica campana. È venuta fuori ieri, questo storia dei «furbetti» della paura, quando alcuni proprietari di case delle vacanze e anche qualche piccolo albergatore si sono presentati al commissariato. «L’altra notte si sono pure presi a botte sulle banchine pur di trovare un posto sulle navi, e adesso sappiamo perché. Non era il panico per nuove scosse di terremoto, quanto piuttosto la paura di non riuscire a scappare in tempo senza aver pagato il conto» raccontano non senza ironia al commissariato di Ischia, dove qualcuno dei creditori beffati alla fine si è rivolto. La vicenda dei fitti non pagati fa il paio con quella relativa alla pretesa, avanzata sempre l’altra notte dai tanti in fuga dall’isola, di non pagare il biglietto del traghetto, perchè «evacuati dal terremoto». La prima furbizia è andata bene. Ma dopo il lauto pranzo gratis, i soliti furbi almeno il caffè sono stati costretti a pagarlo. Le compagnie marittime infatti si sono fatte pagare regolarmente la trasferta e al massimo hanno convertito senza costi di transazione i biglietti prenotati per fine agosto, anticipandoli alla data dell’altra notte. Non è certo la prima volta che villeggianti o clienti d’albergo in vacanza a Ischia, si dileguano prima di aver saldato il conto della vacanza. È sicuramente però la prima volta che i furbetti della vacanza hanno trovato nel terremoto un complice che ne ha avallato la fuga. «Ci dobbiamo tenere la beffa - è il commento amaro di un locatario - perchè con soggetti del genere anche tentando di far valere il nostro diritto per vie legali, ci sarebbe poco o addirittura niente da recuperare. Quanto accaduto serve da lezione a tutti, in futuro bisognerà riscuotere tutto il fitto con largo anticipo». D’altronde, cofre alla mano, non c’è dubbio che il sisma ha assestato un colpo pesante all’economia dell’isola. Che di turismo vive, e poco più. «Il buco nell’indotto si aggira intorno ai quattrocentomila euro». Secca, lapidaria la considerazione di Ermando Mennella, presidente di Federalberghi delle isole di Ischia e Procida. «La quantificazione – aggiunge – non si regge su basi scientifiche, è ovvio, ma su una serie di fattori comunque chiari. Sono cinquemila le persone che hanno lasciato le strutture alberghiere prima della conclusione della vacanza, in seguito alla paura generata dalla scossa. E altrettante sono andate via dalle seconde case, dalle abitazioni di proprietà o da quelle prese in affitto per questo periodo. Poi bisogna aggiungere un migliaio di pendolari della nuotata che non stanno più affollando traghetti e aliscafi secondo lo schema classico del mordi e fuggi». C’è un altro aspetto da non sottovalutare in prospettiva di medio e lungo termine e riguarda 1.200 i posti letto non disponibili, per un periodo imprecisato, negli alberghi di Casamicciola e Lacco Ameno. «Sono una quindicina in tutto, gli hotel che hanno chiuso per mancanza di prenotazioni o perché, dopo essere stati evacuati, devono essere sottoposti alle necessarie verifiche di agibilità, o a lavori di ristrutturazione. In tale ottica non si possono fare previsioni sui trend di settembre». Sull’altro fronte, quello delle attività commerciali, lo scenario non è catastrofico.

L’Hotel Rigopiano costruito sui detriti della valanga del 1936. Aperta una nuova indagine sui lavori di ampliamento. Le ultime modifiche del Rigopiano avevano superato indenni l’esame della magistratura, scrive Marco Imarisio il 23 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Carta canta. Per almeno due volte. Nel 1991 la Regione Abruzzo decide di dotarsi di una mappa che segnala eventuali criticità sul proprio territorio. Si tratta di un debutto, reso necessario dalle alluvioni e dallo sciame sismico del biennio precedente. La carta ufficiale mostra come l’hotel Rigopiano sia al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. A farla breve, un lembo di terreno rialzato rispetto alla superficie intorno per via dell’accumulo di materiale caduto dall’alto. Nel dicembre del 2007 quel documento diventa una specie di Vangelo ambientale, perché viene adottato tale e quale com’era dalla Giunta che sulla base delle sue segnalazioni approva il nuovo Piano di assetto idrogeologico. Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia. «L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage. A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione». L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali. I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente. La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo». Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.

"A quelli gli abbiamo dato pure il cu...". L'inchiesta dimenticata dietro l'hotel, scrive il 24 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. La tragedia dell'hotel Rigopiano ha riportato a galla le vicende controverse legate agli ultimi anni della struttura di Farindola. Lo scorso novembre il Tribunale di Pescara ha assolto i cinque imputati - ex amministratori comunali e gli ex titolari dell'albergo - coinvolti nell'inchiesta sui presunti abusi avvenuti dopo gli ampliamenti del 2007. Oggi gli atti di quell'indagine, riporta il Tempo, sono stati acquisiti al fascicolo del procuratore capo Cristina Tedeschini e del sostituto procuratore Andrea Papalia che indagano per omicidio plurimo colposo e disastro colposo. L'inchiesta del pm Varone si basava sull'accusa che l'amministrazione comunale dell'epoca, guidata da una maggioranza del Partito democratico, era "piegata" alle richieste degli imprenditori, in quel caso i cugini Del Rosso, eredi della struttura alberghiera. In un'intercettazione, per esempio, gli inquirenti avevano raccolto uno sfogo emblematico: "C'hanno manipolato come gli pare e piace, qualsiasi cosa gli serviva, pronto, pronto, pronto (...) Gli è stato dato pure il culo a livello di amministrazione, ogni richiesta esaudita e... alla fine ecco il risultato!". Nel mirino degli inquirenti era finita per esempio la delibera che sanava l'ultimo ampliamento della struttura, approvata in cambio di "promessa di versamento di denaro destinato verosimilmente a finanziamento di un partito politico", oltre che "assunzioni preferenziali per propri protetti" nella società dei Del Rosso. L'unico che ha votato contro la suddetta delibera è stato un consigliere di minoranza che ha ricordato ai carabinieri come il giorno del consiglio comunale aveva ribadito la sua contrarietà: "La ditta Del Rosso, senza nessuna preventiva autorizzazione, aveva occupato abusivamente una parte del terreno". In quella seduta poi c'era un'altra situazione imbarazzante e riguardava altri membri del Consiglio: "C'erano delle incompatibilità che riguardavano alcuni consiglieri, i cui parenti all'epoca lavoravano presso l'Hotel Rigopiano: la figlia di... la nipote di..., la moglie di... e tutti e tre hanno votato favorevolmente". Dopo quella delibera, secondo la procura ci sarebbero state altre concessioni sospette e intercettazioni in cui c'erano amministratori che esortavano altri ad accelerare i tempi e a convincere anche l'opposizione perché i Del Rosso non subissero ritardi. L'assoluzione finale da parte dei giudici è stata piena con sentenza passata in giudicato, con la linea della difesa sposata in pieno: "L'ampliamento oggetto dell'indagine riguarda un terreno su cui non è stata costruita nessuna depandance dell'hotel - ha detto l'avvocato di Paolo Del Rosso, Romito Liborio - e comunque non è stato interessato dalla slavina". 

"Occhio, ci arrestano tutti quanti...". Horror: chi ha la coscienza sporca, scrive “Libero Quotidiano” il 25 gennaio 2017. Il clima tra i consiglieri di maggioranza del Comune di Farindola non appariva proprio disteso anche il giorno dopo l'approvazione della arcinota delibera che aveva permesso ai titolari dell'Hotel Rigopiano, i cugini Del Rosso, di occupare un'area di 3500 mq per 10 anni davanti alla struttura. Una situazione verificatasi nel 2007 e sanata il 30 settembre 2008 con un voto a maggioranza del Consiglio Comunale. Secondo l'accusa della procura, con quel voto favorevole dei consiglieri era arrivato in cambio di una "promessa di un versamento di denaro destinato verosimilmente a finanziamento di partito politico" e di "assunzioni preferenziali per propri protetti" nella struttura alberghiera. I cinque imputati, ricorda il Tempo, sono stati assolti dall'accusa di corruzione, con sentenza passata in giudicato. Dopo il disastro dopo la slavina che ha distrutto l'hotel Rigopiano, la Procura di Pescara ha aperto una nuova indagine, contro ignoti, per omicidio plurimo colposo e disastro colposo. In quei fascicoli, i procuratori Cristina Tedeschini e Andrea Papalia hanno voluto aggiungere anche gli atti del processo sull'ampliamento sospetto dell'hotel. In quelle carte, gli inquirenti avevano riportato le intercettazioni che hanno coinvolto alcuni politici locali, in particolare un ex assessore che, il giorno dopo l'approvazione della delibera - ha chiamato un ex consigliere del Pd, entrambi imputati e assolti nel processo. In quella telefonata, l'ex assessore chiedeva spiegazioni sulla telefonata della sera precedente: "Ti volevano prendere in giro - gli è stato risposto - e dirti che…te n'eri andato per consumare le ultime sere... a casa, visto che a breve mo' ci arrestano tutti quanti". Apparentemente parole dette in leggerezza, anche se i carabinieri di Penne non la pensavano così. Nell'informativa dei militari quelle dichiarazioni: "dimostrano in maniera emblematica quanto già emerso dall'attività investigativa, ovvero che la maggioranza dell'amministrazione comunale farindolese ha approvato la delibera favorevole ai Del Rosso con coscienza e volontà, sapendo perfettamente di violare leggi e regolamenti". Pochi giorni dopo, un'altra telefonata tra due politici farindolesi aveva insospettito i carabinieri: "A loro non succede niente - dice al telefono un consigliere - semmai succede a noi, ai consiglieri che hanno votato... ma a loro proprio no (i Del Rosso, ndr). Dovrebbero semmai apprezzare che questi consiglieri hanno votato... ulteriormente".

PARLA L'INGEGNERE DINO PIGNATELLI, CHE HA REDATTO IL PIANO PER IL MONTE TERMINILLO: ''AREA HOTEL NON DOVEVA ESSERE EDIFICABILE''. ''IN ABRUZZO NON ESISTE CARTA VALANGHE, LA TRAGEDIA DI RIGOPIANO ERA EVITABILE''. Scrive il 20 gennaio 2017 Marco Signori su "Abruzzo web”. "La Regione Abruzzo non ha mai adottato una Carta delle valanghe, che avrebbe ad esempio potuto scongiurare il dramma dell'hotel Rigopiano di Farindola". L'ingegnere Dino Pignatelli, esperto di impianti a fune ed esperto abilitato di valanghe con una formazione anche in Svizzera, non ha dubbi: "Anche da un'osservazione superficiale del posto si capisce che non è immune dal rischio valanghe, è sicuramente una zona esposta a valanghe, che poi negli ultimi anni non ce ne siano state non significa nulla". Mentre i soccorritori scavano ancora, nella speranza di trovare qualche sopravvissuto tra la trentina di persone che dovrebbero essere sepolte da neve e macerie, Pignatelli spiega ad AbruzzoWeb che "non c'è un serio Piano regionale valanghe, che si trasforma nella Carta che deve essere adottata dai Piani regolatori fatti dai Comuni". "Sul monte Terminillo abbiamo fatto esattamente questo, un paio d'anni fa: mappa del rischio che stabilisce le zone pericolose", racconta. "C'è tutto un sistema attraverso il quale si studiano le valanghe - spiega - Abbiamo metodologie di calcolo molto raffinate, riusciamo ad individuare con una certa precisione sia l'entità, sia l'altezza della neve accumulata, la pressione che esercita su quello che incontra e la velocità che raggiunge la neve". "Lo studio delle valanghe è oggi assolutamente puntuale e precisa nelle determinazioni", aggiunge, spiegando come "ci riferiamo alla normativa svizzera che è la più aggiornata". Tra le soluzioni che si possono adottare per difendersi, ci sono le protezioni attive e quelle passive. "Le prime vengono messe a monte - dice Pignatelli - ed impediscono la formazione di una valanga. Le seconde più a valle e sono dei deviatori, ma si tratta di opere importanti anche perché per deviare quella massa servono infrastrutture di un certo impatto". All'hotel Rigopiano di Farindola, insomma, interventi di questo tipo magari non sarebbero stati possibili, ma semmai ci fosse stata una Carta regionale delle valanghe, ragiona Pignatelli, "il Comune di Farindola avrebbe sicuramente messo quell'area tra quelle non edificabili". E la Carta delle valanghe "è sovraordinata rispetto al Piano regolatore, che deve recepirla altrimenti l'applicazione viene imposta per legge". Certo, un intervento edilizio preesistente "a livello urbanistico può essere sanato, ma possono essere imposte precauzioni e fatto un progetto per queste", come Pignatelli ha ad esempio fatto a Campo Staffi, nel comune di Filettino (Frosinone), dove "c'era un impianto che non si poteva aprire perché era stato denunciato un pericolo valanghe che in effetti c'era, e grazie a degli interventi ha potuto riaprire". Pignatelli non esclude poi che il distacco possa essere stato scatenato dalle forti scosse di terremoto registrate mercoledì mattina in Alta Valle Aterno, visto che "anche il passaggio di un aereo può produrre una valanga, quindi un elemento di trazione anomalo può senza dubbio esserci stato". "È strano che siano passate alcune ore ma anche questa è una cosa possibile", aggiunge. Non ha aiutato, nel ridurre l'impatto sull'albergo, neppure il bosco: "È troppo a valle, può aver prodotto il ritardo nell'arrivo della valanga, ma la massa di neve è un insieme compatto che tende a spingere". L'attenzione torna dunque ora sulla Carta delle valanghe che si attende dalla Regione Abruzzo: "È stato pubblicato un bando un paio d'anni fa per la sua redazione, ma è stata assegnata al massimo ribasso senza tener conto delle esperienze e dell'importanza di utilizzare metodologie di calcolo innovative", è l'amara considerazione dell'ingegnere.

"Rischio valanga su Rigopiano". Ma i lavori all’hotel partirono lo stesso. Gli allarmi degli esperti dal ‘99 fino al 2005. Poi smisero di riunirsi e scattò l’ampliamento, scrive Fabio Tonacci il 28 gennaio 2017 su "La Repubblica". Si afferra finalmente una certezza, nella storia dell'Hotel Rigopiano e della valanga che lo ha seppellito. Quel resort di lusso, vanto e serbatoio occupazionale per i cittadini di Farindola, è stato costruito su un versante montano conosciuto per essere "soggetto a slavine". Collegato da una viabilità provinciale che, d'inverno, rimaneva più chiusa che aperta. Oggetto di un report della guida alpina Pasquale Iannetti che nel 1999, dopo un sopralluogo, scriveva: "In merito alla possibilità di caduta di masse nevose, slavine o valanghe nell'area di Rigopiano, non vi è dubbio che sia il piazzale antistante il rifugio Acerbo che la strada provinciale che porta a Vado di Sole possano essere interessate da caduta di masse nevose o valanghe". Già, proprio il rifugio Acerbo. Quello che si trova a poche decine di metri dal resort e che è stato solo sfiorato dalle tonnellate di neve venute giù il 18 gennaio. A rileggerli ora i verbali della Commissione valanghe del comune di Farindola, istituita nel 1999 e per qualche strano mistero sciolta nel 2005 quando invece sarebbe servita di più, si incontrano molte inconsapevoli Cassandre. Ecco cosa scriveva Iannetti, appena nominato consulente della neonata commissione: "La zona (parla di Rigopiano, rifugio Acerbo e la provinciale 31, ndr) deve essere tenuta sotto stretto controllo". Era il 18 marzo 1999. "Vero è che si ha memoria di un fenomeno rilevante risalente al 1959, ciò non deve essere considerato un fatto che non si possa ripetere". E poi, quasi che l'istinto gli volesse suggerire qualcosa che allora nessuno immaginava, la guida alpina Pasquale Iannetti chiudeva così il suo primo verbale: "Con questi dati la Commissione valanghe potrà fornire indicazioni certe affinché per il futuro si possa garantire la sicurezza delle infrastrutture alberghiere, delle strade e dei parcheggi di Rigopiano". Nelle carte della Commissione (acquisite dalla procura di Pescara che indaga per disastro colposo e omicidio colposo plurimo) il nome del resort Rigopiano non appare mai. Né può esserci, visto che il vecchio alberghetto estivo viene comprato, ristrutturato e ampliato tra il 2006 e il 2007. Esattamente quando il Comune ritenne con decisione incomprensibile di disfarsi dello "strumento" Commissione. Eppure non erano pochi gli elementi già raccolti, che dovevano mettere in guardia sia chi voleva costruire, sia chi doveva autorizzare l'ampliamento. Verbale del 11 marzo 1999: "La montagna di Farindola risulta soggetta a valanghe, pertanto al fine di garantire la pubblica e privata incolumità la Provincia di Pescara ha ritenuto di chiudere la strada d'accesso alla località Vado Sole da Rigopiano". Verbale del 12 marzo 1999, anticipato ieri dal quotidiano il Tempo: "Si è ritenuto opportuno di tenere sotto controllo la zona di Valle Bruciata, piazzale di sosta Rigopiano in prossimità del bivio di accesso per Castelli e Fonte della Canaluccia mediante controlli quotidiani a vista nelle ore più calde, se si notassero distacchi e principi di scivolamento si potrà prendere tempestivamente precauzioni a garanzia di eventuali calamità". Verbale del 4 marzo 2003: "La Provincia ha ritenuto di non provvedere allo sgombero della neve tra Vado Sole a Rigopiano in modo da non consentire il transito, per garantire l'incolumità pubblica e privata ". Vado Sole, Castelli, Valle Bruciata. Tutte località che si trovano più o meno nei pressi del piccolo casolare isolato non ancora divenuto resort 4 stelle. Ancora nel febbraio 2003 la commissione sottopone il caso della provinciale a valle di Rigopiano alla Scuola di Montagna abruzzese. "Il rischio valanghe su entrambi i versanti risulta di livello 4, con condizione di pericolo forte, per cui sono da aspettarsi valanghe spontanee di medie dimensione anche singole grandi", si legge nella relazione finale. In Commissione, dunque, è noto a tutti che le vie d'accesso al sito dell'albergo e località ad esso molto vicine possono rappresentare un grave pericolo per l'incolumità delle persone in certi periodi dell'anno. L'ultimo verbale, datato 24 febbraio 2005, offre uno spunto di riflessione in più. Quel giorno presiede il sindaco Massimiliano Giancaterino, che il 18 gennaio scorso nella catastrofe ha perso un fratello. "La volontà politica del Comune di Farindola è quella di tenere sgombera dalla neve la provinciale fino alla località Fonte Vetica, al fine di non precludere le attività legate al turismo invernale nella zona". Fonte Vetica ospita un rifugio e si trova sul versante opposto. Ha con l'hotel Rigopiano un paio di similarità: è difficile da raggiungere quando nevica forte; stimola l'indotto. Dall'inverno del 2005 in poi, della Commissione valanghe di Farindola si perde ogni traccia. I carabinieri forestali che stanno indagando per conto della procura non hanno trovato ulteriori verbali in Comune. Per dieci anni di fila la Prefettura di Pescara ha ribadito ai sindaci la necessità di ricostituirla, ogni volta che ha dovuto trasmettere un bollettino Meteomont di rischio 4 (su scala 5). Lo fa ancora il 10 marzo 2015, con una lettera firmata dalla vice prefetto Ida De Cesaris: "Si prega di valutare l'eventuale attivazione della Commissione, prevista dalla legge regionale del 1992". Ma la Commissione non è più risorta.

Gran Sasso: il massiccio “magico” tra tragedie ed esperimenti nucleari. Il Gran Sasso non solo è il massiccio più alto degli Appennini continentali, ma è anche la montagna che ospita il traforo a doppia canna più lungo d'Europa, scrive Filomena Fotia il 20 gennaio 2017 su "Meteo Web". Il Gran Sasso non solo è il massiccio più alto degli Appennini continentali, ma è anche la montagna che ospita nelle sue viscere il traforo a doppia canna più lungo d’Europa e i laboratori di ricerca sotterranei più grandi del mondo. Oltre diecimila metri di lunghezza collegano Assergi a Colledara, e permettono un collegamento veloce tra Lazio e Abruzzo. Per scavare il primo tunnel negli anni ’60 ci sono voluti centinaia di uomini, macchinari e tonnellate di esplosivo per un costo di oltre 1700 miliardi di lire. Nella realizzazione dell’opera – ricorda Maria Elena Ribezzo per LaPresse – persero la vita 11 operai. Il massiccio abruzzese è costituito per lo più da calcare permeato da enormi falde di acqua – salvo la parte verso Teramo che è costituito da rocce marnose impermeabili -. Il 15 settembre 1970, durante gli scavi, per un errore di calcolo l’escavatrice bucò l’enorme serbatoio sotterraneo di acqua. Un getto di acqua e fango dalla pressione enorme di 60 atmosfere travolse ogni cosa. La parte bassa della città di Assergi fu allagata, costringendo a una evacuazione, e il corso di molte sorgenti fu compromesso. Il livello della falda acquifera si abbassò di 600 metri e la portata delle sorgenti del Rio Arno e del Chiarino fu quasi dimezzata.  I due versanti sono paesaggisticamente opposti: quello aquilano scosceso, ma prevalentemente erboso, e quello teramano, a maggior dislivello, più aspro e roccioso. Le operazioni di disboscamento intensivo, per restituire terreno alla pastorizia per nuovi pascoli, iniziarono già tra il 16esimo e il 17esimo secolo, sconvolgendo pesantemente il paesaggio. Tanto è vero, che più volte si dovette vietare alle popolazioni del luogo di insistere nel taglio degli alberi. Questo, nei secoli, ha portato a tantissime frane. Recentemente, il 22 agosto 2006 nella parete Nord-Est (il paretone) del Corno Grande, si è verificata una frana di grandi dimensioni: da 20mila a 30mila metri quadrati di roccia si sono distaccati dal quarto pilastro. Il 23 agosto scorso, dopo il primo terremoto che ha colpito Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto e altri paesi dell’Appennino Centrale è franato un pezzo del Corno Piccolo. Gli scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica pensarono di affiancare al traforo il Laboratorio di ricerca di Fisica Nucleare, creando i più grandi laboratori sotterranei del mondo. L’intuizione venne al professore Antonino Zichichi: i 1.400 m di roccia che sovrastano i Laboratori costituiscono infatti una copertura tale da ridurre il flusso dei raggi cosmici di un fattore un milione; inoltre, il flusso di neutroni è migliaia di volte inferiore rispetto alla superficie grazie alla minima percentuale di uranio e torio nella roccia dolomitica della montagna. Situati L’Aquila e Teramo, a circa 120 chilometri da Roma, sono utilizzati come struttura a livello mondiale da scienziati provenienti da 22 paesi diversi. Al momento ci sono circa 750 persone impegnate in circa 15 esperimenti in diverse fasi di realizzazione.

Case abusive, la parola alla difesa. L'avv. Bruno Molinaro difende decine di proprietari di case abusive tra cavilli legali e convinzione, scrive Barbara Massaro il 7 novembre 2018 su "Panorama". "In un sistema burocratico bizantino di controlli e contrappesi che rende quasi impossibile eseguire le cose rapidamente o in modo decisivo" (così scriveva qualche tempo fa il Guardian a proposito del sistema Italia) anche l'abusivismo edilizio trova il terreno fertile per svilupparsi. E di abusi edilizi, urbanistica, demolizioni e condoni si occupa lo studio dell'avvocato penalista campano Bruno Lorenzo Molinaroche da oltre trent’anni, a Ischia (27.000 domande di condono depositate) difende sia chi ha costruito senza avere titolo case, verande, balconi o tetti in maniera abusiva sia chi da quegli abusi è stato danneggiato. "La nostra Costituzione - spiega a Panorama.it Molinaro - garantisce il giusto processo e il diritto alla difesa anche al peggiore dei delinquenti e in oltre 35 anni di carriera mi è capitato di difendere clienti di ogni tipo tranne, ci tengo a precisare, che coloro che hanno speculato".

Chi chiede aiuto all'avvocato. E poi continua: "Il mio cliente tipo è un soggetto che ha ricevuto o un ordine di R.E.S.A. dalla Procura o un ordine di demolizione dal Comune perché ha commesso abuso edilizio, cioè ha costruito senza averne titolo o per mancanza del piano regolatore urbano al momento della costruzione o per necessità (caso quest'ultimo sdoganato dalla sentenza Ivanova del 21 aprile 2016 emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez V, n. 46577/15. Si tratta di una sentenza storica che garantisce il diritto della persona alla propria casa e il divieto dell'ingerenza delle autorità pubbliche in questo esercizio)". In pratica significa che anche a fronte di un abuso certo, le misure di ripristino della legalità più invasive e afflittive non possono essere imposte laddove i contravventori si trovino in condizioni personali ed economiche limitate.

Come si muove la difesa. Questo è uno dei molteplici appigli legislativi utilizzati da chi difende coloro che commettono abuso per ottenere proroghe, sospensive o addirittura revoche dell'istanza di demolizione emessa dal giudice. "La Cassazione ha chiarito - ha precisato l'avvocato - che un ordine di abbattimento è sempre revocabile quando è stata rilasciata, per l'abuso sanzionato, la concessione in sanatoria o quando l'opera è stata acquisita dal patrimonio comunale. In questo caso si viene a determinare una causa di incompatibilità con l'ordine di esecuzione della demolizione. Le acquisizioni possono essere disposte anche per ragioni di housing sociale e quando il Comune acquisisce e conserva l'opera in oggetto l'ordine di demolizione recede e rispetto ad esso prevale l'acquisizione conservativa della costruzione". E' la stessa legge, quindi, a concedere ai penalisti che si occupano della materia ampio spazio di manovra e ottime possibilità di successo. "La legge - ha spiegato Molinaro - mi dà la possibilità di ricorrere al Tar nel termine di 60 giorni e se c’è un pericolo di danno grave e irreparabile il Tar sospende il provvedimento, ma se non si ottiene la sospensiva che cosa si fa? Se è possibile dimostrare la conformità urbanistica dell’opera l'abuso è solo formale, non sostanziale secondo l'Art. 36 dpr380/2001 e quindi l'edificio può essere sanato e non deve venire abbattuto. Se, però, l'avvocato non può dimostrare la conformità urbanistica può comunque sollevare una miriade di cavilli (soprattutto se l'ordinanza arriva dopo tanti anni): questioni pregiudiziali, di tipo comunitario in proporzione alla misura demolitoria o far prevalere vizi formali (sulle notifiche) per dare la possibilità di difendersi".

Il caso Casteldaccia. Nel frattempo, però, tra un cavillo e l'altro si muore, come nel caso di Casteldaccia. "Lì la questione è diversa - sottolinea ancora Molinaro - il sindaco all'indomani della tragedia aveva dichiarato di non aver potuto eseguire l'ordine di demolizione perché era stato presentato ricorso al Tar. Ma il ricorso non sospende il provvedimento, solo la sospensiva firmata dal giudice può eventualmente sospenderlo e poi in ogni caso quel ricorso era del 2011 e quindi già dichiarato perento, cioè archiviato. Quella casa, quindi, lì non avrebbe dovuto esserci da almeno due anni e se il sindaco non ha fatto eseguire l'ordine sarebbe dovuto toccare alla Regione farlo perché il Presidente della giunta regionale ha il possibilità di applicare il cosiddetto potere sostitutivo che gli permette, appunto, di sostituirsi all'amministrazione comunale in caso quest'ultima risulti inadempiente".

Ma perché gli ordini di demolizione non vengono eseguiti?

"A proposito della mancata demolizione della villa di Casteldaccia - ha continuato l'avvocato - il Presidente della Regione Sicilia Musumeci, interpellato da Porta a Porta, ha detto che la mancanza di risorse finanziarie impedisce l’esecuzione. E’ falso tutto questo. La mancanza di risorse è, infatti, un falso alibi perché l'ultimo condono approvato dall'allora Governo Berlusconi nel 2003 ha istituito un fondo di rotazione di 50 milioni di euro depositato presso la Cassa Depositi e Prestiti affinchè le demolizioni vengano eseguite. Si tratta di un fondo che man mano che decresce deve essere rimpinguato. I soldi, quindi, ci sono e al fondo possono attingere sia i comuni sia le soprintendenze sia tutti gli attori di questo teatrino di responsabilità, non solo le Procure.

Lo scaricabarile made in Italy. E allora dove s'inceppa il meccanismo? "La giusta domanda sarebbe: chi comanda in questo paese? Il politico? Il burocrate? La magistratura? La stampa? Si tratta di un teatro dove tutti hanno colpa e nessuno ha colpa. E' così anche per gli avvocati che l'unica colpa che hanno è quella di fare il proprio lavoro: ci sono molte ordinanze di abbattimento non impugnate o impugnate e confermate ma non eseguite come nel caso di Casteldaccia. Si potrà pensare: 'Voi avete bravi avvocati che fanno saltare il bando e la fate franca', ma non è così, perché l’avvocato se non ha elementi cui appigliarsi non può far nulla e sarebbe compito delle istituzioni far saltare quegli elementi. Se c'è l’ordinanza e non viene eseguita l’avvocato non c’entra più nulla perché sono gli altri che non fanno quello che devono fare".

In Italia sembra sempre che la colpa sia degli altri..."Si tratta di responsabilità stratificate in tante anni. E' colpa del cittadino che ha infranto le regole, del comune che non ha dotato il cittadino di piano regolatore, dei tecnici che non demoliscono e dei sindaci che non fanno demolire dicendo che mancano fondi; ma anche delle regioni che non esercitano i poteri sostitutivi sui comuni e delle Procure che applicano le demolizioni solo a macchia di leopardo". Ma perché in Italia, soprattutto al sud, così tanti immobili sono stati costruiti in maniera illecita? "Il più delle volte l'abuso avviene perché il comune non è dotato di piano regolatore eppure il Testo Unico degli Enti Locali - decreto legislativo 267/2000 art. 141 - prevede che in caso di mancata approvazione degli strumenti urbanistici il consiglio comunale debba essere sciolto, cosa che non accade praticamente mai. I comuni, in pratica, non hanno approvato i piani regolatori perché gli amministratori locali avevano motivi clientelari per preferire l'assenza di un piano regolatore alla sua presenza perché in questo modo potevano dare le concessioni facendo prevalere una logica dell'amicizia o del favore del "Io faccio un favore a te e poi tu magari domani lo fai a me".

Non solo Casteldaccia. Quante "villette di Casteldaccia" ci sono in Italia? "L'Italia è un paese a forte rischio idrogeologico in generale, ma su molte aree grava il vincolo di non edificabilità secondo l'Art.33 della legge 47/85 che ha stabilito le zone in cui è assolutamente proibito costruire e quelle in cui nessun condono può mai essere rilasciato. Ciò nonostante le regole vengono costantemente violate e quindi sì, tante altre tragedie come quelle di Casteldaccia potrebbero verificarsi". Ma il proprietario di un immobile abusivo ha la consapevolezza di vivere in un luogo che, prima di tutto e al netto dell'illecito amministrativo, è pericoloso per la propria incolumità? "Sa cosa ha detto una volta la proprietaria di una casa costruita alle pendici del Vesuvio quando le è stato chiesto se non avesse paura? Che tutte le mattine apriva la finestra e vedeva il vulcano ed era lo spettacolo più bello del mondo. La gente che vive in immobili a rischio non capisce o non vuole capire il rischio che corre. E’ un discorso generalizzato, ma non c’è consapevolezza civica e in più le istituzioni non fanno niente, sembrano tutti impotenti e con le mani legate: siamo un paese di pagliacci. La legge poi non aiuta. L'ultimo Governo Renzi ha ribaltato, ad esempio, la logica del silenzio rifiuto in materia di condoni trasformandola in silenzio assenso. Questo significa che, se con la legge n.47/85, il cosiddetto condono Craxi/Nicolazzi, dopo 180 giorni dall'invio della domanda di condono la soprintendenza non rispondeva la domanda doveva essere considerata rifiutata, oggi la logica è stata ribaltata e quindi il condono senza risposta dopo 45 giorni va considerato approvato con tutte le conseguenze legali che questo comporta e comporterà in futuro".

Come uscire da questa situazione? "La situazione è grave e drammatica. Mi capita spesso, per motivi di lavoro, di entrare in chat o sui forum dove si scambiano opinioni e idee i cosiddetti comitati abusivi delle case di necessità e oggi come oggi la tesi che va per la maggiore è quella secondo cui di deve cambiare strategia rispetto al passato quando si invocavano condoni o sanatorie. "Chiediamo l’esecuzione dei provvedimenti - dicono - ce ne sono 170.000? Serviranno 4 finanziarie per trovare i fondi? Bene facciamole e poi si ricomincia. Applichiamo la legge, ma per tutti e ovunque e poi si ricomincia a norma" ma poi, la verità, è che le amministrazioni locali avrebbero paura di non poter gestire l'emergenza. Pensi che solo nella provincia di Napoli c’è una città grande come Padova abusiva; se venissero abbattute tutte queste case la gente dove la metteremmo? Arriverebbe l’allarme sociale, i problemi di ordine pubblico, le famiglie buttate in mezzo a una strada. Non è una strada percorribile. Quello che occorrerebbe è una volontà politico istituzionale forte per far valere la legge che già c'è a applicarla per tutti. Già iniziare da qui sarebbe un buon passo".

A COME MAFIA DELL’AGROALIMENTARE.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “AGROFRODOPOLITANIA”. Un libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

I NOSTRI VELENI QUOTIDIANI.

Il grande assedio al nostro cibo, la salute minacciata dalle truffe, scrive Monica Rubino su “La Repubblica”. In aumento gli allarmi legati a cibi potenzialmente pericolosi che nel 2013 sono già stati 268. L'ultimo caso, il pesto al botulino. Cresce la preoccupazione dei consumatori: sette famiglie su dieci temono di trovarsi nel piatto sostanze nocive. Ogni anno una grossa catena di supermercati ritira dai propri scaffali 4-500 prodotti per motivi diversi. Come funzionano i controlli in Italia e in Europa. L'ultimo allarme è quello del pesto al botulino. Ed è scattato dallo stesso produttore, la ditta Ferrari-Bruzzone di Genova: il sospetto è che in alcune migliaia di vasetti sia contenuto uno dei tipici batteri da intossicazione alimentare, il clostridium botulinum, che in alcuni casi può portare alla morte. Ma se è vero che finora il pesto genovese non ha intossicato nessuno, non possiamo permetterci di abbassare la guardia sulla sicurezza alimentare. Lo dicono i numeri diffusi dalla Coldiretti che segnala un aumento degli allarmi per cibi potenzialmente pericolosi che nel 2013 sono già stati 268. I casi riguardano ogni genere alimentare e agli inganni ai danni del consumatore o del made in Italy si sommano veri e propri attentati alla salute. Ecco la mozzarella di bufala prodotta con latte vaccino, gli ormoni usati negli allevamenti, l'olio deodorato e colorato, il latte contaminato da sostanze cancerogene, le conserve di San Marzano ricavate da pomodori provenienti da paesi lontani, la carne di cavallo fatta passare per manzo, fino a uno degli ultimi casi alla ribalta delle cronache: i frutti di bosco infetti dal virus dell'epatite A. Senza dimenticare l'emergenza Escherichia Coli, che tanto ha spaventato e confuso i cittadini di tutta Europa.

Italiani preoccupati. Gli episodi sempre più frequenti di alterazioni, falsificazioni e contraffazioni di prodotti alimentari mettono in allerta un numero vastissimo di italiani. Secondo un'indagine di Accredia (Ente unico di accreditamento) e Censis sul tema della sicurezza e della certificazione dei prodotti alimentari, quasi 18 milioni di famiglie, pari al 71% del totale, sono spaventate dalla possibilità di imbattersi in cibo adulterato, mentre il 70% dichiara di leggere frequentemente le etichette e di prestare attenzione ai marchi di qualità del cibo che sta per acquistare.

Oltre le contraffazioni: i nemici invisibili. A spaventare non sono solo le sofisticazioni dei prodotti. I pericoli nel mondo alimentare non si vedono nel piatto e non si avvertono in bocca, come è accaduto per l’epidemia di Escherichia coli in Germania. In genere, si tratta di microrganismi come Salmonella, Listeria, Campylobacter, oppure di aflatossine e micotossine. Per non parlare della temibile diossina. Il topo nei surgelati o l'insetto nello yogurt sono eventi rari; mentre la presenza di corpi estranei nel cibo, le contaminazioni da sostanze pericolose e da batteri patogeni sono problemi abbastanza diffusi. Ogni anno una grossa catena di supermercati ritira dagli scaffali 400/500 prodotti alimentari per diversi motivi: etichette scorrette, difetti di produzione, avviso spedito dall'azienda alimentare. Solo Carrefour ha iniziato timidamente a pubblicare in rete la lista dei prodotti con il suo marchio sottoposti a richiamo.

I dati sui controlli. Le cifre di Coldiretti, elaborate sulla base delle relazioni sul sistema di allerta comunitario, dicono che nel 2013 sono state 268 le segnalazioni di rischi alimentari arrivate dall'Italia. La tendenza rispetto al 2012 è in aumento. Un anno fa infatti i casi furono 517 in totale. In Europa nessun paese dirama più segnalazioni dell'Italia. Ma è un buon segno. La prova che il nostro sistema dei controlli è capillare e riesce a scoprire -  quasi sempre in tempo  -  i pericoli che minacciano i nostri pranzi e le nostre cene. E in otto casi su dieci l'allarme riguarda un prodotto proveniente dall'estero. Se il 2013 potrebbe concludersi con più casi rispetto al 2012, l'anno scorso a sua volta è stato peggiore del precedente. Nella terza edizione del rapporto sull'agropirateria pubblicata dall'associazione FareAmbiente-Movimento ecologista europeo emerge infatti che le frodi alimentari sono cresciute del 5% nel 2012 rispetto al 2011, con sequestri per un valore di 467.653.967 euro. Lo scorso anno, inoltre, sul fronte delle truffe sul cibo sono state registrate sanzioni amministrative per 18.268.460, ben 36.540 i controlli effettuati e 12.927 gli illeciti riscontrati. E ancora, 17.546 le sanzioni amministrative, 3612 quelle penali, 10.465 le persone segnalate all'autorità amministrative, 2096 a quella giudiziaria, 12 gli arrestati.

Il sistema dei controlli. Dopo lo scandalo mucca pazza, l'Unione europea si è dotata di un avanzato centro di controllo e allarme (Rasff), che nel 2012 ha gestito più di 3000 casi. Il Rasff, acronimo inglese di Rapid alert aystem on food and feed, Sistema di allerta europeo per cibo e mangimi, è stato inaugurato otto anni fa a Bruxelles per segnalare i prodotti alimentari contaminati presenti sul mercato. Come ci spiega il Fatto alimentare.it, sito specializzato in materia, il meccanismo è semplice. Ogni settimana, le autorità sanitarie dei vari Paesi inviano a Bruxelles l'elenco dei prodotti esportati, o importati da altri Stati, che sono stati ritirati dal commercio. L'ufficio raccoglie le informazioni e le dirama in rete con tutti i riferimenti per procedere al blocco delle merci. In Italia le notifiche arrivano al ministero della Salute che le smista alle Asl, cui spetta il compito di contattare le aziende e i punti vendita per procedere al ritiro del prodotto. I problemi più diffusi riguardano la presenza di micotossine nella frutta secca importata da paesi extra-Ue, la contaminazione da Salmonella e Campylocter nelle carni. Altri elementi abbastanza frequenti sono la presenza del batterio Listeria nel salmone affumicato, mentre il pesce spada in arrivo dalla Spagna e dal Vietnam contiene spesso mercurio. Sono anche frequenti i ritiri di gamberetti e crostacei importati dal Sud-Est asiatico, trattati con additivi non consentiti. A volte le motivazioni del ritiro sono più banali, come la presenza di micotossine nei semi di arachidi e nei pistacchi.

Le segnalazioni vengono classificate dal Rasff in tre categorie.

Allarme. Si tratta del livello più urgente e richiede un intervento rapido da parte delle autorità sanitarie. La notifica viene inviata a Bruxelles entro 48 ore dal momento in cui lo Stato viene a conoscenza e deve essere diffusa entro 24 ore.

Informazione. È una segnalazione di routine e riguarda il ritiro di un prodotto con un livello di rischio che non richiede un'azione rapida.

Respingimenti alla frontiera. Si tratta di merci importate da Paesi extra-Ue bloccate dalle autorità sanitarie alla frontiera, che non arrivano al dettaglio. Le segnalazioni settimanali del Rasff oscillano da 60 a 80 e riguardano solo la merce importata o esportata. A questo gruppo si aggiungono centinaia di altri ritiri e sequestri che le autorità sanitarie effettuano per prodotti alimentari fuori norma commercializzati all'interno del loro Paese.

Il ruolo dell'Efsa. A livello europeo il primo passo verso la comunicazione del rischio è stato l'istituzione dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (European food safety authority), che ha sede a Parma. Come agenzia indipendente, si presta a offrire ai consumatori informazioni obiettive e attendibili, basate su dati scientifici aggiornati, in merito ai rischi sulla catena alimentare. Dall'aspartame agli ogm, dai pesticidi al bisfenolo, dagli integratori agli additivi alimentari come i coloranti, fino ai fabbisogni nutrizionali: sul sito internet dell'agenzia sono disponibili tutti i pareri scientifici delle varie commissioni e molteplici indicazioni sui temi di attualità.

Le falle nel sistema: il caso delle mozzarelle blu. Non sempre il sistema di allerta funziona come dovrebbe. Ce lo spiega Roberto La Pira, direttore del Fatto Alimentare: "Nel caso delle mozzarelle blu, la prima segnalazione italiana inviata al Rasff di Bruxelles è datata 9 giugno 2011, e riguarda lotti della società tedesca Milchwerk Jager Gmbh & Co venduta a Verona. Il sistema però si inceppa perché l'azienda tedesca non si attiva, non avverte i fornitori e quindi non si procede al ritiro immediato". Una settimana dopo, il 17 giugno, a Torino, una signora fotografa il corpo del reato, si rivolge alle Asl e la notizia arriva ai giornali. "Da quel momento -  continua La Pira - la mozzarella blu diventa una notizia da prima pagina. La vicenda si trasforma in un evento nazionale perché l'azienda casearia tedesca non rispetta le regole. La lista con i marchi delle mozzarelle contaminate vendute in 13 paesi viene comunicata solo dopo due settimane, nonostante l'invio di tre richieste da parte del ministero della Salute italiano per avere informazioni precise sui prodotti coinvolti".

Il Piano del ministero della Salute. Da noi c'è un documento vasto e articolato che riassume i dati di tutti i controlli effettuati su sicurezza alimentare e qualità merceologica di cibi e bevande. Si tratta del Piano nazionale Integrato (Pni o Mancp), che nel rispetto del Regolamento (CE) n.882/2004, descrive il "Sistema Italia" dei controlli ufficiali in materia di alimenti, mangimi, benessere animale e sanità delle piante ed ha una durata triennale (2011-2014). Il Piano costituisce il livello massimo di coordinamento tra tutte le numerose autorità che vigilano sulle catene di produzione e commercializzazione dei nostri alimenti. Di sicurezza e nutrizione, per esempio, si occupano il ministero della Salute, le Regioni, le Province autonome, le Asl e i Nas (nuclei antisofisticazioni) dei Carabinieri. Un dato aiuta a capire la portata del fenomeno: nelle Asl della sola Emilia Romagna, il personale deputato ai controlli di sicurezza alimentare -  tra medici igienisti, medici veterinari e tecnici della prevenzione -  ammonta a oltre 800 persone. Di qualità merceologica, invece, si occupano il ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, le Capitanerie di porto, i Nac (nuclei antifrodi dei Carabinieri) e la Forestale. Senza contare il coinvolgimento generale delle autorità doganali e della Guardia di Finanza. Una macchina complessa, dunque, impegnata in un'azione capillare e quotidiana sul territorio.

Mense e ristoranti. "Uno dei principali strumenti per combattere le frodi - ha spiegato Vincenzo Pepe presidente nazionale di FareAmbiente - è la tracciabilità degli alimenti, anche nei menù degli esercizi pubblici". Per questo l'associazione è tra i promotori di una proposta di legge sulla tracciabilità dei prodotti nelle mense e nei ristoranti: "Dai dati raccolti sui controlli effettuati dalle diverse forze dell'ordine -  ha aggiunto Pepe -  si è visto che uno dei settori più problematici ed esposti alle truffe è proprio quello della ristorazione. Per questo proponiamo di realizzare un sistema informatico per tracciare i prodotti utilizzati nei menu dei ristoranti e un apparato informativo che consenta di leggere meglio le etichette e le allert rapide dell'Ue".

Ue, nuove etichette alimentari, più dettagli e più sicurezza.

Un regolamento della Commissione stabilisce tutte le caratteristiche dei fogli che accompagnano i cibi, dalle calorie alle indicazioni del paese di provenienza, scrive Monica Rubino su “La Repubblica”. Dopo 32 anni di onorato servizio va in pensione la vecchia direttiva sulle etichette alimentari (la 79/112/CEE), sostituita da un un nuovo regolamento (UE 1169/2011), varato dalla Commissione europea. Dopo anni di dibattiti è arrivata finalmente una legge univoca, tradotta nelle 24 lingue ufficiali dell'Unione (dal 1° luglio 2013 si è aggiunto il croato), da applicare contestualmente in tutti gli stati membri. La riforma europea dell'etichetta ha lo scopo di armonizzare tutte le norme nazionali su tre fronti: la presentazione e la pubblicità degli alimenti, l'indicazione corretta dei principi nutritivi e del relativo apporto calorico e l'informazione sulla presenza di ingredienti che possono provocare allergie. Il regolamento si compone di 55 articoli e descrive in modo molto dettagliato quali devono essere le indicazioni da fornire ai consumatori. In breve, l'intento è rafforzare la salvaguardia della salute dei cittadini senza intaccare la libera circolazione delle merci - preoccupazione costante di Bruxelles. I paesi Ue hanno ancora un anno e mezzo di tempo per adeguarsi alle nuove norme, che entreranno in vigore inderogabilmente il 13 dicembre 2014.

Ecco allora le principali novità sulle etichette dei prodotti che metteremo nel carrello.

Tabella nutrizionale. Oltre agli ingredienti di cui è costituito un alimento, è importante che vengano indicate le calorie in esso contenute. Gli alimenti confezionati devono avere una tabella nutrizionale con sette elementi (valore energetico, grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, proteine, zuccheri e sale) riferiti a 100 g o 100 ml di prodotto, che potrà essere affiancata da dati riferiti a una singola porzione. Si possono utilizzare altri schemi come i semafori attualmente in auge nel Regno Unito, solo se di facile comprensione. L’eccesso di consumo di sale può provocare dei problemi alla salute, per questo si deve evitare la dicitura "cloruro di sodio" e scrivere più semplicemente "sale". Entro tre anni, inoltre, sarà necessario stabilire nuove norme per l’etichettatura dei prodotti contenenti alcol.

Caratteristiche delle scritte. Le diciture devono avere un carattere tipografico di 1,2 mm (0,9 mm per le confezioni più piccole). Le informazioni obbligatorie, le indicazioni nutrizionali e quelle relative all’origine devono essere nello stesso campo visivo della denominazione di vendita. Quando la superficie della confezione è inferiore a 10 cm quadrati è sufficiente riportare le notizie essenziali: denominazione di vendita, allergeni eventualmente presenti, peso netto, termine minimo di conservazione ("da consumarsi preferibilmente entro …") o data di scadenza ("da consumarsi entro …"). L’elenco degli ingredienti può essere indicato anche con altre modalità (ad esempio negli stand di vendita) e deve essere disponibile su richiesta del consumatore.

Indicazione d'origine. È obbligatorio indicare il Paese d’origine o il luogo di provenienza per la carne suina, ovina, caprina e il pollame (l’obbligo scatta entro due anni dall'entrata in vigore del regolamento). La Commissione europea valuterà entro il 2016 se estendere l’origine a latte e prodotti non trasformati o mono-ingrediente e ad alcuni ingredienti come il latte nei prodotti lattiero-caseari, la carne nella preparazione di altri cibi, o altri quando rappresentano più del 50% dell’alimento. Tuttavia i legislatori nazionali potranno introdurre ulteriori prescrizioni sulla provenienza quando esista "un nesso tra qualità dell'alimento e la sua origine", come nel caso delle indicazioni geografiche italiane DOP e IGP. Inoltre l'informazione sull'origine del prodotto è obbligatoria quando la sua omissione possa indurre in errore il consumatore, ad esempio nel caso di una mozzarella fabbricata in Germania e venduta in Italia. Una precisazione utile a ostacolare il fenomeno dell'Italian sounding, ossia alimenti presentati come made in Italy ma fabbricati altrove.

Surgelati. Un alimento congelato o surgelato venduto scongelato deve riportare sull’etichetta la parola "scongelato".

Preparati a base di carne e pesce. La carne, le preparazioni a base di carne e i prodotti della pesca venduti come filetti, fette, o porzioni che sono stati arricchiti con una quantità di acqua superiore al 5% devono indicarne la presenza sull’etichetta. Le porzioni, i filetti o le preparazioni composti da diversi pezzetti uniti con additivi o enzimi, devono specificare che il prodotto è ottenuto dalla combinazione di più parti (per esempio: la carne separata meccanicamente).

Insaccati. I salumi insaccati devono indicare quando l’involucro non è commestibile.

Sostanze allergizzanti. Gli allergeni devono essere evidenziati nella lista degli ingredienti con accorgimenti grafici (grassetto o colore).

Oli e grassi. La scritta "oli e grassi" deve essere abbinata all’indicazione del tipo di olio o grasso utilizzato (es. soia, palma, arachide). Nelle miscele è ammessa la dicitura "in proporzione variabile". Entro tre anni dall'entrata in vigore del regolamento, inoltre, verrà redatto un rapporto per valutare l’opportunità di riportare la presenza di acidi grassi 'trans' (una tipologia di grassi insaturi, i cosiddetti TFA's) nella tabella nutrizionale.

Caffeina. Le bevande diverse da tè, caffè e dai drink a base di tè e caffè con un tenore di caffeina maggiore di 150 mg/l devono riportare sull'etichetta, oltre alla scritta "Tenore elevato di caffeina" (introdotta nel 2003), anche l’avvertenza "Non raccomandato per bambini e donne in gravidanza o nel periodo di allattamento".

Scadenza. La data di scadenza deve essere riportata, oltre che sulla scatole, anche sull'incarto interno del cibo. La carne, le preparazioni a base di carne e i prodotti ittici surgelati o congelati non lavorati, devono indicare il giorno, il mese e l’anno della surgelazione o del congelamento.

Rimangono esclusi dal regolamento le bevande alcoliche, gli alimenti sfusi (come l'ortofrutta) e quelli pre-incartati dai supermercati, come carni, formaggi e salumi che la grande distribuzione "porziona", avvolge nel cellophane e colloca sui banchi di vendita. Per cinque anni dall'entrata in vigore verrà fatto un monitoraggio per verificare l'applicazione delle nuove norme che, se sarà necessario, potranno essere aggiornate alla luce delle informazioni acquisite.

A COME MAFIA DELL’AMBIENTE.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “AMBIENTOPOLI”. Un libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Il racket dei pallet. Riciclaggio, evasione fiscale, reati ambientali: l’enorme giro d’affari criminale dietro ai bancali di legno, scrive Andrea Sparaciari su it.businessinsider.com il 30 agosto 2018. Riciclaggio di denaro, evasione fiscale, distorsione della concorrenza, crimini ambientali, senza contare i rischi sanitari per merci, lavoratori e consumatori. È il menu di schifezze che costella il racket dei pallet, gli imballaggi in legno usati per il trasporto delle merci in tutto il mondo. Una nicchia per nulla insignificante nel mondo della logistica, in grado di assicurare ampi guadagni sostanzialmente senza rischi, tanto da suscitare gli appetiti di buona parte delle mafie europee. Per capire le dimensione del mercato di riferimento, basta leggere il rapporto “Ecomafia 2016” di Legambiente: “Il mercato nero dei pallet solo in Italia movimenterebbe legalmente qualcosa come 120 milioni di unità all’anno, per un volume d’affari di circa 720 milioni”. Tuttavia è probabile che la stima sia per difetto. Ma come fa a essere “illegale” un pallet? Due sono le possibilità: se è nuovo, è fatto con legno di origine sconosciuta, probabilmente frutto di tagli illegali; se è usato, si tratta di un imballaggio che dopo il primo uso non è stato sottoposto ai trattamenti obbligatori previsti dai marchi EPAL e IPPC/FAO FITOK (gestiti da Conlegno, Consorzio Servizi Legno e Sughero). Inoltre c’è un’ottima possibilità che sia uno dei 110 mila pallet che ogni giorno spariscono nel nulla in Italia. Nel nostro Paese si registrano ogni anno circa 120 milioni di movimentazioni di merci e a ogni movimentazione corrisponde la cessione di un pallet, nuovo o usato. Solo il mercato dell’usato genera un giro d’affari di circa 660 milioni di euro, soldi che vanno a incidere sui costi dei prodotti al consumo e nei bilanci delle aziende. Una voce così importante che spinge molti operatori a rivolgersi fuori dal mercato legale, tanto che di quei 660 milioni si stima che almeno il 30% sia gestito illegalmente. Accanto a società che utilizzano pallet certificati, infatti, esiste una galassia di società fantasma che comprano pallet rubati (non pagando l’Iva) e li rivendono alle aziende a prezzi ribassati del 20/30%. Una concorrenza slealissima, visto che chi rispetta le regole su ogni rivendita di bancale ha un margine di guadagno di circa il 4%. Solo nell’hinterland milanese sono state contate nel 2016 oltre trecento attività illegali di compravendita di bancali in legno. Il giochino funziona più o meno così: i pallet usati vengono acquistati (in nero) da camionisti che, con la connivenza dei magazzinieri, li rubano dai magazzini o dai centri di raccolta e distribuzione. Quindi gli imballaggi vengono rivenduti, previa riparazione, alle grandi imprese produttrici di merci dietro emissione di regolare fattura. Di fatto le imprese di trasporto si ricomprano legalmente i paletts che erano stati loro rubati! Una volta incassata l’imposta sul valore aggiunto (Iva) gli operatori non provvedono a riversarla all’erario, lucrando così sui relativi importi. Un meccanismo semplice, noto agli investigatori già dai primi anni del 2000, quanto la Guardia di Finanza di Treviso scoprì una maxi evasione fiscale da 40 milioni protrattasi tra il 2004 al 2010, che aveva portato alla denuncia di 29 persone e alla confisca di 15 società tra Veneto, Lombardia, Emilia Romagna Polonia e Ungheria. Nel 2012 sempre la Gdf scoperchiò a Cesena un’altra maxi frode fiscale con un giro di fatture false per oltre 12 milioni emesse da 18 società operanti tra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Sicilia. Tutte imprese collegate alla criminalità organizzata italiana e straniera. Le ditte acquistavano i pallet rubati in nero i quali poi venivano “regolarizzati” (e quindi venduti a prezzi ribassati sul mercato) mediante un vorticoso giro di società “cartiere” che emettevano fatture false. L’ultimo maxi sequestro risale a marzo 2016 quando sempre la Gdf individua e denuncia 30 persone che nel Lodigiano avevano creato un vero e proprio impero del pallet farlocco. Un giro d’affari da 10 milioni di euro l’anno. Sette società vendevano sia bancali prodotti ex novo, sia usati (ma rubati), tutti fittiziamente marcati EPAL, a metà prezzo. Per nascondere i proventi, gli organizzatori avevano creato 23 cartiere, tutte intestate a prestanome di etnia Rom, che avevano emesso solo nel 2016 fatture per oltre 16 milioni, mentre il commercio di bancali fruttava almeno dieci milioni l’anno e andava avanti dal 2010. Ma le indagini su questa oscura fetta del trasporto sono continue: dal 2015 al 2017 sono stati 53 i controlli della polizia giudiziaria che anno portato a 4 processi conclusi con l’applicazione della pena su richiesta, una sentenza di condanna in primo grado e 54 procedimenti ancora pendenti o in fase di indagini, di cui la metà aperti nel 2017. Solo tra giugno 2015 a dicembre 2016 sono stati 144 gli interventi della Gdf nel comparto della fabbricazione e riparazione di imballaggi per un totale di 2,3 milioni di pallet con marchio contraffatto sequestrati. Sono stati inoltre individuati 27 soggetti completamente sconosciuti al fisco e 34 lavoratori irregolari. E ancora: nel primo semestre 2018 gli interventi delle Fiamme oro sono stati cinque, quasi uno al mese, e hanno portato al sequestro di circa 3.000 pezzi. Come si vede un numero enorme di interventi che però, data l’entità del mercato, rappresentano una goccia in un mare di illegalità. Numeri che tuttavia non generano l’allarme sociale che dovrebbero. Anche perché, oltre ai mancati incassi per lo stato, l’illegalità genera rischi per la salute, sia degli operatori della logistica che dei clienti ultimi delle merci trasportate. Nel capitolato EPAL, infatti, è prevista la sanificazione di ogni bancale dopo l’utilizzo. Quelli venduti in nero la sanificazione non sanno neppure dove sta di casa. Capita così che un bancale possa essere utilizzato per il trasporto di diserbanti e poi lo stesso ospiti frutta e verdura destinate a supermercato. La possibilità di contaminazione così cresce enormemente. Così come enorme è il pericolo che organismi nocivi possano viaggiare da una nazione all’altra. Infine, e non meno importante, i bancali non certificati sono spesso fabbricati con legno proveniente dal mercato nero del disboscamento. 

LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.

Alla ricerca dell'Appia perduta: in Basilicata tra pale eoliche e nuovi Don Chisciotte. Li chiamano "Erection Manager" perché sanno erigere questi falli ad altezze paurose, scrive Paolo Rumiz su “La Repubblica”. Don Chisciotte era niente. La Mancha nemmeno. La lotta vera con i mulini a vento la fai in Basilicata, Italia, tra l'Ofanto e Melfi. Comincia con una strada misteriosamente chiusa al traffico; la Statale 303, di nuovo lei, ma ancora più sfasciata, e degradata a Provinciale. Non ci passa più nessuno, come se il tratturo antico se la fosse rimangiata. E noi la risaliamo in un silenzio ingannatore, tra finocchietto e ginestre, attirati dalla Medusa. Nessuno di noi sa che questa sarà la tappa più dura del viaggio. Il grano è pettinato al contrario, perché dopo Borea è arrivato lo Scirocco con tafani nervosi. Ed è un corpo a corpo, contro la salita, contro il vento, persino contro le pecore, che scendono a slavina verso il fiume.

"Di dove siete?", chiede il giovane pastore che le segue stravaccato in macchina. Non ha mai visto nessuno passare a piedi di là. Gli italiani non camminano nella pancia del loro Paese. "Siamo del Nord".

La sorpresa si tramuta in sbalordimento. "E dove andate? ".

"A Brindisi".

Ride, si sbraccia per salutarci e passa oltre, strombazzando dietro al gregge lanciato verso l'abbeverata in una scia di caccole. Ma già dal fiume sale un'autocisterna piena d'acqua, con un altro giovanotto al volante. Musica rock dal cruscotto, cicca accesa e portiera aperta per ventilare le ascelle. Anche lui non ha mai visto nessuno a piedi da queste parti.

"Ditemi un po', ma che fate? Passeggiate? Con sti zainetti 'ncoppa?".

"Andiamo da Roma a Brindisi ".

"A piedi?".

Noi in coro: "Certamente".

E lui: "Ma chi vi paga?".

Noi: "Storia lunga. Ma lei piuttosto, che fa?".

"Bagno la strada per i mezzi pesanti che arrivano. Tra poco cominciano a lavorare quelli delle pale".

Alziamo gli occhi verso la collina. La traccia dell'Appia, già divorata dai campi di grano e dagli orti, muore contro un gigantesco parco eolico. Sopra di noi quattro colonne mozze di torri in costruzione, targate Alfa Wind, immense già prima di essere finite. Roba di ottanta metri, senza contare le pale. Ed è solo l'inizio. Le alture e i boschi dove Federico II di Svevia andava a caccia sono talmente scorticati dall'industria del vento che anche il gomitolo della nostra strada ci sfugge di mano. ... Goethe, Viaggio in Italia, 1786: i Romani "lavoravano per l'eternità. Avevano calcolato tutto, tranne la follia dei devastatori, a cui nulla poteva resistere". Ed ecco i primi mostri, peseranno come 5- 6 carri armati ciascuno. Lenti, inesorabili, indifferenti alla nostra presenza, passano sull'ex 303 dissestandola definitivamente. Azienda "Ruotolo", "Fratelli Runco" da Cosenza. Giganteschi anche gli autisti. Sembrano i padroni. E invece no, i capi sono altri: mercenari alieni dalle mani di pianisti, giovani tecnici stranieri che lasciano la fatica agli italiani. Passano ragazzi spagnoli, col sorriso vagamente canzonatorio, abbronzati, in T shirt nere, su furgoni bianchi o land-rover. Il nome della ditta, "Moncobra", sembra rubato a un film di Tarantino. Poi gli irlandesi. Li chiamano "Erection manager", altro nome dell'altro mondo, perché sanno erigere questi falli ad altezze paurose. Poco oltre, un podere, con un contadino che suda attorno ai pomodori. Gli chiedo cosa pensa dei giganti intorno a lui, ma non risponde. Come se il mondo non lo riguardasse. Ma che fai, vorrei dirgli, non vedi che sei rimasti solo, che i vincenti sono loro? Non capisci che qui nessun politico verrà mai, e tantomeno a piedi, a vedere cosa sta succedendo quassù? Guarda cosa è accaduto a San Giorgio la Molara, sopra Benevento, diventata inaccessibile perché l'eolico gli ha devastato le strade. E guarda qui a due passi, in contrada San Nicola. Hanno espropriato terreni agricoli per fare una enorme centrale elettrica collegata alle pale, e l'hanno dichiarata "temporanea". Ma qui nulla è temporaneo. Qui si svende l'Italia. E ognuno sa che è "per sempre". Ancora torri immense. Di una è stato appena scavato il basamento, grande come mezzo stadio di calcio. Oltre, bulldozer sventrano altri campi da grano, e lo sterro lascia ai lati montagne di detriti che saranno spianati chissà quando. La morte della strada è certificata dai ruderi di una cantoniera: "Anas" c'era scritto, ma è rimasta solo la lettera "A", e tu ti chiedi perché in Italia non esiste il reato di incuria e abbandono del pubblico bene. Attorno, la dolcezza dei declivi, anziché consolarti, ti ara l'anima e ti fa schiumare di rabbia. Capisci di essere un vano ficcanaso, un moscerino impotente; se ne accorge anche l'ultimo degli operai. "Che fate?" ci chiedono da un cantiere. "Un film", rispondiamo. "E come si chiama?". "Appia antica". E loro giù a ridere. Dalla cima del colle, chiamato Torre della Cisterna, appare la Puglia sterminata a desertica. L'unica terra, forse, che le pale eoliche non riescono a schiacciare, ma paradossalmente sembrano mettere a misura. Sotto di noi, una superstrada e una ferrovia, con una traccia plausibile dell'Appia che passa sotto i piloni di entrambe. Ma è subito Far West, il corpo a corpo col filo spinato, poi con una recinzione abusiva, infine con un canneto, dal quale usciamo quasi nuotando, tenuti su dal fogliame, senza toccare il terreno, pieni di sete e graffiati da capo a piedi. Ma Riccardo, la nostra guida, ritrova il gomitolo e apre la strada, tranquillo. Sulla mappa Igm c'è scritto "strada provinciale di Leonessa", ma la strada è solo uno sterrato senza anima viva. Tracce di basolato sotto un dito di polvere. E noi avanti, tra i campi, fino a una valletta incantata piena di ginestre. Profumo da sballo. In cima, un ripetitore. E la vista magnifica sul castello di Melfi.

Le pale eoliche sono l'Isis, la Basilicata la nostra Palmira. In nome di un finto progresso il paesaggio di un'intera regione è stato sfregiato da impianti mostruosi. Regalando solo povertà, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Altroché elicotteri che spargono petali! Nulla può dare più dolore, a chi ama Roma e la sua storia, della distruzione, sul nostro corpo, sulla nostra memoria, sulla nostra anima, del tempio di Baal Shamin. E il fumo che si alza dalle rovine, un fungo che richiama i più tragici simboli della guerra, fino all'assurda violenza della bomba atomica, in un richiamo doloroso tanto più dove non c'è nessun nemico, ma solo pietre di un mondo perduto, è un'immagine intollerabile che mai vorrei vedere. E, dietro quel fumo, le teste decapitate dei martiri. Gli attentati criminali a Ninive, a Nimrud, a Hatra, in un crescendo di violenza e di terrore, sono macabri annunci che minacciano di non avere fine. Qualcuno può consolarsi pensando che in Italia non potrebbe accadere. E invece accade, in un silenzio ancora più tombale dell'indifferenza per i morti e le rovine di Palmira, di chi si indigna per il carro funebre di Totò. L'Isis è a casa nostra e, per di più, con la presa in giro della tutela dei beni culturali, del territorio, del paesaggio, dell'ambiente. Ecco, negli anni Settanta l'ideologia pseudo marxista aveva innalzato la bandiera dell'ambientalismo, trasformando anche parole e concetti; e contrabbandando il paesaggio in territorio e le belle arti in beni culturali. Sono stato io, al ministero, a ripristinare la terminologia «belle arti» e «paesaggio». Ma era ormai troppo tardi. Orrori non a Palmira ma nel centro storico di Roma venivano imposti da sindaci e ministri, dopo preventiva distruzione del passato: penso alla teca di Richard Meier, all'Ara Pacis; penso allo sconvolgimento di Piazza San Cosimato; penso alla cancellazione di Bernini da Piazza Montecitorio. Tutto questo è accaduto con il consenso delle autorità. Fino allo sconvolgente allestimento su un trampolino da piscina del Marco Aurelio, sottratto alla piazza del Campidoglio. Ovunque sono cresciuti orrori: a Firenze il Palazzo di Giustizia, a Venezia il cubo di Santa Chiara. Oggi, mentre i colleghi dell'Isis distruggono indisturbati, indisturbati lavorano i costruttori di casa nostra. Ma non bastava sconvolgere il volto del territorio con edifici innominabili. Occorreva proprio intervenire capillarmente sul paesaggio. Ed ecco allora che, prima il Molise e la Puglia, e ora la Basilicata, sono state cancellate; nella prospettiva di Matera capitale europea della cultura, la strada per raggiungere quella città è stata puntellata di pale eoliche, con una accelerazione tipica di chi teme di perdere il vantaggio che norme della incivile Europa hanno concesso a speculatori e facilitatori. Superata Benevento, martoriata da rotatorie decorate con immagini di Padre Pio lanciato verso il cielo, si iniziano a vedere centinaia e centinaia di croci, in disordine, rarefatte o affollate. Sono pale che non girano, ferme, piantate su tutti i colli a perdita d'occhio. Da Grottaminarda a Flumeri, a Frigento, a Gesualdo, a Buonabitacolo, ad Accadia, a Sant'Agata, a Lacedonia, a Candela, a Palazzo San Gervasio, a Spinazzola, a Genzano di Lucania, ad Ascoli Satriano, a Canosa, a Troia, a Foggia. Via via, come alberi di una foresta meccanica, con l'ironia di chiamarne la insensata proliferazione senza ordine né logica, che non sia la cupidigia, di permesso in permesso, di amministrazioni comunali, regionali, intrinsecamente mafiose, in una stabile trattativa con uno Stato criminale, parchi eolici. Ed è inutile richiamare quello Stato e quell'Antimafia, che si agitano per la colonna sonora del Padrino o per un comico manifesto, al rispetto dell'art. 9 della Costituzione, scritto per garantire un mondo perduto, all'opposto di quello che vediamo. E quando vandali su vandali bruciano i boschi, eccoli non trovare più alberi, ma incendiare pale, il cui fusto è nero. E nero resterà fino a quando una mano pietosa tenterà di svellere quei giganteschi chiodi che hanno crocifisso i colli, stuprandoli e riempiendoli di cemento armato fino al midollo. Intorno la vegetazione è scomparsa, gli uccelli volano altrove, ma i nostri occhi contemplano l'orrore dove fino a qualche anno fa c'era la curva di dolci colline. E qualcuno avrà detto: «Ma non sono luoghi importanti, non ci sono monumenti significativi» (e non è vero). Una ragione in più per lasciare integro un paesaggio e conservargli la bellezza del suo essere remoto, lontano, una meraviglia da scoprire. Nessun paesaggio è meno importante di un altro, in Italia. E sembra assai singolare che le stesse autorità che hanno assistito imprudenti e complici, magari magnificando l'energia pulita, a danno di una purissima bellezza, siano oggi, con le stesse espressioni, a celebrare la romantica difesa di paesi abbandonati, di borghi dimenticati, in alcune giornate disperatamente dedicate alla memoria di un uomo giusto che oggi sarebbe furibondo e che non aveva previsto, tra i vari aspetti positivi un riscatto del meridione e della Basilicata attraverso la cultura. Mi riferisco a Carlo Levi e al Festival della Luna e i Calanchi ad Aliano, dove Levi fu al confino. L'organizzatore Franco Arminio pensa agli antichi forni, alle tradizioni, ai canti, alla lingua, in un riscatto di ciò che il progresso ha cancellato nel disprezzo per la povertà. Ed è bellissimo sulla carta. Ma le colline sono perdute. Arminio coltiva la «paesologia». Ed è forse troppo tardi. Così come Carmen Pellegrino inventaria paesi abbandonati (e forse per questo salvati), autodeterminandosi come «abbandonologa». Ma niente è meno abbandonato di ciò che vive dentro noi, e che i barbari minacciano e distruggono, come l'Isis ha fatto con il tempio di Baal Shamin. E mentre noi ci difendiamo in trincea, ad Aliano, ovunque sono disseminate mine e lanciate bombe, esattamente come a Palmira con le mostruose pale eoliche e gli immondi pannelli fotovoltaici. Vorremmo cominciare veramente una lotta contro la mafia e il potere che la sostiene invece che declinarla in prediche, appelli, e luoghi comuni. Qui, i luoghi e la bellezza comune, risparmiati per secoli, si sono sottratti. Un paesaggio perduto è come un tempio distrutto. E non ho mai visto difendere questi paesaggi sfregiati quelle autorità sconcertate contro i simboli, e pronte a dichiarare e a scrivere la loro indignazione per i carri funebri trainati dai cavalli convocati dalla mafia. I simboli di mafia, cari Saviano, don Ciotti, Boldrini, Alfano, sono queste violentissime ferite al paesaggio (non petali di rose) che voi vi ostinate a non vedere, e che rappresentano la più terribile testimonianza del patto Stato-mafia degli ultimi 10 anni. Franco Arminio si rifugia nel paese di Carlo Levi, e le massime autorità dello Stato applaudono. Sordi, ciechi, muti.

A COME MAFIA DELL’ABUSO SUGLI ANIMALI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “ANIMALOPOLI”. Un libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

LA MAFIA DEI CANI.

La lobby del randagismo. Uno studio svela che da una cagna abbandonata in sette anni si possono ricavare ben 67mila cuccioli. La soluzione per sconfiggere il sovraffollamento di cani ci sarebbe. E' semplice, efficace ed è prevista dalla legge: la sterilizzazione degli animali. Ma né i Comuni né le Asl l'hanno applicata. Si preferisce creare migliaia di canili che hanno un costo enorme per la comunità, non risolvono il problema e finiscono per aggravarlo. In nome del denaro che favorisce un po' tutti, dal pubblico al privato, passando per le pseudoassociazioni intitolate genericamente "amici degli animali". Un dossier denuncia il malaffare e svela chi e come ci guadagna, scrive Margherita D’Amico su “La Repubblica”.

Così funziona "il sistema". Qualcuno sa spiegarci perché il randagismo seguiti a essere una piaga della società contemporanea? Come una malattia invasiva si rigenera da sé, eppure la soluzione è talmente ovvia: contenere decisamente le nascite. Invece, la maggior parte dei paesi sterilizza senza convinzione, e si affronta piuttosto il problema uccidendo i milioni di animali in esubero. Camere a gas dal Giappone agli Usa (anche il principale canile municipale di New York è contestato per le iniezioni letali a 72 ore dall'ingresso, in aggiunta al sospetto che parecchi esemplari spariscano), e ancora soppressioni in quasi tutta l'Europa, dalla Spagna alla Svizzera; stragi sommarie per mondare le strade di Romania e Ucraina. La durezza tuttavia non paga: di animali vaganti che seguitano a moltiplicarsi è ancora pieno il mondo. Una politica diversa la intraprende ventiquattro anni fa l'Italia con una legge quadro civile e rara, la 281/91, che vieta di sopprimere i randagi e pure di destinarli alla vivisezione. La missione possibile è debellare il randagismo attraverso sterilizzazioni a cura delle Asl, nonché educazione dei proprietari alla medesima pratica. Ma la norma è subito disattesa al punto di favorire incontrollabili movimentazioni di animali, battaglie feroci per ottenere la loro amministrazione diretta, un sistema lucrativo e corrotto dove, oggi più che mai, l'ultimo aspetto considerato è il benessere dei quattrozampe. Anche da noi, dunque, per ogni cane o gatto senzatetto che trovi casa ne nascono altri cento, mille. Uno studio dell'americana Doris Day Animal League stabilisce che un cane femmina vagante e non sterilizzato sia soggetto a una media di due parti l'anno, otto cuccioli ogni volta di cui almeno quattro femmine, se non di più, che in cinque anni portano a 4.372 cani, pronti, in sette, a diventare 67mila. Ma nel frattempo, anziché agire di conseguenza, Comuni e Asl (responsabili e garanti legali dei randagi) rivaleggiano per sbarazzarsene, pronti a imboccare qualsiasi scorciatoia si prospetti. Non vanno incontro a epurazioni ufficiali di massa, i nostri animali, ma a crudeltà, traffici, movimentazioni e lauti interessi che rischiano di far rimpiangere non sia così. La lotta ad accaparrarsi la gestione di canili e rifugi in convenzione, finanziati con fondi pubblici, è senza quartiere, e c'è chi oggi denuncia vizi nelle gare d'appalto. I soldi sono parecchi, stanziati perlopiù dalle amministrazioni locali: fino a pochi anni fa comunità montane, unioni dei comuni e associazioni protezionistiche ricevevano cifre importanti anche dal ministero della Salute (nel triennio 91-93 stanziava cinque miliardi di lire, trasformati in cinque milioni di euro fra il 2005 e il 2010) nel 2014 ridotte al simbolico importo globale di trecentomila euro. Ridotta ai semplici materiali - bisturi, filo e anestetico - la sterilizzazione di un animale può costare 20-25 euro e garantisce che esso non si riproduca mai più. Perché, allora, non investire decisamente i denari in tale direzione? Impossibile che cani e gatti si estinguano del tutto arrecandoci un dispiacere, e si potrebbe così eliminare la loro condanna a una vita grama e, in parecchi casi, a morte ancor più atroce. I rapporti zoomafie della Lav-Lega antivivisezione sostengono che il randagismo frutti un giro di 500 milioni di euro l'anno. Di sicuro non c'è Comune italiano che non attinga alle proprie casse per la gestione, di solito indiretta, dei propri animali vaganti. "I Comuni rimangono responsabili degli animali, anche quando trasferiti in un'altra regione. Sono pertanto obbligati a provvedere a regolari controlli, sia per verificare le condizioni di mantenimento  e il rispetto delle condizioni previste dal capitolato d'appalto, che per sincerarsi dell'effettiva esistenza in vita degli animali all'interno delle strutture onde evitare di continuare a pagare con soldi pubblici le rette di mantenimento", ha chiarito Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, in una recente intervista a Repubblica, mentre Piera Rosati, presidente della Lndc-Lega nazionale per la difesa del cane, considera: "I canili debbono essere costruiti dai Comuni, alle associazioni il ruolo di valore aggiunto a garanzia degli animali. Noi, d'abitudine, gestiamo strutture in convenzione con i comuni, ma tante nostre sezioni hanno rifugi di proprietà, mandate avanti con donazioni e sforzi autonomi". Per chi non si ponga scrupoli, il bene in gioco che frutta a più livelli è appunto il randagio, quello che in teoria nessuno vuole: conteso, sequestrato, scambiato, sballottato da una regione all'altra e oltrefrontiera, a opera di innumerevoli parti in causa. Tutti si dichiarano votati alla sua salvezza, ma è arduo districarsi fra sincerità, ingenuità, competenze, malafede. Un marasma, e le istituzioni alimentano le tentazioni peggiori. Non sono pochi i comuni che, invece di premiare l'adottante con visite veterinarie gratuite o forniture di mangimi, stanziano una tantum (400-500 euro) devolute talvolta nemmeno al cittadino che accoglie l'animale, ma all'associazione mediatrice. Grazie a volontari eccezionali e a chi opera correttamente nel settore, senz'altro nel nostro Paese migliaia di animali che senza colpa seguitano a nascere trovano affettuose soluzioni, ma di tantissimi altri, troppi, si perdono per sempre le tracce. Partono dai rifugi, vengono accalappiati per la strada, rubati nelle abitazioni, scambiati sul web, trasferiti in massa verso adozioni fuori regione o all'estero, simili a buchi neri. D'altronde, come verificare la sorte di tutti? Intanto a gestire i canili - miglior bacino di raccolta di questa merce vivente -  sono, in conflittuale alternanza, associazioni, sedicenti tali e privati: gli uni accusano gli altri, troppo spesso dimentichi della ragion prima di cui vogliono essere arbitri: la tutela degli animali.

Canili, ecco il dossier-denuncia. "A dispetto di una buona legge, dopo vent'anni di sovvenzioni al randagismo, ci ritroviamo in un sistema equivoco e confuso che non garantisce nessuno, tantomeno animali e gli autentici volontari. Bisogna lavorare in direzione dell'abolizione dei canili così come sono intesi oggi e bisogna incominciare con il punire abusi e disonestà, chiunque ne commetta". Michele Visone, presidente di Assocanili, Associazione nazionale gestori strutture di ricezione di animali domestici, ha consegnato alle autorità giudiziarie un dossier fatto di denunce e documenti riguardo le gare per l'assegnazione di gestioni dei randagi in convenzione con i comuni. Stando al fascicolo, si verificano rilevanti leggerezze nello scambio fra amministrazioni e assegnatari delle convenzioni pubbliche, siano essi privati o stimate associazioni protezionistiche. Corsie preferenziali, promettenti appalti tradirebbero gli animali, subordinando i loro interessi alla corsa al finanziamento. I casi sono parecchi, individuati fra le realtà locali, visto che le regioni recepiscono la legge nazionale sul randagismo 281/91 e i comuni dirimono la questione sul territorio. "In Toscana, per esempio, l'Enpa conta su numerosissime gestioni degli animali ben sovvenzionate dal pubblico", dice Visone. "L'Enpa di Pistoia, presieduta da un vigile sanitario della locale Asl3 e componente della Commissione regionale, ha con dodici comuni un appalto da centinaia di migliaia di euro, elargiti previo affidamento diretto. In tal modo infatti, nel 2010, il Comune di Pistoia assegnò all'Enpa il servizio di mantenimento dei cani randagi e l'accudimento del canile sanitario, per un importo complessivo di circa 600mila euro valido tre anni, salvo rivalutazione Istat. Ma in ordine alla cifra elevata, l'affidamento diretto non è consentito dalla legge 163/2006 (che prevede un tetto di 40mila euro, mentre sopra i 200mila la gara assume rilevanza europea) e dalla Direttiva UE del 2014 che regolamenta la certezza giuridica nel settore e l'assicurazione di un'effettiva concorrenza e condizioni di parità tra gli operatori economici".  Come spiegano dal Comune di Pistoia, l'appalto coinvolge due canili adiacenti: "Il canile sanitario, gestito per tutti i comuni coinvolti da Enpa, e il canile rifugio di proprietà della stessa associazione". In questi vasi comunicanti confluiscono i cani accalappiati in ulteriori comuni fra cui Scandicci, che delibera nel 2012 lo stanziamento di 10.450 euro soltanto per "visita veterinaria d'ingresso, eventuale tolettatura e trasporto" di 14 cani in arrivo dall'Allevamento del Pratesi, distante pochi chilometri. Mentre il Comune di Fucecchio, che peraltro non ha canile municipale, a inizio 2014 suggella una convenzione sempre con Enpa, in cui  si stabilisce (come nel caso di Scandicci) una retta di 5 euro al giorno per il mantenimento di ciascun cane, in aggiunta a 220 cadauno all'entrata, salvo conguaglio, per prestazioni veterinarie, nonché una somma forfettaria qualora vi sia penuria di animali: "300 euro mensili per tutti i giorni in cui il numero di cani è pari a 0", 200 in presenza di un solo cane, 120 quando gli esemplari sono due. "E' per risparmiare" chiariscono dal Comune di Fucecchio: "Negli anni precedenti la convenzione era con altri, e spendevamo molto di più". "La no profit Amici a Quattro Zampe di Pontedera ha invece stretto una quantità di convenzioni fra le giunte della provincia di Pisa. E' recente l'aggiudicazione dell'appalto dei cani dei dieci comuni dell'Unione Valdera per circa 170mila euro" segnala ancora Visone "ma la struttura di proprietà della suddetta associazione è autorizzata per circa 40 posti, quando il numero dei cani previsti si aggira sugli 80". Secondo il dossier, anche il Comune di Montecatini, aggiudicata la gara di accalappiamento all'associazione Amici degli Animali, avrebbe omesso di verificare che fra gli scopi dell'assegnataria mancava l'attività oggetto di gara". "La legge regionale della Toscana indica senza dubbio che la gestione dei canili pubblici va assegnata preferibilmente ad associazioni d'impronta protezionistica, ma spesso, in mancanza di strutture municipali (soprattutto al Sud) la gara assume un connotato diverso e si svolge solo per il servizio di mantenimento dei randagi che non rientra in tale privilegio" prosegue Visone. "E ora la Corte Costituzionale, a seguito del ricorso -  perso -  di un gestore privato al Tar della Puglia, si è storicamente pronunciata esprimendo dubbi sulla legittimità della normativa rispetto a tale vantaggio".  Passiamo alla Puglia, allora; una regione fra le peggiori, quanto a colpevole mala gestione del randagismo, teatro di alcuni paradossi. "Nove anni fa l'associazione La Nuova Lara ottiene in appalto la gestione del canile sanitario di Lecce. Ma nel 2013 denuncia in Procura il sovraffollamento della struttura medesima (benché municipale) assicurandosi, attraverso una procedura negoziata, l'affidamento del servizio di trasferimento di ricovero, custodia e mantenimento dei cani randagi per il Comune di Lecce, che prevede il trasloco di 160 esemplari nel proprio rifugio privato, appena aperto". Al punto 5 il bando recita: "Valore dell'appalto, per tre anni, pari a 963.600 euro per 400 cani". Ribatte Florana Catanzaro, vice presidente de La Nuova Lara: "Più volte e da molti anni la nostra associazione e gli stessi servizi veterinari avevano segnalato all'amministrazione comunale lo stato di assoluto degrado del canile sanitario e le gravi carenze strutturali, non ricevendo mai alcuna risposta". C'è poi chi, col supporto istituzionale, rinasce dalle proprie ceneri. Vedi il gestore del canile lager di Marigliano (Napoli) sequestrato nel 2010. Oltre a circa trecento animali maltrattati e sofferenti, furono ritrovati corpi seppelliti che presentavano tagli sul collo, per probabile asportazione del microchip. Ma la Asl non revocò mai l'autorizzazione sanitaria alla struttura, consentendo così al titolare di partecipare, qualche anno dopo, alla gara di appalto per i randagi del Comune di Pompei, affidatagli in base a un considerevole ribasso.  "Seppur reclamato da innumerevoli petizioni e proteste, il trasferimento degli sfortunati ospiti di Marigliano non ha ancora avuto luogo" riferisce Visone "e ci risulta che l'avvocato del gestore del canile, presidente dell'associazione Cani Felici Onlus, sia la moglie del veterinario della Asl di Marigliano, competente per il canile in questione. Il gestore ha poi realizzato un'altra struttura, La Sfinge, nel vicino comune di Brusciano, di competenza della medesima Asl. Fra le varie anomalie abbiamo appreso, nel far richiesta di accesso agli atti, che misteriosi ladri avrebbero rubato i registri di protocollo nella sede della Asl di Marigliano. A oggi, intanto, La Sfinge ha acquisito appalti per circa 900 cani, superando di gran lunga la propria autorizzazione di ricettività". In generale, l'assenza dei necessari requisiti fra i partecipanti ai bandi di gara sarebbe molto frequente: "Non a caso associazioni e gestori privati pugliesi si sono riuniti nel consorzio Cpa completandosi a vicenda con scambi di competenze". Anche a Laterza (Taranto), sia Assocanili che un'associazione locale trasmettono segnalazione all'Autorità di vigilanza per i contratti pubblici, contestando la legittimità dell'affidamento del canile municipale: "Malgrado la rilevanza europea del bando, da 714mila euro, si è proceduto con modalità e criteri di un appalto sotto la soglia comunitaria e omissioni delle dichiarazioni previste". Nel Lazio, addirittura, "un'associazione specializzata esclusivamente in adozioni all'estero impone ai canili contratti di esclusiva dell'immagine dei cani, al pari di un'operazione di marketing. Inspiegabile, quando il cane deve andare in famiglia" conclude Visone: "dobbiamo insomma distinguere chi dall'amore per gli animali si inventa un progetto da chi, per il progetto, s'inventa l'amore".

A centinaia spediti verso le regioni del Nord. La promessa di un benefico Nord dove i randagi troverebbero un porto sicuro è colma di insidie. Innegabile che le regioni del nostro Settentrione abbiano attuato politiche migliori, sterilizzando di più e controllando con maggior attenzione le strutture. Se per esempio in Puglia, Sicilia, Campania, si incontrano animali in difficoltà a ogni angolo di strada, a Milano o Torino questo non avviene. Ma la quantità di animali che l'Italia e l'Europa del Nord dovrebbe assorbire appare strabiliante e illogica. Basta guardare le movimentazioni: quelle verso l'estero si possono, solo in parte, desumere dal cumulo di passaporti richiesti alle Asl da associazioni e privati esportatori; di quelle nell'ambito del territorio nazionale danno un'idea le quotidiane staffette annunciate sul Web. Da principio iniziative virtuose, evolute poi in redditizie manovre, queste ultime consistono in viaggi perlopiù a pagamento. Per molti animali funziona, ma tantissimi altri si perdono nel corso di inaccertabili passaggi. Smarriti nei fumosi scambi ai caselli autostradali, possono morire in viaggio o poco dopo. I rari fermi dei furgoni a opera di guardie zoofile e polizia stradale hanno rivelato esemplari ammassati nelle gabbie e narcotizzati, anche 80 per ciascuna tratta, scoprendo spesso che le schede di adozione erano intestate a prestanome. Ma finisce lì e presto gli animali vengono riconsegnati a chi li ha fatti partire, pronti a essere nuovamente imbarcati. Due anni fa un breve incidente fra onlus vide Marco Caterino, coordinatore delle guardie zoofle Oipa di Caserta, fermare per un controllo con la polizia stradale una discussa staffettista professionale, in arte Mamma Chiara. La donna si dichiarò volontaria dell'Enpa, il cui coordinatore nazionale delle guardie zoofile, Antonio Fascì, addirittura la scortava con un altro veicolo. "In rarissime occasioni abbiamo collaborato con la signora, la quale, sul suo automezzo, ha utilizzato senza alcuna autorizzazione il nostro logo e, per questo, è stata formalmente diffidata", puntualizza Michele Gualano, direttore generale dell'Enpa. "Qui in Sicilia viviamo un momento drammatico, c'è una corsa incredibile ad assicurarsi randagi da inviare al Nord", commenta Antonino Giorgio, coordinatore regionale e presidente della sezione di Trapani della Lndc-Lega nazionale per la difesa del cane. "Non solo non si ha idea di dove questi animali realmente finiscano, ma così facendo si deresponsabilizzano le istituzioni, già tanto manchevoli quanto a controlli, sterilizzazioni. Ovunque spuntano sezioni locali di grandi associazioni; tutte mandano fuori i randagi. Un sindaco del trapanese si è persino vantato con la stampa di spedire i suoi in Germania". Sedicenti volontari si contendono gli animali, li arraffano contro la legge e il buon senso. L'Italia intera è afflitta da furti di cani e gatti, rapiti dentro abitazioni e giardini, per tacere dell'indiscriminato prelevamento per strada dei randagi, e nemmeno esiste (come per le automobili) una banca dati centralizzata che consenta agli inquirenti di analizzare il sinistro fenomeno. Ma dove finiscono, a decine di migliaia, questi indifesi? Ecco che il virtuoso Nord si trasforma in zona d'ombra, dove gli animali vengono smistati, reindirizzati, depositati in stallo, vale a dire in collocazione temporanea prima del successivo spostamento. Magari su un comodo divano, ma si temono anche obiettivi atroci. Mercato di carni e pelli, lotte clandestine, vivisezione occulta, zooerastia (abusi sessuali sulle altre specie), trasporto della droga, sadismi e rituali di vario genere.  Laika è una barboncina bianca di undici anni e vive in famiglia ad Avola (Siracusa) vicino al mare. D'estate segue in spiaggia i padroni, e quando ne ha abbastanza rientra da sé. Il 20 agosto 2014 svanisce nel nulla, purtroppo non è microchippata. Giuseppina Nuccio, la proprietaria, diffonde disperati annunci per tutta la contrada e su Facebook. Su una pagina di presunto volontariato scopre una fotografia di Laika pubblicata alcuni giorni prima della scomparsa. Per lei si richiedono fondi, definendola abbandonata: cure, stallo e adozione. Giuseppina scrive chiedendo che le venga restituita, ma la reazione è sbalorditiva: "E il cane nn ce più e adesso ti attacchiiii al tram". Giuseppina denuncia alla polizia di Avola: "Confido in una rapida indagine che mi riporti Laika". E le volontarie replicano: "Ahahah anche la denuncia per aver salvato una cagnolina gente di m...". Date le disastrose gestioni del Sud e la mole di sequestri in tutta la Penisola -  Trani, Catania, Roma... la lista dei canili-rifugio indegni lascia sbalorditi -   e a volte si fatica sul serio a sistemare gli animali sul territorio dove continuano a moltiplicarsi, o comunque gli spostamenti trovano spiegazioni. "Per garantire esecuzione all'ordine del Magistrato - in un'inchiesta che finalmente sta portando alla luce i misfatti avvenuti fra silenzi e complicità -  in mancanza di alternative abbiamo trasferito 40 cani e 20 gatti in strutture fuori dal Lazio" spiega Gianluca Felicetti, presidente della Lav-Lega antivivisezione dalla cui denuncia è scaturito il sequestro del Canile Parrelli di Roma.  Riguardo poi i trasferimenti all'estero la Lav, che tramite la sua sezione capitolina ha appoggiato nel 2011 l'invio in Germania degli inquilini del canile di Rieti, anch'esso sequestrato, dichiara una posizione ecumenica: "A questo tipo di adozioni non siamo favorevoli, né contrari a prescindere". In realtà, a dispetto di crisi e cattive abitudini, l'italiano dimostra ovunque grande disponibilità all'adozione. Ciò nonostante, movimentare gli animali è pratica comune, lo asserisce Sara Turetta, attiva in Romania con il progetto Save the Dogs e paladina delle adozioni internazionali, in una lettera alla stampa in cui contesta una voce dissenziente: "Ci sono tante persone serie, qui, che si occupano di cani, ma per tua sfortuna, tutte ne mandano all'estero".  Presidente da due anni della Lndc-Lega nazionale per la difesa del cane, Piera Rosati ha invece commissariato o chiuso con il suo Consiglio alcune sedi locali: "Abbiamo riscontrato qualche gestione poco accorta e soprattutto c'era chi inviava animali in adozione all'estero, una pratica a cui sono contrarissima. Per carità, nessun dubbio sulla generosità straniera, ma tutto quanto non sia ben verificabile costituisce un inaccettabile rischio per gli animali". Una volta varcata la frontiera cani e gatti sono irrintracciabili. Secondo le associazioni che si dedicano al profluvio di adozioni all'estero (Germania, Austria, Svizzera, Belgio, Svezia) di cui sono oggetto i nostri randagi e quelli di Grecia, Turchia, Spagna, Romania, le altre cittadinanze sarebbero ricche e magnanime, pronte a fare incetta dei nostri animali meno attraenti. Invece di salvare gli esemplari che nei patri canili vengono soppressi, i cittadini svizzeri preferirebbero cani pugliesi o siciliani malati, mutilati, paralizzati, coperti di rogna, avidi di importare malattie endemiche a rischio di contagio umano come la leishmania. Lo stesso varrebbe per i tedeschi, i quali non dispongono di anagrafe canina unitaria e per adottare sborserebbero ingenti contributi. Ancor prima di partire i cani sono in offerta, ciascuno abbinato a una tariffa che varia dai 150 ai 450 euro, su siti stranieri, come pure negli appelli diramati da una cordata di associazioni ramificata in tutta Europa. Queste lanciano appelli e raccolgono in tutta Europa fondi sollecitati da immagini angosciose: animali miserandi nei canili lager. L'unico, importante processo scaturito da un'indagine sulle -  appurate -  false adozioni all'estero langue in attesa di prescrizione presso il Tribunale di Napoli. Questo, a dispetto della circolare 33 con cui già nel 1993 il ministro per la Salute Maria Pia Garavaglia registrava con preoccupazione l'irrintracciabile flusso di randagi in uscita dal nostro Paese e, fra le altre cose, raccomandava di "non cedere cani conto terzi, ma direttamente all'interessato". Il contrario di quanto solitamente avviene, visto che tante associazioni si intestano gli animali e poi li collocano presso strutture di transito donde ripartiranno in seguito. Una piccola associazione pugliese, Occhi Randagi, persegue un modello di trasparenza che finora non ha emuli in virtù del paravento della privacy: pubblicano luogo di provenienza e città di destinazione dell'animale, con il nome dell'adottante.

Quelle false associazioni che celano il business. Nella coscienza comune, per comprensibili ragioni, le associazioni animaliste si distinguono meritevolmente da chi, sulla gestione dei randagi, fa impresa. All'occorrenza, però, bisogna saper rovesciare la medaglia e, di volta in volta, distinguere. Chiunque in definitiva, e con estrema facilità, può costituirsi in associazione e avvalersi del marchio di fabbrica, mentre cercare di far quadrare un bilancio (affiancando di solito altre attività alla cura dei randagi, come assistenza veterinaria o pensione per cani privati) non significa necessariamente rifarsela sugli animali. Partendo dal presupposto che i canili non dovrebbero esistere, se non per accogliere transitoriamente animali destinati in famiglia o custodire malati terminali, casi difficili, nello stato dei fatti la valutazione dovrebbe basarsi su modi, criteri, qualità della gestione. La normativa prospetta parametri sanitari per le strutture, ma non obbliga alla presenza di educatori, né puntualizza con la debita severità le prassi di affido e successiva rintracciabilità degli animali. Una vicenda paradigmatica ha luogo in Puglia, dove il sequestro di canili indegni, in cui gli animali sono detenuti in condizioni atroci se non maltrattati fino alla recisione delle corde vocali, non fa quasi notizia. Capita pure, però, che la stigmatizzazione si rivolga a strutture decentissime. È il caso I Giardini di Pluto a Carovigno (Brindisi), canile-rifugio convenzionato con diversi comuni della zona, contro cui nel 2013 un'indagine sollecitata dall'associazione La Nuova Lara e seguita da un esposto della società Dog Service si appunta sul sovraffollamento e sfocia in sequestro. I 730 cani ospiti superano il limite di 200 fissato dalla Legge regionale pugliese del 2006, ma la struttura è stata autorizzata prima dell'entrata in vigore della norma, che non agisce retrospettivamente. "L'associazione denunciante La Nuova Lara si era già presentata giusto al fianco della Dog Service con un contratto di avvalimento concesso a titolo oneroso nella gara d'appalto a San Vito dei Normanni, per la custodia di randagi oggi affidati a I Giardini di Pluto. Vendendo quindi a un privato il proprio requisito di onlus, senza cui il medesimo non avrebbe potuto partecipare" dice Michele Visone, presidente di Assocanili. "Non ci stupiamo poi se rappresentanti di misconosciute associazioni risultano disoccupati e invece si scoprono titolari di società immobiliari. A danno dei veri volontari c'è un fiorire di associazioni falsamente animaliste". Contro la tradotta forzata di 151 cani proprio nel canile della Dog Service, non autorizzato ad accogliere randagi, si sollevano proteste e un'interrogazione parlamentare che lasciano indifferente il gip Maurizio Saso, caso non isolato di una magistratura all'apparenza dimentica del benessere degli animali. È recente la richiesta di archiviazione firmata dai sostituti procuratori Assunta Musella e Alessia Minicò del fascicolo riguardante due strutture private nel catanese, gestite da un veterinario con appalti milionari in convenzione con molti comuni. Qui, secondo il report dell'Unità operativa per la tutela degli animali, lotta a randagismo e maltrattamenti del ministero della Salute, la cui ispezione portò al sequestro dei canili (seguito da un rapido dissequestro), aggrediti da malattie gli animali erano stipati in recinti fra feci, cibi avariati e fango. A volte, privati e associazioni decidono di unire le forze per assicurarsi il successo. L'appalto di circa 94mila euro per i cani del Comune di Collesalvetti (Livorno) è andato a un privato che si è avvalso dei requisiti di un'associazione animalista "senza che si tenesse conto della mancata presenza di un contratto fra le parti, obbligatorio quando si ricorre all'avvelenamento, pena esclusione dalla gara". Lo scorso anno una volontaria siciliana, Elena Caligiore, dichiarò a una tv locale i propri dubbi riguardo il proposito di spostare decine di cani del siracusano in Emilia Romagna da parte dell'Enpa-ente nazionale protezione animali, la più antica associazione animalista italiana (la fondò Garibaldi): "La loro sezione locale ha chiesto randagi anche ai comuni di Priolo, Floridia, Lentini. Propongono di trasferirli al canile San Prospero di Modena, dove ne perderemmo le tracce: perché? Il randagismo si risolve solo sterilizzando". Smentisce secco Michele Gualano direttore generale dell'Enpa: "La circostanza non risponde a verità". D'altro canto è sempre più difficili operare distinzioni di merito fra le associazioni, legate talvolta da intrecci inaspettati. Come per esempio suggerisce la lettera di credenziali (di cui esistono due copie diversamente datate, forse un uso disinvolto da parte del beneficiario) con cui Carla Rocchi, presidente nazionale dell'Enpa, garantisce l'affidabilità di un'associazione locale, già contestata dal commissario prefettizio Aldo Lombardo, per la gestione del canile di Manduria (Taranto) che è oggi in via di smantellamento. "Enpa non promuove la gestione di terzi" commenta Gualano: "In alcuni casi però sosteniamo, con l'obiettivo del miglioramento della gestione e del benessere degli animali, la soluzione di situazioni critiche". Se per operare a tutto campo è utile appartenere a una categoria di settore, c'è chi, per non sbagliare, le garanzie di qualità vede di acquisirle tutte. E' ad esempio il caso del gestore di Dog's Town a Pastorano, in provincia di Caserta: veterinario, guardia zoofila Enpa e membro di Assocanili; oltre a gestire gli ospiti del canile-rifugio in convenzione, accalappia per conto dei comuni e si occupa persino di animali esotici, ma sul sito associativo i cani proposti in adozione si contano sulle dita di una mano.

Appalti e omissioni, le colpe dei Comuni. Per la grande maggioranza degli amministratori italiani occuparsi del randagismo è una scocciatura marginale, se non fosse che la tenerezza dell'elettorato verso gli animali si fa sempre più intensa. Ma ancora, a meno che sindaco o assessore delegato non siano sensibili e competenti in prima persona - fenomeno raro - la questione viene sbolognata in toto alle (spesso) incanaglite Asl, oppure gestita -  a volte in buona fede, altre, si direbbe, meno -  affidando il destino degli animali a interlocutori terzi. A Roma, per dirne una, è in ballo il rinnovo della gestione dei tre canili municipali (il quarto, un piccolo e centralissimo presidio, è stato chiuso nel novembre scorso) affidata dal 1997 all'Associazione volontari canile Porta Portese, che in circa vent'anni hanno sistemato in casa circa trentamila cani e gatti. "Abbiamo partecipato a ben tre gare d'appalto e, non certo per responsabilità dei partecipanti, nessuna è andata buon fine", spiega Simona Novi, presidente di Avcpp: "l'ultima è stata addirittura sospesa a causa della presenza della Cooperativa 29 Giugno, priva di qualsiasi specifica competenza in materia di benessere animale e coinvolta nello scandalo Mafia Capitale. In vista della quarta gara, ci auguriamo che la giunta Marino prenda in considerazione l'unico parametro sensato e previsto dalle normative vigenti: la capacità di fare adozioni certificate, garantire il benessere degli ospiti e di trasformare i canili in un semplice luogo di passaggio". Parecchie amministrazioni cercano di svuotare i canili non già incoraggiando adozioni consapevoli, con l'eventuale offerta di visite veterinarie o mangime gratuito per premiare l'accoglienza di cane o gatto nella realtà domestica, ma proponendo denari a chiunque ritiri un animale. Nell'aprile 2012 il comune di Oristano (Cagliari), a fronte del costo annuo di 914 euro pubblici stanziati per il mantenimento di ogni cane presso il Canile di Sandro Piras, delibera di corrispondere "in favore dell'associazione firmataria della convenzione un contributo una tantum di 450 euro per ciascun cane di cui venga realizzata con successo l'adozione". Se già appare illogico e diseducativo corrispondere denari a casaccio a fronte dell'animale sbolognato, è doppiamente assurdo pagare il mediatore. Una cittadina racconta di aver telefonato alla suddetta associazione per adottare un cane: "L'operatrice mi suggerì di non recarmi al canile in prima persona. Disse che il gestore non gradiva gli ingressi al pubblico, dunque se ne sarebbero incaricati loro. Mi chiesero di compilare un questionario molto fitto, assieme a cui avrei dovuto versare loro 50 euro". Somma che, in aggiunta all'una tantum comunale, portava l'incasso dell'associazione a quota 500. "Gli stessi animali che avevano messo in adozione erano pubblicizzati su Facebook, e si chiedevano per loro donazioni in denaro. Mi domando quanto fruttasse ogni singolo cane". "L'iniziativa non ha funzionato, si è spenta da sola" dichiarano oggi dal Comune di Oristano: "Abbiamo in programma di rilanciare altrimenti le adozioni". Dalla loro, quegli amministratori attenti al fenomeno randagismo non possono esimersi dall'esprimere preoccupazione verso la generale confusione in cui si pensa di affrontare il problema animali vaganti. Secondo Andrea Guido, assessore all'Ambiente del Comune di Lecce con delega al randagismo, "si sono innescati meccanismi perversi in un sistema costellato da associazioni che appaiono concentrate più sugli appalti che sulla ricerca del benessere degli animali, nella cui gestione si manca di avviare azioni serie e concrete. Occorre maggiore attenzione all'iscrizione delle associazioni nel relativo albo regionale, come pure sulla delicata materia delle adozioni". La virtù, in questo ambito, non paga. Per essersi opposto all'imprudente e non conforme adozione all'estero di un singolo cane all'estero, dopo aver ottenuto soddisfazione dal Tar, il Comune di Terni si ritrova denunciato alla Procura della Repubblica e alla Corte dei Conti da una motivatissima signora tedesca che a ogni costo vuole acquisire un animale malato di epilessia e già adottato in Umbria. Emergenza e randagismo, oppure emergenza randagismo: la percezione di una situazione fuori controllo non abbraccia solo la tutela degli animali, ma i più vari interessi pubblici. Dispendio di denaro e risorse umane, pericoli (non tanto nel merito degli occasionali branchi di cani che insieme organizzano la sopravvivenza, quanto per gli incidenti stradali causati da soggetti vaganti o abbandonati), sofferenza che dilania ogni specie a partire dalla nostra, nelle persone dei volontari che spesso spendono l'intera vita a tamponare tale, evitabile disastro. Malauguratamente, il contenimento delle nascite non è praticato che a parole. Salvo luminose eccezioni, al bisturi le Asl preferiscono l'ufficio, dove si timbrano montagne di passaporti perché i cani possano sloggiare all'estero. Non ci s'interessa neppure affinché i proprietari evitino le cucciolate e gli allevatori soggiacciano a limiti. E quando ai comuni viene tesa una mano da chi offra sterilizzazioni gratuite o a poco prezzo per tamponare le pubbliche inadempienze, la risposta è quasi sempre no. "Esistono eccome gruppi di medici veterinari indipendenti e generosi, i quali si propongono di intervenire con il solo rimborso dei materiali. Si possono sterilizzare, se ben organizzati, anche cento animali al giorno. In un paio di settimane si potrebbe arginare il randagismo in una città come Bari" spiega il veterinario Antonio De Simone, il quale ha già sterilizzato pro bono a Ventotene e in Puglia. "Ma ci si sente rispondere no grazie, sia per non indispettire gli ordini professionali, preoccupati della concorrenza e a volte in rapporti di collaborazione con le Asl, che per logiche, chiamiamole così, di ordine burocratico". Aggiunge Claudio Locuratolo, guardia zoofila Enpa di lungo corso: "Per avversare il randagismo si sente sempre parlare dell'importanza del microchip, con cui almeno i cani sono inseriti nell'anagrafe regionale, che dovrebbe confluire in quella nazionale: sacrosanto, ma i controlli sono inesistenti e le sanzioni per chi contravviene ridicole. Le cinture di sicurezza, per fare un esempio, hanno iniziato a funzionare quando fioccavano le multe. Bene la prevenzione quindi, ma è inevitabile passare per una fase che inculchi l'obbligo con severità".

A COME MAFIA DELL'ANTIFASCISMO DEI CRETINI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “COMUNISTI E POST COMUNISTI. SE LI CONOSCI LI EVITI”. Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Un libro racconta le atrocità dei partigiani. L’Anpi non ci sta e querela l’autore, scrive Anna Pedri il 9 novembre 2018 su “Il Primato Nazionale”. Un libro racconta le atrocità dei partigiani e la sinistra insorge. Domani a Reggio Emilia verrà presentato il libro dello studioso specializzato nei delitti commessi dai partigiani comunisti, Gianfranco Stella, intitolato “Compagno Mitra”. In circa 600 pagine racconta storie sanguinose, delitti a freddo, vendette ed efferatezze compiute dai partigiani durante la Seconda guerra Mondiale. L’Anpi è inorridita e in tutta risposta la locale sezione partigiana ospiterà il presidio antifascista promosso da Sinistra italiana e Partito comunista in segno di protesta contro la presentazione del libro. È significativa la scelta di Reggio Emilia per la presentazione del libro di Stella, che dedica un intero capitolo alla città e alla sua Resistenza. Tra gli episodi narrati c’è anche quello di un comandante partigiano che “incassava centinaia di milioni che parzialmente versava alla sezione Anpi reggiana”. Inoltre nel libro molti partigiani reggiani secondo la sezione locale dell’Anpi “vengono definiti come assassini e killer spietati dediti alle esecuzioni sommarie”. Tutti elementi che vanno a smontare il racconto ufficiale di quegli anni, descrivendo una realtà diversa da quella che da anni viene diffusa. L’Anpi e i partiti di estrema sinistra da giorni tappezzano la città di manifesti in cui invitano tutti a mobilitarsi contro quella che è stata definita, una “delirante e pericolosa riscrittura della Resistenza”. Anche di fronte all’evidenza raccontata e supportata da verità storiche, i partigiani di Reggio Emilia hanno dichiarato di essere pronti a querelare l’autore del libro. Dopotutto, Stella ha già subito due condanne per diffamazione, avendo criticato un comandante partigiano di Ravenna e sostenuto che “il movimento partigiano fu un mito e null’altro, che la resistenza non fu determinante per le sorti della guerra e che il riscatto nazionale dal fascismo da parte dei partigiani combattenti fu un falso storico”.

Non si smentiscono mai, scrive l'11 novembre 2018 Elio Bitritto su Qui Quotidiano. Anche se inaccettabile, credo si possa capire che la Storia la scrivano i vincitori: ma che poi, si aggiunga anche la protervia “democratica” di vietare di dissentire da quanto la vulgata esalta consente di capire chi è certa gente. Per questa gente la seconda guerra mondiale non è ancora finita e, pur nella assenza di tutte le condizioni storiche, economiche e sociali che portarono alla nascita del fascismo, lo riesumano come un qualsiasi spaventapasseri. Specialisti nella “resistenza” alla verità scomoda, questi “partigiani” del politicamente corretto si ripetono oggi minacciando querele e presidi antifascisti contro l’ultimo libro di Gianfranco Stella “Compagno mitra”. Per dare un’idea di chi sono questi “partigiani” della verità non possiamo non ricordare che Giampaolo Pansa non può essere sospettato di simpatie destrorse. . Naturalmente questa gente crede che la Storia la si scriva con la mano sinistra riportando i miti e tacendo sugli errori (altro eufemismo). Non sono state poche le occasioni per le contestazioni (eufemismo) da parte dei centri sociali e perfino di alcuni storici (o pseudo tali) che accusarono l’autore di “revisionismo”, quasi un sacrilegio. Il fatto è che se le accuse di revisionismo le fanno i ragazzotti dei centri sociali si può anche capire: ma se certe accuse vengono dal mondo accademico, da “storici” di professione, se ne può dedurre che si tratta di pennivendoli al servizio di una ideologia senza se e senza ma. Dico questo perché la Storia, per definizione è “revisionismo” perché ogni giorno vengono alla luce fatti nuovi DOCUMENTATI, per cui cronache, date e logiche deduzioni, anche se acquisite e consolidate, devono essere riviste. Per inciso dirò che perfino Napolitano condannò quegli estremismi democratici e pure Luzzatto, dopo una iniziale perplessità, dichiarò che nelle sue opere “nulla si inventa” e c’è “rispetto per la Storia”. Storia che si ripete oggi in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Panda sulle atrocità partigiane a Reggio Emilia. La città non sembra scelta a caso perché, come anticipa lo stesso Stella nella sua pagina facebook, “Alla resistenza reggiana mi preme dedicare un capitolo di questo libro per la semplice ragione che è stata, secondo la mia opinione, la più spietata, e secondo quella di Togliatti la più turbolenta (ultimo eufemismo). La resistenza reggiana si rivolse con estrema ferocia non solo verso i fascisti o ex fascisti o presunti fascisti, tedeschi e in generale verso gli anticomunisti, i senza partito, ma anche verso partigiani, eliminati per la loro neutralità manifesta o per la loro critica sul comportamento estremo del partigianato comunista che non tollerava presunte deviazioni o atteggiamenti autonomisti. Ho i dati di almeno sessanta partigiani eliminati per questi motivi, alcuni dei quali anche dopo il 25 aprile, un numero doppio rispetto alle analoghe uccisioni di altre province”. Così come il comunismo alla caduta del Muro di Berlino ha evitato di fare autocritica (è un’abitudine consolidata) forse anche l’Anpi ed i centri sociali dovrebbero cominciare a fare un esame di coscienza che tenga conto dei documenti oltre che della passione, non foss’altro per cominciare ad assaggiare quella che i comuni mortali definiscono amore per la “verità” … tutta!

Il tafazzismo della sinistra reggiana porta il pienone da “Compagno mitra”, scrive l'11 novembre 2018 Marina Bortolani su nextstopreggio. “Compagno mitra”, quel libro sulle “atrocità commesse dai partigiani” Gianfranco Stella non avrebbe dovuto scriverlo. “La storia del nostro Paese non può essere riscritta da Gianfranco Stella”, ha tuonato il presidente dell’Anpi Ermete Fiaccadori davanti a circa 100 persone in via Farini al contro-evento organizzato dalle associazioni che si richiamano ai valori della Resistenza. “I suoi scritti sono stati definiti dagli storici come un lavoro dilettantesco con il solo obiettivo di fare scoop, va sempre tenuta alta la guardia, perché si respira la stessa aria del ’38, quando si iniziò con le leggi razziali”. L’attacco nei confronti dell’iniziativa organizzata da Centro Studi Italia, associazione presieduta da Luca Tadolini che si richiama alla destra politica, è cominciato da una decina di giorni. Da quando cioè è stato annunciato l’arrivo di Stella per presentare il suo libro in città all’hotel Notarie. In genere alle iniziative della destra reggiana raramente si registra il pienone, ma questa volta c’è stato un aiuto importante, decisivo: la pubblicità della sinistra reggiana che a gran voce chiedeva di non ascoltare le cose che sarebbero uscite dalla bocca di Stella e dalle pagine del suo libro. Anzi, a Reggio Emilia non si doveva proprio dar spazio a un’iniziativa così. Ecco che allora rinasce il fanciullo che è in noi e che quando si sente dire dalla mamma e dal papà di non fare una cosa…zac! E’ la volta buona che il gusto del proibito si fa sentire forte e così all’hotel Notarie non solo c’erano gli storici rappresentati della destra reggiana, ma tanti cittadini, alcuni semplicemente curiosi, altri indecisi sulla fiducia da dare alle prossime elezioni dopo averle provate tutte, altri ancora accorsi come reazione al “divieto”. “Se n’è parlato talmente tanto sui giornali, che ero curioso di sentire con le mie orecchie ciò che avrebbe detto l’autore del libro”, ha spiegato il sig. Doardo, “Peccato solo che da qui in fondo si senta male”. La sala delle Notarie non conteneva infatti tutto il pubblico rimasto in piedi anche nella saletta attigua e nei corridoi dell’hotel a piano terra. A pochi metri di distanza, in via Farini, il presidio “contro i fascisti” vedeva la partecipazione dei militanti di Anpi, Si, Pci, Mdp – Articolo Uno e del Sindaco Luca Vecchi. Un centinaio in tutto. E chi si aspettava di sentir smentiti punto per punto i fatti più significativi raccontati da Stella nel libro sulle “atrocità partigiane” rimaneva deluso, anche se, dopo l’annuncio di Fiaccadori a eventuali azioni legali, il Sindaco Vecchi evidenziava che l’iniziativa di Stella sarebbe “un maldestro tentativo di insinuare sospetti e discredito ai danni di un’intera comunità” e che nel libro “si parla di fatti già indagati dettagliatamente con conseguenti sentenze di assoluzione”.

L’antifascismo dei cretini, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 5 novembre 2018. Abbiamo sempre avuto pazienza con i cretini non cattivi e con i cattivi ma intelligenti. Non riusciamo però ad averne con i cretini cattivi, magari in origine solo cretini poi incattiviti oppure solo cattivi poi rincretiniti. Ma sono cresciuti a dismisura e si sono aggravati. Sto parlando del nuovo antifascismo, collezione autunno-inverno, che si alimenta di fascistometri per misurare il grado di fascismo che è in ciascuno di noi e di istruzioni per (non) diventare fascisti, di Anpi posticce che sventolano l’antifascismo anche il 4 novembre, non più costituite da partigiani ma da militanti dell’odio perenne; e poi di mobilitazioni, manifestazioni e mascalzonate, veicolate da giornaloni, telegiornaloni, talk show e da tante figurine istituzionali. Come quel Figo che alterna dichiarazioni d’antifascismo a dichiarazioni surreali d’amore a proposito degli stupri e i massacri tossico-migranti. Per lui le violenze si combattono con l’amore, come dicevano i più sfigati figli dei fiori mezzo secolo fa. Lui ci arriva adesso, cinquant’anni dopo e a proposito di un fatto così terribile come uno stupro mortale a una ragazzina. Sopportavamo il vecchio antifascismo parruccone, trombone, un po’ di maniera. Arrivavamo a sopportare perfino un antifascismo di risulta, violento, intollerante, estremista. Finché si tratta dei dementi agitati dei centri sociali, di qualche femminista in calore ideologico o con caldane fasciofobe, oppure di sparsi cretini del grillismo e del vecchio sinistrismo, ce ne facevamo una ragione. Ma sconforta quando vedi pure intellettuali, direttori, editori, giornalisti, testate che avevano qualche credibilità intellettuale o almeno professionale, che leggevi e stimavi, avere una regressione idiota nell’odio verso un presunto e rinato neofascismo (che in realtà rinasce ogni settimana da 73 anni, in base ai loro dolori reumatici, i loro indicatori e delatori). Per non restare nel vago, mi riferisco a firme, filosofi, giornalisti, scrittori che esercitano il loro mestiere su la Repubblica, l’Espresso, i loro paraguru genere Saviano, per non dire nei talk show e nei tg rai, mediaset (solo un po’ meno), la 7 e sky. Probabilmente un combinato disposto ha dato loro alla testa: il fallimento inglorioso della sinistra su tutte le ruote, l’avanzata popolare di Salvini, il trionfo in tutto il mondo e non coi colpi di stato ma a suon di voti, di leader e movimenti opposti alla sinistra. E poi le prediche, le censure e le leggi opinionicide di Suor Boldrina e Frate Fiano, solo per citare due chierici precursori di questo antifascismo. Ma devono aver raggiunto uno stato patologico così avanzato questi malati del morbo d’Antifascismo, se perfino il Corriere della sera, si è di recente ribellato alla deriva idiota dell’antifascismo con un equilibrato editoriale di Paolo Mieli, un frizzante corsivo di Gramellini, un incisivo affondo di Panebianco, e scritti di Battisti, della Tarquini. Poi, leggi Paolo Giordano in prima pagina del Corriere che prende sul serio i calendari di Mussolini (è la scemitudine dei numeri primi), leggi Aldo Grasso che nega le pagine di storia sociale del fascismo, carte del lavoro e garanzie per pensionati e donne, leggi l’inquisizione filosofica della Di Cesare, più menate varie di antirazzismo e antifascismo e ti accorgi che il Corriere gareggia con la Repubblica sullo stesso terreno. L’antifascismo patologico è a uno stadio acuto se il 4 novembre Furio Colombo sul Fatto sbaglia ricorrenza e dedica il suo fondo all’apologia del 25 aprile. O se un giornalista de La Repubblica, Maurizio Crosetti, accecato da furiosa demenza, auspica il massacro a Piazzale Loreto di Salvini. Ma la demenza ha pure valore retroattivo nei secoli andati. Sono reduce dall’imbarazzante lettura di un libro dedicato a Dante di tale Chiara Mercuri, pubblicato da Laterza, in cui si presenta Dante come un precursore dei dem, uno che va in esilio perché dalla parte delle lotte proletarie e viene citato tra i grandi di tutti i tempi insieme a Saviano, senza un minimo senso del ridicolo. Saranno stati i fascisti del suo tempo a condannarlo a morte e all’esilio, evidentemente. Quelli che una polpetta avvelenata di nome Michela Murgia vorrebbe misurare col suo fascistometro, lanciato come ultima moda ideologica magari da adottare anche nelle aule e nei media per schedare e discriminare chi non la pensa come te. Un formidabile misuratore non dell’altrui fascismo ma della propria demenza faziosa. Ho sempre ritenuto che meriti rispetto chi fu antifascista col fascismo vivo e imperante, un antifascismo fiero e scontato sulla propria persona; quello postumo che infierisce contro i morti no. Ma quello posticcio, surreale e caricaturale dei nostri giorni, è un triplice insulto: al fascismo, all’antifascismo e all’intelligenza degli italiani. Come è un insulto quotidiano alla memoria di tutti i caduti, a partire dagli stessi ebrei, le ossessive, petulanti, rievocazioni del razzismo e dei campi di sterminio, lette come eventi in corso di replica. Il delirio antifascista e antirazzistaporta anche ad alcune intelligenze un tempo rispettabili, un obnubilamento mentale con esiti deprimenti e grotteschi. Il tutto si accompagna a un ritorno di odio patrio, di antiitalianità, che sembrava superato da alcuni decenni, e che invece rigurgita, identificando l’amor patrio col più aggressivo nazionalismo: il modo migliore per favorire davvero questo slittamento. Vogliono combattere il sovranismo ma questo è il modo migliore per aiutarlo a dilagare. Dopo una faticosa riconquista di un rapporto migliore con i temi nazionali nei decenni scorsi, grazie allo sforzo di Craxi e Spadolini, di Ciampi e anche di Napolitano, la sinistra residuale di oggi ha avuto una regressione feroce quanto insensata contro l’italianità, un conato di vomito antipatriottico per sancire che loro sono dalla parte dei migranti. Stranieri first. Ecco il 4 novembre celebrato dalla parte degli austriaci, dei disfattisti e dei disertori. Se ragionassi in termini politici, o peggio elettorali, dovrei gioire perché assisti allo spettacolo di un suicidio dei radical, affogati nel ridicolo in una lotta contro gli italiani. Ma non sono mai contento quando un avversario si autodemolisce e si autoridicolizza in quel modo; non mi piace, per la democrazia, per la circolazione delle idee, per carità di patria vederli schiumare di odio e di rabbia, peggio degli haters che deprecano (“Buonisti un cazzo”, tuonava elegantemente la copertina de l’Espresso). E per il rispetto, non corrisposto, che continuo a nutrire per le persone nonostante i loro pregiudizi e le loro occlusioni mentali. Ricredetevi, riavetevi, ripensateci. Non riducete il prefisso dem ad abbreviativo di dementi. Non seppellitevi nel vostro ridicolo rancore, elevando l’imbecillità a crimine contro l’umanità.

Altro che fascismo, il pericolo è il fanatismo. Il nuovo spettro che si aggira per l'Europa vuole eliminare ogni avversario, scrive Francesco Alberoni, Domenica 11/11/2018, su "Il Giornale". Uno spettro si aggira per l'Europa, scriveva Karl Marx ne Il manifesto del partito comunista. Era l'idea secondo cui tutto il progresso scientifico industriale dell'Occidente, la sua religione, il suo diritto, la sua cultura fossero il frutto dell'espropriazione di chi lavora compiuto dalla classe dei capitalisti e che questa dovesse essere annientata. Dopo di che sarebbe nato il nuovo uomo, buono per natura. Chi vi credeva considerava nemico, chiunque non vi credesse ed era disposto a ucciderlo o a imprigionarlo. Il nuovo spettro che si aggira per l'Europa è una ideologia che vuol eliminare i governanti. Tutti i politici sono corrotti, lo sviluppo economico rende i ricchi sempre più ricchi, i poveri più poveri, l'industrializzazione produce inquinamento, catastrofi ecologiche. Tutto questo va rovesciato: niente classe politica che decide tutto, il popolo farà le leggi da solo col web, uno uguale a uno. Non serve il Parlamento, finirà l'inquinamento. Governata così la terra diventerà un giardino fiorito. È una ideologia che in Italia è espressa chiaramente da Gianroberto Casaleggio e i grillini ma, in forme diverse, e presente in molti partiti e movimenti europei. Non ha nulla a che fare con il fascismo, il nazismo o il comunismo. È una ideologia che appartiene piuttosto alle utopie anarchiche apocalittiche. Ha presa sui giovani a cui dà un nemico da odiare e una credenza che li fa sentire infallibili. Ne fa dei fanatici. Il fanatico non è solo colui che crede ciecamente in una cosa, ma che considera un nemico mortale chi non la pensa come lui. Tra lui e il suo avversario politico c'è lo stesso rapporto che c'era fra l'inquisitore e l'eretico. Più l'eretico si difende più merita il rogo. In Italia questa ideologia in parte è già al potere e fa leggi come la fine della prescrizione, il referendum senza quorum, misure antieconomiche. Ma è solo l'inizio: la sua meta ultima è un totalitarismo radicale che si propone di controllare ogni pensiero, ogni sentimento, e vuol rendere tutti uguali. Al vertice ci sarà un misterioso potere che controlla il partito attraverso il web, l'intelligenza artificiale, e la tecnologia moderna di cui ha il monopolio.

I pericoli dell'anarco-marxismo dietro la democrazia diretta. Il potere anche se espropriato finisce ai dirigenti politici, non certo al popolo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 07/10/2018, su "Il Giornale". La democrazia moderna è nata dalla concezione di Hobbes e Locke. Essa distingue fra governanti e governati. I governati rinunciano al loro potere a favore dei governanti (classe politica, Parlamento) perché garantisce loro la pace, la proprietà e il rispetto dei diritti fondamentali e inalienabili. Se i governanti governano male verranno sostituiti. A questa concezione, in epoca moderna si sono opposte in modo radicale due concezioni: quella marxista e quella anarchica. Il marxismo nega la funzione dell'imprenditore. L'imprenditore, chiamato capitalista, deruba il lavoratore di parte del suo lavoro (plusvalore) e con questo acquista i mezzi di produzione con cui ruberà altro pluslavoro ad altri lavoratori. Bisogna perciò espropriarlo di questo furto e restituire il maltolto ai lavoratori. E chi inventerà, chi dirigerà la produzione? I lavoratori stessi. In realtà i lavoratori da soli non organizzano e non dirigono niente. Dopo la rivoluzione sovietica a farlo sarà lo Stato, in realtà la classe politica formata dai dirigenti del Partito comunista. Gli anarchici invece negano la funzione dei governanti: il popolo sa fare tutto da solo. In questo caso bisogna espropriare i politici del loro potere e restituirlo al popolo. Questa idea, che si è realizzata nel passato nelle piccole comunità come decisione di tutti i cittadini riuniti in assemblea, è stata riportata alla ribalta in Italia dai Cinque Stelle come democrazia diretta attraverso il web in cui il popolo fa tutte le leggi, prende tutte le decisioni senza bisogno di una classe politica e dirigente. Dove viene applicato questo sistema il potere lo prendono i dirigenti del partito. Di solito promettendo anche ciò che non potranno dare, e lo conservano con la repressione. In Italia per molto tempo è stato diffuso il marxismo, oggi si è fatto strada l'anarchismo e il mito della democrazia diretta. È strano che queste concezioni e il tipo di conseguenze che hanno sul sistema politico ed economico non siano oggetto di analisi e di approfondimenti sulla stampa e la tv perché si tratta di una svolta radicale che stiamo vivendo ed è la causa del disagio di questa nostra epoca ed è un pericolo per la democrazia.

Il tradimento degli intellettuali, ammutoliti e complici, scrive Francesco Alberoni, Domenica 30/09/2018, su "Il Giornale". A metà strada fra la rivoluzione sovietica ed il nazismo nel 1927 Julien Benda scrisse Il tradimento dei chierici. I chierici sono gli intellettuali, gli studiosi, gli storici, i giuristi che, in quel periodo, avevano rinunciato alla loro funzione di riflessione pacata, razionale, volta all'universale, per abbandonarsi alla passione politica seguendo ideologie irrazionalistiche o erano stati silenziosi. Ebbene io talvolta mi domando se anche in Italia, seppure in misura più modesta, gli intellettuali, gli studiosi, in questi ultimi quindici anni abbiano fatto tutti il loro dovere. Salvo poche eccezioni abbiamo accettato passivamente l'offensiva cinese che ha fatto crollare i prezzi, i profitti, i salari e la qualità. Sono sorti movimenti antidemocratici, antiparlamentari ed antieuropei che anziché costruire una classe dirigente capace di guidare il Paese hanno soddisfatto demagogicamente le più irrazionali richieste popolari. Sono pochissimi, in questo periodo, gli studi approfonditi sul sistema politico, sui nuovi movimenti e le nuove ideologie. Alla televisione per anni si sono svolti dibattiti solo fra persone di sinistra che accusavano Berlusconi e un fascismo inesistente, mentre non si accorgevano di sprofondare loro nel baratro. Non solo, si sono moltiplicate le sparate demagogiche di tutti contro tutti sui social, mentre è praticamente sparita perfino dai grandi giornali l'analisi razionale di grande respiro. Sì, i chierici hanno tradito oppure sono stati cacciati dai grandi mezzi e resi muti. Ma sono convinto che qualcosa cambierà. Mentre i demagoghi svalutano la scuola ed il sapere, di fatto per poter essere ammessi nelle scuole tecniche o all'università si devono sostenere degli esami tanto più difficili quanto più alto è il reddito a cui la scuola ti può portare. In questo modo nei prossimi anni i giovani italiani capiranno l'importanza dello studio dappertutto. E capiranno che, se per essere ammesso a Medicina e diventare un bravo medico si devono affrontare severi studi universitari, non potranno accettare che si possa fare il ministro senza una adeguata preparazione. No, fra poco l'ondata ugualitarista verrà sconfitta ed anche i chierici torneranno a fare il loro dovere.

Compagno Drago e gli altri: i serial killer protetti dal Pci, scrive il 13 novembre 2018 La Nuova Bussola Quotidiana. Con il libro Compagno mitra hanno nome e volto quei partigiani che uccisero nemici politici e innocenti padri di famiglia. Molti fatti raccontati dallo storico Gianfranco Stella sono noti. Quel che non era noto erano i nomi dei killer e delle bande di gappisti che agivano indisturbati in nome della giustizia proletaria con omicidi, razzie, sequestri ed estorsioni riuscendo a sfuggire alla giustizia o salvandosi con pochi anni di carcere. Come il partigiano Drago: un killer spietato che ammazzò 150 persone, tra cui il sacerdote don Dante Mattioli, il cui corpo non venne mai trovato. Coperto dal Pci, sconosciuto ai libri di storia, nessuno lo disturbò mai e morì nel suo letto con al collo una medaglia al valor militare. Molti di loro vennero decorati con la medaglia d’oro, altri diventarono persino deputati del Pci o segretari dell’Anpi locale. Ad altri ancora la vita non fu facile, dovettero conoscere la dura fatica nei campi di patate nella Cecoslovacchia sovietica, ma poi dopo pochi anni tornarono a casa dove poterono così ricominciare la loro vita, come se niente fosse. C’è anche chi fu condannato all’ergastolo subito dopo la fine della guerra, ma potè godere dell’amnistia di Togliatti già dal 1950 e così ripulirsi per gli anni a venire. La carrellata di killer spietati raccolta nel libro Compagno mitra rappresenta un documento impressionante di come la Resistenza di marca comunista si sia macchiata di crimini orrendi che rimasero impuniti allora e oggi sono stati semplicemente derubricati ad azioni di guerra. Con questo libro, il suo autore, lo storico Gianfranco Stella, ha completato l’anello mancante che serviva per una completa pacificazione nazionale: dire i nomi di chi, approfittando del caos seguito all’8 settembre, regolò i conti in vista di una imminente rivoluzione bolscevica. E’ per questo che la presentazione di sabato scorso a Reggio Emilia ha in un certo senso chiuso finalmente il cerchio. Un cerchio iniziato molti decenni fa con la pubblicazione dei nomi delle vittime della violenza partigiana. Semplici nomi, a quali dopo molti decenni si aggiunsero le dinamiche nelle quali maturarono i crimini più efferati. Tutto questo ha alimentato la cosiddetta storiografia revisionista alla quale però mancava spesso un cappello finale: il nome, appunto degli assassini. Ebbene, i nomi spesso c’erano, in molti casi si conoscevano perché le inchieste giudiziarie fecero il loro corso prima dell’amnistia. Ma l’amnistia, oltre a salvare centinaia di killer spietati dall’ergastolo, produsse anche un fenomeno ingiusto: mettere al riparo quelle persone delle quali poi nessuno potè parlare, perché in fondo protette dalla cappa onnipresente del partitone rosso, che garantiva loro di poter ricominciare indisturbati la loro vita per non macchiare la vulgata resistenziale che nel frattempo si imponeva nelle scuole, nei libri di testo e nei comuni. In questo libro di 600 pagine i nomi sono la cosa più significativa. Molte dinamiche, molti eccidi, si conoscevano. Ma ad esse mancava giusto il responsabile. Ed è per questo che l’Anpi sabato ha manifestato davanti all’albergo delle Notarie di Reggio Emilia dove dentro Stella presentava il suo libro con il Centro Studi Italia e la Fondazione Azzolini: perché quei nomi, riportati alla luce da Stella, sono la prova che nel Triangolo della morte, ma anche in Liguria, in Veneto, in Lombardia e in generale in tutto il nord Italia, i partigiani comunisti hanno ucciso innocenti per puro odio ideologico e politico. Dal punto di vista storico, bisognerà dunque arrivare anche ad una revisione di quella stagione che tenga conto appunto anche delle coperture di cui questi criminali hanno goduto. Basterà, per far comprendere questi silenzi lunghi oltre 70 anni, raccontare anche solo un caso degli oltre 200 resi noti e messi in fila da Stella. E’ quello di un partigiano fantasma, il cui nome non compare neppure nella storia della Resistenza reggiana di Guerrino Franzini, che rappresenta la “bibbia” della vulgata resistenziale. Di Licinio Tedeschi, nome di battaglia Drago, ma anche Marat, nessuno sapeva nulla. Il suo nome si perde nell’aneddotica delle famiglie vittime, che da troppi anni piangono i loro cari ben sapendo il nome di chi uccise così barbaramente un padre o un fratello. Ma nessuno ebbe mai il coraggio di parlare. Eppure, la figura di Licinio Tedeschi è impressionante per crudeltà a cui si aggiunse nel tempo una impunità sprezzante e sicura per un uomo cui, a conti fatti, Stella attribuisce la bellezza di 111 vittime nell’immediato dopoguerra e 39 prima del 25 aprile. Numeri che non si spiegano senza mettere in conto una copertura di una struttura di livello più alta. Tedeschi nasce a Castelnovo Sotto in provincia di Reggio Emilia nel 1914. Di lui, Stella dice: “Licinio Tedeschi può essere considerato tra i più spietati serial killer della Resistenza italiana e il maggior assassino del Reggiano. Suoi pari vi saranno stati, ma nessuno ho trovato più assassino di lui. Uccise preti, medici, carabinieri, donne, presunte spie, ex fascisti, professionisti, facoltosi imprenditori che nulla avevano a che fare col Fascismo e anche partigiani”. Con un curriculum del genere si comprende bene perché il Pci reggiano avesse interesse a coprirlo. Perché con Drago ad uccidere c’era un nutrito squadrone della morte che ha seminato il terrore nelle campagne della Bassa reggiana per un triennio almeno. Una squadra di killer che qualcuno consentiva operasse indisturbata e che, subito dopo la guerra potè riscuotere come una cambiale impunità e protezione. Stella racconta infatti che Tedeschi fu impiegato alla segreteria dell’Anpi “grazie alle contribuzioni forzate che riusciva egregiamente a incassare e parzialmente a versare”. Il suo primo omicidio lo compie a Udine nelle caotiche giornate dell’armistizio all’interno della caserma del 23esimo reggimento dove era soldato. E’ il 9 settembre, appena il giorno dopo la destituzione del regime, quando uccide il sottoufficiale addetto all’armeria che si era opposto alla sua pretesa di prelevare armi. Ne riempì due borsoni e il sottoufficiale venne derubricato a vittima dei tedeschi che quel giorno avevano occupato la caserma. Da quel giorno Tedeschi non smise più di ammazzare. “Le sue azioni piacevano al partito comunista e meno ai membri del Comitato di Liberazione provinciale i quali denunciavano l’inutilità di quelle sciagurate iniziative e finivano sempre col provocare reazioni dei tedeschi”. Ma lui andò avanti. Ad esempio: il 13 aprile del 1945, proprio nello stesso giorno in cui veniva ucciso il seminarista Rolando Rivi, prelevò tre persone: il commissario prefettizio del comune di Castelnovo Sotto, un residente e il parroco don Dante Mattioli e il nipote. Furono uccisi tutti con colpi di pistola e i corpi non vennero mai ritrovati. La morte di don Dante Mattioli è sempre rimasta un mistero. Il suo nome è finito nel martirologio delle vittime del clero per mano partigiana, ma ora, con questi documenti scoperti da Stella, si può finalmente avere un colpevole che uccise per odium fidei un parroco che nulla aveva a che fare con il Regime e aveva come unica colpa quella di non essere comunista. Di storie del genere, la cartella di Tedeschi è piena e finalmente per tanti famigliari si può dare un nome ai killer rimasti nell’ombra per 70 anni. Il 25 aprile ad esempio, tanto per festeggiare la Liberazione pensò di ammazzare il medico condotto del Paese di Gattatico, il dottor Enrico Alberti e così fece nei giorni seguenti con la sua squadra della morte per cittadini che avevano come unica colpa l’avere la tessera del partito fascista. Le sue azioni non si limitavano agli anti-comunisti. Un partigiano rosso, Mario Bertozzi di Boretto, durante un periodo di detenzione, fece il suo nome in riferimento ad alcuni delitti. Appena uscì venne freddato da una raffica. La stessa sorte toccò ad un altro compagno di armi che aveva rivelato alle autorità la base segreta di Drago. E ancora: taglieggiava per conto del partito comunista gli imprenditori della zona e chi non si piegava veniva ucciso, sequestrò molti possidenti in nome della giustizia proletaria. Nessuno poteva fermarlo: uccise ancora il maresciallo dei carabinieri di Brescello, il cui corpo venne ritrovato soltanto negli anni ’60 durante uno scavo. A lui è legato un episodio della carriera del celebre giornalista Enzo Biagi. Il nome di Licinio Tedeschi era nell’aria, ma nessuno lo faceva per paura. Così, per controbilanciare la linea editoriale scelta dalla Rizzoli che con il settimanale Epoca aveva documentato molte efferatezze partigiane, volle sentire anche l’altra campana. Andò a Poviglio, dove negli anni ’60, Tedeschi si era trasferito e si presentò a casa sua per chieder un’intervista. Per nulla intimorito dalla fama del grande giornalista rifiutò qualunque tipo di incontro. Allora Biagi gli fece prospettare il pagamento di una somma di denaro. Ma neppure questo lo smosse: “Il killer gli rispose che se avesse voluto denaro, gli sarebbe bastato girare durante il giorno di mercato per le strade di quei comuni dove era conosciuto e con il cappello in mano avrebbe riscosso tanto denaro da riempirlo”, riferisce Stella. Una ricchezza che il Drago non teneva soltanto per sé. Stella sostiene che parte delle contribuzioni forzate che Tedeschi versò all’Anpi servirono al Pci per acquistare l’antico palazzo di Rocca Saporiti in via Toschi, che nel ’54 diventerà la nuova sede del partito. Da ultimo va detto che quando nel ’46 gli venne revocata la medaglia d’argento al valor militare, fu proprio l’Anpi a fare pressioni perché potesse riottenerla. Ebbene: la riebbe nel 1988 con un decreto presidenziale apposito nelle cui motivazioni viene ricordato un episodio di un combattimento valoroso contro i tedeschi. Nessun cenno, ovviamente, alla seriale attività di killer in nome e per conto della Resistenza rossa. Surreale la chiosa di Stella, citando Orwell: “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”.

Addio lotte operaie, quando a marciare furono i 40mila della Fiat. Il paragone con la manifestazione a Torino per il Sì alla Tav. Ma cosa accadde davvero nel 1980?, scrive Paolo Delgado il 13 Novembre 2018, su "Il Dubbio". Il paragone è venuto in mente a molti, spontaneamente. Si è imposto subito, nonostante le cospicue differenze, in forza del numero, “i quarantamila”, della piazza, quella di Torino, e di alcune pur superficiali somiglianze. Una nuova “marcia dei quarantamila”. Una di quelle manifestazioni particolarmente vistose perché occupano il terreno degli avversari, quello della mobilitazione di piazza, e lo rovesciano a favore degli abituali bersagli della protesta. Se si cercasse il modello eminente di quella tattica sarebbe certamente l’immensa manifestazione di Parigi del 31 maggio 1968. Quel giorno, dopo un mese di scontri quasi insurrezionali tra manifestanti e polizia, con la Francia paralizzata da uno sciopero di fatti generale e con tutte le grandi fabbriche occupate, come gli atenei, un milione di francesi manifestò in favore del presidente della Repubblica: il generale De Gaulle. Quell’interminabile corteo sugli Champs Elysées, aperto in dagli scrittori Francois Mauriac e André Malraux, fu il segnale della svolta e annunciò la vittoria del generale. In Italia però il modello è la marcia dei quarantamila del 14 ottobre 1980, quando, sorprendendo tutti, una massa molto superiore alle aspettative si ritrovò di fronte al teatro Nuovo per protestare contro il blocco della Fiat che durava da ormai 35 giorni. Il “Coordinamento dei capi e quadri Fiat”, guidato da Luigi Arisio, caporeparto delle sellerie con 250 operai sotto di lui, si aspettava un successone, persino 5mila persone. Ne arrivarono molte di più. Non trovarono posto nel teatro e il Coordinamento decise di far seguire agli interventi dal palco una manifestazione silenziosa, ma con cartelli eloquenti: “Il lavoro si difende lavorando”, “Vogliamo la trattativa”. Quel corteo era destinato a passare alla storia come la ‘ marcia dei quarantamila’. In realtà i partecipanti erano molti di meno: 12mila secondo la questura, 20mila secondo la Fiom, 30mila per la Confindustria. Paradossalmente a far lievitare la cifra fu un quotidiano di estrema sinistra e del tutto schierato con i sindacati impegnati nella durissima vertenza Fiat, il manifesto, nel pezzo firmato dal corrispondente Stefano Bonilli. A riprendere quel numero magico fu poi il segretario della Cgil Luciano Lama e la controparte non vide ovviamente motivo di correggere una stima che andava tutta a suo favore. Non si trattò di una manifestazione spontanea, come fu fatto credere all’inizio. Era stata invece preparata meticolosamente nelle settimane precedenti dallo stato maggiore della Fiat, l’ad Cesare Romiti e suoi vice Carlo Callieri, che molti anni dopo avrebbe ammesso la regia di Corso Marconi, e Cesare Annibaldi. Ancor più di Romiti, che in realtà pare avesse dubbi sul successo della mossa a sorpresa, il regista du Callieri. Era il duro del gruppo di testa Fiat. A quanto il 13 settembre era iniziato lo sciopero a oltranza dormiva in fabbrica con la pistola carica. Lo avevano in effetti soprannominato “John Wayne” ed era stato lui a coordinare con Arisio la manifestazione dei capi, con tanto di partecipazione economica, in proporzione mai del tutto chiarita ma certa, dell’azienda. L’idea di trasformare l’assemblea del teatro Nuovo in una marcia, peraltro, fu dello stesso Callieri. L’esasperazione dei capi, tenuti sotto scacco dalla conflittualità operaia da dieci anni, spaventati dalla minaccia di rappresaglie armate tanto più credibili dopo che Prima linea aveva ucciso, il 21 settembre 1979, il dirigente Fiat Carlo Ghiglieno, era reale. Qualche giorno prima del 14 ottobre c’era stata una prima e più spontanea manifestazione dei capi nello stabilimento di Rivalta. I picchetti erano meno rigidi di quanto non si pensasse allora. Soprattutto la mattina presto erano sguarniti e alcuni capi avevano ricominciato a entrare e persino a portare a termine la produzione di alcune vetture. Ma c’erano anche effettivi respingimenti duri di dirigenti che provavano a forzare i presidi. La vita per i capi negli anni del contropotere operaio in fabbrica non era stata facile e a farne le spese ne era stato, stando ai suoi racconti, lo stesso Arisio: «M’infilarono dentro i pantaloni l’asta di una bandiera rossa e con quella fra le gambe, fra calci e spintoni, mi costrinsero a camminare alla testa di un corteo. Siccome mi rifiutavo d’impugnare il vessillo, un cireneo comunista reggeva l’asta per me, mentre alle mie spalle un pazzoide due volte licenziato e due volte riassunto mi prendeva a pedate nel sedere con gli occhi iniettati di sangue». La decisione di manifestare, racconterà in seguito il capo delle sellerie, fu presa dopo che un capo di 48 anni, Vincenzo Bonsignore, era morto di infarto mentre provava ad aggirare i presidi. Per convocare l’assemblea furono spediti 18mila inviti. Ai presenti, secondo voci diffuse e mai smentite dall’azienda, fu pagata la giornata lavorativa. Alla richiesta di interlocuzione dei sindacati fu risposto che non sarebbero stati ammessi in sala. Il vicesindaco socialista Enzo Biffi Gentili fu accolto a fischi e urli: “Tornatene in Russia”. Era questo il clima in quel braccio di ferro andava molto oltre la posta ufficialmente in gioco. Quella vertenza Fiat, che resterà per sempre nella memoria storica come “i 35 giorni”, aveva in realtà due aspetti, uno riguardava le scelte aziendali, l’altro, persino più rilevante, aveva invece una rilevanza politica di più ampio respiro: si trattava di chiudere con una battaglia campale il lunghissimo ciclo di agitazioni operaie che proseguiva sin dalla primavera del 1969. Era una guerra e come tale la interpretava Romiti e si era attrezzato ad affrontarla, co- amministratore delegato insieme a Umberto Agnelli sino al 31 luglio 1980, poi ad unico. L’offensiva era stata preparata a lungo e meticolosamente, come ha raccontato con dovizia particolari lo stesso Romiti a Giampaolo Pansa nel libro- intervista Questi anni alla Fiat. Un anno prima, nell’ottobre del 1979, 61 operai tra i più attivi nei conflitti sindacali alla Fiat erano stati licenziati con una motivazione volutamente molto vaga, “comportamenti non consoni alla civile convivenza nei luoghi di lavoro”. Si alludeva a comportamenti violenti ma anche al sospetto, infondato tranne che per 4 casi, di far parte delle organizzazioni armate. Quei licenziamenti, spiegherà poi Romiti, erano un test fondamentale. Se fossero passati sarebbe stato il segno che si poteva azzardare un attacco al sindacato su vasta scala. Per questo la Fiat aveva lavorato di fino, individuando solo nomi che non potessero essere difesi per motivi umanitari, come genitori anziani a carico ecc. Il licenziamento passò, secondo Romiti, smentito però da Bertinotti, con una sorta di tacita complicità da parte di Lama. L’anno seguente arrivò puntuale l’affondo, deciso dalla Fiat in netto contrasto con il potere politico, che temeva l’esplosione di una nuova conflittualità operaia, ma con il pieno e determinante appoggio di Enrico Cuccia e dunque di Mediobanca. Il 5 settembre la Fiat annunciò la cassa integrazione a zero ore per 24mila dipendenti, 22mila operai e 2mila impiegati. I sindacati rifiutarono. L’ 11 settembre la Fiat decise allora il licenziamento secco di 14.469 lavoratori. Il primo licenziamento di massa dal 1956. L’Flm, il sindacato unitario metalmeccanico, dichiarò lo sciopero a oltranza il 13 settembre e si formarono subito quei picchetti ai cancelli contro i quali protestavano “i quarantamila”. Il 6 ottobre la Fiat ritirò i licenziamenti e propose invece 23mila casse integrazioni, tra le quali figuravano tutti gli operai politicamente e sindacalmente più impegnati. Era una mossa diplomatica. Tutti, a partire da Romiti, sapevano che quegli operai in fabbrica non sarebbero più rientrati, ma l’immagine ‘ dialogante’ dell’azienda ne usciva molto rinsaldata, col risultato di dividere il fronte avversario. Il Pci torinese, nonostante il noto intervento di Berlinguer del 26 settembre in cui il segretario del Pci si era detto pronto ad appoggiare un’eventuale occupazione della fabbrica decisa dagli operai, era favorevole ad accogliere la proposta. I sindacati insistevano per la cassa integrazione a rotazione. Il “consiglione” di fabbrica di Mirafiori insisteva per una linea intransigente. Il responsabile del partito per le fabbriche, Piero Fassino, racconterà poi di aver “cercato di convincere il sindacato ad accettare l’offerta”. Secondo la ricostruzione di Claudio Sabbatini, allora responsabile del settore auto per l’Flm, nella notte tra il 13 e il 14 ottobre l’incontro a Roma tra i segretari dei Cgil, Cisl, Uil e Flm da un lato, Romiti, Callieri e Annibaldi dall’altro, assente il governo che si era dimesso il 27 settembre, si era concluso con un accordo quasi totale sulla cassa integrazione a rotazione. A far saltare quell’accordo fu proprio la manifestazione dei capi. “Le cose che ci siamo detti fino a questo momento non valgono più perché quello che è avvenuto stamattina a Torino modifica tutto il quadro della situazione”, avrebbe spiegato, secondo il racconto di Sabbatini, Romiti dopo essere stato messo al corrente della marcia. L’accordo fu concluso a quel punto in tutta fretta. Il sindacato, nonostante il verdetto del consiglio di fabbrica di Mirafiori accettò le condizioni della Fiat, i licenziamenti mascherati da cassa integrazione. I leader sindacali furono duramente contestati. Molti operai strapparono la tessera dell’Flm. La sconfitta non fu solo campale ma definitiva. Il sindacato non si riprese più dal colpo. Arisio ricevette i complimenti del presidente Reagan e fu eletto deputato con il Pri e il sostegno diretto di Susanna Agnelli nel 1983. Undici anni dopo a fare le spese lella cassa integrazione Fiat sarà suo figlio, militante Cgil, e l’ex capo commentò allora con una certa amarezza le scelte dell’azienda. Una nube passeggera. Nel 2010 il leader della ‘ marcia dei quarantamila’ si disse pronto nonostante l’età a organizzare una manifestazione simile a sostegno di Marchionne a Pomigliano. Pochi mesi fa, l’ormai novantaduenne ex capo, che ancora sfoggia i baffoni a manubrio che lo rendevano inconfondibile all’epoca dei fatti, riassumeva così quella vicenda: “Era una marcia per la libertà”.

Gli antifascisti alzano il tiro "Uccidere Salvini non è reato". A Milano si inneggia all'uccisione del ministro. Dagli insulti alla Lega alle bombe nelle sedi: è un'escalation di violenze, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 16/11/2018, su "Il Giornale". Uno dietro l'altro ormai si fatica a contare gli insulti rivolti a Matteo Salvini. Non solo di centri sociali e antagonisti, s'intenda. Al festival del democraticissimo dileggio del leghista si sono iscritti anche intellettuali (o presunti tali) e scrittori. Uno tra tutti il solito Roberto Saviano, noto per aver vergato la definizione di ministro della Malavita. Contro l'inquilino del Viminale tutto sembra lecito. Legittimato dall'antifascismo militante, dalla difesa dei migranti, dalla battaglia contro il (presunto) odio seminato dal Carroccio. Rapper, attori, vignettisti. Potremmo citare il "Salvinimerda" di Asia Argento, oppure il sempreverde Oliviero Toscani e quel suo "faccia da stupratore" riferito al ministro in prima pagina sul Time. Ma è inutile indugiare oltre con un elenco che potrebbe risultare pure noioso. Gli insulti passano, sono le minacce a preoccupare. E spesso le due cose sono collegate. Gemitaiz (pare sia un rapper) augurò chiaramente "il peggio" al povero Salvini e poi confessò al mondo che se mai dovesse morire allora farà "una festa". Ma che bei modi. Metodi di per sé pericolosi, perché in grado di avviare una spirale pericolosa. Se il leghista diventa il nemico da abbattere, se è una "feccia", una "faccia da stupratore", una "merda" e via dicendo, non è detto che un giorno qualcuno non li prenda sul serio. E decida di dare il via alla "festa" di Gemitaiz. In ambito antagonista l'odio chiama odio ed è alto il rischio di un'escalation di violenza. In Emilia Romagna qualcuno ha pure realizzato una schedatura degli avversari politici con nomi, cognomi e indirizzi. Un precedente pericoloso lo conosciamo: i tetri schedari redatti da Avanguardia Operaia negli anni di piombo. Allora i "compagni" misero insieme 10mila cartelle con foto e dati di presunti militanti neofascisti. E di attentati, morti e assalti non ne mancarono. "Uccidere un fascista non è reato", urlavano gli antifa di allora. E lo stesso fanno i (finti) rivoluzionari di oggi. Solo che sulla forca invece dei fasci elevano Salvini e i leghisti in generale. In fondo lo hanno detto e fatto più volte: a Pavia ad aprile in un cartellone apparve la testa del ministro tagliata e impiccata a testa in giù; a Firenze hanno gettato un suo manichino nell'Arno. Solo provocazioni? No. Pericolosi precedenti che oggi sono arrivati al loro massimo: "Uccidere Salvini non è reato", hanno urlato gli studenti a Milano e Roma, bruciando le bandiere della Lega e impiccando un fantoccio del leghista. Orribile emulazione della caccia al fascista degli anni '70. I "nipotini" (politici) dei firmatari del manifesto contro il commissario Calabresi dovrebbero sapere quali sono i rischi di una simile escalation. Ieri come oggi. Per chi ha la memoria corta, a giugno in tre giorni vennero piazzati due ordigni di fronte ad altrettante sedi della Lega a Treviso. Mentre a ottobre in Trentino gli anarchici lasciarono una bomba in occasione dell'arrivo di Salvini. Occhio, perché ad armare la mano di qualcuno ci vuole poco.

"Il ritorno del fascismo? Lo alimenta solo la sinistra". Lo scrittore Buttafuoco interviene sul tema dopo l'articolo di Ezio Mauro, scrive Matteo Sacchi, Sabato 17/11/2018 su "Il Giornale". Ieri su Repubblica l'ex direttore Ezio Mauro ha pubblicato una lunga articolessa intitolata La lunga marcia della cosa nera che dedica largo spazio all'avanzata dei populismi che, per Mauro, sono «destra al cubo» nel senso che stravolgono e distorcono anche i valori di compassione del «buon conservatore occidentale» (non avevamo precedente contezza del fatto che Mauro considerasse buoni i conservatori). Nel testo non mancano punture anche a sinistra, a partire dalla banalizzazione della Resistenza o dallo schiacciamento sulla globalizzazione. L'analisi, comunque, prende atto del risultato: «C'è una formula che riassume tutto questo, il mondo è senza un tetto, in questo mondo scoperchiato il cittadino torna individuo, si sente esposto e cerca protezione, sicurezza, tutela, magari rifugio, anche solo riconoscimento». Argomenti strani, soprattutto su un giornale abituato a presentare, giusto per fare un esempio, i fenomeni migratori solo e soltanto come un arricchimento multiculturale capace di spaventare solo dei trogloditi, che non capiscono le sorti magnifiche e progressive dell'apertura dei confini. Ne abbiamo parlato con un intellettuale, multiforme e difficilmente etichettabile come Pietrangelo Buttafuoco che conosce molto bene la storia della destra italiana (quindi specularmente quella della sinistra) e le sue molte evoluzioni.

Buttafuoco, cosa pensa delle riflessioni di Ezio Mauro sulla «Cosa nera»?

«Guardi, io l'ho trovato un articolo onesto. Riconosce una pluriennale défaillance culturale della sinistra e, secondo me, aprirà un dibattito all'interno della stessa Repubblica. Ci sono due presupposti importanti presi in esame nell'articolo. Il primo è che il fenomeno in corso sta uccidendo la stessa destra. Il secondo è, invece, la presa d'atto che un certo antifascismo stantio e d'accatto è stato dannosissimo e ha contribuito a creare la situazione attuale».

In che senso?

«L'uso di un antifascismo fasullo, di un antifascismo in assenza di fascismo ha portato alla creazione di uno stato di allucinazione. È stato questo stato distorto di percezione della realtà della sinistra a produrre questi mostri. Basta pensare a quello che abbiamo visto a Predappio il 28 ottobre. Tu evochi continuamente il mostro, il nemico... Lo evochi e lo evochi e lo rievochi... E poi, ovviamente, il disadattato, il privo di identità, ne assume la forma. Si veste con un orbace finto, diventa l'urlatore becero e violento che si vuole che diventi... Incarna la possibilità di essere qualcosa che gli hai regalato. Questo antifascismo d'accatto fa come l'apprendista stregone, evoca proprio quello che vorrebbe esorcizzare...».

Manca una volontà di capire e contestualizzare la storia?

«È un fenomeno tutto italiano, c'è un dopoguerra eterno da cui non si riesce ad uscire. Al Paese è stato negato un percorso di pacificazione. Una guerra civile infinita senza nessuna analisi dei fatti. E da qui l'allucinazione e soprattutto la mancata analisi di un'epoca in cui ci sono stati anche fenomeni culturali importanti, uno sviluppo architettonico incredibile, le trasvolate, Petrolini... Niente, tutto rimosso, schiacciato tra l'antifascista di comodo e il cretino in orbace... Eppure in quel passato ci sono i nostri nonni».

Però anche Repubblica in questo antifascismo, mi permetta, ha sguazzato... O no?

«Sì, in questo articolo c'è, secondo me, un chiaro cambio di rotta di Mauro, una presa di distanza da certe prime pagine. Per come lo leggo io è anche la presa d'atto, magari non ancora elaborata sino in fondo che la cosa di nera è figlia degli atteggiamenti alla Zerocalcare, alla Murgia. Del vuoto di una sinistra che, non avendo niente da proporre, non avendo un progetto sociale, si schiaccia sull'emotività. Così evita, evocando un nemico che non c'è, il fastidio di un progetto... L'articolo può essere un punto di partenza per smontare questa impostura».

Crede che ne nascerà un dibattito?

«Spero proprio di sì, vista l'autorevolezza della firma. La sinistra è zeppa di contraddizioni e priva di una vera analisi. E lo è molto più adesso di quanto lo fosse nel primissimo dopoguerra. La sinistra vera, quella di Togliatti e di Trombadori, per il versante culturale, non si piegò mai ad un antifascismo fru-fru. Aveva ben chiaro quanto e quanti fossero da recuperare all'interno del fascismo. Lo aveva ben chiaro dal famoso appello del '36 ai fratelli in camicia nera. Cercarono casa per casa i membri della precedente intellighenzia, per reclutarli. Non voglio evocare Lenin ma che senso ha una sinistra tutta emozionale, che parla di diritti senza specificarli mai... Nel vuoto invoca il mostro. Finge di esorcizzare il nemico e lo genera. Ovviamente è un nemico adeguato. Becero, disadattato, ghignante. C'è il continuo ricorso al monito ma mancano indirizzi, è una deriva infantile».

Cacciari in questo giorni, parlando alla platea del Pd, ha detto che dal sociologismo d'accatto del mondo liquido al populismo il passo è breve...

«Io preferisco indirizzare la riflessione verso un altro ambito. Per me esiste un problema molto concreto. La contemporaneità necessita di linguaggi inediti. Accettiamo anche, semmai, la semplificazione che il fascismo possa essere di destra e il comunismo di sinistra... Ma queste definizioni ci costringono comunque all'archeologia politica. Senza un linguaggio radicalmente nuovo siamo costretti ad analisi residuali che sono soltanto un passatempo sterile».

Abbiamo parlato della sinistra. Ma non bisogna essere indulgenti. La destra in tutto questo? È davvero sorpassata dal treno populista?

«La destra in questo momento non esiste. È chiusa in un cortocircuito da cui non riesce ad uscire. È incastrata nell'impossibilità di conciliare un certo occidentalismo, fatto di liberalismo e individualismo, e il deposito sapienziale dei valori della nostra civiltà. La destra dei valori non può ritrovarsi in questo occidentalismo. In un mondo dove la Russia riscopre tutto il peso della sua storia, dove l'India appoggia il nuovo alla sua tradizione millenaria, dove persino la Cina comunista si riscopre confuciana, la povertà dell'occidentalismo globalizzate non ci farà fare tanta strada... Persino il sovranismo, di cui adesso si parla tanto, non è accompagnato da un costrutto coerente, si limita spesso al rimpianto di un prima che non c'è più. Detto questo figuriamoci quanto possano essere coerenti le istituzioni comunitarie dell'Europa...».

C COME MAFIA DEI CAPORALI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE”. Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

La legge anti-caporalato? La fece il fascismo nel 1926. E la abolì Badoglio, scrive Antonio Pannullo, mercoledì 8 agosto 2018, su "Il Secolo d’Italia". Il “caporale” è la figura di intermediatore illegale tra latifondista e manodopera non specializzata. È una piaga presente da sempre, e in Italia si è saldata con la criminalità organizzata, soprattutto nel centrosud. La parola “caporalato” è tornata in questi giorni sotto i riflettori a causa degli incidenti che hanno visto coinvolti lavoratori stagionali stranieri in Puglia, ma è un male antico, un male “liberale”. Nel 2016 la Camera approvò la cosiddetta legge anti-caporalato, che però evidentemente non ha avuto effetto sul fenomeno, probabilmente a causa degli scarsi controlli da parte delle autorità. La rivista e blog Italia coloniale però, diretta da Alberto Alpozzi, ci ricorda che il caporalato fu combattuto e sconfitto, come la mafia del resto, dal fascismo, che nel 1926 varò la legge 563, detta “legge sindacale”, perfezionata e modificata fino al 1938 con altre norme tese a “contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione”. Italia coloniale ricorda anche che queste rivoluzionarie normative, inserite nel Codice corporativo e del lavoro fascista, valevano oltre che in Italia anche nelle colonie, cosa che contribuì ad abolire nell’Africa italiana la schiavitù e la servitù della gleba, fiorenti fino alla conquista da parte dell’Italia dell’Africa orientale.

Il caporalato era completamente scomparso. In particolare, racconta ancora l’Italia coloniale, due furono i provvedimenti più incisivi: “i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato”, provvedimenti non esistenti nella precedente legislazione liberale. Insomma, l’imprenditore poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi, dice ancora la rivista storica. In nessun caso l’imprenditore poteva assumere operai attraverso intermediatori privati, considerati dal fascismo né più né meno che parassiti sociali. Inoltre, ci dice l’Italia coloniale, le richieste di manodopera non potevano essere nominative ma numeriche, per evitare qualsiasi tipo di clientelismo. Se un lavoratore veniva licenziato senza motivo, poteva ricorrere alla Magistratura del Lavoro. Caporalato e mafia, quest’ultima grazie al prefetto Cesare Mori, furono bandire per qualche anno dall’Italia. Fino al settembre 1944, quando il governo Badoglio con il decreto 287 abolì tutte le leggi della Carte del Lavoro con le conseguenze che oggi ci troviamo a combattere.

Caporali e Operai. La legge fascista anti caporalato valida in Italia e nell’Africa Orientale, scrive Alberto Alpozzi il 18 luglio 2017 su Italiacoloniale.com. (Di Maria Giovanna Depalma). Il Caporale è una figura storica che da sempre si occupa sia di intermediazione tra proprietà agricola e manodopera – rigorosamente poco specializzata – che di reclutamento, organizzazione del lavoro, gestione delle paghe. Un sodalizio che spesso unisce la criminalità organizzata e lo sfruttamento dei lavoratori. Un giro d’affari da 17 miliardi di euro che oggi coinvolge 400 mila braccianti in tutto il territorio nazionale, pagati in media 3 euro per ogni occasione. A seguito di diverse denunce che hanno confermato una larga diffusione del fenomeno, nell’ottobre del 2016, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge anti-capolarato che prevede la descrizione del comportamento punibile e l’inasprimento delle pene già previste dall’articolo 603-bis (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro). C’è da dire, però, che questa pratica criminale è una vecchia piaga del sistema liberale, già conosciuta e combattuta dal Governo italiano a partire dal 1926 grazie alla legge n. 563 ovvero la “Legge Sindacale”. Attraverso l’attuazione dell’Art. 16 della predetta legge e di una serie di norme giuridiche varate tra il 1926 e il 1938 atte a “Contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione” venne attuata una vera e propria rivoluzione sia in campo economico che sociale. Ovviamente queste leggi -previste dal Codice Corporativo e del Lavoro – valevano sia nella Madre Patria che nelle Colonie, sia per i lavoratori coloni che per gli autoctoni, abolendo così anche forme di schiavitù o servitù della gleba nell’Africa Orientale Italiana. Furono due, in particolare, i provvedimenti più incisivi in termini di organizzazione del lavoro e tutela dei lavoratori (non contemplati nel sistema liberale vigente in precedenza): i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato. Gli elementi essenziali di questi contratti stabilivano: il periodo di prova del lavoratore, la misura e le modalità di pagamento della retribuzione, l’orario di lavoro, il riposo settimanale, il periodo annuo di riposo feriale retribuito, i rapporti disciplinari, la cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza colpa, il trattamento dei lavoratori in caso di malattia o richiamo alle armi (Legge n.1130/1926). Invece per combattere il fenomeno del caporalato, seguendo i principi sanciti dalle dichiarazioni XXII e XXX della “Carta del Lavoro”, si utilizzarono gli uffici di collocamento (Legge n. 1103 del 28 marzo 1928). Questi enti funzionavano a 360 gradi: servivano sia a controllare il fenomeno dell’occupazione e della disoccupazione (indice complessivo della produzione e del lavoro) che a tutelare gli operai dai caporali. L’imprenditore, infatti, poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi. In tal modo l’imprenditore non poteva più assumere gli operai attraverso dei mediatori privati, che lucrando sui bisogni dei lavoratori, esercitavano una vera e propria funzione di parassiti. Per di più, con la “Riforma del Collocamento” attuata con il decreto-legge n. 1934 del 21 dicembre 1934, gli uffici assunsero anche la funzione pubblica di controllo: attraverso gli organi territoriali preposti, accertavano che l’obbligo di avviamento al lavoro per il tramite degli uffici di collocamento fosse rispettato da tutti i lavoratori. Solo in casi di urgente necessità (allo scopo di evitare danni alle persone alle materie prime, o agli impianti) fu data facoltà ai datori di lavoro di assumere direttamente la mano d’opera con l’obbligo, però, di darne comunicazione entro tre giorni all’ufficio di collocamento competente. Successivamente, nel 1935, il Governo sancì un’ulteriore regola per gli imprenditori: la richiesta di manodopera non doveva essere più nominativa ma numerica, indispensabile ai fini di un’equa distribuzione del lavoro tra gli operai ed evitare qualsiasi rapporto di clientelismo. Per i datori di lavoro, tra l’altro, vigeva l’obbligo di denunciare entro 5 giorni, sempre presso gli uffici competenti per territorio e per categoria, i lavoratori che per qualsiasi motivo cessavano il rapporto di lavoro. Anche in questo caso l’azione dello Stato fu lungimirante: se il lavoratore veniva licenziato ingiustamente aveva facoltà di ricorrere presso la “Magistratura del Lavoro”, organo competente nella risoluzione delle controversie tra datore di lavoro e operai. Tutto questo cessò di esistere il 14 settembre 1944 quando il Governo Badoglio con il decreto n. 287 abolì tutte le leggi (comprese quelle anti-capolarato) che avevano preso forma nella Carta del Lavoro attuando la rivalsa del sistema liberale nei confronti di quello corporativo e ripristinando quel principio economico basato sull’espansione del singolo individuo – senza limitazioni di sorta pur di accrescere la propria ricchezza – anche a scapito della collettività e della giustizia sociale. Di Maria Giovanna Depalma.

In una circolare fascista la tutela dei lavoratori somali che i sindacati di oggi dovrebbero leggere, scrive Alberto Alpozzi il 29 maggio 2017 su Italiacoloniale.com. A Genale, poco a sud di Mogadiscio, quando la Somalia era chiamata italiana, vi era la sede dell’Azienda Agricola Sperimentale. Qui, negli ’20 e ’30 del ‘900, si trovava una vasta zona di concessioni agricole, sorrette dal Governo italiano. Le concessioni si estendevano su 30.000 ettari per la coltura del cotone, resa possibile dalla grande diga di sbarramento dell’Uebi Scebeli e dalle numerose canalizzazioni che il Regno d’Italia aveva realizzato. Vi si coltivavano, oltre al cotone, anche la canna da zucchero, il sesamo, il ricino, il granoturco, la palma, il capok e soprattutto le banane. La prima azienda sperimentale a Genale venne creata nel 1912 da Romolo Onor che vi condusse i primi studi tecnici ed economici sull’agricoltura in Somalia. Nel 1918, alla sua morte l’Azienda cadde in disgrazia e quasi abbandonata. Fu il primo Governatore fascista, il Quadrumviro della marcia su Roma, Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon che ne intuì l’importanza e la risollevò, facendone un grosso centro di colonizzazione unico nel suo genere. Fu infatti il primo esperimento di colonizzazione sorretto totalmente dallo Stato, assegnando i terreni a coloni italiani. L’Ufficio Agrario e l’ufficio di Colonizzazione ordinavano e disciplinavano le concessioni e curavano e distribuivano l’acqua per l’irrigazione. Il Governatore de Vecchi fece studiare anche un nuovo sistema di irrigazione in derivazione del fiume Uebi Scebeli per distribuire omogeneamente l’acqua in tutto il comprensorio, facendo realizzare una nuova diga, lunga 90 metri, in sostituzione di quella vecchia ormai fatiscente. Insieme alla diga, inaugurata il 27 Ottobre 1926, vennero realizzati un nuovo canale principale di 7 chilometri e cinque secondari, creando complessivamente una rete di 55 chilometri di nuove canalizzazioni, insieme a 200 chilometri di strade camionabili terminate poi nel 1928. Parallelamente alle opere per l’irrigazione l’intero comprensorio, circa 18 mila ettari, venne indemaniato, inquadrato e colonizzato, suddividendolo in 83 concessioni divise in cinque zone. Ma come funzionava la manodopera nelle concessioni e quali erano le direttive del governatore fascista per gestire il comprensorio?

Così scriveva il de Vecchi in una CIRCOLARE del 14 GIUGNO 1926 (vedi “Orizzonti d’Impero”, Mondadori 1935, pagg. 320-327)indirizzata al Residente di Merca: “Le popolazioni indigene hanno risposto allo sforzo dello Stato con una ubbidienza, una disciplina ed uno slancio, di cui non si può a meno di tenere conto oggi ed in avvenire, quando si ricordi che appena poco più di due anni addietro il Governo stentava a mettere assieme in questa regione duecento uomini per il lavoro dei bianchi, che si rassegnavano a lasciar perire ogni impresa per la deficienza della mano d’opera, mentre oggi abbiamo al lavoro nella zona circa settemila persone, senza che mai avvenga il benché minimo incidente da parte delle masse lavoratrici, buone, serie e fedeli; si deve avere ragione di profondo compiacimento, sia per i risultati della politica compiuta, sia per il giudizio sulle popolazioni.” […] Molti dei concessionari, invece di comprendere tutto ciò e di sforzarsi di rimanere nella loro funzione, materialmente la più proficua senza dubbio, di parti di una grande macchina, sono portati da un male inteso individualismo, dominato da un egoismo gretto e da non poca protervia, a credersi ciascuno creatore, operatore e centro della risoluzione di un problema che invero è stato risolto soltanto dal dono fondamentale dell’acqua, della terra e della organizzazione delle braccia che la lavorano, e cioè della Stato per tutti. […] Il Governo ed il Governatore hanno un solo interesse: quello del popolo italiano e cioè quello di tutti. Ogni singolo è parte dello Stato. […] Ho riservata da ultima la questione delle mano d’opera. Ho detto più sopra che il Governo della Colonia ha creduto opportuno di organizzare e guidare questo servizio, ottenendo così quello che può essere ritenuto un miracolo in confronto ai convincimenti prima radicatasi in Colonia ed in Patria nella materia. La soluzione, così pronta e così ferma, del problema ha indotto la massima parte dei concessionari ad attendersi tutto dal Governo ed a credersi in diritto di pretendere che quegli vi provveda ora e sempre, secondo aliquote fisse o variabili createsi nella fantasia degli interessati. Avviene assai spesso di sentir parlare di “proprio spettanza”, di “propria mano d’opera”, di “assegnazione ordinaria o straordinaria”, di “gente che scappa”, di “forza presente”, come se ciascun bianco che arriva qui dall’Italia, per la semplice ragione di aver fatto un viaggio per mare e di aver ottenuto in uso un pezzo di terreno, avesse pieno diritto di tenere per forza al suo servizio un certo numero di indigeni e di pagarlo o non pagarlo se e come crede, e di trattarlo… come purtroppo è avvenuto. Non mi fermo sulla questione del trattamento limitandomi a ricordare che in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri; che il Giudice della Colonia conosce molto bene il suo dovere e che io sono fermamente deciso a non ammettere da chicchessia la benché minima violazione della legge. Ma la precisa informazione che qui intendo dare perché tutti la conoscano, si è che non tarderanno molto tempo ad essere emanate altre chiare disposizioni di legge protettive del lavoro e quindi della mano d’opera anche agricola nella intera Colonia, e che la organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso e servizio di privati.” Singolare come nessun libro di storia coloniale abbia mai ripreso questa circolare fascista, fascistissima, del 1926 del Governatore de Vecchi a tutela dei lavoratori somali, affinché non venissero sfruttati e maltrattati, che non si creasse una qualsivoglia forma di sfruttamento o di caporalato e che sottolineava come in Colonia vigesse il Codice Penale italiano e che era valido per bianchi e neri.

LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.

Processo alla stampa. Un nuovo capitolo riempie il saggio “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE. CENSURA ED OMERTA’”. Il libro di Antonio Giangrande.

La cronaca è fatta di paradossi. Noi avulsi dalla realtà, manipolati dalla tv e dai giornali, non ce ne accorgiamo. I paradossi sono la mia fonte di ispirazione e di questo voglio rendere conto.

In Italia dove tutto è meretricio, qualche ipocrita fa finta di scandalizzarsi sull’esercizio della professione più antica del mondo. L’unica dove non si ha bisogno di abilitazione con esame di Stato per render tutti uniformi. In quell’ambito la differenza paga.

Si parla di sfruttamento della prostituzione per chi, spesso, anziché favorire, aiuta le prostitute a dare quel che dagli albori del tempo le donne danno: amore. Si tace invece della riduzione in schiavitù delle badanti immigrate rinchiuse in molte case italiane. Case che, più che focolare domestico, sono un vero e proprio inferno ad uso e consumo di familiari indegni che abbandonano all’ingrato destino degli immigrati i loro cari incapaci di intendere, volere od agire.

Di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

Un esempio. Una domenica mattina di luglio, dopo una gara podistica a Galatone in provincia di Lecce, nel ritorno in auto lungo la strada Avetrana-Nardò insieme a mio figlio ed un altro amico intravediamo sedute sotto il solleone su quelle sedie in plastica sul ciglio della strada due figure familiari: le nostre vicine di casa. Non ci abbiamo mai parlato, se non quando alla consuetudinaria passeggiata serale di uno dei miei cani una di loro disse: che bello è un chow chow! Ciò me li rese simpatiche, perché chi ama gli animali sono miei amici.

Poi poverette sono diventate oggetto di cronaca. I loro nomi non c’erano. Ma sapevo trattarsi di loro.

“I carabinieri di Avetrana hanno denunciato un 31enne incensurato poiché sorpreso mentre prelevava due giovani rumene dal loro domicilio di Avetrana per condurle a bordo della sua autovettura, nella vicina località balneare di Torre Lapillo del comune di Porto Cesareo (Le), dove le donne esercitavano la prostituzione - scrivevano il 22 agosto 2014 “La Voce di Manduria” e “Manduria Oggi” - I militari, che da diversi giorni monitoravano gli spostamenti dell’uomo, ieri mattina, dopo aver pedinato a bordo di auto civetta, lungo tutto l’itinerario che dal comune di Avetrana conduce alla località balneare salentina, decidevano di intervenire bloccando l’autovettura con a bordo le due giovani ragazze ed il loro presunto protettore, proprio nel punto in cui le donne quotidianamente esercitavano il meretricio. Accompagnati in caserma, le rumene di 22 anni sono state solo identificare mentre l’uomo è stato denunciato in stato di libertà alla Procura della Repubblica di Taranto, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Lo stesso è stato inoltre destinatario del foglio di via obbligatorio dal comune di Avetrana per la durata di tre anni.”

Tutto a caratteri cubitali, come se fosse scoppiato il mondo. E’ normale che succeda questo in una Italia bigotta e ipocrita, se addirittura i tassisti sono condannati per aver accompagnato le lucciole sul loro posto di lavoro e ciò diventa notizia da pubblicare. Le stesse ragazze erano state oggetto di cronaca anche precedentemente con un altro accompagnatore.

“Ai domiciliari un 50enne di Gallipoli per favoreggiamento della prostituzione. Le prostitute, che vivono ad Avetrana, venivano accompagnati lungo la strada per Nardò,” scriveva ancora il 18 luglio 2014 “Manduria Oggi”.

“Accompagnava le prostitute sulla Nardò-Avetrana in cambio di denaro. Ai domiciliari 50enne gallipolino”, scriveva il 17 luglio 2014 il “Paese Nuovo”.

“I militari della Stazione di Nardò hanno oggi tratto in arresto, in flagranza di reato, MEGA Giuseppe, 50enne di Gallipoli, per il reato di favoreggiamento della prostituzione. Nell’ambito dei controlli alle ragazze che prestano attività di meretricio lungo la provinciale che collega Nardò ad Avetrana, i Carabinieri di Nardò, alcune settimane orsono, avevano notato degli strani movimenti di una Opel Corsa di colore grigio. Pensando potesse trattarsi non di un cliente ma di uno sfruttatore o comunque di un soggetto che favorisse la prostituzione, i militari hanno iniziato una serie di servizi di osservazione che hanno permesso di appurare che il MEGA, con la propria autovettura, accompagnava sul luogo del meretricio diverse ragazze, perlopiù di etnia bulgara e rumena. I servizi svolti dai militari di Nardò hanno permesso di appurare che quotidianamente il MEGA, partendo da Gallipoli, si recava in Avetrana, dove le prostitute vivevano e ne accompagnava alcune presso la provinciale Nardò – Avetrana, lasciandole lì a svolgere il loro “lavoro” non prima però di aver offerto loro la colazione in un bar situato lungo la strada. Per cui, avendo cristallizzato questa situazione di palese favoreggiamento dell’attività di prostituzione, nella mattinata odierna i militari di Nardò, dopo aver seguito il MEGA dalla sua abitazione e averlo visto prendere le due prostitute, lo hanno fermato nell’atto di lasciarle lungo la strada e lo hanno portato in caserma assieme alle due ragazze risultate essere di nazionalità rumena. Queste ultime hanno confermato di svolgere l’attività di prostituzione e di pagare il MEGA per i “passaggi” che offre loro. Viste le risultanze investigative, il MEGA è stato tratto in arresto per favoreggiamento della prostituzione e, su disposizione del P.M. di turno, dott. Massimiliano CARDUCCI, è stato posto ai domiciliari presso la sua abitazione”.

Come si evince dal tono e dalla esposizione dei fatti, trattasi palesemente di una velina dei carabinieri, riportata pari pari e ristampata dai giornali. Non ci meravigliamo del fatto che in Italia i giornalisti scodinzolino ai magistrati ed alle forze dell’ordine. E’ un do ut des, sennò come fanno i cronisti ad avere le veline o le notizie riservate e segrete.

Fatto sta che le povere ragazze appiedate, (senza auto e/o patente) proprio affianco al dr Antonio Giangrande dovevano abitare? Parafrasi prestata da “Zio Michele” in relazione al ritrovamento del telefonino: (proprio lo zio lo doveva trovare….). Antonio Giangrande personaggio noto ai naviganti web perché non si fa mai “i cazzi suoi”. E proprio a me medesimo chiedo con domanda retorica: perché in Italia i solerti informatori delegati non fanno menzione dei proprietari delle abitazioni affittate alle meretrici? Anche lì si trae vantaggio. I soldi dell’affitto non sono frutto delle marchette? Silenzio anche sui vegliardi, beati fruitori delle grazie delle fanciulle, così come il coinvolgimento degli autisti degli autobus di linea usati dalle ragazze quando i gentili accompagnatori non sono disponibili.

Un fatto è certo: le ragazze all’istante sono state sbattute fuori di casa dal padrone intimorito.

Che fossero prostitute non si poteva intuire, tenuto conto che il disinibito abbigliamento era identico a quello portato dalle loro italiche coetanee. Lo stesso disinibito uso del sesso è identico a quello delle loro italiche coetanee. Forse anche più riservato rispetto all’uso che molte italiane ne fanno. Le cronache spesso parlano di spudorate kermesse sessuali in spiaggia o nelle piazze o vie di paesi o città. Ma questo non fa scandalo. Come non fa scandalo il meretricio esercitato dalle nostre casalinghe in tempo di crisi. Si sa, lo fanno in casa loro e nessuno li può cacciare, nè si fanno accompagnare. Oltre tutto il loro mestiere era usato dalle ragazze rumene per mangiare, a differenza di altre angeliche creature che quel mestiere lo usano per far carriere nelle più disparate professioni. In modo innocente è la giustifica per gli ipocriti. Giusto per saltar la fila dei meritevoli, come si fa alla posta. E magari le furbe arrampicatrici sociali sono poi quelle che decidono chi è puttana e chi no!

Questa mia dissertazione non è l’apologia del reato della prostituzione, ma è l’intento di dimostrare sociologicamente come la stampa tratta alcuni atteggiamenti illegali in modo diseguale, ignorandoli, e di fatto facendoli passare per regolari.

Quando il diavolo ci mette la coda. Fatto sta che dirimpettai a casa non ne ho. C’è la scuola elementare. Ma dall’altro lato della mia abitazione c’è un vecchio che non ci sta più con la testa. Lo dimostrano le aggressioni gratuite a me ed alla mia famiglia ogni volta che metto fuori il naso dalla mia porta e le querele senza esito che ne sono conseguite. Però ad Avetrana il TSO è riservato solo per “Zio Michele Misseri”, sia mai che venga creduto sulla innocenza di Cosima e Sabrina. Dicevo. Queste aggressioni sono situazione che hanno generato una forte situazione di stalking che limita i nostri movimenti. Bene. Il signore in questione (dico quello, ma intendo la maggior parte dei nostri genitori ormai inutili alla bisogna tanto da non meritare più la nostra amorevole assistenza) ha da sempre delle badanti rumene, che bontà loro cercano quanto prima di scappare. Delle badanti immigrate nessuno mai ne parla, né tanto meno le forze dell’ordine hanno operato le opportune verifiche, nonostante siano intervenuti per le mie chiamate ed abbiano verificato che quel vecchietto le poverette le menava, così come spesso tentava degli approcci sessuali.

Rumene anche loro, come le meretrici. Ma poverette non sono puttane e di loro nessuno ne parla. In tutta Italia queste schiave del terzo millennio sono pagate 500 o 600 euro al mese a nero e per 24 ore continuative, tenuto conto del fatto che sono badanti di gente incapace di intendere, volere od agire. Sono 17 euro al giorno. 70 centesimi di euro all’ora.  Altro che caporalato. A queste condizioni non mi meraviglio nel vedere loro rovistare nei bidoni dell’immondizia. A dormire, poi, non se ne parla, in quanto il signore, di giorno dorme e di notte si lamenta ad alta voce, per mantenere sveglia la badante e tutto il vicinato. Il paradosso è che il signore e la sua famiglia sono comunisti sfegatati da sempre, pronti, a loro dire, nel difendere i diritti del proletariato ed ad espropriare la proprietà altrui. Inoltre non amano gli animali. Ed è tutto dire.

Le badanti, purtroppo non sono puttane, ma semplici schiave del terzo millennio, e quindi non meritevoli di attenzione mediatica.

Delle schiave nelle italiche case nessuno ne parla. Perché gli ipocriti italiani son fatti così. Invece dalle alle meretrici. Zoccole sì, ma persone libere e dispensatrici di benessere. Se poi puttane non lo sono affatto, le donne lo diventano con l’attacco mediatico e gossipparo.

C COME MAFIA DEI CONCORSI PUBBLICI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CONCORSOPOLI” E “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA” Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Ricercatore si toglie la vita dopo aver denunciato un concorso truccato. Ha lasciato un biglietto per mamma e papà prima di spararsi. La polizia ora indaga, scrive Valentina Dardari, Martedì 13/11/2018, su "Il Giornale". Un ricercatore della Sapienza ha deciso di farla finita dopo aver denunciato un concorso truccato. Se n’è andato così Luigi Vecchione, con un colpo di pistola. Ha lasciato solo un biglietto di scusa per i genitori “Mamma, papà, scusatemi. Mi hanno trattato come un mafioso. Portate tutto all’avvocato Testa” ha scritto. Era residente ad Alatri, in provincia di Frosinone, dove era nato 43 anni fa. Ha trovato il suo corpo il padre, sul pavimento della seconda casa di famiglia, nella frazione di Mole Bisleti. Accanto al corpo del figlio tutti i suoi appunti su quel maledetto concorso che l’ha ucciso, in perfetto ordine. Il padre ha raccolto i documenti e ha eseguito le ultime volontà del figlio, consegnandoli all’avvocato. Vecchione, ingegnere, aveva tentato nel 2016 il concorso per diventare tecnico amministrativo di laboratorio all’Università La Sapienza, dove già stava lavorando come ricercatore con un contratto a tempo determinato. La sua speranza era il posto fisso. Nella graduatoria era andato bene, posizionandosi 5° su 12. Ma qualcosa era andato storto e non era stato assunto. Un professore gli aveva fatto i complimenti aggiungendo “hai fatto una bella figura, tenendo conto che non avevi nessuno dietro”, la registrazione della conversazione è stata consegnata all’Anac. Infatti, dopo quelle parole Vecchione si è convinto di non essere stato scelto perché privo di raccomandazioni. E che il vincitore invece ne avesse. Ha quindi deciso di presentare una denuncia all’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione. Da qui erano stati inviati tutti gli incartamenti alle procure di Roma e Viterbo come estremi di reato. Ma le indagini non hanno portato a nulla. E il contratto a tempo determinato di Vecchione, una volta arrivato al termine, non è stato rinnovato. L’ingegnere si è convinto che la decisione fosse stata presa a causa della sua denuncia. La Sapienza respinge ogni accusa, sia verso il concorso ritenuto truccato, sia rispetto alla conclusione del contratto di lavoro. Quando Vecchione si è reso conto che il sogno della sua vita era ormai naufragato non ha retto e ha deciso di farla finita. Ora tutto è in mano alla polizia che ha dato il via alle indagini.

Concorsi truccati in Forze dell’Ordine e Forze Armate: lo scandalo si allarga, scrive venerdì 31 agosto 2018. Soldi in cambio di spintarelle per superare le selezioni nell’Esercito, nella Marina, nei Carabinieri, nella Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria. Insomma, per i concorsi truccati, ci sono ancora altri indagati. Ne parla Casertace. Esistono, al momento, tre filoni di indagini, dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere e che ha portato all’arresto, lo scorso 9 agosto dell’impiegato civile del Pirotecnico di Capua di G.Z; il secondo filone che prende il via dalle indagini della Procura di Napoli; il terzo, di cui fino ad oggi non abbiamo mai scritto, è nelle mani della Procura della Repubblica di Roma. All’interno di queste indagini sono coinvolti anche altissimi ufficiali, a quanto pare generali dell’esercito e un’attività continua e sistematica di raccomandazioni per concorsi viziati che, in qualche modo coinvolgono, chi più, chi meno la provincia di Caserta. Secondo le accuse, i candidati risultati promossi erano quasi tutti di Aversa, San Prisco, Marcianise, Maddaloni e dell’area napoletana. Tante le selezioni con presunti brogli nel periodo considerato dalle indagini che va dall’anno 2015 fino all’anno 2018. Sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza i risultati delle prove. Le perquisizioni effettuate nei mesi scorsi, con il sequestro di tanto materiale (computer, pen drive ecc…) hanno portato ad allargare il cerchio delle indagini. Nelle indagini di Santa Maria Capua Vetere, insieme a G.Z. sono indagate altre sei persone. Per quanto riguarda l’inchiesta della Procura di Napoli, con atto firmato dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e dal Pm Stefania Buda, ha chiesto e ottenuto dal Gip la proroga delle indagini per un elenco di indagati formato da 14 persone per le quali la Procura di Napoli. Tanti insospettabili che gestivano pure le scuole di formazione nella provincia di Caserta e Napoli. Un nome che ha destato scalpore è stato quello del generale di brigata C.F. che si sarebbe adoperato «per reperire le tracce delle prove scritte utili al superamento dei concorsi». A destare sospetti erano stati i risultati dei test: troppo alta la concentrazione dei candidati che hanno ottenuto una votazione superiore al “nove” e che provenivano dalla nostra provincia, da quella di Napoli e dalle altre campane. A rendere più incandescente il clima, una serie di ricorsi al Tar presentati dai concorrenti non raccomandati. I nomi degli indagati per i quali è stata chiesta la proroga delle indagini sono, oltre a C.F.: G.P., napoletano, che lavora presso l’ufficio di Foligno del Centro di selezione nazionale per reclutamento nell’Esercito. Per la Guardia di Finanza, per le scuole di formazioni della “Napoli 2000 Coop” e l’associazione “Medifuturo” di Afragola, sono indagati R.R.e L.V.. Per il centro studi “Adam Smith”, Con sede a Marigliano, è indagato S.V.. Sotto accusa anche in questo filone di indagine, quindi indagato, il dipendente del Pirotecnico di Capua G.Z., di Capodriose, punto di riferimento nel casertano e che compare nelle diverse indagini dei concorsi truccati sia nella Procura sammaritana che in quella di Napoli. Sotto accusa S.G.. Per Casalnuovo e Castello di Cisterna, sono indagati A.O ed M.R.. N.C. per Napoli e Aversa. R.D. per Nocera Superiore e M.D.C. di Villa Di Briano. Altri tre devono essere identificati.

Concorsi in Polizia e nella Guardia di Finanza: molti concorrenti conoscevano in anticipo le domande. Perquisizioni, scrive il 23 Agosto 2018 Tina Palomba su Caserace.net. Continuiamo ad occuparci della grande inchiesta, perchè è tale sia come quantità degli elementi investigativi raccolti, sia come qualità rispetto al malaffare dei colletti bianchi e di esponenti della pubblica amministrazione corrotti, portata avanti da tempo dalla Procura della Repubblica di Napoli. Abbiamo acquisito altre informazioni in uno scenario complesso, visto che gli indagati, almeno una 30ina tra la provincia di Caserta e quella Napoli, hanno saputo di essere tali dalla notifica dell’avviso dell’inchiesta, formulata dalla Procura al Tribunale partenopeo, di proroga delle indagini. Possiamo affermare che dopo questa notifica gli inquirenti hanno proceduto a diverse perquisizioni (c’è un altro modo per venire a conoscenza di essere indagati) e hanno sequestrato vario materiale informatico in diverse scuole di formazione che preparavano per le prove dei concorsi pubblici. Si allarga lo scandalo per le raccomandazioni nelle Forze dell’Ordine. Secondo le accuse alcuni ufficiali e militari coinvolti fornivano “l’algoritmo” delle probabili domande che poi effettivamente uscivano il giorno della prova scritta. Si cerca anche la talpa nel Ministero che informava sulle domande. Per questa vicenda ci sono due inchieste che si incrociano. Una parte da Napoli e l’altra della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Per l’indagine casertana il Riesame per Giuseppe Zarrillo, 53enne di Capodrise finito agli arresti domiciliari 20 giorni fa, è stato fissato al 7 settembre. Si tratta di un dipendente del Ministero che lavorava presso il Pirotecnico di Capua. Insieme a lui ci sono altre sei indagati che devono rispondere a vario titolo di truffa, di abuso d’ufficio millantato credito in concorso tra di loro e sono:  Ivan Mone, 42 anni di Caiazzo dipendente del Ministero della Difesa, Andrea Nuzzo 64 anni di Maddaloni responsabile dei servizi cimiteriali a Maddaloni, Salvio Salvatore Grauso 28 anni di Maddaloni ex militare in ferma volontaria, Alessandro Pontillo 33 anni di Marcianise, Eleonora Nuzzo 33 anni di San Felice a Cancello, Antimo Di Rauso 40 anni di Capua dipendente dell’Agenzia delle Entrate. Per tutti ci sono delle indagini in corso da parte del giudice Orazio Rossi. Ci sono poi altri 30 indagati nel fascicolo della procura napoletana per i quali non vi è stata ancora la chiusura delle indagini. Punto d’incontro tra le due inchieste è sempre Zarrillo, difeso dall’avvocato Federico Simoncelli. In quella della procura partenopea cono coinvolti nella mega inchiesta anche un generale e un colonnello in pensione.

Viminale, concorso di Polizia annullato una volta per fuga di notizie. Alla seconda i candidati non sono anonimi. Il Tar del Lazio ha accolto con giudizio di merito il ricorso degli esclusi: gli obblighi di trasparenza non sono stati rispettati, e anche se magari ne può risultare un “beneficio eccessivo” i ricorrenti vanno promossi alla fase successiva. Il Tribunale amministrativo stabilisce anche un importante precedente: d’ora in avanti il ministero dovrà cambiare i meccanismi di concorso, scrive Lorenzo Vendemiale il 22 febbraio 2018 su ilfattoquotidiano.it. Avevano annullato e ripetuto da zero il concorso per agenti di Polizia, dopo la fuga di notizie sulle risposte grazie a cui tutti i candidati avevano ottenuto il massimo del punteggio. Hanno rifatto le prove, ma stavolta hanno violato il diritto all’anonimato dei candidati. Risultato: il Tar del Lazio ha accolto il ricorso degli esclusi che così saranno tutti ammessi all’ennesima ripetizione dei test. Il concorso per 559 agenti di Polizia di Stato diventa una farsa all’italiana: in realtà lo era da tempo, dopo l’esito dei quiz svolti nel 2016, con tanto di inchiesta penale tutt’ora in corso. Al centro di quell’indagine c’è la prima prova, le domande a crocette sulla cultura generale: quasi 200 candidati avevano ottenuto il punteggio massimo, non sbagliando neanche una delle ottanta risposte, mentre altri 140 circa avevano fatto un solo errore e un centinaio ne aveva commessi due. Tra coloro che avevano risposto in maniera corretta, quasi tutti risultavano residenti in Campania, stessa Regione della Società che aveva vinto l’appalto dal Ministero dell’Interno per la somministrazione dei quiz. Una serie di strane circostanze che avevano costretto il Dipartimento di Pubblica sicurezza del Viminale ad azzerare tutto per “garantire l’imparzialità delle operazioni di selezione”, con tanto di figuraccia pubblica nazionale. Di male in peggio, anche la seconda preselezione è finita in tribunale. L’esito delle prove stavolta pare regolare: gli ammessi ai test attitudinali sono stati solo 933. Il problema è un altro: il Ministero non ha rispettato l’elementare principio dell’anonimato dei candidati, previsto da qualsiasi tipo di concorso pubblico e non. Nel foglio di ingresso con tutti i partecipanti, accanto al nome compariva anche il codice segreto: poi nella busta i candidati dovevano inserire solo quest’ultimo, ma essendo stata già rivelata l’associazione in un documento visibile a tutti, chiunque avrebbe potuto risalire all’autore della prova. Una svista macroscopica che è costata la seconda bocciatura per il concorso. Il Tar del Lazio, che già si era pronunciato in questo senso con precedenti sentenze cautelare, ha accolto con giudizio di merito il ricorso degli esclusi: gli obblighi di trasparenza non sono stati rispettati, e anche se magari ne può risultare un “beneficio eccessivo” i ricorrenti vanno promossi alla fase successiva. Ma non è tutto, la sentenza del Tribunale amministrativo stabilisce anche un importante precedente: d’ora in avanti si cambia tutto nei concorsi pubblici. “La decisione – si legge nel dispositivo – avrà come ulteriore effetto l’onere per l’Amministrazione di ripensare le modalità con le quali espletare le diverse selezioni che periodicamente bandisce, individuando forme di somministrazione dei test di prova che siano scrupolosamente rispettose del principio dell’anonimato, onde evitare di incorrere in consistenti contenziosi”. La tirata di orecchi per il Ministero è completa, anche perché – come sottolineano i giudici – “le pesanti ricadute sulle casse erariali sono facilmente intuibili”. “Si tratta di una decisione importantissima su una questione di legalità: solo rispettando le garanzie di segretezza e anonimato si possono prevenire effettive violazioni, in un settore nevralgico come quello dei concorsi pubblici”, spiegano gli avvocati Santi Delia e Michele Bonetti che hanno curato il ricorso. Per il futuro, dunque, i test andranno ripensati. Intanto, però, al Viminale devono occuparsi di chiudere una volta per tutte il concorso di Polizia, che si trascina ormai da troppo tempo. La procedura era stata bandita nel gennaio 2016, e molto partecipata (oltre 14mila i candidati, a fronte di 559 posti a disposizione). A distanza di due anni, non è ancora conclusa: il primo corso per i vincitori dovrebbe iniziare il 26 febbraio, ma i ricorrenti (almeno 50 in tutta Italia) sono stati ammessi di diritto ai test attitudinali, per cui il Ministero dovrà predisporre presto delle prove suppletive. Sperando che siano le ultime.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

Le Prove. La Prova scritta.

La prova scritta è in genere un tema o una griglia di test a risposta sintetica o una prova pratica. Solitamente è svolta in 1 o più giornate differenti su materie differenti, e può essere indifferentemente un giorno un tema ed il successivo una prova pratica, o una prova a risposta sintetica ed un tema ecc. ecc. Come nella prova preselettiva al candidato vengono consegnate due buste, una con il materiale d’esame e l’altra con il cartoncino su cui indicare il proprio nome, cognome e data di nascita. Lo scritto va fatto – brutta e bella – utilizzando esclusivamente i fogli messi a disposizione, che poi il candidato inserirà nella busta grande insieme alla busta piccola (chiusa) contenente il cartoncino con le generalità. Il bando dà indicazioni sui testi che è possibile portare con sé – normalmente il dizionario di italiano ed i codici senza commenti se la prova è di tipo giuridico. Attenzione, all’ingresso i testi possono venire aperti per un controllo e, se non rispondono per qualche ragione a quanto previsto, non vengono fatti entrare. Eliminate perciò fogli di appunti, temi, schemi ecc…Evitate per quanto possibile di portare fotocopie, che possono subire la stessa sorte. Se sono proprio necessarie, portatele ben rilegate. Tenete conto che le operazioni di controllo all’ingresso possono durare a lungo, specialmente nei concorsi con grande affluenza. E’ quindi molto frequente che dall’orario di convocazione – in genere le 9 del mattino – all’ora in cui ha effettivamente inizio la prova, possono passare 2,3,4 ore. Se aggiungete a queste le ore di durata effettiva della prova, capite quanto può essere importante avere con sé qualcosa da mangiare e da bere. Solitamente non è possibile alzarsi per le prime due ore.

Domande a risposta sintetica. Si tratta di un numero limitato di domande (di solito non più di sei) che hanno, oltre alla classica opzione della risposta multipla, anche alcune righe per la risposta sintetica. E’ un tipo di prova molto comune soprattutto sulle materie giuridiche ed è un tipo di scritto abbastanza ostico. Scrivere di diritto non è facile, essere sintetici ancora meno. Il testo scritto deve essere breve (tra le dieci e le venti righe), coinciso e il più possibile chiaro. Non deve semplicemente ripetere con altri termini la risposta già scelta tra le riposte fornite dal test, ma deve aggiungere qualcosa: la motivazione della risposta già data, il contesto, casi specifici ed eccezioni, ecc. Nell’allenarsi alla prova a risposte sintetiche, è sconsigliabile tentare di imparare quelle contenute nei testi di preparazione: quasi sempre niente ritorna alla memoria al momento opportuno, mentre è utilissimo allenarsi a scrivere testi brevi, utilizzando qualunque tipo di domanda a risposta multipla.

Prova pratica. E’ una prova pratica quella ispirata alla verifica delle reali capacità operative del candidato nel ruolo specifico che gli verrà affidato. Essendo diversa da mansione a mansione è quindi qui impossibile estrapolare degli esempi (la sua applicazione va dalla multa al caso clinico). Di solito quando un concorso prevede una prova di questo tipo, le editrici specializzate inseriscono uno schema all’interno dei testi di preparazione. Il suggerimento anche qui è di utilizzare il buon senso: la prova serve a verificare quanto il candidato riesca effettivamente ad utilizzare nella pratica le nozioni che ha acquisito, quindi va benissimo imparare schemi (moduli, procedure ecc), ma questi vanno utilizzati tenendo in debito conto del quesito proposto (che come sempre va letto molto attentamente) ed anche della nozioni teoriche sottese (implicate).

Tema. Il tema è una composizione scritta abbastanza lunga ed articolata – circa 3/5 facciate di foglio protocollo - ampiamente utilizzata nelle prove di concorso. Nei concorsi per diplomati, è più spesso di cultura generale, storia, italiano; si tratta quindi di uno scritto del tipo di quelli che si fanno alle scuole superiori. In questo caso quello che conta è che l’elaborato sia in italiano corretto e che sia chiaro e non contenga informazioni errate. Se invece il tema è di argomento giuridico la faccenda cambia. Il tema di diritto mette in difficoltà un po’ tutti, chi è laureato in materie giuridiche infatti è raramente abituato a scrivere, chi ha fatto altri percorsi di studio teme di non saper utilizzare adeguatamente il linguaggio giuridico. In tutti i casi, non c’è da perdersi d’animo: ci si riabitua a scrivere semplicemente allenandosi. Certo, specialmente chi non ha un background giuridico fa bene a seguire dei corsi, per affinare la terminologia in modo da non incorrere in errori concettuali gravi. Se chiarezza e completezza sono le carte vincenti, non vanno dimenticate la calligrafia – che deve essere il più possibile leggibile, e la lunghezza totale, che non deve essere eccessiva.

Diario di un commissario del concorso per magistrato: i trucchi per copiare, dal bagno alla nursery, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24ore”. Nelle ore immediatamente successive alla prova scritta per un posto da magistrato, uno dei 29 commissari, ha voluto riassumere in quattro paginette di appunti la sua esperienza al padiglione fieristico di Rho-Pero e aggiungere alcuni suggerimenti per rendere meno macchinosa, più corretta e trasparente la selezione dei togati. Ecco alcuni passi degli appunti del commissario, una probabile traccia per l'audizione davanti alla IX commissione del Csm. Durante i tre giorni delle prove scritte, a seguito di violazioni delle regole concorsuali, la commissione ha deciso diverse espulsioni, pare 70, anche se non conosco il numero esatto. Io stesso ho espulso un buon numero di candidati in poche ore. La maggior parte delle irregolarità consisteva nella detenzione di testi non consentiti. Ho sentito dire da più parti che con ogni evidenza il controllo dei codici non ha funzionato. Ma è proprio così? Per non drammatizzare inutilmente, basterebbe un semplice conteggio: ogni concorrente si presenta alla prova scritta con almeno 5 "pezzi" tra codici, raccolte di leggi, stampe da Internet ecc. Moltiplicando questa cifra (ottimistica) per 5.600 partecipanti, risulta che noi commissari abbiamo controllato non meno di 28mila testi. Se solo 2 su 1.000 sono sfuggiti al controllo – frazione senz'altro fisiologica se non virtuosa – possiamo concludere che una sessantina di casi sono apparentemente tanti, ma sono invece relativamente pochi. Esistono molte edizioni dei codici, quasi tutte volutamente ai limiti dell'ammissibilità e spesso con tanto di scritta in copertina che rassicura l'acquirente sul fatto che potrà usarlo durante la prova scritta. Ed è così: l'irregolarità non è per niente scontata e dipende dall'interpretazione della norma che esclude i testi con "note, commenti, annotazioni anche a mano". E allora perché tante edizioni border line? Alcuni di questi tomi sfruttano l'indice analitico che arriva così a occupare centinaia di pagine ed è talmente strutturato da poter fungere da tracce di elaborati; altri volumi recano abbondanza di richiami che non possono essere vietati perché riportati da tutte le edizioni, "Gazzetta Ufficiale" compresa. I candidati sono suddivisi per lettera in tante file e consegnano i testi ad altrettanti desk con un commissario che decide i casi dubbi. È ovvio che per evitare disparità di giudizi che finiscano in difformità sui criteri di sequestro, la soglia di ammissibilità è tenuta bassa. Anche perché, spesso si tratta di codici costosi, non pacificamente inammissibili, magari curati da colleghi magistrati, spesso recanti scritte rassicuranti e persino timbri di concorsi precedenti. Soprattutto, sequestrare i codici a Rho-Pero in prossimità della prova, significa di fatto lasciare il candidato senza testi da consultare perché, data la distanza dalla città, non è possibile andare in una libreria a Milano e tornare in tempo per l'esame. Oltre alle edizioni border line, è sempre più frequente che i candidati si presentino con pacchi di stampe dal computer: formati ammissibili, ma di difficile controllo. Ci sono poi i testi annotati a mano, non vietati automaticamente ma da valutare nel loro contenuto. Ci sono candidati disposti, per evitare il sequestro, a strappare o sigillare le parti vietate e rendere così utilizzabile un codice (sulla cui copertina resterà comunque scritto "commentato", cioè di fatto vietato). E va considerato che la legge di fatto incoraggia i tentativi di introdurre materiale illegale perché in sede di controllo pre-esame consente solo l'esclusione del testo e non anche del candidato: insomma, abbiamo dovuto vedere in aula candidati che il giorno prima avevano cercato di introdurre un vocabolario di italiano farcito con temi di diritto. È stato escluso il tomo, ma non il suo detentore. A parte i difficoltosi controlli dei giorni precedenti, anche il giorno della prova il materiale irregolare entra facilmente: la polizia penitenziaria esegue una perquisizione "leggera" all'ingresso, ma le piccole fotocopie nascoste sotto gli abiti ovviamente passano. I servizi igienici sono usati sia per scambiarsi parole veloci durante le code per entrare, sia per passare il materiale da una inaccessibile fodera a una comoda tasca. Da qui il divieto di andare al bagno prima di una certa ora, cui vengono opposte continue affermazioni di gravi problemi fisici, difficili da contestare in assenza di un commissario-medico. Ecco il motivo delle numerose deroghe al divieto, pur accompagnate da precauzioni aggiuntive come le perquisizioni prima e dopo, a meno che il candidato non accetti di lasciare la porta del bagno aperta, vigilato da un agente dello stesso sesso. Altro luogo "tentatore" è la nursery cui hanno diritto le candidate con infante da allattare. Ovviamente il bimbo è accudito da un parente, magari adatto a consultazioni o che si presta a "importare" materiale proibito.

Questo succede durante le prove scritte. Nessuno sa quello che succede dopo. La verità si scopre attraverso i ricorsi al Tar.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

ANTONIO GIANGRANDE: VI SPIEGO COME IN ITALIA SI TRUCCANO I CONCORSI PUBBLICI.

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l'incompetenza e l'imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

IL VADEMECUM DEL CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). Spesso le commissioni d'esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d'esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l'età di iscrizione all'albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell'albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell'albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell'albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall'entrata di professionisti più bravi e più competenti».

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l'INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l'Ente.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati, dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all'estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutto gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

·            apertura della busta grande contenente gli elaborati;

·            lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

·            correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

·            richiesta di chiarimenti, valutazione dell'elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

·            consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

·            apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

·            redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un'agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su "Il Giornale". Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l'unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All'improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di PresidenzaCpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove.

Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente!

C COME MAFIA DEI CONDONI.

Condono. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il condono, in diritto, è un provvedimento emanato dal legislatore o dal governo, tramite il quale i cittadini che vi aderiscono possono ottenere l'annullamento, totale o parziale, di una pena o di una sanzione (es. condono fiscale, condono edilizio ecc...).

Storia. Il più grande condono fiscale mai attuato nella storia del Vecchio Continente è avvenuto durante l'Impero Romano. Nel 118, l'imperatore Adriano, da pochi mesi al potere come nuovo cesare, decise di conquistare il più rapidamente possibile la simpatia e il consenso di tutti i cittadini dell'Impero: da quelli che vivevano a Roma fino ai residenti dei piccoli villaggi nelle province più lontane. Per ottenere questo obiettivo varò quello che a oggi è considerato il più grande condono fiscale di tutti i tempi: con un solo e impetuoso atto di generosità contabile, Adriano cancellò tutti i debiti erariali dei contribuenti romani accumulatisi nei precedenti sedici anni. L'ammontare del denaro a cui Roma rinunciò, lasciandolo ai contribuenti, fu di oltre 900 000 000 di sesterzi, che, complessivamente, rappresentava quasi l'intero gettito che l'Impero Romano raccoglieva annualmente dalle entrate fiscali. Questo gesto di magnanimità, da cui nessuno fu escluso, continua a occupare, nella storia della contabilità, il posto più alto nella graduatoria degli atti perdonali di carattere tributario mai emanati in Europa.

Descrizione. Solitamente, il procedimento si compie con il pagamento di una certa somma di denaro, che può variare, caso per caso, anche in relazione alla tipologia e all'entità di ciò che si intende condonare. Inoltre, nel momento in cui viene varato, il Parlamento ne definisce il raggio d'azione, cioè i limiti del medesimo, stabilendo, fra le varie tipologie di reati e di comportamenti sanzionabili su cui insiste, quali rientrino o meno nell'alveo della condonabilità. Per sua natura, il condono è un provvedimento la cui partecipazione è sempre facoltativa, e ciascun cittadino è libero di decidere se aderirvi o meno.

Le ragioni alla base. Le ragioni che spingono a varare un condono, generalmente su indicazione del Ministro dell'economia e delle finanze, sono molteplici, ma la più importante è il bisogno di assicurarsi, per tramite di un'auspicata massiccia adesione da parte dei contribuenti, un consistente afflusso di denaro extra gettito nelle casse dello Stato come ad esempio in situazioni di deficit pubblico nei conti dello Stato (bilancio statale). I condoni sono talvolta conseguenti a riforme, più o meno radicali, dell'intero sistema tributario, per cui si applica questo provvedimento al fine di fare tabula rasa del passato e ripartire ex novo con le nuove normative. I condoni vengono emanati anche per smaltire tutte le pratiche legali e i contenziosi processuali che si trascinano per anni nei tribunali e che, pertanto, rischiano di cadere in prescrizione o, comunque, di non raggiungere mai la fine, con un possibile danno per le casse dello Stato. Lo strumento del condono può consentire l'allargamento o comunque l'arricchimento della base imponibile per le dichiarazioni dei redditi future a esso. Questo si verifica poiché quei contribuenti che decidono di approfittare del condono per sanare le proprie irregolarità, da quel momento in poi sono indotti a mantenere quel livello di reddito condonato, in quanto, se tornassero a dichiararne uno inferiore, rischierebbero di esporsi a tempestive verifiche e accertamenti tributari.

Tipologia. Alcuni esempi di condono sono:

Condono fiscale (o "condono tributario") è un dispositivo normativo che ha come oggetto principale le imposte e le tasse. Sana comportamenti illeciti o irregolari effettuati dal contribuente e riguarda, soprattutto, dichiarazioni dei redditi errate, infedeli o assenti. Talvolta può riferirsi solo ad alcune tipologie di violazioni; quando, invece, sana per intero e in via definitiva la posizione del contribuente dinanzi al fisco, assume il nome di "condono tombale".

Condono edilizio si possono sanare, previa autodenuncia, fenomeni di abusivismo nell'ambito delle regole di costruzione, di ampliamento o di modifica di natura edile.

Condono valutario, o "scudo fiscale", è uno strumento grazie al quale chi ha esportato, illecitamente, capitali all'estero, può reintrodurli in Italia pagando una sanzione la cui entità è solitamente proporzionata all'ammontare della somma esportata.

Condono previdenziale interviene soprattutto nell'ambito dei mancati versamenti spettanti agli enti di previdenza sociale, come l'INPS, relativi a personale dipendente stipendiato in modo non ufficiale; riguarda quei datori di lavoro che hanno assunto e pagato in "nero" tutti o alcuni loro dipendenti, senza versare i relativi contributi previdenziali previsti dalla legge.

Dal 1973 ad oggi sono stati varati diversi condoni:

1973 - Governo Rumor IV - Ministro delle finanze Emilio Colombo (condono fiscale)

1982 - Governo Spadolini I - Ministro delle finanze Rino Formica (condono fiscale)

1985 - Governo Craxi I - Ministro delle finanze Bruno Visentini (condono edilizio)

1991 - Governo Andreotti VI - Ministro delle finanze Rino Formica (condono fiscale)

1995 - Governo Dini - Ministro delle finanze Augusto Fantozzi (condono edilizio e concordato fiscale)

2003 - Governo Berlusconi II - Ministro delle finanze Giulio Tremonti (condono edilizio e fiscale)

2009 - Governo Berlusconi IV - Ministro delle finanze Giulio Tremonti (scudo fiscale in vigore dal 2/10/2009)

Gli esempi più comuni sono il condono fiscale e il condono edilizio, ma esistono anche altre forme, come il condono valutario, previdenziale, assicurativo, immobiliare, ecc., oltre a specifici condoni che fanno riferimento a singole tasse, come, ad esempio, quella sui rifiuti o altre simili. Secondo la CGIA di Mestre, tutti i condoni varati dal 1973 al 2005 avrebbero prodotto un incasso totale di 104,5 miliardi di euro (in valuta 2005), ossia una somma pari all'evasione fiscale di un solo anno, valutata in circa 100 miliardi di euro.

Secondo Fiscooggi.it (rivista online dell'Agenzia delle Entrate) tale cifra sarebbe ben più bassa e pari a circa 26 miliardi di euro dal 1973 al 2005. Solo i condoni fiscali di 1989 e 1992 hanno superato le attese di gettito, mentre tutti gli altri casi hanno disatteso profondamente le aspettative. Non è inoltre garantito il gettito a seguito delle dichiarazioni di richiesta di accesso al condono: nel novembre 2008 la Corte dei Conti stimava in 5,2 miliardi di euro (sui 26 totali) il gettito ancora da incassare per il condono edilizio e fiscale del 2003-04, ossia il 20%.

La storia dei condoni in Italia, scrive il 25 settembre 2003 - Corriere.it. Vengono riassunte, in forma estremamente sintetica ma non per questo esente da un commento, non solo le leggi nazionali direttamente concernenti i condoni, ma anche le altre norme, sempre di livello nazionale (approvate, decadute o anche solo proposte), che possono essere assimilate a un condono. Il loro esame dimostra l'enorme confusione che regna in materia, e l'inopportunità di aprire nuovi condoni, che alimenterebbero in ogni caso la spirale dell'illegalità e delle aspettative indebite ad essa collegate.

PRIMO CONDONO. Legge 28/2/1985 n° 47 (governo Craxi-Nicolazzi). Si poneva prima di tutto come una provvisoria legge-quadro in materia urbanistico/edilizia, ma la sua maggiore conseguenza è stata quella di ammettere al condono edilizio tutti gli abusi realizzati fino al 1/10/1983. Per i manufatti costruiti in aree a vario titolo vincolate il rilascio della concessione (o autorizzazione) in sanatoria era subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela (per il vincolo paesaggistico di solito i comuni, con successivo controllo ed eventuale annullamento da parte delle Sopraintendenze). Secondo dati CRESME, l'effetto annuncio del primo condono avrebbe provocato l'insorgere - nel solo biennio 1983/4 - di 230.000 manufatti abusivi, mentre quelli realizzati fra il 1982 e tutto il 1997 sarebbero 970.000.

LA "SANATORIA EDILIZIA" (E QUELLA PAESAGGISTICA). L'art. 13 della medesima legge 47/1985 prevede la possibilità di un "accertamento di conformità", da effettuare entro stretti limiti temporali correlati alle ordinanze dei sindaci, "e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative", in base al quale le opere abusive potrebbero essere sanate, qualora esse fossero conformi agli strumenti urbanistici vigenti. Si tratta, come si vede, di cosa assolutamente diversa dal condono (che è un provvedimento eccezionale e "tombale", in quanto porta tendenzialmente a legittimare tutti o quasi gli abusi). La sanatoria è invece un istituto permanente, che può essere invocato per quelle opere che - per qualche invero strana ragione - non hanno ottenuto la concessione edilizia, anche se avrebbero potuto ottenerla benissimo (si tratta evidentemente di rari casi, ovvero di abusi di piccole dimensioni). Nella prassi, l'uso indifferenziato del termine "sanatoria" per indicare i condoni edilizi ha generato pericolose confusioni. In seguito, è emerso il problema che nelle normative di tutela paesaggistica (ora il T.U. dei Beni CC.AA.) non esiste una norma equivalente. Di conseguenza nelle zone vincolate (che sarebbero il 47% del territorio nazionale) anche la sanatoria edilizia sarebbe inapplicabile, in quanto subordinata all'ottenimento, impossibile, dell'autorizzazione ambientale. Un parere assai opinabile espresso dal Consiglio di Stato l' 11/4/2002 ha invece stabilito che il rilascio di un' "autorizzazione postuma", "equipollente" a quella preventiva è possibile. La maggioranza parlamentare ha colto la palla al balzo, presentando un emendamento alla Legge-delega sul "riordino delle normative in materia ambientale" che, modificando gli articoli 163 e 164 del T.U. Beni CC.AA., codificherebbe definitivamente l' "autorizzazione paesistica in sanatoria". Ciò sarebbe un gravissimo indebolimento del già fatiscente sistema di tutela ambientale, dal momento che l'autorizzazione in questione è sostanzialmente discrezionale, e ben difficilmente si oserebbe negarla a opere ormai esistenti. L'emendamento è stato respinto (la stessa Legge-delega non è ancora approvata), ma la questione rimane aperta.

SECONDO CONDONO. Legge 23/12/1994 n° 724:"Misure di razionalizzazione della finanza pubblica", art. 39 (primo governo Berlusconi). Riapre i termini della precedente legge 47/1985, estendendoli agli abusi realizzati fino al 31/12/1993. Vengono tuttavia introdotte alcune limitazioni: che le opere non abbiano comportato un ampliamento superiore al 30% della volumetria originaria, ed in ogni caso non superiore a 750 mc. Lo stesso limite volumetrico si applica alle nuove costruzioni, "per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria" (il che consente di condonare anche le lottizzazioni abusive). Resta fermo per le zone vincolate l'obbligo di acquisire preventivamente l'autorizzazione dell'autorità preposta (che, ricordiamo, per il vincolo paesaggistico è solitamente il Comune, sia pure in prima battuta!). In più, l'ultimo periodo del 4° comma stabilisce anche il silenzio-assenso in caso di perdurante inerzia comunale. Sempre secondo dati del CRESME, dal 31/12/1993 (ultima data prevista per il completamento dei manufatti) sono stati realizzati altri 220.000 abusi, tra nuove costruzioni e ampliamento delle esistenti. Anche in questo caso la scarsa e prevalentemente formale capacità di controllo da parte dei Comuni avrà permesso l'ammissione al condono di edifici che, per la loro volumetria o il loro impatto ambientale, non avrebbero potuto essere sanati; ugualmente è possibile sospettare che moltissimi edifici siano in realtà stati realizzati dopo la chiusura dei termini.

ALTRI TENTATIVI DI MODIFICARE LE MODALITA' DEL CONDONO: ben 14 Decreti Legge, emanati dopo il 1994 (l'ultimo era il DL 24/9/1996 n° 495) e tutti decaduti per mancata conversione in legge, contenevano norme più o meno confuse in materia di semplificazione dei procedimenti urbanistico/edilizi, modifiche alla legge 493/1993, denuncia d'inizio attività e condono delle opere abusive (per quest'ultimo aspetto si trattava più che altro di "aggiustamenti" delle modalità di riscossione e versamento delle oblazioni, loro impiego da parte dei Comuni, ecc., con qualche limitata norma di rilievo ambientale). La raffica di decreti è cessata solo quando la Corte Costituzionale, con sentenza n° 360 del 17-24/10/1996, ha stabilito l'illegittimità costituzionale della prassi di reiterare all'infinito le decretazioni d'urgenza, facendone poi salvi gli effetti.

LEGGE 23/12/1996 n° 662("Misure di razionalizzazione della finanza pubblica"), Art. 2, commi 37, 45 e sgg. Dettano una serie di norme per la riscossione delle oblazioni e per la loro utilizzazione da parte dei comuni, introducendo anche qualche marginale precauzione ambientale.

DDL 4565/ter: "Disposizioni in materia di revisione generale del catasto e del demanio marittimo" (maggio 2000). Era scaturito dallo stralcio dell'art. 39 del precedente ddl 4565, e non è più stato discusso. Stabiliva che gli occupanti di immobili insistenti sul Demanio, ma che "risultino avere perdute le caratteristiche proprie dei suddetti beni" (?) possono acquistarli in proprietà. Praticamente una sanatoria generalizzata, con procedure assai poco chiare.

DDL 379: "Norme per il trasferimento dei beni del demanio marittimo dello Stato" (28/3/2000). RESPINTO. Stabiliva che le aree demaniali, con le loro pertinenze, sono trasferite al demanio dei Comuni, così come le aree date in concessione a enti, aziende e consorzi vari, qualora non più utilizzate. Unica eccezione, i porti marittimi nazionali. Era un tentativo di eliminare l'intero sistema demaniale, dal momento che ai comuni non sarebbero poi mancati i mezzi giuridici per alienare i beni ai privati.

DDL 4337:"Disposizioni per la repressione dell'abusivismo edilizio nelle aree soggette a vincoli di tutela, e modifiche alla legge 28/2/1985 n° 47" (28/11/2000). DECADUTO, essendo subentrata nel maggio 2001 la nuova legislatura. Di ampia portata, dettava nuove disposizioni per una severa repressione dell'abusivismo almeno nelle zone vincolate. Non sorprende che sia terminato in un nulla di fatto.

DDL 4338:"Disposizioni in materia di sviluppo, valorizzazione ed utilizzo del patrimonio immobiliare dello Stato…". CONVERTITO NELLA LEGGE 136/2001. Un emendamento proposto da DS e FI, e poi eliminato, affidava ai Comuni la valorizzazione dei beni demaniali statali, prevedendo anche la sdemanializzazione di alcune aree.

LEGGE 448/2001 (legge Finanziaria). APPROVATA. L'art. 71, poi abrogato (v. par. successivo), disponeva che le norme della legge 5/2/1992 n° 177 (concepita evidentemente per poche ed eccezionali situazioni, questa legge consentiva il trasferimento dei demani statali al patrimonio disponibile dei Comuni, con la dichiarata finalità di alienarli ai privati) si possono applicare a tutte la aree demaniali sul territorio nazionale, sulle quali siano state eseguite "opere di urbanizzazione e di costruzione" anteriormente al 31/12/1990. Era pertanto una nuova sanatoria (non tanto dei manufatti, quanto delle situazioni proprietarie e possessorie), generale e indiscriminata.

LEGGE 16/2002:"Conversione in legge, con modificazioni, del DL 28/12/2001 n° 452, recante disposizioni urgenti….". (Febbraio 2002). L'art. 16/bis abrogava l'art. 71 della precedente legge Finanziaria, di cui si è detto al par. che precede.

LEGGE 166/2002."Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti" (Marzo 2002). L'art. 26, così come emendato, riprende in forme più limitate e ragionevoli la questione introdotta dall'abrogato art. 71 della legge Finanziaria. Esso stabilisce infatti che le norme della legge 5/2/1992 n° 177 (in precedenza sinteticamente illustrate: concernono il trasferimento di aree demaniali al patrimonio dei Comuni, con la finalità di alienarle ai privati) si applicano all'intero territorio nazionale. Però con l'esclusione del demanio marittimo, e solo su quelle aree sulle quali siano state realizzate - anteriormente al 31/12/1990 - opere di urbanizzazione e di costruzione "a seguito di regolare concessione".

DL 102/2003:"Disposizioni urgenti in materia di valorizzazione e privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico" (giugno 2003). DECADUTO, per mancata conversione in legge. L'art. 3 stabiliva che le porzioni di aree patrimoniali e demaniali dello Stato - escluso il demanio marittimo - interessate da "sconfinamenti" di opere eseguite da privati su fondi attigui di loro proprietà (sulla base di concessioni o autorizzazioni regolari) possono direttamente essere alienate agli interessati. Con lodevole ma evidente incongruenza, la norma stabiliva che tali disposizioni non si applicano nelle aree vincolate dal T.U. del Beni CC.AA. (che come si è detto sarebbero il 47% del territorio, e dovrebbero comprendere la gran parte delle aree demaniali o patrimoniali dello Stato).

LEGGE 212/2003:"Disposizioni urgenti in tema di versamento e riscossione di tributi…" (Agosto 2003). L'art. 5/bis ripropone la norma del precedente e decaduto DL, stabilendo che le porzioni di aree del patrimonio e del demanio statale, escluso il demanio marittimo, interessate dallo "sconfinamento" di manufatti eseguiti da privati sui loro fondi attigui in base a regolari titoli edilizi (ma con l'ulteriore limite di essere stati realizzati prima del 31/12/2002) possono essere a questi alienate. Stesso destino spetterebbe però alle porzioni "divenute area di pertinenza" e a quelle "interne a strumenti urbanistici vigenti" (definizione ampia quanto confusa, che sembra prestarsi ad ogni genere di interpretazioni estensive!). Permane il divieto di applicare la norma nelle zone vincolate dal T.U. dei Beni CC.AA., che per quanto risulta dovrebbe vigere nella massima parte dei casi, data la sua grande estensione.

Condoni e sanatorie, oltre 80 dall'unità d'Italia, scrive Adnkronos.com il 10/06/2018. Pax fiscale; istituto perdonistico tributario; condono; sanatoria. Sono oltre 80 gli interventi che dall'unità d'Italia a oggi si sono susseguiti, con diverse modalità, destinati a soggetti differenti, e svariati obiettivi. Fino al 1972-1973 tecnicamente si è trattato di sanatorie, in quanto è stato possibile fare la pace solo per quanto riguardava le sanzioni e gli interessi. Poi si è passati ai condoni veri e propri, consentendo di sistemare anche il debito d'imposta. Nel trentennio che va dal 1980 al 2010 l'erario ha incassato 62,5 miliardi di euro, grazie alle sanatorie che sono state messe in campo dai governi che si sono alternati alla guida del paese. In media, quindi, nelle casse dello Stato sono entrati 2,1 miliardi l'anno, con la punta massima raggiunta nel 2003 quando sono stati incassati 17,6 miliardi. E' quanto emerge dai dati dell'Istat, sulle imposte delle amministrazioni pubbliche negli anni 1980-2010, elaborati dall'Adnkronos. Nel 1973, la prima volta che è stato introdotto in Italia il condono con il governo Rumor, l'utilizzo fu giustificato con l'entrata in vigore del nuovo sistema fiscale, con l'introduzione di alcune imposte e la scomparsa di altre. Quasi dieci anni dopo (1982) un altro condono fiscale viene firmato dal governo Spadolini, a cui 2 anni dopo si aggiunge il condono edilizio (governo Craxi). Nel decennio successivo un'altra doppietta, con un condono fiscale nel 1991 (governo Andreotti) e un condono edilizio e fiscale nel 1995 (governo Dini). Nel nuovo secolo si comincia con un condono fiscale ed edilizio (2003) con il governo Berlusconi, a cui poi si aggiunge lo scudo fiscale nel 2009 (anche questa volta firmato dal governo Berlusconi). In un dossier del Mef che risale al 2015 (Rapporto sulla realizzazione delle strategie di contrasto all’evasione fiscale) si osserva che ''non vi è periodo, dal 1970 al 2008, che non sia stato interessato da qualche forma di condono o sanatoria''. Premessa fondamentale di una politica efficace di incremento della compliance complessiva dei contribuenti, spiega il Mef, ''è la continuità dell’azione di contrasto all’evasione fiscale''. Tuttavia nello stesso rapporto si ammette che ''l’istituto del condono, come ogni provvedimento giuridico, presenta connotazioni positive e negative''. Tra i vantaggi lo Stato può incassare ''eventuali introiti futuri soggetti a lunghe ed incerte procedure ordinarie di riscossione'', che assume maggiore rilevanza in ''periodi di crisi di liquidità''. Tra le 'giustificazioni' sentite spesso negli ultimi tempi c'è quella secondo cui ''lo strumento del condono potrebbe, in astratto, consentire l'allargamento o comunque l'arricchimento della base imponibile per le future dichiarazioni dei redditi''. Lo stesso ministero ammette, dopo aver elencato tutti i vantaggi, che si tratta di ''riflessioni meramente teoriche, non supportate da evidenze empiriche''. Inoltre, ''in un'ottica comparatistica'', gli svantaggi sono ''di gran lunga superiori''. Prima di tutto si fa notare che un condono, per essere appetibile, deve assicurare uno sconto significativo. Ma attenuare le sanzioni ''equivale a lanciare messaggi al contribuente razionale di incentivo ad evadere nel medio, nel lungo e anche nel breve periodo''. Bisogna considerare, poi, che accettando di incassare meno di quanto dovuto dai contribuenti si traduce in ''una riduzione successiva degli introiti''. L’aspettativa del condono, si legge nel dossier, ''può annullare gli effetti derivanti dall’aumento della probabilità di accertamento, correlati ad una più efficiente azione di contrasto all’evasione fiscale. Mentre lo stesso gettito del condono potrebbe essere compensato, in senso negativo, da un aumento dell’evasione''. Gli effetti negativi dei condoni vanno dai costi finanziari a quelli politico sociali, passando per quelli etico legali ed economici. Si va dalla riduzione del gettito alla perdita di consenso da parte dei contribuenti onesti, dall'effetto diseducativo alle distorsioni della concorrenza. Un sondaggio della Banca d'Italia, che risale al 2008, ha fatto emergere come sia ''ampiamente diffusa l'opinione secondo cui il condono corrisponde ad un segnale di debolezza dello Stato''. Un italiano su tre ritiene che l'introduzione di un condono induca l'aumento dell'evasione, che sia demotivante per i contribuenti onesti e che sia un segnale dell'impotenza dello Stato nei confronti degli evasori. Un italiano su due ritiene i condoni ingiusti e solo il 17% li definisce comunque necessari.

L’Italia è una Repubblica fondata sul condono. Dal 1973 a oggi non c’è stata una sola stagione senza sanatorie, indulti e colpi di spugna. Così chi viola la legge rischia poco o nulla. Mentre le sanzioni minacciate dallo Stato restano solo sulla carta. E il Paese non cambia mai, scrive Paolo Biondani l'11 novembre 2016 su "L'Espresso". Condono, sanatoria, concordato, definizione agevolata, emersione del sommerso, amnistia, indulto, indultino, prescrizione, rottamazione... I nomi cambiano con il passare dei governi, ma la sostanza è la stessa da decenni: in Italia vince l’impunità. Chi viola la legge rischia poco o nulla. Tanto arriva sempre una leggina successiva che perdona i disonesti. In tutti i paesi, anche i più civili, esistono casi di abusivismo edilizio, lavoro nero, evasione fiscale o corruzione, ma in Italia l’illegalità muove cifre enormi e fa parte del sistema-paese. Mentre lo Stato minaccia sanzioni severissime, sulla carta, ma poi si schiera sempre dalla parte dei furbi. «I condoni sono l’altra faccia dell’illegalità di massa», osserva il professor Alberto Vannucci, uno dei più importanti esperti di lotta alla corruzione in Italia: «Cancellare le sanzioni ai colpevoli è il contrario della deterrenza: è un incentivo perverso a violare la legge che ha effetti contagiosi sull’intera cittadinanza. Quindi è molto peggio che lasciare impunito qualche singolo reato: il condono crea l’aspettativa che tutti possano farla franca. È un segnale che incoraggia la diffusione di quei comportamenti illeciti che sono la causa del disastro collettivo nazionale: corruzione sistematica, evasione fiscale gigantesca, debito pubblico fuori controllo, cementificazione del paesaggio, devastazione del territorio». Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, ha spiegato più volte, con amara ironia, che «quando parliamo di condono edilizio o fiscale, i giudici stranieri non ci capiscono: loro pensano alla grazia. Allora noi spieghiamo che è diverso: la grazia si applica a un solo condannato, il condono a tutti i colpevoli. A quel punto i giudici stranieri scoppiano a ridere: non ci credono, pensano che li prendiamo in giro». Studiosi e giuristi documentano che l’Italia è una nazione fondata sui condoni. La media storica è da record mondiale: un colpo di spugna ogni due anni. Dal lontano 1900 fino ad oggi, infatti, si contano almeno 63 provvedimenti di perdono pubblico dell’evasione fiscale, del lavoro nero e degli abusi edilizi. E a questa serie interminabile di condoni si aggiungono altre 37 leggi penali che, a partire dalla Seconda guerra mondiale, hanno periodicamente cancellato perfino i reati e le condanne già confermate in tutti i gradi di giudizio. Con effetti aggravati dalla durata. Ogni sanatoria non riguarda solo il momento in cui viene approvata, ma si estende anche agli anni precedenti. E in qualche caso vale pure per il futuro. La timeline in questa pagina riassume proprio gli effetti dei condoni cumulati nel tempo: a conti fatti, le annate escluse sono pochissime. E si concentrano nei primi anni Novanta: il periodo di Tangentopoli, quando nessuno osava parlare di amnistia o impunità. Prima e dopo quel quinquennio di guerra legale all’illegalità, i condoni fiscali, previdenziali, edilizi e penali sono continui, permanenti, perpetui. L’Italia è famosa nel mondo per la bellezza del suo territorio, minato da terremoti, frane, alluvioni che imporrebbero regole urbanistiche rigorose. Il boom edilizio degli anni Cinquanta e Sessanta ha cosparso l’intera nazione di costruzioni senza regole: i primi piani regolatori vengono approvati solo all’inizio degli anni Settanta. E già nel 1985 arriva il primo condono nazionale degli abusi edilizi, intitolato all’allora ministro socialdemocratico Franco Nicolazzi, poi condannato per corruzione. Un colpo di spugna che legalizza milioni di fabbricati fuorilegge: case e palazzi costruiti, per definizione, senza rispettare nessuna regola. Il governo di Bettino Craxi annuncia che sarà l’ultima sanatoria edilizia. Invece nel 1994 Silvio Berlusconi vara un nuovo maxi-condono, che viene ripetuto nel 2003-2004. Le sanatorie obbligano le autorità pubbliche a fornire acqua, fognature e servizi a milioni di fabbricati abusivi, con una spesa cinque volte superiore agli incassi delle pratiche di legalizzazione. Oggi la Campania guida il plotone delle regioni che progettano un nuovo condono edilizio: il governatore del Pd Vincenzo De Luca ha promesso in campagna elettorale una sanatoria di «circa 70 mila alloggi» abusivi, polemizzando contro «l’ambientalismo idiota». Forza Italia lo appoggia apertamente, parlando di «abusi di necessità». Il senatore Carlo Sarro stima «270 mila costruzioni» fuorilegge solo in Campania e quantifica in 67 mila quelle «già colpite da sentenze definitive di demolizione». In attesa delle sanatorie regionali, progettate anche in Sicilia, gli abusivi possono sempre approfittare di un «condono selettivo permanente», previsto dalla legge Nicolazzi e mai cancellato: basta convincere il comune a trasformare l’ex zona verde in area edificabile. L’urbanistica italiana infatti è il regno delle varianti: c’è una procedura legale anche per aggirare le regole. Ma non è finita. Dopo il condono del 2004 i favori ai furbi del mattone hanno cambiato nome: ora si chiamano semplificazioni. «Nell’edilizia privata tutti i controlli, compresi quelli anti-sismici, sono stati sostituiti da auto-certificazioni», denuncia l’avvocato Emanuele Montini, coordinatore nazionale di Italia Nostra: «A certificare il rispetto delle regole, la qualità e la tenuta del cemento, dei tondini in ferro, delle fondamenta, è un professionista di fiducia, scelto e pagato dal privato. I controlli pubblici sono stati regionalizzati. Quindi ogni pezzo d’Italia ha regole diverse, perfino per le norme di sicurezza contro i terremoti: in Umbria e Toscana i tecnici pubblici verificano tutte le costruzioni, nel Lazio solo il cinque per cento, in altre regioni il 15». E in quelle regioni come si decide quali case controllare? «Con un’estrazione a sorte», risponde Montini con tono disperato. Ci mancava solo la lotteria dei terremoti. Dall’edilizia al fisco, la situazione peggiora. La doppia sanatoria varata dal governo Renzi con il decreto legge che il 24 ottobre ha abolito Equitalia, in particolare la rottamazione delle cartelle esattoriali e la nuova sanatoria dei capitali esteri (voluntary disclosure), è una riedizione temperata dei condoni tradizionali. Correva l’anno 1973 quando il repubblicano Bruno Visentini, per cambiare il vecchio sistema tributario fondato sull’evasione di massa e sulla crescita continua del debito pubblico, varò la prima grande riforma fiscale. Irpef, Iva, verifiche e processi tributari nascono allora. Insieme a un condono generale, che doveva essere l’ultimo. La Corte dei conti, nei suoi rendiconti sui bilanci dello Stato, chiarisce che una sanatoria per il passato è giustificabile proprio e soltanto quando una riforma strutturale fa da spartiacque e cambia tutte le regole per il futuro. Ma in Italia lo stop ai condoni fiscali resiste solo negli anni neri della prima crisi petrolifera. Poi, si ricomincia. Tra il 1982 e il 1991, i due più famosi «condoni fiscali generali» sono intitolati all’ex ministro socialista Rino Formica. All’epoca il professor Giulio Tremonti denunciava il condono come «un suicidio fiscale», «immorale» e «criminogeno». Diventato ministro nel 1994 con Silvio Berlusconi, però, ha cambiato idea: nel 1994 ha lanciato il «concordato fiscale di massa», valido fino al 1997. Tremonti ha dato il massimo nel 2002-2003 e nel 2009-2010, con le due grandi novità dello scudo fiscale: gli evasori con i soldi all’estero hanno potuto mettersi in regola con una tariffa bassissima (appena il 5 per cento) e addirittura con la garanzia dell’anonimato. Solo l’ultima edizione dello scudo ha permesso a 180 mila misteriosi evasori di ripulire ben 105 miliardi di fondi neri. Decine di inchieste giudiziarie hanno poi accertato che, dietro l’anonimato, si nascondevano anche mafiosi, narcotrafficanti, bancarottieri e squali della finanza. Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato ha definito lo scudo «la più grande operazione di riciclaggio di denaro sporco della storia d’Italia». La voluntary disclosure del 2015, invece, ha limiti molto più rigorosi: il ministro Pier Carlo Padoan ha adottato una procedura-standard, regolata da autorità internazionali come l’Ocse. Ora l’evasore deve autodenunciarsi al fisco, spiegare come ha creato il nero, pagare tutte le imposte con gli interessi: il premio è un forte sconto sulle sanzioni. L’effetto-condono è stato però accentuato dalle modifiche attribuite al sottosegretario Enrico Zanetti, passato dal partito di Mario Monti al gruppo di Denis Verdini: tra i cavilli salva-furbi spicca l’abolizione della norma Visco-Prodi del 1997 che permetteva al fisco di chiedere dieci anni di arretrati ai grandi evasori. Anche la rottamazione delle cartelle esattoriali, presentata dal premier Matteo Renzi come una riparazione per quei tartassati da Equitalia spesso oberati da interessi moltiplicati a dismisura, in realtà cancella tutte le sanzioni applicate in tutti i casi di evasione già accertata dal 2000 al 2015. Quindi è un vero condono generale, valido anche per i contributi previdenziali, che rischia di aprire una voragine nei conti dell’Inps, come ha denunciato il suo presidente Tito Boeri. Si tratta dei contributi obbligatori per pagare le pensioni e l’assistenza pubblica: l’evasione contributiva è l’altra faccia del lavoro nero. Ma dal 1973 ad oggi non c’è stato un solo anno senza un qualche condono previdenziale. L’illegalità al potere si completa con le amnistie che hanno cancellato perfino i reati. E con gli indulti che hanno ridotto o azzerato le condanne penali già definitive. Fino al 1989 l’Italia ha varato, in media, un’amnistia ogni cinque anni. Il padrino politico era quasi sempre Giulio Andreotti. Dopo la bufera di Mani Pulite, la classe dirigente ha cambiato tecnica. Nel 1997 una legge proposta dal senatore azzurro Marcello Pera ha modificato le regole sulle prove, azzerando i verbali d’accusa non ripetuti in aula da un complice, anche se aveva già confessato durante le indagini. Quella riforma viene dichiarata incostituzionale, perché esageratamente favorevole agli accusati. A quel punto una larga maggioranza bicamerale destra-sinistra cambia la Costituzione, raccontando agli elettori di aver varato il «giusto processo». L’effetto-amnistia per i tangentisti è documentato dal crollo delle condanne per corruzione e concussione: tra il 1996 e il 1999 si sono più che dimezzate, scandendo da 1.712 a 809. Alla fine del 2005 il governo Berlusconi ha riscritto anche le regole sulla prescrizione, stravolgendo una legge intitolata al parlamentare Edmondo Cirielli, che ha ritirato la firma. Prescrizione significa che il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma non è più punibile perché sono scaduti i termini di legge. La ex Cirielli ha ridotto al minimo i termini di punibilità di tutti i reati dei colletti bianchi, dalla corruzione ai delitti economici. Già nel 2006 le condanne definitive per tangenti sono crollate a 239 in tutta Italia. Oggi, solo nelle Corti d’appello, un colpevole su tre si vede azzerare la condanna. E così la sanatoria diventa perpetua. L’amnistia perdona solo i delinquenti del passato, ma la prescrizione è il condono del futuro.

Ma il perdono è solo per i potenti, scrive il 6 novembre 2016 Michele Anais su "L'Espresso". Colletti bianchi, colli neri. I primi la sfangano con l’aiuto dello Stato; i secondi nuotano nel fango, per colpa dello Stato. A immergere lo sguardo nel gran mare dei condoni, salta subito agli occhi questa disparità di trattamento: indulgenza per i ricchi, intransigenza per i poveri. Eppure un tempo la legge non faceva distinzioni, somministrava a tutti le dolcezze del perdono. Poi c’è stata una novella, una scelta dirimente. E il perdono di Stato è diventato pressoché impossibile per i reati comuni, quelli commessi dalla gente comune. Come il furto di legna, su cui il giovane Marx scrisse nel 1842 una pagina indignata, e che cinquant’anni dopo fu amnistiato dal nostro giovane regno. Ecco, l’amnistia. Viene dal greco amnestia, che vuol dire oblio, assenza di ricordi. Sarà per questo che è sempre stata in auge alle nostre latitudini, sarà perché la memoria non rientra fra le qualità degli italiani. O forse sarà l’antico vicinato con i papi, prodighi d’indulgenze plenarie. Ma sta di fatto che la prima amnistia della nostra storia nazionale reca la stessa data dell’unificazione: 17 marzo 1861. E sta di fatto inoltre che pure la repubblica esordì con un’amnistia generalizzata: quella firmata da Togliatti il 22 giugno 1946. Si dirà: ma quelle furono amnistie politiche, strumenti di pacificazione dopo una guerra o una sommossa. Ricadono in un genere che risale all’esperienza greca, come l’amnistia decretata da Trasibulo dopo aver purgato la Grecia dai suoi trenta tiranni, o quella che propose Cicerone per sedare gli effetti delle guerre tra Cesare e Antonio. Insomma, l’amnistia soccorre i prigionieri politici, non i povericristi. Sicuro? A sfogliare l’album dei reati condonati attraverso un provvedimento di clemenza, s’incontra per esempio il mancato pagamento dell’imposta sul consumo di vino (1921). La «coltivazione di tabacco nell’isola di Sicilia» (1867). Le infrazioni alla legge sulla requisizione dei quadrupedi (amnistie del 1890 e del 1891). Il taglio degli ulivi e l’abbattimento dei gelsi, nonché l’«esportazione interprovinciale degli animali bovini» (1920). O infine il tormentone che ci ha perseguitati con ben 6 provvedimenti di clemenza, dal 1871 al 1951: il matrimonio dei militari «contratto senza la prescritta superiore autorizzazione». Del resto persino il fascismo non lesinò agli italiani il loro perdono quotidiano: in vent’anni gli indulti, le amnistie, le sospensioni della pena furono in tutto 51. Alla faccia dei grilli parlanti come Jeremy Bentham, il filosofo inglese, che predicava di fare buone leggi invece di creare «una verga magica che abbia il potere di annientarle». Poi, nel 1992, la svolta. Sull’onda del giustizialismo innescato dalle inchieste di Mani pulite, il Parlamento rese impraticabile la clemenza di Stato, correggendo l’articolo 79 della Carta: da allora serve la maggioranza dei due terzi. Significa che ormai è più facile cambiare la Costituzione (dove basta la maggioranza assoluta) che cambiare la fedina penale. Morale della favola: nell’ultimo quarto di secolo abbiamo registrato un solo provvedimento generale di clemenza (l’indulto del 2006), quando nei 150 anni precedenti ne erano stati concessi 333, oltre un paio l’anno. Insomma, per castigare l’abuso abbiamo finito per vietare l’uso. Però questo divieto non s’abbatte su una popolazione di banchieri. Secondo l’associazione Antigone, al giugno 2016 i laureati erano appena 514 su 54.072 reclusi nelle carceri italiane. I due terzi di costoro sono immigrati e tossicodipendenti. C’è poi un 10% di sbandati, alcolizzati, homeless. E lì dentro pesa perfino la questione meridionale: 9847 campani, 7011 siciliani, ma soltanto 90 trentini. È a quest’umanità dolente che si rivolge la faccia feroce dello Stato, mentre agli altri sorride con i condoni fiscali, edilizi, presidenziali. E oltretutto ai primi è stata ormai sottratta anche la speranza della clemenza individuale, dopo quella collettiva. Un effetto della sentenza costituzionale n. 200 del 2006, che decise il conflitto sulla titolarità del potere di grazia, sollevato dal presidente Ciampi. Risultato: dal 1948 al 2006 vennero concesse 42.251 grazie; negli anni successivi le grazie presidenziali si contano sulle dita delle mani. Dalla grazia alla disgrazia.

Da Formica a Tremonti: la lunga e gloriosa storia del condono. In 45 anni recuperati 71 miliardi di gettito, scrive Paolo Delgado il 17 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". I condoni in Italia sono la norma, quelli fiscali ed edilizi guidano la graduatoria. Dall’unità d’Italia a oggi ce ne sono stati un’ottantina tonda, ma la rincorsa è arrivata con gli anni ‘ 70. Nel 1973, complice la riforma fiscale che comportava l’introduzione di alcune imposte e l’eliminazione di altre, il governo Rumor condonò per primo: aderirono 2 milioni e 700mila contribuenti, tra singoli e imprese ed entrarono in cassa 2581 milioni. Altri 2mila miliardi arrivarono nel 1976 con il condono valutario. A tutt’oggi è considerato «padre di tutti i condoni» quello varato dal governo Spadolini nel 1982, con ministro delle finanze il socialista Rino Formica. Momento perfetto: subito dopo la vittoria ai mondiali, alibi efficace a camuffare il classico bisogno di fare cassa: il numero esorbitante delle cause pendenti. L’introito fu da colpo grosso: 11mila mld. La seconda metà del decennio rampante fu accompagnata da una raffica di condoni e sanatorie varie, finché nel 1991, premier il divo Giulio, ministro delle Finanze di nuovo Formica non fu tentata di nuovo la carta di un condono tombale sul modello di quello vincente di 10 anni prima. Andò meno bene: un po’ meno di 7mila mld. Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica non modificò il costume: il governo Dni, nel 1995, varò il suo bravo condono e portò a casa 5mila mld. Va da sé che il campione in questa particolare disciplina è stato Silvio Berlusconi. Le elezioni le aveva vinte promettendo di abbattere la fiscalità, la necessità di fondi freschi era impellente e le due esigenze si sposavano a meraviglia. Il condono del 2003, con Tremonti ministro dell’Economia, fu un successone. Quella misura, inclusa nella Finanziaria 2002, resta forse il picco raggiunto da una sanatoria fiscale. Basti ricordare che entrarono in cassa oltre 40 mld. Essenzialmente permetteva, con il pagamento dell’imposta lorda sugli anni dal 1996 al 2002, di chiudere una volta per tutte i conti con l’erario. Comprendeva, con modalità lievemente diverse, la sanatoria sulle partite Iva e soprattutto eliminava la possibilità di ulteriori controlli e verifiche. Cinque anni dopo la Corte di giustizia europea di Lussemburgo condannò l’Italia per quella legge che, come si leggeva nella sentenza, «induce fortemente i contribuenti o a dichiarare soltanto una parte del debito effettivamente dovuto o a versare una somma forfettaria invece di un importo proporzionale al fatturato realizzato, evitando in tal modo qualunque accertamento o sanzione». Berlusconi e Tremonti non se ne fecero un cruccio. La severa sentenza addebitava all’Italia le «spese processuali» ma non imponeva di presentare il conto agli evasori condonati. Come dire: nessun problema. Tanto pochi furono i problemi che l’anno seguente, nel 2009, il medesimo governo procedette con lo ‘ scudo fiscale’. Gli evasori che avevano portato i loro capitali all’estero potevano rimpatriarli, con garanzia di anonimato, in cambio di un pagamento poco esoso: il 5%. Buona parte dei reati societari venivano contestualmente cancellati con un colpo di spugna secco. Renzi, cinque anni dopo, ricorse all’uso dell’inglese per stornare i sospetti di condono su quello che era invece a tutti gli effetti un condono. La voluntary disclosure, permise nel 2015, con rinnovo due anni dopo, di riportare in Italia i beni mobili e immobili nascosti al fisco all’estero pagando l’imposta ma non le penali. In 45 anni il diluvio di condoni ha permesso di recuperare 71,3 mld di gettito, che se rivalutati al 2017 diventano in realtà 131,8 mld. Non più di quello che verrebbe incassato in un solo anno senza l’evasione. Secondo le ultime stime, infatti, ogni anno vengono evasi 97 mld di tasse più 11 mld di contributi non versati: totale 107 mld e 933 mln. La "pace fiscale" gialloverde promette di chiudere la partita definitivamente, oltre che far incassare un mld di cui il governo ha in questo momento bisogno come del pane. Ci si potrebbe anche stare, se non fosse che identica promessa ha accompagnato tutti i condoni, le sanatorie, gli scudi fiscali e le voluntary disclosure dal 1973 a oggi.

Moralizzatori moralizzati, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". I moralizzatori finiscono sempre per essere a loro volta moralizzati. È una legge ineluttabile di quella politica che si preoccupa sempre di fare le pulci agli altri - con fare saccente - dimenticandosi di guardare in casa propria. E proprio di casa si parla. Di casa Di Maio, per la precisione. Come ha rivelato ieri Repubblica, nel 2006 la famiglia del vicepremier ha condonato 150 metri quadrati di abusi nella sua abitazione di Pomigliano d'Arco. Non ci sarebbe nulla di male, se su quella porta di casa non ci fosse stampigliato il cognome Di Maio. Cioè il politico che, da sempre, pensa che i condoni siano una iattura e quelli che ne usufruiscono dei pericolosi criminali. Gli consigliamo di fare due chiacchiere con suo padre, che di sicuro non è un pericoloso criminale, ma una persona normalissima. Uno dei tanti italiani che, quando può, usufruisce delle sanatorie che lo Stato mette a disposizione. Senza nuocere a nessuno perché, ricordiamolo al forcaiolo Di Maio, c'è abuso e abuso. E allargare una mansarda o fare una finestra non è come costruire una villa in barba alla legge o edificare su un terreno a rischio idrogeologico. Così, mentre lui berciava contro i condoni dai palchi di tutt'Italia, il salotto di casa sua era condonato. Ma le sorprese non finiscono qui: perché la sanatoria sfruttata da Di Maio senior è entrata in vigore nel 1985, regnante Bettino Craxi. Che ovviamente per i Cinque Stelle è peggio del babau, il progenitore di tutte le caste. Un paradosso al cubo lascia in braghe di tela il moralismo grillino. Tante parole smontate, giorno dopo giorno, dai fatti. Ma d'altronde è in buona compagnia visto che anche il suo leader spirituale, Beppe Grillo, quatto quatto, ha usufruito dei tanto vituperati condoni. Il rapporto tra grillini e sanatorie è schizofrenico. Ne dicono peste e corna in pubblico, salvo poi utilizzarli nella propria vita privata e infilarli, di nascosto, nelle maglie di un decreto. Com'è accaduto con il decreto Genova, all'interno del quale sono state inserite le sanatorie per Ischia. Anche se il vicepremier continua a spergiurare che non c'è nessun condono. Mandiamo un messaggio in bottiglia a Di Maio: occhio Gigino, gli italiani hanno la memoria lunga e non condoneranno tutte le balle dei Cinque Stelle.

Condono anche a casa Di Maio, nel 2006 il padre pagò 2mila euro per la sanatoria. Il padre di Di Maio sanò l'abuso edilizio della propria casa nel 2006, pagando 2mila euro per la sistemazione di 150 metri quadri. Ma il capo politico del M5S fu durissimo con Rosa Capuozzo, l'ex sindaco di Quarto, espulsa dal M5S perché viveva in una casa con un'opera ancora da condonare, scrive Giovanna Pavesi, Mercoledì 07/11/2018, su "Il Giornale". Sono passati dodici anni da quando il padre del vice Primo Ministro, Luigi Di Maio, aveva chiesto di sanare un abuso edilizio, proprio nella casa di famiglia, a Pomigliano d'Arco. Era il 2006 e, secondo la ricostruzione fatta da Repubblica, a provarlo sarebbero oggi le carte conservate negli archivi. Antonio Di Maio, geometra e piccolo imprenditore, oggi 68enne, la sanatoria l'aveva richiesta per 150 metri quadri su due livelli della sua abitazione, un elegante palazzo all'interno del quale risiede ancora la famiglia del capo politico del Movimento 5 Stelle. Dalla sua costruzione, la casa avrebbe avuto diverse aree non conformi alla norma. Poi tutte condonate dopo il pagamento della multa. Che però, lascia, di fatto, le cose come sono.

I fatti, dall'inizio. Ad Antonio Di Maio corrispondeva la pratica numero 1840, del protocollo 7850 del 30 aprile 1986. Per la "sistemazione" della sua casa si appellò alla legge 47 del 1985. Che è quella del governo Craxi-Nicolazzi e che introduceva il primo condono. Si trattava di una sanatoria a cui potevano accedere in tanti. Ma per fare in modo che il percorso si concretizzasse servirono diversi anni. In Campania, infatti, nel frattempo, si ricostruiva dopo il terremoto: ripulire o estendere opere abusive era, quindi, pratica ricorrente. Il padre del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, essendo geometra, all'epoca eseguiva vari lavori e, per il Comune napoletano, aiutava come esaminatore per le pratiche in attesa.

La sanatoria del 2006. La concessione, per la famiglia Di Maio, arriva nel 2006. Tecnicamente si tratta di "ampliamento di un fabbricato esistente al secondo e terzo piano" ed lo stesso geometra Di Maio, registrato come "tecnico rilevatore", a segnalare le superfici abitabili nei vari piani. La somma dei metri quadri, che risultano essere 151, costituiscono quasi una nuova casa. L'istruttoria conclusiva risale al 17 giugno 2006. Le rate da pagare sono due e corrispondono a 594 euro, con gli oneri di concessioni (altri 410 euro), più una differenza perché il padre del ministro, durante i calcoli, si sarebbe distratto, misurando meno metri quadri di quelli che risulteranno nelle carte. Le opere edilizie abusive, fatte all'interno della casa in diversi anni, gli costano circa 2mila euro. La pratica si chiude, ma rimane in archivio.

La replica di Di Maio. Poche ore fa è arrivata la replica del vice Presidente del Consiglio, che su Facebook ha risposto a Repubblica, dando la sua versione dei fatti. Spiegando che il quotidiano si sarebbe "inventato questo scoop". Il capo politico del movimento ha raccontato di aver chiamato subito il padre chiedendo spiegazioni sui fatti risalenti al 2006. Secondo quanto riportato dal leader pentastellato, la risposta arrivata dallo Stato si sarebbe riferita a una costruzione, inizialmente del nonno paterno e risaltente al 1966, che all'epoca dell'edificazione non avrebbe violato alcun regolamento. Almeno questo secondo Di Maio.

Il caso di Rosa Capuozzo. Nel corso della storia politica del leader pentastellato, il fatto non sarebbe però mai emerso. Nemmeno quando, nel 2016, dieci anni dopo la sanatoria del padre, Luigi Di Maio fu favorevole all'espulsione di Rosa Capuozzo. La scelta di allontanare il primo cittadino di Quarto, unico sindaco campano pentastellato, ebbe origine da un abuso edilizio. Anche se dietro il motivo dell'espulsione sembrò esserci altro. Capuozzo viveva in una casa con un'opera ancora da condonare. Il fatto spinse un consigliere comunale del M5S (finito poi sotto inchiesta per la Procura antimafia) a ricattarla. Sul blog di Beppe Grillo, infatti, si leggeva: "È dovere di un sindaco del M5S denunciare immediatamente e senza tentennamenti alle autorità ogni ricatto o minaccia che riceve".

Condono della casa di famiglia, Di Maio attacca Repubblica. La nostra risposta, scrive Conchita Sannino il 7 novembre 2018 su "La Repubblica". Luigi di Maio risponde a Repubblica sulla vicenda del condono della casa di famiglia a Pomigliano d'Arco. "Ho chiamato mio padre e gli ho chiesto cosa avesse combinato, mi ha spiegato che nel 1966 mio nonno, che ora non c'è più, costruì la casa dove vive tuttora la mia famiglia. Nel 1966 mio padre aveva sedici anni - ricorda Di Maio - e la casa fu costruita in base ad un decreto regio del 1942, ancora vigente nel 1966. Nel 1985, quando mio nonno non c'era più, mio padre venne a conoscenza di una legge per regolarizzare qualsiasi manufatto costruito in precedenza, e chiese di regolarizzare la casa". Di Maio, che si lamenta di come "non sia bello vedere la propria famiglia sbattuta a pagina 10 come i 'furbetti del condono edilizio", prosegue ricordando che il padre "presentò una domanda ad aprile 1986, io nasco tre mesi dopo, spero che mi si riconosceranno le attenuanti dell'incapacità di intendere e volere. Mio padre presenta la domanda ad aprile '86, io nasco a luglio '86. Nel 2006 mio padre riceve la risposta del comune che gli dice di pagare duemila euro e regolarizzare così la casa costruita nel 1966. Questo sarebbe il grande scoop di Repubblica, io condonista... Peccato però che non abbia mai titolato per gli scudi fiscali sotto i governi Renzi, Letta e Gentiloni". E aggiunge: "Mi perdonerete se oggi ho comprato Repubblica non lo farò spesso, lo farò solo quando serve".

La risposta di Repubblica. I fatti non si piegano alle convenienze. È una delle regole attraverso cui passa la credibilità e la trasparenza di un leader politico. Prendiamo atto che il vicepremier e capo del M5S Luigi Di Maio lo abbia appena sperimentato, confermando in una diretta Fb tutto quello che Repubblica - rigorosamente attenendosi a dati pubblici e incontestabili - aveva scritto, relativamente alla sanatoria concessa a suo padre, dal Comune di Pomigliano d'Arco, nel 2006, avente per oggetto il palazzetto in cui risulta residente il leader del Movimento. Di Maio, tuttavia, anche stavolta incorre in qualche imprecisione. E in alcune omissioni. Sfrondando l'intera vicenda di meta-messaggi e sarcasmo sulla libertà di stampa - che appesantiscono la verità come un abuso su uno scheletro d'immobile - per estrema chiarezza, ripercorriamo alcune evidenze.

Primo punto, tecnico. Suo padre, il geometra ed imprenditore edile, Antonio Di Maio, ha effettivamente chiesto ed ottenuto un condono per manufatti ed ampliamenti abusivi, eseguiti al secondo e terzo piano, richieste che sono state depositate in Comune a partire dal post-terremoto esattamente come abbiamo rilevato e raccontato? Sí. Invece qui cominciano i 'ma' dell'onorevole Di Maio. "Ho letto Repubblica (...), ho chiesto a mio padre cosa hai combinato. Mio padre presentó una domanda ad aprile 1986. Ma la casa fu costruita nel 1966, realizzata da mio nonno in base al Regio decreto del 1942". Una genealogia interessante, ma c'è una prima imprecisione. Due terzi della casa, ovvero secondo piano e terzo piano sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo. Ciò non toglie che si sia trattato di ampliamenti per complessivi 150 metri quadri.

Secondo punto. Tecnico. Suo padre ha effettivamente definito tutta la pratica nel 2006, col pagamento di 2mila euro a fronte di quel volume, tra nuove camere da letto, tinello e studiolo con lucernai ed altro? Sí. "Mio padre riceve la risposta del Comune che gli chiede di pagare 2mila euro", spiega ancora Di Maio. Anche qui c'è una omissione. A quanto pare, il papà geometra - nonostante la sua esperienza e la competenza tale da esaminare pratiche altrui per il Comune - aveva sbagliato a proprio favore il calcolo di alcuni - pochi - metri quadri. Una dimenticanza certamente non voluta. È vero o no che fu costretto a tornare a Palazzo e a saldare quella differenza?

Terzo ed ultimo punto. Politico. "Questo sarebbe il grande scoop di Repubblica. Mi perdonerete oggi ho comprato Repubblica, non lo farò spesso", dice Di Maio che addirittura consiglia di mettere "più amore" nella cronaca politica; riecheggiando anche qui antichi slogan berlusconiani. Il vicepremier Di Maio, se leggesse di più e meglio, saprebbe cose che evidentemente in casa, gli erano sfuggite, almeno da 12 anni. E soprattutto dica cosa pensa del condono e di come possa ora vietare a Ischia ciò che in casa sua era stato concesso. I fatti, come lui stesso ha dimostrato spiegando, non si piegano alle convenienze. Conchita Sannino

Il vizio del moralista Grillo Sanate megaville e società. Il comico tuona contro i condoni ma li ha sfruttati per la residenza a Genova e l'immobiliare col fratello, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". Beppe Grillo sul blog denuncia da anni la piaga dell'evasione fiscale in Italia, anche se - raccontò l'ex impresario Lello Liguori - il comico pretendeva di farsi pagare i suoi spettacoli in nero. Ma Beppe Grillo denuncia da anni anche la malapianta dei condoni fatti dai vari governi. «Il cittadino deve sentirsi rispettato come contribuente, non preso per il culo da una serie infinita di condoni e dallo Scudo Fiscale» tuonava nel 2012. «I politici sono ectoplasmi che rinnovano la loro esistenza grazie a palliativi, l'ultimo è il condono per le abitazioni abusive» ammoniva nel 2013, epoca governo del «porporato Nipote Letta», cioè Enrico. Il M5s in Parlamento si occupa delle vere emergenze nazionali mentre «loro» si occupano solo di «salvare Berlusconi, salvare il Monte dei Paschi di Siena e fare il condono edilizio» sentenziava sempre sul blog nel 2013. «Il governo strizza l'occhio ai furboni con la procedura di condono nota come «voluntary disclosure» rituonava il comico nel 2017. Ma quando si trattava di condonare la roba sua, Grillo non si è schifato per nulla. Anzi più volte il fondatore del M5s ha approfittato della possibilità di sanare gli abusi. Nel suo caso per tre volte, con due tipologie diversi di condoni. I primi due sono scritti nei bilanci della Gestimar Srl, società immobiliare con sede a Genova proprietaria di una decina di immobili fra Liguria e Sardegna, di cui Beppe Grillo era socio al 99%, insieme al fratello Andrea. Ebbene nei bilanci 2002 e 2003 si legge: «In considerazione della possibilità concessa dalla legge finanziaria 2003 di definire la propria posizione fiscale con riferimento ai periodi di imposta dal 1997 al 2001, fermo restando il convincimento circa la correttezza e la liceità dell'operato sinora eseguito, si è ritenuto opportuno di avvalersi della fattispecie definitoria di cui all'articolo 9 della predetta legge», ovvero il condono tombale dell'allora governo Berlusconi, ministro Tremonti, ovvero del «nano di Arcore» e «Tremorti», come li soprannominava gentilmente il comico. Il loro condono però lo prendeva sul serio.

Come l'altro, edilizio, quello che i suoi fan diventati ministri giustificano in Sicilia e promuovono ad Ischia. Del condono edilizio di Grillo scrisse Filippo Facci sul Giornale ricostruendo l'epopea del comico-fustigatore di costumi: «Nel 1986, poco in linea con certe sue intransigenze future, fu protagonista di alcuni spot per gli yogurt Yomo: Ci hanno messo 40 anni per farlo così buono, diceva indossando una felpa con scritto University of Catanzaro. Lo yogurt è un prodotto buono, si difese lui. Per quella pubblicità vinse un Telegatto. È il periodo in cui andò a vivere a Sant'Ilario, la Hollywood di Genova: una bellissima villa rosa salmone, affacciata sul Monte di Portofino, con ulivi e palme e i citati frutti e ortaggi di plastica. Non fece scavare una piscina, ma due: cosa che piacque poco ai vicini e soprattutto al dirimpettaio Adriano Sansa, già poco entusiasta del terrazzo di 100 metri quadri che Grillo fece interamente ricoprire inciampando in un clamoroso abuso edilizio cui pose rimedio con uno di quei condoni contro cui è solito scagliarsi». È un artista, mica si può chiedergli la coerenza. Del resto Grillo ha fatto l'apologia della decrescita, del pianeta slow, delle auto ad acqua che non inquinano e non consumano petrolio, ma ha posseduto Ferrari e barche a motore. L'altra megavilla, quella a Bibbona a pochi metri dal mare che affitta a 15mila euro a settimana, ha la fortuna di essere stata accatastata solo come A7 (villino), invece che A8 (villa), come pure quella di Sant'Ilario. Comico, condonato e anche fortunato.

C COME MAFIA DEI COLLETTI BIANCHI.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CASTOPOLI” Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

I “colletti bianchi” e le mafie, scrive il 4 settembre 2018 su "La Repubblica" Giuliano Esposito - Università di Pisa, Dipartimento di Scienze Politiche, supervisione professore Alberto Vannucci. Non è dato sapere quanti siano i liberi professionisti implicati in inchieste di mafia. Di certo una minoranza, ma il coinvolgimento è diffuso e di difficile controllo. Le pronunce delle Corti giudicanti di Nord, Centro e Sud Italia raccontano di gruppi criminali che si rivolgono a commercialisti per ripulire i proventi degli affari illeciti, ad avvocati per sottrarre beni patrimoniali ai provvedimenti giudiziari di varia natura, a medici per ottenere diagnosi che alleggeriscano lo stato detentivo di boss o affiliati, ad architetti per assicurare la formale regolarità di lavori condotti in spregio delle normative urbanistiche, sino a coinvolgere quasi tutte le categorie professionali. Se si assume il punto di vista dei clan, il perché e evidente: nell’ampia ricerca di relazioni esterne che agevolino il radicamento e l’espansione, la necessità di competenze che garantiscano la riuscita dei propri affari spiega il ricorso a soggetti che hanno la padronanza della tecnica necessaria a svolgere al meglio, nella forma e nella sostanza, determinati “adempimenti”. Non vi è dubbio che quella delle mafie con i professionisti compiacenti rappresenti la relazione con un ambito di potere: il potere derivante da quei saperi “tecnici” che, utilizzati conformemente a legalità, hanno enorme valore per la società, ma piegati a fini illegali rappresentano, in maniera contraria e speculare, una risorsa ambita dalla criminalità per perseguire i propri obiettivi di rafforzamento. Ma il movente del professionista, nel momento in cui mette a disposizione di organizzazioni mafiose le proprie capacità intellettuali, qual è? Quali le ragioni di chi ha investito notevoli energie, tempo, risorse economiche e competenze in un percorso di preparazione professionale lungo e complesso, di chi perciò sarebbe in grado di assicurarsi una vita almeno dignitosa senza ricorrere a collusioni e contiguità con la criminalità organizzata? Quale il tornaconto tanto irrinunciabile da indurre a tradire la professione per la quale ci si è costruiti? Sono gli interrogativi che affronto ne “L’angusto spazio vitale di Titta Di Girolamo: scelte professionali tra legalità e mafiosità” – lavoro conclusivo del master in “Analisi, prevenzione e contrasto della corruzione e della criminalità organizzata”, diretto dal professore Alberto Vannucci, docente del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Pisa – anche alla luce della riflessione di eminenti studiosi del fenomeno mafioso (in primis, il sociologo Rocco Sciarrone e lo storico Isaia Sales). Proprio nel solco della preziosa teorizzazione di quest’ultimo (sulle relazioni come reale fattore-chiave del successo delle mafie) emerge un ulteriore quesito, che in qualche modo riunisce i precedenti: fino a che punto il professionista è del tutto consapevole della intrinseca posizione di debolezza in cui si colloca nel momento della scelta di “servire” uno o più gruppi criminali? Nel patto tra il soggetto normalmente dedito all’illegalità (il mafioso) e quello che deve continuare a dare parvenza di improntare il proprio lavoro alla legalità pur avendo fatto la scelta opposta (il professionista infedele), c’è un “contraente debole”. Che non è dissuaso, evidentemente, dall’aver intrapreso e concluso percorsi di studio impegnativi da un punto di vista professionale, e comprendenti quei principi di etica e deontologia sul cui rispetto gli organismi rappresentativi delle categorie professionali (Ordini e Collegi) dovrebbero vigilare; né dalla consapevolezza che l’essere depositario di determinati saperi non lo rende “competitivo” nei confronti di chi è specializzato in capacità intimidatoria e utilizzo della violenza (ove occorra). Se al libero professionista nemmeno può ritenersi applicabile il movente proprio degli affiliati ai gruppi criminali – ovvero quello per cui la violazione delle leggi permette di integrarsi meglio nella società e nello Stato (il paradosso è solo apparente) – residua allora più che una impressione: che la sua “scelta di mafiosità” non sia del tutto interpretabile secondo canoni di razionalità.

Pubblica Amministrazione: una “casa di vetro” opaca, scrive il 3 settembre 2018 su "La Repubblica" Federica Mazzei - Università di Pisa, Dipartimento Scienze Politiche, supervisione professore Alberto Vannucci. Quanto è trasparente la nostra amministrazione? Questo è stato l’interrogativo che ha guidato la mia ricerca dal titolo “Pubblica Amministrazione: una “casa di vetro” opaca. Teoria e pratica della trasparenza amministrativa attraverso il caso studio dei siti contaminati” presentata come lavoro di tesi per il Master in Analisi, Prevenzione e Contrasto della criminalità organizzata e della corruzione dell’Università di Pisa nel giugno 2016. Al panorama legislativo in materia di trasparenza, che in Italia ha visto la sua nascita in un periodo relativamente recente rispetto ad altri paesi europei (la nostra prima legge è datata 1990 mentre quella svedese 1766), si è affiancata la posizione della società civile che ha avuto un ruolo determinante nella recente battaglia per ottenere un libero accesso a tutte le informazioni attraverso lo strumento del Freedom of Information Act (Foia), diventato legge nel dicembre 2016. Quest’ultimo è basato su quel meccanismo di “trasparenza reattiva” che si verifica quando l’amministrazione reagisce a uno stimolo esterno proveniente da una richiesta di qualunque cittadino. È differente dal concetto di “trasparenza proattiva” dove è la PA che pubblica autonomamente le informazioni le quali non saranno tutte quelle che un ente si trova a gestire in quanto non sarebbe sostenibile dal punto di vista economico. Questo regime di trasparenza non è solo un antidoto che consente di tenere alla larga gli effetti corruttivi che derivano dall’opacità delle informazioni, spesso non aggiornate o organizzate in modo tale da rendere più permeabile al malaffare il tessuto amministrativo di qualunque ente. Avere la possibilità di accedere a qualunque informazione (a eccezione di quelle tassativamente previste dalla legge) si rivela un potente strumento di democrazia che si lega alle scelte che il singolo può produrre anche nella propria quotidianità. Nei paesi anglosassoni esiste una lunga tradizione relativa al Foia che si basa su un concetto semplice: tutte le informazioni in possesso delle amministrazioni sono pubbliche e ciascun cittadino ha diritto di accesso alle stesse in modo incondizionato. Questo è un diritto che negli Stati Uniti si può far valere addirittura davanti alla Corte Suprema. Esistono comunque dei vincoli ma questi sono tassativamente indicati dalla legge. Con il Foia si realizza quindi una tutela molto più forte: il cittadino può richiedere qualunque dato. La tesi (scritta quando il Foia non era ancora diventato legge) è stato anche il pretesto per testare la reattività delle Pubbliche Amministrazioni nel rispondere a una richiesta di accesso civico ai sensi del D.Lgs. 33/2013 e, trattandosi di dati ambientali, anche del D.Lgs. 195/2005 in quanto all’articolo 3 si legge: “L'autorità pubblica rende disponibile [...] l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”. Il lavoro è nato grazie alla collaborazione con Rosy Battaglia, civic journalist e presidente dell’associazione Cittadini Reattivi dove ho svolto un tirocinio nell’ambito del Master e di cui ora sono socia. L’analisi è stata condotta su un campione di quaranta amministrazioni tra cui figurano Regioni, Province autonome e ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente), chiedendo a ciascuna di esse che venisse pubblicato, dove mancante, l’elenco dei siti contaminati, potenzialmente contaminati e bonificati in formato aperto e la contestuale trasmissione di quanto richiesto ovvero la comunicazione dell’avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale ai dati oggetto dell’istanza. Il risultato lampante della ricerca ha evidenziato che non tutte le PA sentono il dovere di rispondere, nonostante la richiesta fosse avanzata pubblicamente attraverso il portale “Chiedi” dell’Associazione Diritto di Sapere. Ma non solo. Spesso i dati forniti non sono aggiornati o risultano parziali per mancanza ad esempio di indicazioni sui siti potenzialmente contaminati. Il tema della trasparenza sulle bonifiche è fondamentale soprattutto alla luce della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti del 2012 presieduta dal deputato Gaetano Pecorella dove si legge che “quello delle bonifiche è un business appetibile anche da parte delle organizzazioni criminali di stampo mafioso che [...] riescono ad infiltrarsi sapientemente nelle procedure amministrative, avendo piena contezza di quelli che sono gli affari più importanti e potendo contare sulla connivenza e/o complicità di soggetti che operano all’interno della Pubblica Amministrazione.” Oggi è più che mai fondamentale una presa di coscienza da parte di tutte le comunità che vivono i territori nella difesa di quello che è un bene comune: l’ambiente. Come peraltro già accaduto a Casale Monferrato e Brescia, entrambe storie di resilienza dal basso e che Cittadini Reattivi ha scelto di raccontare attraverso un crowdfunding sulla piattaforma di Produzioni dal Basso. Il progetto “Storie Resilienti” è stato selezionato, insieme ad altri 15, da Banca Etica tra oltre 180 provenienti da tutta Italia e ha il patrocinio del coordinamento Basta Veleni, Legambiente Lombardia, il Comune di Casale Monferrato, AFEVA (Associazione Familiari e Vittime dell’Amianto), il comitato del Premio Ambientalista dell’Anno Luisa Minazzi e il settore anticorruzione e cittadinanza monitorante di Libera e Gruppo Abele con Scuola Common. Da tutta Italia sono arrivate donazioni per un ammontare superiore agli 8.000 euro che hanno consentito di produrre al momento il primo dei due documentari dal titolo “La rivincita di Casale Monferrato” che con l’instancabile Rosy Battaglia sta girando l’Italia per raggiungere tutti coloro che vogliono organizzare una rappresentazione pubblica nella loro città.

Questo è un piccolo grande esempio di come la tutela dei territori cominci da ognuno di noi, dal nostro sentirci parte di qualcosa di più, del nostro sentirci comunità.

MAFIE E PROFESSIONI: LA TESI DI RICERCA DI UNA STUDENTESSA DEL MASTER APC DELL’UNIVERSITÀ DI PISA SU CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E CORRUZIONE. Scrive il 23 luglio 2018 "Avviso Pubblico". Avviso Pubblico svolge da anni un lavoro di approfondimento delle modalità attraverso le quali le organizzazioni criminali riescono ad infiltrarsi nelle istituzioni e nell’economia. Un aspetto particolarmente importante riguarda la c.d. area grigia, cioè quell’insieme di relazioni tra le associazioni mafiose e soggetti del mondo legale (imprenditori, politici, pubblici funzionari, professionisti), che ne favorisce la diffusione ed il rafforzamento. Le relazioni della Direzione Nazionale Antimafia e della Commissione Parlamentare Antimafia offrono importanti spunti di riflessione sulle dimensioni di tale fenomeno. Ospitiamo sul tema un contributo di Cecilia Anna Mariatti Mafia, professionisti ed ordini professionali. Riflessioni e considerazioni su un fenomeno poco dibattuto, elaborato al termine del Master APC Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione, organizzato annualmente dall’Università di Pisa in collaborazione anche con Avviso Pubblico. La ricerca analizza nei suoi aspetti generali il fenomeno della contiguità tra mafia e mondo delle professioni liberali, del contributo che ciascuna di esse può garantire, e delle differenti strategie messe in atto dalle organizzazioni criminali. Viene poi dedicata un’attenzione specifica alle misure adottate dall’Ordine professionale degli avvocati e dalle sue articolazioni territoriali (gli Ordini circondariali) per contrastare comportamenti illeciti dei propri iscritti, con particolare riguardo alle norme che disciplinano l’accesso alla professione (e la re-iscrizione dopo un provvedimento di cancellazione dall’Albo), a quelle riguardanti il procedimento disciplinare interno e il Codice Deontologico forense, mettendo in luce anche il diverso atteggiamento nei confronti di questa problematica da parte degli Ordini circondariali. Per un approfondimento di questo tema vedi, tra le altre, l’ultima relazione della Commissione Antimafia su Mafie ed economie e le Relazioni della DIA e della DNA pubblicate sull’Osservatorio parlamentare.

Saggi. Storia e scienze sociali 2018. Stefano D’Alfonso, Aldo De Chiara, Gaetano Manfredi: Mafie e libere professioni. Come riconoscere e contrastare l'area grigia. Nell’attuale fase storica, che pure ha conosciuto un impegno straordinario nel contrasto alle mafie, vi è un elemento che non ha trovato risposta adeguata. Si tratta del rapporto tra le aree mafiose e le libere professioni, un insieme di comportamenti vischiosi e collusivi, ormai densamente accertati nelle sedi investigative e giudiziarie. Vi sono ambiti nei quali le mafie, per lo sviluppo della loro attività criminale, hanno bisogno di specifiche competenze tecnico-professionali: basti pensare al riciclaggio, alla stesura di perizie, alla contrattualistica, alla partecipazione ad appalti pubblici. Si tratta di fenomeni posti in evidenza dalla Commissione parlamentare antimafia, che insieme alla Conferenza dei rettori, e al coinvolgimento degli ordini e dei collegi professionali, ha portato avanti un fondamentale lavoro d’inchiesta e dato avvio a un proficuo processo di collaborazione. Le relazioni che le mafie intessono nell’area grigia sono approfondite nel volume: gli autori ne analizzano la casistica attraverso lo studio dei provvedimenti giudiziari e dei procedimenti disciplinari degli organi. Molte le criticità che emergono. La più rilevante è l’istituto della cosiddetta «pregiudiziale penale», in base alla quale, allo scopo di tutelare il lavoro del professionista finché il fatto contestato non venga accertato con sentenza definitiva, è imposta la sospensione dei procedimenti disciplinari. Per contrastare i fenomeni collusivi, il libro formula una serie di proposte concrete, fondate su basi scientifiche, su presupposti culturali condivisi, facilmente comunicabili e trasferibili nel dibattito politico-istituzionale, con il fine di stimolare una proposta legislativa. È necessario ispessire la qualità etica e il rigore deontologico dei liberi professionisti, provvedendo a un adeguato percorso formativo, a partire dall’università, e aumentando il potere di sanzione.

I professionisti e l'economia truccata, scrive il 7 giugno 2017 su "La Repubblica" Beatrice Fonti - Consigliere Ordine Ingegneri della Provincia di Modena. Di fronte all'attuale dilagare di mafia e corruzione gli Ordini professionali hanno il dovere di un supplemento di impegno. E nessuna professione può sentirsi esclusa. I mafiosi hanno oggi sempre più bisogno del contributo dei professionisti sia perché i loro interessi sono rivolti ad ambiti economici sempre più raffinati sia per l'enorme mole di denaro che necessita di essere indirizzato. Oggi l'impresa mafiosa è una vera e propria holding economica e ha bisogno di tutte le figure professionali necessarie a un'azienda: dal ragioniere al commercialista per bilanci, fallimenti guidati o trasferimenti d'azienda, ai notai, passando per medici, ingegneri e via di questo passo. Sono il maquillage indispensabile per trasformare il denaro sporco in ricchezza lecita e rispettata. Quando i soldi ripuliti tornano in mano ai criminali, questi sono pronti a investirli in attività legali. E il miracolo è compiuto: grazie alla complicità di alcuni professionisti l'illegale si riversa nel legale e tutto si confonde. Nei territori del nord la mafia è silente, è abile nel penetrare nei tessuti sani della società senza fare rumore, anche se non bisogna dimenticare che se la situazione lo richiede è pronta a minacciare, intimorire, incendiare, sparare, uccidere. In assenza di un forte allarme sociale, provocato generalmente da fatti di sangue o violenze, i padrini, ai più, non sembrano così malvagi. Il riciclaggio non viene percepito come un pericolo, non è una bomba piazzata sotto un'autostrada. Al nord le mafie uccidono, ma solo l’economia sana. E questo fa meno rumore, non crea allarme sociale, non turba la sicurezza cittadina. È grave, ma non sembra. Noi professionisti però dobbiamo essere consapevoli del danno che questa economia truccata dai soldi sporchi porta al nostro paese, al presente e al futuro dei nostri giovani. La lotta alla mafia si fa prima di tutto responsabilizzando le nostre coscienze e risvegliando quella “etica di professionisti”, che qualche volta si assopisce. Da queste considerazioni abbiamo iniziato il nostro percorso di contrasto alle mafie e alla corruzione frutto di un percorso ragionato e di una discussione che ha avuto il coraggio di mettere al centro il nostro ruolo di professionisti, certi del fatto che per un professionista è più semplice e conveniente essere onesto che corrotto. Nasce così la "Carta Etica dei Professionisti". Non abbiamo aspettato il processo “Aemilia”, ma abbiamo ascoltato le denunce delle procure e abbiamo letto le inchieste giornalistiche. La Carta Etica è stata proposta dal Comitato Unitario dei Professionisti ma è stata recepita con delibera da tutti gli Ordini e i Collegi ed è diventata appendice al codice deontologico di ogni singolo Ordine professionale. Nessuno, finora, ha fatto ricorso alla carta etica per sospendere o sanzionare un iscritto e questo potrebbe far nutrire dubbi sulla reale efficacia del documento. Avevamo però fin dall'inizio consapevolezza delle difficoltà che avremmo incontrato. Anche per questo abbiamo fortemente voluto creare parallelamente una commissione d’ascolto per i colleghi in difficoltà, per sostenere e accompagnare la presa di coscienza del singolo professionista che si trova a fronteggiare situazioni fumose o criminali e che per paura non denuncia. Lo scopo è accompagnare il collega nel percorso responsabile della denuncia. Le denunce che abbiamo raccolto, anche grazie a uno sportello anonimo dove è possibile raccontare mantenendo discrezione, e anonimato, sono state girate agli investigatori. Abbiamo anche avviato percorsi di formazione specifici che coinvolgono tutte le professioni e per l'Ordine degli Ingegneri e degli Architetti abbiamo deciso di riconoscere crediti formativi a coloro i quali assisteranno a udienze del processo “Aemilia”, perché il quadro che viene fuori da “Aemilia” è inquietante e ci deve far capire che non possiamo più permetterci di aspettare che siano le forze dell’ordine e i magistrati ad intervenire. Non è possibile che tra professionisti e imprenditori, tra amministratori pubblici e politici perbene, nessuno si fosse mai accorto di quello che adesso sentiamo raccontare dai pentiti che depongono al processo. Non possiamo più permettercelo se davvero vogliamo fare la guerra alle mafie, dobbiamo fare il salto di qualità, dobbiamo denunciare. Ai professionisti che hanno percezione di atti illeciti bisogna dire: non esitate, rivolgetevi al vostro Ordine o al vostro Collegio perché a loro tocca supportarvi e condividere con voi un eventuale percorso di denuncia. Solo così potremo dire di aver fatto la nostra parte.

Mafia, Scarpinato: "Colletti bianchi e aristocrazie mafiose insieme per grandi affari", scrive il 22/05/2017 TP 24. “È un errore guardare la criminalità mafiosa con gli stessi occhi e parametri concettuali con cui si guardava la mafia nella prima Repubblica. Ora è emerso un nuovo crimine organizzato che è difficile gestire con gli stessi strumenti e norme della prima Repubblica come ad esempio il 416bis”. A dirlo è il procuratore generale Roberto Scarpinato, intervenuto alla conferenza “Seguite i soldi, troverete la mafia”, organizzata a pochi giorni dal venticinquesimo anniversario della strage di Capaci dall'associazione culturale Falcone e Borsellino in collaborazione con la Rete Universitaria Mediterranea e ContrariaMente. Secondo Scarpinato il cambiamento sociale, culturale, economico internazionale che ha interessato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ha “scompaginato anche gli assetti della società civile illegale e l’universo mafioso innescando una selezione della specie, che ha premiato le mafie silenti. Mafie che adattandosi hanno ridotto al minimo il metodo mafioso classico e l’uso della violenza cavalcando invece la logica del libero mercato”. Una criminalità organizzata che, secondo il procuratore generale, delinea “sistemi di potere paralleli” contenenti “un elite di colletti bianchi e aristocrazie mafiose” che si occupano di grandi affari inaccessibili alla mafia tradizionale che si è sviluppata invece “all’interno dell’economia meridionale della prima Repubblica”. Per Scarpinato “oggi la torta è per pochi: i grandi affari sono gestiti in cabine di regia a cui hanno accesso ristrette elite di colletti bianchi e aristocrazie mafiose”, mentre durante la prima Repubblica “il rapporto tra mafia e corruzione era democratico, poiché la spesa pubblica era spalmata orizzontalmente”. Per questo, ha concluso il magistrato, “la battaglia” deve essere “su tutti i fronti”, primo fra tutti “il ripristino della democrazia politica contro i grandi poteri economici e finanziari, di cui la mafia mercatista è componente strutturale”.

Il «kit di assistenza» delle mafie: professionisti e mani sulla Pa, scrive Roberto Galullo il 27 gennaio 2017 su "Il Sole 24 ore". Sinergie professionali cementate dalla corruzione: ecco la strategia delle mafie – non certo da oggi – che viene messa nero su bianco dalla Direzione investigativa antimafia (Dia) che ha appena spedito al Parlamento la relazione sul primo semestre 2016. È proprio andando oltre l'arco temporale che la Direzione guidata dal generale Nunzio Antonio Ferla disegna le linee marcatamente evolutive del fenomeno mafioso. Svelare e scardinare queste figure, si legge nella relazione, significa centrare gli obiettivi della moderna criminalità organizzata. Il problema, semmai, si pone rispetto ai profili di responsabilità dei singoli e alla qualificazione delle condotte, non sempre esattamente inquadrabili nell'associazione di stampo mafioso. Ce n'è per tutti e gli esempi che fa la Dia non lasciano dubbi sulla strada che le mafie hanno sempre percorso e che ora – appunto – pongono più che mai un problema anche alla politica e al legislatore. Il concorso esterno, in altre parole, sta stretto ed è comunque superato dagli eventi.

Cosa nostra può vantare su una vasta area grigia dentro i settori cruciali dell'economia nazionale, come l'edilizia (pubblica e privata), i trasporti, la distribuzione commerciale, il settore agroalimentare e quello assicurativo, tutti espressione di una managerialità mafiosa che – scrive la Dia – interessata a recuperare margini di competitività e ad abbattere i costi di produzione, diventa lo strumento per ampliare, apparentemente a norma di legge, il paniere degli investimenti dei clan.

La ‘ndrangheta non fa accezione. Anzi. È la mafia più duttile e più evoluta, che vive sempre più di commistioni tra le professionalità maturate nel nord del Paese, affiliati di nuova generazione e professionisti attratti consapevolmente dalle cosche. Un puzzle addirittura parziale perché per completarlo bisogna aggiungere anche le deviazioni della politica e dei servitori infedeli dello Stato.

La camorra – per quanto polverizzata – segue la scia. Significative, ricorda la Dia, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, che avrebbe illustrato come chi vince un appalto, contemporaneamente acquisti dal clan una sorta di “pacchetto di assistenza”, che comprende la difesa da richieste estorsive da parte di altre famiglie camorriste e l'intervento nei confronti di funzionari e amministratori comunali nel caso dovessero tentare di rallentare, anche a seguito di legittimi controlli, l'esecuzione dei lavori. Un esempio, solo un esempio. Tra i tanti. In questa acclarata dimensione evolutiva sfugge ancora la Sacra corona unita, ancorata a dinamiche regionali e dipendente in larga parte dal matrimonio con le mafie più forti. Però le nuove leve hanno voglia di affrancarsi dai vecchi boss e, specie in provincia di Taranto, la volontà è quella di rinsaldare l'appartenenza al clan attraverso liturgie ‘ndranghetiste. Se così fosse, nel medio periodo anche questa mafia capirebbe ancor meglio che, grazie a quel “pacchetto di assistenza”, la strada verso il crimine è molto più in discesa.

C COME MAFIA DEL CONTRABBANDO.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “SPECULOPOLI” (Vizi di Stato) E “LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA” (Proibizionismo).  Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Che mafia sarebbe senza la linfa del traffico di droga, dello sfruttamento della prostituzione, del gioco d’azzardo, della corruzione per appalti illeciti?

Il proibizionismo, da Al Capone alla cannabis, scrive il 16 agosto 2018 su "La Repubblica" Roberto Rossi - Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, relatore professore Isaia Sales. Qual è il parassita più resistente? Un batterio? Un virus? Una tenia intestinale? No, un’idea. Persistente, contagiosa. Una volta che si è impossessata del cervello un’idea pienamente formata, compresa, si avvinghia nella testa ed è quasi impossibile sradicarla. Le varie forme di proibizionismo nella storia hanno avuto sempre una costante: un'idea. Presente e insindacabile. Senza alcuna pretesa di carattere morale, si è cercato di comprendere queste idee analizzandole sotto un punto di vista storico per ragionare su come e quanto il presente sia influenzato dal passato e su come, queste idee, possano essere messe in discussione per il bene della collettività ed il male delle organizzazioni criminali.

Tutto parte nel 1920 con il “Volstead Act” che dichiarò l'alcol illegale negli Stati Uniti. L'alcol era stato individuato come la causa di molti dei mali che affliggevano la società come l'assenteismo al lavoro, le violenze domestiche e addirittura la nascita di bambini deformi. Questo fece nascere il mercato nero di alcol che andò nelle mani della criminalità che, da predatoria si trasformò in imprenditoriale e da comune ad organizzata. Il "magnate" del contrabbando di alcolici fu Alphons Capone che raggiunse un potere tale da divenire il ricercato numero uno della Cia. Il giro d'affari di questo mercato fu enorme: 3 miliardi di dollari che corrispondevano al 3% del Pil nazionale. Praticamente grazie a questi soldi sono nate e si sono radicate le mafie in America. Dunque la mafia americana nasce, indirettamente, a causa di un preconcetto morale che demonizzò l'alcool per ragioni "progressiste", ritenendo il suo consumo immorale. Questa immoralità non era percepita però dalla maggior parte della società, per questo il contrabbando avanzò senza che le persone si sentissero fuori dalla morale e quindi fuori legge. Ciò generò una reazione sociale automatica: ovvero la creazione di un circuito illegale che deterrà il monopolio di quel bene. è nient'altro che la legge del mercato, ed allora avvenne con l'alcol, mentre oggi avviene con la cannabis.

L'altra forma di proibizionismo è quello della cannabis negli anni 30. Questa pianta venne definita la coltivazione da un miliardo di dollari per le sue straordinarie potenzialità di sfruttamento soprattutto in campo industriale. Ciò face storcere il naso a molti affaristi americani dell'epoca, uno su tutti Andrew Mellow, proprietario della Gulf Oil, ma anche segretario del tesoro degli USA che nominò a capo dell'ufficio narcotico Harry J. Anslinger che aveva il compito di screditare le potenzialità della cannabis. Attuò così una campagna mediatica contro la marijuana che faceva leva sui sentimenti razziali e xenofobi degli americani ed in poco tempo fece della marijuana il simbolo del peccato, della depravazione e della violenza. Gli si attribuirono caratteristiche del tutto false come, tra le altre cose, il fatto che rendesse le donne infedeli e depravate. Non ci volle molto affinché tutti credessero a ciò. Il nemico del popolo era nuovamente creato. Nel 1937 Roswelt approvò il Marijuana Tex Act che proibiva la coltivazione della pianta in tutta l'America. Le assurde teorie di Anslinger vennero smentite più volte da diversi rapporti scientifici, su tutti il Rapporto La Guardia e Shafer; dati concreti che vennero oscurati dalla schizofrenia di messaggi oramai entrati prepotentemente nelle teste delle persone. La "guerra alla marijuana" fin dalle origini dunque è stata viziata da un artificio ideologico che prescinde da solide fondamenta scientifiche ed oggi ne subiamo ancora i riflessi. Ciò mi ha portato alla riflessione che collega la campagna mediatica di Anslinger alla società attuale, ovvero la società della post-verità. Eletta come parola internazionale dell'anno 2016 dall'Oxford Dictionary, post-verità" indica una situazione in cui i fatti obbiettivi sono molto meno influenti sull'opinione pubblica rispetto a concetti promulgati attraverso il mezzo dell'emotività. Ed è proprio questo il motivo per il quale il proibizionismo va avanti: da sempre Anslinger ha parlato all'emotività della gente e l'emotività fa agire d'istinto, mentre la razionalità richiede il dovere di fermarsi, ragionare e riflettere. All'epoca non c'era tempo per riflettere, altrimenti il male si diffondeva. Nella società della post-verità non importa realmente che le informazioni convincano con argomentazioni razionali, con prove. Queste ultime devono solo colpire alla pancia, suscitare violente reazioni, per diventare più virali possibili. Oggi la chiamano post-verità, ma Anslinger settant'anni fa già faceva scuola. La cannabis è una costante del nostro Paese e per comprendere la portata del fenomeno basta analizzare i dati: in Europa i consumatori di cannabis sono 16,6 milioni, in Italia 5 milioni. La cannabis è la sostanza più confiscata di tutte in Europa.  In Italia un detenuto su quattro entra in carcere per motivi legati alla droga. Il 56.3% delle operazioni di polizia riguardanti la droga attengono alla cannabis. La cannabis mafiosa in Italia che proviene perlopiù dall'Albania genera un giro d'affari d 4-5 miliardi l'anno e nel 91% dei casi risulta essere altamente tossica perché tagliata con piombo e metalli pesanti che creano il plusvalore per le mafie. Oltre a ciò in Italia non mancano le produzioni nostrane: le ultime piantagioni scoperte sono state a Reggio Calabria, tra le serre dell'Aspromonte e in Campania, tra i monti lattari, con un sequestro record di 34 mila piante di marijuana. Gli studi di Ferdinando Ofria, professore di politica economica all'Università di Messina, ci dicono che, tra le tante cose, qualora si legalizzasse in Italia il gettito fiscale oscillerebbe tra i 5 e gli 8 miliardi e si creerebbero fino a 300 mila nuovi posti di lavoro. La cosa ancora più importante è quella che verrebbero indebolite moltissimo le attività criminali mafiose che si finanziano continuamente anche attraverso le piazze di spaccio presenti nelle periferie delle città italiane.

La qualità della vita è la prima vittima delle mafie. Queste infatti, non investono per migliorare i territori di cui sono figlie, perché le mafie hanno la principale intenzione di far restare le cose esattamente così come stanno, affinché possano sostanziarsi del degrado e della disperazione in cui riversano le periferie italiane. Si verifica quella che alcuni sociologi americani hanno definito la "teoria delle finestre rotte" secondo la quale "se le persone si abituano a vedere una finestra rotta, in seguito si abitueranno anche a vederne rompere altre" (una sorta di senso di rassegnazione). Dunque legalizzare non vuole dire promuovere il consumo di droga, anzi, è esattamente il contrario, più si è contro e più si dovrebbe essere favorevoli alla legalizzazione, in modo tale che le prime ad essere ripulite saranno proprio le piazze di spaccio. L'obbiettivo non deve essere eliminare totalmente la droga, in quanto sarebbe pura utopia, ma cercare di ridurre o eliminare le gravi conseguenze indotte dalle droghe nelle persone e nelle intere comunità. La stessa direzione antimafia ha dichiarato già nel 2015 che la lotta repressiva alla cannabis in Italia è un totale fallimento. Dunque probabilmente sarebbe arrivata l'ora di provare ad affrontare il problema in un modo diverso, slegandosi dai riflessi di un'ideologia che viene, come abbiamo visto, da molto lontano. Siamo in un'epoca che si dichiara post-ideologica ma che conserva dell'ideologia gli aspetti peggiori, dove l'immobilismo dello Stato, rispetto al tema della legalizzazione, equivale ad una resa che consegna nelle mani della criminalità miliardi di euro annui. Legalizzare non vuol dire assolutamente incentivare al consumo di cannabis, significa regolamentare un mercato già libero e totalmente criminale. "C'è solo qualcosa di peggiore del non cercare informazioni e del sostituirle con supporti ideologici per le scelte, ignorando i dati reali, ed è quella di conoscere i dati reali e ciò nonostante di andare avanti come se nulla fosse".

IL PROIBIZIONISMO AIUTA LA MAFIA. Non ha trovato il giusto risalto sui giornali, a par te il nostro e pochi altri, la notizia che s' è recentemente costituito in Parlamento un nuovo fronte trasversale contro la droga e contro la mafia. Sotto l'impatto drammatico degli ultimi eventi siciliani, 78 deputati e 31 senatori di vari partiti hanno formato un Intergruppo antiproibizionista, con l'obiettivo dichiarato di ribaltare l'impostazione dell'infausta legge Iervolino-Vassalli sulla tossicodipendenza. La novità maggiore consiste nel fatto che questo schieramento tende a identificare la lotta alla criminalità organizzata con la lotta al traffico di stupefacenti, fonte principale di finanziamento per le mafie di tutto il mondo, ricusando il proibizionismo e rilanciando perciò la prospettiva della legalizzazione. Fino a qualche tempo fa, per effetto di una crociata tanto inopportuna quanto inefficace dilagata anche nel nostro paese, chi s' azzardava a sostenere le tesi antiproibizioniste rischiava di passare per un pericoloso sovversivo, un estremista radicale o ancora peggio un attentatore della pubblica moralità. Il fatto che ora 109 parlamentari, compresi alcuni esponenti democristiani e perfino un socialista, tutti rappresentanti legittimi del popolo sovrano, si siano decisi a prendere in considerazione un'ipotesi del genere, non può che confortare retrospettivamente le avanguardie di una campagna che all' estero era stata avviata dal Premio Nobel per l'economia Milton Friedman e dal settimanale inglese "The Economist". Ma proprio per evitare altri equivoci sarà opportuno riflettere più a fondo sul problema, cercando di superare per quanto possibile l'emotività contingente. La legalizzazione della droga, ben distinta dall'ipotesi della liberalizzazione, tende a sottrarre il consumo di stupefacenti all' attuale regime di clandestinità per sottoporlo a controllo sanitario. La lotta alla criminalità organizzata non è certo l'unico motivo per sostenere questa proposta, ma la legalizzazione è senz' altro l'arma principale per combattere la mafia. Non si tratta di una resa, bensì di una scelta responsabile e consapevole. Come all' epoca del proibizionismo sull' alcol, nella Chicago di Al Capone, il divieto stesso è incentivo allo spaccio, alimento della criminalità grande e piccola, fonte di danni alla salute e purtroppo di morti. Sicché si può dire, senza troppe forzature, che le vittime della mafia sono vittime della droga, vanno comprese e computate cioè nel suo inventario di sangue. PER la multinazionale del narcotraffico, la legalizzazione sarebbe verosimilmente fatale, perché eliminerebbe di colpo un gigantesco giro d' affari, un flusso continuo di entrate, un colossale cash-flow. Quando la compravendita di una merce, per effetto della sua stessa illiceità, consente di moltiplicare all' infinito l'investimento iniziale, non c' è guerra o apparato poliziesco che tenga. Il suo potere di penetrazione e corruzione diventa inarrestabile. Tant' è che lo Stato, in Italia come in tutto il mondo, non riesce a impedire lo spaccio e il consumo neppure nelle carceri, cioè nel luogo deputato alla reclusione, dove il cittadino-detenuto è sotto controllo ventiquattr' ore su ventiquattro, 365 giorni all' anno. Come si può pensare, allora, che la repressione funzioni nelle strade, nelle piazze, nei parchi pubblici, dove la vendita della droga di fatto è già libera? Molto più efficacemente le risorse umane e finanziarie impiegate oggi contro lo spaccio potrebbero essere utilizzate in una strategia più raffinata. E cioè in una grande offensiva d' informazione, educazione, dissuasione, come quelle che hanno già dato o stanno dando risultati confortanti nella lotta all' alcol e al fumo. Chissà quante capacità, quanti sacrifici e anche quante vite di agenti, poliziotti e magistrati, si potrebbero risparmiare e impiegare diversamente. Può anche accadere che la mafia si riorganizzi in altro modo, mutando traffici e commerci: i rifiuti tossici, le scorie nucleari, i chip e quant' altro. Ma nel frattempo gli apparati statali saranno riusciti a smantellare una rete impenetrabile di complicità, collusioni, connivenze, spostando e aggiornando la propria difesa sui nuovi fronti. E visto che ora il tema torna all' ordine del giorno, conviene dire francamente che a questi fini sarebbe inutile distinguere - con un residuo di cautela o ipocrisia - tra droghe leggere e droghe pesanti. Mentre le prime offrono rendimenti modesti, l'eroina e la cocaina rappresentano le voci più consistenti nel bilancio criminale della Mafia Spa. In questo caso, il prezzo della materia prima può lievitare fino a cinquemila volte. Soltanto sul mercato italiano, le stime variano da 40mila a 150mila miliardi all' anno, per un giro d' affari che non ha nulla da invidiare alle stangate del governo né al deficit o al disavanzo statali. Per combattere la criminalità organizzata, insomma, non basta legalizzare le droghe leggere. E non basta neppure per ridimensionare e circoscrivere il consumo clandestino di stupefacenti, senza illudersi di riuscire un giorno a debellare questa terribile piaga dalla società. Proprio in rapporto alla natura e alla dimensione del fenomeno, per essere risolutiva la legalizzazione va applicata evidentemente su scala internazionale. Se a introdurla fosse un solo paese o un solo Stato, questo rischierebbe di diventare un porto franco per i trafficanti, gli spacciatori e i tossicomani di tutto il mondo. Ma la mafia, quella italiana o americana, quella cinese o giapponese, è anch' essa una multinazionale che non conosce confini, valichi e frontiere. Perciò va combattuta sul suo stesso terreno, sotto ogni latitudine. CONSIDERATO a torto o a ragione la "casa madre" dell'organizzazione, il nostro paese ha interesse più di altri ad affrontare il problema in termini nuovi, ponendosi alla testa del movimento antiproibizionista. Si tratta di assumere con coraggio un'iniziativa, sul piano europeo prima e internazionale poi, per promuovere un salto di mentalità e di cultura, per sollecitare un confronto aperto, per stimolare una riflessione comune. E' una grande questione di costume civile. Contro la mafia e contro la droga, la lotta non può che essere unica, contestuale, simultanea. L' una e l'altra si possono sconfiggere, insieme, con una strategia d' attacco imperniata sulla legalizzazione, per togliere l'acqua dalla vasca in cui nuotano i pescecani della criminalità organizzata. Di Giovanni Valentini del 5 agosto 1992 su "La Repubblica".

Mafie e droghe tra proibizionismo e crociate antidroga, scrive Umberto Santino. Pubblicato su “Narcomafie”, n. 5, maggio 2002, pp. 6-14, con il titolo: Il circolo vizioso. Nel giugno del 1987, alla fine del processo denominato “Pizza connection”, la Corte distrettuale di New York condannò Gaetano Badalamenti e Salvatore Catalano a 45 anni di carcere. Secondo i magistrati americani Badalamenti per molti anni era stato una sorta di capo dei capi del traffico internazionale di eroina, che dalle raffinerie attorno all’aeroporto di Palermo fluiva incessantemente verso il mercato degli Stati Uniti, e il “gruppo Catalano”, in stretto collegamento con il boss di Cinisi, aveva assunto negli ultimi anni la regia del traffico. In realtà già allora la mafia siculo-americana non era l’unica organizzazione criminale interessata al traffico di droga, ma con ogni probabilità rivestiva un ruolo di primo piano, se non egemonico. Quel che è certo è che Badalamenti operava su piste già aperte in precedenza. L’ingresso della mafia siciliana nel traffico di droga era avvenuto molti anni prima. Il primo sequestro di una partita di droga in terra di Sicilia rimonta al 1952: 6 kg di eroina furono sequestrati ad Alcamo, a metà strada tra Palermo e Trapani, e vennero denunciati mafiosi destinati ad avere un ruolo di primo piano nella storia della mafia: Frank Coppola tornato nella sua Partinico dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti, Salvatore Greco esponente della ben nota dinastia palermitana, John Priziola indicato come capomafia di Detroit. In quegli anni gran parte dei traffici avvenivano fuori dalla Sicilia, ma ad opera di siculo-americani, di cui il più noto era Lucky Luciano che operava in stretta collaborazione con società farmaceutiche, come la Schiapparelli di Torino e la Saicom di Milano, che dirottavano verso il mercato clandestino dell’eroina quantitativi consistenti di morfina usata per scopi farmaceutici. Operavano fuori dalla Sicilia anche i fratelli Salvatore e Ugo Caneba, che imbarcavano verso gli Stati Uniti l’eroina fornita dai corso-marsigliesi e in gran parte prodotta nel laboratorio milanese. Da inchieste degli anni ’60 risulta che la mafia siciliana sarebbe stata “la principale artefice del contrabbando di stupefacenti diretto dalla mafia statunitense” (Commissione antimafia 1976, p. 459).

Dal summit di Palermo del 1957 alla Pizza connection. Il patto di collaborazione tra mafia siciliana e mafia nordamericana sarebbe stato siglato nel summit svoltosi a Palermo nell’ottobre del 1957, nella piena indifferenza degli organi investigativi che non furono allarmati dalla presenza all’hotel delle Palme di boss notissimi, come Giuseppe Genco Russo, Joe Bonanno, Lucky Luciano, Gaspare Magaddino. In quell’occasione si sarebbe formato un gruppo operativo composto da membri della famiglia Bonanno con la collaborazione di mafiosi di Partinico e di Castellammare del Golfo, paese d’origine di Bonanno. Le famiglie mafiose siciliane operavano come fornitrici di droga alle consorelle americane che avrebbero avuto il monopolio della commercializzazione negli Stati Uniti e in Canada. Negli anni ’70 la direzione sarebbe passata dagli americani ai siciliani. Al di là di queste rappresentazioni inficiate da una buona dose di semplificazione, quel che è certo è che la Sicilia in quegli anni diventa laboratorio di produzione. Nel corso del 1980 sono state scoperte varie raffinerie di eroina operanti a Palermo e nelle vicinanze: una in via Villagrazia, nei pressi della villa di Giovanni Bontate, un’altra in contrada Piraineto di Punta Raisi, gestita da Gerlando Alberti, un’altra a Trabia. Nel 1982 sarà scoperta una quarta raffineria, a Palermo, in via Messina Marine. Ciascuna di esse produceva 50 kg di eroina a settimana. La signoria territoriale esercitata dalle famiglie mafiose, e in particolare dalla famiglia Badalamenti sull’area dove sorge l’aeroporto di Palermo, espressione di un potere statuale che caratterizza la mafia siciliana fin dai suoi primi giorni, si sposa con i traffici internazionali, a riprova di un’elasticità e capacità di adattamento che non svelle le radici ma le rafforza, funzionalizzando aspetti arcaici e premoderni alle nuove occasioni di accumulazione offerte dal mercato mondiale. Così, stando alle inchieste giudiziarie, quattro famiglie siciliane (gli Spatola-Inzerillo, i Gambino, i Bontate e i Badalamenti) avrebbero costituito un gruppo compatto, cementato anche da legami di parentela, e assieme ai cugini americani avrebbero avuto un ruolo egemonico nel mercato dell’eroina. A capo di questo gruppo sarebbe stato il boss siculo-americano Carlo Gambino. Nello scontro con i corleonesi, al centro della guerra di mafia dei primi anni ’80, queste famiglie sono risultate perdenti, ma i sopravvissuti continuano a gestire negli anni successivi il traffico di droga, come risulta dall’inchiesta e dalle condanne del processo denominato “Pizza connection”. Sulla mafia di quegli anni circola una lettura schematica e fuorviante: l’inserimento nel traffico di droga avrebbe snaturato l’organizzazione “Cosa nostra” (denominazione venuta alla luce in seguito alle rivelazione di Buscetta), si sarebbe verificata una sorta di mutazione genetica che avrebbe sepolto sotto palate di dollari le regole e i “valori” che avrebbero caratterizzato la vecchia mafia, fedele alle sue radici contadine. Nella versione di Buscetta, i suoi amici (da Bontate a Badalamenti) rappresentano la mafia “buona”, che agiva nel rispetto di codici comportamentali fondati sull’onore, mentre i corleonesi sono i portatori di una sanguinaria deregulation all’insegna dell’arricchimento facile. In realtà i protagonisti dei traffici di sigarette e di eroina sono proprio gli amici di Buscetta, mentre i corleonesi erano i parenti poveri e imbracciano le armi per chiedere una maggiore porzione della torta. Su questa base una mafiologia tanto diffusa quanto gratuita ha favoleggiato di una “mafia tradizionale in competizione per l’onore e il potere”, che sarebbe stata soppiantata da una “mafia imprenditrice” che solo negli anni ’70 avrebbe scoperto “la competizione per la ricchezza”. La storia della mafia reale ignora distinzioni tra mafia buona e mafia cattiva (la strage di Portella della Ginestra e gli assassinii dei militanti del movimento contadino non sono meno feroci degli omicidi e delle stragi degli anni più recenti) e un’analisi adeguata legge gli adattamenti dettati dai mutamenti del contesto come uno dei caratteri fondamentali del fenomeno mafioso, la cui persistenza nel tempo è frutto della capacità di combinare rigidità formale ed elasticità di fatto. Senza questa elasticità la mafia sarebbe morta con il feudo, non si sarebbe riambientata in una società urbanizzata e a economia prevalentemente terziaria e successivamente in uno scenario sempre più internazionalizzato e finanziario. E il mantenimento del radicamento territoriale l’ha salvaguardata dal destino dei mutanti alla deriva. Così si è realizzato quel mix di continuità e innovazione che informa i fenomeni di durata, la signoria territoriale si è sposata perfettamente con la “riproduzione allargata del capitale” e ricchezza, prestigio e potere, per la mafia, ma non solo per lei, hanno fatto e continuano a fare tutt’uno.

Non c’è stata quindi nessuna degenerazione, nessuna mutazione da “uomini d’onore” in “uomini del disonore”, ma questo non vuol dire ignorare o sottovalutare le conseguenze che ha avuto l’inserimento nel traffico di droga delle famiglie mafiose. Ci sono stati aggiustamenti organizzativi (si è formata almeno per qualche tempo una struttura interfamilistica che gestiva il contrabbando di sigarette e il traffico di droga) e la lievitazione dell’arricchimento ha scatenato appetiti all’origine della conflittualità interna ed esterna, fino al “delirio di onnipotenza criminale” di Riina e soci, culminato con le stragi di Capaci, via D’Amelio, di Firenze e di Milano. Resta da vedere se le stragi siano state soltanto il frutto di un “delirio” o di dinamiche più complesse innescate dai processi di transizione che hanno portato alla cosiddetta “seconda Repubblica”, ma francamente non so quali risultati sortiranno le indagini che tentano di far luce in questa direzione.

Proibizionismo e accumulazione mafiosa. Se alla radice di questa stagione di sangue sta l’enorme arricchimento dovuto al traffico di droga (anche se non vanno sottovalutate le altre fonti di accumulazione, vecchie e nuove, dalle estorsioni all’usura, agli appalti di opere pubbliche), non è difficile individuare nel proibizionismo la causa e l’occasione più propizia per la scalata criminale e per la traduzione dell’agire mafioso in impresa che gestisce in regime di monopolio o di oligopolio l’offerta di un bene o servizio illegale ma con una domanda di massa. Dal proibizionismo dell’alcol negli anni ’20 a quello attuale delle droghe assistiamo alla replica di un copione: i gruppi criminali diventano soggetti economico-finanziari di prim’ordine con tutto quello che ciò comporta come ruolo socio-politico e come interazione se non identificazione con ambienti di potere. Gli effetti più significativi del proibizionismo degli alcolici, introdotto negli Stati Uniti con il Volstead Act del 1920 e durato fino al 1933, furono l’inosservanza della legge e quindi una illegalità diffusa, l’esposizione a rischio dei consumatori, il salto di qualità dei gruppi criminali e l’incremento della corruzione dei pubblici ufficiali, dai poliziotti ai magistrati e ai politici. Il proibizionismo (la Prohibition) è stato definito la “levatrice del crimine organizzato in America” (Sifakis 1982, p. 589). In effetti in quegli anni le gangs, che erano in disarmo o si limitavano ad attività poco redditizie, compirono un salto di qualità, si formò una nuova leva di criminali-imprenditori che realizzavano livelli di accumulazione pari se non superiori alle grandi corporations legali. “Siamo più grandi della U.S. Steel” sosteneva Mayer Lansky, e personaggi come lui, come Al Capone, Lucky Luciano, Benjamin “Bugsy” Siegel, non sarebbero diventati così noti, ricchi e potenti, senza le grandi opportunità offerte dalla Prohibition. Si calcola che Al Capone abbia intascato 60 milioni di dollari dal bootlegging (spaccio clandestino di liquori). E questo arricchimento degli imprenditori del crimine porta a un rovesciamento dei ruoli: se prima erano i politici che riuscivano a controllare i gangsters, ora sono questi ultimi che dettano ordini. “I own the police” (“Ho in mano la polizia”), diceva Al Capone, e non era una spacconata, anzi i suoi legami andavano ben oltre la polizia di Chicago. La storia del proibizionismo delle droghe è nota: dalla conferenza internazionale di Shangai del 1909 alle Convenzioni dell’Aja (1912), di Ginevra (1925, 1931, 1936), alla Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961 fino alla Convenzione di Vienna del 1988, si è imposto il modello americano, fondato sulla criminalizzazione della produzione, commercializzazione e consumo, con effetti che riproducono e aggravano quelli generati dal proibizionismo dell’alcol: l’espansione dei consumi e la diffusione dell’illegalità, la lievitazione dell’accumulazione illegale e il rafforzarsi e proliferare delle mafie attirate dai grandi profitti che si possono realizzare producendo e smerciando su scala mondiale un prodotto a larghissima richiesta. Com’è noto, le stime del volume d’affari annuale del narcotraffico hanno oscillazioni rilevanti. Secondo il National Intelligence Council, sarebbe tra i 100 e i 300 miliardi di dollari, mentre le Nazioni Unite parlano di 400 miliardi e la Banca mondiale di 1.000 miliardi. In ogni caso il traffico di droghe sarebbe ancora l’attività più remunerativa: il traffico di armi sarebbe al secondo posto con 290 miliardi di dollari, seguirebbero a notevole distanza il traffico di rifiuti tossici (10-12 miliardi) e la tratta di esseri umani (7 miliardi) (Politi 2001).

Un mercato sempre più complesso. Il mercato delle droghe negli ultimi decenni è diventato sempre più complesso per il proliferare delle sostanze psicoattive (a quelle naturali si sono affiancate quelle di sintesi), l’espansione dei consumi e l’incremento dei soggetti criminali che producono e commercializzano le varie droghe. Ai gruppi storici che operavano da tempo sul mercato delle droghe (oltre alla mafia siciliana e alle altre mafie italiane, la ‘ndrangheta, la camorra e da alcuni anni anche la criminalità pugliese, la mafia turca, le triadi cinesi e la yakusa giapponese) si sono aggiunti gruppi di formazione più o meno recente, come i cartelli colombiani, le mafie albanese, russa, nigeriana ecc. Alcuni gruppi, prima impiegati come manovalanza criminale, hanno via via acquistato autonomia e si sono messi in proprio. Si può discutere l’uso generalizzato del termine “mafie” per i vari gruppi criminali ed è certamente da respingere lo stereotipo secondo cui ci sarebbe una piovra universale diretta da una cupola mondiale che per qualche tempo sarebbe stata pilotata dal quasi analfabeta Totò Riina. Anche l’espressione “crimine transnazionale”, usata dalle convenzioni internazionali e dalla letteratura giuridica e criminologica, è meramente descrittiva. Quel che è certo è che il traffico di droghe ha aperto, ancora più del contrabbando di sigarette, le porte del mercato internazionale e della globalizzazione del crimine. A un monopolio o oligopolio oggi si è sostituito un polipolio dell’offerta e mentre vari gruppi hanno fatto registrare livelli notevolmente alti di conflittualità interna non si sono verificati fino a oggi episodi significativi di contrasto tra i vari gruppi tali da far pensare allo scatenarsi di una guerra tra loro. Si è stabilito un regime di convivenza pacifica, di criminal agreement, che dimostra che anche i gruppi più violenti, come Cosa nostra siciliana o la mafia albanese, quando ci sono in gioco grossi affari riescono ad agire, o a interagire, sottomettendo la cultura della violenza ai dettami della razionalità economica. Che tipo di rapporti si è stabilito tra vecchi e nuovi soggetti criminali sul terreno del traffico di droghe e su altri terreni di accumulazione illegale? Siamo di fronte a un universo in mutazione, in cui si ripropone, in termini che bisognerebbe studiare attentamente sulla base di una documentazione adeguata, la dialettica continuità-trasformazione, radicamento-internazionalizzazione o globalizzazione.

Per quanto riguarda il nostro Paese, le organizzazioni criminali storiche e nuove negli ultimi anni hanno fatto registrare significativi mutamenti in risposta alle ondate repressive e alle novità del contesto. Cosa nostra siciliana, dopo la stagione delle stragi, si è “sommersa” e “inabissata”, cioè è tornata alla mediazione, e per arginare l’emorragia dei “pentiti” ha innalzato le barriere della segretezza e della compartimentazione, rivedendo i criteri di reclutamento e disciplinando più rigidamente le relazioni tra i vari sodalizi. Ma è significativo che alla sua testa, anche se affiancato a quanto pare da un “direttorio”, ci sia un uomo per tutte le stagioni come l’eterno latitante Bernardo Provenzano, prima killer con Luciano Liggio, poi stragista con Riina e ora regista della transizione nel nuovo secolo. Secondo la Dia, i rapporti di Cosa nostra con i sodalizi criminali stranieri sarebbero sporadici e inconsistenti (Dia 2001, p. 7), ma da recenti inchieste comincia a emergere una realtà ancora tutta da esplorare. La relazione conclusiva della Commissione antimafia del marzo 2001 parla di un “comparto estero” di Cosa nostra e di una “strategia di “globalizzazione finanziaria” delle organizzazioni criminali nel contesto di una integrazione in chiave transnazionale dei “mercati criminali”” (Commissione antimafia 2001, pp. 66 sgg.). In realtà la finanziarizzazione della mafia è un fenomeno avviato già da tempo, anche se ha fatto fatica a emergere per la dittatura dello stereotipo “mafia imprenditrice” presentato negli anni ’80 come una grande scoperta, mentre le analisi economiche sul crimine organizzato erano state elaborate negli Stati Uniti già vent’anni prima.

Oggi si parla della possibilità che Cosa nostra “si stia ritagliando un ruolo internazionale tanto importante quanto evoluto; un ruolo di struttura finanziaria in grado di attivare e controllare attività illecite – condotte materialmente da varie organizzazioni italiane e straniere che agiscono raccordandosi tra loro – servendosi della medesima struttura che negli anni passati essa ebbe ad utilizzare per gestire la parte finanziaria dal contrabbando di tabacchi lavorati esteri e dal traffico di stupefacenti, e cioè i trasferimenti di denaro, il riciclaggio e i reinvestimenti” (Dia 2001, p. 21). Bisogna vedere quanto in questa ipotesi giochi l’immagine già consolidata nel recente passato.

La ‘ndrangheta avrebbe negli ultimi anni mutuato il modello organizzativo di Cosa nostra, con la creazione di mandamenti e l’adozione di una struttura unitaria e sarebbe l’organizzazione più proiettata sul piano nazionale (in particolare in Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana) e internazionale.

La camorra, strutturata in molteplici gruppi in conflitto tra loro, intreccia attività classiche, come estorsioni, usura, appalti, contrabbando di tabacchi lavorati esteri e traffico d droghe, e nuove, come la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il commercio di carni dopo l’emergenza “Mucca pazza”, e opera in collegamento con altri gruppi con proiezioni a livello internazionale e internazionale, in particolare in Germania e nel Regno Unito.

Anche la criminalità organizzata pugliese ha struttura reticolare e i vari gruppi interagiscono fra loro e con altre organizzazioni italiane e straniere, in particolare di etnia kosovaro-albanese, sul terreno del traffico di clandestini e di stupefacenti, di cui la Puglia è diventata uno dei crocevia più importanti.

Tra i principali gruppi stranieri insediatisi nel territorio italiano (albanesi, nigeriani, cinesi, colombiani, russi) gli albanesi sono i più numerosi e avrebbero assunto un ruolo prevalente: sono i grandi rifornitori di droghe dei gruppi criminali italiani e operano alla pari con essi. Dall’Albania arrivano in Italia ingenti quantità di marijuana, di eroina e cocaina. Una volta interrotta per i conflitti nell’ex Iugoslavia la via balcanica dell’eroina verso il Nord Europa (ma recentemente si sarebbe riaperta), i gruppi albanesi controllano la cosiddetta “rotta balcanica meridionale”, che dalla Turchia passando per la Bulgaria arriva in Albania e attraverso il canale di Otranto giunge in Italia. Gli albanesi hanno rapporti con i cartelli colombiani, ricevendo sul loro territorio carichi di cocaina in arrivo dai porti nordeuropei, in particolare olandesi, e non si esclude che la “cocaina rosa” sia raffinata in Albania.

La mafia albanese è strutturata su base clanica e familistica e ha rapporti continuativi con le organizzazioni pugliesi e campane ma anche con la criminalità comune. I rapporti con organizzazioni salentine cominciano fin dai primi anni ’80 con il contrabbando di sigarette e con la Sacra corona unita negli ultimi anni ha operato un patto di divisione e territorializzazione del lavoro criminale: i pugliesi gestiscono il contrabbando di sigarette e il traffico di eroina, di cocaina e di armi; gli albanesi il traffico degli immigrati clandestini e il racket della prostituzione e delle droghe leggere, in aree ben delimitate sulle due sponde dell’Adriatico (Piacente 1998).

La criminalità nigeriana è costituita da gruppi rigidamente strutturati senza collegamento tra loro, con una forte connotazione culturale (si fa un largo impiego di pratiche magico-religiose: i riti woodoo) e le sue principali attività sono il traffico di esseri umani, lo sfruttamento schiavistico della prostituzione e il traffico di stupefacenti. Opera in particolare nelle regioni del Centro-Nord ma è presente anche in Campania: qui, per l’esercizio della prostituzione delle immigrate nigeriane la camorra riscuote una sorta di tassa per l’occupazione del suolo.

I nigeriani sarebbero passati negli ultimi anni da corrieri a servizio di altre organizzazioni a imprenditori criminali in proprio, collocandosi ai primissimi posti nella graduatoria dei trafficanti internazionali. Stando alle fonti investigative, i sodalizi dediti al traffico di stupefacenti avrebbero rapporti diretti con i produttori e avrebbero un alto profilo organizzativo, sapientemente mascherato fino all’invisibilità con la rinuncia all’uso della violenza verso l’esterno (Dia 2001, p. 43). I proventi delle attività illecite sarebbero in buona parte investiti in Italia.

I rapporti della mafia siciliana con i cartelli colombiani rimontano agli anni ’80: nell’ottobre del 1987 furono sequestrati sul mercantile Big John nei pressi di Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, 596 kg di cocaina, destinati alla famiglia dei Madonia. Allora si parlò di patto di esclusiva tra il cartello di Medellín e la famiglia siciliana e nel ’91 a Milano fu arrestato per riciclaggio il manager Giuseppe Lottusi, indicato come cassiere del cartello colombiano. Allora la porta d’ingresso per la cocaina era la Spagna, ora la droga arriva attraverso l’Albania e i colombiani dispongono in Italia di vari centri logistici in cui vengono svolte le fasi finali della raffinazione e mentre gli uomini dei cartelli curano le operazioni più complesse, i piccoli quantitativi di cocaina vengono gestiti da piazzisti non collegati direttamente con essi (Commissione antimafia 1999, p. 31). Non risulta fino ad oggi un ruolo significativo nei traffici di stupefacenti dei gruppi criminali cinesi insediatisi in Italia, in particolare nelle regioni del Centro-Nord. La criminalità cinese in Italia è costituita da vari gruppi, con composizione variante dalle dieci alle cinquanta unità, e le principali attività sono l’immigrazione clandestina, le estorsioni, le rapine e l’usura, praticate all’interno del gruppo etnico in funzione del pagamento del debito contratto dagli immigrati. Operano nel Centro-Nord anche i gruppi criminali russi dediti a varie attività, tra cui il traffico di stupefacenti. Non risultano rapporti con le organizzazioni criminali italiane, se non per acquisti sul mercato nero delle armi e per speculazioni finanziarie come l’acquisto di rubli, scambiati con denaro di illecita provenienza, destinati all’investimento in Russia in funzione di riciclaggio.

Tra i nuovi arrivati ci sono anche i rumeni, mentre i turchi sono vecchie conoscenze. Da tempo la mafia turca ha un ruolo di primissimo piano nel traffico di eroina e tale ruolo risulta confermato e potenziato negli ultimi anni. Ma i collegamenti con la criminalità italiana, ampiamente documentati per il passato, secondo fonti ufficiali negli ultimi anni si sarebbero affievoliti.

In Italia non siamo ancora al melting pot delle etnie e di conseguenza anche del crimine, ma come del resto per altri paesi occidentali la strada è quella indicata da tempo dal modello pluralistico americano.

Mafie, borghesie mafiose e blocco sociale. Come e più ancora forse di altre attività, il traffico di droghe non solo riproduce e rafforza i gruppi criminali organizzati ma pure contribuisce a generare e a estendere il sistema relazionale che ruota attorno ad essi. Questo sistema attraversa il contesto sociale dall’alto in basso, coinvolgendo vari soggetti, dai produttori di materie prime agli specialisti della raffinazione, dagli spacciatori-consumatori ai professionisti del riciclaggio. Si potrebbe dire che ci troviamo di fronte a uno de fenomeni più interessanti di interclassismo o transclassismo criminale. Su questo terreno si incontrano modelli sedimentati in territori geograficamente lontani, come la Sicilia e l’America Latina. Se la Sicilia è la terra madre del modello mafioso, nella sua articolazione complessa (dalle organizzazioni criminali di base, le famiglie, alle strutture di collegamento e di direzione, orizzontali e verticali, al blocco sociale che ruota attorno ad esse, sulla base della comunanza di interessi e dalla condivisione di codici culturali, con un ruolo dominante esercitato dai soggetti illegali e legali più ricchi e potenti: borghesia mafiosa), studi sui paesi latino-americani hanno posto l’accento sulla formazione di borghesie assimilabili a quella mafiosa siciliana (Kalmanovitz 1990, Krauthausen 1998) e ricostruito un quadro delle articolazioni del narcosistema (Rivelois 1999) e del blocco sociale prodotto e cementato dal narcotraffico. Le categorie coinvolte sono numerosissime, si può dire che ben pochi restano fuori. Si comincia con i contadini produttori, si continua con i chimici, i trasportatori (autisti e piloti di navi), i mulas (uomini e donne che imbottiscono il corpo di cocaina o la ingoiano), le guardie del corpo dei narcotrafficanti, i traqueteros (ambasciatori del narcotraffico sulle piazze degli Stati Uniti e di altri paesi), gli avvocati difensori, i contabili, i consulenti finanziari, i giornalisti e scrittori a servizio dei capi del narcotraffico per legittimare le loro gesta, gli amministratori e i politici, i magistrati, i doganieri, il personale del fisco, della polizia, i militari, il personale coinvolto nelle attività di investimento dei capitali, nelle attività commerciali e professionali necessarie per soddisfare le domande di consumo dei narcotrafficanti: architetti, medici, stilisti, sportivi ecc. (Kaplan 1992). È un indotto interminabile messo in piedi dall’economia della droga e dall’iperconsumismo della ricchezza facile. Questo modello si è ormai diffuso su scala planetaria e mentre nelle società occidentali le borghesie mafiose sono una componente del sistema di accumulazione e di dominio, in molte realtà, a cominciare dai paesi ex socialisti, sono le uniche borghesie o hanno un ruolo decisamente prevalente, per le grandi convenienze offerte dai traffici illegali e le grandi difficoltà di innescare dinamiche significative di accumulazione legale. Prima si parlava di narcocrazie, oggi si parla di Stati-mafia e,, anche se bisogna evitare generalizzazioni e semplificazioni affrettate, il traffico di droghe ha certamente un ruolo significativo se non determinante nei processi di criminalizzazione delle istituzioni fino alla coincidenza e sovrapponibilità tra gruppi criminali e soggetti detentori del potere.

Guerre alla droga, geopolitica, narcotraffico e terrorismo. Nei primi anni ’80 il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan dichiarò la “guerra contro le droghe internazionali”, indicando nella produzione e nell’offerta estera il nemico esterno dell’America, contro cui battersi con una strategia basata su due punti fondamentali: l’eradicazione delle coltivazioni e la distruzione delle sostanze prima che passassero le frontiere, la repressione dei trafficanti. Da allora gli Stati Uniti hanno proseguito su questa strada, ma in realtà la guerra alla droga era condotta e continua ad essere condotta con grande cinismo. La droga è stata usata come fonte di denaro per finanziare interventi militari contro il pericolo comunista e la guerra contro di essa è stata il pretesto per imporre o rafforzare il comando su territori di importanza strategica, come nel caso della Colombia. Nessuna meraviglia quindi se per queste operazioni sono stati impiegati i servizi segreti, con grande spregiudicatezza, fino alla complicità con i criminali e all’incentivazione del crimine. È nota l’azione della Cia negli anni ’40 e ’50 in appoggio all’esercito nazionalista cinese (il Kuomintang) contro i maoisti, con l’incremento della produzione di oppio nel Sud-Est asiatico; negli anni ’60 nel Laos nella guerra segreta, finanziata dall’oppio, contro i guerriglieri del Pathet Lao; negli anni ’80 in Afghanistan, a fianco dell’Isi, il servizio segreto pakistano, e con i gruppi fondamentalisti in lotta contro l’invasione sovietica e in Nicaragua a sostegno dei contras antisandinisti, sempre con largo impiego dei capitali provenienti dal traffico di droghe (Santino-La Fiura 1993, pp. 234 ss.). Meno nota, ma non meno spregiudicata, l’azione del Mossad, il servizio segreto israeliano, coinvolto nella Contras Connection e in operazioni in Colombia (A. e L. Cockburn 1993). Negli ultimi anni la guerra alla droga ha avuto una delle sue più significative materializzazioni con il Plan Colombia, un programma di fumigazioni delle coltivazioni di coca e di riforme predisposto dal presidente Andrés Pastrana su pressione dei circoli americani nordamericani e della Cia, lautamente finanziato dagli Stati Uniti e con una fetta consistente del budget destinata a spese militari. L’assistenza militare Usa si estende anche ai paesi limitrofi, Perù, Ecuador e Bolivia, e si configura come una vera e propria militarizzazione del continente sudamericano che usa la lotta alla droga come pretesto per il contrasto ai gruppi guerriglieri e come trampolino di lancio per il controllo di un’area caratterizzata da gravi crisi istituzionali e da un’instabilità generalizzata (Mazzeo 2000). Già prima dell’11 settembre e ancora di più dopo gli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono, la lotta al terrorismo ha occupato la prima pagina dell’agenda internazionale. L’immagine dominante è quella dell’Occidente civile assediato dagli altri, dai terroristi, dagli Stati-canaglia che li proteggono, dall’Asse del male (Iran, Iraq, Corea del Nord). Si dimentica che i talebani e lo stesso Bin Laden sono gli stessi che lottavano all’ombra della Cia contro i sovietici e il governo comunista, che l’Afghanistan è salito in vetta alla classifica mondiale dei produttori di oppio perché esso serviva per finanziare la guerriglia anticomunista, che Bin Laden ha interessi in molti paesi del mondo, compresi quelli occidentali, al riparo del segreto bancario, che familiari di Bin Laden sono stati soci in affari di George W. Bush fino ai primi anni ’90 (Santino 2001). Nell’immaginario corrente che vede il terrorismo come un’inspiegabile incarnazione del Male, il traffico di droga ha un posto in prima fila. Secondo la delibera n. 1373 del 28 settembre 2001 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, c’è una stretta connessione fra il terrorismo internazionale e la criminalità organizzata transnazionale, il traffico illecito di droga, il riciclaggio di denaro sporco e il traffico illegale di armi. E questa connessione legittimerebbe il ricorso alla guerra, così com’è avvenuto in Afghanistan e potrebbe avvenire in altre aree del pianeta. Come dimostra anche quanto sta avvenendo in questi giorni nei territori arabi occupati della Palestina, non si fa nulla per rimuovere le cause e si aggravano le situazioni da cui scaturisce la scelta del terrorismo. Tutto ciò è in perfetta coerenza con le logiche proibizioniste e militari che dominano le guerre alla droga, in assenza di qualsiasi politica che ribalti gli effetti criminogeni della globalizzazione neoliberista, un contesto che stimola e favorisce il ricorso all’accumulazione illegale (Santino 2000), in cui la produzione e il traffico di droghe hanno ancora oggi un peso prevalente. Pubblicato su “Narcomafie”, n. 5, maggio 2002, pp. 6-14, con il titolo: Il circolo vizioso.

Droga, il proibizionismo globale verso il capolinea? Scrive il 21 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano", Vittorio Agnoletto, Medico, professore presso l'Università degli Studi di Milano. “Un mondo senza droghe, possiamo farcela” era il titolo della Dichiarazione Politica conclusiva approvata nel 1998 a New York dalla Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Ungass, United Nation General Assembly Special Session) che fissò l’obiettivo di “eliminare o ridurre significativamente” le coltivazioni di oppio, coca e cannabis in dieci anni. Nel 2009 l’obiettivo fu confermato, pur posticipando al 2019 la data entro la quale tali risultati avrebbero dovuto essere raggiunti. Sono stati anni profondamente segnati dalla “guerra alla droga” che hanno avuto come elemento eclatante l’obiettivo di distruggere, attraverso interventi armati e attraverso le famose fumigazioni per via aerea, le coltivazioni di sostanze illegali. Il simbolo di questa stagione è stato il famoso “Plan Colombia” con tutte le conseguenti tragedie che si sono abbattute su migliaia di contadini. Ma tali strategie hanno drammaticamente fallitogli obiettivi dichiarati: il mercato nero delle droghe si è ampliato, così come si sono sempre più globalizzati il ruolo della criminalità organizzata e i fenomeni di corruzione istituzionale dipendenti da tale commercio. Di fronte a simili risultati di anno in anno il dissenso verso la “tolleranza zero” è cresciuto nella comunità scientifica internazionale e ha influenzato le scelte di vari governi. I principali Paesi europei, con l’eccezione dell’Italia, nell’ultimo decennio hanno infatti assunto posizioni innovative ed hanno sottoscritto dichiarazioni di supporto alle Strategie di riduzione del Danno, pratiche che, superando posizioni ideologiche pongono al primo posto la tutela della salute dei consumatori, ad esempio attraverso una riduzione del numero dei decessi per overdose e una diminuzione della trasmissione di patologie quali Hiv ed epatiti. Proprio seguendo questa logica la Svizzera è giunta ad autorizzare trattamenti con eroina per tossicodipendenti di lunga data e tale scelta è stata confermata con un referendum popolare che ha ben colto l’intreccio tra tutela della salute dei consumatori, lotta al mercato nero e aumento della sicurezza per la popolazione generale attraverso la diminuzione dei reati. Negli stessi anni in alcuni stati USA hanno vinto i referendum sulla legalizzazione della cannabis. Il fallimento delle politiche proibizioniste hanno spinto i presidenti della Colombia, del Guatemala e del Messico a chiedere e ad ottenere che la prossima assemblea generale dell’Onu, prevista nel 2019, fosse anticipata di tre anni e si svolgesse dal 19 al 21 aprile 2016. In preparazione di Ungass 2016 centinaia di Ong, da quelle europee ai cocaleros dell’America Latina, si sono riunite nell’International Drug Policy Consortium (Idpc), e hanno presentato una piattaforma che chiedeva: la disponibilità in tutto il mondo di medicinali essenziali per le cure palliative e per il contenimento del dolore, farmaci spesso inutilizzati proprio perché considerati essi stessi parenti prossimi di sostanze considerate illegali; la fine delle violazioni dei diritti umani e degli abusi verso le popolazioni tradizionalmente coinvolte ad esempio nella coltivazione della foglia di coca (prodotto ben differente dalla cocaina); la sospensione di ogni forma di criminalizzazione dei consumatori: attualmente in tutto il mondo sono migliaia le persone imprigionate per uso personale di sostanze. I governi dovrebbero inoltre impegnarsi a chiudere i centri di detenzione e riabilitazione forzata per droga e implementare l’accesso volontario ai servizi socio-sanitari nei quali dovrebbero essere disponibili tutti i trattamenti basati sull’evidenza scientifica. Il sostegno alle già citate Strategie di Riduzione del Danno è stato condiviso dalle più importanti agenzie dell’ONU, dalla Federazione Internazionale della Croce Rossa e dalla Mezzaluna Rossa Internazionale. L’Unaids, l’Agenzia di Lotta all’Aids delle Nazioni Unite, ha calcolato che per il 2015 sarebbero stati necessari 2.3 miliardi di dollari per sostenere la prevenzione da Hiv fra le persone che usano droghe, mentre erano disponibili meno di 0.2 miliardi di dollari. Il budget totale per la lotta contro la droga si aggira attorno ai 100 miliardi di dollari all’anno. Sarebbe sufficiente una minima parte di queste risorse per generalizzare le strategie di riduzione del danno e salvare decine di migliaia di vite. Il documento conclusivo della Conferenza emerso da un lungo lavorio della diplomazia mondiale è stato votato all’apertura della tre giorni di discussione, con una prassi inaccettabile ma tipica degli incontri intergovernativi. Il documento non contiene grandi novità e nella forma si inserisce nel solco di quelli approvati nelle scorse edizioni: ad esempio non chiede esplicitamente l’abolizione della pena di morte per i reati di droga, né contiene un riconoscimento della Riduzione del Danno. Ciononostante, diversi governi nei loro interventi hanno criticato la mediazione raggiunta, hanno chiesto una modifica sostanziale della prassi proibizionista e forme di regolamentazione del mercato della cannabis.

Nelle raccomandazioni pratiche, allegate al documento finale, si allude, seppure ancora molto timidamente, ai diritti dei consumatori e si comincia a prendere atto che oltre alle sostanze ci sono le persone con le loro vite, le loro scelte e i loro diritti. Molti osservatori, comprese le Ong, pur non condividendo il documento approvato, sostengono che tra le rappresentanze istituzionali globali si è preso atto che il tempo del semplice e duro proibizionismo si è chiuso con un fallimento. È iniziata una pausa di riflessione che, nella speranza di tante Ong e di non pochi governi, dovrebbe condurre ad un vera e propria inversione di marcia nel 2019 quando si svolgerà la prossima sessione generale di Ungass. Raramente, come in questo caso, la sorte di migliaia di vite umane dipende dal tempo che occorrerà alla comunità internazionale per avere il coraggio di compiere nuove scelte.

VIZI PUBBLICI: AFFARI DI STATO.

Perchè lo Stato guadagna i miliardi essendo il detentore del monopolio di sigarette e alcool?

Davide ha posto la domanda 3 anni fa. Si fanno tante campagne pubblicitarie, sponsorizzate dal ministro della salute, tante soluzioni in farmacia per smettere di fumare... il vero benefattore chi è? Lo Stato... che legalizza le sigarette e non la droga (capisco che sono due cose differenti) ma perchè guadagnare su una cosa che come scopo ha solo quello di danneggiare l'ambiente e sopratutto la salute della popolazione?? Per non parlare del gioco del lotto e dell'alcool... vi rendete conto di quanti miliardi di soldi ci guadagna lo stato sui vizi e i difetti delle persone? Secondo me non è una cosa giusta!

Rocco Papaleo ha risposto 3 anni fa. In realtà lo Stato no ha più il monopolio di niente perchè ha svenduto tutto, anche la banca d'Italia, ma sui valori bollati continua a taglieggiare gli italiani, il resto è tutta ipocrisia, la salute la lotta all'alcolismo, non gliene frega niente ma spendono i nostri soldi per fare campagne anti questo, anti quello, infine sono capaci di arrestare un ragazzino perchè compra hashish sai perchè? Perchè ha comprato una droga (meno dannosa di alcool e tabacco) che non gli fa guadagnare niente.

Mark ha risposto 3 anni fa. Lo Stato non ha il monopolio dell'alcool ma impone una imposta di fabbricazione che dovrebbe avere lo scopo di limitarne l'uso rendendo l'alcool più caro. E' quello che moltissimi stati fanno appunto per combattere l'alcoolismo. In Francia ad esempio le imposte sugli alcoolici sono molto più alte che in Italia e se vai in qualche posto di confine fra Italia e Francia troverai molti negozi zeppi di liquori francesi che i cittadini provenienti da oltre confine comprano qui a prezzi minori che da loro. La stessa cosa avviene per il tabacco dove le imposte in questo caso sono maggiori in Italia che in altri stati, Svizzera ad esempio, per cui c'è un effetto opposto. Essendo vizi difficili da estirpare sarebbe peggio se questi generi non fossero pesantemente tassati.

JDM ha risposto 3 anni fa. Lo Stato innanzitutto ti vende le sigarette e l'alcool, per tutelarsi, ti dice che fumare porta alla morte, di non bere se ci si deve mettere alla guida. Per quanto riguarda il bere, mi pare ovvio, in modo da tutelare la persona di turno che verrà possibilmente investita. Oppure è soltanto per evitare querele del tipo... Mi hai venduto tu le sigarette e adesso ho il cancro, quindi voglio essere risarcito.

Come lo Stato guadagna dalla tua dipendenza, scrive Andrea Mollica su “Giornalettismo”. Uno studio austriaco evidenzia come alcol, sigarette e giochi assicurino più introiti che spese. Lo Stato guadagna dalla dipendenza da alcol, sigarette e giochi. Nonostante precedenti statistiche evidenziassero il contrario, un nuovo studio condotto sull’Austria evidenzia come il gettito fiscale garantito dai vizi è superiore ai costi per la cura e l’assistenza dei malati. L’istituto di ricerche di mercato Kreutzer, Fischer & Partner (KFP) ha condotto uno studio che ha svelato come lo stato guadagni dalle dipendenze delle persone. La ricerca riguarda l’Austria, ma vista la metodologia adottata questi risultati potrebbero valere anche in altri paesi, incluso il nostro. Le entrate fiscali garantite dalla vendita dell’alcol, dalle sigarette così come il gettito fornito dai giochi, dalle lotterie alle macchine per i videopoker fino alle scommesse, supera di circa un miliardo e mezzo di euro il costo per il trattamento relativo alle dipendenza dal fumo, dall’alcol oppure la ludopatia. Come rimarcano Kurier così come Krone Zeitung, altri studi avevano fornito risultati opposti, ma KFP sottolinea come le ricerche svolte fino ad ora si basavano su dati rilevati da statistiche non robuste. Il guadagno del settore pubblico permetterebbe un miglioramento del trattamento delle dipendenze, visto che ci sarebbero le risorse per finanziare cure al momento assenti o insufficienti, hanno rimarcato i responsabili di KFP. La nuova analisi, che si basa su precedenti studi effettuati negli anni scorsi, palesa come i guadagni derivanti dalla vendita di alcol, sigarette o dalla passione per i giochi procuri un margine di guadagno piuttosto sensibile allo stato austriaco. Per esempio la dipendenza dall’alcol genere costi sociali per circa 130 milioni di euro, tra le quali sono compresi le spese per il trattamento medico, l’aiuto sociali, l’amministrazione della giustizia e la perdita di produttività. I guadagni derivanti dall’Iva sul vino, birra o superalcolici, così come le specifiche tasse sull’alcol garantiscono introiti per 385 milioni di euro. Ancora più netto è il profitto generato dal tabacco. Grazie alle sigarette l’erario austriaco ottiene 1,6 miliardo di euro, mentre il costo sociale è sensibilmente inferiore, visto che KFP calcola spese per 234 milioni di euro. Le lotterie ed i giochi generano entrate pari a 2,2 miliardi di euro, ma hanno costi poco superiori al miliardo di euro. Lo studio condotto da KFP evidenzia come grazie al gettito garantito dalle dipendenze lo stato avrebbe le possibilità di finanziare un migliore trattamento di queste malattie. I poteri pubblici potrebbero migliorare la ricerca, così come una prevenzione efficace e le terapie per guadagnare da queste dipendenze. Secondo uno dei responsabilità della società di analisi di mercato le statistiche ufficiali fornite dal ministero della Sanità non sarebbero solide, ed ha citato come esempi il dato degli alcolisti. Secondo il dicastero della Salute il cinque per cento degli austriaci tra i 15 ed i 90 anni sarebbe dipendente dall’alcol, un dato che però si basa un campione di sole cinquanta persone. Per Gabriele Fischer la ricerca invece ha evidenziato la necessità di cambiare la strategia, perchè la dipendenza è spesso determinata da fattori genetici, una malattia cronica che merita di essere curata in modo adeguata. Chi ne soffre non ha una lobby, ed anche per questo lo stato può sottrarsi al suo compito, ha rimarcato la responsabile di KFP.

Philip Morris, Michelin, Microsoft: gli accordi segreti con l'Italia per pagare meno tasse. L’Espresso ha indagato sui beneficiari dei tax ruling italiani. Ed è in grado di rivelare i nomi di tre multinazionali che hanno firmato accordi riservati con l’Agenzia delle Entrate, scrive Stefano Vergine l'8 gennaio 2018 su "L'Espresso". L’Italia continua a fare accordi fiscali segreti con le multinazionali. Gli ultimi dati ufficiali, pubblicati dalla Commissione europea e relativi al 2015, dicono che i cosiddetti tax ruling concessi dal nostro Paese alle grandi imprese hanno raggiunto quota 68. Il doppio rispetto a tre anni prima. Il balzo ci ha proiettato in cima alla classifica delle nazioni europee che strizzano l’occhio alle grandi corporation. Oggi siamo quarti, preceduti da Lussemburgo, Belgio e Ungheria. E andando avanti così potremmo presto salire sul podio. Al di là dei confronti internazionali, c’è un problema: i beneficiari di questi accordi continuano a restare segreti, così come i loro contenuti. E questa mancanza di trasparenza non può che alimentare sospetti. Proprio i tax ruling sono stati infatti al centro dello scandalo LuxLeaks, l’inchiesta giornalistica che tre anni fa ha permesso di conoscere i privilegi fiscali concessi dal Lussemburgo a centinaia di società private. Colossi globali che hanno ottenuto dal Granducato il lasciapassare per spostare lì buona parte dei profitti. Pagando in cambio tasse ridicole, l’1 per cento o addirittura meno. Questo mentre tutte le altre imprese sono tenute a versare imposte venti o trenta volte più alte. LuxLeaks ha avuto il merito di innescare un dibattito sui tax ruling. Spingendo la Commissione europea ad avviare indagini, la più clamorosa delle quali ha costretto Apple a pagare 13 miliardi di euro di tasse non versate. Certo, ruling non significa per forza elusione. Questi contratti servono in teoria alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno i profitti tassabili. D’altronde la struttura di una multinazionale è molto più complessa di quella di una piccola impresa. Così, diversi paesi offrono ai grandi gruppi l’opportunità di spiegare in anticipo come intendono organizzarsi. Con un vantaggio duplice: lo Stato sa più o meno quanto incasserà a fine anno, la multinazionale evita il rischio di controlli a sorpresa. Questa almeno è la teoria. La pratica indica che i ruling possono però essere usati anche per eludere il fisco, quasi sempre spostando i profitti nei Paesi dove le imposte sono più basse. Per questo l’Europa è corsa ai ripari con una riforma che il commissario all’Economia, Pierre Moscovici, ha definito «un importante passo in avanti». Dall’anno scorso gli Stati Ue sono tenuti a scambiarsi le informazioni sui ruling emessi. In più, a partire da quest’anno tutte le multinazionali con un fatturato complessivo superiore ai 750 milioni di euro dovranno fornire alle autorità fiscali degli Stati in cui operano i dati economici divisi per nazione: fatturato, profitti, tasse, numero di dipendenti. Cifre che permettono di capire se la multinazionale sta giocando sporco. Peccato che tutte queste informazioni non sono a disposizione dei cittadini. I promotori delle nuove norme dicono che lo scambio di dati fra Stati sarà sufficiente a evitare nuovi casi di concorrenza fiscale illecita. Ma chi può garantire che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere condizioni favorevoli alle multinazionali?

L’Espresso ha indagato sui beneficiari dei tax ruling italiani, scoprendo i nomi di tre multinazionali che hanno firmato accordi riservati con l’Agenzia delle Entrate. Ne mancano tanti, visto che in totale sono 68, ma queste storie permettono già di comprendere la posta in gioco. Nel suo bilancio 2015 Philip Morris dichiara di aver concluso con l’Italia, negli anni precedenti, degli «accordi di ruling di standard internazionale». Il linguaggio è tecnico, i dettagli sono ridotti all’osso, ma la sostanza è chiara: la multinazionale americana del tabacco ha ottenuto un tax ruling che riguarda i prezzi a cui la sua filiale tricolore compra le sigarette da altre società del gruppo. Questione cruciale per l’azienda delle Marlboro. Dai costi d’acquisto delle bionde dipendono infatti i profitti dichiarati in Italia. E di conseguenza le imposte. Prendiamo per esempio un pacchetto di Marlboro rosse. Oggi al fumatore costa 5,20 euro. Se Philip Morris Italia acquista il pacchetto dalla sua filiale estera a 5 euro, pagherà a Roma imposte solo sui 20 centesimi di guadagno lordo (al netto di altri costi sostenuti in Italia). Se invece lo stesso pacchetto viene comprato dalla filiale nostrana a 4 euro, le imposte verranno calcolate su un guadagno lordo di 1,20 euro, dunque molto più alto per Philip Morris e altrettanto redditizio per il Fisco. Su tutto questo, purtroppo, né l’impresa né lo Stato italiano pubblicano dettagli. Non resta perciò che continuare ad analizzare il bilancio. È proprio leggendolo che si capisce l’importanza dei costi di acquisto della materia prima. Nel 2015 Philip Morris Italia ha fatturato 1,3 miliardi di euro. I soli costi d’acquisto di materie prime ammontavano a 1,1 miliardi. Insomma, profitti bassissimi. E così, nonostante un giro d’affari miliardario, le imposte versate a Roma non sono state molte: 21,5 milioni. Ma dove finisce il margine di guadagno ottenuto vendendo sigarette in Italia? Principalmente a due consociate del gruppo: la Philip Morris International Management e la Philip Morris Product. Entrambe domiciliate in Svizzera, dove le tasse societarie possono scendere al 9 per cento, o addirittura a zero se il gruppo ha firmato un ruling vantaggioso anche con il governo di Berna. Resta quindi da capire che cosa ha guadagnato Roma dall’accordo con Philip Morris. Perché, andando indietro negli anni, ci si accorge che i numeri dichiarati sono più o meno sempre gli stessi: il fisco non ha incassato più soldi da quando ha firmato il ruling con il gigante del tabacco. La controprova dello svantaggio si ottiene confrontando il margine di guadagno realizzato da Philip Morris in Italia con quello registrato mediamente nel mondo. Su scala globale, per ogni milione di euro incassato circa 110 mila euro sono profitti. Da noi si arriva a 32 mila euro. Quasi quattro volte in meno. Un indizio utile a spiegare i motivi della discrepanza lo fornisce la stessa società, che dichiara di aver parcheggiato in alcune sue filiali straniere la bellezza di 23 miliardi di dollari di profitti tassati a regime preferenziale.

La struttura fiscale di Philip Morris è simile a quella adottata da Michelin. Non sembra dunque casuale che anche la multinazionale francese degli pneumatici abbia firmato un tax ruling con l’Italia. Porta la data del 18 dicembre 2015. Valido per quattro anni, il contratto è in realtà un rinnovo - si legge nel bilancio - e riguarda «la determinazione dei prezzi di trasferimento» tra la filiale italiana e «le principali società dell’Europa dell’Ovest appartenenti al Gruppo». Anche qui il ruling è stato dunque fatto per decidere a quale prezzo la filiale italiana deve acquistare prodotti dalle succursali straniere. Particolare fondamentale per determinare quante imposte dovranno poi essere versate a Roma. Nel 2015 Michelin ha pagato al fisco 24,8 milioni di euro. Tanti o pochi? Di sicuro negli ultimi anni la cifra è stata più o meno la stessa, quindi l’accordo non ha fatto aumentare nettamente le entrate per Roma. Un’altra costante sono i soldi che dalla sede italiana vengono trasferiti all’estero per l’acquisto di materiale: circa un miliardo di euro all’anno. Che finiscono, in maggioranza, alle consociate basate in Inghilterra, Francia, Polonia e Singapore. Insomma, nonostante gli oltre quattromila dipendenti e i quattro stabilimenti, la filiale nostrana della Michelin assomiglia più a una società di distribuzione che a un’industria produttiva.

Un altro colosso globale che ha stretto accordi fiscali riservati è Microsoft. Ma il caso sembra molto diverso dai precedenti. La multinazionale controllata da Bill Gates ha firmato il ruling il 30 giugno del 2015. Un accordo valido per quattro anni, di cui però non si sa altro. I numeri dicono che in Italia l’azienda ha margini di guadagno quasi doppi rispetto alla sua media mondiale. Una buona notizia anche per l’Agenzia delle Entrate, in teoria. Ma la pratica è più complicata. Una buona fetta del fatturato realizzato vendendo software in Italia non viene infatti registrato dalla filiale nostrana. Lo scrive la stessa multinazionale nel suo bilancio: «È importante rilevare che Microsoft Srl non vende ai clienti i prodotti di Microsoft, in quanto le vendite sono effettuate da Miol». Miol sta per Microsoft Ireland Operation Limited, società del gruppo registrata a Dublino, che conta meno dipendenti della succursale italiana ma guadagni ben più consistenti. La filiale d’Oltremanica ha infatti dichiarato un utile pre tasse di quasi 1 miliardo di euro (anno fiscale 2015/2016). Oltre trenta volte più di quanto registrato in Italia, sebbene il nostro sia un mercato molto più grande di quello irlandese.

Il fatto che i soldi incassati vendendo software finiscano a Dublino è facilmente spiegabile. Lì le tasse societarie sono del 12,5 per cento, quasi la metà dell’imposta di Roma. E molto spesso l’Irlanda permette alla multinazionale di trasferire i denari in altri paradisi fiscali, con il risultato che alla fine di tutto questo giro le imposte reali sul guadagno realizzato dalla vendita di un software siano prossime allo zero. Viene da chiedersi allora perché l’Italia ha concesso un ruling a Microsoft, cioè quanto ha guadagnato il nostro Paese da questo accordo. Quattro o cinque milioni di euro all’anno. Lo si capisce confrontando i bilanci. Da quando Microsoft ha sottoscritto l’accordo con il governo italiano, il fatturato e i guadagni lordi sono leggermente aumentati, e in proporzione sono cresciute le imposte versate. Che cosa ha ottenuto invece Microsoft? Innanzitutto la garanzia di poter continuare a registrare buona parte del fatturato in Irlanda. E poi la sicurezza di non vedersi più piombare la guardia di finanza in azienda. Come avvenuto quattro anni fa, con un accertamento fiscale costato al colosso di Redmond 6,3 milioni di euro. Più o meno equivalente al surplus di tasse versato al fisco da quando è stato sottoscritto il ruling. Un’inezia, rispetto ai 21 miliardi di dollari di guadagni netti incassati al livello mondiale nell’ultimo anno. Ma le multinazionali come Microsoft, si sa, sono macchine da soldi. E dalla concorrenza fiscale tra i Paesi europei hanno solo da guadagnare. 

La guerra sporca delle multinazionali del tabacco: sono loro a incentivare di nascosto il contrabbando di sigarette, scrive Mariella Bussolati su it.businessinsider.com il 4 settembre 2018. Due nuovi studi pubblicati sul British Medical Journallanciano un allarme: le grandi compagnie che producono tabacco, incentivano direttamente il mercato di contrabbando. Circa due terzi delle sigarette illegali arrivano dall’industria. Le ricerche sono state condotte dal Tobacco Research Group dell’Università di Bath, un team internazionale e interdisciplinare. In sostanza è un cane da guardia del settore. Per esempio controlla che non vengano fatte promozioni e il tipo di messaggi che vengono applicati sui pacchetti. Ma anche il comportamento a livello di lobby nei confronti della politica. La prima pubblicazione si basa su documenti trapelati in segreto che dimostrano che i produttori stanno violando l’Illicit Trade protocol, un trattato internazionale ratificato da oltre 40 Paesi che punta a eliminare ogni diffusione illecita tramite misure prese in cooperazione tra le varie nazioni. Le denunce sono precise: alla fine degli anni Novanta un terzo della produzione di sigarette è andato “perduto” e i documenti scoperti dimostrano che alcuni mercati sono stati forniti solo di prodotti di contrabbando. Nel secondo studio viene dimostrato che le aziende del tabacco hanno avuto un ruolo contraddittorio e cercano costantemente di manipolare l’opinione pubblica e i controlli. Dopo aver a lungo osteggiato l’adozione del protocollo, hanno cercato di lavare la propria immagine e si sono offerte come partner. Hanno organizzato conferenze in Paesi come Kenya, Uganda, Zimbabwe e Sud Africa, con la collaborazione dei Governi di quei Paesi. Lo hanno fatto però per promuovere Codentify, un sistema che permette il tracciamento della catena distributiva e che viene proposto in alternativa ai sistemi governativi pubblici. Infine hanno finanziato studi. Uno di questi, pagato da Philip Morris è stato svolto da Transcrime, un centro di ricerca legato all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Trento. I risultati a cui arrivano, sostiene il team del Tobacco Research Group, sono sempre sottostimati, rispetto a quelli che provengono da fonti indipendenti. Dunque non possono essere presi in considerazione. E l’approccio poco trasparente e l’adozione di tattiche che cercano di interferire con gli organi di sorveglianza viene sottolineato anche da un documento pubblicato dal Framework Convention on tobacco control dell’Organizzazione mondiale della sanità, un organismo che ha stilato anche le linee guida del protocollo. In pratica quella portata avanti è una guerra sporca, in cui il controllato mette le mani sul controllo e agisce nelle retrovie in modo da sbilanciare la situazione. “le compagnie continuano a spendere milioni di euro per finanziare la ricerca sul tabacco illecito. Ma se questi dati non rispettano gli standard scientifici ci dobbiamo chiedere se non servano invece a infangare un tema che ha molta importanza per la salute dell’uomo”, ha detto Karen Evans-Reeves, uno degli autori dello studio.

In Italia il 5-6% delle sigarette consumate è illecito. Ma perché le industrie hanno interesse a farlo? Le compagnie vengono pagate per il loro prodotto in ogni caso, sia venduto legalmente oppure no. La vendita a prezzi ribassati in compenso aumenta le vendite, ovvero il consumo, senza limiti di età. I marchi illegali presenti in Italia sono Regina, Marble, Pine, Minsk e Mark1 e hanno un prezzo che va da 2,5 a 3,5 euro. Ci sono poi anche brand noti illeciti, come Marlboro, Winston, Rothmans e Chesterfield, il sui prezzo è intorno ai 2,5 euro, mentre dal tabaccaio dovrebbero costare tra 4,50 e 5,20. Il contrabbando viene utilizzato inoltre come scusa per chiedere una riduzione delle tasse. Fa parte di una strategia di marketing perché, incentivandolo, nonostante esistano dei controlli, è possibile chiedere misure per limitarlo che poi diventano vantaggiose, come l’eliminazione restrizioni sulle importazioni o la privatizzazione delle compagnie statali. Legate al contrabbando ci sono insomma questioni di salute, perché consente l’accesso al tabacco con prezzi molto inferiori e accessibili anche ai più giovani, ma soprattutto economiche perché consente l’evasione delle tasse.

Alla Ue il mercato nero del tabacco costa ogni anno 10 miliardi di euro di mancati introiti da imposte e dazi e, di questi, 1 miliardo è l’evasione relativa all’Italia. Il nostro Paese è sia mercato di destinazione finale sia area di transito dei commerci illegali da e verso gli altri Stati dell’Unione Europea e che partono dalla Grecia. Nel 2016 sono arrivati da Asia, Africa e Turchia in Grecia 4 miliardi di sigarette di contrabbando. In gennaio l’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare in collaborazione con Olaf, European anti-fraud office, ha pubblicato una indagine sul collegamento tra criminalità organizzata e traffici illeciti. Gli esperti che lo hanno compilato sostengono che il traffico illecito viene incentivato anche da un altissimo livello di accettabilità sociale del fenomeno, che favorisce lo sviluppo di questo commercio. Secondo la Guardia di Finanza il fenomeno del contrabbando è concentrato in Campania, Friuli Venezia Giulia e Sicilia. In Sicilia, quasi tutte le provenienze avvengono dal Nord Africa, da traghetti provenienti dalla Tunisia o da natanti di clandestini. Inoltre le tasse pagate variano da un Paese all’altro e in questo caso si producono simmetrie che consentono ai mercati non regolari di a espandersi. Il documento The Tobacco Industry and the Illicit Trade in Tobacco Products prodotto dalla Framework convention on tobacco control identifica sei aree di interferenza da parte delle multinazionali:

prima di tutto intervengono in politica e fanno lobbying per far accettare dai governi l’organismo di controllo delle compagnie o per non ratificare il protocollo.

Sottolineano sempre l’importanza economica dell’industria senza valutare i costi per i sistemi sanitari nazionali dovuti alle patologie da tabacco.

Manipolano l’opinione pubblica per guadagnare rispettabilità pubblicizzando la propria responsabilità sociale di impresa, creano gruppi di supporto “indipendenti”, discreditano le ricerche scientifiche pubblicate o propongono come scienza pubblicazioni che non hanno nessun riscontro.

Infine minacciano i governi di fare causa perché il loro impegno contro il contrabbando non viene riconosciuto.

Gli autori del Tobacco Research Group dichiarano che è ora che governi, uffici delle tasse e organismi dei consumatori, che vengono costantemente gabbati dalle tattiche dell’industria, reagiscano, non credendo alle ricerche prodotte da chi produce tabacco e non accettando i loro sistemi di tracciamento, perché non sono credibili.

C COME MAFIA DELLA BUROCRAZIA E DELLA CORRUZIONE.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “DISSERVIZIOPOLI”, “APPALTOPOLI” E “TANGENTOPOLI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE” E “LADROPOLITANIA”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Il Cipe e l’inutile burocrazia bloccano 140 miliardi di investimenti già stanziati (e coperti dalle tasse degli italiani), scrive Giuliano Balestreri il 13 novembre 2018 su it.businessinsider.com. “Gli investimenti pubblici in infrastrutture sono una priorità”. E ancora: “Un grande piano di investimenti, le risorse ci sono”. Oppure: “Sbloccheremo i fondi”. Da quando è diventato ministro dell’Economia, Giovanni Tria lo ripete come un mantra. Anche perché, probabilmente, l’unico reale spazio di manovra sui conti pubblici riguarda fondi già stanziati. Secondo l’Ance ci sono 60 miliardi destinati al Fondo investimenti e sviluppo infrastrutturale; 27 miliardi del Fondo sviluppo e coesione; 15 miliardi di Fondi strutturali europei; 9,3 miliardi di investimenti in carico alle Ferrovie dello Stato; 8 miliardi di misure per il rilancio degli enti territoriali; altri 8 miliardi per il terremoto; 6,6 miliardi nel contratto di programma dell’Anas e 3 miliardi nell’articolato legge di Bilancio 2018. Alla fine del 2016, il governo Renzi – prima delle dimissioni in seguito alla sconfitta referendaria – creò un fondo da 83 miliardi presso la presidente del Consiglio dei ministri: nei programmi erano previsti 3 miliardi di investimenti nel biennio successivo; “in realtà – spiegano dall’Ance – sono stati spesi meno di 300 milioni di euro”. E così dei 140 miliardi stanziati negli ultimi due anni è stato speso utilizzato meno del 4%. Una situazione al limite del grottesco perché i soldi stanziati entrano nel computo del deficit e del debito pubblico, ma poi nonostante gli sforzi per tenere in equilibrio i saldi di bilancio, i denari non vengono utilizzati. Secondo l’Istat, ogni euro pubblico in investimenti infrastrutturali attiva investimenti – diretti e indiretti – per 3,5 euro, mentre in termini di lavoro ogni miliardo genera 15.500 nuovi occupati. Come a dire che 140 miliardi di investimenti pubblici potrebbero creare oltre 2 milioni di posti di lavoro. Eppure tutto questo non succede. Passata la fase dell’austerity, negli ultimi anni le leggi di Bilancio hanno messo in campo risorse importanti che – puntualmente – sono state bloccate da incredibili procedure amministrative. L’Ance ha calcolato che per far partire un cantiere da oltre 100 milioni di euro, bisogna aspettare dai sette agli 8 anni e altrettanti ne servono per chiuderlo. La presidenza del Consiglio dei ministri, invece, ha rilevato che i “tempi di attraversamento” sono più lungi del 54% rispetto agli altri paesi Ue. In sostanza abbiamo molti più tempi morti rispetto ai nostri vicini di casa. Basti pensare al ruolo del Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica, che viene chiamato in causa per ogni modifica progettuale anche quando l’importo stanziato per le opere non cambia. Sempre l’Ance ha calcolato che i vari passaggi obbligatori amministrativi hanno rallentato i lavori della statale ionica di tre anni. D’altra parte ogni passaggio al Cipe “costa” 6-8 mesi di stop: dopo le delibere, infatti, è necessario un passaggio in Corte dei Conti e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Insomma, da organo predisposto alla distribuzione delle risorse, il Cipe si è trasformato in un freno alla ripresa e agli investimenti. Il risultato di questi rallentamenti è nei numeri: tra il 2016 e il 2018, gli investimenti pubblici sarebbero dovuti aumentare di 6,8 miliardi, invece sono calati di 3,7 miliardi. Con un divario tra quanto viene annunciato e quanto viene realmente speso di oltre 10 miliardi di euro. E così, quando il ministro Tria parla di sbloccare fondi già stanziati pari all’8,7% del Pil, intende dire che proverà a rivedere l’intero processo burocratico. Un’impresa mai riuscita prima e che molti dubitano riesca adesso. In audizione davanti alle commissioni congiunte di Camera e Senato, l’Ance ha proposto una serie di interventi che potrebbero trasformare le risorse stanziate in cantieri:

in attesa della piena efficacia di InvestItalia e della Centrale per la progettazione, intervenire subito con snellimenti procedurali per l’avvio dei cantieri. La piena efficacia delle nuove strutture istituite, infatti, richiederà tempi medio lunghi e un quadro di governance che escluda sovrapposizioni e conflitti di competenze in grado di bloccarne l’efficacia;

per velocizzare le fasi di affidamento della gare per lavori pubblici, utilizzare strumenti trasparenti e rapidi, come l’esclusione automatica delle offerte anomale, laddove non vi sia complessità tecnologica;

eliminazione dei passaggi al CIPE successivi all’approvazione del Documento pluriennale di pianificazione (Dpp) riconducendo il Comitato all’originale funzione programmatoria;

innalzamento da 50 a 200 milioni della soglia per il parere obbligatorio da parte del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici;

eliminazione delle inutili duplicazioni di passaggi decisionali tra i ministeri;

razionalizzazione delle attività di controllo della Corte dei Conti, al fine di concentrarne l’azione sull’attività di programmazione iniziale e, successivamente, sull’operato delle amministrazioni, come avviene in altri Paesi europei.

La potente armata di 200 mila burocrati di Stato che costano 25 miliardi all’anno, scrive il 23 settembre 2018 su Desk Ciro Crescentini. Ogni anno gli alti dirigenti dichiarano di avere raggiunto gli obiettivi, anche se la percezione della loro efficienza è decisamente bassa. Nel nostro Paese opera un esercito ristretto di super-burocrati che detengono un potere immenso nei ministeri, nei comuni, nelle regioni e nella sanità. Una potente armata di 200 mila tra superburocrati e quadri di seconda fila a carico della collettività. E’ costano tanto, un costo stratosferico: da un minimo di 16 miliardi di euro l’anno fino a una stima di venticinque miliardi di euro. Guadagnano più dei parlamentari e dei ministri.  Sono loro che gestiscono l’organizzazione tecnico-amministrativa dei Ministeri, si coprono gli errori uno con l’altro, sono legati a una efficace rete di protezione e rimangono ai posti di comando nonostante i cambi di governo.  Guadagnano più dei parlamentari. In testa a tutti nella classifica degli stipendi, il direttore generale e il ragioniere generale del Ministero dell’Economia. Entrambi superano quota 500 mila euro all’anno. Il segretario generale del ministero degli Esteri, percepisce, invece, 296 mila euro. E non finisce qui. Ben diciotto burocrati dello stesso ministero, ricevono una retribuzione superiore ai 250 mila euro. E ancora. Il capo di gabinetto del Ministero dell’Istruzione guadagna 190 mila euro all’anno, il responsabile della segreteria tecnica del ministro 90 mila. Il vice capo di gabinetto 124 mila euro. I super-burocrati non indicano mai i parametri di merito e di produttività: ogni anno dichiarano di avere raggiunto gli obiettivi, anche se la percezione della loro efficienza è decisamente bassa. Dunque, l’Italia è piena di dirigenti, uno status che dura tutta la vita, mentre l’efficienza dell’amministrazione di Stato, Regioni, Province e Comuni resta sotto gli occhi di tutti: uno sfascio totale.

Burocrazia e scartoffie: Franz Kafka era italiano? Lettera su Italians de "Il Corriere della Sera" di venerdì 6 luglio 2018. Caro Beppe, stimolato dal fatto che proprio il 3 di luglio sarebbe il compleanno di Franz Kafka, mi chiedevo se l'Italia possa vantarsi del titolo di più "kafkiano" tra i Paesi del primo e secondo mondo. In realtà non ne sono del tutto sicuro, dipende infatti da come si interpreta il termine "kafkiano". In genere, mi pare di capire, in italiano si intende per "kafkiano" un sistema contorto e opprimente di regole, sebbene a suo modo coerente. Il caso dell'Italia mi sembra invece più un caso di inefficienza cronica complicata da contraddizioni e corruzione diffuse, oltre che di complessità (kafkiane) dei regolamenti. Avendo vissuto e lavorato in diversi Paesi, la mia sensazione è che oggi l'Italia, soprattutto in alcune regioni, dia veramente da mangiare la polvere (delle scartoffie...) non solo a tutti i Paesi sviluppati economicamente, ma anche a molti di quelli in via di sviluppo. Attaccare questo problema dovrebbe essere la priorità di ogni partito in Italia, in quanto preliminare alla soluzione di tutti gli altri, sia economico o sociale. Ma mi sembra si parli solo di immigrazione (fenomeno in calo nettissimo dal 2015, dati alla mano). Ho vissuto in 6 Paesi diversi e lavorato in altri 11, e qualcosina l'ho appresa nel frattempo. Questi sono i miei voti di "efficienza" del "sistema" di ognuno di quei 5: Inghilterra: 7, Galles: 7 1/2, USA: 7 1/2 (dipende molto da stato a stato), Australia: 8 1/2, Cile: 7 1/2 (sorprendente ma vero, almeno secondo la mia esperienza). Italia... 2. E ti assicuro che ho cercato in tutti i modi di essere equilibrato. Di pancia gli avrei dato un 1 visto quello che vedo e ho vissuto sulla mia pelle. Un ultimo appunto: qui non parlo di diritti civili, di giustizia, di cultura o qualità della vita. Certo sono fenomeni connessi, ma un Paese può essere colto ed efficiente ma profondamente ingiusto ad esempio, si pensi al Terzo Reich. "Il Processo" insomma dovrebbe averlo scritto un italiano, magari un novello Tomasi di Lampedusa? Un saluto, Paolo G. Calisse.

Situazione kafkiana. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Franz Kafka nel 1906: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.» Il termine "kafkiano" è un neologismo della lingua italiana che indica una situazione paradossale, e in genere angosciante, che viene accettata come status quo, implicando l'impossibilità di qualunque reazione tanto sul piano pratico quanto su quello psicologico. Il termine deriva da Franz Kafka, la cui opera è ricca di situazioni di questo tipo; si pensi per esempio a Il processo, Il castello, o America. Un termine equivalente potrebbe essere perturbante nell'accezione freudiana: qualcosa che è estraneo e familiare ad un tempo, e risuona inquietante proprio per questa sua ineliminabile e spiazzante ambiguità. Uno degli esempi più paradigmatici di situazione "kafkiana" è forse proprio quella del Processo di Kafka, in cui l'impotenza (l'impossibilità della reazione) viene messa in relazione, tra l'altro, col tema della burocrazia giudiziaria. In quest'opera, il protagonista "Josef K." riceve inaspettatamente la notizia di essere in arresto. Un giorno, trovandosi negli uffici della banca dove lavora, apre una porta di un ripostiglio e vi trova i custodi che si erano presentati in casa sua, puniti da un aguzzino, perché Josef K. si era lamentato del loro comportamento. L'effetto kafkiano del lettore si scatena però non in questa sorpresa irreale, ma nel constatare il comportamento del protagonista: egli non reagisce al fatto di trovare dei poliziotti là dove mai avrebbe pensato ma si preoccupa che i poliziotti non facciano troppo rumore quando sono frustati. La paura di Josef K. è che i colleghi o i suoi sottoposti si presentino a vedere cosa succede e scoprano così che egli è sotto processo. La vergogna per l'indagine, a cui non ci si può opporre (Josef K. non sa neppure di preciso quale sia l'imputazione) viene così amplificata dal predominare paradossale del senso del pudore del protagonista. La scena mette bene in risalto il funzionamento dell'assurdo kafkiano. Cioè creare un contrasto che sembra irragionevole ma che in realtà rivela un aspetto profondo, sconvolgendo e spiazzando il lettore. Nel film "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" (1970), di Elio Petri, il finale è riservato ad una citazione dell'opera kafkiana: "Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano".

Perché si dice kafkiano? L'aggettivo kafkiano, che deriva dal nome dello scrittore praghese, è diventato sinonimo di assurdo. Ecco perché, scrive il 20 marzo 2018 Eugenio Spagnolo su Focus. È l’aggettivo che racchiude in una sola parola la sensazione di trovarsi all’improvviso in un mondo in cui i consueti modi di pensare e di comportarsi non funzionano più.  Non per niente, spesso capita di sentirlo riferito alla burocrazia: quando una norma sembra scritta per complicare la vita di chi deve seguirla, ecco spuntar fuori l’aggettivo kafkiano, da Franz Kafka (1883 - 1924), scrittore praghese e autore di opere importanti come La metamorfosi e Il processo. Ed è proprio dalla lettura di questi due romanzi, pubblicati nei primi del 900, che kafkiano diventa sinonimo di paradossale, allucinante, assurdo.

I LIBRI. La metamorfosi è la storia di Gregor Samsa, un giovane che, trasformato da un giorno all'altro in un gigantesco coleottero (per la precisione Kafka parla di "enorme insetto immondo"), diventa un oggetto di disonore per la sua famiglia, un estraneo nella sua stessa casa, un uomo perlopiù alienato. Una tragicomica meditazione sui sentimenti umani di inadeguatezza, colpa e isolamento. Il processo invece è il racconto angosciante di quello che succede a Josef K., un rispettabile funzionario di banca, che viene improvvisamente e inspiegabilmente arrestato e deve difendersi da una accusa che non conosce e sulla quale non può ottenere informazioni. Un racconto esistenziale, che è anche parabola degli eccessi della burocrazia sposata alla follia del totalitarismo.

IL MONDO CONTRO DI TE. In seguito al successo dei libri di Kafka, kafkiano ha assunto il significato con cui è usato oggi. E che, come ha scritto Frederick R. Karl, autore di una esaustiva biografia di Kafka, descrive la situazione che si prova “quando entri in un mondo surreale in cui tutti i tuoi schemi di controllo, tutti i tuoi piani, l'intero modo in cui hai configurato il tuo comportamento, inizia a cadere pezzi, quando ti trovi contro una forza che non si presta al modo in cui percepisci il mondo. E qualsiasi cosa tu faccia per contrastarla, ovviamente non hai nessuna possibilità”. 

LA FINE DELL'IMPERO. Quando Kafka consegnò alle stampe i suoi romanzi, abitava a Praga, città che sentiva in modo particolarmente soffocante il dominio dell’Impero Asburgico nella fase del suo declino, con la sua burocrazia lenta, elefantiaca, emanazione di un potere imperscrutabile. Niente a che vedere con la burocrazia moderna dei giorni nostri, eppure kafkiano resiste come altri aggettivi figli di scrittori: freudiano, proustiano, dickensiano, scespiriano…

DALL’ASSICURATORE KAFKA A FANTOZZI LA BUROCRAZIA È ROBA DA ROMANZO, scrive Giordano Tedoldi su Libero del 21 febbraio 2013. La vita d’ufficio ha ispirato (e materialmente nutrito) una lunga serie di geni e personaggi creando la letteratura borghese. Fino a mettere in allarme Stalin – Alexander Pushkin, gran bevitore, gran giocatore, gran seduttore, morto dopo il duello con l’amante della moglie, per campare faceva l’impiegato del ministero degli Affari esteri a Pietroburgo. Franz Kafka lavorava alle assicurazioni per gli infortuni sul lavoro del regno di Boemia; e nelle note di qualifica il suo superiore diretto, il dottor Pfohl, lo valutava così: «Instancabile, assiduo e ambizioso, egregiamente utilizzabile, il dottor Kafka è di straordinaria operosità, di spiccata intelligenza e di grande zelo nell’adempimento del suo lavoro». Nathaniel Hawthorne faceva il mezzemaniche alla dogana di Boston e poi di Salem, dove, come scrive nel suo romanzo più celebre, La lettera scarlatta, i funzionari «sono scelti perché perseguano il proprio profitto e la propria convenienza, e di rado in base al criterio prioritario della loro idoneità al compito da svolgere». Heinrich Böll trovò tranquillità economica all’ufficio statistico comunale di Colonia. Guy de Maupassant, dipendente del ministero della Marina francese, si guadagnò questo giudizio dal direttore del servizio: «Coscienzioso, ma non sa scrivere». Lui, che scrisse gemme della letteratura impiegatizia come i racconti In famiglia, L’eredità, La collana. L’elenco degli scrittori che trovarono ispirazione (e i mezzi per campare) alla scrivania di un ufficio o in una carica amministrativa è lungo, e lo trovate nel bellissimo saggio di Luciano Vandelli: Tra carte e scartoffie. Apologia letteraria del pubblico impiegato (Il Mulino, pp. 312, euro 22). Il fatto che Vandelli non sia un critico letterario ma un giurista ci convince nella tesi che è sempre meglio far parlare di letteratura chi proviene da un’altra area, portando un contributo obliquo e originale. L’idea di esplorare il mondo degli uffici, dei pubblici impieghi, delle cariche statali (repubblicane, regie, imperiali o imperialregie) come scaturigine della letteratura borghese e dunque moderna, produce effetti di grande interesse e spesso comici. Del resto, romanzi e scartoffie non si affrontano con la stessa attrezzatura, carta e penna e ora i computer, anche quelli vintage dell’amministrazione pubblica? La somiglianza tra i due mondi viene vista con sarcasmo in quel capolavoro che è Oblomov di Ivan Goncarov (impiegato del ministero delle Finanze) nel dialogo tra il protagonista e un vecchio compagno di studi, Sudbinskij, che vanta la progressione miracolosa della sua carriera impiegatizia: «“Bravo! - riconosce Oblomov - Però ti tocca lavorare dalle otto a mezzogiorno, da mezzogiorno alle cinque e poi ancora a casa; ahi, ahi!”. E scuote la testa. “E cosa farei tutto il giorno, se non lavorassi?”.“Potresti leggere, scrivere...”. “An - che adesso non faccio altro che leggere e scrivere”. “Ma non è la stessa cosa...”», gli fa notare Oblomov. Non sarà la stessa cosa, però Kafka spediva, anzi, trasmetteva copie delle sue relazioni d’ufficio, come fossero racconti, alla fidanzata Felice Bauer, agli amici e a scrittori come Franz Blei, all’epoca influente direttore di riviste letterarie, accludendo un biglietto: «Poiché è mia opinione che Lei tenga particolarmente alla lingua ceca, Le invio una relazione annua del mio Istituto, che è appena uscita e di cui io sono l’autore fino a pagina 22. Voglia accettarla con amicizia». Altri, al contrario, si vergognavano di far coincidere il lavoro “ufficiale” e quello di scrittore, oppure ne temevano contraccolpi sulla carriera, o entrambe le cose, come l’irrequieto Henri Beyle, in arte Stendhal ovvero gli altri circa 250 pseudonimi che utilizzò nei suoi scritti: F. de Lagenevais, Alexandre Bombet, M. de Léry, Is Ich Charlier, Banti, Machiavel, Mocenigo. Maschere infinite che non rivelassero l’imbarazzante segreto che l’autore de Il Rosso e il Nero e de La Certosa di Parma fosse proprio quel Beyle uditore al Consiglio di Stato alla presenza di Napoleone e poi, al tempo della monarchia di Luglio, aduggiato console di Civitavecchia, dalla quale scappava appena poteva, dopo che Metternich in persona, memore dei suoi trascorsi bonapartisti, aveva posto il veto allo stesso incarico a Trieste. Del resto l’impiegato frustrato, in crisi tra sogni privati e disciplina sul lavoro, è il perfetto modello dello scrittore borghese, angosciato tra gli obblighi materiali e i miraggi della creatività. Così lo scrittore austriaco Heimito von Doderer, nel romanzo Le finestre illuminate mette in scena Julius Zihal, funzionario dell’imperial-regio Ufficio centrale delle imposte di Vienna, che si dispera e si consola come può: «Un burocrate è un essere umano? No, ma può diventarlo». E poco umana è la figlia del burocrate Fantozzi, invariabilmente scambiata per una bertuccia. Peraltro anche le impiegatizie Domeniche di un borghese di Maupassant offrono l’incontro con un «essere innominabile, che tuttavia doveva essere una donna». Nata con la letteratura del quotidiano di Balzac, Flaubert e Maupassant, l’apologia dell’impiegato come eroe letterario tocca il suo vertice di assurdo e di comicità (aspetto troppo spesso sottovalutato, quest’ultimo) con Franz Kafka. Nel Castello, il funzionario Buergel atterrisce l’agrimensore K. che non riesce a penetrare nel Castello, metafora, a detta dell’amico di Kafka e suo esecutore testamentario, Max Brod, della Grazia divina: «La nostra organizzazione amministrativa è senza errori – spiega il funzionario Buergel – E tuttavia è perfettamente irrazionale». Anche il Dio di Kafka, per salvare i suoi fedeli, è sepolto di pratiche e faldoni in cui stenta a raccapezzarsi; il divino è incomprensibile all’umano, ma anche l’umano al divino, l’incontro è sempre rinviato. L’autore de Il maestro e Margherita, Michail Bulgakov, intuì invece nella burocrazia, che per lui era quella paranoica del regime sovietico, l’insinuarsi non dell’irrazionale ma del disumano, dell’uomo-ingranaggio. Così nelle sue sceneggiature tratte dai capolavori impiegatizi di Nikolai Gogol, Le anime morte e L’ispettore generale, introduce un teatro di marionette, destini appesi ai fili di un manovratore occulto che non è altro che il sistema di potere stalinista. E Stalin, che come tutti i grandi dittatori aveva occhi acutissimi per cogliere i sottintesi politici nell’arte, fece la famosa telefonata a Bulgakov in cui gli disse che poteva tranquillamente continuare a scrivere, nessuno gliel’avrebbe impedito, solo che i suoi libri non sarebbero stati pubblicati e le sceneggiature non sarebbe diventate film. A tal segno mettevano in allarme quelle storie di impiegati! A ricordare che la burocrazia non è affatto innocua, c’è anche la vicenda dell’ultimo testo incompiuto di David Foster Wallace, Il re pallido. L’autore, gravemente provato dalla depressione che lo portò al suicidio, ambientò il suo ultimo progetto romanzesco nel centro controlli dell’Agenzia americana delle entrate. Vite e pensieri di impiegati, di anime appese ai fili, o alla corda dell’impiccato.

Anticorruttori ma già condannati, scrive Milena Gabanelli il 14 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". «Diversamente corrotti». Ci ha definito così Raffaele Cantone, il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, l’organismo istituito nel 2012 per vigilare e prevenire i fenomeni corruttivi nella Pubblica Amministrazione. Dati alla mano: una media di oltre 1.500 casi di corruzione ogni anno, 818 sentenze definitive di condanna nel solo 2016 per peculato, indebita percezione di erogazioni pubbliche a danno dello Stato, corruzione in atti giudiziari, d’ufficio, concussione. Eppure 3 enti su 4, non hanno mai stato segnalato alcun caso di corruzione. Ma chi avrebbe dovuto segnalarlo? Proprio i Responsabili Anticorruzione preposti al controllo nei singoli enti pubblici in un sistema che l’Europa ci invidia, come ha spiegato il presidente Cantone: «Oggi siamo invitati all’estero per spiegare come funziona l’anticorruzione». Bene, spieghiamolo.

Enti locali: requisiti per l’incarico. Negli enti locali italiani, i Responsabili dell’Anac, salvo eccezioni, sono i segretari generali: circa 7.000 in tutto, nominati dal sindaco, o dal Presidente della Provincia. Dirigenti, dunque, di investitura politica, e che dalla politica dipendono, ed è forse per questo che l’Anac, con una circolare raccomanda di «evitare di designare, quale responsabile della prevenzione della corruzione, un dirigente nei confronti del quale siano pendenti procedimenti giudiziari», o che non abbia dato «dimostrazione nel tempo di comportamento integerrimo». Si è sentita la necessità di precisarlo, ma non di verificarlo. Lo abbiamo fatto noi, scoprendo che sono almeno 20 gli enti che non hanno sentito la necessità di adempiere alle raccomandazioni.

Integerrimi? Non proprio. Antonella Petrocelli è sotto processo per turbativa d’asta in concorso con altri amministratori pubblici, per fatti commessi fra il 2012 e il 2015, quando era segretaria generale al comune di Como. Qualche giorno dopo la richiesta di rinvio a giudizio il Presidente della Provincia l’ha voluta in segreteria e così oggi, da imputata, è Responsabile Anticorruzione e Trasparenza della Provincia di Como. «Intollerabile e inescusabile negligenza, dispregio delle norme», sono le parole che il procuratore regionale della Corte dei Conti Emila Romagna ha speso per Danilo Fricano, segretario comunale a Molinella e Bellaria-Igea Marina, in provincia di Bologna, condannato nel 2014 per danno erariale. Al Comune deve restituire 70.353,99 euro, anche se nel frattempo è il Comune che paga lui, essendone ancora segretario generale e Responsabile Anticorruzione e Trasparenza. 125.000 euro è invece la cifra che l’ex segretario generale della Camera di Commercio di Prato, Catia Baroncelli, insieme all’ex Presidente, sono stati condannati a sborsare a fronte di un’operazione finanziaria dannosa per la camera di Commercio di Prato a vantaggio di quella di Firenze. La Baroncelli ha proposto appello, ma intanto la Camera di Commercio deve averle già perdonato il danno subito, considerato che è lei a rivestirne la carica di Direttore generale nonché di Responsabile Anac.

Condannati per danno erariale. La lista dei condannati per danno erariale è lunga. A Sesto San Giovanni c’è Mario Giammarrusti. A Corato, in provincia di Bari, c’è Luigi D’Introno, condannato a gennaio dello scorso anno a restituire 60.975,80 euro alle casse comunali. È ancora alla segreteria del Comune e Responsabile Anticorruzione. A Castelgomberto, provincia di Vicenza, nel 2017 il segretario generale Maria Grazia Salamino, insieme al sindaco sono stati condannati a 5 mesi di reclusione per abuso d’ufficio. Oggi la Salamino si è spostata di 10 chilometri, a Sovizzo e Marano Vicentino, dov’è segretario e Responsabile Anticorruzione. A Camugnano, provincia di Bologna, il segretario Giorgio Cigna era stato condannato tre anni fa a rimborsare 31.565 euro, perché si era fatto indebitamente rimborsare le spese di viaggio dalla propria abitazione. La sua reputazione tuttavia non ne ha risentito tanto che oggi, Cigna, è Responsabile Anticorruzione per ben quattro Comuni: Santa Sofia, Premilcuore, Galeata e Civitella. Tutti in provincia di Forlì.

Falso, abuso d’ufficio, bancarotta. Domenico Scuglia, sta al Comune di Locri, provincia di Reggio Calabria; oggi è sotto processo per bancarotta fraudolenta. Per Giuseppina Ferrucci, che ricopre l’incarico nei comuni di Squillace, Davoli e Nocera Terinese, la Procura di Lamezia Terme ha chiesto il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio. Giampiero Bella, Responsabile a Modica, (Ragusa) è a processo per falsità ideologica, abuso d’ufficio continuato e aggravato.

Già condannato per falso Luigi Salvato, che a Vico Equense, provincia di Napoli, tenta di difendere dalla corruzione l’ente per cui è segretario. Il suo avvocato, che oggi lo assiste per un altro processo in cui sarebbe coinvolto, ci ha garantito che in appello, quella condanna andrà in fumo grazie alla prescrizione. Questa storia a Vico Equense non l’hanno digerita, e un anno fa, è partita la segnalazione direttamente a Cantone, ma al momento tutto tace.

La «raccomandazione» non basta. Naturalmente ci auguriamo che i dirigenti con procedimenti in corso, alla fine vengano tutti assolti, ma qui il punto è un altro: su chi deve sorvegliare fenomeni corruttivi non possono gravare ombre, motivo per cui Cantone ha inviato la raccomandazione. Punto. Speriamo invece che l’elenco degli amministratori costretti a vedersela con la giustizia si fermi qui, anche se sappiamo che meno della metà degli enti pubblici ha mai verificato situazioni di potenziale inconferibilità di incarichi ai dirigenti pubblici o di eventuale incompatibilità per particolari posizioni dirigenziali. Sarebbe d’aiuto sapere in quanti i casi, questi segretari-responsabili si siano opposti anche ad una sola illegalità. Al momento, non abbiamo trovato dati, anzi abbiamo faticato persino a trovare i Responsabili, poiché neanche a farlo apposta, l’albo che dovrebbe garantire la trasparenza massima sui titolari di questa posizione, disponibile online sulla stessa piattaforma dell’Anac, è in stato di aggiornamento da un pezzo. (Ha collaborato Adele Grossi).

Quei mille controllori inutili che non vedono mai tangenti. Dopo lo scandalo del Mose tutti invocano una maggiore vigilanza, ma tra authority e organismi anti corruzione sono già almeno sette, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 06/06/2014, su "Il Giornale". Più controli! Più controlli! E anche più controllori! Meglio ancora se supercontrollori con superpoteri speciali di controllo, come Raffaele «Superman» Cantone, il nuovo supercommissario (voluto da Renzi) che vedrà le mazzette coi raggi X. Puntuale come un cronometro, dopo i bubboni Expo e Mose, ecco l'imperativo del «ci vogliono più controlli», in accoppiata con gli altri: «serve una legge contro la corruzione» o «diamo più poteri ai controllori». Di controllori anticorruzione, in realtà, con pieni poteri, ce n'è già un esercito, e se la trasparenza negli appalti dipendesse da loro non girerebbe mezza tangente in Italia. Mai sentito parlare dell'Avcp? È l'«Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture». L'Autorithy «vigila sui contratti pubblici, anche regionali, per garantire correttezza e trasparenza», ma vigila anche «sull'osservanza della legislazione per verificare la regolarità degli affidamenti e l'economicità di esecuzione dei contratti» pubblici, e quindi al minimo avviso di ruberia «segnala al Governo e al Parlamento gravi inosservanze della normativa o la sua distorta applicazione». Insomma una task force contro gli appalti truccati, un consiglio di sette esperti (nominati da Camera e Senato) «scelti tra personalità con riconosciuta professionalità che operano in settori tecnici, economici e giuridici». Ad ognuno di questi controllori antimazzette vanno 196mila euro l'anno di compenso, e a loro si aggiunge una lunga sfilza di segretari generali e direttori e dirigenti generali da 180mila euro lordi l'anno, più una serie di impiegati, più quella dei consulenti. Bastano? Neanche per sogno, c'è da fare una bella pulizia e quindi servono controllori, sennò poi truccano gli appalti. Ecco quindi anche l'Anac, l'«Autorità Nazionale AntiCorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche», già Civit (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche), che poi è quella dove si è appena insediato il magistrato Raffaele Cantone, nominato a marzo dal presidente del Consiglio. Anche l'Anac si occupa di corruzione, trasparenza e legalità, e il presidente è coadiuvato da un gran numero di professionisti. Come la «Responsabile della prevenzione della corruzione», o la «Responsabile della trasparenza», due dei dirigenti dell'Autorità, i cui vertici sono composta da cinque consiglieri tra cui il presidente (180mila euro di stipendio) e poi 24 persone tra dirigenti e altri incarichi, più ovviamente i consulenti esterni che non mancano mai. Due autorità pubbliche, piene di esperti e collaboratori, per stroncare la corruzione. Basteranno? Macché. Il ministro montiano della Funzione Pubblica, Patroni Griffi fu molto soddisfatto nel 2012 quando annunciò la creazione di una Commissione Anticorruzione presso il ministero della Funzione pubblica: «La lotta alla corruzione è una priorità per il governo - disse - accolgo con soddisfazione il lavoro della Commissione che ho istituito con il compito di formulare proposte per prevenire il fenomeno». La dizione esatta della nuova task force è «Commissione per lo studio e l'elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione», e in effetti ha prodotto una lunga «Relazione» piena di spunti e di riflessioni. Basta lì con gli anticorruttori, in forze sufficienti per contrastarla? No, anche le Regioni hanno i loro organismi regionali anticorruzione, efficacissimi se si pensa ad Expo e Mose. In Regione Lombardia ad esempio si può chiedere un appuntamento al «Responsabile della Prevenzione della corruzione e Trasparenza», un dirigente regionale che ovviamente vigila, controlla, previene. E pure in Regione Veneto c'è la «Sezione controllo di gestione, anticorruzione e trasparenza», coi suoi bei dirigenti. Ma lì c'è anche il «Magistrato delle acque», un organismo ministeriale che vigila sulle regolarità delle opere nella laguna di Venezia, tipo Mose appunto. Poi c'è anche l'Antimafia che controlla le possibili infiltrazioni criminali negli appalti, e c'è ovviamente la Corte dei conti che vigilia sulle opere pubbliche. I controllori non mancano, eppure le mazzette fioccano. Urge un'Autorità di controllo sui controllori?

"È la burocrazia la madre di tutte le mazzette". L'esperta dell'Istituto Bruno Leoni, Sileoni: "Ogni pratica passa da troppe mani, l'occasione fa l'uomo ladro", scrive Paolo Bracalini, Venerdì 06/06/2014, su "Il Giornale". Spiega Carlo Nordio, il pm titolare dell'inchiesta sul giro d'affari attorno al Mose: «La nomina di un commissario straordinario conta molto poco. La madre della corruzione, 20 anni fa come oggi, è la complessità delle leggi. Se devi bussare a cento porte invocando cento leggi diverse per ottenere un provvedimento, è quasi inevitabile che qualcuna resti chiusa e qualcuno ti venga a dire che devi imparare a oliarla». Semplificare, togliere invece che aggiungere (controllori, poteri, pene, leggi). «Come si dice, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Se una stessa pratica deve passare per dieci mani, anziché da una, le occasioni si decuplicano. E in Italia, tra pareri, autorizzazioni, valutazioni, analisi, di occasioni certo non ne mancano» dice Serena Sileoni, vicedirettore dell'Istituto Bruno Leoni.

Troppi imprenditori e affaristi dalla mazzetta facile?

«Quando si parla di corruzione normalmente si punta il dito contro il corruttore, dimenticando che se quell'ipotesi si è avverata è perché un pubblico ufficiale si è lasciato corrompere. Questo vuol dire che laddove c'è corruzione c'è la mano pubblica, e tanto più la mano pubblica ha potere e discrezionalità di agire, come nel caso del rilascio di pareri o autorizzazioni, tanto più si creano le occasioni possibili di corruzione».

Cosa non funziona nel sistema degli appalti? 

«Quello che non funziona in tutto il nostro sistema giuridico: conflitti tra norme, modifiche continue, più deroghe che regole, che si prestano a generare applicazioni non ortodosse ma comunque sostenibili, data l'ambiguità del contesto e del testo. Il ginepraio delle regole complica la vigilanza e il controllo, sia quelli specifici delle autorità predisposte che quelli, generali, dell'opinione pubblica».

Non serve un nuovo supercommissario Anticorruzione con più poteri?

«C'è già dal 2012 un'Autorità nazionale. C'è il Dipartimento della funzione pubblica che predispone il piano nazionale anticorruzione e ha funzioni di vigilanza. Ci sono i codici etici per la pubblica amministrazione. Ci sono le prefetture per i controlli antimafia. Spesso, per opere o eventi straordinari, come nel caso dell'Expo di Milano, ci sono appositi commissari delegati dal governo. E poi, ovviamente, c'è la magistratura. Non mi pare che i controllori siano pochi. Ed è bene che ognuno faccia il suo mestiere. Leggi e sanzioni non mancano. C'è una magistratura che ha il potere di applicarle.

Si dice: ci vogliono pene più severe per chi ruba, solo allora ruberanno meno.

«Le leggi e le sanzioni ci sono. Aumentare le pene a cosa serve, se continuano ad esserci ambiguità delle norme e difficoltà di arrivare alla fine dei procedimenti giudiziari? Se non è chiaro quale comportamento rientra nell'attività di pressione sull'autorità pubblica e quale configura invece un illecito - e in Italia, dove la politica non vuole una legge sulla regolazione del lobbying non è chiaro - attori pubblici e privati continueranno a usufruire di un contesto fumoso dove sono incerte le conseguenze di un determinato comportamento. Se si aggiunge che i processi sono talmente lenti da essere insicuri nello stesso esito, non c'è pungolo esterno che spinga a comportarsi onestamente».

Vi spiego il manuale del perfetto burocrate. Come non prendere una decisione, come rimandarla o come non fare entrare in vigore una legge? Il manuale del perfetto burocrate spiegato dal professore di diritto costituzionale a Roma 3 Alfonso Celotto durante una delle ultime puntate di Virus.

Un viaggio irriverente (e anche amaro) nei labirinti della burocrazia italiana. 

“NON CI CREDO, MA È VERO”: LA VITA SECONDO LA BUROCRAZIA, scrive Alfonso Celotto il 2 maggio 2016 su "Stati Generali". La burocrazia diventa parte della nostra vita dal momento in cui nasciamo e per ogni singolo passo che il bambino e poi l’uomo compie nel Paese in cui vive. Il dottor Ciro Amendola percorre un viaggio nei meandri di quel mostro invisibile che è la burocrazia in Italia, raccontando nel suo nuovo libro Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia episodi tanto veri quanto folli, e a volte un po’ ridicoli, che ognuno di noi si trova a vivere quotidianamente nell’iter dell’esistenza. La burocrazia è una grande macchina, una grande scatola, ci accompagna dalla nascita alla morte, in ogni attimo della nostra vita, con una serie di certificazioni, copie conformi, firme autenticate, sempre ai sensi e per gli effetti della normativa vigente. Bastano pochi secondi dopo il parto per entrare nella giungla della burocrazia. La nascita comporta subito almeno 3 adempimenti fondamentali, a carico dei genitori, che dovranno armarsi di santa pazienza e di un adeguato numero di ore di permesso dal lavoro. Occorre ottenere:

·      Il certificato di nascita

·      Il codice fiscale

·      La tessera sanitaria (a cui si collegano il libretto sanitario e la scelta del pediatra).

Per semplificare la vita ai neo genitori, ovviamente vanno richiesti in tre uffici diversi. Il certificato di nascita viene rilasciato dall’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è nato il bambino entro 10 giorni dalla nascita e si basa sulla “attestazione di nascita” rilasciata dalla ostetrica presente al parto. È il momento fondamentale per l’attribuzione del nome. Ai sensi della legislazione vigente, secondo le ultime modifiche del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ogni neonato può avere fino a tre nomi, tutti riportati per esteso e senza virgola (quando firmerà dei documenti ufficiali dovrà quindi sempre mettere tutti i nomi). È vietato per legge dare al bambino lo stesso nome del padre, dei fratelli e delle sorelle o nomi volgari, ridicoli o impronunciabili. A questo punto, si è nati, si ha un nome, ma non si è ancora veramente esistenti per il diritto. Manca il codice fiscale. Che ovviamente non è di competenza del Comune, ma dell’Agenzia delle Entrate. Altra amministrazione, altre regole, altri moduli. La Agenzia delle Entrate rilascia un certificato provvisorio valido per 30 giorni, in attesa del tesserino plastificato che arriva a casa. A quel punto, il genitore si recherà, con il codice fiscale del bambino e un’autocertificazione dello stato di famiglia, presso gli uffici dell’ASL di zona per la scelta del pediatra di base. Gli verrà rilasciato il tesserino sanitario da esibire a ogni prestazione medica richiesta per il bambino, come per esempio le vaccinazioni. E potrà finalmente scegliere il pediatra. La via crucis burocratica è iniziata. Ora il cittadino esiste in vita, con nome, codice fiscale, tessera sanitaria e pediatra! La via crucis della vita burocratica è solo iniziata. Per accompagnarci – fra commi, formulari, procure e deleghe – fino alla pensione, quando ci verrà sottoposto il più paradossale dei moduli: la autocertificazione di esistenza in vita. Nulla di male che l’INPS voglia accertarsi con un modulo che la pensione sta per essere pagata a un tizio ancora in vita. Peccato che la autocertificazione venga richiesta a pena delle sanzioni correlate alle dichiarazioni mendaci! Ma se ho attestato il falso, in quanto già morto, come faccio ad essere sanzionato per aver dichiarato il falso?

Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia, di Ciro Amendola edito da Historica, 2016. Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia: Quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato? E plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire la "giornata del dono"? Se viene trovato un geco in un ufficio pubblico intervengono gli ispettori sanitari per sopprimerlo? E possibile che la Guardia forestale abbia fatto causa alla Guardia di finanza sul colore delle divise? Perché ogni anno la Legge finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi? Cosa accadde veramente quando la capitale fu trasferita da Firenze a Roma?

Carte nascoste e riunioni fiume. La resistenza passiva dei burocrati. Esce un manuale di sopravvivenza: “Regola numero uno: chi non fa non sbaglia”. “Non è vero, ma ci credo. Storie di ordinaria burocrazia” (Historica) è il libro che Alfonso Celotto, docente universitario di diritto costituzionale e a lungo negli staff di diversi ministeri, ha scritto firmandolo con il suo alter ego letterario, il dott. Ciro Amendola direttore della Gazzetta Ufficiale, protagonista dei suoi primi precedenti romanzi, scrive il 27/04/2016 Giuseppe Salvaggiulo su "La Stampa". Nella stanza della dott.ssa Martone, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, «in ripetute occasioni è stata riferita la presenza di una Tarentola mauritanica». Il rag. Esposito, accompagnato da due tecnici dell’Ufficio sorveglianza sanitaria, è assertivo: «Occorre un prelievo delle feci dell’animale, per effettuare una compiuta analisi di laboratorio, sulla cui base valutare se e come procedere». Ma per la dott.ssa «non se ne parla. Quel geco mi porta fortuna. Andate via». Impossibile, obietta il rag., a meno che «lei non mi firmi il modello H32-bis, assumendosi la responsabilità per l’impropria presenza in ufficio dell’animale vivo». Basta un’autocertificazione per trasformare la temibile Tarentola mauritanica in un innocuo geco. Comincia così una delle «Storie di ordinaria burocrazia» del libro «Non ci credo, ma è vero» dal dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, sopraffino cultore dell’amministrazione e pseudonimo di Alfonso Celotto, costituzionalista e a lungo grand commis nei ministeri. Ogni racconto è uno spaccato della vita in un ufficio pubblico: leggi e decreti, provvedimenti e circolari, furbizie e vanità, sotterfugi e arabeschi ma anche insospettabile umanità. Nel primo capitolo l’autore ha scientificamente enucleato «le cattive abitudini del pubblico impiegato». Ne viene fuori un manuale di sopravvivenza «in una vita improntata non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio», il cui obiettivo è «eludere vagoni di pratiche in modo da offrire il proprio contributo operoso, ma senza prendersi alcuna responsabilità». 

COME COMPORTARSI. Prima regola: tenere le carte a posto e far prevalere la forma sulla sostanza, nel senso di «chiedere sempre un parere in più e non uno in meno, seguire pedissequamente le procedure» e infischiarsene del vero interesse pubblico. Si dilatano i tempi? Meglio, l’importante è che l’istruttoria sia accuratissima e irreprensibile. «Di troppo zelo non è mai morto nessuno. Di superficialità molti». Seconda: attenersi rigorosamente al mansionario, «per fare il meno possibile». Il mansionario è «un rebus scritto in burocratese stretto», enigmatico come il responso della Sibilla cumana. Terza: copiare, perché chi copia non sbaglia mai e non si assume responsabilità (c’è sempre un precedente che aiuta e si può allegare). Quarta: nel dubbio, non fare perché «chi non fa non sbaglia» e non si assume responsabilità. Quinta: se proprio non si può evitare di affrontare una questione, convocare una riunione: consente di guadagnare tempo (convocazioni, conferme, rinvii). Indispensabile che i convocati siano almeno dieci, altrimenti la riunione potrebbe rivelarsi decisiva. Sesta: mettere da parte, sul ripiano più nascosto della stanza, le pratiche più difficili. Sono quelle legate a emergenze di attualità, sotto la luce dell’opinione pubblica. Apparentemente vanno risolte con priorità, in realtà «si fanno da sole». Troppe variabili, troppe complicazioni: meglio lasciarle lì. Dopo un paio di settimane l’attenzione scemerà e nessun superiore chiederà conto della mancata soluzione. Settima: non archiviare ordinatamente le carte più importanti, in modo che non siano rintracciabili da chiunque. Il funzionario perspicace aumenterà così il suo potere, rendendosi indispensabile. Ottava: «non regalare mai un minuto», anzi capitalizzare gli straordinari e i permessi. Il conto è semplice: «ai 365 giorni del calendario vanno sottratti 52 sabati, 52 domeniche, 30 giorni di ferie e un’ulteriore quindicina tra malattie, cure specialistiche, riposi compensativi, permessi sindacali, donazioni sangue, scioperi, permessi-studio, permessi familiari». Nona: non derogare ai ritmi della giornata-tipo: 8-11-13-15-16-16,12. Alle 8 lettura giornali e passaggio sui social network, caffè alle 11, pranzo alle 13, caffè alle 15, alle 16 chiusura dei fascicoli anche se incompiuti, in modo da presentarsi puntuali al tornello alle 16 e 12 minuti. «Ogni volta che il dott. Amendola rileggeva queste regole, si imbestialiva. Non si capacitava di atteggiamenti così miseri e gretti». 

POST SCRIPTUM. Per un attimo la dott.ssa Martone ebbe voglia di mandare tutto e tutti a quel paese. Non valeva la pena spendere 15 ore al giorno contro quel muro di gomma. Poi... poi prese nel cassetto il modello H32-bis, che le era stato debitamente consegnato, e iniziò a compilarlo. In duplice copia e con firma debitamente autenticata». 

“Non ci credo, ma è vero”, il libro di Celotto che racconta i paradossi della burocrazia, scrive Biancamaria Stanco il 3 Maggio 2016 su Cultora. Non ci credo, ma è vero – Storie di ordinaria burocrazia è il nuovo romanzo del giurista Alfonso Celotto firmato dal suo alter ego, il dott. Ciro Amendola. Dopo due romanzi che narrano le gesta e le vicissitudini del dott. Amendola negli uffici della Pubblica Amministrazione, ora è proprio il celebre direttore “a scendere in campo. È questa la grande novità” ha dichiarato Celotto. Il libro è infatti l’esordio narrativo di Ciro Amendola. Ma chi è davvero? È il direttore della Gazzetta Ufficiale Italiana, è un funzionario meticoloso, scrupoloso, maniaco dell’ordine e della precisione ossessionato dalla timbratura del cartellino. Un uomo abitudinario, perfezionista e amante del suo lavoro. E ha due anime: una svizzera, che si esplicita nella rigorosa puntualità e precisione professionale del dott. Amendola, e una più verace, un cuore partenopeo quello di Ciro amante della cucina, del buon vino e tifoso sfegatato del Napoli. Dietro il personaggio di Amendola vibra la personalità e l’esperienza di Alfonso Celotto, costituzionalista, avvocato e professore di Diritto Costituzionale a Roma Tre, ex Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo dei ministri Bonino, Calderoli, Tremonti, Barca, Trigilia e Guidi. Un esperto conoscitore quindi delle leggi e della burocrazia che, indubbiamente, ha contribuito alla costruzione della figura del direttore. “Come disse Umberto Eco ‘in ogni romanzo c’è il 50% di un autore’ e in Amendola c’è un’amplificazione del personaggio che rispecchia quanto visto nella mia carriera” ha precisato Celotto. “Si scrive sempre su ciò che si conosce” ha aggiunto. “Come recita l’articolo 54 della Costituzione, Amendola è al servizio della Nazione” afferma il giurista. È un burocrate scrupoloso e molto attento che combatte con le continue violazioni della legge, la cattiva gestione della cosa pubblica e la lentezza della Pubblica Amministrazione. Nel primo capitolo decide di enucleare un decalogo delle «cattive abitudini del pubblico impiegato», un manuale di sopravvivenza improntato «non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio». 1. Tieni le carte a posto.  2. Applica con rigore il mansionario.  3. Chi copia non sbaglia. 4. Organizza riunioni con almeno 10 partecipanti.  5. Le pratiche più complesse non vanno lavorate.  6. Le carte importanti non si portano ordinatamente in archivio.  7. Non regalare mai un minuto.  8. Otto, undici, tredici, quindici.  9. Vai in ferie a giugno o a settembre.  10. Per mostrarti aggiornato usa spesso parole inglesi. Sette sono i racconti raccolti nel libro. “Sono tutte storie vere raccontate in maniera romanzata. Tutte cose verosimili” ha spiegato Celotto. Il manoscritto non va considerato un libro-denuncia del malfunzionamento del sistema burocratico italiano, per quanto rimane comunque uno specchio fedele della pessima gestione della cosa pubblica. “Non è vero, ma ci credo” – come ha affermato l’autore – è la raccolta di “racconti-verità scritti per far conoscere al lettore il settore della Pubblica Amministrazione. Una lettura leggera e semplificata. Un modo divertente per raccontare la Pubblica Amministrazione”. Celotto specifica che “il libro non vuole essere una denuncia, basta essere una macchina del fango. È un modo leggero per parlare di temi veri”. La scrittura è un’occasione per far conoscere al lettore la vita difficile di un Direttore fatta di decreti, leggi, circolari, provvedimenti, riti ministeriali e burocratici. Il direttore Amendola è convinto della necessità di riformare il sistema dell’Amministrazione Pubblica e si impegna in prima persona. È altresì convinto della difficoltà, ma da nuovo Ercole intraprende la sfida e affronta l’ennesima fatica. “Non basta una legge per cambiare il sistema, la Pubblica Amministrazione è una macchina ampia e complessa” – asserisce Celotto – “bisogna cambiare la mentalità. Si tratta di attuare un’operazione culturale”. Le parole d’ordine sono – a detta del giurista – “trasparenza” e “semplificazione”. “Serve il coraggio per rendere la macchina più veloce e funzionale” conclude Celotto. Il dott. Amendola non poteva non divenire punto di riferimento e modello di integrità morale per quanti lavorano onestamente e spingono per cambiare le cose. Forse dopo Elena Ferrante assisteremo a un nuovo caso editoriale. La differenza è che “Ciro Amendola esiste davvero, ma non potrà uscire allo scoperto. Non potrà concedersi perché deve lavorare”.

La burocrazia tra Kafka e Totò: a ruba "Non ci credo, ma è vero", scrive Affari italiani, Lunedì 4 luglio 2016. "Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia" il libricino introvabile di Alfonso Celotto è diventato un caso letterario. E' un libricino introvabile di poco più di cento pagine sui banconi di pochissime librerie, essendo pubblicato da un editore pressoché sconosciuto e privo di una rete commerciale, Historica. Ma la sua notorietà si diffonde col passaparola e il libricino va a ruba. S'intitola Non ci credo, ma è vero, storie di ordinaria burocrazia. E l'autore Ciro Amendola, non esiste. O meglio è lo pseudonimo di un tipo umano, il dott. Ciro Amendola, uno dei massimi esperti di diritto e burocrazia. Napoletano di nascita(1944), vive a Roma per necessità. Da anni fedele e scrupoloso servitore dello Stato, dal 2001 dirige la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Vive secondo immutabili ritmi svizzero-napoletani per conciliare l'impiego ministeriale con la missione esistenziale di completare la grande banca dati delle leggi d'Italia. Appassionato di cucina, vini, smorfia, scaramanzia, gioco del lotto, segue con attenzione le vicende calcistiche del Napoli. Per il suo esordio da scrittore ha scelto di descrivere i riti della vita ministeriale e della burocrazia che circondano la nostra vita di cittadini, secondo abitudini e prassi ottocentesche. L'idea è dell'autore vero, Alfonso Celotto, professore universitario di Diritto, già gran commis dello Stato (è stato capo di gabinetto di diversi ministeri, tra cui quello dello della Semplificazione, ai tempi del leghista Calderoli e del suo misterioso falò delle leggi inutili), geniale osservatore della vita dei burocrati e penna acuta ed ironica (ha al suo attivo anche per Mondadori Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale e per Il mio libro Il Pomodoro va rispettato), a metà tra Kafka, Totò ed Edoardo De Filippo. L'opera è un piccolo gioiellino, veloce e dilettevole a leggersi. Racconta, ad esempio, quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato. Si domanda se sia plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire le "giornate del dono". Rivela il fatto che la Guardia Forestale ha fatto causa alla Guardia di Finanza sul colore delle divise. Spiega perché ogni anno la legge Finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi. E molto altro ancora. Leggi, decreti, provvedimenti e circolari. Vini, sfogliate, ministeri e ministeriali. Il dott. Ciro Amendola si confronta non solo con il mondo del diritto e della pubblica amministrazione, ma anche con cucina, scaramanzia, napoletanità. "Poiché diritto e cucina si assomigliano", spiega Celotto alias Amendola nella videointervista ad Affaritaliani.it. "Non sono scienze, sono entrambi opinabili". E noi opiniamo.

Solo i burocrati sconfiggeranno la burocrazia? Scrive Alfonso Berardinelli venerdì 13 luglio 2018 su Avvenire. «Le cuoche spariscono, le impiegate aumentano». In Emilia, in un bar tra Modena e Reggio, ho sentito una giovane donna, probabilmente una cuoca, pronunciare questa frase. Mi ha colpito e la ricordo perché mi è sembrata la felice definizione sintetica di un processo di burocratizzazione della società e del lavoro che dura da due secoli e che non ha finito di espandersi in modo sempre più capillare. I mestieri tradizionali e concreti spariscono, mentre le attività e le pratiche burocratiche crescono, si specializzano e si complicano penetrando in ogni dimensione della comunicazione e della vita. Lo Stato formula procedure “corrette” per ogni genere di iniziativa, di ricerca culturale, di produzione e di servizio. Più di un secolo fa Marx definì lo Stato un «boa constrictor», un mostruoso serpente che avvolge e soffoca, lega, vincola, regola ma anche costringe e impedisce ogni libera attività. Pretendendo di tutelare legalmente la sicurezza, la prevedibilità, la normatività di tutto ciò che in una società può avvenire, la burocrazia (oggi tecnoburocrazia) mostra di temere ogni spontanea iniziativa umana sempre sospettabile, per principio, di criminose irregolarità. La teoria di Thomas Hobbes che quattro secoli fa partì dal principio dell'homo homini lupus è la teoria che in pratica ha vinto. La libera socialità è ritenuta in se stessa immorale e degenerativa. È lo Stato ad assumersi il compito di costringerla al bene. Secondo questa idea, gli esseri umani sarebbero incapaci, l'uno di fronte all'altro, di produrre comportamenti morali. È solo lo Stato che può imporli. Non voglio dire che lo Stato burocratico che avvolge la società sia uno Stato totalitario. Voglio dire che legalità non sempre coincide con moralità e che non ci si può aspettare che i comportamenti morali vengano trasmessi dall'alto. Nel suo 1984 Orwell descrisse un futuro in cui aspetti dello stalinismo e del nazismo si sarebbero mescolati tenendo il mondo in un perpetuo stato di guerra e in cui la vita privata di ognuno sarebbe stata spiata. Oggi è la democrazia tecnoburocratica a controllare tutto e tutti, ma con il nostro tacito consenso. Nei social network ognuno rinuncia alla propria privacy e l'apparato informatico sa e ricorda di noi più di quanto noi sappiamo e ricordiamo di noi stessi. La burocrazia modifica professioni e mestieri. Non solo vengono fatte sparire le cuoche nelle mense scolastiche per delegare tutto a catene di produzione-distribuzione di prodotti alimentari in serie, ma perfino i fisici nucleari, se vogliono ottenere finanziamenti europei per le loro ricerche, devono formulare i loro progetti in un gergo burocratico difficile come una “neolingua” inaccessibile ai profani. Per difenderci dalla burocrazia, dovremo tutti diventare burocrati? 

Se la casa comprata all’asta diventa un incubo, scrive il 07/10/2018 Il Giornale. La vicenda risale ad alcuni mesi fa e nessuno, a parte un quotidiano milanese in cronaca, ne ha fatto cenno. Ve la raccontiamo anche e soprattutto perché giunta a questo punto – che sembra un punto di non ritorno-, la protagonista della vicenda non sa più a che santo votarsi. Sembra un racconto di Carlo Castellaneta, o la cronaca irreale di un film a episodi sulle assurdità delle storture della burocrazia italiana, o la versione della realtà che supera la fantasia del cinema: sembra incredibile che in un Paese, culla dello Stato di Diritto, di Beccaria, della Giurisprudenza, le più elementari norme civili non siano rispettate e che le vittime di soprusi e aggressioni si trovino gabbate. Sei mesi fa Paola (il nome è di fantasia; Paola è la sorella di una nostra giornalista e collaboratrice di OFF) compra all’asta una casa in via Coronelli a Milano, ma ben presto scopre un’amara verità: casa comprata = casa occupata. Occupata da un egiziano, per la precisione (non ne conosciamo il nome) con i suoi quattro figli piccoli e presumibilmente con la moglie. E fin qui nulla di nuovo, in Italia alcuni cittadini si fanno da soli gli allacciamenti per l’elettricità, occupano le case e non se ne vanno nonostante le intimazioni di sfratto: tutto regolare. Ma l’egiziano in questione è lo stesso che tempo addietro è stato accusato di aggressione, senza aver mai versato una lira alla sua vittima (cifra stabilita in tribunale) per il risarcimento: mancato versamento che ha fatto poi scattare l’ipoteca sulla casa, messa appunto all’asta e acquistata da Paola, la quale sta pagando il mutuo di una abitazione in cui non può entrare. Per impedire l’ingresso della nuova proprietaria, il “barricadero” praticamente si rifiuta di uscire, usando come “scudi umani” i suoi quattro figli piccoli; un giorno, poi, mentre Paola e il suo fidanzato si trovano all’ingresso dell’abitazione per cercare di addivenire a una soluzione, il succitato “barricadero” parte all’attacco e fra urla e spintoni brandisce una spranga minacciando di ucciderli. Denuncia e stato di fermo per l’aggressore ma nulla cambia: la situazione è bloccata, la presenza dei quattro bimbi piccoli sembra essere il deterrente per qualsiasi tentativo di far sloggiare l’occupante abusivo, che in più stalkerizza la povera Paola. Qui non c’è la legittima difesa, ma il legittimo ingresso in una casa che, per le norme scritte da azzeccagarbugli, continua a essere occupata da chi, per legge, dovrebbe esserne fuori. In Italia succede questo, di paradossale: il rispetto delle norme permette diabolicamente che una norma non venga rispettata! 

I 65 passaggi in 26 sportelli per avviare un’impresa in Italia. Certificati e permessi: 39 volte in fila e 18 mila euro di costi. Il dossier Cna: «Le prime vittime? Gli aspiranti imprenditori. Così si blocca chi ha idee e vuole crescere», scrive Isidoro Trovato il 6 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Sessantacinque adempimenti. Ventisei enti coinvolti. Trentanove file (reali o virtuali) da fare. Quasi 18 mila euro di spesa. E tutto solo per aprire un salone di acconciatura. A svelarlo è «Comune che vai, burocrazia che trovi», l’Osservatorio Cna che misura il peso della burocrazia sull’avvio di impresa, alla prima edizione (ma destinato a essere riproposto annualmente). Un’indagine condotta sul campo, in collaborazione con 52 Cna territoriali, in rappresentanza di altrettanti Comuni di cui 50 capoluoghi di provincia.

Le tipologie. «In Italia — ricorda Sergio Silvestrini, segretario generale di Cna —, invece di essere un elemento facilitatore, la burocrazia è un ostacolo potente sulla strada delle imprese che blocca chi ha idee, chi vuole intraprendere, chi vuole crescere e far crescere il Paese. E le prime vittime sono le più indifese: gli aspiranti imprenditori. È una guerra che dobbiamo vincere. Una guerra di liberazione dalla burocrazia che va combattuta ufficio per ufficio, Comune per Comune. Il governo avrebbe le armi per uscirne vittorioso, sapendo che la vittoria vale almeno dieci leggi di Bilancio. Questo è cambiamento. Il cambiamento che trasforma i connotati al Paese». Lo studio prende a esempio cinque tipologie d’impresa: acconciatura, bar, autoriparazione, gelateria, falegnameria. Per ognuna è calcolato in dettaglio il numero di adempimenti, degli enti coinvolti e delle operazioni necessarie all’apertura, oltre al costo totale dell’autorizzazione. Proviamo a testare una delle «avventure imprenditoriali» per capirne la complessità e i costi. A qualcuno ricorderanno le fatiche di Asterix e Obelix alle prese con la cervellotica burocrazia dell’antica Roma per ottenere «il lasciapassare 38A».

Aprire un salone. Per poter aprire un salone di acconciatura è necessario assolvere 65 adempimenti, avere a che fare con 26 enti (con i quali, però, bisogna interfacciarsi per 39 volte complessivamente perché ce ne sono alcuni ai quali ci si deve rivolgere più volte) e spendere quasi 18 mila euro. L’ingarbugliato e faticoso iter si apre con una scia pericolosa come quella chimica: serve infatti la presentazione di una «Scia» (Segnalazione certificata di inizio attività) al Comune dove sarà ubicata fisicamente l’attività. In precedenza, l’aspirante imprenditore deve aver superato un esame teorico-pratico dopo aver svolto tre anni di corso da 1.800 ore di formazione (e 5 mila euro di spesa) e uno stage dalla durata variabile a seconda delle regioni: si va dalle 500 ore richieste nel Lazio alle 1.200 in Lombardia e Sicilia. Per presentare la Scia sono necessari una serie di atti, alcuni obbligatori, altri facoltativi a discrezione dei Comuni. Gli obbligatori possono costare circa 660 euro, i facoltativi (richiesti da un Comune su tre) anche qualche migliaio di euro. A Catania e a Ragusa, a esempio, si chiede anche il certificato di agibilità dei locali, che si ottiene in 60 giorni e costa 1.500 euro. La Scia da consegnare al Suap (Sportello unico per le attività produttive) è gratuita in 18 dei Comuni che hanno partecipato all’indagine, costa meno di 50 euro in 16 Comuni, tra 50 e 100 in altri 10 e addirittura in quattro Comuni (Caserta, Como, Padova e Ragusa) richiede un versamento di oltre 100 euro.

I tempi. I problemi non sono solo monetari. Anche i tempi di esame delle pratiche incidono non poco: «il tempo è denaro» non è solo un proverbio. Tempi che si allungano se si mette di mezzo la famigerata «prassi consolidata». Senza dimenticare che i Suap, in ben 18 Comuni, non sono l’unico interlocutore con il quale bisogna interagire. Nemmeno dopo aver superato tutti questi scogli, però, l’attività può essere finalmente avviata. Se, infatti, l’aspirante imprenditore prevede un consumo di acqua superiore al metro cubo al giorno deve chiedere anche l’Aua (Autorizzazione unica ambientale) che può costare 300 euro, cui vanno aggiunti i costi di consulenza, che possono arrivare fino a mille euro. Infine, sebbene le imprese del settore acconciatura godano di una semplificazione nella documentazione per la gestione dei rifiuti, devono compilare un formulario e iscriversi al Conai.

Ristrutturare un locale. L’avvio di un’attività presume la realizzazione di lavori edilizi per adattare i locali scelti alle esigenze dell’aspirante imprenditore. Talvolta i lavori sono obbligati: è il caso degli interventi per agevolare l’accesso ai disabili. Eppure, l’estrema complessità delle norme in materia edilizia rende spesso difficile perfino comprendere le procedure da seguire. Nel caso di semplici lavori di ristrutturazione interna (senza cambi di destinazione d’uso dei locali o superamento di vincoli particolari) è necessario presentare una Comunicazione inizio lavori asseverata (Cila). Non avendo ancora un interlocutore unico su tutto il territorio nazionale, la Cila va presentata, a seconda dei Comuni, allo Sportello unico per l’edilizia (Sue), che però in molti casi si riduce a una «targa» e impone il coinvolgimento di enti diversi. Oppure tocca rivolgersi alla Sportello unico attività produttive (Suap). I diritti Cila sono gratuiti solo a Livorno, in gran parte costano meno di 100 euro e in sette casi (Ascoli Piceno, Caserta, Catania, Modena, Parma, Pesaro e Roma) li superano, con il picco della Capitale, dove si arriva a 251 euro. Gli adempimenti connessi alla documentazione che va allegata alla Cila sono molteplici. Va assegnato a un professionista l’incarico per la redazione del progetto, la presentazione della Cila, l’attività di direttore dei lavori, la comunicazione di fine lavori e l’aggiornamento del Catasto. Una serie di obblighi burocratici che costano intorno ai 5.500 euro. Ma a questo punto anche Asterix e Obelix si sarebbero arresi.

Burocrazia in Italia, un "mostro" che richiede enormi sacrifici, scrive il 21 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano" Flaminio de Castelmur per @SpazioEconomia. La burocrazia italiana ha riempito biblioteche di analisi, articoli, studi e norme destinate a razionalizzarla. Con il risultato paradossale di aumentarne la massa e perniciosità. Ci faremo aiutare nella nostra analisi dagli scritti di Vitalba Azzollini che molto ha analizzato e scritto sulla materia. Cominciamo col ricordare che la legislazione italiana conta la bellezza di 110.000 norme, sedimentatesi in decenni di produzione normativa susseguente e, spesso, disarticolata. I risultati sono palesi e spesso denunciati da profeti nel deserto in articoli e analisi internazionali così come in sondaggi nazionali. Citiamo tra i primi l’Annual Growth Report 2016 pubblicato dalla Commissione per il controllo dei bilanci del Parlamento Europeo, sintetizzata nella tabella seguente. Che vede l’Italia tra le Nazioni europee con la maggior esigenza di riformare la burocrazia. Citiamo ancora l’International Civil Service Effectiveness (InCiSE) Index della scuola di amministrazione pubblica dell’Università di Oxford, che pubblica annualmente un indice che compara l’amministrazione pubblica statale di 31 Paesi, di cui 22 europei, utilizzando una serie di indicatori provenienti da varie fonti e sintetizzando i risultati in un indice di efficacia amministrativa. L’Italia risulta al 27esimo posto, precedendo solo Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria e Slovacchia. Si è provato a risolvere il problema? Innumerevoli volte. Ricorda Azzollini che “il legislatore nazionale ha recepito l’Action Programme for Reducing Administrative Burdens in the European Union (2007, poi confluito nel Regulatory fitness and performance programme del 2012), con il quale l’Unione Europea ha posto agli Stati l’obiettivo di diminuire entro il 2012 il 25 per cento dei costi connessi alla rispettiva regolazione, adottando lo standard cost model, che quantifica il “peso” degli oneri amministrativi. Con il “Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione” si è avviata la misurazione degli oneri amministrativi (Moa) che gravano sulle piccole e medie imprese. Si è poi imposto la Moa per legge (Dl n. 112/2008, cosiddetta “taglia-oneri”), estendendola successivamente alla regolazione di regioni, enti locali e autorità indipendenti, e ampliandola ai carichi sui cittadini. L’applicazione di tali regole ha sortito effetti “all’italiana” sulla burocrazia nazionale. Il nuovo decreto sull’Analisi e la Valutazione di impatto della regolazione (Air e Vir) è entrato in vigore alla fine del 2017, dopo che l’analisi di impatto della regolazione è stata introdotta in Italia già nel 1999 in via sperimentale, e poi nel 2005 in via definitiva con il governo Berlusconi, quando la cosiddetta taglia-leggi stabilì l’obbligo per il governo di accompagnare i suoi atti con l’analisi dei loro effetti presunti, come strumento di contenimento della legislazione. Ma l’iter procedurale stabilito dalla burocrazia ha assunto effetti paradossali. Così come già dichiarato nella prima relazione sullo stato di attuazione dell’Air del 2006 laddove venne ammessa la difficoltà di natura metodologica nello svolgimento dell’analisi, in quanto che l’Air “richiede tempi e competenze professionali non sempre disponibili all’interno delle amministrazioni e comporta, inevitabilmente, anche un aumento delle complessità, dei tempi d’attuazione (e dei costi) dell’intera procedura, con inevitabili ripercussioni anche sulla tempistica del processo decisionale”. In sostanza, per anticipare errori burocratici si è introdotta nuova burocrazia che rallenta l’opera dell’Amministrazione a causa di inefficienze burocratiche. Le soluzioni introdotte negli anni risultano inoltre viziate da una visione distorta della procedura burocratica e dei suoi scopi. Esempio lampante ne è quanto emerge da un’intervista del gennaio 2018 fatta al Sottosegretario alla Funzione Pubblica Rughetti, il quale reclama la paternità del Governo delle norme relative ai premi di produttività alla pubblica amministrazione identificandone il parametro con più ore di presenza in ufficio, senza alcun collegamento alla mole di attività prodotta. Dice correttamente Luigi Oliveri in un suo scritto che “forse, il problema è che molte volte non è nemmeno chiaro che parte rilevante delle attività della pubblica amministrazione più che da valutare in base alla produttività, sarebbero da misurare in termini di capacità reale di fronteggiare i fabbisogni connessi all’esercizio di diritti. Aumentare l’orario di lavoro di servizi di reperibilità, protezione civile, sicurezza, istruzione più che un incremento di produttività è semplicemente l’adempimento a doveri istituzionali”. Analisi ultima, ma non meno importante, deve riguardare la spesa originata dall’inefficienza burocratica. Spesa a carico della Pa e soprattutto dei cittadini che la subiscono sia da operatori che da “sudditi”. E’ stata pubblicato da quotidianosanità.it il risultato di un sondaggio commissionato dal Ministro per la Pa, Anci, Conferenza Presidenti delle Regioni e Upi, ove viene rappresentata la top ten delle complicazioni burocratiche. Tali dati evidenziano con chiarezza ove si annidano i maggiori costi dovuti a inefficienza amministrativa. Documenti ridondanti, difficili da ottenere da Amministrazioni Statali e richiesti da altre Amministrazioni Statali, difficoltà interpretative e altre carenze. Qualcuno si stupisce quindi se nelle classifiche di Doing Business l’Italia risulta al 46mo posto?

Burocrazia, "necessaria" e molto ingombrante, scrive il 4 aprile 2018 su "Il Fatto Quotidiano" Vitalba Azzollini. Di cosa parliamo quando parliamo di “burocrazia”? Il termine viene inteso in molte accezioni, tutte caratterizzate da una connotazione negativa, ed è per lo più usato come sinonimo di Pubblica amministrazione. Con la parola “burocrazia” – dal francese bureau (“ufficio”) connesso al greco krátos (“potere”) – si suole indicare quel complesso di regole che sanciscono adempimenti a carico dei privati, quando svolgano attività che richiedano un intervento di tipo amministrativo; ma anche quell’insieme di pubblici dipendenti della Pubblica amministrazione la cui opera è necessaria perché i privati stessi possano dare corso a tali attività. In termini più concreti, burocrazia è tutto ciò che costringe gli individui a code agli sportelli, alla spola tra uffici dalle competenze non sempre chiare, alla compilazione di moduli ripetitivi. La situazione non è migliore per le imprese, le quali sono tenute ad assolvere a una rilevante mole di obblighi (di tipo commerciale, igienico-sanitario, di sicurezza sul lavoro, ambientale ecc.) non solo per avviare una qualunque attività economica, ma per poterla portare avanti. Eppure, la burocrazia non solo incide sulle vite dei cittadini e delle imprese residenti, ma rende l’Italia poco attrattiva per gli investitori stranieri, determinando effetti negativi sulla competitività del sistema economico nazionale. Ciò è attestato dalle classifiche internazionali che misurano la capacità di fare impresa in una serie di Stati. Secondo quanto risulta dall’ultimo Rapporto doing business della Banca Mondiale, in Italia per un permesso per costruire occorrono circa 227 giorni (contro i 96 della Germania), mentre il tempo necessario per risolvere per via giudiziale una controversia è di 1.120 giorni (il doppio della media dei Paesi Ocse, pari a 553 giorni). L’Italia si trova così agli ultimi posti fra i Paesi dell’area Ue e dietro alcuni dei Paesi cosiddetti emergenti. Ciò risulta anche dall’ultimo Global competitiveness report del World economic forum da cui emerge che i fattori maggiormente penalizzanti per l’Italia sono l’inefficienza della pubblica amministrazione, il livello di pressione fiscale nonché la complessità del sistema fiscale. Quali sono le componenti che concorrono a nutrire la burocrazia, mostro dalle dimensioni elefantiache? Da un lato, quella legislativa, dall’altro quella umana. Quanto alla prima, le relazioni tra i cittadini e la p.a. sono regolate da un complesso di norme il più delle volte sovrabbondanti, complicate, affastellate e poco coerenti. Da esse scaturiscono procedure farraginose e adempimenti che hanno un costo rilevante: non si tratta delle tasse da pagare o dei bolli da apporre a determinati documenti, ma della spesa necessaria per porre in essere adempimenti che consentono di ottemperare ad altri obblighi. Basta dare un valore monetario al tempo che serve, ad esempio, per compilare la dichiarazione dei redditi, produrre informazioni verso un ente pubblico, conservare documenti da esibire in caso di accertamenti (o anche solo orientarsi in tortuosi labirinti per individuare e capire dettati normativi), e si comprende meglio da quali spese, ulteriori rispetto ai carichi fiscali, siano gravati i privati. Ma la burocrazia prodotta dalla componente umana non è meno onerosa e, per molti versi, discende proprio da quella numerosità, mutevolezza e complicazione della regolamentazione di cui si è detto. La complessa congerie delle norme vigenti può rendere difficile per il pubblico dipendente individuare la regola giusta da applicare: ciò lo induce a preferire la cautela, amplificando una certa inclinazione a fare il minimo per non sbagliare e, quindi, per rischiare meno in termini di responsabilità, di reputazione, di esposizione a contenzioso. Pertanto, egli tende a rimandare le decisioni, a chiedere molti pareri prima di adottarle, a restare inerte in assenza di specifiche direttive, a pretendere dai privati l’esibizione di documenti già in possesso di altre amministrazioni o la loro presentazione in doppio formato cartaceo e digitale. La semplificazione normativa è, dunque, un’esigenza ineludibile, per alleggerire i cittadini dall’oneroso complesso di adempimenti a loro carico, per snellire l’attività della p.a. e per togliere alibi a quei dipendenti troppo inclini a non agire. Sfrondare l’ordinamento da regole inutili, obsolete e inefficaci, eliminando così anche pesanti oneri amministrativi, è oltremodo necessario altresì per sostenere l’economia nazionale. A fronte di imprese che delocalizzano, lo Stato cominci a semplificare veramente, anziché proporre rimedi che, gravando la spesa pubblica, sono fonte di altri mali. La stessa soluzione può servire per incentivare le imprese straniere a investire nel Paese. La semplificazione è l’unica riforma a costo zero. Purtroppo, è anche quella meno attuata.

Ci sono già gli strumenti contro gli eccessi di burocrazia, scrive il 21.09.18 Vitalba Azzollini su La voce.info. La lotta alla burocrazia è uno dei temi centrali dell’esecutivo Conte. Si dovrebbero però evitare gli errori degli ultimi governi. E utilizzare quegli strumenti già presenti nell’ordinamento che possono permettere di realizzare interventi sistematici.

Semplificazioni che diventano aggravi. La lotta alla burocrazia è uno dei temi centrali dell’esecutivo Lega-Movimento 5 stelle. Poiché il tema era stato affrontato anche dagli ultimi governi, giova rammentarne le tappe essenziali, per non perdere traccia del percorso già fatto. Le politiche di semplificazione degli anni scorsi sono state connotate da un’attività che ha impresso una svolta rispetto al passato: la preventiva misurazione degli oneri “burocratici” in materie individuate, al fine di definire a priori quelli più gravosi su cui intervenire e di stimare a posteriori la loro effettiva riduzione e quindi l’efficacia dell’intervento. Dunque, si è proceduto con una sistematica integrazione fra programmi di riduzione degli oneri e azioni di semplificazione. Nel 2007, con il Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione è stato recepito l’impegno assunto con la Commissione europea di diminuire del 25 per cento, entro il 2012, gli oneri derivanti da obblighi informativi, misurati secondo lo “standard cost model”, specificamente per le imprese. La relativa procedura è stata dettata dalla legge “taglia-oneri” (legge n. 112/2008), che ha previsto un programma di misurazione (2007-2012) e piani di riduzione. Successivamente, sempre in vista del taglio del 25 per cento, è stato varato il Piano per la semplificazione amministrativa 2010-2012; e nel 2012 (decreto legge n. 5), in conformità a indirizzi UE, il Programma 2012-2015 per la misurazione e la riduzione dei tempi dei procedimenti amministrativi e degli oneri regolatori (adottato con Dpcm. 28 maggio 2014) che – partendo dai risultati degli interventi già fatti e usando gli stessi criteri – ha ampliato l’ambito dei “tagli”. Il programma è stato poi integrato con l’Agenda per la semplificazione 2015-2017, aggiornata nel dicembre 2017 con l’Agenda 2018-2020.

Gli strumenti già a disposizione. In tema di burocrazia, il nuovo governo farà bene a considerare ciò che talora ha depotenziato l’azione di quelli precedenti e che può essere così sintetizzato: “spesso, per una misura di semplificazione attuata (e resa effettiva), ve ne sono altrettante (e spesso anche di più) che introducono nuovi adempimenti che possono porre (e spesso pongono) a rischio il mantenimento di risultati raggiunti con precedenti interventi di semplificazione”. Per evitare questo rischio e incidere sugli oneri burocratici in modo sistematico non serve elaborare nuove soluzioni: l’esecutivo dispone di strumenti già presenti nell’ordinamento, ma finora scarsamente usati, che possono dimostrarsi efficaci per alleggerire gli aggravi regolatori. Va ricordato, innanzitutto, il “regulatory budget” (legge n. 180/2011): atti normativi e provvedimenti amministrativi generali non possono introdurre nuovi oneri senza ridurne o eliminarne altri, per un pari importo stimato (secondo misurazioni in base a linee guida) con riferimento al medesimo arco temporale (one-in-one-out); e se il “pareggio del bilancio” non viene raggiunto, il governo provvede con i “tagli” necessari. Lo strumento è funzionale a non accrescere il “peso della burocrazia”, e altrove viene utilizzato anche per ridurla, non consentendo l’introduzione di un nuovo onere se non ne siano soppressi due o addirittura tre (one-in-two-out o one-in-three-out): tuttavia, esso è, “allo stato, totalmente inattuato”. L’ultima relazione del dipartimento della Funzione pubblica (Dfp) spiega che il meccanismo non funziona, tra l’altro, perché i ministeri vi si sono adeguati in misura molto ridotta; perché spesso l’attuazione di norme richiede provvedimenti emanati in più anni e, specie se questi ultimi sono atti di soft law, i nuovi adempimenti possono sfuggire alla quantificazione nel budget; perché sono esclusi dal “bilancio” gli oneri inerenti alla materia fiscale e creditizia, cioè i più gravosi. L’ordinamento prevede un ulteriore meccanismo, teso a prevenire l’introduzione di oneri ridondanti o sproporzionati: prima di emanare nuove disposizioni, il governo e altri regolatori devono rendere conto dei relativi impatti (Air) anche con riguardo agli oneri introdotti o eliminati (legge 246/2005). Pure questo meccanismo, come quello sopra descritto, è stato finora poco e male utilizzato, come rileva tra gli altri il Consiglio di stato. Infine, un altro strumento già esistente per scoraggiare l’imposizione di oneri eccessivi è l’obbligo della loro conoscenza pubblica (legge n. 180/2011): regolamenti e atti a valenza generale delle amministrazioni dello stato devono recare in allegato l’elenco degli oneri introdotti o eliminati ed essere pubblicati nei siti istituzionali (oltre che, ove previsto, nella Gazzetta ufficiale). Tuttavia, anche questo è un rimedio poco usato, come dimostra il fatto che lo scorso anno solo il 27,3 per cento dei provvedimenti che modificavano carichi burocratici sia stato corredato dai relativi elenchi (v. l’ultima relazione del Dfp): e di certo non ha giovato alla sua efficacia deterrente l’assenza di sanzioni efficaci per gli inadempienti. Servirebbe valorizzare e rendere effettivi tutti questi strumenti, per evitare che l’attivismo normativo, caratteristica di ogni nuovo governo, si traduca in burocrazia ulteriore. Per un esecutivo che si definisce “di cambiamento”, sarebbe un atto utile a dare un senso a quella definizione.

Sinistroidi e burocrati europei andate a farvi fottere: noi tifiamo per la coraggiosa manovra finanziaria del Governo Lega-5Stelle, scrive A.drea P.sini il 5 ottobre 2018 su Il Giornale. La mia profezia economica per il nostro paese: debito giù grazie al Pil che crescerà del 3% e vedrete se non ho ragione. Nei progetti di questi governo c’è una crescita del 3% nel 2019. L’anno in corso dovrebbe registrare una crescita reale di circa 1,5% . L’audace obiettivo economico del governo del cambiamento Lega- 5Stelle è ambizioso e realistico. Una buona volta per tutte si vuole e si deve risollevare il paese dalla crisi e far ripartire i consumi. Bisogna gettare il cuore al di là dell’ostacolo senza avere nessun timore delle critiche dei tecnocrati di Bruxelles e delle cancellerie europee che fino ad oggi dati alla mano non hanno di certo aiutato l’Italia con le loro scelte. Anzi direi che ci hanno condotti con il sorriso sulla faccia verso il baratro cioè di fatto verso la rovina grazie anche ai il loro sodali i burattini del PD e della sinistra italiana. Se non si vuole un peggioramento dell’economia e un aumento delle condizioni di povertà e di disoccupazione occorre attivare nuovi interventi di politica fiscale. L’ideale sarebbe quello di attivare massicci investimenti, nell’ordine dei risparmi in eccesso degli italiani, pari a circa 50 miliardi di euro, presenti da alcuni anni nella nostra economia. Occorre riavviare in maniera massiccia il secondo motore della nostra economia, quello delle costruzioni, il cui spegnimento negli anni ha largamente contribuito alla crisi. Le condizioni di realizzazione di questi investimenti sono state trascurate, ponendo vincoli interni ed esterni alla loro realizzazione. Uno dei Ministri più autorevoli di questo governo, il Professor Savona, e fatemi aggiungere che è un vero peccato che alla fine non gli sia stata data la possibilità di gestire il dicastero Economico ha sottolineato che: “È ragionevole pensare che nel solo 2019 si possa raggiungere un aumento degli investimenti nell’ordine di almeno l’1% di Pil, di cui la metà su iniziativa dei grossi centri produttivi di diritto privato dove lo Stato ha importanti partecipazioni. Se così fosse, l’incidenza sul disavanzo sarebbe nell’ordine di 0,5 per cento, senza tenere conto del gettito fiscale che questa nuova spesa garantirebbe. A tal fine, oltre ai provvedimenti già indicati nella Nota di aggiornamento (rafforzamento delle capacità tecniche delle amministrazioni centrali e locali, maggiore efficienza dei processi decisionali a tutti i livelli della pubblica amministrazione, modifiche al Codice degli appalti e standardizzazione dei contratti di partenariato pubblico-privato), opererà costantemente una Cabina di regia a Palazzo Chigi per intervenire sui punti di blocco o di ritardo”. L’attuazione di questi stimoli alla domanda aggregata, tenuto conto dei moltiplicatori della spesa spiega sempre il Ministro Savona può portare ad una crescita nel 2019 di circa il 2% e crescere ancora di mezzo punto percentuale all’anno, raggiungendo quella soglia minima del 3% necessario per guardare al futuro dell’occupazione e della stabilità finanziaria del Paese che una crescita intorno all’1% annuo non garantirebbe”. Ed allora io da italiano e da imprenditore mi voglio fidare, anzi mi fido ciecamente di un autorevole esperto in economia com’è il Ministro Savona. Sono sicuro che con questa ricetta l’economia del nostro paese una volta per tutte potrà ripartire e di conseguenza i consumi. 

Politici vs. burocrati, una costante della storia italiana. "Ma mai nessuno aveva attribuito ai funzionari una volontà politica". Da Mussolini al Governo Moro. All'Huffpost il parere di Melis, di D'Alimonte, di Ricolfi e di Pasquino, che prevede: "Si arriverà a un compromesso", scrive il 26/09/2018 Nicola Mirenzi su Huffpost. Il primo scontro che ebbe Benito Mussolini, appena pochi mesi dopo aver preso il potere, fu con il rigore del ragioniere di stato Vito De Bellis, un sacerdote dei conti descritto dall'allora ministro delle finanze, Alberto De Stefani, come un uomo emaciato, dallo sguardo febbrile, insonne per la responsabilità di proteggere il bilancio pubblico dall'attacco dei "roditori" che desideravano solo spolparlo. Ai tempi, il conflitto si accese per gli ambiziosi progetti di opere pubbliche che il partito fascista aveva in cantiere e senza che ci fossero stringenti vincoli europei. Oggi la zuffa si è scatenata per le coperture del decreto Genova e per i soldi necessari a finanziare il reddito di cittadinanza. Il vice premier M5S Luigi Di Maio è in prima linea nella sua battaglia contro i "tecnocrati messi lì dai politici di un tempo che anziché eseguire quello che come governo gli chiediamo preferiscono mettere bastoni tra le ruote perché per loro il cambiamento è un pericolo", parla di una zavorra del vecchio sistema di cui dobbiamo liberarci perché vogliamo che il nostro paese spicchi il volo". Il riferimento è ai funzionari della Ragioneria dello Stato e ai tecnici del Ministero dell'Economia. "Il contrasto tra l'alta burocrazia e il potere esecutivo — racconta all'HuffPost Guido Melis, storico delle istituzioni, autore del più importante studio sul rapporto tra fascismo e burocrazia, La macchina imperfetta (Il Mulino) — è una costante della vita politica italiana, sia prima dell'istituzione della Repubblica, sia dopo". Il fatto nuovo, secondo il sociologo Luca Ricolfi, è che nella storia repubblicana "mai era stata attribuita ai funzionari dello stato una volontà politica. Si è rimproverato alla burocrazia italiana l'inerzia, un atteggiamento di indisponibilità al cambiamento, ma nessuno gli ha aveva mai attribuito un disegno politico". Ha detto Rocco Casalino, portando la voce del presidente del Consiglio e quella del Movimento 5 stelle, che i burocrati non dovrebbero "dormire la notte" per controllare "ogni singola voce di bilancio e trovare quelle risorse che servono ai più deboli", mettendo in discussione il fatto che tutti facciano il proprio lavoro: "Sono così intoccabili i burocrati?", ha domandato al giornalista che lo intervistava. La risposta che dà Roberto D'Alimonte, politologo della Luiss ed editorialista del Sole 24 Ore, è che il racconto della realtà fatto da Casalino nasconde il vero stato delle cose. "Lo scontro non è tra politica e alta burocrazia — spiega all'HuffPost —, ma è interamente politico. Da una parte ci sono alcuni ministri Cinque Stelle. Dall'altra il ministro dell'economia, Giovanni Tria. I funzionari del ministero dell'economia, infatti, non rispondono a se stessi, ma un membro autorevole del governo". Gli alti burocrati dell'economia si troverebbero così tra l'incudine dei vincoli di bilancio europei e il martello delle pressioni politiche che arrivano dal governo, che ha in sé la contraddizione più forte: "Finora — ragiona D'Alimonte —abbiamo avuto o dei governi tecnici o dei governi politici. Per la prima volta, siamo di fronte a un governo ibrido, in parte politico e in parte tecnico". E anche per questo nascono i contrasti. Lo scontro tra il primo governo di centro sinistra e la ragioneria dello stato, racconta il professor Melis, fu una delle concause che portarono alla caduta del governo Moro e all'allontanamento del ministro del bilancio socialista, Antonio Giolitti, nel 1964: "È impossibile — dice —governare senza l'assenso della ragioneria dello stato, poiché ogni atto deve essere controllato e approvato dai suoi organi". L'ardire di sfidare in blocco la burocrazia lo possono avere solo i movimenti rivoluzionari, animati dalla volontà di cambiare tutto. Il capo dei bolscevichi, Vladimir Ilic Lenin, additando la pessima burocrazia zarista, ne teorizzò l'abbattimento, fino al punto di profetizzare che nessuno potesse più farne parte (che poi l'Unione Sovietica creò una delle più imponenti burocrazie della storia è un altro discorso). "In questo momento — ragiona Luca Ricolfi — non siamo affatto in una situazione rivoluzionaria. È Luigi Di Maio che percepisce se stesso alla testa di un movimento che ha il compito di rovesciare la realtà. Ragione per cui attribuisce, a dei funzionari che fanno il proprio lavoro, vigilando sui conti pubblici, una intenzione politica sabotatrice". Cosa succederà? Secondo Gianfranco Pasquino, politologo dell'Università di Bologna e saggista, alla fine si arriverà a un "compromesso". "Il Movimento 5 stelle — spiega — ha bisogno di centrare l'obiettivo simbolico del reddito di cittadinanza per riequilibrare i rapporti di forza con la Lega di Salvini". Per questo spingerà più che potrà i limiti. Poi, però, sarà costretto ad accettare i limiti della realtà. D'altronde, anche Benito Mussolini, dopo lo scontro con De Bellis, finì per pendere dalle sue labbra.

Burocrazia: lo Stato italiano è cretino! Scrive il 25 agosto 2011 Jacopo Fo, Autore, attore e scrittore, su "Il Fatto Quotidiano". Siamo oltre la demenza. Ecco cosa uccide la nostra economia… Ma politici, economisti e media non ne parlano. Molto probabilmente non hai mai sentito parlare del Tutto Avanti.  Si tratta di una mostruosità mentale partorita da chissà quale commissione igienica nazionale. Allora sappi che in Italia esiste un regolamento che stabilisce che in un ristorante le materie prime devono entrare da una porta che immette nella dispensa, poi il cibo arriva in cucina e ne esce nei piatti da una seconda porta. Poi quando i piatti rientrano in cucina per essere lavati non possono passare dalla porta attraverso la quale sono usciti dalla cucina, né dalla porta dalla quale sono entrate le materie prime: devono fare un altro percorso. E’ un regolamento privo di senso visto che non ci sono notizie di casi di malattie provocati dal fatto che un piatto di spaghetti sia passato da una porta attraverso la quale era prima transitato un piatto dove qualcuno aveva mangiato. Eppure migliaia di ristoranti sono stati costretti a sfondare muri, costruire corridoi eccetera per ubbidire a questa legge del Tutto Avanti. Ad Alcatraz questo ci è costato 15 mila euro. Siamo di fronte a regolamenti schizofrenici: non c’è nessun reale controllo sulla qualità dei cibi, posso cucinare cibo spazzatura liberamente mettendomi le dita nel naso… Basta che rispetti il Tutto Avanti. Siamo talmente abituati a questo stato demente che non ci rendiamo neanche conto che esiste un altro modo di scrivere i regolamenti. In Italia se devo trasportare del cibo sono obbligato a utilizzare un camioncino frigorifero che deve avere precise caratteristiche tecniche, certificate da un’omologazione. In Svizzera la legge si limita a stabilire che i cibi vanno trasportati a una certa temperatura. Un mio amico che non voleva comprarsi un camioncino refrigerato, ha costruito una cassa coibentata, con dieci strati di cartone, ci ha messo dentro quattro buste di liquido ghiacciato, ha praticato un buco nel quale ha inserito la sonda di un termometro, è andato della Asl svizzera e ha mostrato che la temperatura dentro lo scatolone era quella richiesta dalla legge e si è fatto omologare il suo frigo cartonato. In Svizzera è una cosa normale e se un funzionario pubblico ha qualche cosa da ridire lo chiudono in un bunker per una settimana in castigo. La sinistra italiana invece non ha mai voluto occuparsi di questa questione della burocrazia che uccide le imprese e ammorba i cittadini con dettami assurdi. Non si è ancora capito che questa è una battaglia vitale per i diritti civili! È una battaglia di libertà. Non si capisce che qui sta una grave fonte di inefficienza del sistema. Ed è qui anche la radice della corruzione e del potere dei politici: quando ci sono troppe regole, troppo difficili, alla fine non si riesce a rispettarle tutte alla lettera e qui scatta la famosa discrezionalità dei funzionari… Possono chiudere un occhio sui 5 millimetri in meno dell’altezza delle piastrelle oppure possono chiuderti il ristorante per inadeguatezza delle misure igieniche. Se invece la legge stabilisse solo il principio per cui una cucina deve essere pulita, immacolata, e si facessero controlli sul reale stato igienico, allora i funzionari disonesti avrebbero qualche difficoltà in più a dichiarare che una cucina perfettamente pulita è sporca. Invece quando si possono attaccare ai cavilli hanno gioco facile. Un funzionario pubblico spiritoso un giorno mi ha detto: “In Italia esistono due leggi, la prima dice che non puoi fare niente, la seconda dice che puoi fare tutto.” Vogliamo invece una nazione dove ci siano leggi semplici, chiare e logiche e dove se fai le cose per bene ti lasciano vivere e se invece fai porcherie la paghi. E’ chiedere troppo? Parlo di una grande riforma a costo zero che avrebbe un immediato, potentissimo effetto sull’economia in crisi, provocherebbe un’esplosione di iniziative e cancellerebbe una tassa nascosta micidiale. Perché non trovo questo discorso in nessuna proposta sulla manovra? Se ne parla ogni tanto… Anche Calderoli e Brunetta dicevano di essere d’accordo. Hanno, è vero, bruciato una serie di regolamenti ormai in disuso, ma non hanno scritto l’articolo di legge essenziale che in un sol colpo libererebbe chilotoni di energie produttive: “Qualunque regolamento attuativo precedente a questa legge, che specifichi le modalità e le caratteristiche obbligatorie per un dato prodotto o servizio, va inteso come indicazione del risultato finale che lo spirito della legge si propone. La legge stabilisce gli obiettivi e lascia i cittadini liberi di scegliere come raggiungerli.” Calderoli… mi capisci a me? Approvate questo articolo di legge e non dovrete neanche far la fatica di bruciare i regolamenti e riscriverli.

Intervista. Graeber: burocrazia, la regola dei più forti, scrive Elena Molinari, mercoledì 18 novembre 2015 su Avvenire. Viviamo nell’era della burocratizzazione totale, così narcotizzati (anzi, quasi confortati) dalla proliferazione selvaggia di regole che non ci accorgiamo che la burocrazia è «uno strumento attraverso il quali l’immaginazione umana è schiacciata e frantumata». Le noie dei formulari da compilare e dei certificati da far timbrare non sembrerebbero, a prima vista, una ragione sufficiente per fare una rivoluzione. Ma David Graeber non è d’accordo. Graeber, che è stato chiamato «il miglior antropologo della sua generazione in qualsiasi parte del mondo», è un attivista, un anarchico, e l’autore dello slogan del movimento Occupy Wall Street, «siamo il 99%». Dopo aver dettagliato in un volume tutti i mali del debito, Graeber vuole ora aprire gli occhi dei cittadini occidentali sugli effetti della burocrazia e sulle complicità della destra come della sinistra nell’alimentarla, invitandoli a non credere alla «narrativa corrente» che le regole per accedere ai servizi pubblici, alle università, alla sanità o a un lavoro sono trasparenti ed egalitarie. Nel suo libro, L’utopia delle regole: sulla tecnologia, la stupidità e le gioie segrete della burocrazia (The Utopia of Rules: On Technology, Stupidity, and the Secret Joys of Bureaucracy, edito da Melville House), Graeber sostiene infatti che la burocrazia è più figlia del mercato che dello Stato, che la tecnologia l’ha amplificata e non semplificata e che l’americano medio si illude se crede che conoscere le regole e applicarle fedelmente lo porterà a ottenere risultati. Professor Graeber, lei scrive che il tempo che un americano passa impantanato nella burocrazia è aumentato negli ultimi cent’anni, nonostante l’espansione della tecnologia. Come è successo? «Oggi invece di compilare moduli su carta lo facciamo online o rimaniamo al telefono a schiacciare bottoni seguendo gli ordini di un messaggio registrato. Ci avevano detto che privatizzare e applicare regole di mercato al settore pubblico, con l’aiuto della tecnologia, avrebbe fatto scomparire la burocrazia. Invece è nato un ibrido mostruoso, una fusione da incubo dei peggiori elementi dello statalismo con i peggiori elementi del capitalismo». Eppure oggi non si parla di burocrazia come si faceva quarant’anni fa. «È scomparso lo spirito di ribellione degli anni 60 e 70 che considerava la burocrazia come un nemico da sconfiggere, la via sicura verso un’esistenza grigia e controllata da una rete incomprensibile di norme. La sinistra ha perso la sua vocazione antiburocratica ed è rimasta la destra che vuole solo abolire tutto quello che è Stato». Per questo ha scritto L’utopia delle regole? «Il libro è nato in parte dalla mia frustrazione nei confronti dell’accettata equivalenza fra “burocrate” e “governo” che è storicamente errata. Nel XIX secolo si è diffusa l’idea del mercato come un’espressione della libertà umana. Così siamo gradualmente passati da un sistema di caste a una società dove le relazioni sono dei contratti, quindi maggiormente burocratica. Resiste però la convinzione che le forze di mercato possono liberare gli individui da regole opprimenti e permettere loro di agire senza costrizioni inutili». Non è che così? «Il mercato è il prodotto di scelte e investimenti governativi. E la burocrazia nel privato oggi è peggiore di quella nell’amministrazione pubblica. È stato il mondo del capitalismo a rendere gli Stati Uniti un Paese altamente burocratico: un elemento che sfugge agli osservatori stranieri. Il management aziendale di medio livello passa il suo tempo a compilare relazioni. Ma è la fusione di pubblico e privato che, grazie al sistema di lobby in Congresso, è ormai completa in America, la vera responsabile di aver riempito le giornate degli americani di percorsi a ostacoli. Il privato non vuole eliminare la burocrazia, ma piegarla ai suoi bisogni». Può fare un esempio? «Gli Stati Uniti sono diventati una società rigida nel bisogno di credenziali. Quasi tutte le occupazioni che venivano considerate delle arti o dei mestieri e che si apprendono con la pratica ora richiedono uno specifico diploma. Prima l’accesso era garantito da connessioni familiari, quindi non era equo. Ma ora ottenere quei titoli lascia i figli delle classi lavoratrice e media oberati di debiti, schiavi del sistema della finanza, quindi sempre meno liberi». Allora qual è il rischio maggiore della burocrazia, oltre al fatto che è una seccatura? «Crea l’illusione che le regole siano universali. In realtà sono applicate in modo da dare un vantaggio per chi le ha create. La burocratizzazione della vita quotidiana è l’imposizione di regole impersonali e spesso arbitrarie, rese effettive dalla minaccia dell’uso della forza, che sia il licenziamento, o il ricorso al sistema giudiziario o alla polizia. E poiché la burocrazia non tollera le persone ai margini, le più creative, quelle che la sfidano, con il suo sistema le soffoca».

Graeber: Contro la burocrazia, da sinistra, scrive Maria Teresa Carbone il 23 febbraio 2016 su Alfabeta2. Esce il 25 febbraio dal Saggiatore Burocrazia di David Graeber. L’autore, che insegna Antropologia alla London School of Economics, è oggi uno dei più autorevoli esponenti del pensiero anarchico e libertario; egli stesso ricorda spesso nei suoi scritti – anche in questa occasione – la sua militanza nel Movimento per la giustizia globale, a Zuccotti Park e altrove. Il suo libro Debito. I primi 5000 anni (pubblicato nel 2012 sempre dal Saggiatore) è forse il testo più letto e discusso, oggi, su questo dispositivo regolatore per eccellenza del dominio contemporaneo. Il nuovo saggio (uscito esattamente un anno fa da Melville House, col titolo The Utopia of Rules. On Technology, Stupidity and the Secret Joy of Bureaucracy) ne mette a fuoco un altro che al primo è legato da rapporti sottili quanto stringenti. E nel farlo mette a nudo una quantità straordinaria di paradossi che regolano la nostra vita quotidiana. Paradossi ai quali ci siamo tanto assuefatti da non considerarli più tali: Qualcuno una volta ha calcolato che l’americano medio passa sei mesi della propria vita ad aspettare che scatti il semaforo. Non so se ci sono dati simili su quanto tempo passa a riempire moduli, ma sono sicuro che non ci siamo lontani. Se non altro, credo di poter dire che mai nella storia del nostro pianeta un popolo ha passato tanto tempo a occuparsi di scartoffie. Il problema è che tutto ciò è successo dopo la caduta dell’orribile e antiquato socialismo burocratico e il trionfo della libertà e del mercato. Di certo questo è uno dei grandi paradossi della vita contemporanea. È, questo appena citato (prelevato dal terzo capitolo), solo un esempio del metodo graeberiano di analisi decostruttiva dei processi sociali, che – nella migliore tradizione antropologica, da Montesquieu a Geertz – si potrebbe accostare allo «straniamento» teorizzato nelle arti e nella letteratura, all’inizio del Novecento, da Sklovškij e dagli altri formalisti russi. La conseguenza politica dell’assunto appena citato, per esempio, è per Graeber la seguente: credo che dovremmo ripensare radicalmente alcuni dei nostri assunti di base sul capitalismo. Uno è che il capitalismo si identifica con il mercato e che quindi entrambi sono nemici della burocrazia, la quale invece è una creatura dello stato. Un altro è che il capitalismo è per sua natura favorevole al progresso tecnologico. […] I sostenitori del capitalismo in genere insistono su tre considerazioni di carattere storico: primo, che il capitalismo ha favorito un rapido sviluppo scientifico e tecnologico; secondo, che, pur avendo messo un’enorme ricchezza nelle mani di una piccola minoranza, ha avuto l’effetto complessivo di migliorare la prosperità di tutti; terzo, che ha creato un mondo più sicuro e democratico. È abbastanza chiaro, però, che nel XXI secolo il capitalismo non sta facendo nessuna di queste cose. Ormai anche i suoi sostenitori cominciano ad ammettere che non è un sistema particolarmente valido, e si accontentano di dire che è l’unico possibile – o, almeno, l’unico sistema possibile per una società complessa e tecnologicamente avanzata come la nostra.

Per gentile concessione dell’editore italiano proponiamo qui un estratto dall’introduzione, intitolata La legge ferrea del liberalismo e l’età della burocratizzazione totale.

Contro la burocrazia, da sinistra di David Graeber. Oggi nessuno parla più di burocrazia. Ma a metà del secolo scorso, special­mente alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta, sembrava non si parlasse d’altro. […] Uscivano romanzi kafkiani e film satirici. A tutti sembrava che le manie e le assurdità della vita burocratica fossero uno dei tratti carat­terizzanti del mondo moderno, e che quindi fosse particolarmente importan­te parlarne. A partire dagli anni Settanta, però, c’è stato uno strano riflusso. […] L’argomento suscita un interesse moderato fino al dopoguerra, poi cresce d’importanza negli anni Cinquanta, raggiunge l’apice nel 1973 e da lì co­mincia un lento ma inesorabile declino. Come mai? Una spiegazione ovvia è che, banalmente, ci abbiamo fatto l’abitudine. La burocrazia è diventata come l’aria che respiriamo. […] Verso la fine del XX secolo i cittadini della classe media hanno perso sempre più tempo a combattere con reti di telefonate e interfacce web, e […] i meno fortunati hanno passato di­verse ore della giornata a districarsi tra complicatissime pratiche per acce­dere a quel poco che è rimasto dei servizi sociali. […] Tutti i saggi raccolti in questo volume, in un modo o nell’altro, trattano di questa discrepanza. Anche se non ci piace occuparcene, la burocrazia in­fluenza ogni aspetto della nostra esistenza. È come se la nostra civiltà, in tutto il mondo, avesse deciso di tapparsi le orecchie e di canticchiare ogni volta che si tira fuori l’argomento. E quelle rare volte in cui se ne parla, i termini della discussione sono gli stessi degli anni Sessanta e Settanta. I movimenti sociali degli anni Sessanta erano generalmente d’ispirazione progressista e di sinistra, ma erano anche contro la burocrazia o, per essere più precisi, contro la mentalità burocratica, contro il conformismo oppri­mente dello stato sociale postbellico. Di fronte ai grigi funzionari di en­trambi i regimi, quello del capitalismo di stato e quello del socialismo di stato, quei contestatori si battevano per l’espressione individuale e per una convivialità spontanea, contro qualsiasi forma di controllo sociale (il mot­to era: «Norme e regole, a che servono?»). Con il crollo del vecchio stato sociale, tutto ciò appare decisamente superato. Mentre il linguaggio dell’individualismo antiburocratico è stato, con crescente ferocia, adottato dalla destra, che propone «soluzioni di mer­cato» per qualsiasi problema sociale, la sinistra moderata ormai si è ridotta a combattere una patetica battaglia di retroguardia, provando a salvare quel che resta del welfare state: ha accettato passivamente – e spesso addirittu­ra incoraggiato – il tentativo di rendere lo stato più «efficiente» attraverso la privatizzazione parziale dei servizi e la sempre maggiore integrazione dei «principi di mercato», degli «incentivi di mercato» e delle procedure di mercato basate su «trasparenza e responsabilità» nell’organizzazione bu­rocratica stessa. Politicamente, il risultato è stato disastroso. Non c’è altro modo per dirlo. Ogni soluzione di sinistra «moderata» a qualsivoglia problema socia­le (e oggi, quasi ovunque, le soluzioni di sinistra radicale vengono escluse tout court) si è invariabilmente rivelata una commistione da incubo tra i peggiori elementi della burocrazia e del capitalismo. È come se si fosse de­ciso scientemente di creare la posizione politica meno allettante possibile. Il fatto che qualcuno pensi ancora di votare per partiti che fanno scelte di questo tipo è il segno della forza intramontabile degli ideali di sinistra: se la gente continua a votare per i partiti di sinistra non è certo perché crede nelle loro politiche, ma perché queste sono le uniche che chi si definisce di sinistra è autorizzato a sostenere. Come stupirsi, quindi, se ogni volta che c’è una crisi sociale è la destra, e non la sinistra, a fare da valvola di sfogo dell’indignazione popolare? La destra, almeno, ha una posizione critica sulla burocrazia. Non è mol­to solida, ma almeno esiste. La sinistra non ce l’ha. Di conseguenza, quan­do chi si dice di sinistra vuole parlare male della burocrazia, il più delle volte è costretto a riciclare una versione annacquata delle critiche della destra. Tale critica ha origine nel pensiero liberale ottocentesco e può essere re­spinta molto facilmente. […] La crescita della burocrazia è l’esempio supremo della degenerazione delle buone intenzioni. Questo concetto è stato espresso nel modo forse più immediato ed efficace dalla celebre massima di Ronald Reagan: «Le nove parole più spaventose della nostra lingua sono “Mi man­da lo stato e sono qui per aiutarvi”». Il problema è che tutto ciò ha scarsissima attinenza con la realtà dei fat­ti. […] Abbiamo scoperto che per mandare avanti un’economia di mercato servono mille volte più scartoffie che nella monarchia assoluta di Luigi XIV. Questo apparente paradosso – in base al quale una serie di misure vol­te a ridurre l’intervento dello stato nell’economia finisce per produrre più regole, più burocrati e più polizia – si ripete con tale regolarità che potrem­mo considerarlo alla stregua di una legge generale della sociologia. Propon­go di chiamarla «Legge ferrea del liberalismo»: ««La Legge ferrea del liberalismo stabilisce che qualsiasi riforma del mercato e qualsiasi iniziativa di governo volta a ridurre la burocrazia e a favorire le forze di mercato avrà l’effetto ultimo di incrementare il numero complessi­vo delle norme, la quantità complessiva delle pratiche cartacee e il numero complessivo dei burocrati al servizio dello stato». Il sociologo francese Émile Durkheim osservò questo fenomeno già alla fi­ne del XIX secolo poi diventò impossibile ignorarlo. Alla metà del Nove­cento, perfino i critici di destra come von Mises ammettevano – almeno nei loro scritti accademici – che i mercati in realtà non si regolano da soli e che per mandare avanti qualsiasi sistema di mercato serve un esercito di amministrativi […]. Tuttavia, il populismo di destra capì subito che, a prescindere dalla realtà dei fatti, prendere di mira i burocra­ti funzionava quasi sempre. […] E così «democrazia» è diventata sinonimo di «mercato», mentre «buro­crazia» intrusione dello stato nel mercato. Questo è più o meno il significa­to che la parola ha conservato fino a oggi. Non sempre è stato così. Il modello aziendale moderno che si è afferma­to alla fine del XIX secolo all’epoca era visto come un modo di applicare le moderne tecniche burocratiche al settore privato. Si dava per assodato che queste tecniche fossero necessarie, quando si operava su larga scala, perché erano più efficienti rispetto alla rete di rapporti personali o informali che ca­ratterizzavano il mondo delle piccole imprese a conduzione familiare. I pio­nieri di queste nuove burocrazie private furono gli Stati Uniti e la Germania […]. Questo processo – la graduale fusione di potere pubblico e privato in un’u­nica entità portatrice di norme e regole che hanno il fine ultimo di estrar­re ricchezza sotto forma di profitti – ancora non ha un nome. Il fatto di per sé è significativo. Cose del genere succedono anche perché non esiste una terminologia per discuterne. Ma gli effetti si vedono in ogni singolo aspet­to della nostra vita. Passiamo le giornate tra scartoffie e moduli sempre più lunghi e complicati. Semplici bollette, multe e richieste di adesione ad as­sociazioni sportive o culturali sono ormai regolarmente accompagnate da pagine e pagine di documentazione in legalese. Voglio inventarmi un nome. La chiamerò l’età della «burocratizzazione totale» […]. È cominciata timidamente alla fine degli anni Settanta, quando or­mai non si parlava più di burocrazia, e si è consolidata negli anni Ottanta. Ma è negli anni Novanta che ha preso veramente il volo. […] Nel frattempo si è affermato un nuovo credo: tutti dovevano guardare il mondo con gli occhi di un investitore. […] La narrazione ufficiale era che attraverso la partecipazione ai fondi pensione o a qualche tipo di fondo di investimento tutti avrebbero avuto un pezzo di capitalismo. In realtà, il cerchio magico è stato allargato soltanto ai professionisti meglio pagati e ai burocrati delle aziende private. Questo allargamento, tuttavia, è stato estremamente importante. Nes­suna rivoluzione politica è possibile senza alleati, e cooptare un certo seg­mento della classe media (e soprattutto convincerne gran parte di essere in qualche modo partecipe del capitalismo finanziario) è stato fondamentale. Alla fine, la componente più liberal e progressista di questa élite professional-manageriale è diventata la base sociale di quelli che vengono spaccia­ti per i partiti «di sinistra», mentre le organizzazioni dei lavoratori come i sindacati sono state abbandonate a se stesse (basti pensare al Democratic Party negli Stati Uniti e al New Labour in Gran Bretagna, con i rispettivi leader che hanno ripudiato in pubblico quegli stessi sindacati che storica­mente hanno formato il cuore del loro elettorato). Si trattava, naturalmen­te, di soggetti che già lavoravano in ambienti molto burocratizzati come scuole, ospedali o studi legali di diritto societario. La classe operaia vera e propria, che tradizionalmente detestava questi personaggi, o si è ritirata completamente dalla politica o si è rifugiata nel voto di protesta per la de­stra radicale. Non è stato solo un riallineamento politico; è stata una trasformazio­ne culturale, che ha preparato il terreno per un processo grazie al quale gli strumenti burocratici (valutazione delle prestazioni, focus group, survey sull’allocazione del tempo…) sviluppati nei circoli finanziari e aziendali hanno invaso il resto della società – la scuola, la scienza, il governo – arri­vando a permeare praticamente ogni aspetto della vita quotidiana. Il mo­do migliore di ricostruire tale processo è partire dal linguaggio. C’è tutto un gergo che si è sviluppato inizialmente all’interno di questi circoli, fat­to di parole altisonanti e vuote come visione, qualità, stakeholder, leader­ship, eccellenza, innovazione, obiettivi strategici e best practice […]. Come dovrebbe configurarsi una critica di sinistra di questa burocratiz­zazione totale o predatoria? Uno spunto ci arriva dalla storia del Movimento per la giustizia glo­bale, il primo movimento ad accorgersi (non senza sorpresa) della na­tura del problema. Me lo ricordo bene perché all’epoca ero coinvolto in prima persona. Negli anni Novanta, la «globalizzazione», nella vulgata di giornalisti come Thomas Friedman (ma in realtà di tutto l’establishment giornalistico degli Stati Uniti e di quasi tutti i paesi ricchi), veniva dipinta quasi come una forza della natura. I progressi tecnologici – in particolare Internet – avevano unificato il mondo come non era mai successo prima, la crescita delle comunicazioni aveva portato all’espansione del commer­cio e i confini nazionali erano diventati sempre più irrilevanti grazie ai trattati di libero scambio, che avevano creato un unico mercato mondia­le. Nei dibattiti politici dell’epoca, soprattutto sui mezzi di informazione dominanti, tutto questo veniva preso come un dato di fatto, e chiunque avesse qualcosa da eccepire veniva trattato come se avesse messo in di­scussione le leggi fondamentali della natura. Negare la globalizzazione era come sostenere che la terra fosse piatta: chi lo diceva veniva conside­rato un buffone, l’equivalente di sinistra dei fondamentalisti cristiani che negavano l’evoluzione. E così, quando è nato il Movimento per la giustizia globale, i mezzi di informazione lo hanno dipinto come una retroguardia di sinistroidi gri­gi e malsani che volevano tornare al protezionismo, alla sovranità nazio­nale, alle barriere al commercio e alle comunicazioni e opporsi vanamente all’inevitabile marea della Storia. Il problema è che ovviamente non era ve­ro. Tanto per cominciare, l’età media dei manifestanti, soprattutto nei pae­si più ricchi, era di circa diciannove anni. Ma, soprattutto, c’era il fatto che il movimento era una forma di globalizzazione in sé: un’alleanza caleido­scopica di persone provenienti da ogni angolo del mondo, dalle associazio­ni dei contadini indiani al sindacato dei lavoratori postali del Canada, dai gruppi indigeni di Panama ai collettivi anarchici di Detroit. In più, i suoi esponenti spiegavano fino allo sfinimento che, nonostante si dicesse il con­trario, quella che i mezzi di informazione chiamavano «globalizzazione» non c’entrava niente con l’abbattimento delle frontiere e il libero movimen­to di persone, prodotti e idee. Non era altro che un modo per intrappolare una fascia sempre più ampia della popolazione mondiale entro confini for­temente militarizzati all’interno dei quali le forme di protezione sociale ve­nivano sistematicamente negate, creando un bacino di lavoratori talmente disperati da essere disposti a lavorare quasi per niente. Contro questo sce­nario, proponevano un mondo davvero senza frontiere. […] Per chi è stato un rifugiato, o magari ha solo dovuto compilare un mo­dulo di quaranta pagine per richiedere l’ammissione di sua figlia a una scuola di musica londinese, l’idea che la burocrazia possa avere qualcosa a che fare con la razionalità o l’efficienza suona strana. Ma vista dall’alto sembra proprio così. Da dentro il sistema, infatti, le formule matematiche e gli algoritmi attraverso i quali viene valutato il mondo diventano non so­lo misure del valore, ma la sua stessa origine(3). L’attività principale dei bu­rocrati è valutare. Sono continuamente impegnati a misurare, controllare, confrontare e soppesare i meriti di piani, proposte, domande, linee d’azio­ne e candidati alla promozione diversi. Le riforme di mercato rafforzano questa tendenza. Succede a tutti i livelli. Quelli che ne subiscono di più gli effetti sono i poveri, tenuti costantemente sotto osservazione da un eserci­to di burocrati moralisti e invadenti che, spuntando delle caselle, valutano le loro capacità genitoriali, sbirciano nella credenza per controllare se abi­tano davvero con il partner, tentano di capire se hanno provato a cercarsi un lavoro o se le loro condizioni di salute sono realmente così gravi da im­pedire loro di svolgere un lavoro manuale. In tutti i paesi ricchi ci sono or­mai schiere di funzionari la cui mansione primaria è far sentire in colpa i poveri. Ma la cultura della valutazione è, se possibile, ancora più dilagante nel mondo ipercredenzializzato delle classi professionali, in cui domina il controllo contabile e nulla vale se non può essere quantificato, incasellato o inserito in qualche tipo di interfaccia o di relazione trimestrale. Questo mondo non è un mero prodotto della finanziarizzazione, ne è il prolunga­mento naturale. Che cos’è infatti il mondo dei derivati cartolarizzati, del­le Cdo e di altri strumenti finanziari esotici se non l’apoteosi del principio che il valore è un prodotto della carta, la vetta estrema di una montagna di documenti di valutazione? […] Quella che manca […] è una critica di sinistra della burocrazia. Que­sto libro non è un primo abbozzo di tale critica. E non è nemmeno, a nes­sun livello, il tentativo di elaborare una teoria generale della burocrazia o una storia della burocrazia, o anche solo dell’età della burocratizzazione to­tale in cui viviamo. È una raccolta di saggi, ognuno dei quali indica alcu­ne possibili direzioni per una critica di sinistra della burocrazia. Il primo parla di violenza, il secondo di tecnologia e il terzo di razionalità e valore. I capitoli non formano una tesi unica. Potremmo dire che ruotano at­torno a una tesi, ma sono soprattutto il tentativo di far partire una discus­sione. Sarebbe ora. È un problema che ci riguarda tutti. Siamo strangolati dalle pratiche, dalle abitudini e dai valori burocratici. L’organizzazione della nostra vita si basa ormai sulla compilazione di moduli. Eppure, il linguaggio che uti­lizziamo per descrivere questo fenomeno non solo è tremendamente ina­deguato, ma forse è stato addirittura studiato per aggravare il problema. Dobbiamo trovare il modo di spiegare che cosa non ci sta bene di questo processo e parlare con franchezza della violenza che lo circonda, ma allo stesso tempo dobbiamo capire che cosa lo rende attraente, che cosa lo so­stiene, quali elementi varrebbe la pena di mantenere in una società dav­vero libera, quali possono essere considerati i prezzi inevitabili da pagare per vivere in una società complessa e quali invece possono e devono esse­re eliminati del tutto. Se questo libro riuscirà anche solo ad accendere la scintilla di questa discussione, avrà dato il suo contributo alla vita politi­ca contemporanea.

Italia, corruzione e “mentalità corrotta”, scrive l'11 settembre 2018 su "La Repubblica" Salvatore Bruno - Linkus Campus University, relatrice professoressa Daniela Mainenti. Cosa è la corruzione? La corruzione è un reato punito dal codice penale italiano. Essa si verifica in presenza di un accordo tra due soggetti – uno dei quali ricopre un ruolo di carattere pubblico (politico, funzionario della pubblica amministrazione, ecc.) – finalizzato alla creazione di un vantaggio reciproco (do ut des): il corrotto riceve un qualsivoglia bene o altra utilità e il corruttore ottiene un indebito “vantaggio”, vantaggio che il soggetto corrotto è in grado di procurargli in virtù del ruolo da lui ricoperto. Ciò, in danno di un numero indefinito di individui titolari di un interesse legittimo analogo a quello del corruttore. Gli elementi che caratterizzano la corruzione sono, pertanto, due: da un lato lo scambio di beni o favori, dall’altro l’illegalità di quanto scambiato.

Come individuare la corruzione? La corruzione è un fenomeno che si manifesta in assenza di testimoni, e coloro che ne sono gli autori hanno un comune interesse a mantenerne il segreto: questa è certamente una delle principali cause che ne rende difficile la scoperta. Le statistiche dicono, infatti, che essa si scopra quasi sempre in maniera collaterale, per il tramite di indagini su altri reati.  Ad esempio, nell’indagine su “Expo” i magistrati volevano individuare eventuali infiltrazioni mafiose nelle procedure di evidenza pubblica, nelle indagini sul “Mose” erano emerse false fatture emesse da alcuni imprenditori, in quelle di “Mafia Capitale” si ipotizzava l’esistenza di un’organizzazione mafiosa facente capo a un terrorista di destra. Solo il lavoro di indagine e, soprattutto, le intercettazioni telefoniche e ambientali, hanno poi fatto emergere che si era in presenza di fenomeni corruttivi. Ad ulteriore conferma di quanto detto, le statistiche che riferiscono il numero di processi aventi ad oggetto reati che afferiscono alla sfera della corruzione sono davvero esigui. Nel Gennaio dello scorso anno, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, ha denunciato proprio il problema dell’inaccettabile forbice fra la drammaticità sociale della “piaga corruzione” e lo scarso numero di procedimenti penali relativi a questa tipologia di reato, mettendo in evidenza un dato allarmante: solo lo 0,5% del contenzioso totale della Suprema Corte si riferisce a fatti di corruzione. Non v’è dubbio che tali dati dovrebbero spingere il nostro Legislatore a fornire alle autorità giudiziarie strumenti di maggiore efficacia nella lotta ad un fenomeno così sommerso. Stupisce, invece, la circostanza che, piuttosto che implementare quelli che potrebbero essere dei metodi efficaci per il contrasto reale alla corruzione, in Italia ci si concentri spesso esclusivamente sulla prevenzione, che è sì necessaria, ma principalmente come attività di chiarificazione e conoscenza del fenomeno e non come metodo di contrasto. Facendo riferimento, ad esempio, all’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione), ci si rende subito conto dei limiti d’efficacia dei poteri che ad essa sono conferiti. I suoi compiti sono infatti limitati ad un controllo preventivo delle attività a rischio, e ad un blando potere sanzionatorio. Di sicura utilità al fine di scovare il fenomeno corruttivo sono, viceversa, le operazioni sotto copertura, ben diverse dall’agente provocatore su cui tanto si dibatte. L’agente sotto copertura, infatti, non si fa promotore della commissione di reato, ma si inserisce in una trama corruttiva già in atto, dove, sotto autorizzazione del Pubblico Ministero, osserva, rileva gli elementi di reato e li riferisce al Pubblico Ministero stesso. Peraltro, si tratta di una figura già presente nel nostro ordinamento, con esclusivo riferimento però a reati di terrorismo, traffico di armi e stupefacenti, criminalità organizzata e pedopornografia. Ecco che basterebbe estenderne l’utilizzo anche alle fattispecie che riguardano i reati di corruzione per adottare un efficiente metodo di contrasto al fenomeno. L’Italia, d’altro canto, avrebbe dovuto già dotarsene da tempo, in quanto firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione nel 2003 (Convenzione di Merida) che impone agli Stati firmatari, tra le varie indagini speciali, le operazioni sotto copertura. L’Italia, pertanto, avendo ratificato senza apporre riserve è inadempiente rispetto ad una Convenzione ONU, non avendo ancora adottato questo strumento.

La corruzione è un fenomeno sociale? Nel nostro Paese la corruzione è una realtà patologica, endemica, assimilabile alla mafia. Si parla infatti molto di cultura mafiosa e di come essa sia importante da estirpare, ma molto poco di “mentalità corrotta”. Questo per diverse ragioni, la prima delle quali che la percezione che si ha di essa è di qualcosa di lontano, qualcosa che non tocca direttamente ognuno di noi. Niente di più sbagliato. Il sentimento del danno provocato dalla corruzione è qualcosa di non immediatamente percepibile, diversamente da un furto o una truffa dove il nocumento che ne deriva è diretto, ma tale da concretizzarsi in una privazione collettiva di diritti, dovuta alla sostituzione di un bene comune con un interesse particolare. Da ciò deriva che le dimensioni del danno, create dalla corruzione sono assai maggiori, tanto in quantità che in qualità. L’immagine che riesce meglio a descrivere la corruzione è, forse, quella di un tumore che tiene nascosti i suoi sintomi e che si manifesta ad un determinato stadio, prorompente, non lasciando scampo a colui che ne è affetto. Oggi, l’obiettivo primario che bisognerebbe perseguire è affrontare questo male come un problema di cultura criminale in modo da renderlo (almeno) di pari grado a quello mafioso. Il contrasto alla corruzione non deve essere percepito, quindi, come una prerogativa esclusiva di magistrati e forze dell’ordine, ma come un impegno che spetta ad ogni cittadino.

È altrettanto vero, tuttavia, che, se di male culturale si tratta, l’argine a questa deriva bisognerebbe porlo alla fonte, istillando nei ragazzi la consapevolezza di come la corruzione possa talvolta essere un primo passo, se non uno dei moderni strumenti, di quella cultura mafiosa che tanto apertamente si cerca di combattere. Le parole di Giovanni Falcone in tal senso tuonavano già profetiche: “La mafia e la corruzione non si combattono nelle aule di giustizia, ma tra i banchi di scuola”.

La lotta alla corruzione e quella alla burocrazia sono una cosa sola, scrive Salvatore Carrubba il 27 agosto 2016 su "Il Sole 24 ore". "Finlandia, Danimarca, Nuova Zelanda. Noi 61esimi su 168. Non è la classifica di una gara olimpica, ma la graduatoria dei Paesi virtuosi secondo Fondazione Hume per il Sole -24 Ore. Ci dà una chiave di lettura sull’attuale stato di sofferenza dell’Italia rispetto ad altri Paesi avanzati: peggio dell’Italia stanno, quanto a corruzione, solo Grecia e Turchia. Poco sopra l’Italia si posizionano Polonia, Messico, Ungheria e Repubblica Ceca. La media stimata per i Paesi Ocse dalla Fondazione Hume si attesta in quindicesima posizione, occupata dal Cile. I Paesi da seguire a esempio sarebbero ancora una volta gli scandinavi, Olanda, Svizzera, le ex colonie britanniche e il Regno Unito. Una fotografia per noi impietosa che nell’indicarci quanta strada ci rimane da percorrere, ci offre anche possibili modelli economici e politici cui ispirarci". Teresio Asola

Un recente studio della Banca d’Italia (Elisa Gamberoni, Christine Gartner, Claire Giordano e Paloma Lopez-Garcia: “Is corruption efficiency-enhancing? A case study of nine Central and Eastern European countries”) sembra confermare «una relazione positiva tra la crescita della corruzione e la dinamica dell’inefficienza allocativa sia del lavoro sia del capitale». La corruzione, insomma, deprime l’economia e fa scappare gli investitori. Tanto più seriamente, perciò, dovremmo riflettere sui dati che emergono dalla ricerca della fondazione Hume pubblicati domenica scorsa su questo giornale, che vede stabilmente l’Italia in una posizione mortificante (e dietro a quasi tutti i Paesi presi in esame nel paper della Banca d’Italia). Non credo che noi siamo geneticamente più cattivi, o più imbroglioni, o più maneggioni, dei campioni in positivo, rappresentati dai Paesi nordici (più la Nuova Zelanda). Sospetto piuttosto che, a parità di condizioni, ovvero se agissero nel quadro normativo e burocratico italiano, anche i popoli più ligi si convertirebbero all’imbroglio. Ogni timbro che appesantisce l’iter burocratico, infatti, è una tentazione fatale alla corruzione: quanto più gli adempimenti burocratici amministrativi e fiscali sono contenuti, ragionevoli, celeri e trasparenti, tanto più si asciuga quello che negli anni di piombo si chiamava il “brodo di cultura” per la corruzione. E se è vero, come anche Luca Ricolfi osservava domenica, che la corruzione condiziona (negativamente) l’economia, l’obiettivo di prosciugare questo brodo con una coraggiosa e drastica semplificazione amministrativa dovrebbe diventare una delle priorità più urgenti, proprio per creare condizioni favorevoli agli investimenti e all’impresa. Non trascurerei l’importanza della cultura civica, o del capitale sociale, da consolidare a tutti i livelli: presso le amministrazioni pubbliche non meno che presso la società civile. Anche qui, le carenze sono secolari, il che dovrebbe indurci ad accelerare i tempi: senza illudersi che basti creare sempre nuove fattispecie di reato per contenere un fenomeno che ha a che fare con ataviche e reciproche diffidenze fra stato e cittadino.

Burocrazia, linfa della corruzione. In un sistema con 40 mila leggi e 80 mila regolamenti viviamo nell’insicurezza totale dove il diritto genera l’arbitrio, non giustizia. L’apparato normativo è lento e oscuro e coltiva un potere dispotico e indomabile, che è la prima fonte di rovina del Paese, scrive Michele Salvati il 14 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". A Milano il vicepresidente della Regione, Mario Mantovani, è stato arrestato per tangenti mentre era atteso alla Giornata della Trasparenza. A Palermo Roberto Helg, paladino della lotta al racket, ha ricevuto una condanna per estorsione aggravata. A Bari il pm Donato Ceglie, icona della lotta alle ecomafie, è stato sospeso dal Csm per i suoi rapporti con i clan. A Napoli giravano bustarelle nei concorsi per entrare alla Guardia di finanza. Mentre a Roma l’inchiesta su Mafia Capitale non ha cambiato d’una virgola il copione: tangenti sugli appalti dell’Anas, sui condoni urbanistici rilasciati dal Comune, perfino sulle sentenze delle Commissioni tributarie, che dovrebbero punire la corruzione fiscale. Smantelliamo tutto, verrebbe da esclamare. Se l’anticorruzione alleva il germe della corruzione, forse per venirne a capo dovremmo liberarci di sceriffi e tribunali, convegni e cerimonie. Magari fosse così semplice. Anche se il peccato degli angeli, di chi aveva giurato di proteggerci sotto le sue ali piumate, viene sempre da Lucifero, reca l’impronta del demonio. Perché sparge attorno a sé un veleno, e quel veleno corrompe la fiducia nelle istituzioni, prima ancora di corrompere gli animi, d’infiacchire le coscienze. Ne sanno qualcosa pure in Vaticano, dove papa Francesco s’è visto costretto a correggere le norme sui processi di beatificazione e canonizzazione: troppe pratiche truccate. Ma trucchi e raggiri si moltiplicano fuori dalle Mura leonine, come una pioggia acida che bagna lo Stivale. Così, in Piemonte la Corte dei conti ha appena denunziato il caso di un’addetta del 118, che tardava a chiamare l’ambulanza dovendo prima avvertire una società di carro attrezzi, dalla quale incassava percentuali per ogni segnalazione. A Messina 23 consiglieri comunali su 40 hanno imbastito una truffa sui gettoni di presenza. A Macerata s’aprirà un processo per corruzione attorno ai chioschi del cimitero. Insomma, nemmeno i morti possono restare immacolati. D’altronde in Italia un appalto su tre viene assegnato in modo irregolare, dichiara la Guardia di finanza nel suo ultimo rapporto. Per Transparency International siamo penultimi in Europa (solo la Bulgaria sta peggio) nella classifica dei brogli. E la corruzione affonda la nostra economia, come ha osservato Sergio Rizzo sul Corriere (12 marzo). La domanda è: ma quale linfa nutre il malaffare? Per rispondere, dobbiamo esaminare le risposte dettate fino ad oggi, giacché evidentemente si sono rivelate fallaci. Una su tutte: l’inasprimento delle pene. Nel 2012 la legge n. 190 ha ridisegnato il quadro delle misure repressive, introducendo nuove fattispecie di reato. Nel 2015 la legge n. 69 è andata ancora oltre, contemplando 10 o anche 20 anni di carcere per i corrotti. Potremmo spingerci fino alla pena dell’ergastolo, potremmo stabilire la lapidazione in piazza, ma non è questa la cura. Nessuna cura sarà mai efficace se si limita ad asportare la pustola infetta, senza aggredire l’organismo che propaga l’infezione. Quell’organismo è il nostro ordinamento normativo, costellato da 40 mila leggi e 80 mila regolamenti, da una folla di regolette e codicilli che spesso si contraddicono a vicenda. Sgorga da qui l’insicurezza che accompagna i nostri passi quotidiani, ed è l’incertezza del diritto a generare l’arbitrio delle burocrazie, ed è questo potere dispotico e indomabile la prima fonte della corruzione. Corruptissima republica, plurimae leges, diceva Tacito. Perché il troppo diritto offusca la cultura dei diritti, convertendoli in favori, chiesti e ricevuti in cambio di qualche banconota. È esattamente questo il ruolo del corrotto: nella maggioranza dei casi, lui è un facilitatore, t’aiuta a esercitare i tuoi diritti, che altrimenti resterebbero infecondi. Ma il facilitatore, nel suo turpe mestiere, viene facilitato a propria volta dalla solitudine in cui siamo stati risucchiati, dalla crisi dei corpi intermedi (partiti, sindacati) che una volta ci venivano in soccorso, dall’allentamento dei vincoli comunitari, del senso d’appartenenza a un popolo, a un destino collettivo. Sicché è questa solitudine che adesso si tratta di curare. Restaurando un clima, un ambiente legale e morale in cui ciascuno possa incamminarsi senza temere un’imboscata. Ma per riuscirci serve una legge in meno, non una legge in più.

Burocrazia tra diritto, politica e corruzione. Autore Romano Bettini. Argomenti: Scienza e teoria politica - Politica, società italiana - Diritto, giustizia - Sociologia giuridica e della devianza, pp. 192,   figg. 25,     6a edizione  1999. Presentazione del volume. Per l'Autore è da rivedere il luogo comune del circolo vizioso burocratico, proposto e riproposto da vari sociologi, critici rispetto all'idealtipo burocratico weberiano, ed occorre allargare l'orizzonte della critica alle patologie burocratiche, prendendo atto che il fenomeno burocratico è sovrastato da un ben più devastante circolo vizioso politico e legislativo. Di quest'ultimo è protagonista-artefice non il burocrate ma il dirigente politico della Pubblica Amministrazione, alla ricerca di un alibi legislativo dietro cui mimetizzare la sua irresponsabilità gestionale. Ricerche empiriche dimostrano infatti, contro ogni supposizione, che la sua indifferenza alla gestione amministrativa è addirittura più consistente della sua interferenza e della sua corruzione, qui esaminata analiticamente attraverso statistiche giudiziarie. Le conclusioni dell'Autore sono nel senso di rivedere la qualità delle leggi, coinvolgendo nella loro redazione le scienze sociali empiriche ad evitare le leggi risacca, e cioè le leggi di riforma della Pubblica Amministrazione reiterate senza successo solo come strumento di legittimazione di facciata; e le leggi manifesto, cioè le leggi prive di copertura organizzativo-amministrativa, che la burocrazia non è messa in grado, fin dall'inizio, di attuare soddisfacentemente, pur essendone poi additata - tradizionale capro espiatorio - come il sabotatore. Non manca una critica serrata alla c.d. privatizzazione del pubblico impiego, ambigua "trovata" politica per tentare di recuperare legittimazione a fronte delle difficoltà finanziarie connesse alle manovre del "rientro". Come non manca l'analisi delle prospettive di un più diretto controllo, sulla dirigenza politica, di carattere amministrativo e giurisdizionale, volto a responsabilizzarla a quel ruolo di indirizzo e supervisione, finora disatteso nonostante le prescrizioni legislative, dal cui mancato rispetto derivano inefficienze, danni, disorientamento degli apparati. Si profila così anche l'importanza di una estensione alla dirigenza politica di quei codici di comportamento che si pretende vigano soltanto per la burocrazia.

Romano Bettini insegna Sociologia del Diritto alla Facoltà di Sociologia dell'Università «La Sapienza» di Roma, e Scienza dell'amministrazione alla Scuola superiore della Pubblica Amministrazione. Tra le sue principali più recenti pubblicazioni: Il circolo vizioso legislativo (Angeli, Milano, 1983); Informale e sommerso (Angeli, Milano, 1987); Legislazione e politiche in Italia (Angeli, Milano, 1990); L'Urss nell'era di Gorbaciov, con prefazione di V. Strada (ed. Europa, Roma, 1991); Processi legislativi e teoria generale della funzione del diritto, in collaborazione con S. Bobotov (ed. Bentham, Roma, 1994); Istituzioni e società in Russia tra mutamento e conservazione (Angeli, Milano, 1996); Sociologia del diritto positivo (Angeli, Milano, 1998). Indice.

Parte I - Dalla legittimità all'efficienza. La questione dell'efficienza pubblica. (Introduzione ad una ricognizione delle tematiche in materia di efficienza pubblica; L'efficienza pubblica in Italia Aspetti contingenti ed aspetti "costanti"; Le spiegazioni del "paradosso" italiano. I "rimedi"; Una più matura e diffusa cultura organizzativo-amministrativa come fattore trasversale, condicio sine qua non del successo di qualsiasi "rimedio").

La questione dei controlli. (50 anni di "riforma amministrativa" in Italia alla ricerca della variabile strategica. Le "leggi risacca"; Il circolo vizioso politico ovvero la questione dei controlli pubblici come variabile dipendente della razionalizzazione della politica; Due culture ed una teoria unitaria del controllo pubblico a livelli differenti (interno, esterno, parlamentare); La crisi del controllo degli apparati pubblici alla fine del XX secolo. La questione del controllo interno; Alla ricerca dei circoli virtuosi. Addio alla giurisdizione? Un nuovo magistrato contabile; Le esigenze conoscitive nel nuovo capitolo della storia della Corte dei Conti; Cattedrali nel deserto dei controlli?; L'espansione della nozione di "amministrazione"; Generalizzazione ed individualizzazione del ricorso agli indicatori economico-organizzativi; La responsabilità per danno (patrimoniale) da inefficienza) 

Appendice. Il teorema della copertura organizzativo-amministrativa delle leggi.

Parte II - Patologie burocratiche o patologie politiche? Il dirigente politico come free-rider tra alibi legislativo e indifferenza/interferenza. (ritorno al primato della politica: potere legal-razionale e teoria unitaria del comportamento amministrativo; La cultura del "capro espiatorio" burocratico: l'"alibi legislativo" come schermo della "interferenza/indifferenza" della direzione politica della PA; Il quadro comparato delle inefficienze e della corruzione del sistema politico-amministrativo italiano; Dati sull'interferenza/indifferenza della dirigenza politica nella PA italiana; Gli scenari eziologici: l'enfasi politologica sull'alternanza di governo, le riflessioni costituzionalistiche sull'instabilità governativa, lo schema del determinismo ambientale, il giustificazionismo della prassi tangentizia ed elettoralistica; Disfunzioni politiche della PA e modelli di analisi dagli studi organizzativi: massimizzazione dei bilanci, scatole nere, transazioni, razionalità limitata, separazione controllo/gestione; Un idealtipo negativo? Profili storiografici e metanazionali del circolo vizioso politico-legislativo; Patologie trascurate e ipocrisie istituzionali: le vicende del comportamento amministrativo come vicende giuridiche tra lotta politica, mutamento culturale e sviluppo socio-economico). La corruzione politico-amministrativa (1975-1996). (Inefficienza o corruzione?; Il sommerso illegale in Italia: la corruzione politico-amministrativa come fenomeno contingente in costanza di inefficienza strutturale della PA; Complementarità tra inefficienza amministrativa e corruzione pubblica?; I soggetti attivi dell'emersione: magistrature tra tolleranza, carenza di copertura amministrativa, burocratizzazione; Dal sommerso all'emerso: l'andamento delle condanne per reati contro la PA dal 1975 al 1994; Gli attori sociali della corruzione pubblica: vittime e responsabili (imprenditori, burocrati, politici-legislatori, politici-amministratori); Verso una "riforma" della classe di governo come via italiana all'efficienza pubblica).

Parte III - Le politiche amministrative. Leggi risacca e politiche monoculturali. La politica amministrativa italiana all'inizio degli anni '90. (Quale "razionalizzazione"? Parametri metagiuridici di valutazione delle politiche amministrative tra prognosi scientifica e riscontro empirico dei risultati; Analisi delle politiche e politica amministrativa. L'analisi della politica amministrativa come compito epistemologicamente privilegiato della Scienza dell'Amministrazione; Tre "leggi bronzee" (di tendenza) delle politiche amministrative: la mancata verifica degli esiti delle riforme, la riduzione arbitraria delle spese in caso di "crisi fiscale", e la minore giustiziabilità delle norme amministrative rispetto a quelle penali e civili; Le quattro variabili nazionali del caso italiano: il contrastato progredire della cultura dei risultati rispetto alla cultura giuridica, l'ineffettività delle norme sull'efficienza, l'efficacia e l'economicità della PA, la corruzione politico-amministrativa, l'infima efficienza comparata sul piano comunitario; Politica amministrativa e progettazione legislativa pluriculturale. Il ricorso alle scienze sociali). Politica amministrativa e cultura amministrativa in Italia; privatizzare il pubblico impiego o reinventare il governo? 

(Due burocrazie statali nella riforma del 1993? Retorica e ricerca; Pubblica amministrazione e analisi delle politiche amministrative; La "privatizzazione" italiana del pubblico impiego; L'insegnamento del "managerismo" (incompiuto) del nuovo Civil Service britannico; Due questioni cruciali delle riforme amministrative di fine secolo: quella dell'efficienza della PA e quella dell'immunità della direzione politica dell'Amministrazione pubblica; Implementazione senza direzione politica ed ipervalutazione delle riforme legislative. Dal goals displacement al reforms displacement; Indicazioni empiriche in tema di "organizzazione" degli apparati pubblici e ruolo della direzione politica).

Conclusioni. Legiferare senza gestire: la direzione politica della PA e l'alibi della sua iniziativa legislativa. Reinventare il Governo secondo una nozione unitaria di Amministrazione

Appendice statistica. Condanne per delitti contro la PA (dal 1975 al 1994) e per responsabilità amministrativa (dal 1994 al 1996)).

«Corruzione, più che al malaffare ormai si dà la caccia agli imprenditori». Parla il professore Gianluca Maria Esposito direttore scientifico Scuola su “Anticorruzione e appalti nella pubblica amministrazione” dell’università di Salerno. Intervista di Giovanni M. Jacobazzi del 23 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Materia talmente nuova da essere oggetto di studio. Universitario. Il Codice degli appalti, più correttamente Codice dei contratti pubblici, è al centro di continue discussioni, a volte di critiche, tra i cosiddetti “stakeholders” del settore, ed è il cuore dei programmi della Scuola su “Anticorruzione e appalti nella pubblica amministrazione” attivata dall’università di Salerno. Un percorso formativo di cui il professore Gianluca Maria Esposito, ordinario di Diritto amministrativo, è il direttore scientifico.

Professore, il Paese ha un drammatico bisogno di infrastrutture. Da anni, però, le grandi opere pubbliche sono ferme al palo. Fra i “responsabili” di questo stallo, sostengono alcuni diretti interessati, costruttori in testa, sarebbe il Codice degli appalti, che avrebbe reso alquanto difficili le procedure di affidamento dei lavori. Che cosa può dirci?

«Il Codice attuale è stato approvato in due mesi nel 2016. L’Italia doveva recepire tre direttive europee varate nel 2014. L’Europa negli anni ha prodotto molti atti al riguardo e la legislazione nazionale si è sempre adeguata, ma non sempre ha scelto soluzioni brillanti nel recepire il diritto comunitario. Anche nel 2016 è stata giusta l’idea di razionalizzare la normativa allora vigente, troppo frammentata. Forse, però, andava ponderato meglio lo schema interno di Codice».

Il precedente Codice, approvato nel 2006, aveva subito oltre cinquanta modifiche…

«Esatto.

E perché dopo due anni l’attuale Codice è finito comunque sul banco degli imputati?

«Che potesse risolvere tutti i problemi era pura utopia. Ma che li affrontasse in modo in parte diverso, probabilmente, era auspicabile. Non è un caso che in due anni è già stato riformato sostanzialmente, e ben due volte, l’assetto iniziale».

Può dirci, in estrema sintesi, quali sarebbero i punti di criticità?

«Prima bisogna fare una premessa: la materia è estremamente complessa. Parlo delle procedure ad evidenza pubblica, cioè quelle che lo Stato avvia per aggiudicare i contratti pubblici al privato. Sono procedimenti che devono svolgersi nel rigoroso rispetto della par condicio e dalla trasparenza. Ma devono anche funzionare, cioè devono concludersi non solo con un’aggiudicazione, ma anche con la realizzazione di un’opera o un servizio: è questa la finalità prima e ultima di una gara appalto. Il problema è che l’attenzione è stata principalmente focalizzata sulla lotta alla corruzione, corretta- mente per carità, ma meno sugli obiettivi infrastrutturali del Paese, che invece avrebbero richiesto una pianificazione organica delle opere, specie quelle strategiche, e della spesa».

Non esisteva a tal proposito la “legge obiettivo”, la 443 del 2001, varata dall’allora ministro Lunardi?

«Era una legge utile, che il nuovo Codice ha però abrogato. Serviva a rendere maggiormente organici i lavori pubblici, specie quelli di interesse strategico o nazionale, a monitorare e differenziare gli interventi in funzione del loro valore e della loro urgenza, penso alla sicurezza».

Motivo dell’abrogazione?

«La lotta alla corruzione. C’erano stati episodi corruttivi. Soltanto che abolendo questa legge si è buttato il bambino con l’acqua sporca».

Può farci qualche esempio?

«Il nuovo Codice è composto di 220 articoli, che rimandano a regole di secondo grado, definite linee guida. Sono strumenti flessibili che rispondono alla logica della soft law. Ancora oggi, però, a più di due anni dell’approvazione del Codice, non tutte le linee guida sono state emanate. Penso al “rating di legalità”, un meccanismo che, quando sarà operativo, premierà le imprese che operano in conformità alla legge. Il problema generale è perciò l’incertezza del quadro regolatorio, che per gli operatori economici, e per il mercato, è parametro irrinunciabile. Prima c’era un regolamento unico, il 207/ 2010, che peraltro è ancora in vigore in attesa della piena attuazione del Codice del 2016. Oggi ci sono troppe fonti di troppi soggetti, Anac, ministero delle Infrastrutture e via dicendo».

Chiaro.

«Gli appalti hanno un impatto economico pari a quasi il 15% del pil. Se le norme non funzionano è un problema serio perché la spesa non parte e non si genera occupazione».

Ma ci saranno pure aspetti positivi, nel nuovo Codice.

«Beh, certo. Penso alla qualificazione e razionalizzazione delle stazioni appaltanti, che erano oltre trentamila, un terzo solo al Sud. Penso anche allo stop a varianti in corso d’opera, fondamentale per contenere la spesa. Certo bisogna considerare che esistono appalti da 1 milione ed appalti da 100 milioni di euro, e la flessibilità in parte va garantita, senza abusi. Penso all’albo dei commissari esterni, che assicura l’imparzialità. Detto ciò va spostata l’attenzione sui tempi e sui risultati, forse questo è il tallone di Achille di questo Codice».

E poi c’è il tema della vigilanza. L’Anac è la soluzione?

«Se affidi un’opera poi come Stato devi vigilare. Qui c’è confusione: troppa burocrazia non significa qualità dell’amministrazione pubblica o efficienza dei controlli. Detto ciò all’Anac sono stati attribuiti compiti per certi aspetti eccessivi, anche in sovrapposizione alle competenze di altri poteri dello Stato, co- me la magistratura. Questo sovraccarico crea smagliature del sistema e ne depotenzia la missione finale, perché non è che uno può fare il lavoro di tutti».

Ma l’Anac vigila o no?

«Fa quel che può. L’Anac concentra un potere per certi versi assoluto. Detta le regole, vigila sulla loro osservanza, irroga le sanzioni. Mi pare un po’ troppo. Soprattutto contrasta con il principio della separazione dei poteri. La conseguenza, comunque, è che l’Anac riceve ogni giorno tantissime segnalazioni e denunce, che non riesce ad evadere in tempi ragionevoli, inevitabilmente».

Il dato di fondo è che il Paese non cresce e le opere pubbliche non si realizzano per paura di imbattersi in qualche procedimento penale.

«È vero. L’imprenditore oggi cammina su un sentiero insidioso e pieno di rischi. Il rischio d’impresa in un certo senso è stato stravolto ed esteso al punto tale che oggi è insostenibile: penso anche al rischio di finire indagato, il che anche quando si risolve in una archiviazione o un’assoluzione, non è che frattanto non produca danni, talora irreparabili, all’impresa. La causa va ricercata anche nelle norme, che oggi sono troppe e spesso contraddittorie».

Siamo il Paese del controllo formale, del nulla osta e della burocrazia, che generano tempi morti per l’economia e per le imprese.

«Mentre invece ci sarebbe bisogno di una maggiore deregulation, accelerando e schiarendo il processo decisionale. Senza contare che esistono troppe strutture amministrative che si sovrappongono. Un apparato elefantiaco dal centro alla periferia che non aiuta e, mi passi la provocazione, agevola paradossalmente la corruzione».

Dopo la tragedia di Genova abbiamo scoperto che le concessione autostradali sono coperte dal segreto. È possibile?

«È fuori da ogni principio. Il segreto di Stato ha altre finalità. Queste concessioni devono essere contraddistinte dal principio di trasparenza e pubblicità. Con la totale accessibilità dei documenti, la cui mancanza invece rende opaca questa vicenda».

In conclusione urge una reazione seria da parte dello Stato?

«Assolutamente. Una rivoluzione vera, non solo sulla carta. Non dobbiamo demonizzare il privato, ma lo Stato deve riappropriarsi di alcuni funzioni. A partire dalla vigilanza e dal controllo».

Il cancro d’Italia che la sta uccidendo: le collusioni tra mafia, politica e imprenditoria, scrive Vincenzo Musacchio, Giurista, docente di diritto penale e direttore della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise, il 14 Settembre 2015 su "La Voce di New York". Le nuove mafie non usano più metodi violenti ma si servono della corruzione per snaturare l'economia e la finanza, sottraendo ingenti risorse destinate al bene comune. Si deve subito impedire ai politici e ai burocrati di turno - attraverso una legislazione stringente e una rete di controlli effettiva ed efficace - di dare ai clan mafiosi la possibilità di gestire appalti e lavoro. L'attuale legislazione è insufficiente, serve una nuova rivoluzione culturale. In Italia solo nel 2014 sono scattate indagini di natura penale e ordinanze di custodia cautelare nei confronti di esponenti politici in quasi tutte le regioni. Sono stati sciolti oltre duecentocinquanta consigli comunali per presunte infiltrazioni mafiose e più di ottanta parlamentari dell’attuale legislatura sono indagati, imputati e condannati per reati di corruzione, finanziamento illecito ai partiti e per altri reati contro la pubblica amministrazione. Le collusioni tra politica, criminalità organizzata e imprenditoria sono attualmente gli aspetti più preoccupanti per il nostro Paese poiché mettono a rischio la stabilità delle istituzioni democratiche. Le nuove mafie, oggi, non usano più metodi violenti ma si servono della corruzione per alterare i normali processi della politica, minare la credibilità delle istituzioni, inquinare gravemente l'ambiente e snaturare l'economia e la finanza, sottraendo ingenti risorse destinate al bene comune, sgretolando il senso civico e la cultura solidaristica del nostro Paese. La simbiosi tra mafie, politica ed economia attualmente è presente in molti settori produttivi nazionali con grande prevalenza nel settore degli appalti pubblici e delle pubbliche sovvenzioni statali ed europee. I predetti legami servono alle mafie soprattutto per condizionare le scelte degli amministratori che sovrintendono le procedure pubbliche, instaurando in tal modo un circuito per lo scambio di favori illeciti. La politica, da un lato, garantisce affari e profitti alla criminalità organizzata, dall’altro, quest’ultima assicura la disponibilità di voti necessari per essere eletti ai politici collusi. Mafia e politica, sotto questo profilo, si sostengono e si garantiscono a vicenda. Il terreno d’incontro è la corruzione e il profitto economico. Per i mafiosi, le enormi quantità di denaro a disposizione costituiscono anche il mezzo per accedere nella cabina di regia degli enti dello Stato sia a livello centrale che periferico allo scopo di eliminare la possibile concorrenza alle loro imprese e agire in regime di monopolio. In questo contesto, molto preoccupante, occorre domandarsi cosa si può fare per arginare queste situazioni criminose? Una delle azioni da concretizzare, senza tentennamenti, è senza dubbio quella di impedire ai politici e ai burocrati di turno – attraverso una legislazione stringente e una rete di controlli effettiva ed efficace – di dare ai clan mafiosi la possibilità di gestire assunzioni, appalti e altri vantaggi che consentono loro di offrire ai cittadini possibilità di lavoro. E’ indispensabile fare in modo che per ottenere i propri diritti non si debba più ricorrere al mafioso, al politico o imprenditore colluso. Bisogna assolutamente sradicare la convinzione che la mafia garantisca lavoro. Una cosa difficile da realizzare, soprattutto nel Sud d’Italia, dove lo Stato latita da molto tempo. Dalla rottura dei legami mafie-politica-imprenditoria, a mio avviso, comincerà il vero cambiamento, ma, ciò è possibile solo a condizione che nel nostro Paese si comincino a lottare concretamente la criminalità organizzata, la corruzione, l’evasione fiscale e la mala politica. Da esperto della materia posso affermare che l’attuale legislazione è assolutamente insufficiente. La dimostrazione della nostra tesi, ad esempio, risiede nel fatto che l’Italia sia la Nazione più corrotta d’Europa e al tempo stesso quella in cui vi sono meno condanne per corruzione, concussione e abuso d’ufficio. Di certo il virus che sta uccidendo lentamente il nostro Stato in buona parte risiede nell’indebolimento delle norme di controllo, nel depotenziamento del sistema giudiziario e in una burocrazia ferma al secolo scorso priva di trasparenza e di economicità. E’ il mix tra corruzione politica, criminalità organizzata ed economia adulterata il vero cancro della nostra società e non si può continuare a parlare di onestà, di trasparenza e di efficienza in uno Stato che, di fatto, non vuole lottare questi fenomeni così aberranti. Il cittadino dovrebbe comprendere che mafiosi, politici e imprenditori perseguono il profitto fine a se stesso servendosi soprattutto di denaro pubblico, di cui non si riesce nemmeno a tracciare il percorso perché le norme sul riciclaggio sono inefficaci e quelle sull’autoriciclaggio inesistenti. Le confische patrimoniali, molto temute dai mafiosi, languono e anche questo è un aspetto a dir poco allarmante. In questo scenario catastrofico occorrerebbe una rivoluzione culturale che parta dai giovani sulla scorta di quanto accaduto in passato per combattere la mafia – penso alla “Primavera di Palermo” negli anni novanta – quando una moltitudine di cittadini ebbe il coraggio di scendere in piazza dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio per dire no alla mafia. Ecco occorre una nuova “Primavera di Palermo” ma questa volta senza i tanti morti ed estesa a tutta la Nazione per dire no alle mafie e alla corruzione. L’Italia si gioca una partita importantissima: o affronta i veri problemi che la attanagliano, e che ho descritto in precedenza, o sarà destinata al collasso totale. 

La corruzione è la nuova mafia? Scrive su "La Repubblica" il 14 agosto 2018 Alessandro Milone - Università Parthenope di Napoli, Dipartimento di Diritto Penale, relatore professore Alberto De Vita. La corruzione è senza dubbio uno dei fenomeni criminali che desta più allarme nella società civile italiana. Negli ultimi anni, infatti, il legislatore è intervenuto più volte per regolare la materia, sia tramite nuove norme penali di tipo repressivo, introducendo inedite figure di reato o aumentando il trattamento sanzionatorio, sia costruendo – anche sulla spinta di pressioni internazionali - un’efficace sistema di prevenzione della corruzione fondato sulla trasparenza amministrativa e sulla vigilanza nei contratti pubblici di cui pietra angolare è l’Autorità Nazionale Anticorruzione. La pervasività della corruzione, che si insinua nella pubblica amministrazione, nella politica, nel mondo delle imprese, e in quello delle realtà professionali, ha indotto numerosi commentatori ed attori della scena politica e giudiziaria nazionale a ritenere che essa sia equiparabile alla gravità del fenomeno mafioso. Delle similitudini fra i due fenomeni criminali sono innegabili: la corruzione, invero, al pari dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, è un virus endemico che infetta i gangli vitali dello Stato minando non soltanto l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione ma anche la concorrenza nel mercato e la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Non può tacersi, tuttavia, sulle differenze che intercorrono fra talune fenomenologie corruttive e quelle mafiose. Se un pubblico ufficiale è infedele o corrotto, rimane tale a seconda che svenda il proprio atto e la propria funzione ad un imprenditore-colletto bianco o ad un mafioso. Per utilizzare le parole di Franco Roberti, già Procuratore Nazionale Antimafia, “mafia e corruzione sono fenomeni diversi e distinti, ma hanno in comune la visione proprietaria e predatoria della cosa pubblica. Tanto il mafioso quanto il corruttore rubano a scapito della collettività”. In più, va ribadito con determinazione che, a prescindere dai poco attendibili indici statistici di misurazione dei fenomeni corruttivi, diffusi dai mezzi di comunicazione, l’Italia non è tanto più corrotto di altri paesi dell’Eurozona. D’altro canto, tuttavia non può ignorarsi che la corruzione rappresenti per l’Italia un nuovo veicolo per le mafie di agire, un’arma silente che desta meno allarme nella società e con difficoltà attira l’attenzione delle forze inquirenti. E' nata così una nuova mafia, per così dire “borghese”, che preferisce sostituire la violenza con l’accordo, l’intimidazione con le tangenti, l’uso delle armi con la corruzione, e che diventa il mezzo con cui le mafie conducono i propri affari. Attuale ed indicativa in tal senso è l’inchiesta della Procura di Roma su “Mafia Capitale”, un’organizzazione che – secondo l’accusa – sarebbe una mafia “originale ed originaria” attiva nel settore degli appalti e dedita alla corruzione. Come è noto, quindi, la corruzione è una fattispecie criminale oscura, difficile da portare alla luce, proprio per la natura stessa del pactum sceleris, in quanto si sostanzia in un accordo-contratto tra due o più attori protagonisti, senza vittime dirette. A causa della sua sistematicità, che il più delle volte sfocia in un più ampio quadro di maladministration, quindi, si è iniziato a pensare di poter debellare tale virus utilizzando gli stessi strumenti investigativi e processuali che il nostro ordinamento giuridico ha costruito per affrontare il fenomeno mafioso. Su questo punto – ovvero sull’estensione del cosiddetto doppio binario antimafia alle fattispecie di corruzione – gli interpreti del diritto si dividono in annosi dibattiti. Coloro che sostengono tale estensione di disciplina, valorizzando l’efficienza della medesima vorrebbero l’applicazione analogica, nel contrasto alle fattispecie corruttive, delle norme sui testimoni di giustizia, sul sistema premiale per i “pentiti”, della disciplina sulle intercettazioni, della presunzione semplice in materia cautelare e le disposizioni in materia di undercover agent. Dall’altro lato si pone parte della dottrina, la quale, in una prospettiva garantista, sostiene la necessità di non cedere, ancora una volta, alla legislazione d’emergenza. La lotta alla corruzione non può fondarsi solo su nuove leggi repressive, diminuendo le garanzie processuali ed attuando forme investigative sempre più invadenti. Si evidenzia come il sistema “doppio binario” sia stato creato per essere un sistema speciale e temporaneo finalizzato esclusivamente ai reati di mafia. Estenderlo, sotto spinte giustizialiste, anche ai reati di corruzione – e quindi potenzialmente a tutti i cittadini - creerebbe un vulnus costituzionale insanabile. In conclusione, una soluzione andrebbe trovata mediando tra le due anime estreme e valutando caso per caso quali istituti possano essere ripresi anche per la lotta alla corruzione, senza sacrificare i valori di garanzia della nostra Carta Costituzionale. In tal senso, l’introduzione di misure come, per esempio, quelle in materia di “daspo” per gli autori di fattispecie corruttive ovvero l’estensione dell’utilizzo di agenti sotto copertura, potrebbero essere condivisibili. La lotta alla mafia ed alla corruzione in realtà non possono essere solamente affidate alla materia penale e al sistema sanzionatorio ma vanno concretizzate anche su un piano politico, culturale, sociale ed economico attraverso un completo risanamento delle istituzioni e del mercato. La cultura della legalità non può che essere l’arma vincente e deve diventare una priorità dello Stato.

"Contro la corruzione ci vuole meno burocrazia, non più demagogia". Parla Cantone. “No alla cultura del sospetto e all’anti corruzione come brand. Sì a pene vere per chi pubblica materiale coperto da segreto”. “I partiti? Sono favorevole a un ripristino di un finanziamento pubblico intelligente”, dice il capo dell’Anac, scrive Claudio Cerasa il 15 Luglio 2017 su "Il Foglio". Contro la cultura del sospetto. Contro i metodi del processo mediatico. Contro l’incontinenza dei magistrati politici. Contro la demagogia sulle correnti della magistratura. Contro gli errori della legge Severino. Contro la patologia delle notizie in fuga dalle procure e poi regolarmente pubblicate su alcuni giornali. E soprattutto, e con Raffaele Cantone cominciamo proprio da qui, contro chi prova a trasformare la lotta alla corruzione in una macchina di propaganda politica. “Sì, me ne rendo conto, e detto da me capisco che possa fare un certo effetto. Ma la realtà oggi è che in Italia la battaglia contro la corruzione è diventata un brand che tira molto, sia mediaticamente sia politicamente. Non credo affatto che i professionisti dell’anti corruzione siano allo stesso livello dei professionisti antimafia, i fenomeni sono troppo diversi per essere paragonati e tendo a diffidare di chi paragona la mafia alla corruzione, ma non c’è dubbio che su questo tema c’è qualcuno che ci specula. E lo dico con rammarico, con grande rammarico, perché è evidente che i cittadini considerano ancora oggi il problema della corruzione come un dramma. E non lo considerano tale solo per effetto di una martellante campagna di stampa che tende a descrivere un paese peggiore di quello che è. Ma lo fanno perché gli effetti della corruzione spesso vengono vissuti direttamente in prima persona, soprattutto quando un cittadino si ritrova a fare i conti con quelle amministrazioni pubbliche che affogano in un mix letale, in cui si combinano inefficienza disarmante, burocrazia infernale e sacche radicate di corruzione. I problemi esistono ma non vanno strumentalizzati né speculando politicamente sull’anticorruzione né dimenticandosi che la vera risposta che la politica deve dare ai cittadini è provare a fargli recuperare il rapporto di fiducia con le istituzioni, non dicendo che i populisti sbagliano tutto”. Siamo andati, due giorni fa, a fare due chiacchiere con Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anti corruzione, per provare a ragionare su alcuni temi importanti, che all’interno del dibattito pubblico si trovano a metà strada tra il mondo della politica e quello della magistratura. Uno spazio nel quale il numero uno dell’Anac si muove con decisione ormai da tre anni e in quello spazio oggi esistono molti argomenti sui quali vale la pena fare alcune riflessioni. Il nostro ragionamento con Raffaele Cantone parte da una frase molto dura che il presidente dell’Anac ha utilizzato dieci giorni fa in Sicilia nel corso di un convegno organizzato all’Università di Palermo. Cantone, a pochi giorni dalla commemorazione dell’omicidio di Paolo Borsellino, ha ricordato che negli ultimi anni “molte persone si sono improvvisate paladini dell’antimafia e non c’è stata nessuna valutazione sul loro reale operato” e ha aggiunto che “l’antimafia è stata utilizzata più come un brand per propri fini personali, e questo si è verificato in Sicilia così come in altre regioni: bisogna interrogarsi, perché tutto questo finisce per creare disdoro all’antimafia vera”. Cantone si interroga, e si è interrogato, sulla figura dei professionisti dell’antimafia e in questa conversazione con il Foglio sceglie di parlare anche dei professionisti dell’anticorruzione. La premessa è quella che avete letto. Il ragionamento successivo comincia da qui. “Non c’è dubbio che la corruzione e quindi l’anticorruzione siano diventati nel nostro paese una sorta di criterio deformante attraverso il quale vedere tutto quello che accade nel paese. Ma oggi per fortuna non abbiamo un movimento anticorruzione paragonabile al movimento antimafia. L’anticorruzione tutto sommato è un argomento recente e se è giusto dire che è un errore osservare la corruzione come se fosse un pericolo generalmente incombente dietro il quale si nasconde ogni efferatezza che esiste nel nostro paese, bisogna anche dire che esagerazioni a parte la corruzione è ancora un grave problema del nostro paese”.

“Naturalmente occorre trovare la giusta misura tra chi, utilizzando i limitati numeri giudiziari, tende a dire che il problema non c’è e chi invece, utilizzando altri numeri, soprattutto quelli che vengono dagli indicatori internazionali, dice che qui è tutta corruzione. La verità è probabilmente nel mezzo, ma entrambi gli estremismi finiscono di fare danni”. Alcune settimane fa, ricordiamo a Cantone, il nuovo capo dell’Anm, Eugenio Albamonte, ha riconosciuto che sul tema della corruzione in Italia si rischia di pasticciare. “Quanto sia estesa la corruzione – ha detto Albamonte – è complicato dirlo. Così come è complicato dire se l’Italia sia un paese più corrotto degli altri. Non ci sono unità di misura, non è possibile dirlo. Non mi risulta ci siano dei metri per poterla misurare”. E’ davvero così, presidente? “Quando si parla di corruzione, le posizioni che partono solo dai dati numerici sono sbagliate, perché l’unico criterio oggettivo di determinazione della corruzione sono i processi. Il numero dei processi indica i fatti certamente identificati come corruzione ma non sono questi gli unici fatti di corruzione che esistono in un paese. La corruzione spesso si nasconde anche in casi macroscopici di appalti non fatti correttamente, nell’utilizzo di procedure non regolari, nell’abuso di proroghe sugli appalti, nell’eccesso di procedure negoziate, che non a caso a Roma, relativamente agli anni sui quali sta indagando la procura di Roma nell’ambito del processo Mafia Capitale, erano più del 90 per cento del totale. Quello che sappiamo oggi, e lo vediamo da molti indicatori, è che gli episodi accertati sono una quota minore di quelli che si verificano, visto che è impossibile scoprirli tutti. Il punto è capire quanto la quota di episodi accertati sia inferiore rispetto agli episodi che si verificano. Questo è il punto. Che ci sia uno iato tra corruzione scoperta e corruzione reale non lo nega nessuno. Il problema è capire quanto sia grande lo iato. Ho chiesto personalmente all’Ocse di provare a creare dei criteri internazionali, diversi da quelli della corruzione percepita, che ci consentano poi di fare una valutazione complessiva ma a oggi non si è ancora avviato questo processo. Credo sia arrivato il momento di fare finalmente chiarezza”.

Cosa intende Cantone quando dice che la vera risposta che la politica deve dare ai cittadini è provare a fargli recuperare il rapporto di fiducia con le istituzioni, “non dicendo che i populisti sbagliano tutto”? “La corruzione matura laddove vi è un’amministrazione che non funziona e la politica deve fare di tutto per combattere anche così la corruzione. Intervenire sulle pene non è sempre la soluzione giusta, anzi. E’ molto più efficace invece snellire la nostra burocrazia, rendere più trasparente l’amministrazione. La vera urgenza, oggi, è quella di avere una semplificazione normativa assoluta. Noi continuiamo a legiferare tantissimo e malissimo. Le norme sono difficilissime perfino da reperire e sono complicatissime da studiare e da leggere. Il cittadino dovrebbe, in uno stato democratico, non dico di fare a meno di chi interpreta le norme ma almeno capire almeno quali sono i suoi diritti e doveri. Sarebbe importante, per esempio, fare una commissione di semplificazione normativa permanente, fatta da tecnici che studiano le norme e caso per caso sottopongono al parlamento una soppressione da un lato delle norme inutili, dall’altro una sistemazione del quadro normativo – evitando magari di fare gli errori fatti con i falò in cui si eliminavano norme senza senso. La commissione dovrebbe portare a un miglioramento anche della qualità: dovrebbero esserci dei soggetti che operano un controllo della legislazione in modo da individuare sistematicamente le patologie e creare una sistemazione della legislazione. Potrebbe servire questo ma potrebbe servire anche dell’altro. Per esempio una buona legge sulle lobby. Per esempio una buona legge sul finanziamento pubblico ai partiti”. Il presidente dell’Anac consiglia di rintrodurre il finanziamento pubblico? “Esattamente. Personalmente non sono contrario a un ripristino di un finanziamento pubblico intelligente, in cui ci sia la rendicontazione precisa di tutto. E quando dico di tutto non intendo solo in entrata ma anche in uscita: nella vicenda Lusi, per esempio, i soldi sono stati ricevuti regolarmente, ma poi sono stati spesi senza che nessuno controllasse. Sarebbe preferibile un finanziamento pubblico ben regolato che un finanziamento pubblico surrettizio e non ben regolato come quello che avviene a volte attraverso le fondazioni. E sarebbe preferibile che la politica una volta per tutte fosse disposta a prendere un’iniziativa che l’Italia aspetta da anni: una buona legge sui partiti che stabilisca chiari e semplici criteri di accesso, e che impedisca di fare politica senza essere trasparenti fino in fondo”. “Pm e politica? Serve più continenza”. Sta dicendo che per regolare l’accesso in politica non è sufficiente la legge Severino? “Naturalmente no. La legge Severino stabilisce chi non può candidarsi non chi può”. Crede sia una legge giusta o crede sia una legge da modificare? “Io condivido molto l’impianto, ma non il 100 per cento. Chi rappresenta il popolo deve avere criteri di moralità e di eticità diversi dal cittadino comune. Non è la stessa cosa diventare impiegato comunale o parlamentare” . Cosa non la convince della legge Severino? “Possiamo discutere, si dovrebbe discutere, su quali sono le tipologie di reato, quali le ipotesi di condanna che possono far scattare o meno la sospensione. Oggi alcune forse sono un po’ troppo severe, altre poco chiare. La condanna in primo grado per abuso d’ufficio rischia di essere eccessiva ai fini della sospensione che tra l’altro riguarda solo alcuni e non tutti gli altri”. La Legge Severino, dice Cantone, andrebbe modificata: "Bisogna ragionare su quali sono le ipotesi di condanna che possono far scattare o meno la sospensione. Oggi alcune forse sono un po' troppo severe, altre poco chiare. La condanna in primo grado per abuso d'ufficio rischia di essere eccessiva". Presidente Cantone, che impressione le ha fatto leggere in questi giorni che un magistrato importante come Nino Di Matteo lasci intendere di essere disposto a scendere in campo con una parte politica?  “Non mi sento di dare una critica a 360 gradi, limitare il diritto di elettorato passivo è pericoloso per la democrazia. Il punto è regolare il diritto all’elettorato passivo. In una democrazia la rappresentanza in Parlamento deve essere il più ampia possibile, però ci sono le situazioni delicate e invece sembra che le situazioni delicate non vengono mai trattate dal punto di vista normativo. Più che parlare di Di Matteo vorrei lanciare un messaggio: perché non è ancora stata fatta una legge seria sui criteri per accedere all’elettorato passivo? Perché si critica solo il magistrato quando si candida ma non si fa niente per risolvere il problema? Poi, certo, io credo che ci sia sempre un criterio di continenza che andrebbe rispetto ma detto questo la posizione di Di Matteo non mi sembra scandalosa”. Presidente Cantone, non trova preoccupante che un magistrato dica, come ha fatto Di Matteo, che l’impegno di un pm in politica ha un senso “soprattutto se questo significasse la naturale prosecuzione del lavoro svolto con la toga addosso”? “Provi a guardare il ragionamento di Di Matteo dall’altro lato. Se nella magistratura c’è oggettivamente un impegno di tipo morale, etico e sociale, e tu hai esercitato un impegno per la tutela della legalità facendo applicare le norme, io credo che si possa usare questo impegno anche altrove. Questo meccanismo serve, se lei ci pensa, a superare l’idea sacerdotale della magistratura. Se lei guarda il ragionamento di Di Matteo dall’altro lato è la prova che non è vero che gli unici moralizzatori del paese devono essere i magistrati”. A voler restare ancora nello spazio a cavallo tra politica e magistratura c’è un altro tema che non si può non affrontare in questa fase storica del nostro paese: il caso Consip. Il caso Consip, facciamo notare al capo dell’Anac, è diventato qualcosa di più di un’indagine su alcuni sospetti di corruzione: è diventata un’indagine su un certo modo di condurre le indagini. Cantone, napoletano, conosce bene la procura di Napoli, oggetto di un’indagine incrociata che parte dal Csm e arriva fino alla procura di Roma, ed è convinto che questa vicenda, in un senso o in un altro, “farà scuola per l’importanza che ha assunto e sarà un precedente per orientare futuri comportamenti di tutti gli attori processuali”.

Il presidente dell’Anac dice che “la procura di Roma si è trovata dinanzi a una serie di contestazioni di fatto e sta svolgendo un’indagine corretta, doverosa, anche sul comportamento delle forze di polizia e sulla regolarità dell’assunzione delle prove”. Ripete che “c’è un comportamento corretto nel dire che la procura vuole andare a verificare se le fonti di prova sono state correttamente acquisite, perché il dato non è solo formale” e dice che se le prove a carico di chi ha indagato a Napoli fossero confermate “ci sarebbe da preoccuparsi”. Ma poi, relativamente al caso delle manipolazioni contestate ad alcuni carabinieri del Noe, aggiunge un particolare in più, quasi a voler dire che non basta un sospetto per dimostrare un falso. “Ad oggi abbiamo solo un dato oggettivo, cioè che certe fonti di prova sono state riportate in modo diverso. Però per il falso non basta il dato oggettivo. Basta in sede di indagine, ma in sede di condanna c’è bisogno di capire che quel fatto oggettivo è stato volontario, e non negligente. Noi abbiamo per ora la prova che ci sono dei fatti che sono diversi da come sono stati dichiarati, ma non basta ai fini del falso. A questo punto laicamente dobbiamo attendere che cosa deciderà. Su questo fronte e anche sul resto. Anche sull’individuazione delle possibili fughe di notizie”. A proposito di fuga di notizie. Qualche settimana fa Nello Rossi, ex procuratore aggiunto di Roma, ha ricordato che l’unico modo per combattere la fuga di notizia è smetterla con questa carnevalata che esiste in Italia, dove sono previste pene risibili per chi pubblica notizie coperte da segreto. Il Foglio ha proposto qualche settimana fa di alzare le pene per i giornali che pubblicano notizie coperte da segreto. Che ne pensa Cantone? “Il tema delle pene diverse secondo me è un tema che si pone nell’ambito di una regolamentazione più ampia. Direi di sì alla vostra idea solo di fronte a qualche condizione. Prima di tutto che si faccia una selezione chiara di cosa è pubblicabile e di cosa è segreto. In secondo luogo che sia garantito l’accesso vero alle fonti di informazione da parte della stampa”. Una volta stabilito cos’è segreto e cosa non è segreto aumentare le pene potrebbe essere un disincentivo? “Assolutamente sì, senza esagerare può essere un disincentivo”. E a proposito di disincentivi, per tornare alla magistratura, non pensa che l’unico modo per risolvere il dramma delle correnti, che lei stesso ha definito “un cancro”, sia quello di rendere inutili le correnti trasformando il Csm in un organo eletto sulla base del sorteggio? “Non credo sia la soluzione giusta. Guardi, mi meraviglio – dice Cantone pensando alle recenti polemiche di Piercamillo Davigo sui criteri scelti dal Csm per fare le nomine – che chi fa una corrente sua dopo dica che le correnti non vanno bene, e francamente mi pare un po’ eccessivo. Ma io non penso che quando si parla di correnti nella magistratura la patologia vera corrisponde al ruolo che queste correnti hanno nelle scelte, per esempio, degli incarichi giudiziari. E’ inaccettabile che l’appartenenza a una corrente sia diventato nella pratica lo strumento chiave di gestione della vita della magistratura. Il sorteggio del Csm non mi convince per molte ragioni. Ma per una in particolare: finirebbe per dare per scontata l’idea che la magistratura non è in grado di eleggere i propri rappresentanti secondo criteri meritocratici”.

Presidente Cantone, tra pochi giorni verrà ricordato il venticinquesimo anno dall’omicidio di Paolo Borsellino, e regolarmente a ogni anniversario dalla sua morte c’è qualcuno, di solito qualche magistrato, che prova a trasformare una giornata dedicata al ricordo in una giornata dedicata alla ricerca di un consenso politico. “Spero che nessuno trasformi il ricordo in un’occasione per rilanciare una battaglia politica. Io penso che l’ultimo a volere una cosa del genere fosse proprio Borsellino, che era molto rigoroso sotto questo profilo. Quanto al resto mi piacerebbe però ricordare che sul caso Borsellino ci sono troppe verità che non sono state accertate. A venticinque anni di distanza, purtroppo, è un omicidio che ha molti punti ancora non chiariti, sia sulle causali, sia sui mandanti, sia sugli esecutori materiali, sia sugli elementi di prova scomparsi. Questo è un dato che va laicamente affermato. Eviterei di fare dietrologie ma eviterei di nascondermi dietro un dito: in quell’omicidio ci sono troppe cose che non tornano”. Venticinque anni fa moriva anche Giovanni Falcone. Quanto crede sia attuale oggi il pensiero di Falcone che considerava la cultura del sospetto non l’anticamera della verità ma l’anticamera del khomeinismo. “Purtroppo è ancora attuale. La cultura del sospetto è ancora forte in Italia. La cultura del sospetto intesa come stimolo a sviluppare degli accertamenti in sé non sarebbe male, il problema è che il sospetto trippe volte viene utilizzato per quello che non è: una verità, che prescinde dalle prove. E da questo punto di vista la cultura del sospetto è certamente, ancora oggi, un vero dramma del nostro paese”.

IO CORROMPO, TU RUBI, EGLI (S)PUTTANA.

Io corrompo, tu rubi, egli «escort»: ecco come cambia la corruzione, scrive Roberto Galullo il 28 ottobre 2016 su “Il Sole 24 ore". Deve essere perché la carne è debole e il portafoglio è gonfio se il sostantivo corruzione ha un sinonimo che, da neppure 10 anni, ha fatto irruzione nella vita sociale e politica. Già, perché se ancora vanno alla grande mazzette e bustarelle, viaggi e regali, assunzioni e promozioni, non c'è niente che vada più di moda di una bella escort – in lingua inglese, letteralmente, accompagnatrice, in italiano qualcosa di più – per piegare politici, dirigenti e funzionari pubblici o privati e persino giudici di gara a fini diversi da quelli per i quali, in teoria, dovrebbero prodigarsi. Bene pubblico, trasparenza, imparzialità e terzietà vanno a farsi benedire quando c'è di mezzo una bella figliola pronta a concedere le proprie grazie. Il conto, tanto, in un modo o nell'altro lo pagano i cittadini, mica i beneficiari. L'ultimo esempio arriva dall'indagine Arka di Noè della Procura di Genova sulla presunta corruzione nella realizzazione di alcune opere del cosiddetto Terzo Valico ferroviario che ha portato all'arresto anche di Giandomenico Monorchio, imprenditore 46enne figlio dell'ex Ragioniere di Stato Andrea e all'indagine su Giuseppe Lunardi, figlio dell'ex ministro dei Trasporti e delle infrastrutture Pietro. Tutti innocenti fino a eventuale sentenza di colpevolezza passata in giudicato. Sembra che le serate con le escort – come merce di scambio per la corruzione – per alcuni degli indagati andassero più forte del panettone a Natale. Talvolta gli incontri riuscivano, talaltra fallivano per impossibilità di trovare una figliola all'altezza della prestazione. Tanto – è il caso di dire – paga la ditta. Interessata, in questo caso, a ottenere i lavori corrompendo, secondo l'accusa, alcuni funzionari di un Consorzio e trovando anche il tempo di disquisire sul colore della pelle: «Senti io conosco due amiche mie brasiliane nere, ti piacciono brasiliane nere?». La risposta negativa – «Mi fanno schifo» – darà il tempo necessario per cambiare carnagione. Guardia di finanza / Operazione «Arka di Noe». Da Genova a Milano il viaggio è breve. Con o senza l'alta velocità ferroviaria. E così, nell'indagine Underground del 3 ottobre della Procura meneghina – costata il carcere a 11 persone e i domiciliari ad altri tre, accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di corruzione diretta all'acquisizione di subappalti di opere pubbliche realizzate in Lombardia, reati di natura fiscale, per presunta utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e indebite compensazioni e ancora truffa ai danni dello Stato, bancarotta fraudolenta, intestazione fittizia di beni e complessi societari e illecita concorrenza realizzata attraverso minaccia e violenza – si scopre che c'è chi, per accumulare appalti e lavori, è pronto a pagare in escort. La tariffa non sarebbe neppure così cara: 500 euro. Non è dato sapere, però, se all'ora o “a cottimo”. Senza tener conto delle indagini di alcuni anni fa a Roma e Milano sulle vere o presunte escort che giravano intorno a Servitori dello Stato, dirigenti pubblici, imprenditori e capi di governo, la svolta era già apparsa chiara nelle indagini tra il 2013 e il 2015 nel corso delle quali, tra le altre, le Procure di Palermo, Torino e ancora Genova e Milano (forse per una particolare predisposizione ai piaceri della vita che si respira in Liguria e Lombardia) hanno avuto il loro bel daffare per rincorrere la scia di profumo rilasciato dalle accompagnatrici nelle stanze di politici più o meno noti e burocrati più o meno grigi. In questo scenario ha le sue ragioni da spendere il criminologo e neuropsichiatria Francesco Bruno, docente di Criminologia e di psicopatologia forense all'università di Roma La Sapienza. Di fronte all'ormai massiccia regalia di prostitute di alto bordo a uomini d'affari e politici, già nel 2009 dichiarava che nel tempo «non c'è stato più bisogno della semplice meretrice come era ad esempio all'epoca delle case chiuse, ma si è iniziata ad avvertire l'esigenza di una donna che accompagnasse l'uomo d'affari nei viaggi. E dall'altro lato uomini molto timidi o al contrario assai spregiudicati, le hanno utilizzate per i loro interessi». Insomma, la società dell'immagine rinnova la sua immagine. Meglio se spregiudicata e di bella presenza. Certo che, se questo è vero, appare difficile mandar giù anche – come dire – le devianze. L'indagine Rent della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, questa settimana ha infatti portato alla luce un episodio che – se non fosse stato messo nero su bianco nel decreto di sequestro d'urgenza firmato dai pm della Dda Antonio De Bernardo e Luca Miceli – sarebbe degno di uno sceneggiatore cinematografico. Per carità, poca cosa rispetto a un'operazione che svela associazione di tipo mafioso, riciclaggio, estorsione, detenzione illecita di armi da fuoco, con l'aggravante del metodo mafioso e – ancora una volta – l'ombra della ‘ndrangheta sulle grandi opere e le grandi infrastrutture del nord. A partire da Expo. Uno degli indagati in Rent è appassionato di cani tanto da avere nel Bergamasco un allevamento di esemplari addestrati per la difesa e l'attacco. Secondo l'accusa avrebbe reclutato, per farla prostituire, una donna da lui stesso stipendiata grazie ad un rapporto di lavoro simulato con la società di cui era proprietario occulto. L'indagato, nel giugno 2015, l'avrebbe indotta a concedersi ad un giudice della gara canina “World Dog” tenuta a Milano 2015, così agevolando, favorendo e sfruttando il meretricio in cambio del vantaggio (anche economico) della vittoria di un proprio cane nella classifica finale della gara. Con l'aggravante di aver commesso il fatto per agevolare l'attività della cosca Coluccio di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria). Ah, come erano lontani i tempi della Prima Repubblica quando bastava solo scendere in pista e dimenarsi sulle note della disco music per richiamare a frotte ragazze “affamate di fama”.

Da Tangentopoli ai crac internazionali: ecco i suicidi eccellenti. Non hanno retto il peso di scandali finanziari e si sono tolti la vita. La storia della finanza italiana e internazionale annovera numerosi suicidi di manager, investitori e operatori finanziari. Con qualche giallo, scrive Vito Lops su "Il Sole 24 ore" il 7 marzo 2013.

1. Gabriele Cagliari (Eni) e il giallo del sacchetto di plastica. Siamo in piena mani pulite. Il presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari, viene arrestato con l'accusa di aver pagato tangenti. Contestato il suo ruolo nella valutazione di Enimont fatta dall'Eni in fase di acquisizione. Il 20 luglio 1993 viene ritrovato morto nelle docce del carcere di San Vittore, dove ha trascorso quattro mesi di carcerazione preventiva. Secondo la ricostruzione si è ucciso soffocandosi con un sacchetto di plastica. La vicenda presenta contorni pochi chiari. Sul corpo sono state trovate contusioni che gettano un'ombra di dubbio sul suicidio. Inoltre alcuni testimoni, fra poliziotti penitenziari e compagni di cella, hanno raccontato che il sacchetto era ancora gonfio quando è stato ritrovato. Lasciando il sospetto che fosse ancora in vita. Giallo anche sulle lettere che avrebbe spedito alla famiglia per giustificare il gesto, che sarebbero state ricevute dai famigliari circa due settimane prima della morte.

2. Raul Gardini e lo scandalo Tangentopoli. Sposato con la figlia di Serafino Ferruzzi, Raul Gardini acquisisce le deroghe operative dell'aziende dopo la morte di Ferruzzi in un incidente aereo. Negli anni Ottanta mette a segno la celebre scalata Montedison, dopo le spregiudicate manovre finanziarie dell'amministratore Mario Schimberni, con l'assenso si Enrico Cuccia. In seguito guida la fusione delle attività chimiche con Eni, fondando Enimont. Negli anni Novanta, in piena Tangentopoli (1992), Gardini – quando vengono alla luce le tangenti generate dalla vendita del 40% di Enimont – si toglie la vita. Viene trovato morto nella sua casa di Milano, il settecentesco palazzo Belgioioso, il 23 luglio del 1993, tre giorni dopo la morte del presidente dell'Eni Gabriele Cagliari.

C COME MAFIA DELLA CULTURA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CHI COMANDA IL MONDO” E “CULTUROPOLI” E “SCUOLOPOLI”.  Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Da Monica a Ruby: il sesso ne fa fuori più della politica. Bill Clinton, che ebbe una relazione con la stagista Monica Lewinsky, evitò l’impeachment di un soffio, ma il fattaccio lo costrinse a passare gli ultimi due anni del suo secondo mandato a occuparsi di gossip, scrive Paolo Delgado il 23 Agosto 2018 su "Il Dubbio".  Per i politici, e mica solo quelli italiani, il pericolo maggiore non arriva dai competitore e neppure dalla pur temibile corruzione. La rovina, spesso, è nascosta sotto il letto. Sta per saperne qualcosa Donald Trump. L’avvocato del presidente, Michael Cohen, si è confessato colpevole per otto capi d’accusa, tra cui l’aver versato dollari a una pornostar e a una coniglietta perché tacessero sulle loro avventure, appunto di letto, con l’allora soltanto plurimiliardario. Erano adulte e consenzienti, sia chiaro, ma l’America è quello che è e le corna possono costare la carriera. Su The Don si allunga così l’ombra lunga di Bill Clinton, che usò Casa Bianca per funzioni improprie e, apriti cielo, addirittura nello studio ovale insieme alla stagista Monica Lewinsky. Una storiella boccaccesca che costò al presidente parecchio. L’impeachment fu evitato di misura, ma il fattaccio lo costrinse a passare gli ultimi due anni del suo secondo mandato alle prese con le cronache dei suoi intimi rapporti con la ragazzona, seguiti con curiosità degna di assai miglior causa dall’opinione pubblica. In questi casi si suol dire che il problema non era la relazione per interposto sigaro ma la menzogna, avendo il primo cittadino inizialmente negato ogni addebito. E’ vero solo fino a un certo punto. La pruriginosità decuplica la valenza scandalosa del mendacio, eleva all’ennesima potenza l’interesse del pubblico guardone. Trasforma il fattarello in tsunami. Paragonato al campione italiano, Berlusconi Silvio, il bel Bill sem- bra uno studentello di scuola media. Il fattaccio italiano, a base di escort, registrazioni piratate nel talamo, eserciti di investigatori con l’occhio appizzato sul buco della serratura, procaci minorenni travestite da nipoti di Mubarak, è troppo noto e recente per doverlo ricapitola. Basti segnalare che se nel 2011 l’allora capo del governo italiano fu spazzato via a colpi di spread a indebolirne la posizione rendendogli la difesa impossibile erano state proprio le “cene eleganti” e i “lettoni di Putin”. Prima di Silvio il porcaccione il quadro della politica italiana sembrerebbe a prima vista somigliare a un convento. C’era stato il fattaccio Marrazzo, il governatore del Lazio la cui passione per i trans era degenerata in una storia nera alla James Ellroy sulla quale non è mai stata fatta piena luce e che comunque gli era costata la presidenza di Regione. A paragone, ad esempio, del Regno Unito, che quanto a scandali sessuo-politici è insuperabile, i politici italiani appaiono lo stesso come mirabili modelli di castità assoluta. Non che sia vero. E’ solo che da noi funziona alla grande il “si fa ma non si dice” e il peso politico delle relazioni adulterine si è sempre fatto pesare con la dovuta discrezione. Quando il temuto Mario Scelba, che dalla relazione extraconiugale con una signora romana aveva anche avuto una figlia segreta, si opponeva al centrosinistra vagheggiando addirittura una scissione della Dc, i servizi segreti dell’epoca fecero uscire su un periodico, senza didascalia, la foto del tostissimo Mario al bar con la signora. Scelba mangiò la foglia e si ritirò in buon ordine.

Lo scandalo Montesi negli anni ‘50 servì ad azzoppare una volta per tutte Attilio Piccioni, grazie al sospetto coinvolgimento del figlio, nella corsa all’eredità di De Gasperi. La relazione con la bella Sylva Koscina fu usata contro Tambroni. Le presunte e false licenziosità della signora Leone chiusero al consorte le porte del Quirinale nel 1964. La nota omosessualità sbarrò la via del Colle anche a Emilio Colombo, noto nella Dc, con Mariano Rumor e Fiorentino Sullo, come “le sorelle Bandiera”. Prima della voracità del Cavaliere, però, gli intrecci tra sesso e politica erano stati tenuti sempre nella penombra. Cose che sapevano tutti ma che non arrivavano mai alle prime pagine. Tutt’altra storia nel Regno Unito. Il primo scandalo di portata storica nel dopoguerra, fatta eccezione per il più complesso caso Montesi, scoppiò proprio lì, nel 1961. La relazione del ministro conservatore John Profumo con l’avvenente Christine Keeler non apparve solo come un caso d’adulterio. L’escort, come si direbbe oggi e non di diceva allora, era amante anche di un agente del Kgb e in tempi di guerra fredda il particolare aveva il suo peso. Profumo negò, poi ammise, alla fine lasciò la politica e travolse nel crollo anche il primo ministro McMillan. Andò malissimo, una trentina d’anni dopo, anche al ministro David Mellor, mentre l’amante, l’attricetta Antonia De Sancha, con la storiella piccante ci si fece ricca. In un’intervista dopo l’altra l’avvenente spagnola mise in piazza i gusti particolari del ministro. Il popolo venne così a sapere che per migliorare le prestazioni il promettente ministro usava indossare a letto la maglia del Chelsea e non passò inosservata la sua passione feticista per gli alluci. Mellor diventò da un giorno all’altro per il colto e per l’inclita “il succhiapollici” e la sua carriera affondò per sempre in quella melma. Qualcuno per la verità è riuscito a risalire la china: il futuro sindaco di Londra Boris Johnson. Nel 2004 la scoperta della sua tresca con una giornalista di Spector gli costò addirittura la cacciata con ignominia dal partito ma quattro anni dopo era di nuovo in pista. Non si è ripreso invece Dominique Strauss- Kahn, ex presidente dell’Fmi accusato e messo in manette nel 2011 a New York perché accusato di stupro da una cameriera dell’albergo in cui alloggiava. L’accusa si dimostrò infondata così come quella, alcuni anni dopo di aver partecipato a orge con un giro di prostituzione. Ma per Strauss- Kahn l’Eliseo era già svanito, anche perché i comportamenti estremi dell’uomo, riconosciuto responsabile di molestie già ai tempi della presidenza Fmi erano noti. La lista dei politici inciampati nel letto sarebbe lunghissima. Tanto da far ulteriormente risaltare l’eccezione: il presidente più amato d’America, JFK, la cui voracità non era seconda a quella di Strauss- Kahn o di Silvio Berlusconi e che comunque è riuscito a mantenere nel tempo l’immagine intatta in un Paese pronto a linciare o quasi un presidente come Clinton per un gioco erotico adolescenziale.

LA MAFIA DEL COPYRIGHT.

Quando i comunisti stanno dalla parte dei più forti.

Sciopero giornalisti Rai Sport. Ecco perché non c'è la telecronaca di Juventus-Torino (Oggi, 3 gennaio 2018). Sciopero dei giornalisti di Rai Sport, oggi 3 gennaio 2018: niente telecronaca di Juventus-Torino di Coppa Italia, no commenti sci e stop Tg sportivi per tutto il giorno. Ecco perchè, scrive il 3 gennaio 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Sciopero giornalisti Rai Sport: in questi minuti è in onda su Rai Uno la sfida tra Juventus e Torino, valida per i quarti di finale di Coppa Italia 2017/2018, diretta senza però la consueta telecronaca. I giornalisti infatti sono in rotta di collisione con la tv del Servizio Pubblico dopo le ‘sconfitte’ in termini di mercato e acquisizioni dei principali eventi sportivi. Non c’è Gianni Cerqueti, affiancato dalla seconda voce, ma il sottofondo dell’Allianz Arena. Una situazione che però non ha messo dispiacere nei telespettatori, anzi, come si evince dai commenti ironici sui social network: “Partita sulla @RaiSport senza telecronaca un sogno che si avvera! Sempre così grazie @RaiUno #juventusToro”, “Per uno sciopero Rai la partita di coppa è priva della telecronaca. Finalmente si potrà vedere una partita qualsiasi senza per forza sentire parlare della asroma dai faziosi giornalisti della tv di stato.”, “Ma quanto è bella la partita senza telecronaca? Ecco perché non c’è paragone tra stadio e TV”. (Agg. Massimo Balsamo)

NIENTE JUVENTUS-TORINO E TG. Per chi questa sera vorrà vedere Juventus-Torino quarti di finale di Coppa Italia, o assistere alle gare di sci o ancora sentire il notiziario sportivo sulla Rai lo farà con qualche difficoltà: per tutta la giornata infatti è stato indetto e confermato lo sciopero dei giornalisti di Rai Sport, in piena rotta di collisione con la tv del Servizio Pubblico dopo le recenti (e cocenti) sconfitte in termini di mercato e acquisizioni dei principali eventi sportivi dei prossimi mesi. Lo sciopero durerà tutto il giorno e dunque non andranno in onda nessun notiziario sportivo di Rai Sport (sia sui canali principali che sulla striscia quotidiana di Rai News24), le gare di sci andranno in onda senza alcun commento e soprattutto la telecronaca del derbyssimo di Coppa Italia tra Juve e Toro verrà mandata in onda senza la telecronaca, il commento tecnico e neanche gli studi pre e post partita. Insomma, nulla di nulla: il motivo? Di certo l’assegnazione dei diritti televisivi dei Mondiali in Russia 2018 (pur sempre senza l’Italia) andata a Mediaset in chiaro e la perdita totale della Formula 1 dal prossimo anno (a pieno appannaggio di Sky Sport) non hanno aiutato il già complicato rapporto tra Rai Sport e Via Mazzini. Da qui la protesta, con un botta e risposta assai velenoso che possiamo vedere qui sotto.

LA REPLICA DELLA RAI. Secondo il comunicato espresso da Vittorio di Trapani, Segretario Usigrai, lo sciopero è motivato sotto più punti di vista: «Ci scusiamo per il disagio. Ma è una protesta necessaria, per ribadire il diritto di voi cittadini che pagate il canone a poter assistere gratuitamente ai più importanti eventi sportivi. Che, infatti, registrano sempre straordinari risultati di ascolto. La Rai invece non trasmetterà in diretta tv alcuni grandi appuntamenti, come i mondiali di calcio. È la prima volta che accade. Ed è a rischio anche la Formula1. Tutto a beneficio della concorrenza privata». L’attacco è diretto contro l’azienda del Servizio Pubblico, in particolare lo stesso direttore di Rai Sport (ad oggi Gabriele Romagnoli, ndr) è messo sotto scacco. «L’azienda e il direttore di Rai Sport dunque fanno scelte di segno contrario, per di più spendendo soldi in costose collaborazioni e per acquistare prodotti da società esterne. Noi vogliamo una Rai Servizio Pubblico che trasmetta più sport, con sempre maggiore qualità. Riteniamo inaccettabile che ormai lo sport sia un privilegio dei pochi che possono permettersi un abbonamento alla pay tv. Vogliamo che – grazie alla Rai – lo sport sia di tutti e per tutti». Dura e diretta la replica dell’azienda di Via Mazzini che con un altro comunicato non comprende né giustifica le motivazioni addette dai giornalisti di Rai Sport che questa sera manderanno in “muto” il derby di Torino: «L’agitazione dei giornalisti di Rai Sport è incomprensibile perché ignora che la Rai investe sul prodotto Sport oltre 200 milioni di Euro l’anno. Con l’eliminazione dell’Italia la Rai non poteva sostenere ulteriori e ingenti investimenti dettati da sole ragioni commerciali; non è un caso che altri servizi pubblici di importanti paesi europei, pur con le loro nazionali qualificate alla fase finale, non trasmetteranno le partite dei Mondiali di Russia. Sorprende infine che, invece di valorizzare gli eventi di cui Rai detiene i diritti come la Coppa Italia, i giornalisti di Rai Sport abbiano deciso di privare i telespettatori del loro autorevole commento». 

Pirateria, la mafia dei ladri digitali che muove miliardi. Dimenticate il giovane hacker di una volta: oggi la copia di film, musica e sport è in mano a gang sofisticate, potenti e ipertecnologiche. Lo racconta l’affiliato di una banda che "lavora" su film e match di calcio: «Prima ero nella droga, ma questo settore è meno rischioso», scrive Emanuel Coen e Fabio Macaluso, scrive Emanuele Coen e Fabio Macaluso il 22 agosto 2018 su "L'Espresso". La pirateria digitale continua a prosperare, dopo che la riforma del copyright è stata rimandata a settembre dal Parlamento europeo, su pressione dei big di Internet e dei teorici della libertà della Rete. Alimentata da organizzazioni criminali sempre più potenti e ramificate, la pirateria è un flagello che colpisce duramente gli autori - scrittori, registi, musicisti - e l’industria della cultura: editori, produttori di materiali musicali, film e serie televisive. Di recente è stato calcolato da Ipsos per Fapav, la federazione contro la pirateria audiovisiva: il 37 per cento degli adulti italiani ha fruito illecitamente di film e serie tv nel 2017, con circa 631 milioni di atti di pirateria compiuti, cifra che non tiene conto del live streaming degli eventi sportivi e dell’accesso illegale ai contenuti televisivi attraverso appositi decoder. La relazione Baruffi del 2017, atto finale della commissione parlamentare d’inchiesta su contraffazione e pirateria della scorsa legislatura, ha evidenziato come in Italia ogni giorno le visioni abusive sopravanzano quelle legali. Come se in uno stadio da 80 mila posti, ben 50mila spettatori non pagassero il biglietto per vedere un concerto dei Radiohead. In assenza della riforma, dunque, continua a valere il principio dell’irresponsabilità degli operatori di internet e delle telecomunicazioni, sancito dalla direttiva europea sul commercio elettronico del 2000, secondo cui questi soggetti non hanno l’onere di verificare il traffico di informazioni sulle proprie infrastrutture. Si attiverebbero solo su segnalazione dei titolari dei contenuti d’autore per rimuovere quelli distribuiti illegalmente. Un sistema che non regge più, perché sono miliardi i prodotti creativi continuamente caricati in rete dai pirati e dal pubblico degli utilizzatori: solo su YouTube, ogni minuto sono postate circa quattrocento ore di contenuti audiovisivi. Per questo motivo, la nuova direttiva sul copyright prevede che operatori come Google o Facebook si dotino di strumenti automatici per controllare la circolazione dei contenuti protetti dal diritto d’autore. Il rinvio di questa soluzione, dunque, continua a far fiorire il business della pirateria, che in Italia vale almeno sei miliardi di euro all’anno - quasi la metà del fatturato del traffico degli stupefacenti, 14 miliardi di euro nel 2017 - a danno degli autori e dei prodotti culturali: musica, libri, giornali. Un modello complesso, articolato, basato su entrate di natura pubblicitaria - vale a dire motori di ricerca e siti pirata ospitano a pagamento i messaggi promozionali - accessi a pagamento ai siti e alle applicazioni illegali e gli introiti derivanti dalla vendita dei set-top-box illegali e dall’utilizzo abusivo delle pay tv. Un fiume di denaro, realizzato a danno dell’industria creativa. Nel silenzio generale, considerato che intorno a questo fenomeno non sembra esserci alcuna disapprovazione sociale, come denuncia Paolo Genovese, regista del film campione di incassi “Perfetti sconosciuti”. «In molti non si rendono conto della situazione, anche perché i siti pirata sono graficamente attraenti e ben organizzati. Addirittura catalogano i film per generi, paesi o registi e contengono le rispettive critiche. Meglio di Netflix, ma a costo zero. Un fatto devastante, perché a causa di questa perfetta apparenza non siamo in condizione di spiegare ai nostri figli che questi percorsi sono illeciti. È necessario il lavoro culturale e quello delle forze dell’ordine», riflette il regista.

STORIE CRIMINALI. Alcune storie raccontano bene questo fenomeno. Nella notte tra il 15 e il 16 maggio scorsi 150 uomini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza e forze di polizia svizzere, tedesche e spagnole, hanno smantellato un’organizzazione criminale che decriptava i segnali televisivi di Sky e Mediaset Premium per commercializzare il servizio ai “clienti” che vogliono vedere l’ultima serie del “Trono di Spade”. Una gang talmente efficiente, che la Procura di Roma nell’ordinanza di custodia cautelare ha scritto che essa detiene «una capacità organizzativa importante in grado di fornire servizi del tutto analoghi a quelli delle aziende lecite, dalle verifiche di fattibilità all’installazione del servizio, alla loro fornitura con standard adeguati fino all’assistenza tecnica alla clientela». Malavita organizzata, come affermato dalla guardia di finanza. Dopo alcune ricerche siamo riusciti a conversare con un affiliato, che ha dichiarato: «Prima lavoravo negli stupefacenti, ma non essendo giovane è diventato troppo rischioso. Sono un esattore, riscuoto gli abbonamenti dai clienti». E questi pagano soddisfatti le loro quote mensili. In Italia, secondo uno studio Doxa/Politecnico di Milano del 2017, vi sono almeno 800mila utilizzatori abituali di servizi televisivi illegali, ma, secondo Sky, la cifra si attesta intorno al milione e mezzo. In queste settimane ha fatto notizia anche un’ordinanza del Tribunale di Milano, che ha emanato un ordine nei confronti dei fornitori della connessione a internet, da Tim a Vodafone, per bloccare l’accesso a un sito che distribuiva illegalmente contenuti editoriali di Mondadori e automaticamente a tutti i siti “alias” a esso collegabili, messi a disposizione degli utenti dalla stessa organizzazione sotto altri nomi. Quel portale si era sfacciatamente dato una missione, scrivendo sul suo portale: «La battaglia contro di noi è persa in partenza. Il nostro sito rimane sempre online sotto qualsiasi nome, disegno e dominio. Oscurato un dominio ne facciamo 100mila al suo posto». Mentre in Italia i controlli risultano ancora sporadici, in Gran Bretagna qualcosa si muove. Per i contenuti sportivi, protetti dal copyright, la Premier League e i maggiori internet provider britannici hanno trovato un accordo, che è stato reso esecutivo dall’Alta Corte di Giustizia di Londra. Durante il corso delle partite che si disputano nella stagione, sistemi informatici intercettano i siti che permettono lo streaming illegale degli incontri, che vengono disattivati automaticamente attraverso il blocco degli indirizzi IP, l’etichetta numerica che identifica e rende operativi i siti internet. Questo ha consentito la chiusura di circa 6mila siti pirata in meno di un anno, con la soddisfazione della stessa British Telecom che ha investito centinaia di milioni di sterline per acquisire i diritti di trasmissione online delle gare calcistiche.

TECNOLOGIE AVANZATE. I pirati sono tecnologicamente avanzati e hanno fantasia: oltre i tradizionali portali “torrent” e “peer-to-peer,” sono operativi i “cyberlocker”, piattaforme nate per scopi legali - conservazione di dati in remoto e trasferimento di file - diventate successivamente un vero e proprio paradiso per i contraffattori. Vi sono i Cdn (“content delivery network”), sorti per la protezione dagli attacchi informatici e il miglioramento delle performance dei siti, quindi diventati il miglior strumento per mascherare l’identità degli amministratori di quelli pirata. In grande ascesa è lo “stream ripping”, vale a dire la sottrazione, attraverso siti o applicazioni dedicati, della musica dai video caricati sulle piattaforme come YouTube. E non ha flessioni il “camcording”, l’illecita registrazione audio o video di un film in sala, fenomeno che colpisce nove film su dieci. Inoltre, come spiega Luigi Smurra, colonnello della guardia di finanza, sono operative in luoghi segreti «le centrali “sorgenti”, dove sono installate apparecchiature informatiche per decriptare il segnale delle emittenti pay-tv, utilizzando schede regolarmente acquistate, per poi farlo confluire su server esteri appositamente noleggiati». E la lista è inesauribile perché i sistemi illegali si adeguano all’avanzamento tecnologico.

ARMI SPUNTATE. Internet è quindi un ambiente violato, dove soggetti criminali operano in un habitat molto favorevole mentre ai titolari dei diritti d’autore, secondo l’attuale normativa, non rimane altro che dotarsi di costose strutture antipirateria, collaborare con le forze di polizia e rivolgersi ai tribunali e all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni per ottenere la rimozione dei contenuti che circolano illegalmente. L’Autorità, da quando opera nella tutela del copyright, si limita a bloccare il nome di dominio (“Dns”) dei siti pirata, mai avendo disposto - nonostante sia in suo potere - il loro oscuramento attraverso il blocco degli indirizzi IP. Una posizione anacronistica, non condivisa dalla filiera culturale, come fa notare il presidente dell’Associazione italiana editori (Aie) Ricardo Franco Levi. «È essenziale che le disposizioni di blocco dei siti pirata siano estese anche agli indirizzi IP, per evitare che pochi istanti dopo il blocco del Dns i gestori del sito pirata lo aggirino semplicemente cambiando la denominazione», sottolinea.

GOOGLE PIGLIATUTTO. L’assetto attuale favorisce anzitutto gli operatori di internet che catalogano, indicizzano, e suggeriscono i contenuti, incrementando ogni giorno il tesoro dei dati personali raccolti, pianificando le inserzioni pubblicitarie e incassando i relativi introiti. Google è il più chiaro esempio di piattaforma non “neutrale”, anche se afferma che «i contenuti generati dagli utenti rappresentano una nuova e significativa fonte di ricavi» per il comparto della cultura. In effetti, il motore di ricerca americano si è dotato di un meccanismo di riconoscimento dei contenuti con uno strumento che si chiama “Content ID” che permette di gestire automaticamente il 98 per cento dei diritti dei titolari dei prodotti musicali che circolano su YouTube, che appartiene a Google. Ma quest’ultimo sfrutta la sua posizione di monopolista non condividendo il proprio meccanismo con l’intera industria creativa e per pagare con una mancia i lavori artistici che ospita sulle sue piattaforme. Secondo l’Ifpi, federazione internazionale dei produttori discografici, ogni utilizzatore di YouTube genera un’entrata annuale a favore dell’industria musicale pari a un dollaro, contro i 20 che derivano dall’utente di Spotify nello stesso periodo.

PUBBLICITÀ ONLINE. In attesa della riforma europea del copyright e dell’improbabile adozione di scelte condivise tra i player del mercato, non resta che migliorare gli strumenti disponibili contro le organizzazioni criminali che agiscono nel settore. Giangiacomo Pilia, sostituto procuratore della Repubblica di Cagliari, afferma che «la pubblicità online è una delle principali fonti di reddito per i siti pirata, la maggior parte dei quali si trova all’estero. Attualmente è possibile risalire a tali flussi finanziari attraverso la consultazione di banche dati estere e con il supporto di organismi internazionali, quali la Financial Intelligence Unit, che si può contattare tramite la Banca d’Italia e soprattutto l’Eurojust». Per questo servono forze dell’ordine, inquirenti e giudici specializzati. Esigenza raccolta dal Consiglio superiore della magistratura: come annunciato dal vice presidente, Giovanni Legnini, svolgerà un’attività di formazione specifica dei magistrati per il contrasto dei reati legati alla pirateria «sulla base delle innovative misure sull’organizzazione degli uffici giudiziari emanate dal Csm negli ultimi due anni, tutte improntate a favorire la specializzazione delle sezioni e dei gruppi di lavoro negli uffici sia giudicanti che requirenti». Soluzioni necessarie, ma con ogni probabilità non sufficienti. Per contrastare un fenomeno così grave e vasto, infatti, servirebbe la presa di coscienza degli utilizzatori dei contenuti creativi. I quali, va ricordato, possono essere ritenuti penalmente responsabili quando scaricano abusivamente in rete o accedono ai servizi televisivi illegali, come confermato definitivamente da una sentenza della Corte di Cassazionedello scorso anno. Non è realistico punirli tutti, ma vanno sperimentati metodi efficaci affinché il pubblico maturi la consapevolezza sul disvalore della pirateria. E accolga il principio chiave per l’affermazione della funzione culturale: lo sforzo di autori e produttori va remunerato per garantire pluralismo, approfondimento e intrattenimento di qualità.

Media&Regime anche sul web: il PD amplia i poteri di Agcom con la scusa del diritto d’autore, scrive Iacchite il 22 luglio 2017. Di Fulvio Sarzana. Fonte: Il Fatto Quotidiano. Niente più post equivoci su Internet e sui social media: è stata approvata alla Camera una nuova norma “balneare” che consentirà di sequestrare direttamente i contenuti sul web. Ancora una volta, ed ancora d’estate, si interviene sulla censura della rete. Solo che, rispetto a precedenti tentativi, questa volta il pericolo è molto più serio dal momento che la norma proposta dal parlamentare del Pd Davide Baruffi, vicinissimo al ministro della Giustizia Andrea Orlando, e da una manciata di deputati dello stesso partito, inserita “last minute” il 19 luglio nelle “Disposizioni per l’andamento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2017” e approvata il 20 luglio,  se verrà confermata anche al Senato, entrerà direttamente in vigore. Cosa prevede questa norma? Semplicemente che, su richiesta di chiunque, l’Agcom – l’Autorità Amministrativa che vigila sulle comunicazioni – possa disporre non solo la cancellazione del contenuto di un sito ma anche che lo stesso sito, provider, blog o forum (o anche tutti insieme i soggetti) impedisca che ci siano altre violazioni su Internet. La norma si applica a tutte le piattaforme elettroniche, quindi anche a Facebook, Youtube, Instagram, Twitter fino a blog e forum. Il pretesto è il diritto d’autore che, come è noto, in Italia prevede che pubblicare anche pochissimi frammenti di una conversazione, di un articolo di giornale, o semplicemente di una conversazione critica sui social media, possa essere considerato una violazione e comportare la chiusura del sito. Tutto questo senza che, secondo l’emendamento approvato, la cosa venga mai sottoposta al controllo di un giudice. Dal punto di vista dell’ammissibilità, l’emendamento è stupefacente: non solo le disposizioni comunitarie a cui si riferisce l’emendamento sono state già inserite in Italia (esattamente con il decreto legislativo 140 del 2006), ma le stesse statuizioni europee citate nel testo approvato prevedono esattamente il contrario di quello che Baruffi ed altri hanno fatto approvare alla Camera dei deputati. Gli articoli 3 e 9 della direttiva 2004/48/CE che secondo Baruffi darebbero ad un’autorità amministrativa il potere di “sequestrare” il web, prevedono invece che sia solo l’Autorità giudiziaria competente ad adottare, in casi limite, il potere di adottare misure cautelari sul web. In Italia, invece, farà tutto l’Agcom: giudicherà anche se stessa se per caso qualcuno non dovesse essere d’accordo. La norma europea prevede che se qualche malcapitato si ritrova il sito bloccato in virtù di una sentenza del giudice può presentare un reclamo ad un altro giudice e contestare la decisione di chiudere il sito (o il blog); in Italia a decidere sarà sempre l’Agcom. Dopo aver subito (senza saperlo probabilmente ed in tempi brevissimi) il sequestro del sito, il malcapitato italiano non potrà rivolgersi ad un giudice ma solo all’Agcom che deciderà sul reclamo: come si dice in gergo, “se la canterà e se la suonerà”. Quindi capiamoci: si inseriscono, in una legge che dovrebbe evitare confitti con l’Europa e quindi procedure di infrazione, regole giustificate dal recepimento di una direttiva (precedentemente recepita) ma che affermano il contrario di quello che stabilisce la norma europea. Non si capisce cosa abbia spinto il Partito democratico a questa “inversione a U” in materia di web soprattutto se si considera che l’attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, è stato uno dei più fieri oppositori della concessione ad Agcom di nuovi poteri sul web, al punto di appoggiare diverse iniziative contro i bavagli dell’Authority. Presidente Gentiloni, cosa è cambiato?

Internet, per il Pd la censura deve arrivare dall’Agcom: «sequestri senza giudici». Reprimere con la scusa di “normare” il web meglio un emendamento estivo che una legge organica, scrive il 24 Luglio 2017 "Prima da noi". Tra le tante cose che consente la nuova norma è il sequestro immediato di contenuti giudicati dalla parte “scomodi”. La cosa grave e sospetta di forte incostituzionalità è che nel provvedimento di sequestro non viene coinvolto nessun giudice. Una sorta di usurpazione del potere giudiziario da parte della politica. Tutto previsto da un emendamento proposto dal parlamentare del Pd, Davide Baruffi, vicinissimo al ministro della Giustizia Andrea Orlando, e da una manciata di deputati dello stesso partito, inserita “last minute” il 19 luglio nelle «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2017» e approvata il 20 luglio. Ora dovrà essere approvata in Senato e poi potrà essere vigente. La norma prevede che su richiesta di chiunque, l’Agcom – l’Autorità Amministrativa che vigila sulle comunicazioni – possa disporre non solo la cancellazione del contenuto di un sito ma anche che lo stesso sito, provider, blog o forum (o anche tutti insieme i soggetti) impedisca che ci siano altre violazioni su Internet. La norma si applica a tutte le piattaforme elettroniche, quindi anche a Facebook, Youtube, Instagram, Twitter fino a blog e forum. Il pretesto è il diritto d’autore che, come è noto, in Italia prevede che pubblicare anche pochissimi frammenti di una conversazione, di un articolo di giornale, o semplicemente di una conversazione critica sui social media, possa essere considerato una violazione e comportare la chiusura del sito (eccezione fatta per i giornali coperti dal diritto di cronaca). Tutto questo senza che, secondo l’emendamento approvato, la cosa venga mai sottoposta al controllo di un giudice. L’avvocato Fulvio Sarzana ha già fatto notare su Il fattoquotidiano le incongruenze sulla ammissibilità dell’emendamento «non solo le disposizioni comunitarie a cui si riferisce l’emendamento sono state già inserite in Italia (esattamente con il decreto legislativo 140 del 2006), ma le stesse statuizioni europee citate nel testo approvato prevedono esattamente il contrario di quello che Baruffi ed altri hanno fatto approvare alla Camera dei deputati. Gli articoli 3 e 9 della direttiva 2004/48/CE che secondo Baruffi darebbero ad un’autorità amministrativa il potere di “sequestrare” il web, prevedono invece che sia solo l’Autorità giudiziaria competente ad adottare, in casi limite, il potere di adottare misure cautelari sul web.  In Italia, invece, farà tutto l’Agcom: giudicherà anche se stessa se per caso qualcuno non dovesse essere d’accordo». Non ci sta l’assoprovider che unisce i gestori delle piattaforme online (quelli che sarebbero principalmente colpiti dall’emendamento) e attacca: «i diritti dei cittadini sul web e delle PMI italiane vengono calpestati per favorire le grandi multinazionali dei contenuti». Anche secondo Assoprovider «la norma conferisce all’Autorità di Garanzia per le Comunicazioni il potere di cancellare siti web, contenuti, blog e forum, ordinando alle piccole imprese italiane di impedire l’accesso ad internet ai cittadini italiani, su semplice richiesta delle grandi multinazionali dei contenuti. E’ stupefacente che il legislatore italiano abbia la massima sensibilità solo per i diritti economici delle multinazionali e trascuri totalmente i diritti economici delle piccole aziende Italiane, che vengono chiamate ad operare gratuitamente e quindi con i propri mezzi economici senza alcuna previsione di ristoro, al solo fine di tutelare i diritti economici altrui.  Questo con grave danno della libertà di espressione e di iniziativa economica previste dalla nostra Costituzione». Secondo l’Assoprovider ci sarebbero anche pesanti ripercussioni dal punto di vista della libera concorrenza. «La funzione censoria attribuita ai provider dall’emendamento Baruffi», spiega Dino Bortolotto, presidente Assoprovider, «priva peraltro i giovani dell’accesso ad internet, deprimendo ancora di più il mercato delle libere fonti informative sulla rete e la scelta nella selezione dei contenuti informativi presenti sul web.  Con questa misura il legislatore inoltre dimostra di non aver in alcuna considerazione i piccoli provider che senza alcun contributo pubblico da anni stanno rendendo meno pesante il digital divide in molte parti d’Italia e che tutto questo possa essere distrutto in nome della tutela dei diritti economici delle multinazionali dei contenuti».

Il diritto all’oblio: è la fine del diritto di cronaca. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale on-line con una interpretazione completamente nuova del diritto all’oblio, scrive Angela Lucaccioni il 12 gennaio 2017. La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma) entrerà nella storia, suo e nostro malgrado. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio la maglie del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, cioè ogni soggetto potrà fare in modo che il proprio passato non ritorni a galla con una qualunque ricerca online anche dopo vari anni. Il caso in questione era quello di un titolare di un ristorante che era finito nelle cronache locali a seguito di un accoltellamento nel proprio locale; per questo motivo, chiedeva che il suo nominativo e quello del ristorante fossero rimossi dalle pagine della rivista on line poiché era passato molto tempo dall’accaduto per rimanere un argomento di interesse pubblico. Inoltre il soggetto, motivava la sua richiesta sostenendo che, digitando sul motore di ricerca Google il proprio nome o quello del ristorante, apparivano immediatamente pagine che rimandavano alla rivista in questione contenente i fatti di cronaca. Questo provocava danno alla sua immagine personale ma influiva negativamente anche sull’immagine del ristorante stesso. Il tribunale condannava la rivista on line al pagamento di un risarcimento danni accogliendo così le richieste formulate dal soggetto richiedente l’oblio, con in aggiunta la de-indicizzazione della notizia riportata dal giornale on line. La rivista rimasta scontenta della sentenza, si appellava alla Corte di Cassazione per rivendicare il proprio diritto di cronaca essendo non ancora conclusa la vicenda sui fatti narrati, quindi ancora considerabili di interesse pubblico, inoltre le pagine in questione erano finite ormai in archivio e sostenevano di aver rispettato tutti i punti del codice deontologico dei giornalisti.

La Corte di Cassazione riassume tutto affermando che “i ricorrenti censurano la pronuncia del Tribunale dolendosi essenzialmente che siano stati valorizzati del D.Lgs. N. 196 del 2003, art. 136 e gli artt. 7, 11, 15 e 25 e non invece gli artt. 99, 137, e 139 inerenti al trattamento dei dati personali per scopi storici e finalità giornalistiche, nonché le regole introdotte dal menzionato codice deontologico, ivi inclusi gli artt. 1, 2, 5, 6 e 12”.

Analizzando singolarmente ogni articolo:

Art. 136. Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero. 1. Le disposizioni del presente titolo si applicano al trattamento: a) effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità; b) effettuato dai soggetti iscritti nell’elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio 1963, n. 69; c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione artistica.

Art. 7. Diritto di accesso ai dati personali ed altri diritti. 1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile. 2. L’interessato ha diritto di ottenere l’indicazione: a) dell’origine dei dati personali; b) delle finalità e modalità del trattamento; c) della logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici; d) degli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2; e) dei soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati. 3. L’interessato ha diritto di ottenere: a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati; b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati; c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato. 4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte: a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta; b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.

Art. 11. Modalità del trattamento e requisiti dei dati. 1. I dati personali oggetto di trattamento sono: a) trattati in modo lecito e secondo correttezza; b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi; c) esatti e, se necessario, aggiornati; d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati; e) conservati in una forma che consenta l’identificazione del- l’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati. 2. I dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati.

Art. 15. Danni cagionati per effetto del trattamento. 1. Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile. 2. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell’articolo 11.

Art. 25. Divieti di comunicazione e diffusione. 1. La comunicazione e la diffusione sono vietate, oltre che in caso di divieto disposto dal Garante o dall’autorità giudiziaria: a) in riferimento a dati personali dei quali è stata ordinata la cancellazione, ovvero quando è decorso il periodo di tempo indicato nell’articolo 11, comma 1, lettera e); b) per finalità diverse da quelle indicate nella notificazione del trattamento, ove prescritta. 2. È fatta salva la comunicazione o diffusione di dati richieste, in conformità alla legge, da forze di polizia, dall’autorità giudiziaria, da organismi di informazione e sicurezza o da altri soggetti pubblici ai sensi dell’articolo 58, comma 2, per finalità di difesa o di sicurezza dello Stato o di prevenzione, accertamento o repressione di reati.

Anche dopo il parere del Garante della Privacy, che si schierava dalla parte di PrimaDaNoi.it, il giudice ha comunque ritenuto il diritto alla privacy del proprietario del ristorante predominante, una volta esaurita la prima necessità di dare la notizia. Questo ha reso così il diritto di cronaca collegato ad una scadenza oltre il quale non si può andare; il problema che in realtà sorge, è dato dal fatto che sono in molti a ritenere che la sentenza in questione è ricollegabile alla sentenza Google Spain.

Spiega Vincenzo Tiani: “La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, … Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, …. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile.”»

Cosa dice la sentenza Google Spain? «La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda.

Le reazioni del Direttore del giornale. Il Direttore del giornale on line: “Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati. Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo, siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non ‘avere problemi’ nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall’Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…”.»

La maggioranza dei commenti che fanno riferimento questa sentenza trovano assurda e irragionevole la decisione del giudice che si sminuisce su una data di scadenza degli articoli e che principalmente non trova più nella de-indicizzazione la soluzione, ma arriva a chiedere la netta cancellazione della notizia. Per molti questo risulta lo scandalo in quanto così facendo non si parlerebbe più di libertà di cronaca. Sono molti i giornalisti e non, a sperare che PrimaDaNoi.it faccia ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per poter ottenere un ribaltamento della sentenza e quindi ristabilire definitivamente l’importanza del diritto di cronaca. Analizzando i vari commenti trovati sul web a questa sentenza anche il Guardian ironizza sulla decisione presa dalla Cassazione. Oltre a sostenere che la legge italiana ha fatto un miscuglio legale cercando di avvicinare due casi diversi come il Google Spain e la sentenza in questione, il giornale inglese scrive: “almeno in Italia, ‘il diritto di essere dimenticati’ ora ha un nuovo significato: il diritto di rimuovere il giornalismo scomodo dagli archivi dopo due anni. Questo sicuramente non può essere giusto. Se lo fosse, tutti potrebbero domandare la cancellazione dai siti web di informazioni giornalistiche ed il giornalismo on line sarebbe decimato”.

L’unica autrice (trovata sul web) che a differenza della gran parte dei giornalisti si schiera dalla parte della sentenza è Monica Gobbato (di chefuturo.it). L’avvocato Gobbato ritiene che il diritto all’oblio è un diritto sacrosanto dell’interessato che non deve alcun modo essere perseguitato dalla memoria imprevedibile della Rete. Anche lei da una propria interpretazione della sentenza, dove ritiene che non si affermi assolutamente che il diritto di cronaca abbia una scadenza, imponendo la cancellazione dei dati dall’archivio storico del giornale ma semplicemente dice, come molte altre decisioni sull’argomento, che la de-indicizzazione deve essere garantita in tempi ragionevoli. Lo stesso Luigi Montuori (funzionario dell’autorità Garante per la protezione dei dati personali) ha spiegato in una recente intervista radiofonica in tema di diritto all’oblio che è importante differenziare il diritto all’oblio e il diritto alla contestualizzazione della notizia. Sul primo aspetto, ad esempio, una persona condannata e che ha espiato la sua pena ha diritto ad utilizzare il codice sulla protezione dei dati personali e chiedere che la notizia venga quanto meno de-indicizzata. Sul secondo aspetto, immaginiamo un cittadino che viene invece indagato e poi prosciolto e che si ritrova con la notizia del suo essere finito sotto indagine ancora in circolazione. Quello che la corte di Cassazione afferma non è la scadenza del diritto di cronaca che permane, potendo la notizia legittimamente risiedere nell’archivio storico del giornale, ma che la stessa deve essere non tardivamente de-indicizzata come invece avvenne nel caso in questione (notizia del 2008 e de-indicizzazione del 2011). Ed è proprio dalla tardiva de-indicizzazione che deriva il risarcimento del danno nel caso in esame di cui all’art. 15 del codice privacy. Inoltre la Gobbato mette a confronto le due sentenze: quella del tribunale di Ortona e quella della Corte di Cassazione. La prima, quella di Ortona del gennaio 2013, che ha visto la condanna del direttore del giornale online abruzzese Primadanoi.it al pagamento di un risarcimento per un fatto di cronaca rimasto online troppo a lungo arrecando così un danno ai protagonisti della vicenda. La seconda, invece, è quella della Corte di Cassazione del 2012, che stabiliva come fosse un dovere dell’editore o comunque del responsabile di un database web tenere aggiornati i materiali relativi a procedimenti giudiziari per garantire il diritto alla contestualizzazione dell’informazione. Secondo il parere della Corte, un articolo può rimanere online ma va obbligatoriamente aggiornato, così da tutelare sia l’immagine della persona coinvolta sia rispettare il diritto dei cittadini ad essere informati. Appare dunque evidente la differenza di approccio tra un Tribunale che cerca di imporre una “data di scadenza” alla permanenza di una notizia nella disponibilità dei lettori di un giornale e la Suprema Corte che, invece, riconosce da un lato il valore di documentazione storica dell’archivio del giornale ma, dall’altro, cerca un punto di equilibrio tra questo valore e le esigenze di aggiornamento figlie del diritto degli interessati a veder correttamente rappresentata la propria immagine online. Nonostante tutto, l’avvocato Gobbato resta una delle poche ad andare contro corrente; la maggior parte dei suoi colleghi sostengono la tesi contraria, cioè il diritto alla cronaca e all’informazione non può avere una scadenza precisa come il latte e lo yogurt. Le notizie e le informazioni riportate dai giornalisti non possono avere un termine prestabilito per legge perchè ciò comporterebbe la fine stessa della stampa e del diritto di cronaca.

DIRITTO D’AUTORE E FINANZIAMENTO PUBBLICO. IL COPYRIGHT DEI CITTADINI.

In questa Italia, quanto vale il diritto del cittadino, rispetto al diritto della lobby dell’informazione?

Il cittadino utente è titolare del diritto d’autore rispetto alle opere intellettuali prodotte da aziende che si finanziano totalmente o parzialmente con i soldi pubblici: quindi, opere pagate dallo stesso cittadino contribuente?

Queste sono le risposte che nessun giornalista darà mai. Sfido la Milena Gabanelli e la redazione di Report a trattare questo tema delicato. Lei che lavora in Rai ed al Corriere della Sera.

La tematica da approfondire è nata sulla diatriba dell’uso libero a fini non commerciali dei video e specialmente sull’utilizzo dei video soggetti al diritto di cronaca pubblicati sul web.

Insomma si parla del divieto persistente di scaricare e pubblicare liberamente su youtube il video di terzi.

Per quanto riguarda l’impedimento dello scarico dei suoi video da parte di Mediaset si potrebbe prospettare una ragione palesata dal suo spot sulle reti del Biscione:

“Qui non incassiamo finanziamenti pubblici

qui non siamo colossi americani

qui contiamo solo sulle nostre forze

e qui ogni mattina arrivano migliaia di persone

che cercano di fare il massimo per regalare una televisione moderna, vivace e completa.

Undici reti gratuite e centinaia di programmi in onda ogni giorno, anche su Internet.

Che non ti costano niente, niente.

Nemmeno un bollettino postale.

Così… giusto per ricordarlo.”

Al contrario la Rai è concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo; percepisce, come finanziamento pubblico, un canone pagato dai cittadini e stabilito per legge; con denaro pubblico vengono ripianificati i passivi di cui l'azienda è gravata; è una impresa a carattere pubblico, con finalità non legate al profitto; per le prerogative suddette deve assicurare una comunicazione (politica, culturale, di intrattenimento) equa e qualificante.

Secondo le previsioni della riforma del canone Rai l’importo massimo dovrebbe oscillare intorno ai 60 euro, il minimo intorno ai 35 euro. L’introito stimato per finanziare il servizio pubblico sarà intorno ai 2 miliardi, rispetto al miliardo e 700 milioni attuale, anche grazie a parte dei proventi che lo Stato ricava da tutti i Giochi, compresa la Lotteria Italia.

Ergo la Rai è servizio pubblico e quindi risponde al cittadino contribuente utente.

Eppure su “Il Corriere della Sera” on line del 6 giugno 2014 si legge “Quaranta video. E’ quanto rimane degli oltre 40 mila video storici del canale YouTube della Rai. Nei giorni scorsi, come raccontato anche dal Corriere della Sera, era stato annunciato: i filmati verranno rimossi tutti i 40.000 mila video verranno progressivamente smantellati da YouTube e trasportati sulla piattaforma Rai.tv. E lo stesso accadrà anche per la grande quantità di materiale collocato su YouTube da singoli utenti che hanno ripreso, anche artigianalmente, intere trasmissioni o singole parti: video che comunque appartengono alla Rai. Morale, tutti i video - anche quelli storici - spariscono dal canale. Il rapporto tra la piattaforma video e viale Mazzini si è chiuso senza incidenti. E la motivazione è di tipo prettamente economico. Il ritorno economico di 700 mila euro all’anno è stato considerato insoddisfacente dalla Rai. Da qui la decisione di rimuovere i contenuti dalla piattaforma di Mountain View e di trasferirli su un portale Rai. Morale, per il momento, su YouTube rimangono solo 40 clip. La più vista? «Non ci resta che...», con un’intervista a Massimo Troisi, scomparso 20 anni fa. Poi il link al portale RaiTv per vedere l’intervista integrale.”

Andiamo ai giornali. Se infatti è vero che grandi testate come Il Corriere della Sera, Repubblica, Il Sole 24Ore, non ricevono sussidi diretti, è altrettanto vero che beneficiano ogni anno, come tutti gli altri giornali, dei cosiddetti contributi indiretti: un mare magnum all'interno del quale è difficile orientarsi e che è quasi impossibile censire, visto che le varie agevolazioni fanno riferimento a diversi ministeri e organi di competenza, scrive Gabriella Colarusso su “Lettera 43”. Il grosso dei contributi indiretti ai giornali viene dalle riduzioni fiscali e dalle «forfetizzazioni dell'Iva sulle rese». I quotidiani cartacei infatti pagano l'Iva al 4%, agevolazione che non è concessa anche alle testate giornalistiche online perché la direttiva europea sul commercio elettronico non riconosce loro questo beneficio. Non solo, i giornali di carta hanno anche la possibilità di forfetizzare l'Iva sulle rese (art. 74, dpr 633): l'imposta cioè non viene pagata sulle copie effettivamente restituite, non vendute, ma calcolata a forfait. Si tratta non di soldi dati direttamente ai quotidiani o ai periodici ma di mancate entrate per lo Stato, il cui importo è quasi impossibile conoscere visto che non risulta agli atti del bilancio della presidenza del Consiglio. È l'«Agenzia delle Entrate che ha questi dati», dice una fonte ministeriale a Lettera43.it, «ma finora non li ha resi noti».

Dice il Dr Antonio Giangrande: di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri.

Parlando con un giornalista di un noto quotidiano nazionale - continua il dr Antonio Giangrande, sociologo storico - dopo averne tessuto le lodi per un suo coraggioso video servizio, scaricato da me tal quale da un canale youtube e divulgato sui miei canali web senza profitto, e di cui mi segnalava la mancanza del logo de “Il Corriere della Sera” detentore dei diritti, ho avuto contezza del problema che ha dato spunto a questa inchiesta.

Giornalista A.C.: “Gentile dott. Giangrande, mi hanno appena linkato il canale youtube dell’Associazione contro tutte le mafie, di cui lei è presidente, con la raccolta delle mie inchieste sulle carceri. La ringrazio per l’attenzione ma la pregherei di inserire la fonte da dove ha preso quei video, ossia il sito del Corriere della Sera, nonché di inserire i link originali delle videoinchieste. La precisazione è doverosa poiché il Corriere della Sera detiene i diritti d’autore delle mie opere (quindi non basta citare l’autore) ed è l’unico soggetto legittimato a disporne la pubblicazione, tanto più che dai video caricati su YouTube risulta tagliato il logo CorriereTv in alto a destra che ne indica la proprietà.  Sicuro di un suo sollecito riscontro, le porgo cordiali saluti”.

Giangrande: “Le porgo le mie scuse, oltre che annunciarle la mia ammirazione. In 20 anni, su 70 libri scritti e pubblicati e centinaia di video montati e pubblicati, nell’indifferenza generale dei media, è la prima volta che qualcuno sollecita una modifica al mio lavoro. Faccio ammenda ed ho già provveduto alla sua sollecitazione, visibile sulla presentazione del video in oggetto, annunciandole che la modifica è possibile sulla presentazione, ma non nel video, in quanto gli spezzoni originali usati e tratti da altre fonti erano già di per sé sguarniti del logo. Salutandola cordialmente le indico che questa è la modifica inserita in presentazione. Ove non bastasse, mi si solleciti la cancellazione totale del video ed io lo farò, tenendo presente comunque che attraverso il mio canale decine di migliaia di utenti usufruiscono della visione. - Inchiesta video del bravo e coraggioso giornalista A.C., pubblicata su you tube in vari video e su varie fonti, che ne hanno consentito la copia ed il montaggio. Da queste fonti è omessa l’indicazione del logo del detentore dei diritti di pubblicazione. Mancanza non riconducibile al curatore di questo video, ossia il dr Antonio Giangrande, che immediatamente provvede a precisare su sollecitazione dell’autore. La precisazione è doverosa poiché il Corriere della Sera detiene i diritti d’autore delle opere dell’autore (quindi non basta citare l’autore) ed è l’unico soggetto legittimato a disporne la pubblicazione, tanto più che dai video caricati su YouTube risulta tagliato il logo CorriereTv in alto a destra che ne indica la proprietà. Di seguito si indica la fonte. Il video serve a sollecitare l’interesse dell’opinione pubblica ed a far conoscere la problematica e l’autore che se ne è interessato, attraverso i canali di una associazione nazionale antimafia riconosciuta dal ministero dell’interno. Uso del video non a fini commerciali. E’ interesse del detentore dei diritti sollecitare l’immediata cancellazione del video, nel caso in cui non aderisse all’iniziativa benefica. Si dà il caso che, invece, sul libro anche a lettura libera “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”, saggio esclusivo d’inchiesta sulla giustizia italiana, ogni articolo di stampa riporta autore e testata di riferimento con il link che riporta all’articolo originale. Si cerca di fare servizio pubblico, disinteressato e con ritorsioni impunite e taciute, nel rispetto della legalità. Per questo si ringraziano i detentori del copy right dei pezzi di cui non si è chiesta la cancellazione”.

Giornalista A.C.: “La ringrazio per le parole di stima. I suggerimenti che le davo erano per evitare che si attivi l’ufficio legale del Corriere. Ho visto che nel testo ha inserito le precisazioni ma il video risulta ancora senza logo CorriereTv. Se guarda il link che le ho inviato può vedere che il logo c’è e c’è sempre stato. Pertanto le suggerirei di prendere le videoinchieste nella loro interezza come da pubblicazione.”

Giangrande: “Dr A.C. il video in oggetto ha avuto 27.613 visioni e non sono pochi, tenuto conto dell’argomento che tira poco, rispetto alla visione di tette e culi che vanno per la maggiore. Questo è anche merito del canale divulgativo con i canali ad esso associati. Canali che non ricevono emolumenti da You Tube per la pubblicità, nonostante le 50 mila visioni settimanali dei suoi video.

Con questo mio video ho voluto dare onore a lei, e solo a lei, per il lavoro svolto, rimarcando il nome dell’autore. Del fatto che il Corriere ne detenesse i diritti non ne ero a conoscenza, fino a quando non mi è arrivata la notizia da lei, tanto è vero che i video li ho tratti da….. Video pubblici e liberamente scaricabili. Youtube mi ha comunicato la semplice violazione di brani, che colpiscono il video sin dall’origine e che ne vietano la visione in Germania. Una cosa le voglio precisare: Il Corriere della Sera, a differenze di La Repubblica o altri giornali con TV web, non permette assolutamente lo scarico dei suoi video, o così risulta a me. I video di La Repubblica ed altri si possono scaricare per pubblico interesse, attinenza e verità. Essi sono già con il logo incorporato ed il nome dell’autore. E’ scandaloso non poter scaricare i video, se il Corriere percepisse il finanziamento pubblico per l’editoria. In tal caso il diritto d’autore dovrebbe essere condiviso col pubblico, come dovrebbe essere per la Rai. Anche in questo caso ci troviamo a non poter scaricare i video, nonostante da pagatori del canone siamo piccoli azionisti della RAI. Visionarli e sciropparci preventivamente la pubblicità, invece sì, ci è permesso. Comunque, per gli effetti dell’impedimento, anche se volessi, non potrei riprogrammare il video. A questo punto, non potendomi permettere una lite con il Corriere, né con chicchessia; Avendo già ampie ritorsioni per quello che io faccio, e che nessuno fa, contro i poteri forti: specialmente i magistrati, che in galera ci mandano, spesso, gli innocenti. Non avendo amici a cui chiedere aiuto, né sovvenzionamenti, non essendo di sinistra, e non essendo Libera; Essendo già vittima predestinata di ritorsioni impunite; Tenendo alla mia onorabilità ed alla mia missione improntata alla difesa della legalità, in estrema gratuità, non mi rimane che eliminare il video dal mio canale, così la forma è fatta salva, mentre per la sostanza non mancherò di produrre altri video trattanti il tema. In questo modo tutti saremo contenti, meno la libertà dell’informazione: la verità esiste solo se conosciuta e certamente non va remunerata. Ogni forma divulgativa va sfruttata. Mi spiace per lei, il cui nome non sarà più accomunato ad una giusta battaglia. Ed è quello che fino ad oggi ho voluto fare. Con ossequi, rimanendo intatta la mia stima per lei.”

Giornalista A.C: “Non sto qui a discutere la sua personale interpretazione del diritto d’autore (lei vuole scaricare gratis ciò che altri hanno pagato senza neanche chiedere il permesso). I video che segnala non sono pubblici e nemmeno liberamente scaricabili, presto o tardi verranno bloccati da chi ne detiene i diritti, avendoli pagati. Stia tranquillo che la libertà di informazione su questo tema non sarà intaccata. Tutte le videoinchieste sulle carceri sono liberamente visionabili con una semplice ricerca su google, sono stabilmente in home page sul sito del Corriere (home- inchieste - Le nostre prigioni) e non hanno bisogno di pubblicità avendo superato le migliaia di visualizzazioni. Inoltre periodicamente sono riprese dai vari network che ne hanno interesse previo consenso del Corriere. Nessuno le ha imposto di togliere i video ma di citarli correttamente e mandarli in onda senza alterazioni rispetto all’originale. Se questo per lei rappresenta una difficoltà allora fa bene ad eliminarli. Può piacere o meno ma questi sono i doveri e hanno pari dignità dei diritti. La ringrazio per le intenzioni più felici e nobili, spero di esserle stato di aiuto in qualche modo.”

Non ho voluto andare in polemica, sicuro della piega che il seguito avrebbe avuto. Passare per stravagante ed ignorante va bene, ma avevo ben fatto intendere che tenendo alla mia onorabilità ed alla mia missione improntata alla difesa della legalità, in estrema gratuità, non mi rimaneva che eliminare il video dal mio canale, non potendolo modificare, né lo potevo scaricare direttamente da “Il Corriere della Sera”. Così la forma è fatta salva, mentre per la sostanza non mancherò di produrre altri video trattanti il tema.

Ma la doverosa precisazione va data a tutti quelli che pensano di detenere lo scettro della verità e questo potere usato per far poltiglia nell’opinione pubblica.

Per prima cosa va detto, per chi è digiuno di giurisprudenza, che il Diritto materiale nasce su volontà di una maggioranza storica in Parlamento, spesso trasversale e molte volte influenzata da lobbies di potere. Solo per questo la maggioranza in Parlamento ha sempre ragione, traviando l’interesse della maggioranza dei cittadini. Comunque dura lex, sed lex.

Per secondo va precisato che non è degno di vanteria il fatto che qualcuno paghi dei diritti, arrogandone la proprietà, con i soldi di terzi (i cittadini), a cui poi se ne nega la paternità.

Queste convinzioni, essendo tacciate di opinioni, vanno supportate da fatti, iniziando proprio da quel brocardo “dura lex, sed lex”.

C'è un articolo, nella legge sul diritto d'autore, che rappresenta, mutata mutandis, quello che in altri paesi del mondo viene chiamato fair use e fair dealing: è l'art. 70 della Legge 22 aprile 1941 n. 63, che al primo comma recita: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." Questa norma, massima espressione del concetto di libera utilizzazione, è sempre più dimenticata ed ignorata, scrive “Movimento Costo Zero”. Addirittura c'è chi sostiene, come Enzo Mazza, presidente di FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) che "l'uso di materiale coperto da diritti senza autorizzazione è sempre illecito, le storie sull'education ecc. sono bufale che girano in rete". Ad affermazioni di questo genere, fanno eco le spiegazioni delle denunce che SIAE ha indirizzato verso i gestori di siti didattici e culturali: ecco che la citazione parziale di un'opera, così come permessa dall'art. 70, diventa una manipolazione (non gradita: ma la lesione dell'onore e della reputazione non dovrebbe essere rilevata dagli autori o dai loro eredi?) dell'opera stessa, che SIAE, non si capisce a che titolo (visto che il mandato SIAE può avere ad oggetto soltanto i diritti di utilizzazione economica), avrebbe il dovere di sanzionare.

"Il giornalista è uno che, dopo, sapeva tutto prima". (Karl Kraus), scrive Dagoreport su “Dagospia”. “Il Salario (confutato) dell’impostura. "Su un punto la tranquillizzo: i contributi pubblici ai giornali indipendenti come il nostro sono oggi (per fortuna) inesistenti. I nostri stipendi ce li pagano lettori e inserzionisti". L'impudica rispostina di Sergio Rizzo ("contributi inesistenti") appariva sotto la lettera di un ingenuo deputato, Silvano Moffa, che si lagnava per la campagna anti parlamentari del Corrierone. Per altro, meritevole. Nonostante le omissioni. Si tratta presidente della Commissione lavoro della Camera che una volta ricevuti i pesci in faccia dal Corriere, si troverà nell'aula di Montecitorio a votare l'ennesima proroga milionaria ai Signori dell'editoria.

Almeno fino al 2014, secondo la promessa di Monti. Una missiva garbata e argomentata in cui il povero Moffa, en passant, ricordava al Gabibbo (impunito) i contributi pubblici versati all'editoria (un miliardo di euro annui) con cui anche i giornalisti arrotondano lo stipendio. Magari turandosi il naso o ignorandone addirittura la puzza (di provenienza). Ma i professionisti dell'Anti casta sono fatti così. Moralisti à la carte. Tant'è che al momento di andare al "mercatino delle pulci" (altrui) non guardano mai cosa si vende (di guasto) sulle proprie bancarelle dove acquistano per mangiare. E fanno finta di non vedere che da molto tempo i grandi giornali (Corriere, Repubblica, Stampa etc) sono in mano ai Poteri marci. E che questi giornaloni, come ha osservato Salvatore Bragantini (autorevole collaboratore del giornale in cui scrive, spesso sbugiardato, Sergio Rizzo), "sotto il profilo della cronaca economica (...) formano una formidabile flotta, che segue per lo più un'aurea massima: Cane non mangia cane". La citazione appare nel volume dal titolo eloquente: "Capitalismo all'italiana, come i furbi comandano con i soldi degli ingenui". Ma nella stampa (in genere), rovesciando una massima di Calderon de La Barca: "Il servo più furbo trova sempre che la valigia del padrone sia più leggera da portare della sua". Già, perché sembra calato dalla luna chi, proprio sul Corrierone dei "padroni del vapore", disquisisce di "giornali indipendenti" e senza prebende pubbliche. O si sente addirittura fortunato, disconoscendo persino che l'editoria non riceva soldi dallo Stato. Stiamo parlando di un miliardo annuo pagato con le tasse dei cittadini attraverso ben sette voci di sussidi: contributi diretti, credito d'imposta per investimenti, fondo mobilità e rimborsi per carta e teletrasmissioni; Iva privilegiata al 4% rispetto a un'imposta ordinaria del 20%. Un regalino da niente, da parte del governo e del parlamento. Per poi sentirsi accusare di dirigismo. E mettere in croce notai, benzinai, tassisti, avvocati, commercianti, medici e chi più ne ha più ne metta. In un recente studio del Reuter Institute for the Study of Journalism dell'Università di Oxford, tra i cinque paesi presi in esame Italia risulta al primo posto quanto a flussi di sovvenzioni pubbliche rispetto al numero effettivo dei lettori. Il campione esaminato riguarda Italia, Francia, Stati Uniti, Inghilterra e Germania. Nello studio si osserva pure che da questo meccanismo di aiuti (public support) non c'è "nessuna correlazione tra spesa pubblica (sussidi) e penetrazione dei giornali (copie vendute)". Come a dire? Si stratta di soldi dello Stato che finiscono al macero. Come le copie rese dalle edicole. Sergio Rizzo sembra appartenere allora a quella categoria di giornalisti che, per dirla con Francesco Giavazzi (altro editorialista di punta di Flebuccio de Bortoli), "non sanno distinguere tra gli interessi dei loro editori e le regole della trasparenza". E, spesso, neppure si avvedono "che l'essenza della libertà sta anche "nel diritto di opporsi a difendere le proprie convinzioni solo perché sono le nostre convinzioni" (Isaiah Berlin).

E la doppia morale del Corriere della Sera? Scrive “Stampa Alternativa”. La “Terza pagina” del Corriere della Sera, sabato scorso ha deciso di trattare il libro La casta dei giornali di Beppe Lopez, edito da Stampa Alternativa e Rai Eri, che in un paio di settimane è stato ristampato quattro volte e ha venduto 50 mila copie. Un successo, nonostante lo spinoso tema: “come l’editoria italiana è stata finanziata e assimilata dalla casta politica”. Passaparola, grande accoglienza dal mondo di Internet e dei blog, della televisione pubblica e privata, da radio e giornali regionali. I grandi giornali nazionali, infatti, hanno sinora ignorato o trattato il libro marginalmente, con reticenza o sotto titoletti incomprensibili. E il motivo è comprensibile: La casta dei giornali racconta e documenta il portentoso flusso di danaro pubblico, circa 700 milioni di euro all’anno, che finisce nelle casse dei grossi gruppi editoriali, rimpolpaldo di conseguenza anche gli utili degli azionisti. Andando più nel dettaglio, si parla di 29 milioni a Mondadori, 23 milioni a Rcs, 19 milioni al Sole 24 Ore, 16 milioni a Repubblica Espresso, eccetera. Con ovvia distorsione del mercato e annientamento dell’editoria regionale e indipendente, e conseguente manipolazione della circolazione delle idee e della democrazia. Ora, il “Corriere della Sera” recensisce, meritoriamente controccorrente, l’inchiesta di Lopez. Ma seguendo un metodo trasversale e liquidando con poche battute il cuore del libro. Pierluigi Panza che ha scritto il pezzo ha puntato a delegittimarlo, semplicemente parlando d’altro. Sin dal titolo: “La doppia morale della Rai”. Si attacca la Rai, che poi è come sparare sulla Croce Rossa. Panza si dichiara deluso, si sarebbe aspettato di “trovarci svelate le segrete trame, i legami lobbistici, il sistema delle raccomandazioni diffuso nei giornali con tanto di nomi e cognomi”. Si sarebbe aspettato cioè tutto un altro libro. Magari “sul modello della Casta di Stella e Rizzo”, dove si parla meritoriamente di tutti e di tutto, meno che dei finanziamenti pubblici all’editoria. Ma la Rai non è quell’editore finanziato con le tasche di tutti i cittadini? Ma la Rai, almeno, non faccia la morale agli altri, pubblicando con i soldi dei cittadini un libro contro il finanziamento agli (altri) editori. È il nocciolo della recensione. Ma sarebbero bastati un paio di minuti a Panza per verificare che la partnership editoriale della Rai Eri con Stampa Alternativa per La casta dei giornali non prevede, da parte sua, l’esborso anche solo di un euro. Anzi, il contratto firmato dalla due case editrici, prevede che la Rai Eri non solo non ha investito economicamente sul progetto ma percepirà il 2% sui diritti di vendita. Sarebbe gradita e corretta, come nella grande tradizione del “Corriere della Sera”, pubblicare un’errata corrige al riguardo, anche perché sarebbe una beffa non conforme alla storia di Stampa Alternativa, dopo aver garantito alla Rai Eri il suo guadagno, passare addirittura per gli ennesimi mungitori di “mamma Rai”.

Alla bisogna, sempre sul web si trova: Finalmente abolito il copyright sui contenuti prodotti con fondi pubblici, scrive Simone Aliprandi sul suo blog. Ci voleva l'intervento dei cosiddetti "saggi" per fare questo grande passo innovativo... ma l'importante è che sia stato fatto. Sì, perchè è proprio una mossa saggia quella di abolire il diritto d'autore su tutto ciò che è stato prodotto da enti pubblici e con finanziamento prevalentemente pubblico. Una condizione già presente in altri ordinamenti giuridici e che l'Italia, presa da faccende più urgenti, non aveva mai preso seriamente in considerazione. Ma ecco che con la prima riunione dei "saggi" (nominati da Napolitano) tenutasi questa mattina al Quirinale, il primo passo è stato effettuato. Dunque, testi, immagini, video, musiche, trasmissioni televisive, contenuti multimediali, siti web, banche dati e anche software: tutto senza vincoli di diritti d'autore e diritti connessi a condizione che siano prodotti da un ente pubblico o che comunque la loro produzione sia stata finanziata con fondi pubblici per più della metà. Il provvedimento produrrebbe i suoi effetti a partire da 60 giorni dalla data della sua formale adozione. Dunque entro quest'estate dovremmo già riuscire ad avvantaggiarci di questa sostanziale innovazione. Negativo ovviamente il parere del CPPC (Consorzio Produttori Pubblici di opere sotto Copyright), il quale minaccia di sollevare al più presto una questione di legittimità costituzionale.

Su queste basi è nato un movimento di libertà civica “Scarichiamoli”. L'accesso pubblico al sapere e la libera fruizione delle opere dell'ingegno rappresentano un minimo comune denominatore per movimenti tra loro diversi, che si occupano di problemi diversi, ma che trovano una base condivisa nello sviluppo "aperto" della Società della Conoscenza. In armonia con i principi promossi da questi movimenti, vorremmo che le opere dell'ingegno finanziate (a fondo perduto) con soldi pubblici e le opere di pubblico dominio fossero:

pubblicamente accessibili (facilmente reperibili su Internet);

universalmente accessibili (accessibili anche per i diversamente abili);

liberamente fruibili (non occorre pagare per: leggere un testo, vedere un'immagine, ascoltare una musica);

legalmente fruibili (l'utente è certo di poter scaricare un file nella piena legalità);

ottimamente fruibili (qualità digitale idonea a garantire una buona visualizzazione e/o un buon ascolto).

Inoltre, vorremmo che le opere dell'ingegno finanziate (a fondo perduto) con soldi pubblici fossero:

persistentemente non soggette a tutti o ad alcuni diritti di utilizzazione economica (l'autore rilascia la propria opera con licenza free/open content persistente o con licenza libera copyleft: innanzitutto, ciò consente a chiunque di riprodurre l'opera e di metterla in circolazione);

persistentemente non soggette a diritti connessi all'esercizio del diritto d'autore (altri diritti esclusivi che impediscono, innanzitutto, di riprodurre l'opera e di metterla in circolazione);

persistentemente non soggette a misure tecnologiche di protezione (l'autore rilascia la propria opera con licenza, free/open content persistente o libera copyleft, contenente una clausola anti-TPM o più clausole anti-TPM).

LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.

Può la Rai, servizio pubblico di un’azienda di Stato, finanziata con il canone e le tasse dei cittadini, vantare diritti esclusivi di diritto d'autore su fatti di cronaca ed impedire la divulgazione di notizie di interesse pubblico e violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright?

Tutto inizia e finisce con una E-mail.

Venerdì 18/05/2018 19:40 da YouTube <accounts-noreply@youtube.com> ad ANTONIO GIANGRANDE <presidente@ingiustizia.info>: [Avviso di rimozione per violazione del copyright] Il tuo account YouTube verrà disattivato tra 7 giorni.

Salve ANTONIO GIANGRANDE, In seguito a una richiesta di rimozione per violazione del copyright siamo stati costretti a rimuovere il tuo video da YouTube: Titolo del video: Sarah Scazzi. Il processo. 1ª parte. La scomparsa.

Rimozione richiesta da: RAI. Questo significa che non sarà più possibile riprodurre il video su YouTube.  Hai ricevuto un avvertimento sul copyright. Al momento hai 3 avvertimenti sul copyright. Per questo motivo, è prevista la disattivazione del tuo account tra 7 giorni. Il tuo canale rimarrà pubblicato per i prossimi 7 giorni per consentirti di cercare una soluzione e mantenerlo attivo. Se ritieni di non essere in torto in uno o più casi sopra descritti, puoi fare ricorso inviando una contronotifica. Durante l'elaborazione della contronotifica, il tuo account non verrà disattivato. Tieni presente che l'invio di una contronotifica con informazioni false può comportare gravi conseguenze legali. Puoi inoltre contattare l'utente che ha rimosso il tuo video e chiedergli di ritirare la richiesta di rimozione. Durante questo periodo, non potrai caricare nuovi video e gli avvertimenti sul tuo account non scadranno.

Risposta: Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa. In ogni caso le immagini sono di utilizzo pubblico così come stabilito dal tribunale di Taranto in virtù del decreto dell’autorizzazione esclusiva alle telecamere di “Un Giorno in Pretura” con obbligo di condividere i filmati con gli altri media. Su questo filmato altre rivendicazioni analoghe sono state ritirate in seguito alla stessa contestazione. E comunque, stante che il filmato è già stato rimosso da youtube, si chiede alla signoria vostra di ritirare l’avvertimento, affinchè l’intero canale “Antonio Giangrande” con 387 video di Pubblico Interesse non venga disattivato.

Insomma non si presenta la contronotifica, per minaccia di azioni legali del colosso Rai e si genuflette per un diritto.

Ma Youtube non si ferma qua. Già, sul portale di informazione ed approfondimento in oggetto, pagava solo 1 decimo di tutti i video di cui si era chiesto la monetizzazione. E non solo a quel portale.

YouTube: perché (quasi) nessuno ci guadagna davvero? Scrivono Milena Gabanelli e Andrea Marinelli il 25 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Un luogo comune dell’era digitale vuole che basti un po’ di ingegno per fare soldi su YouTube. Guardando i dati però, la realtà è un’altra: il 97 per cento degli YouTuber non riesce a superare i 10.000 euro all’anno. In Gran Bretagna, però, un minorenne su tre sogna di diventare una star del servizio video di Google — addirittura il triplo rispetto a chi sogna di fare il dottore — e di imitare DanTdm, un gamer ventiseienne che lo scorso anno ha incassato 16,5 milioni di dollari giocando ai videogiochi, oppure Zoella, che ha 28 anni e guadagna circa 50 mila sterline al mese pubblicando video su come si veste e si trucca. Tutti pensano che questi soldi li facciano con la pubblicità, ma è vero solo in parte.

Il 97% degli YouTuber non batte chiodo. Google non rivela i numeri esatti, ma secondo le stime i canali YouTube al mondo sono all’incirca 1 miliardo. Di questi, stando a uno studio dell’Università di Offenburg, in Germania, il 97 per cento non batte un chiodo. Il 2 per cento riceve almeno 1,4 milioni di visite al mese e galleggia invece attorno alla soglia di povertà, incassando all’incirca 16.800 dollari all’anno. A guadagnarci davvero è il restante 1 per cento, che ottiene fra i 2 e i 42 milioni di visualizzazioni ogni mese. Secondo l’autore della ricerca Mathias Bartl, professore di Scienze Applicate e fra i primi a esaminare i dati di YouTube, «avere successo nella nuova Hollywood è difficile quanto in quella vecchia». E il risultato è che puoi avere mezzo milione di follower su YouTube, ma essere costretto a lavorare da McDonald’s per mantenerti.

Un milione di visualizzazioni vale 1.000 dollari. La pubblicità su YouTube, infatti, porta all’incirca 1 dollaro ogni 1.000 visualizzazioni (a volte 50 centesimi, altre 5 dollari: dipende dai casi e i dati non sono pubblici). Un milione di visualizzazioni si trasforma dunque in appena 1.000 dollari al mese. Questo però se la pubblicità viene guardata: siccome molti installano programmi che la bloccano e altri la saltano appena parte, la società di marketing britannica Penna Powers calcola che alla fine soltanto il 15% la vedono realmente. E così un milione di visualizzazioni si trasforma in 150.000, e 1.000 dollari diventano appena 150.

Come fare i soldi su internet. In sostanza, Internet è un ottimo palcoscenico per avere visibilità, ma poi bisogna saper approdare alle sponsorizzazioni, ai libri o alle trasmissioni televisive da cui ricevere un cachet: è da lì che arrivano i soldi veri di star come Sofia Viscardi — dal cui libro Succede è appena stato tratto un film omonimo, uscito in Italia a inizio aprile — o Favij, che ha raggiunto il primo posto nella classifica della narrativa italiana con il romanzo fantasy The Cage – Uno di noi mente, pubblicato da Mondadori Electa. Il discorso vale anche per Instagram, che è di proprietà di Facebook: il grosso dei corposi incassi di Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, gli influencer italiani con più follower su Instagram, arriva proprio da sponsorizzazioni e accordi commerciali. Per guadagnarci, quindi, bisogna essere bravi imprenditori.

YouTube ha cambiato l’algoritmo. Non è un caso che la stessa società di streaming voglia aiutare i creatori di contenuti a guadagnare di più, ma anche loro vogliono farlo tramite sponsorizzazioni o programmi di commenti a pagamento: più paghi, più in evidenza saranno le tue parole. A questa situazione contribuisce anche l’algoritmo di YouTube: nel 2006 il 3% dei canali più seguiti totalizzava il 64% delle visualizzazioni totali del sito. Dieci anni più tardi raggiunge il 90%. In pratica, YouTube ha cambiato l’algoritmo per far circolare di più i video migliori, penalizzando tutti gli altri. Recentemente, ha anche stabilito che per poter guadagnare con la pubblicità è necessario avere almeno 1.000 follower e 4.000 ore di visualizzazioni nell’ultimo anno, complicando ulteriormente la strada verso il successo.

Uno su mille ce la fa. Insomma, ce la fanno in pochi, chi ce la fa sempre invece è YouTube, che vuol dire Google, che vuol dire un fatturato globale da 100 miliardi di dollari nel 2017, e 60 miliardi parcheggiati nei paradisi fiscali offshore. In Italia incassa in pubblicità circa 1,5 miliardi di euro all’anno, ma le tasse le paga in Irlanda, al 12,5 per cento. Alla fine anche da noi il colosso californiano è stato costretto a lasciare qualcosa: 306 milioni. Ma solo dopo l’intervento dell’Agenzia delle Entrate e della Procura di Milano.

California, a sparare una youtuber: «Era arrabbiata perché la società le aveva sospeso i pagamenti». Il padre della donna che ha aperto il fuoco, Nasim Aghdam: «Odiava la società». Aghdam, 39 anni scriveva: «Non c'è libertà di parola», scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Era arrabbiata perché «YouTube aveva smesso di pagarla per i video che pubblicava sulla piattaforma». Gli investigatori scavano nel passato di Nasim Aghdam, 39 anni, attivista vegana e animalista residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. A confermare l’ipotesi che la donna fosse furibonda con YouTube, il padre Ismail Aghdam che in un’intervista ad un giornale locale ha spiegato come la figlia fosse sparita lunedì e non rispondesse al telefono da due giorni. «Era arrabbiata perché YouTube aveva sospeso tutto, li odiava», ha dichiarato l’uomo. L’ipotesi è la società avesse sospeso i pagamenti o a causa dei contenuti inappropriati dei filmati postati dalla donna o a causa di un calo dei follower. Secondo la Nbc un suo filmato era stato censurato da YouTube e secondo il New York Times tutti i suoi canali erano stati rimossi martedì notte. Il 20 febbraio YouTube ha stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione e probabilmente i filmati di Aghdam sono rientrati in questo giro di vite.

Cos'è accaduto e chi era la donna. Aghdam, di origini iraniane, aveva una presenza sul web «rilevante», un sito internete postava video dal 2011 con il nickname di Nasim Wonderl e sul suo sito. Il contenuto variava: dalle ricette vegane, passando per le parodie musicali, fino ai commenti contro la violenza sugli animali e gli esercizi di bodybuilding. «Tutti i miei video sono autoprodotti senza l'aiuto di nessuno», scriveva orgogliosa. Aghdam si sarebbe lamentata più volte pubblicamente perché alcuni suoi post erano stati vietati ai minori, un trattamento che la stessa youtuber aveva denunciato non essere applicato a filmati dai contenuti più espliciti come i video clip di Miley Cyrus. «Non c’è libertà di parola nel mondo e verrai perseguitata per aver detto la verità», scriveva. Su Instagram il 18 marzo si lamentava di nuovo della censura di YouTube. La donna era anche un’attivista della Peta e manifestava a favore dei diritti degli animali. «Per me gli animali devono avere gli stessi diritti degli esseri umani», diceva a Los Angeles Times nel 2009.

YouTube sta rendendo più restrittive le regole che consentono agli iscritti di inserire pubblicità nei propri video e di guadagnare soldi. Lo scopo principale dell’iniziativa è quello garantire agli inserzionisti che i propri spot non finiscano all’interno di contenuti inappropriati o con immagini disturbanti, come avvenuto in passato.

La novità è stata annunciata dalla stessa azienda con un post sul blog “YouTube creators”: a partire da ieri, per iscriversi al “Programma partner” sono necessari almeno 1000 iscritti al proprio canale e 4000 ore di visualizzazione nell’arco degli ultimi 12 mesi.

“Le nuove regole ci permetteranno di migliorare in maniera significativa la nostra capacità di individuare i canali che contribuiscono positivamente alla nostra community e ci aiuteranno a generare maggiori entrate pubblicitarie per loro (e a tenerci lontano dai "cattivi attori"). Questi standard più elevati ci aiuteranno anche a evitare che i video potenzialmente inappropriati possano monetizzare, danneggiando i ricavi per tutti”, hanno spiegato Neal Mohan, chief product officer e Robert Kyncl, chief business officer. In precedenza, il requisito minimo per accedere al programma era quello delle 10mila visualizzazioni complessive. La differenza sembra sostanziale: a pagarne le conseguenze saranno sicuramente i canali più piccoli, che non attraggono un pubblico vasto ma che fino due giorni fa potevano guadagnare e perlomeno sostenere la realizzazione dei propri video. Prima di diventare famosi e raggiungere i requisiti richiesti, adesso gli aspiranti Youtuber dovranno trovare delle strade alternative per finanziare i propri progetti. YouTube pensa ovviamente ai propri interessi: un paio di mesi fa, aveva perso milioni di dollari di ricavi, in seguito alla decisione di alcuni inserzionisti – tra i quali Adidas, Mars, Deutsche Bank – di lasciare la piattaforma dopo essersi ritrovati la propria pubblicità sui dei video disseminati di commenti pedofili.

Come sottolinea il sito d’informazione The Next Web, l’approccio sembra contraddittorio: i nuovi criteri rendono la vita più difficile ai canali con pochi iscritti e visualizzazioni, lasciando tuttavia uno spiraglio ai trasgressori che distribuiscono contenuti inappropriati, ma che hanno successo. YouTube pensa di risolvere la questione affidandosi non solo alla metrica quantitativa, ma anche alle segnalazioni che arrivano dalla community e a metodologie di rilevazione di spam o altri abusi più efficaci.

L’annuncio arriva a distanza di una settimana della vicenda che ha coinvolto Logan Paul: il famoso Youtuber, apprezzatissimo tra i teenager, aveva condiviso il video di un suicidio avvenuto in Giappone. A rimuovere il contenuto però non era stato YouTube, bensì il suo stesso creatore. Con le identiche modalità era scomparso il video caricato qualche mese fa da PewPewDie – che con i suoi 12 milioni di dollari è tra le 10 star più pagate del Tubo nel 2017 – nel quale comparivano due uomini a petto nudo che avevano in mano un cartello con la scritta “Death to All Jews”. I due episodi, in particolare, hanno spinto YouTube a modificare anche le regole di Google Preferred, la soluzione di advertising dedicata ai canali più popolari (circa il 5% del totale): tutti i contenuti del programma saranno valutati da un moderatore e approvati manualmente. Se da un lato le mosse appaiono logiche e sensate, soprattutto per non perdere la fiducia degli inserzionisti e milioni di ricavi dalla pubblicità, dall’altro non si può fare a meno di notare che che la nuova policy, rischia di stroncare sul nascere i sogni di migliaia aspiranti youtuber e di rendere esclusiva una piattaforma che ha fatto invece dell’inclusività uno dei fattori chiave del suo successo.

Le migliori alternative a YouTube, scrive "1and1". YouTube è il campione indiscusso tra i portali video e può tranquillamente essere definito come il leader del settore. Con oltre un miliardo di utenti, secondo i dati forniti dalla compagnia stessa, quasi un terzo di tutta l’utenza Internet naviga su YouTube. È indubbio che la piattaforma da tempo sia stata riconosciuta anche come un efficace strumento di marketing. I video sono caricabili con pochi click e tramite la generazione automatica di un codice HTML sono facilmente postabili su siti web esterni. Inoltre, dal 2010, quando YouTube e SIAE hanno firmato un accordo riguardo ai video musicali e ai proventi generati dalle visualizzazioni di questi, è diventato ancora più difficile per la concorrenza. Dunque è lecito porsi la seguente domanda: quali alternative ci sono a YouTube?

Le alternative attive a YouTube presentate in questo articolo sono cinque e sono Vimeo, Dailymotion, Veoh, Vevo e Flickr. Questi quattro servizi offrono agli utenti privati ed a coloro che li utilizzano per lavoro molte possibilità diverse, come guardare e mettere a disposizione contenuti eccezionali.

Dailymotion è un portale video di origine francese, che rappresenta una delle migliori alternative a YouTube in termine di numero utenti, soprattutto nel suo paese di origine. Nel 2015 il servizio ha registrato una utenza attiva del 23%. Comparando a livello internazionale, nessun altro servizio raggiunge un valore simile. In Francia infatti Dailymotion si trova secondo solo a YouTube, che ha una utenza attiva del 57%. Ad ogni modo, anche in altri paesi Dailymotion si trova al secondo posto dietro a YouTube. La compagnia calcola i suoi utenti in giro per il globo attorno ai 300 milioni. Mensilmente vengono visualizzati 3,5 miliardi di video su Dailymotion. In Italia Dailymotion riceve 6 milioni di unique viewers al mese, registrando un totale di circa 65 milioni di visualizzazioni tra tutti i tipi di dispositivi. Dailymotion punta principalmente sulle specifiche di upload: con file video fino a 2GB e 60 minuti di durata. Vengono supportati numerosi formati video e audio, così che è possibile scegliere tra file con estensione .mov, .mpeg4, .mp4, .avi e .wmv. Come codec video e audio vengono consigliati rispettivamente H.264 e AAC con un frame rate di 25FPS. La risoluzione massima possibile è 1080p (Full HD). In questo modo il portale si confà anche agli uploader più esigenti; i file di grandi dimensioni sono ben accetti tanto quanto lo è una qualità convincente dell’immagine. Il layout, di colore blu e bianco, è semplice e comodo da utilizzare. L’ordine degli elementi è decisamente orientato a quello di YouTube, che ha il vantaggio, che anche i principianti riescono a raccapezzarci qualcosa sin da subito. Anche l’integrazione e la condivisione dei video su piattaforme esterne è semplice; con un click il codice HTML corretto viene automaticamente generato. Ci sono inoltre ulteriori funzioni per i cosiddetti partner, i quali hanno la possibilità di guadagnare soldi con Dailymotion esattamente come su YouTube. Anche con Dailymotion si può monetizzare con i video, personalizzare il player e controllare i proventi attraverso il tool di analisi. Perciò Dailymotion è una delle migliori alternative a YouTube particolarmente per i blogger, che vogliono mettere i propri contenuti a disposizione solo a pagamento o che vogliono offrire dei contenuti premium separati. Chi ad esempio vuole usufruire della monetizzazione offerta da Dailymotion per un sito web, può sia attivare il proprio sito sia incorporare un dispositivo speciale del provider. Alcuni partner rinomati hanno già preso parte a questo programma, e tra questi vi sono ad esempio la CNN, la Süddeutsche Zeitung e la Deutsche Welle. Anche la vasta scelta di App di Dailymotion risulta piacevole. L’alternativa a YouTube è presente con apposite App su molte Smart TV, set-top box o sulla Playstation 4 della Sony, e può essere guardata comodamente dal divano di casa. Il servizio può essere utilizzato anche da dispositivo mobile con applicazioni iOS, Android o Windows.

Youtube e gli (ab)usi per “difendere” il diritto d'autore, scrive "News Linet" il 25/11/2010. Oggi, sul noto blog Radio Music Smile, è apparso un post, firmato da “Ale”, in cui si parlava di un argomento un po' estraneo al mondo radiofonico, ma comunque legato a quello dei media. “Ale” raccontava che nella notte tra l'11 e il 12 novembre, Youtube avrebbe disattivato alcuni canali al cui interno erano stati caricati video con spezzoni di trasmissioni Mediaset. L'azienda televisiva avrebbe dato ordine, a quanto pare, di rimuovere interi canali per il solo fatto che vi fossero dei filmati d'archivio di vecchie trasmissioni, come ad esempio estratti dei “Mai dire gol” degli anni Novanta. È giusto, oppure no? Youtube, realmente, viola il diritto d'autore rendendo fruibili video prodotti da aziende commerciali o, comunque, private? In linea di massima, Youtube proibisce la pubblicazione di video coperti da copyright, appartenenti ad aziende televisive, case discografiche, produttori cinematografici e quant'altro. Come tutti sanno, però, i video vengono pubblicati direttamente dagli utenti, appartengono a loro archivi personali, hanno una bassa risoluzione, oppure fanno parte (sono lo sfondo, la colonna sonora) di produzioni realizzate da privati cittadini. Youtube, per difendersi, si è spesso appellato al “fair use”, l'utilizzo leale, per l'assenza di scopo di lucro e, appunto, per la bassa risoluzione che spesso hanno i filmati. Non è notizia di oggi, però, il numero infinito di cause intentate contro il colosso del video sharing, di proprietà di Google, per violazione del copyright. Cantanti, major discografiche, network televisivi come BBC, Viacom e, non ultima, Mediaset, hanno intentato cause milionarie e hanno costretto il portale a rimuovere centinaia di migliaia di video. Ora, la realtà è leggermente differente da ciò che comunemente si crede. Quando parliamo di video rimossi da Youtube, spesso non sappiamo che il portale – nella maggior parte dei casi – non rimuove fisicamente e in prima persona i contenuti. Come spiegato minuziosamente dal blog Byoblu, infatti, i produttori audiovisivi posseggono un meccanismo di rimozione indipendente, per cui in qualsiasi momento possono operare censure e blocchi lasciandone Youtube all'oscuro. È una realtà, non v'è dubbio, che gli editori abbiano a disposizione veri e propri team che setacciano il web alla ricerca di contenuti potenzialmente lesivi dei propri diritti d'autore. I video segnalati dal team vengono inseriti nel cosiddetto Content Id, il sistema di individuazione di materiale “pirata”, e l'editore può scegliere se inserirci un annuncio pubblicitario e, quindi, renderlo lucrativo, oppure bloccarlo. In tal caso il proprietario del canale riceve una segnalazione, e gli è impossibile tornare a caricare il video. Nel luglio 2008, Mediaset ha citato Youtube in giudizio, presso il Tribunale di Roma, chiedendo un risarcimento di 500 milioni di euro per il presunto caricamento illecito di alcuni video con spezzoni del Grande Fratello e nel dicembre 2009, il Tribunale ha disposto la rimozione dei video incriminati. Si è trattato, però, di un provvedimento cautelare, in attesa della decisione definitiva. Ora viene da chiedersi: ma in che modo questi video ledono l'azienda produttrice? La risposta è semplice: per quanto concerne i video di “Mai dire gol” recentemente spariti, ad esempio, è in uscita in queste settimane (come riferisce sempre il blog Radio Music Smile) una collana di dvd prodotti da Mediaset con “il meglio di...” delle trasmissioni della Gialappa's band degli ultimi vent'anni, quindi tutti i “Mai dire...”. Altra ragione è l'imminente lancio del nuovo canale digitale Mediaset Extra, che ricalca l'esperienza di Rai Extra e ripropone pezzi d'archivio delle trasmissioni degli anni passati: chi ha visto già tante volte lo spezzone in rete, non sarà più interessato a vederlo e, trovandolo in tv, cambierà canale. Per quanto concerne i filmati del Grande Fratello, infine, essendo il programma, a quel tempo, il contenuto più visto dell'intero panorama televisivo Mediaset, veniva spesso riproposto all'interno di trasmissioni di contorno che, inevitabilmente, entravano in concorrenza con la rete. Su questi aspetti la situazione è chiara. Ci sono, però, a volte, situazioni in cui le aziende, forti della possibilità di decidere del futuro di un video in base alle violazioni del copyright, travalicano un po' i confini e abusano di questo loro potere. È ciò che pare sia accaduto, secondo quanto pubblicato su it.answer.yahoo.com da un utente che intendeva spiegare il meccanismo di funzionamento della censura online sui portali di video sharing. Censura che, occorre ricordarlo, può essere facilmente, oramai, aggirata attraverso il collegamento a server come Undeletube, DeletedYoutubeViewer o Deletube, dove i video bloccati o cancellati vengono salvati e restano visibili. Ma torniamo agli abusi. L'utente in questione segnalava nove mesi fa la sparizione di un video prodotto da Marco Travaglio (registrato dallo studio della sua abitazione e perfettamente amatoriale), dal titolo eloquente “i Bertoladri”, destinato alla settimanale rubrica “Passaparola”, in rete ogni lunedì sul sito di Beppe Grillo. Il video in questione riguardava i noti fatti attribuiti dalla Procura di Roma ad esponenti della Protezione Civile e a Guido Bertolaso, riguardanti presunti scambi di favori tra l'organo nazionale, dipendente dalla Presidenza del Consiglio, e alcuni imprenditori. Ora, come sempre accade, il video era finito su Youtube. Pochi giorni dopo, però, viene rimosso e a chi ci clicca su appare la scritta “Questo video non è più disponibile a causa di un reclamo di violazione del copyright da parte di Mediaset”. Al gestore dell'account qualcosa inizia a non tornare e allora decide di sporgere un reclamo a Youtube per chiedere quale mai possa essere la violazione del copyright di Mediaset in un video amatoriale, registrato dall'ufficio di casa Travaglio e pubblicato su un blog. La risposta di Google, proprietario del sito, non si fa attendere: si è trattato di “una conseguenza della causa civile intentata da Mediaset nei confronti di Youtube per la pubblicazione di alcuni stralci del Grande Fratello”. A questo punto l'accounter perde completamente in filo. Ma Google si spiega, in una nota del suo ufficio stampa: “Per ordine del giudice della causa civile promossa dinnanzi al Tribunale civile di Roma da RTI contro YouTube – scrivono -, ci è stato ordinato di consentire al Consulente incaricato dal giudice di effettuare verifiche sul corretto funzionamento del sistema di Content ID. La rimozione del video in questione è avvenuta nel corso di queste verifiche ad insaputa di YouTube. Non appena abbiamo avuto notizia ci siamo attivati per risolvere l’inconveniente contattando il Consulente. Va ricordato che YouTube è un hosting Service Provider e nel caso di segnalazioni relative al copyright ha l’obbligo di rimuovere i contenuti segnalati”. Questo è quanto si apprende dal blog Piovono rane. Quindi, la sostanza sarebbe questa: Mediaset avrebbe, quindi, incaricato un Consulente di controllare la pubblicazione di estratti del Grande Fratello ma questo si sarebbe fatto prendere la mano e avrebbe bloccato nientemeno che un video di Travaglio, che nulla c'entra, fino a prova contraria, con Grande Fratello o Mediaset, in cui il giornalista attaccava il presidente del Consiglio. Il video è stato ripristinato ma la notizia, se confermata, avrebbe dello sconvolgente e travalicherebbe, senza l'ombra di un dubbio, il limite sempre un po' incerto della censura. L'azienda, si sarebbe servita di un mezzo lecito come il controllo del web per la segnalazione di violazioni del diritto d'autore, per fini di natura politica e censoria. La ragione? Sarà quella indicata da Bernie Lomax, in uno dei commenti in coda al post: forse la misura è scattata “perché nella libreria alle spalle di Travaglio c'erano dei titoli Mondadori”. O, forse, si è trattato semplicemente di una svista: ma che casualità, no? Battute a parte, gli interventi “preventivi” nei confronti della rete non riguardano certo solo Mediaset o quella parte politica. Chi è senza peccato scagli la prima pietra si diceva nella Bibbia. Non la scaglierebbe, in questo caso, il Partito Democratico. Sempre sul blog Byoblu, infatti, si parla di una “marachella” del consueto team di setacciatori dei produttori audiovisivi, questa volta facenti capo a You Dem, la tv del Pd. Ricordate la contestazione nei confronti del Presidente del Senato Schifani, ai primi di settembre, nel corso della Festa Democratica a Torino? Quella contestazione che Fassino etichettò come “squadrista”? Ecco, un utente anonimo della rete, il giorno successivo il fatto, postò un commento sull'accaduto, allegandovi un video, tratto da Youtube, che riprendeva i momenti “caldi” della protesta. Video che il giorno precedente era stato trasmesso, appunto, da You Dem. Con gran sorpresa dell'autore del post, però, poche ore dopo, il video che accompagnava il suo commento non era più visionabile: bloccato, chiuso, censurato dal team di You Dem che controlla la viralizzazione in rete delle proprie produzioni. Al suo posto, su Youtube, pare ironico ma è vero, v'era il celebre duro commento dell'ex segretario Ds che accusava il “popolo viola” di “squadrismo”. Questo caso, certo, presenta caratteristiche diverse dal precedente perché gli editori non hanno avuto bisogno di appellarsi a un'improbabile svista nella rimozione dei contenuti, ma hanno potuto tranquillamente argomentare che si trattasse di un presunto caso di violazione del copyright. Nonostante ciò, il dubbio che si sia trattato di un intervento politico per non rendersi responsabili di potenziale appoggio “internautico” alla contestazione nei confronti della seconda carica dello Stato, resta più che lecito. Così come il dubbio che questo genere di “piccole” misure per far sì che i produttori audiovisivi abbiano le mani meno legate nell'impedire in tempo reale eventuali violazioni dei propri copyright, finiscano per dar loro via libera con troppa facilità a quel blocco sistematico di contenuti sgraditi, che i più pessimisti chiamerebbero censura. (G.C. per NL)

Diritto d’autore, Gabry Ponte e l’abuso che diventa censura, scrive Guido Scorza il 15 agosto 2014 su "Il Fatto Quotidiano". “The show must go on” – lo spettacolo deve continuare – cantano i Queen in un memorabile e struggente brano pubblicato a poche settimane dalla scomparsa di Freddie Mercury del quale è stato, a lungo, considerato – a torto – una sorta di testamento spirituale. Parole e note, quelle di The show must go on che, evidentemente, non condivide Gabry Ponte – noto [o almeno così dice chi segue le cose della televisione, ndr] – dj, membro degli Eiffel 65 e produttore musicale, lanciato da Maria De Filippi che lo ha voluto tra i giurati del suo “Amici”, il quale nei giorni scorsi dopo aver incassato 10 mila euro oltre le spese di viaggio dall’ente di promozione turistica di Civitella del Tronto, in Abruzzo, visto che il pubblico era al di sotto delle sue aspettative, ha deciso di fare i bagagli e ritornare a casa senza esibirsi e, naturalmente, trattenendo il compenso. Ma la storia è già stata raccontata qui e, forse, meriterebbe di essere archiviata come una delle tante storie dei capricci del “divo di turno” – o di chi si sente tale – rispetto alle quali il meglio che si può fare e non parlarne affatto in modo da evitare di fare immeritata pubblicità a chi, evidentemente, non la merita. Ciò che, però, rende odiosa questa vicenda e impone, al contrario, di parlarne e di continuare a farlo ancora a lungo è ciò che è accaduto subito dopo la fuga notturna di Ponte da Civitella. Vera Tv Abruzzo – una Televisione locale – racconta, infatti, la storia ai suoi telespettatori nel corso del suo Tg, in un servizio di una manciata di minuti, montato con immagini e, pare, qualche estratto musicale di precedenti esibizioni di Ponte. Il video viene caricato su YouTube, inizia a girare, il link è twittato e le immagini sono condivise nel mondo social, quello popolato dai fans di Ponte.

Lo staff del “divo”, a questo punto, evidentemente, teme l’autogol: dopo aver sottratto Ponte ad un’esibizione davanti ad un pubblico ritenuto troppo “modesto” per le grandeur del giovane Gabry, gli utenti di Facebook e Twitter gli stanno dando ciò che probabilmente merita ovvero una lezione di educazione, etica e buone maniere. Ed è qui che, a qualcuno dello staff, deve venire il colpo di genio: segnalare a YouTube ed in ogni dove il carattere illecito, per violazione del diritto d’autore, del servizio giornalistico di Vera Tv Abruzzo. Ponte segnala e YouTube rimuove, senza colpo ferire perché, nel clima di terrore da violazione dei diritti d’autore che si è instaurato nel nostro Paese, ovviamente un intermediario della comunicazione come YouTube davanti all’alternativa tra vedersi trascinato in giudizio da Gabry Ponte o rimuovere un video che non ha mai assunto alcun obbligo giuridico a pubblicare, preferirà sempre rimuovere il video. Nello spazio di poche ore il video scompare dal web o, almeno, dalle piste più battute del web. Ma non basta. Nelle ore successive, Antonio D’Amore, Direttore di Vera Tv, sentendosi – e a ragione – offeso nella sua dignità di giornalista e percependo quanto avvenuto – ed ha ancora una volta ragione – come una gravissima lesione della libertà di informazione, decide di firmare un editoriale nel quale racconta la storia e denuncia la censura. Questa volta c’è solo il suo volto e le sue parole, niente musica di Ponte e niente immagini del “divo”.

La storia, però, si ripete. Il video viene caricato su YouTube e nello spazio di poche ore, rimosso ancora, sempre su segnalazione dello staff di Ponte. E’ possibile che tutto questo accada in Italia? Non c’è diritto d’autore che tenga, quanto accaduto si chiama “censura”. Nel primo caso – quello del servizio giornalistico contenente qualche sua immagine ed un estratto di un suo brano – Gabry Ponte ha evidentemente abusato dei suoi diritti d’autore ovvero li ha esercitati al solo fine di evitare che si parlasse – giustamente – male di una sua assai poco nobile impresa. Nel secondo caso, lo staff di Ponte, deve, addirittura, aver mentito a YouTube, segnalando che il video con l’editoriale del direttore di Vera Tv, violava i diritti d’autore mentre, evidentemente, così non era. Vien voglia di far salire sul banco degli imputati Google, proprietaria di YouTube prima e il diritto d’autore poi, contestando ad entrambi l’aver provato centinaia di migliaia di cittadini italiani della libertà di accedere ad un’informazione di pubblico interesse in aperta violazione della nostra Costituzione e prima ancora della dichiarazione dei diritti dell’uomo, datata addirittura 1789. Ma si sbaglierebbe. Il diritto d’autore e YouTube non c’entrano. La colpa è nostra e, naturalmente, di Gabry Ponte. Nostra – in senso diffuso – per aver consentito senza ribellarci – o ribellandoci troppo poco – che, anno dopo anno, si affermassero online regole e principi che sono la negazione palese di diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino acquisiti da oltre due secoli e del “divo di turno” che ha si è approfittato della situazione, a proprio uso e consumo, a tutela non dei suoi diritti d’autore, ma di un curioso diritto – assolutamente inesistente nell’ordinamento – a che altri non parlino male di lui, neppure quando lui ha torto e li altri ragione. Questa volta ad essere censurata è stata una brutta storia di malcostume e mancanza di buone maniere, una storia di mezza estate, certamente importante – come lo è ogni storia – ma non determinante per l’equilibrio democratico del Paese ma domani potrebbe toccare – ed in realtà è già capitato con relativa frequenza – attraverso le stesse dinamiche, ad una storia che anziché Gabry Ponte – figlio dell’italico tele-comando – riguardi chissà quale rappresentante delle istituzioni. E allora? Che faremo? Assisteremo in silenzio a che “pezzi” di informazione libera, elementi preziosi per la nostra democrazia, vengano censurati, perché qualcuno abusa del proprio diritto d’autore e qualcun altro glielo lascia fare perché fa impresa in un Paese nel quale se si viola il diritto d’autore di una persona si finisce in tribunale mentre se si viola la libertà di informazione di milioni di cittadini non succede assolutamente nulla? Dobbiamo cambiar rotta e farlo in fretta. La carta dei diritti e doveri di internet alla quale sta lavorando Stefano Rodotà nell’ambito della Commissione istituita dalla Presidente della Camera dei Deputati è la strada giusta.

Youtube e diritto d’autore: il copyright come clava per ripicche e censure. L'articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale, scrive il 30 giugno 2010 "Attivissimo". Vi racconto un bell'esempio di come funzionano male le attuali norme sul diritto d'autore: diventano strumento di vendette personali e di censura.

L'accusa. Nei giorni scorsi ho ricevuto da Youtube una serie di avvisi di violazione del diritto d'autore per alcuni video, tutti riguardanti il tema delle cosiddette "scie chimiche". Anche altre persone che hanno pubblicato video sullo stesso tema si sono ritrovate con i medesimi avvisi, come potete leggere per esempio qui, qui, qui, qui e qui: e non sono gli unici casi. Riporto un paio degli avvisi di contestazione di copyright che mi sono arrivati: provengono tutti dal Comitato Tanker Enemy, ossia da Rosario Marcianò, uno dei più accesi sostenitori delle teorie sciachimiste. Non c'è nulla nei miei video "Scie chimiche, la consegna del Perlone", "Franceschetti: Marcianò è pagato dalla CIA?" e "Enters the CIA" (se non funzionano questi link, leggete l'ultimo aggiornamento) che violi il copyright: il primo documenta la consegna pubblica, durante una conferenza, del "Perlone" (un premio ironico, una sorta di Tapiro low-cost) a Marcianò; il secondo documenta la battuta di Paolo Franceschetti, che durante la stessa conferenza chiede se Marcianò è pagato dalla CIA; il terzo riprende me e gli amici della Società degli Scettici Allegri che entrano silenziosamente nella sala della conferenza indossando i cappellini della CIA. Tutto qui. Sono stati ripresi in un luogo accessibile al pubblico, durante un convegno pubblico, nel quale erano state esplicitamente richieste e permesse le riprese; sono stati ripresi per conto di un giornalista, cioè il sottoscritto; e documentano eventi avvenuti in pubblico. In altre parole, si tratta di diritto di cronaca. Addirittura il quarto dei miei video accusati di violazione riprende il cielo dalla finestra di casa mia, con l'inquadratura fissa che vedete qui accanto. Non ci sono volti o persone o musica. Il cielo, almeno per ora, non è vincolato dal diritto d'autore di nessuno. Sembra piuttosto evidente che si tratta di una ripicca isterica di qualcuno che vuole evitare che si sappia in giro quali affermazioni ridicole e accuse demenziali ha fatto. Coloro che accusano i media ufficiali di censurarli sono dunque i primi a ricorrere a questi mezzucci per zittire chi osa mostrare i loro comportamenti imbarazzanti. E chi si sciacqua la bocca parlando tanto di democrazia diretta in realtà offre sostegno a chi dimostra di non tollerare la democrazia e il diritto, salvo quando fa comodo usarli come scudo per i propri giochetti infantili. Cari sostenitori delle scie chimiche, questi sono i metodi del vostro leader. Pensateci.

La difesa. Ho già inviato a Youtube via mail una serie di opposizioni o Counter-Notification, secondo la procedura descritta qui. È una grossa spesa di tempo, ma è anche un'occasione per mettere alla prova i meccanismi di Youtube. Cosa succede quando qualcuno manda a Youtube una falsa accusa di violazione di copyright? Il video viene subito disabilitato, ancora prima di aver ascoltato le ragioni dell'accusato. Già questo non è granché in termini di giustizia.

L'accusa di violazione come strumento anti-privacy. Leggendo le istruzioni di Youtube emerge un altro elemento interessante: se si fa opposizione inviando a Youtube una Counter-Notification, il testo dell'opposizione viene inviato all'accusatore. E include i dati personali dell'accusato.

In altre parole, accusare un utente Youtube di violazione del diritto d'autore permette di sapere chi è. Conoscendo l'ossessione degli sciachimisti per venire a sapere le identità dei loro "nemici", non è implausibile che dietro il loro attacco ci sia anche questa finalità.

Rischi per chi accusa falsamente. C'è un altro aspetto che merita attenzione. L'accusatore ha dieci giorni di tempo per comunicare a Youtube di aver iniziato un iter giudiziario per far valere il proprio diritto d'autore. Se Youtube riceve questa comunicazione, i video non verranno più riabilitati. Se non la riceve, i video potranno essere riabilitati.

Ma è interessante soprattutto notare che chi abusa del servizio di contestazione del copyright può essere citato per danni. Inoltre Youtube avvisa che l'abuso del servizio di notifiche di violazione porta alla cancellazione dell'account Youtube dell'abusatore.

In altre parole, la mia opposizione è stata inoltrata a chi ha fatto la rivendicazione di violazione del proprio diritto d'autore (Marcianò). Se questa persona non risponderà a Youtube, Youtube potrà ripristinare il video. Notate che non garantisce; presumo e spero sia solo legalese cautelativo. La risposta riguarda il video per il quale ho inviato la Counter-Notification via mail accompagnata dalla scansione della mia firma. Nessuna risposta specifica, per ora, alle Counter-Notification inviate via fax: ho ricevuto invece un'altra mail riguardante un video non specificato, che ha un tono decisamente più perentorio (in senso a me favorevole). In questo caso (ma non dicono a quale video si riferiscono), Youtube sembra garantire il ripristino del video entro un termine preciso. Sono fra l'altro in buona compagnia: la Warner Music ha fatto rimuovere da Youtube un video di una presentazione realizzata da Lawrence Lessig, l'esperto legale fondatore del Creative Commons, accusandolo di violazione del diritto d'autore, in barba alle leggi sul fair use, che Lessig conosce benissimo e rispetta per i propri video. Ne parla Ars Technica.

Mi segnalano questa nuova chicca pubblicata da Marcianò, che sembra essere la sua risposta, in un esilarante inglese maccheronico, a Youtube. Non perdetevi il passaggio in cui si lamenta che io non ero stato autorizzato a sparargli.

Lasciando da parte (a fatica) la costellazione di svarioni d'inglese e le accuse diffamatorie nei miei confronti, la cosa più surreale è che se questa è davvero la comunicazione inviata a Youtube, Marcianò dimostra di non aver capito né come funziona la procedura di risoluzione delle controversie di Youtube, né cos'è il diritto d'autore. La procedura di Youtube richiede che l'accusatore (Marcianò, in questo caso) comunichi a Youtube, entro dieci giorni, di aver iniziato un'azione legale contro il presunto violatore (io, in questo caso), mirata a ottenere un'inibitoria di un tribunale contro la violazione ("After we send out the counter-notification, the claimant must then notify us within 10 days that he or she has filed an action seeking a court order to restrain you from engaging in infringing activity relating to the material on YouTube"). A Youtube non frega nulla delle beghe personali, dell'asta su eBay o se io sono un santo o se invece strangolo i pangolini di notte: interessa che l'accusatore avvii un'azione legale. Se Marcianò non lo fa e non lo documenta, per Youtube il caso è chiuso e i miei video potranno essere ripristinati. Dato che non sembra che Marcianò intenda intraprendere quest'azione legale (e i dieci giorni di termine passano in fretta), rischia che Youtube si rivalga su di lui per falsa rivendicazione del diritto d'autore. Sarebbe un autogol esilarante. L'altro aspetto interessante è che Marcianò sembra credere che riprenderlo in un luogo pubblico, durante una conferenza pubblica di cui lui è relatore e in cui è stato dato esplicito permesso di ripresa, sia una violazione di copyright. Ma apparendo in pubblico, oltretutto come relatore, e anche in trasmissioni televisive, ha implicitamente rinunciato al proprio diritto all'immagine: Marcianò è ormai quella che si definisce formalmente "persona notoria", per la quale non occorre chiedere alcun consenso. Recita infatti l'articolo 97 della legge sul diritto d'autore n. 633/1941: Non occorre il consenso di una persona ritratta quando la riproduzione di un'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritratta.

Dato che Marcianò ha indossato volontariamente il cappellino della CIA, non può neanche appellarsi al pregiudizio all'onore o alla reputazione. Tutto questo vale soltanto per i video nei quali è ritratto Marcianò: solo uno, tra quelli fatti rimuovere dal mio canale Youtube. Negli altri, che non mostrano Marcianò, non c'è neppure questo aspetto. Marcianò sembra insomma avere ben poche speranze di successo e molte di dimostrare un comportamento vessatorio e ridicolo, che non giova alla sua causa e di certo non lo mostra come abile condottiero del movimento sciachimista. Anzi, non mi sorprenderebbe se qualcuno cominciasse a chiedersi se sia efficace avere come figura di riferimento una persona che si comporta sistematicamente in un modo così imbarazzante, porgendo così maldestramente il fianco al "nemico". Ma a parte questo, l'episodio sta diventando una buona occasione per ripassare il diritto d'autore e il diritto all'immagine. Se vi interessano questi argomenti, potete consultare per esempio i testi delle leggi italiane presso Fotografi.org oppure il sunto presso Photoactivity.com.

Sono stati quindi ripristinati tutti i video che Rosario Marcianò, alias "Comitato Tanker Enemy" aveva segnalato a Youtube per presunta violazione del copyright. La procedura di risoluzione delle dispute sul copyright di Youtube, insomma, funziona: è lenta e strumentalizzabile, ma funziona. L'importante è non mollare e scrivere una mail o un fax di opposizione (counter-notification) scritti in modo chiaro, schematico e in perfetto inglese americano, perché gli oberatissimi addetti di Youtube hanno poco tempo e una soglia di comprensione molto bassa ("Efax" docet).

Non ho avuto tempo di raccontare prima di oggi la successiva puntata di questa telenovela, ma rimedio subito. Il 17 settembre 2009 Youtube mi comunica che tre miei video ora sono oggetto di "un reclamo di violazione della privacy da parte di una persona in relazione ai tuoi contenuti", senza indicarmi chi è il reclamante. Due dei video in questione sono i già contestati "Scie chimiche, la consegna del Perlone" e "Franceschetti: Marcianò è pagato dalla CIA?". Il terzo è una nuova entrata: "Sciachimisti in TV: Magic Moments".

Stavolta Youtube non offre la possibilità di contestare il reclamo. O modifico i video, o li tolgo: Vogliamo offrirti l'opportunità di rimuovere o modificare il tuo video in modo che non violi più la privacy delle persone coinvolte. Modifica o rimuovi il materiale segnalato dall'utente entro 48 ore dalla data di oggi. Se non intraprendi alcuna azione, il video verrà sottoposto all'esame da parte del personale di YouTube e ti verrà vietato di caricarlo nuovamente.

Modificare i video significa crearne nuove versioni e ricaricarle, perdendo quindi comunque link e conteggi dei visitatori dei video originali, per cui tanto vale lasciare che passino le 48 ore e vedere che succede. È quello che faccio. Due dei video, quelli già contestati in precedenza, vengono rimossi. Il terzo, quello nuovo, invece no, probabilmente perché trattandosi di uno spezzone di un programma TV la contestazione di privacy violata è evidentemente priva di senso anche alla luce di un esame sbrigativo e senza istruttoria come quello condotto dai valutatori di Youtube.

Non ci vuole una mente sublime per capire chi ha sporto reclamo, ma qui è Youtube che è maggiormente in difetto, perché non offre alcun canale evidente per risolvere dispute o presentare fatti che chiariscano il contesto o il diritto di ripresa. Non è tutto: siccome il contestante non viene indicato da Youtube nella notifica, non c'è modo di sapere se chi ha inviato la contestazione ha il diritto di farlo, e di conseguenza non si sa come modificare il video per rispettare la privacy del contestante. Se non so chi è e nel video ci sono più persone, come faccio a sapere di chi devo mascherare la faccia?

È quindi molto facile utilizzare gli strumenti di contestazione di Youtube per fini vessatori. Tenetelo presente. Due dei video sono stati di nuovo rimossi qualche tempo fa senza una giustificazione sensata. Ho finalmente trovato il tempo di recuperarli e ripubblicarli qui e qui. Vediamo che succede.

E poi c’o il paradosso: la censura mascherata. Con la scusa di ritenere i contenuti non adatti alla massa, si chiudono i canali per impossibilità di sostentamento.

Video: YouTube che stai facendo? Ecco cosa c’è dietro la richiesta di donazioni di TheShow. Il canale YouTube di candid camera è alla frutta: con le nuove regole di monetizzazione ha perso l'80% dei guadagni, ma è un problema globale che riguarda tutti, scrive Andrea Lombardi il 2 giugno 2017.

La richiesta di Alessandro e Alessio arriva a bomba sui quasi due milioni di iscritti al canale: «o ci aiutate donando anche solo 1€ al mese, oppure probabilmente il canale chiuderà perché YouTube ci ha tolto l’80% dei guadagni». Onore al coraggio di essere stati tra i primi creatori di contenuti in Italia a fare una richiesta di donazioni di questa portata, prendendosi pure in cambio una tonnellata di merda lanciata in faccia da parte dei loro fan, ma l’accorato appello di questi due ragazzi è solo la punta dell’iceberg di un problema molto più ampio. E che non riguarda solo YouTube. Cerchiamo di capire che cosa sta succedendo davvero sul Tubo e soprattutto perché sta accadendo. Come si è arrivati a questa situazione disperata che sta tagliando le gambe a tutti gli youtuber che sopra questa piattaforma ci hanno costruito il loro lavoro?

Il problema in sintesi. Succede che alcuni video balzano alle cronache nazionali (in diversi Paesi) perché contenenti immagini considerate da qualcuno moralmente deprecabili. Fin qui, nulla di nuovo. Il problema è che qualcuno fa notare che Hey, l’utente che ha pubblicato quei video ci sta pure guadagnando sopra visto che prima del video appare quella strafottutissima pubblicità che vedi solo se non hai installato AdBlocker. Perché è così che funziona: sono i proprietari dei canali che decidono di attivare le pubblicità che vedete sui loro video, ricevendo in cambio una parte del guadagno generato dalla pubblicità stessa. Più gente vede quella pubblicità più l’inserzionista dà soldi a YouTube e più quest’ultimo paga l’autore del video in questione. O meglio, pagava, perché le regole sono cambiate. In seguito alle polemiche alcuni grandi marchi come Netflix si sono sentiti danneggiati dal fatto che i loro nomi fossero associati a contenuti moralmente discutibili, quindi hanno minacciato Google di chiudere i rubinetti se non fosse riuscito a mettere le loro pubblicità solo dentro ai video di buon gusto e adatti a tutto il pubblico.

Come ha risposto YouTube? Rivedendo il suo algoritmo di classificazione automatica dei video in chiave restrittiva e aggiornando le regole della “modalità con restrizioni”.

Cos’è la modalità con restrizioni? È un’opzione facoltativa tutt’altro che nuova visto che esiste dal 2010. Alcuni utenti, ad esempio quelli associati ai pc delle scuole o delle biblioteche, possono attivare questa modalità in modo che ogni persona che si collega a YouTube veda solo i video che hanno superato il filtro contro i contenuti violenti, osceni e in generale non adatti a tutto il pubblico. Di per sé è una buona cosa e non sarebbe neanche un grosso problema visto che è un’opzione disattivata di default, ma vediamo perché grazie alle nuove regole potrebbe essere il suicidio di YouTube e la condanna professionale per tutti gli youtuber. Come ho detto, la revisione dell’algoritmo e delle regole è stata fatta soprattutto per tutelare gli sponsor, che hanno minacciato di non spendere più un soldo in pubblicità se YouTube non fosse riuscito ad evitare che il loro marchio venisse associato a video considerati lesivi dell’immagine. Ora, i video che vengono rigettati dall’algoritmo e che quindi non rientrano nella modalità con restrizioni possono comunque essere visualizzati da tutti gli utenti “normali”, quelli cioè che non hanno volontariamente abilitato questa modalità protetta, e possono anche essere monetizzati rimanendo una potenziale fonte di guadagno. Il problema è che dal lato degli inserzionisti è cresciuto l’interesse a investire solo sui contenuti classificati come buoni, inoltre quando si crea una nuova inserzione pubblicitaria questa opzione è quella selezionata per default, come spiega lo screenshot qui sotto. Poco male, no? Basta non caricare video dove si picchiano i cani, si stuprano le compagne di classe e si inneggia all’ISIS e tutto sarà come prima! …e invece no, perché le regole sono cambiate.

Le nuove regole di YouTube. È tutto spiegato nella guida ufficiale di YouTube, non sto inventando niente. Google ha deciso quali sono i contenuti che causano ai video l’uscita dalla modalità con restrizioni, che al di là della teoria significa perdere di colpo il 60/75% dei guadagni dovuti alla monetizzazione. Ecco di cosa non si deve parlare per non essere penalizzati:

Droghe e alcol – ma non essendo specificato vale anche per i video di prevenzione all’abuso di droghe.

Sesso – video con dettagli relativi all’attività sessuale, ma anche videoclip musicali con riferimenti espliciti al sesso o alle droghe.

Violenza – e non si intende solo incitazione alla violenza, ma anche video che contengono disastri naturali e tragedie e persino situazioni violente riportate nelle notizie.

Argomenti adatti a un pubblico adulto – video che trattano dettagli specifici di eventi di terrorismo, guerra, crimini e conflitti politici che hanno provocato morti o feriti gravi anche se non vengono mostrate immagini esplicite.

Linguaggio osceno e adatto a un pubblico adulto – e qui la ciliegina sulla torta perché basta dire la parola “cazzo” per non passare l’approvazione.

Praticamente rientrano in almeno uno dei punti la quasi totalità dei video che non sono già stati pensati per i bambini. Per assurdo, un telegiornale in prima serata in televisione che parla di terrorismo e disastri naturali, con un paio di servizi su omicidi di mafia, sarebbe probabilmente bocciato dall’algoritmo ed escluso dalla modalità con restrizioni. E dico probabilmente perché è YouTube stessa a dire probabilmente. Infatti non dà nemmeno regole chiare e tutti questi contenuti sono indicati nei suoi documenti ufficiali come probabile causa della bocciatura del video.

L’algoritmo fa acqua da tutte le parti. Non potendo controllare a mano tutti i video, Google ha deciso di affidarsi ad un software che controlla i contenuti alla ricerca delle espressioni da censurare nella modalità con restrizioni. Il problema è che questo algoritmo fa acqua da tutte le parti e non funziona. I ragazzi di Quei Due Sul Server sono infatti riusciti a caricare video pieni di bestemmie e farli passare in modalità con restrizioni, mentre si sono visti bocciare contenuti perfettamente aderenti agli standard. Hanno fatto un gran lavoro di sperimentazione e qui sotto spiegano come sono riusciti ad aggirare YouTube. Sostanzialmente ci sono alcuni nomi di marchi (Lego, Marvel solo per citarne due) che se usati in posizioni chiave come il titolo del video sembrano avere un peso tale da permettere all’intero video di passare il filtro.

Non è censura, ma è un problema grave. YouTube è una piattaforma privata, come Facebook, Twitter o qualsiasi altra. Ha degli interessi economici da difendere e ha comunque il diritto di fare il bello e cattivo tempo con i propri utenti. Può persino decidere di chiudere i battenti e scomparire dal web, se ritiene. YouTube non ci deve niente. Alcuni di noi hanno basato il proprio business su alcune di queste piattaforme perché era facile raggiungere le persone ed avere successo (anche economico) con relativamente poco sforzo, dimenticandosi che man mano che creavano contenuti da pubblicare attraverso questi canali stavano sostanzialmente regalando il frutto dei loro sforzi ai proprietari della piattaforma. La stessa cosa vale per le testate che oggi ricevono più traffico tramite Facebook che tramite gli accessi diretti al loro sito, come avevo già scritto siamo stati noi a regalare le chiavi di casa a queste piattaforme. Ripeto, YouTube non applica una vera e propria censura (cosa che avrebbe il diritto di fare, se lo volesse) e in teoria non impedisce ai video che non sono approvati dall’algoritmo di monetizzare, ma di fatto per i meccanismi che vi ho spiegato taglia le gambe agli youtuber più famosi, quelli che hanno costruito una professione intorno ai loro video e che campano grazie a questo, alle volte pagando pure stipendi ad altre persone. Il problema ora è anche di YouTube, però. Perché i suoi guadagni arrivano dagli inserzionisti, è vero, ma in realtà siamo noi spettatori i clienti, ecco perché potrebbe essere l’inizio della fine di YouTube, se questa situazione non venisse prontamente risolta.

Corsi e ricorsi storici (come muore una piattaforma). YouTube dimentica che tagliando le gambe ai creatori di contenuti li obbligherà a cambiare mestiere. Oppure a ridimensionare la quantità di video che caricano, oppure …a cambiare piattaforma. Non è niente di nuovo, abbiamo già visto morire colossi come MySpace e non saremmo stupiti dalla fine di YouTube solo perché appartiene a Google (qualcuno ha detto Google+?). Nascerà (o forse già esiste) qualche piattaforma simile che garantirà buone entrate ai suoi utenti e non appena qualche youtuber di rilievo inizierà ad usarla molti dei suoi fan lo seguiranno. A quel punto si sarà innescata la reazione a catena: nuovi videomaker emergenti cominceranno a caricare lì i loro contenuti perché inizialmente ci sarà meno concorrenza che su YouTube e quindi più probabilità di emergere. La piattaforma crescerà e prospererà finché non farà qualche altra cappellata o arriverà qualcuno di più cool a rubargli la scena. La storia si ripete. È solo uno scenario ipotetico: nel 2016 YouTube è stato il secondo sito più visitato al mondo preceduto solo da Google e seguito a ruota da Facebook, perciò se la situazione dovesse iniziare a farsi critica, prima di spezzarsi, scricchiolerà abbastanza da obbligarli a cambiare rotta. Sempre che nel frattempo non arrivi qualcuno con un’idea abbastanza innovativa da rivoluzionare questo mondo e con sufficienti capitali per realizzarla.

Cosa penso delle donazioni. I TheShow hanno avuto il coraggio di chiedere soldi ai loro fan. Pochi soldi, si parla di micro abbonamenti da 1€ al mese. In cambio hanno ricevuto un migliaio di sottoscrittori (a fronte di 1 milione e 700 mila iscritti al canale) e una tonnellata di merda e insulti vari nei commenti. La gente non solo non è più disposta a pagare per i contenuti che consuma, ma in Italia è sempre pronta a sfogare su di te le proprie frustrazioni e le proprie invidie. Purtroppo dobbiamo fare i conti con la realtà: questa è la situazione attuale e questa è la cultura all’interno della quale dobbiamo fare impresa. Non dico che non si possa o non si debba cercare di cambiarla, dico però che sono processi lunghi e che se fosse questo l’obiettivo falliremmo rimanendo senza soldi prima di riuscire anche solo a scalfirla. Le donazioni secondo me non sono una strada praticabile, per lo meno non sul medio-lungo periodo. Cosa fare, quindi? Il problema dell’assenza di un vero modello di business per chi crea contenuti online non è solo degli youtuber, ci riguarda tutti. Ne avevo già parlato riguardo ai giornalisti musicali, non ci sono soldi perché chi fruisce dei contenuti non li vuole pagare e perché la pubblicità sul web vale ormai meno di zero. Una possibile alternativa, che però è un bagno di sangue, potrebbe essere quella di slegarsi dalle piattaforme altrui per costruirsene una propria, con la propria pubblicità e senza la mediazione di nessuno: mischiare native advertising e contenuti organici ed essere i soli responsabili di quello che accade sul proprio sito, ma attenzione perché oltre ad essere praticabile solo da chi ha numeri grossi abbiamo anche contro tutti i big. Qualcuno vi ha fatto notare che da un po’ di tempo iOS prevede l’installazione di App di Ad Blocking? Il problema è aperto ed è uno dei nodi cruciali della nostra civiltà. E comunque… le donazioni sono tassate, capre! Basta una ricerca su Google a prova d’imbecille per scoprirlo. Le donazioni ricevute da persone sconosciute sono tassate all’8%. Troppo poco? Peggio per voi che pagate di più, non sfogate la vostra frustrazione da busta paga sugli altri. Grazie. 

La nuova ideologia, scrive Piero Sansonetti il 27 Ottobre su "Il Dubbio". Nelle classi dirigenti, non solo nel popolo, sta crescendo una nuova, terribile, ideologia totalitaria. Gli avvocati, restati soli a difendere il Diritto. È chiaro che bisogna tenere conto del dolore, della rabbia che provano i parenti delle vittime. Non credo che il problema siano loro. Il problema è il clima nel quale vivono. Il modo nel quale si costruisce quello che i filosofi chiamano lo “spirito pubblico”. La reazione dissennata dei parenti che hanno aggredito l’avvocato è maturata dentro lo spirito pubblico che oggi è dominante. E’ uno spirito pubblico intollerante, arrogante, egoista, giustizialista, che spinge ciascuno di noi a cercare di essere prima di tutto giudice severo e spietato. Il massimo della rettitudine morale la si raggiunge giudicando e non perdonando niente. È in questo modo che si contribuisce al miglioramento e alla pulizia della nostra società. Naturalmente in questa idea non c’è posto per il diritto. E tantomeno per l’avvocato, che del diritto è protagonista decisivo. E di conseguenza l’avvocato, e la sua pretesa di far prevalere il diritto sull’etica, o sulla presunta etica, diventa il nemico. L’avvocato non è più visto come una figura essenziale al funzionamento di una comunità civile, ma come l’” arma” del colpevole. Neppure il complice: di più, lo strumento attraverso il quale il colpevole raggiunge la massima abiezione possibile che un delitto può produrre: l’impunità. Se la vetta dell’etica è la punizione, vuol dire che l’infimo dell’etica è l’assoluzione. E l’avvocato è il garante, o almeno il ricercatore dell’assoluzione, e dunque il colpevole dell’assoluzione, e quindi è lui che commette il delitto più grande, più grande ancora del delitto commesso ( o forse anche non commesso) dall’imputato. L’imputato difende se stesso, l’avvocato difende il delitto. E quindi forse l’imputato è innocente, l’avvocato mai. In questa logica terrificante, nella quale tutti i principi della civiltà giuridica vengono travolti, è chiaro che si giustifica pienamente anche l’aggressione di ieri a un avvocato di Pisa. Il problema è che non è una logica che appartiene a una piccola minoranza, a qualche brandello di “plebe”, e che è contrastata dall’intellettualità, dall’informazione, dalla politica. Il contrario: è il fondamento della nuova ideologia dominante, sostenuta dai grandi giornali, da quasi tutte le Tv, dalla politica, dal web. Si dice che le ideologie siano morte. Non è vero. Sono morte le grandi ideologie del novecento, fondate sullo studio, sulla ricerca, sulla filosofia, sul tentativo di creare giustizia sociale e libertà, sull’illusione che la giustizia sociale potesse essere il motore della modernità. Sono morte le ideologie rivoluzionarie – pace, uguaglianza e lavoro – o quelle conservatrici o reazionarie – ordine e patria – ma è nata una nuova ideologia, fortissima, vastissima – trasversale tra sinistra e destra – che riproduce le vecchie idee (vecchie vecchie) dell’aristocrazia. Questa ideologia sostiene che esiste un piccolo gruppo di eletti, di giusti, di puri, in grado di giudicare e punire la grande massa dei reprobi e dei corrotti. Ti dice: se vuoi dimostrare di essere tra i giusti devi giudicare e punire anche tu. Tanto più odierai gli altri e li indicherai come colpevoli, tanto più potrai dimostrare la tua purezza, la tua grandezza. È un’ideologia che ogni giorno dilaga un po’ di più. Moltissime categorie intellettuali si sono prostrate a questo nuovo Dio che avanza. Forse gli avvocati sono gli unici che resistono. Si oppongono. Propongono un modello diverso e si aggrappano al Diritto. Per questo sono indicati come bersagli dell’ira giustizialista. Per questo le persone che ieri a Pisa hanno aggredito un avvocato, oggi, probabilmente, non si pentiranno ma si sentiranno persone migliori.

Libri di testo di storia faziosi, scrive il 27 gennaio 2008 Francesco Agnoli. Tempo addietro alcuni personaggi cercarono di proporre all’opinione pubblica il problema dei libri di testo di storia delle scuole superiori. Ci volle poco per sottolineare la faziosità di gran parte di quelli in circolazione, ma poi la discussione venne lasciata cadere. Eppure il problema è grave: i testi scolastici sono afflitti da mentalità ideologica. Per questo la caratteristica più tipica è la classificazione semplicistica, la contrapposizione manichea, l’adozione di pregiudizi come chiavi di interpretazione onnicomprensiva. L’ideologia infatti non guarda la realtà, rifiuta di coglierne la complessità, non ricerca né tanto meno verifica. Per questo, solitamente, produce odio, gratuito. Eppure ha un “pregio”: incasellando tutto precisamente dà l’illusione di comprendere tutta la realtà. E’ così facile, anche per l’insegnante, catalogare, classificare, dividere fascisti e antifascisti, buoni e cattivi…Eppure la verità è ben diversa, sia perché non tutti sono così etichettabili, sia perché, a ben vedere, tantissimi sono gli elementi di somiglianza tra le ideologie del Novecento, di destra e di sinistra. Basti pensare alla provenienza politica e culturale di Mussolini, leader del socialismo massimalista, direttore de l’Avanti, ammirato da Lenin come l’unico grande rivoluzionario italiano. Accanto a lui, al fondatore della destra fascista, troviamo numerose personalità provenienti dal mondo della sinistra, come Farinacci, dell’Unione socialista italiana, Arpinati, di provenienza anarchica, o, all’epoca dell’RSI, Bombacci, uno dei fondatori del PCI nel 1921. Analogamente si riscontrano tante suggestioni socialiste nel partito di Hitler. Nei giorni di Weimar, nel caos generale, compare ad esempio un movimento di personaggi col volto dipinto e penne sul capo, detti “Uccelli Migratori”: sodomiti, nudisti, orientaleggianti, antenati degli indiani metropolitani. Di lì a poco finiranno nelle Sa di Hitler. In questi gruppi paramilitari nazisti vi sono forti convinzioni marxiste, sia perché molti degli aderenti provengono dai “Vecchi combattenti rossi”, sia perché il loro capo, il potentissimo Rohm, afferma: “Noi non abbiamo fatto una rivoluzione nazionale, ma una rivoluzione nazionalsocialista, e poniamo l’accento sulla parola socialista”. Il gerarca Goebbels sostiene la superiorità del bolscevismo sul capitalismo, mentre Gregor ed Otto Strasser, figure guida del nazismo nel nord della Germania, prevedono, nel loro programma, “il passaggio della grande industria in proprietà parziale dello Stato e dei comuni”. Inoltre, in ambienti nazisti, “si manifestava molta comprensione per la dottrina marxista della lotta di classe… (così che) il bolscevismo ed il nazionalsocialismo, visti come i due movimenti rivoluzionari del XX secolo, erano posti in così ampia misura su piani paralleli che il loro contrasto risultava esclusivamente nel fatto che Lenin avrebbe voluto con il mondo redimere anche la Germania, mentre Hitler avrebbe voluto redimere il mondo attraverso la Germania” ( E.Nolte, “Nazionalsocialismo e bolscevismo”, Rizzoli). Questa breve premessa può aiutarci a capire un altro fenomeno: il passaggio, in Italia, a fine guerra, di moltissimi intellettuali dal fascismo ai partiti di sinistra, specie al PCI filo-sovietico. E’ un altro capitolo di storia che, sfuggendo alle classificazioni semplicistiche, viene occultato dai libri di scuola. Occorre invece riflettere, cercar di capire. Vi possono essere state persone che cambiarono opinione, cosa legittima, anzi, indice, spesso, di onestà intellettuale. In altri casi invece sarebbe semplicistico parlare solo di opportunismo: più esatto riconoscere l’intercambiabilità esistente, spesso, tra atteggiamenti ideologici apparentemente contrapposti. Dal fascismo, o dalle riviste fasciste, vengono Argan, Bilenchi, Bocca, Buzzati, Contini, Flora, Fò, Pavese, Pratolini, Quasimodo, Vittorini, Zavattini…Fascisti duri e poi comunisti sono gli intellettuali e scrittori Malaparte, Cantimori, Bontempelli, Piovene, Chilanti, Santarelli, Fidia Gambetti, Lajolo…, alcuni dei quali passano da “La difesa della razza” a ruoli importanti ne “l’Unità”. Il buon Davide Lajolo, ad esempio, prima di diventare vice-direttore de “l’Unità”, affermava: “(Mussolini) è nella sala. La sala è piena di Lui. Non esistiamo che in Lui…bisogna guardarlo estasiati”. Poi i tempi cambiarono, e l’eroe divenne Stalin. Ma rimase spesso la mentalità ideologica, settaria, la stessa di molti libri di storia scolastici, e dei vari Camera-Fabietti che li scrivono.

Storia, manuali faziosi ma la politica ne stia fuori. I nostri studenti hanno una visione parziale dell’intera storia d’Italia, dal Risorgimento a Berlusconi. A questa deriva sinistrorsa bisogna opporre una severa critica culturale. Senza interventi dall’alto, scrive Mario Cervi, Venerdì 15/04/2011, su "Il Giornale". Gabriella Carlucci ha ieri difeso con impeto, sul Giornale, la sua proposta d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sull’imparzialità dei libri di testo scolastici. Nonostante l’appassionata perorazione, resto del parere che l’istituenda commissione sarebbe nel migliore dei casi una creatura inutile, e nel peggiore una creatura dannosa. Cercherò di spiegare i motivi del mio «no». Sono anzitutto d’accordo con Marcello Veneziani nel ritenere che le commissioni d’inchiesta non servano a niente (o servano soltanto ad assegnare qualche ulteriore auto blu e qualche appannaggio). La loro superfluità è dimostrata dall’esperienza. Trattandosi d’organismi che riproducono su scala ridotta gli equilibri delle assemblee, le deliberazioni dipendono, nei casi controversi, dal criterio secondo cui la maggioranza prevale sulla minoranza. Il che si addice perfettamente a decisioni politiche, non a decisioni che coinvolgano problemi di principio o di giustizia o etici. Si rischia insomma d’avere, con le commissioni parlamentari d’inchiesta, pronunce altalenanti in sintonia con la maggioranza del momento. Non nego - mi contraddirei se lo facessi perché questo dei libri di testo è stato un cavallo di battaglia del Giornale montanelliano - la faziosità di certi manuali scolastici ispirati a un conformismo politicamente corretto quando non a convinzioni ideologiche di una sinistra scatenata. Quei testi possono influenzare fortemente gli studenti, propinando loro come verità accertate quelle che sono soltanto asserzioni di parte, e magari dichiarazioni di fedeltà a idee e ideali demoliti, per fortuna, dalla Storia. Ma il rimedio a questo evidente e concreto pericolo sta in una scelta oculata da parte degli insegnanti e in una vigilanza attenta delle famiglie, non in misure che sappiano anche lontanamente di volontà censoria e che legittimano reazioni ammantate di nobili ideali. Un elemento mi rende particolarmente perplesso, nel proposito della Carlucci. Il suo evidente ispirarsi alle polemiche antiberlusconiane, ossia a un momento importante ma per forza di cose contingente - vi includo l’anagrafe - delle vicende nazionali. Siamo avvolti e frastornati da polemiche sulla personalità e sulle qualità umane e politiche del Cavaliere. Ma siamo anche avvolti e frastornati da tante altre polemiche che incidono profondamente nel tessuto della nostra identità e della nostra italianità. Negli scaffali delle biblioteche si allineano, è vero, pamphlet antiberlusconiani. Ma s’allineano anche, e in gran numero, saggi che contestano i momenti fondanti dello Stato e immiseriscono le vicende che accompagnarono l’Unità. Ho recensito di recente libri che descrivono il Risorgimento come un periodo in cui l’identità italiana, formata e affermata dalla Chiesa, fu violentata da un laicismo imperversante, dalla massoneria, dal Piemonte sabaudo e dai suoi alleati stranieri. Non condivido nemmeno un po’ quei giudizi, ma mi sembrerebbe arbitrario depennarli se fossero inseriti in qualche manuale. Ho letto saggi che annichiliscono le figure dei padri della Patria, saggi che mettono sotto accusa, vedendovi la causa di molti mali, la Prima Repubblica (insieme ad altri che invece della Dc, protagonista di mezzo secolo, tessono le lodi). Questo materiale immane viene affrontato e sviscerato, con esiti diversi, da molti storici e divulgatori, ciascuno di loro portandovi i suoi personali punti di vista: non di rado con intenti dissacratori e revisionisti. Può un’indagine del Parlamento - dove, a quanto risulta da alcune irriverenti domande, la conoscenza della storia non è d’alto livello - dirimere le innumerevoli questioni sul tappeto, e servirle belle che risolte a docenti e discenti? Figurarsi. È esistita, e in parte esiste tuttora, la famosa e famigerata egemonia culturale della sinistra. La vulgata cui si abbeverano gli studenti ha molto spesso un’impronta progressista che magari è invece passatista, visto che il comunismo e i suoi derivati appartengono al passato. Negletto il liberalismo, osannato a parole da tanti e nella pratica onorato da pochissimi. Ma alla deriva d’un sinistrismo di maniera si deve e si può opporre la critica, non una forma seppure attenuata di controllo dall’alto. Quella tanto evocata egemonia culturale deriva anche dal fatto che molti «moderati» - così come la Dc un tempo - attribuiscono poca importanza alla lettura e alla curiosità intellettuale, ritenute un impaccio al fare. Il fare, quando è di prima scelta, non fa impaccio a niente. Ma vale la pena di occuparsi anche d’altro. Un ultimo rilievo. Non so quanto Gabriella Carlucci sia consapevole della disistima degli italiani nei confronti del Parlamento. Se lo è, può facilmente immaginare lo scarso o nullo appeal che l’idea dì una Commissione parlamentare arbitra di temi intellettuali ha per gli italiani.

Quei libri di storia da bruciare, scrive Marina Cavalleri il 24 aprile 1997 su "La Repubblica". L'annuncio fatto ieri dagli studenti di An evoca scenari apocalittici: "La prossima settimana saremo in piazza a bruciare i libri di parte, davanti ad alcune scuole romane, al ministero della Pubblica istruzione e al Senato per chiarire che non siamo disposti ad accettare l'intolleranza ideologica dell'Ulivo". Libri al rogo, manuali di storia faziosi che meritano le fiamme. Gli studenti di destra minacciano azioni simboliche, annunciano gesti dal fosco sapore nazista o forse solo cinicamente pubblicitari. Ma invece dei libri ardono le polemiche e l'iniziativa libri al rogo, appena annunciata, annega in una pozzanghera di polemiche. Si gioca sulla Storia l'ultima guerra scolastica e dai banchi parte una crociata contro il governo. I giovani che aderiscono ad 'Azione studentesca' protestano contro il recente provvedimento che prevede la revisione dei programmi di storia e contro il ministro Berlinguer al quale si contesta di gestire la memoria della storia a fini di partito. "E' una provocazione forte ma necessaria - spiega Marco Marsili responsabile nazionale di Azione studentesca - per richiamare l'attenzione sul grave rischio di indottrinamento culturale che corre la scuola pubblica". Così dopo le accuse di Ernesto Galli Della Loggia al ministro Berlinguer ("Programmi di storia nel segno della vulgata marxista"), arrivano i giovani di destra a tacciare di dittatura ideologica la sinistra alla Pubblica istruzione. Dovrebbero finire nelle fiamme testi come quelli di Spini o il Camera Fabietti. Ma il rogo annunciato però non piace ad Alleanza nazionale che sconfessa l'iniziativa: "E' una sciocca provocazione. I libri si possono confutare, ma in ogni caso i giovani, compresi quelli di Azione studentesca, farebbero meglio a leggerli". Ma la tirata d' orecchi di Fini è ancora più violenta. "Chi annuncia il rogo dei libri è un ignorante che non conosce la storia. A destra non c' è posto per cretini di questo genere". Finisce male per gli studenti di An, le fiamme non ardono. Ma già prima della stroncatura del partito c' erano state prese di distanze, polemiche, bocciature. Ernesto Galli Della Loggia precisa: "Citare i miei articoli in margine all' annuncio del rogo dei libri di testo di storia è un tipico caso di strumentalizzazione. I libri non si devono bruciare e il signor Marsilio forse non sa di avere tra i suoi progenitori i nazisti, cui è andata piuttosto male". "Sono fuori luogo", dice Marcello Veneziani, ex direttore dell'Italia settimanale, "non darei eccessiva importanza alle dichiarazioni di un gruppo il cui atteggiamento estremista non è condiviso dalla maggioranza della destra giovanile". E Giuseppe Malgieri, direttore del Secolo d' Italia: "La faziosità di alcuni libri autorizza a posizioni intransigenti: ma un conto è la denuncia, un conto i roghi".

Onestà intellettuale? Ignoranza insensibilità e faziosità dei testi scolastici i libri di testo delle scuole sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante, scrive Francesco Lamendola il 29 settembre 2010. All’insegnante che abbia un po’ di esperienza e un minimo di colpo d’occhio non sfugge il fatto che gli strumenti di cui si serve quotidianamente nella sua professione, i libri di testo delle scuole, sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale. Egli, pertanto, è costretto a insegnare ai propri studenti servendosi di uno strumento peggio che difettoso: di uno strumento assolutamente scorretto e fuorviante, il quale tende sistematicamente a falsare la percezione della realtà, sia quella del presente che del passato. Si dirà che basta scegliere con cura i libri di testo e che ogni insegnante, dopo tutto, gode della massima libertà di optare per un libro, anziché per un altro. Verissimo: ma il fatto è che i libri di testo oggi in circolazione, praticamente senza eccezione, sono un po’ come i canali televisivi: ce ne sono tantissimi, ma tutti suppergiù si equivalgono quanto a ignoranza, insensibilità e faziosità; tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante. Nel corso di un paio d’ore di lezione, ad esempio, può capitare che un professore di liceo, rimanendo all’interno di una singola classe, debba scontrarsi più di una volta con la grossolana tendenziosità e con l’ottusa arroganza intellettuale dei libri di testo.

Supponiamo che la prima ora di lezione sia di italiano e che la seconda sia di storia. Ora di letteratura italiana: si parla del Seicento, si parla di Galilei, si parla del «Saggiatore». Si legge l’immancabile «favola dei suoni», in cui Galilei, dietro l’apparenza di celebrare la modestia intellettuale dello scienziato e l’infinità del sapere, esalta invece la manipolazione delle cose, il dominio brutale sulla natura, l’orgoglio sconfinato dell’uomo di scienza che si sente al di sopra della morale, del bene e del male. Si parla della vivisezione di una cicala, perché lo scienziato vuole comprendere l’origine del suo frinire: non una parola di rammarico per il crudele trattamento inflitto alla bestiola; non una parola di dispiacere per quella piccola meraviglia della natura che viene distrutta. L’unico rammarico è di non aver compreso come si produca il suono. Questo, da parte di Galilei. I curatori dell’antologia scolastica, tutti senza eccezione, presentano il fatto senza batter ciglio. Addirittura, la sofferenza e l’uccisione dell’animale vengono ignorati; sono un semplice inciso all’interno di una proposizione molto più ampia e complessa; tutta l’attenzione e tutta l’ammirazione del giovane lettore sono indirizzati verso l’intrepido scienziato, esploratore dell’ignoto, novello Ulisse che agisce sospinto da una santo amore di conoscenza, tanto pura quanto disinteressata. Nessun curatore di testi scolastici fa notare che questo è un esempio di scienza senza coscienza; che dallo “stupore” di Galilei verso la natura non derivano né umiltà, né compassione, né senso della bellezza; che la moderna vivisezione di milioni di cavie animali e, più in generale, l’implacabile manipolazione di esseri viventi da parte della tecnoscienza, sono la logica conseguenza di questo modo di porsi davanti alle cose, iniziato con la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo: meccanicista, razionalista, riduzionista, utilitarista e tendenzialmente materialista.

Seconda ora di lezione: storia. Si parla dell’espansione europea negli altri continenti fra il XVI e il XVIII secolo; più precisamente, si parla dell’espansione inglese in India e in Australia. Ebbene, nemmeno una parola sullo sconvolgimento sociale ed economico portato dalla presenza britannica in India; peggio ancora, nemmeno una parola sul genocidio degli aborigeni australiani, sulla caccia all’uomo dei Tasmaniani, fino alla loro estinzione totale, allorché l’ultima rappresentante di quel popolo mite e inoffensivo, contro la sua esplicita volontà, venne imbalsamata dopo la morte ed esposta in una sala del museo di antropologia di Hobart, per la delizia della scienza e del pubblico pagante. Qui c’è qualcosa che non quadra. Qualcosa di profondamente sbagliato sia sul piano storiografico, sia sul piano etico. Si parla dell’Australia come se fosse stata disabitata, come se fosse stata “res nullius”. Non si dice che i suoi abitanti erano il popolo più antico dell’umanità e che occupavano quei luoghi da qualcosa come 40.000 anni; non si dice che i bianchi li sterminarono a freddo, per impiantare le loro fattorie e i loro allevamenti di pecore. Eppure, quello consumato contro di loro fu un genocidio. Ma l’unico genocidio di cui si parla sui libri di testo scolastici è quello degli Ebrei ad opera dei nazisti. Solo la Germania, secondo gli autori dei nostri libri di testo, porta un simile peso sulla coscienza; la Gran Bretagna no, quando mai: gli Inglesi sono “buoni”, hanno sempre combattuto guerre giuste, guerre per la libertà altrui. Hanno salvato l’Europa e il mondo dal nazismo, quindi sono i “liberatori” per eccellenza. Sarà per questo che non si dice, su quei libri di testo, che il primo esercito ad impiegare le armi batteriologiche fu quello inglese, nel 1755, allorché il generale Edward Braddock fece distribuire agli indiani del Nord America delle coperte infettate dal vaiolo, provocando deliberatamente la morte di migliaia di uomini, donne e bambini inermi? Tutti, oggi, conoscono i nomi di Hitler, di Himmler, di Eichmann; nessuno conosce il nome di Braddock.

Davvero, c’è da rimanere disgustati. Abbandonati in balia di simili libri di testo, la mente e la coscienza degli studenti sarebbero perdute, se qualche insegnate non si prendesse la briga di farli riflettere e di insegnare loro l’uso critico delle fonti. Gli stereotipi che vengono perpetuati da questa impostazione didattica sono volutamente funzionali ai poteri forti oggi dominanti: la tecnoscienza, il capitalismo selvaggio dell’alta finanza e delle multinazionali, l’Impero americano e il sionismo internazionale, con tutte le sue tentacolari diramazioni. Analoghe sconcezze si trovano, purtroppo, nei testi di quasi tutte le discipline scolastiche, in particolare in quelli di storia della filosofia, che sono redatti, la maggior parte delle volte, in maniera semplicemente oscena.  Vengono esaltati acriticamente sempre gli stessi pensatori, magari proprio in ciò che vi è di maggiormente discutibile nel loro pensiero (vedi Galilei); e vengono ignorati quelli che presentano un punto di vista alternativo all’attuale Pensiero Unico. Non parliamo poi della filosofia dell’Asia, di cui non si sa nulla, quindi nulla si insegna: la storia della filosofia è rimasta profondamente etnocentrica.

Forse solo i libri di matematica, alla fine, si salvano; perché in quell’ambito è difficile, se non impossibile, fare certi giochetti. Sia chiaro che non pretendiamo che gli autori dei libri di testo sposino, necessariamente, una visione del reale di tipo olistico, spirituale, ecologicamente sostenibile e via dicendo; sarebbe troppa grazia. Ci accontenteremmo di vedere un minimo di problematicità, un minimo di contraddittorio, un minimo di consapevolezza che, nella modernità, vi sono le luci, ma anche le ombre; vi sono le conquiste del progresso, ma vi è anche il ritorno della barbarie; le maggiori comodità materiali, ma anche la bomba atomica, la catastrofe ambientale, lo sconvolgimento climatico. Ci basterebbe che, in quei benedetti libri, non si intonassero sempre e solo i peana dei vincitori; che vi fossero un po’ di spazio, un po’ di attenzione e, perché no, un po’ di compassione anche per i vinti. Che si parlasse anche delle ragioni della cicala vivisezionata, della vecchia tasmaniana il cui cadavere fu ridotto ad attrazione da museo, dei pellerossa che morirono come mosche per il vaiolo portato alle coperte del generale Braddock. Che sui libri di storia della seconda guerra mondiale si parlasse dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti, ma anche dei sette fratelli Govoni fucilati dai partigiani. Che si parlasse della distruzione di Amsterdam e Varsavia da parte dei nazisti, ma anche di quella di Amburgo e Dresda da parte degli Alleati. Che si parlasse della Risiera di San Saba, ma anche della foiba di Ugovizza; che si parlasse delle migliaia di Italiani assassinati a guerra finita, per vendetta, senza una tomba su cui i loro cari potessero posare un fiore.

Che si parlasse di Auschwitz e di Dachau, ma anche di Hiroshima e Nagasaki. Quanta falsità istituzionalizzata; quanta ipocrisia; quanta cattiva coscienza. E con questa mancanza di serietà didattica e morale, con questo servilismo verso la Vulgata dei vincitori, con questa faziosità senza pudore e senza vergogna, vorremmo insegnare qualcosa ai nostri ragazzi? Tutto quel che possiamo insegnare loro, in simili condizioni, sono il più piatto conformismo intellettuale e la più bieca ipocrisia; e i frutti li vediamo ogni giorno, osservando la spudoratezza con cui la stampa si adopera per manipolare il pubblico, senza che si levi una sola voce di virile indignazione e di protesta sacrosanta. Prendiamo il caso di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte nel suo Paese per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. I media occidentali ne hanno fatto una bandiera di libertà e l’hanno quasi santificata, inorriditi all’idea della sua lapidazione. Ora che, come sembra, l’esecuzione avverrà invece mediante impiccagione, il fuoco di fila delle proteste, diplomatiche oltre che di opinione pubblica (e il governo italiano, come sempre in questi casi, brilla per la sua crociata in favore della “civiltà”), si è spostato dal modo della pena alla pena in se stessa: Sakineh non dev’essere uccisa, punto e basta. Encomiabile umanitarismo; peccato che non si spenda una parola per i condannati e le condannate a morte negli altri Paesi del mondo, e specialmente per quelli degli Stati Uniti d’America, la madre di tutte le democrazie, minorenni compresi (ma li si fa aspettare nel braccio della morte finché diventino maggiorenni, prima di sopprimerli). Si vede che assassinare legalmente un uomo è meno grave che se si tratta di una donna; oppure assassinarlo con una iniezione letale o fulminandolo sulla sedia elettrica è ritenuto meno esecrabile che farlo con le pietre o con il cappio. A nessuno, pare, viene in mente che il vero problema non è umanitario, ma politico: si vuol dipingere il governo iraniano come una banda di carnefici, cosa che potrebbe anche essere: ma non per la condanna di Sakineh; lo si vuole screditare e infangare per favorire il sionismo, che vede in lui il suo peggior nemico. E questo mentre le scavatrici israeliane, con furia indecente, allo scadere della moratoria si sono rimesse febbrilmente al lavoro per costruire nuove abitazioni destinate ai coloni ebrei in Cisgiordania, con buona pace delle trattative di pace e di innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite in favore dei Palestinesi.

Dunque: libri di scuola menzogneri, conformisti, culturalmente disonesti; futuri cittadini ignoranti, intellettualmente pigri e facilmente manipolabili. Una volta i libri di testo li scrivevano fior fior di specialisti; quelli di storia, ad esempio, li scrivevano insigni storici; quelli di storia dell’arte, illustri storici dell’arte. Oggi i libri di scuola li firmano non più singoli autori, ma équipe di intellettualini a un tanto il chilo, gente che nelle scuole non ci ha mai messo piede: lo si vede da come scrivono, costringendo gli insegnati a spiegare quasi ogni riga e ogni parola e a tradurle in un italiano comprensibile al pubblico cui, in teoria, sono destinati: dei giovani dal modesto retroterra culturale. Ma tanto si sa che quello dei libri scolastici è un business delle case editrici, una specie di mafia altamente sofisticata: l’ultimo ritrovato è quello di cambiare qualche paragrafo qua e là ogni due-tre anni, per impedire che il libro possa passare di mano dal fratello maggiore al fratello minore e permettere, così, alle famiglie di risparmiare qualche migliaio di euro. Insomma, per dir le cose come stanno: siamo in presenza di un panorama desolante e deprimente, di uno squallore assoluto. Tutto quello che si può sperare è che gli insegnanti, insieme al veleno, forniscano ai loro studenti anche l’antidoto: ossia che mostrino loro come ci si deve porre in maniera critica di fronte ad un libro di testo, anzi, di fronte a qualsiasi libro; così come bisognerebbe fare di fronte a qualsiasi giornale, a qualsiasi programma televisivo, a qualsiasi film. Ma ne avranno la capacità, la voglia, l’onestà intellettuale? Oppure, figli di un Sessantotto che è stato esiziale per l’università, per la cultura e per il pensare in modo non conformista, molti di loro sono i primi a sposare il Pensiero Unico; magari rimangiandosi molti dei loro ideali di allora, ma fedeli - in compenso - al servilismo intellettuale di sempre? 

Articolo già pubblicato su “il Corriere delle Regioni” il 12/05/17 e su Arianna Editrice il 29/09/2010

Libri Faziosi - Quando la storia diventa una favola... sinistra! Scrive Azione Giovani Matera. Bertold Brecht diceva "il libro è un’arma". E aveva ragione. Un’arma estremamente efficace, soprattutto se utilizzata contro chi non ha scudi per difendersi. Nelle scuole italiane quest’arma è stata usata per oltre cinquant’anni, e ha sortito l’effetto desiderato, cioè quello di indottrinare generazioni attraverso l’omissione di intere pagine della nostra storia e la mistificazione di altre. Per anni Azione Studentesca, e prima ancora Fare Fronte, si sono battuti contro la faziosità con la quale vengono scritti molti dei testi adottati negli istituti superiori, testi che trattano in particolare la storia, la letteratura, la filosofia e l’arte. Abbiamo denunciato il silenzio colpevole, quando non la connivenza, degli storici, dei docenti, della stampa e del Ministero della Pubblica Istruzione. Nulla. La situazione è addirittura peggiorata con l’entrata in vigore del Decreto sul ‘900, che impone, durante l’ultimo anno delle superiori, lo studio del XX secolo fino ai giorni nostri. Scorgendo alcuni dei testi che vengono adottati nelle scuole superiori, non si ha difficoltà a incontrare mistificazioni, commenti faziosi, veri e propri falsi storici, fino ad arrivare a una evidente campagna elettorale. In questo dossier vengono riportati alcuni esempi che dimostrano come sia facile fare propaganda ideologica, politica e partitica utilizzando la scuola pubblica. Così, come qualcuno ha detto, "la storia è stata sottomessa alla corsa al potere dell’ex PCI". Questo Dossier non rappresenta il tentativo di scagionare alcuni personaggi o fatti storici e di condannarne altri, perché non faremmo niente di diverso da quello che è stato fatto finora. La nostra unica volontà è quella di dimostrare come anche una certa cultura imposta nelle scuole abbia contribuito ad alimentare una guerra civile, spesso latente, che in Italia dura da cinquant’anni, e che ha causato lo scontro, spesso durissimo, tra intere generazioni, divise in nome di ideali e appartenenze anacronistici. Le case editrici, gli autori, i docenti e il Ministero della Pubblica Istruzione che permettono la stampa di alcuni libri di testo, devono assumersi la responsabilità di voler alimentare questo scontro, e di impedire che il popolo italiano possa ricostruirsi una sua identità comune, che può nascere solo da una lettura obbiettiva e serena della sua storia. Non si tratta di scrivere libri "di sinistra" o di "destra" (alla denuncia di Azione Studentesca l’ineffabile Ministro Berlinguer ha risposto suggerendo di scrivere libri di destra per contrastare quelli di sinistra – COMPLIMENTI!), chiediamo solo la verità.

Un esempio: nella maggior parte dei libri di storia non c’è una parola sulle migliaia di nostri connazionali uccisi nelle foibe dai comunisti di Tito per la sola colpa di essere italiani. Noi non chiediamo che se ne parli per riportare il numero esatto delle vittime del comunismo nel mondo sui libri di storia. Non ci sogniamo una edizione scolastica del "libro nero del Comunismo", non ci interessa. Noi chiediamo che se ne parli perché è vergognoso che una Nazione degna di questo nome sia disposta a dimenticare i suoi martiri in nome di un interesse di parte. Né si può dare credito a quanti sostengono che determinate pagine di storia siano state omesse per permettere proprio la costruzione di una nuova identità nazionale sul mito – debole - della Resistenza, perché, se anche questa teoria fosse credibile (e non lo è), non sarebbe più valida dopo cinquantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Nulla giustifica la faziosità con la quale spesso si parla di determinati fatti e personaggi dei giorni nostri.

Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, è vero anche che costoro hanno vinto più di cinquant’anni fa. Ora basta. E’ tempo che le nuove generazioni abbiano la possibilità di confrontarsi per ricucire una ferita che ha sanguinato troppo a lungo.

C’ERA UNA VOLTA…Qui di seguito riportiamo alcuni degli esempi più significativi (riportarli tutti avrebbe voluto dire scrivere centinaia di pagine!) di mistificazione dei principali testi di storia adottati nelle ultime classi delle scuole superiori.

"ELEMENTI DI STORIA – XX secolo" di Augusto Camera e Renato Fabietti IV Edizione per ZANICHELLI. Pag. 1575 "Quanto alla pretesa di una parità etico-politica delle due parti in lotta [Combattenti della Repubblica Sociale e Partigiani – ndr], si vorrà riconoscere (e i più avveduti militanti di provenienza fascista hanno effettivamente riconosciuto) che da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per il totalitarismo e per la schiavitù. Né si dica che se da una parte ci si schierava per i Lager dall’altra ci si batteva per i Gulag, perché, in primo luogo, i Lager erano solo la conseguenza estrema, ma logica e necessaria, di un regime che si fondava sulla disuguaglianza degli uomini, sulla sopraffazione e l’eliminazione delle "razze inferiori", sull’asservimento degli Untermenschen, mentre in linea di principio il comunismo esprimeva l’esigenza di uguaglianza come premessa di libertà (e l’ignominia dei Gulag non è dipesa da questo sacrosanto ideale, ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla "conversione di Stalin al tradizionale imperialismo); in secondo luogo, i militanti comunisti italiani certamente non si battevano per importare anche in Italia i Gulag ma per eliminare ingiustizie e privilegi." Ecco quello che non temiamo di definire un bieco tentativo di giustificare l’ingiustificabile. Facciamo rispondere per noi ad Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel per la letteratura nel 1970, privato della cittadinanza sovietica ed espulso nel 1974. Scrive Solzenicyn, affrontando un aspro parallelismo tra i servi della gleba dell’epoca zarista e i detenuti nei Gulag dell’epoca "dell’illuminato impero sovietico": "[…] Non gli è permesso il più piccolo temperino, non gli è permesso avere una scodella, di animali domestici è autorizzato a tenere solo i pidocchi. Il servo della gleba poteva di tanto in tanto buttare le reti, pescare qualcosa. Il detenuto pesca solo con il cucchiaio, nella sbobba. Il servo della gleba aveva la sua mucca, o una capra, polli. Il detenuto non si unge neppure le labbra con il latte, mai, non vede un uovo per decenni, potrebbe addirittura non riconoscerlo se lo vedesse."

Pagg. 1564-1566 "L’8 settembre 1943, nel vuoto di potere determinato dallo sfacelo dello Stato Italiano, furono uccise, soprattutto in Istria 500/700 persone. Per quanto gravi, quei fatti non corrispondevano però a un disegno politico preordinato: essi furono piuttosto la conseguenza di uno sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti, paragonabile alla strage di fascisti perpetrata nel Nord Italia dopo il 25 aprile, nella quale certo non intervennero motivazioni etniche di nessun genere." […] Eccoci davanti a un vero falso storico. Tutti ormai sanno che la triste pagina delle Foibe venne scritta dai soldati di Tito tesi ad una vera e propria pulizia etnica. Le vittime italiane non erano fascisti, ma gente comune, contadini ed abitanti del luogo; donne e bambini. "[…] Noi non abbozzeremo un bilancio degli "infoibati" e dei soppressi in vario modo e in varie circostanze, in primo luogo e soprattutto perché le cifre fornite dalle varie fonti sono disparate e malcerte; in secondo luogo perché l’abitudine invalsa di usare come argomento politico il cumulo dei cadaveri gravante sulla coscienza di questo o quel partito ci sembra disgustosa." Bravi! Finalmente un po’ di onestà intellettuale… peccato solo che il disgusto che gli autori del libro provano in questa specifica circostanza non sia sorto spontaneo in tutte le altre circostanze in cui, a commettere crimini contro l’umanità sono stati esponenti della parte politica a loro avversa. "[…] Altrettanto inammissibile ci sembra il fatto che osino chieder conto della ferita sofferta dall’Italia nelle sue regioni nord-orientali coloro che di tale ferita sono stati i primi responsabili o coloro che di tali primi responsabili si dichiarano eredi e continuatori." Vergogna! Non ci sarebbe bisogno di nessun commento, se non fosse che gli autori, non paghi, accanto all’immagine della lapide commemorativa eretta sulla Foiba di Basovizza pubblicata sul loro volume, hanno scritto: "[…] Dopo la prima guerra mondiale fu usata come discarica [la Foiba di Basovizza ndr], anche di materiale bellico; ed ebbe una sua triste fama come meta di suicidi. E’ stata dichiarata come monumento nazionale nel 1992." Sul massacro di Basovizza il giornale Libera Stampa in data 1.8.1945 pubblicava un articolo dal titolo: "Il massacro di Basovizza confermato dal CLN Giuliano". Piena luce sia fatta in nome della civiltà. Una dettagliata documentazione trasmessa alle autorità alleate della zona e al Governo Italiano." L’articolo riportava un documento sottoscritto da tutti i componenti del CLN che denunciava i crimini accaduti a Trieste tra il 2 e il 5 maggio 1945: "Centinaia di cittadini vennero trasportati nel cosiddetto Pozzo della Miniera in località prossima a Basovizza e fatti precipitare nell’abisso profondo 240 metri. Su quei disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli".

Pag. 1569 "[…] I partigiani esercitarono le rappresaglie sempre e soltanto sui nemici nazisti e fascisti fatti prigionieri, non mai sulla popolazione civile, neppure quando questa si dimostrava attesista e opportunista." Altro falso storico, stavolta addirittura clamoroso. Tanto per citare solo uno dei fatti, il 7 febbraio 1945 un gruppo di partigiani italiani della brigata comunista Garibaldi compiva il triste eccidio di Malga-Porzus a danno di 19 partigiani della brigata cattolica Osoppo, che ostacolavano l’attuazione del progetto jugoslavo, teso all’annessione di territori italiani alla Jugoslavia comunista di Tito. "[…] è anzi importante rilevare come i combattenti anti-fascisti si preoccupassero di non compromettere invano la popolazione civile". E la favola - o la farsa - continua. Se è vero che i combattenti anti-fascisti si preoccupavano di non compromettere la popolazione civile, come è possibile che abbiano piazzato una bomba in Via Rasella uccidendo, oltre a 32 militari tedeschi, anche civili italiani compreso un bambino? E come è possibile che non avvertirono il dovere morale di costituirsi quando appresero della rappresaglia che sarebbe scattata a danno di 335 civili innocenti? Anche i "combattenti per la libertà" dovrebbero sapere che non è ammissibile far pagare alla popolazione inerte le scelte che si fanno in guerra.

Pag. 1663 "[…] Al terrorismo nero si salda presto il terrorismo che si dichiara rosso e proletario, ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria di ispirazione fascistoide." Siamo al delirio! Al di là dei nonsensi contenuti in questa frase (non si capisce perché in ambienti universitari e della piccola borghesia non si possa essere comunisti!), la "capriola" mentale degli autori non può che far ridere come un buon numero di cabaret: il terrorismo rosso non esiste. Anche quello che si proclama tale, a ben vedere, è fascista. Bah!

Pag. 1674 "[…] La volontà di cambiamento e la protesta contro la partitocrazia e contro il consociativismo si espressero anche nei consensi relativamente numerosi ottenuti dal Movimento Sociale Italiano (5%) […] Notevole fu invece il successo ottenuto da Rifondazione Comunista (6%), da interpretare però non come protesta contro il sistema dei partiti, ma come rifiuto della società esistente e come espressione di fedeltà ai vecchi ideali della lotta proletaria." Veramente degna di due storici questa lucida analisi. "[…] Il tracollo del comunismo in URSS e nei paesi satelliti contribuì certo a ridimensionare il vecchio PCI e, almeno in un primo tempo, il nuovo PDS (i cui militanti venivano spesso detti tendenziosamente "ex-comunisti" anziché democratici di sinistra)." Non riconoscere le "mutazioni" storiche dei partiti e dei suoi militanti è pratica molto diffusa in Italia. Allo scopo segnaliamo nello stesso libro il passo che segue. Pag. 1680 Accanto all’immagine dell’etichetta comparsa su alcune bottiglie di vino prodotte a Predappio nei tardi anni ‘80, gli autori scrivono questa didascalia: "Sino agli inizi degli anni novanta, il Movimento Sociale Italiano si richiamò esplicitamente ai contenuti e allo stile del Fascismo Repubblicano. L’etichetta qui riportata, per esempio, se anche non fu esplicita iniziativa dell’MSI, certo si ispirò alla sua linea politica […]" Per dovere di cronaca, vi riportiamo quanto scritto sulla citata etichetta: Nero di Predappio – bevo e me ne frego – dona giovinezza. Vino del camerata. Ci sorge un dubbio: gli autori avevano forse assaggiato, e magari abusato, di questo vino quando hanno scritto la loro didascalia? Non paghi, comunque, continuano: "Il sillogismo implicito, insomma, assumeva nella conoscenza di molti una formulazione di questo tipo: "la Prima Repubblica è stata una vergogna; la Prima Repubblica è nata dalla Resistenza; la Resistenza è una vergogna; rivalutiamo il fascismo". A questo "revisionismo" inconsapevole della gente si saldava da tempo sia il revisionismo critico messo in cantiere da alcuni storici di professione, come il citato Renzo de Felice […]" Se de Felice fu chiaramente storico di professione, proprio non ci riesce di capire quale sia la professione di Camera e Fabietti. Inizia la campagna elettorale… "a proposito di Berlusconi".

Pag. 1682 – scheda 51.3 - Pag. 1683/1684/1690 "[…] L’articolo 1 della nostra Costituzione dichiara: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione." Nelle parole di Berlusconi e dei suoi portavoce la fondamentale riserva da noi corrivata venne sistematicamente omessa, e non si trattò certo di un’omissione casuale e irrilevante: così mutilato, infatti, l’art. 1 non garantisce più che la sovranità popolare sia esercitata nel rispetto delle regole previste a tutela delle minoranze, e il "popolo" si trasforma nella "gente", la cui opinione è accertata giorno per giorno mediante i cosiddetti sondaggi." "[…] L’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla direzione generale anti-mafia, alla Banca d’Italia, alla Corte Costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica [Scalfaro ndr] , condotti da Berlusconi o dai suoi portavoce, esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal Governo alle pensioni, alla sanità e in genere alle spese statali per la previdenza sociale[…]" "[…] Tali pronunciamenti [di Berlusconi ndr] , rafforzati da altre dichiarazioni simili di Fini e dei Cristiani Democratici, miravano esplicitamente a ridurre o a vanificare la libertà di scelta del Presidente della Repubblica […]" "[…] Di là di tutte le argomentazioni, del resto, Berlusconi aveva urgente bisogno di recuperare il potere e di varare quella riforma della giustizia ch’egli riteneva necessaria e che pensava l’avrebbe messo al riparo dagli avvisi di garanzia e da eventuali condanne." "[…] Da destra e da sinistra si ripeteva giustamente che le regole generali della vita politica dovevano essere concordate tra tutti i partiti, ma, dopo che la Commissione ebbe concluso i lavori ed ebbe approvato quasi all’unanimità un documento unico in cui si prospettavano le riforme da varare, d’un tratto Berlusconi e i suoi alleati mutarono atteggiamento, cosicché l’esito concreto della Bicamerale fu del tutto deludente." Senza commento.

Pag. 1688 – 1884 (didascalia fig. 56.33) …continua la campagna elettorale…"[…] A meno che – grazie a un’intesa internazionale – non si diminuiscano le ore settimanali di lavoro (come è stato fatto in alcuni paesi e proposto anche in Italia) […]" Il richiamo alla proposta di Rifondazione Comunista circa le 35 ore lavorative settimanali, è fin troppo evidente. Ce li immaginiamo Camera e Fabietti sotto il palco di Bertinotti a spellarsi le mani con gli applausi ogni volta che il leader di Rifondazione Comunista prende la parola. "[…] Nella Cina uscita dalle riforme varate da Den Xiao Ping nel 1978, le vecchie copie cartacee del Libretto Rosso sono merce da bancarella di souvenir, così come i grandi ritratti di Mao, Lenin, Stalin, Engels, Marx ingialliscono nei magazzini delle librerie di stato. E’ invece possibile la lettura in CD grazie l’edizione multimediale delle opere complete di Mao realizzata nel 1998." Ci piange il cuore per le opere cartacee di siffatti statisti, ma ci consoliamo tutti con l’opera multimediale di Mao. Un solo rimprovero agli autori: già che c’erano, potevano dirci dove trovarle per un "acquisto democratico e proletario"…Quasi a voler rispondere a questo nostro opuscolo, gli autori Camera e Fabietti, nel triste tentativo di difendersi dalla loro stessa incapacità a scrivere un testo di storia con quell’obiettività che si richiede ad uno storico serio, scrivono:

Pag. 1563 "Perché dunque la Repubblica potesse essere proposta come patria comune di tutti gli italiani, è stato necessario, per un verso, alterare la prospettiva storica trasformando la maggioranza afascista in maggioranza antifascista, che avrebbe opposto all’occupazione tedesca almeno una resistenza passiva, e per l’altro verso, si è dovuta negare la qualifica d’italianità ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, degradandoli a semplici mercenari al servizio degli invasori nazisti. Ed è stato altresì necessario ignorare quanto è accaduto sul nostro confine giuliano, dimenticare le stragi perpetrate da Tito , e dai suoi partigiani, dimenticare l’ignominia delle foibe, perché l’attenzione rivolta verso questi eventi e verso questi problemi avrebbe costretto a prendere atto delle lacerazioni interne alla Resistenza e a rompere ogni rapporto di collaborazione, sia pure polemica, con Togliatti e col suo partito, che a proposito della Venezia Giulia avevano assunto (o erano stati costretti ad assumere, dati i loro rapporti di sudditanza nei confronti dell’URSS) posizioni non conciliabili con gli interessi della nazione italiana. Ma la rottura con i comunisti, che nella Resistenza avevano svolto una parte di primo piano, avrebbe tolto uno dei supporti fondamentali all’inevitabile "mito" della Resistenza come fondamento unitario – comunista, "azionista", socialista, cattolico e liberal-democratico – della patria repubblicana." Ipocriti!

"MANUALE DI STORIA 3 L’Età contemporanea" A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto per Editori Laterza, nuova edizione aggiornata. Pag. 866 "[…] Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di P.zza Fontana, vi furono le bombe in P.zza della Loggia a Brescia, nel maggio ’74, e quelle sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno, l’attentato alla stazione di Bologna (con oltre 80 morti) nell’agosto ’80. La ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica che attribuisce le stragi ad esponenti della destra eversiva sostenuti dai servizi segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non ha trovato ancora (salvo che per Bologna) una conferma nella magistratura giudicante […]." Vorremmo ricordare agli autori che la "ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica" non è storia.

Pag. 943 Anche qui siamo in campagna elettorale…"[…] Le ragioni della vittoria di Berlusconi, una vittoria confermata e anzi accresciuta nelle elezioni europee di giugno, furono attribuite non solo al sostegno delle sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi – con efficaci messaggi al tempo stesso popolari e populistici – come l’unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato via dagli scandali di tangentopoli […]".

Pag. 945 "[…] I referendum erano intesi a ridimensionare il potere televisivo di Berlusconi e la sconfitta dei proponenti fu interpretata come un successo anche politico dell’imprenditore milanese e della sua capacità di influenzare il grande pubblico. […]"

Pag. 946 "[…] Rimaneva invece aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell’ordine giudiziario e settori della classe politica, che criticavano il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. […]"

Pag. 947 "[…] Proprio una maggiore capacità di aggregazione e una maggiore credibilità dei candidati aveva consentito allo schieramento di centro-sinistra di riconquistare nelle elezioni amministrative della primavera-autunno 1997 la guida di molti altri centri come Torino, Roma […]"

"L’ETA’ CONTEMPORANEA – il novecento e il mondo attuale" P. Ortoleva, M. Revelli. Nuova periodizzazione per Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori. Pag. 310 "[…]Nell’esaltazione della figura di Stalin che raggiunse aspetti di un vero e proprio "culto della personalità" (come sarebbe stato definito questo fenomeno negli anni cinquanta), non si trovava, infatti, solo il rapporto capo-seguaci tipico di tutti gli stati autoritari di quegli anni ( e pure di stati meno autoritari, come gli USA), ma anche la risposta a un profondo bisogno di stabilità e di certezza: in quel clima di continui e violenti mutamenti, la figura di Stalin appariva rassicurante nella sua immensa autorità e nella sua salda permanenza al potere. Il timore da essa ispirato poteva quasi essere sentito positivamente, come il rispetto dovuto a un’autorità dura ma giusta. Il ritmo continuo delle trasformazioni sociali e politiche, che continuavano ad abbattere senza sosta ceti, come i kulàki, e figure fino a poco prima onnipotenti come i leader man mano liquidati da Stalin, poteva anche essere interpretato come la prova di una grande volontà di eguaglianza, pronta a colpire il privilegio ovunque si formasse: Stalin diveniva, in tal senso, l’incarnazione di una rivoluzione giusta e livellatrice. […]" Il passo si commenta da solo, quindi non ci dilunghiamo più di tanto. Ci preme però ricordare che i kulàki uccisi dal regime stalinista furono cinque milioni. Cinque milioni di esseri umani sterminati di cui nessuno parla e che nessuno ricorda né commemora.

Pag. 315 "La politica staliniana in tema di nazionalità comunque non fu solo di carattere repressivo. Bisogna tener conto che, nella lista dei popoli perseguitati dal regime, compaiono solo etnie nettamente minoritarie, spesso isolate nella loro zona di insediamento." Ah, bè, allora massacriamoli, sono minoritari!!!

Pag. 657 "[…] E’ stato ormai accertato che le stragi, spesso affidate a una "manovalanza neofascista", trovarono forti complicità all’interno dei servizi segreti e in alcune aree dell’apparato istituzionale e militare dello Stato. […]" No, signori "storici"… non è stato ancora accertato. E finché ci sarà chi continua a darlo per scontato, di accertarlo davvero non interesserà a nessuno… o quasi.

Pag. 662 "[…] All’emergenza fecero appello le forze di governo e il PCI per approvare una legislazione d’eccezione, che venne molto discussa e criticata; essa si rivelò del tutto inefficace nei confronti del terrorismo di destra e della "strategia della tensione", ma ebbe l’indubbio effetto di portare alla sconfitta del terrorismo di sinistra. […]"

Un libro molto interessante, arrivato alla sua settima od ottava edizione, L’eskimo in redazione, di Michele Brambilla ed. Oscar Saggi Mondadori, affronta molto bene il tema di chi, negli "anni di piombo" tentò di mettere su due piani il terrorismo di destra e il terrorismo di sinistra, arrivando quasi a giustificare quest’ultimo, o almeno a camuffarlo come un’inevitabile sbocco della ribellione giovanile. Questi "pietosi" intellettuali non sapevano che guasti gravissimi un simile atteggiamento avrebbe causato. Qualcuno non lo sa ancora, e continua così… Centinaia di giovani vite spezzate, sentitamente, ringraziano.

"POPOLI E CIVILTA’ 3" Antonio Brancati. Nuova Edizione per La Nuova Italia. Pag. 210 "L’avvento di una dittatura in Germania non costituiva per l’Europa una novità assoluta, visto che analoghi movimenti totalitari o dittatoriali si erano venuti nel frattempo insediando e consolidando anche in altri Paesi come in Italia con Mussolini, in Spagna con Primo de Rivera, in Portogallo con Antonio Salazar, in Grecia con Joannis Metaxas, in Austria con Engelbert Dollfuss, in Romania con Jon Antonescu e in Turchia con Mustafà Kemal Atatürk, fondatore della repubblica turca da lui retta con poteri dittatoriali sino alla morte.[…]" Per caso abbiamo dimenticato che nel 1924 andò al potere un certo Iosif Dzuga_vili, meglio noto come Stalin?

Pag. 565 "La strategia della tensione o del terrore, inaugurata a P.zza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per molti anni una costante nella cronaca politica del nostro Paese. Una lunga serie di attentati, di stragi e di violenze compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e neonaziste (Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero) avrebbe insanguinato le città italiane, intrecciandosi a manovre preparatorie golpiste. Nel corso degli anni settanta l’attacco allo Stato fu però sferrato anche da un estremismo di segno opposto. Al terrorismo nero, già operante, si aggiunse il terrorismo praticato da organizzazioni clandestine che si proclamavano "comuniste" (Nuclei Armati Proletari, Prima Linea e soprattutto, Le Brigate Rosse)". Ovviamente "si proclamavano"! Che lo fossero anche? Leggendo la frase sopra riportata, chissà come dovranno sentirsi stupidi tutti i giovani di sinistra, finiti per scelta o per caso nelle spire del terrorismo, e che hanno pagato le loro idee comuniste e le loro scelte estreme con la prigione e a volte la vita.

Pag. 599 "[…] dopo avere avuto un ruolo di grande rilievo nella Resistenza (il PCI n.d.r.), nella stesura della Carta Costituzionale e nella storia della Repubblica con particolare riguardo agli anni in cui aveva dato un contributo fondamentale alla lotta contro il terrorismo […]" Beh… "contributo fondamentale" ci sembra appena appena un’esagerazione…

"STORIA E STORIOGRAFIA 3" di A. Desideri e M. Themelly nuovissima e dizione per C. Editrice D’Anna. Pag. 1355 "[…] Alla fine di quel "terribile 1977" E. Berlinguer chiese l’ingresso a pieno titolo dei comunisti al governo; intendeva dare un indirizzo nuovo – non di mero restauro – alla politica della maggioranza […]" Qui la campagna elettorale è un po’ retroattiva, ma chissà che non funzioni ugualmente…

Pag. 1370 "[…] Già prima dell’esplosione del terrorismo "rosso" aveva fatto la sua comparsa in Italia il terrorismo "nero", ispirato a gruppi estremisti di destra viventi all’ombra del MSI e già operanti nella Repubblica di Salò. […]" E questi sarebbero "storici"??? Ma per favore, un po’ di serietà! Qualcuno ricorda per caso che quel MSI "ombreggiante" richiese la pena di morte per i terroristi di destra?

Pag. 1377 "[…] Nel primo Ordine Nuovo, infatti, venivano privilegiati gli aspetti più propriamente ideologici della lotta politica, con la proclamata adesione al pensiero di autori di forte impronta reazionaria (soprattutto Giulio Evola, ma anche esponenti di un pensiero genericamente spiritualista, nei quali "si mescolavano insieme la cultura occulta, la divinazione, i fenomeni medianici, la magia nera, lo yoga, le società segrete, la cabala, l’esoterismo"). […]" Evola come il mago Otelma? Un concetto interessante, più "medianico" che storico, però…

PILLOLE. Nel manuale "DIRITTO COSTITUZIONALE SIMEONE" (XIV Edizione) a proposito delle elezioni politiche del 1994 a pagina 315 si legge: "Le elezioni, svoltesi con il nuovo sistema imperfettamente maggioritario, hanno portato alla vittoria una composita coalizione in cui precariamente si armonizzavano istanze secessioniste, destra neofascista e partito azienda. Il Presidente della Repubblica ha assunto immediatamente il ruolo di difensore dei valori costituzionali della solidarietà, della democrazia parlamentare e dell’unità nazionale, esercitando una sorta di tutela presidenziale sul Governo Berlusconi". Aberrante è dire poco.

Alla voce "foiba" del "VOCABOLARIO DELLA LINGUA PARLATA IN ITALIA" di Carlo Salinari si legge: "Dolina con sottosuolo cavernoso e indica particolarmente le fosse del Carso nelle quali, durante la guerra 40-45, furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista" Qui addirittura siamo al "ribaltone". Salinari avrebbe qualcosa da insegnare a qualcuno? E magari il vocabolario bisogna anche pagarlo…

Dal testo "LA STORIA: RETE E NODI – Manuale per una didattica modulare" di A. Brancati e T. Pagliarani. "Per il coraggio, la fermezza e la coerenza dimostrati in tante occasioni, Prodi ha saputo guadagnare la stima di altri Governi e partner internazionali" "Con l’affermazione in Gran Bretagna del laburista Tony Blair e in Francia del socialista Lionel Jospin si sono addirittura aperte le prospettive per un dialogo della sinistra moderata europea, al quale si è dimostrato interessato anche Bill Clinton" Che bello! Siamo tutti contenti se viene anche Chelsea.

Dalla postfazione al "DIZIONARIO GIURIDICO ITALIANO – INGLESE" di Francesco de Franchis, editrice Giuffré. Pag. 159 "E si arriva al colmo: nell’agosto 1994 – fatto mai accaduto in nessun paese democratico dell’Occidente (in corsivo nel testo n.d.r.) e misura dell’assoluta impresentabilità di una coalizione che deve, all’evidenza, cercare i propri modelli nei regimi sudamericani – il governo Berlusconi invia un "esposto" al Presidente della Repubblica in cui si denuncia un attentato al funzionamento degli ‘organi costituzionali perpetrato dalla procura di Milano con le sue indagini sulla criminalità organizzata: qui va rilevata, oltre alla grossolanità degli uomini, la sfacciata ribellione alla legge (in corsivo nel testo n.d.r.) da parte delle forze di governo e l’ostilità verso una sia pur piccola pattuglia di magistrati indipendenti. In un crescendo di vendetta macbethiana si colloca la vicenda di Antonio di Pietro, inquisito, oggetto di una lunga e implacabile persecuzione da parte della forza legale". E hanno avuto il coraggio di scomodare anche Shakespeare!

Pag. 173 "Resta il fatto che – a prescindere dall’individuo – il caso Berlusconi appare, sul piano politico, come il primo e il più grave nella storia di tutte le democrazie occidentali di un imprenditore che assume funzioni di governo. Si è opportunamente osservato che: “Il nuovo Governo Berlusconi si presenta come una compagine all’altezza dei propositi; dal decreto salvaladri al condono edilizio al vecchio regime dei lavori pubblici alla virtuale abolizione del Secit: un free for all degno dei fratelli Somoza” (l’autore non indica la fonte della citazione)…e un pensierino degno di Gianni e Pinotto!

Dal libro FARE STORIA di A. Brancati, ed. Nuova Italia. "Gli Ebrei, popolo ormai emarginato e separato, divennero nel Basso Medio Evo anche coloro che profanavano di nascosto i misteri cristiani (rubando e disprezzando le ostie consacrate) e che compivano omicidi rituali di bambini per poter fare con il loro sangue il pane azzimo, fatto cioè senza lievito e da essi usato nei giorni pasquali" L’autore del libro si è giustificato dicendo che nello scritto incriminato, stava riferendo solamente le calunnie che venivano rovesciate addosso al popolo ebraico. Va bene, ma è difficile che questo venga compreso da uno studente della media inferiore.

Dal libro LEGGERE EUROPA di Sambugar-E., ed. Nuova Italia. Parlando del futurismo e di Martinetti: "Affermazioni paradossali che non indicano assolutamente realistici programmi, per questo diedero cita a sfortunati e inevitabili fanatismi, esaltando ideologie violente come quella fascista. Un rinnovamento artistico che sfocia spesso nel suono un po’ vuoto di slanci verbali, e che non esita a cadere nel decisamente brutto. Il movimento futurista mancava comunque di profondi contenuti spirituali." Non molto obiettivo come commento nei confronti di quella che è stata un’avanguardia artistica dal valore universalmente riconosciuto.

Dal libro VERSO IL 2000 di D. Materazzi, ed. Thema. A proposito del Movimento Sociale Italiano. "Suo segretario politico nazionale è Giorgio Fini, mentre l’ala intransigente e nostalgica del nazional-socialismo che fa capo a Pino Rauti, è relegata al ruolo di opposizione interna" A parte la divertente miscela che l’autore ha creato tra i nomi di due diversi segretari dell’MSI, e cioè Giorgio Almirante e Gianfranco Fini, è da notare che nemmeno i più feroci detrattori del MSI sono mai arrivati ad accostare gli iscritti del partito a dei nazisti militanti.

Dal libro STORIA E STORIOGRAFIA di A. Desideri, ed. D’Anna. Nel capitolo dedicato alla Rivoluzione Francese "[…] e ciò nel momento stesso in cui la Vandea insorgeva contro la leva di 300.000 uomini, ordinata dalla convenzione. Nell’insurrezione dei contadini vandeani si possono cogliere molteplici spinte: oscuri fermenti di lotta di classe paradossalmente combattuta sotto le insegne della reazione, sobillazione nobiliare, appoggi inglesi ed europei alla causa degli insorti." Interessante notare la capacità di sintesi dell’autore che liquida una lunga e sanguinosa guerra civile in meno di tre righe nel testo. A. Desideri, da studente, avrà sicuramente vinto una medaglietta nella gara di riassunto.

Dal libro SPRINT FINALE di Attalienti, ed Ferraro. A proposito di D’Annunzio "Per quanto riguarda poi la poesia del D’Annunzio, se qua e là possiamo restare ammirati di fronte a tanta dovizia di parole e tanta abilità stilistica, raramente essa ci commuove, perché la sua perfezione estetica, come disse il Serra, è una perfezione che suona falso (al maschile sul testo)." C. Attalienti usa con una certa superficialità un plurale majestatis che sfugge alla nostra comprensione. "Raramente ci commuove…" Attalienti, invece, ci fa piangere. E tanto!