Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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CONTRO

 

TUTTE LE MAFIE

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

 

Questo saggio non è un opuscolo opinabile polemico contro l’Italia, ma una constatazione di fatto di quello che è. Un sunto su quanto si è scritto in modo temporale, pluritematico e pluriterritoriale. Gli argomenti ed i territori trattati in questo pamphlet sono aggiornati, completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale attendibile e credibile. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

A COME MAFIA DELL’ABUSO SUI PIU’ DEBOLI.

A COME MAFIA DELL’AFFIDO CONDIVISO.

A COME MAFIA DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

A COME MAFIA DELL’AGROALIMENTARE.

A COME MAFIA DELL’AMBIENTE.

A COME MAFIA DELL’ABUSO SUGLI ANIMALI.

A COME MAFIA DELL'ANTIFASCISMO DEI CRETINI.

C COME MAFIA DEI CAPORALI.

C COME MAFIA DEI CONCORSI PUBBLICI.

C COME MAFIA DEI CONDONI.

C COME MAFIA DEI COLLETTI BIANCHI.

C COME MAFIA DEL CONTRABBANDO.

C COME MAFIA DELLA BUROCRAZIA E DELLA CORRUZIONE.

C COME MAFIA DELLA CULTURA.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA DI STATO.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA BANCARIA.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA ASSICURATIVA (RCA).

G COME MAFIA DEL GIUSTIZIALISMO E DELL’IMPUNITA’.

G COME MAFIA DELLA GIUSTIZIA.

M COME MAFIA DELLE MAFIE E DELLE ANTIMAFIE.

M COME MAFIA DELLE MALEFATTE DELL’ANTIMAFIA.

M COME MAFIA DELLA MASSONERIA.

M COME MAFIA DEI MEDIA.

M COME MAFIA DEI MISTERI DI STATO.

P COME MAFIA DELLA POLITICA E DEI DISSERVIZI E DELLA SOCIETA’.

P COME MAFIA DELLA PRESCRIZIONE E DELLA MALAFEDE DI POLITICI E GIORNALISTI.

R COME MAFIA DELLA RITORSIONE SU CHI DENUNCIA. (SPIONI O ONESTI?). WHISTLEBLOWING: PIU’ DEL MOBBING O DELLO STALKING.  

S COME MAFIA DELLO SCIACALLAGGIO A DANNO DEI TERREMOTATI E DELL’OMERTA’.

S COME MAFIA DELLA SANITA’ E DELLA SCIENZA.

S COME MAFIA DELLA SCUOLA.

S COME MAFIA DELLO SPORT E DELLO SPETTACOLO.

T COME MAFIA DEI TRADITORI.

V COME MAFIA DELLA VIOLENZA E DEGLI OMICIDI DI STATO.

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

       ma quest’Italia mica mi piace tanto.  

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012

 

 

 

SECONDA PARTE

 

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA DI STATO.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “SPECULOPOLI.”.  Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Eppure ve l'avevamo detto: l'Ente della riscossione deve stare in giudizio direttamente... 

L’ Agente della riscossione, che si chiami Equitalia o che si chiami Agenzia delle Entrate riscossione, deve stare in giudizio direttamente. Non può avvalersi di un procuratore generale o speciale e non può essere rappresentato in giudizio da un difensore esterno, scrive su "Il Corriere del Giorno" il 15 novembre 2018 Luciano Quarta, avvocato – Studio Legale e Tributario, Ce.S.F.I. – Centro Studi sulla Fiscalità Internazionale. Nemo propheta in patria. Noi l’avevamo detto (io e il mio compagno di merende, Giorgio Rubini), e da un bel pezzo anche: l’Agente della riscossione, che si chiami Equitalia o che si chiami Agenzia delle Entrate riscossione, deve stare in giudizio direttamente. Non può avvalersi di un procuratore generale o speciale e non può essere rappresentato in giudizio da un difensore esterno. I vari luminari con i quali ci siamo confrontati sul tema hanno storto il naso. Hanno trattato con sufficienza le nostre tesi giuridiche. Quando abbiamo ottenuto se non la prima, una delle primissime sentenze che confermavano la nostra interpretazione (CTP Varese (la n. 310/2017), a giugno del 2017 Italia Oggi, commentando il precedente, aveva parlato di una sentenza “potenzialmente devastante per numerosissimi processi e, in particolare, per quelli di secondo grado in cui appellante è proprio l’Agente della riscossione”. Molti però l’hanno presa come una delle tante sentenze balzane ed eccentriche di una corte di merito, periferica ed isolata. Altre pronunzie sono seguite, nello stesso senso e nel senso opposto. Ma oggi la Corte di Cassazione, con una sentenza dettagliatamente motivata, la n. 28684/2018 sviluppata su una attenta e puntigliosa analisi di tutto il quadro normativo, con passaggi logico giuridici consequenziali e rigorosi ha spazzato via ogni dubbio: l’Agente della riscossione, salvo casi eccezionali deve stare in giudizio direttamente o con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato nei giudizi di merito, con il solo patrocinio dell’Avvocatura nei giudizi di legittimità. Allora, vediamo: cosa dice esattamente la Suprema Corte? Afferma in sequenza questi principi:

a) l’Ente della riscossione non può avvalersi di avvocati del libero foro, se non in casi eccezionali. Nella normalità dei casi la difesa va affidata a dipendenti interni all’Agenzia o all’Avvocatura dello Stato, se si tratta di contenziosi di merito, alla sola Avvocatura dello Stato in caso di giudizi di legittimità;

b) la sussistenza di uno di questi casi eccezionali e la scelta del ricorso alla difesa esterna deve essere congruamente motivata, documentata e occorre che sia appositamente autorizzata;

c) per giustificare il ricorso ad avvocati esterni non basta il regolamento di amministrazione dell’Agenzia, perché esso fa rinvio a quanto previsto all’art. 43 RD 1611/1933 (sul patrocinio dell’Avvocatura dello Stato) che ancora una volta ribadisce l’eccezionalità del ricorso al patrocinio da parte di avvocati del libero foro;

d) pertanto occorre sempre uno specifico atto di autorizzazione dell’organo deliberante;

e) se tutto questo manca l’avvocato si ritrova sprovvisto del cosiddetto jus postulandi, quindi, in pratica non ha il potere di rappresentare in giudizio l’Ente e di conseguenza tutti gli atti difensivi, le produzioni, le istanze e quant’altro ne vengono travolti;

e) questo tipo di grave difetto può essere rilevato in ogni stato e grado e non è sanabile, salvo il caso di cui all’art. 125 cpc (cioè, prima dell’effettiva costituzione in giudizio).

Cosa comporta tutto questo? Un vero tsunami. Ad esempio, tutti gli appelli e i ricorsi per Cassazione proposti dall’Agente della riscossione con un avvocato esterno diventano inammissibili, perché proposti da un avvocato che non aveva il potere di rappresentare in giudizio il suo cliente (cioè l’Agenzia). Ma non solo: in tutte quelle cause in cui il debito del contribuente o la ritualità di una notifica viene provato attraverso le produzioni effettuate dall’avvocato esterno, siccome quell’avvocato non aveva il potere di rappresentare l’Agente della riscossione quei documenti è come non fossero mai stati depositati: il giudice non può tenerne conto e devono essere espunti dal fascicolo processuale perché non ritualmente presentati. In pratica è come se non fosse mai stato provato che il contribuente abbia mai avuto un debito verso il fisco, o che una cartella sia mai stata effettivamente notificata. E lo stesso vale per intimazioni di pagamento, iscrizioni ipotecarie, fermi amministrativi e qualsiasi altro atto impugnabile. La cosa è di estrema rilevanza perché nel processo tributario l’Ente della riscossione viene qualificato come “attore in senso sostanziale”: vuol dire che, anche se formalmente la causa la comincia il contribuente è l’erario che ha l’onere di dimostrare di avere una valida pretesa tributaria nei suoi confronti e di avere rispettato correttamente tutte le procedure. Un principio consolidato e ribadito ai massimi livelli anche dalla Corte Costituzionale con una storica sentenza: la n. 109/2007. Perciò, quello che oggi ci ritroviamo sul tavolo è di fatto il potenziale azzeramento, per motivi puramente processuali, di un buon 80% delle controversie in cui è parte l’Agente della riscossione, per il solo fatto che ha scelto di farsi assistere da avvocati del libero foro. A tutto vantaggio del contribuente, che non ci stancheremo di mai di difendere in tutte le arene processuali. Parliamo di contenziosi pendenti per miliardi e miliardi di euro. Ma come si è potuto arrivare a questo? La verità che le tortuosità del meccanismo normativo si sono ritorte contro chi le ha scritte. E non è la prima volta. Questo enorme pesticcio, infatti, è stato originato dalla combinazione tra una modifica delle norme sul processo tributario, apparentemente marginale (tanto che è sfuggita ai più), entrata in vigore nel 2016 (in particolare dell’art. 11 D.Lgs. 546/1992) e il DL 193/2016, di poco successivo, con cui è stata soppressa Equitalia ed è stata istituita al suo posto l’Agenzia delle Entrate Riscossione (società di diritto privato la prima, ente pubblico economico la seconda). È da questa specie di mix esplosivo che è scattata la preclusione per l’Agenzia di riscossione di avvalersi di difensori esterni. Questa preclusione è sfuggita a molti perché “nascosta” in un groviglio di rinvii, alle normative regolamentari interne dell’Agenzia stessa e alle norme sul patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Questo ha reso ancora più dirompente la miscela esplosiva perché l’Ente della riscossione, sottovalutando l’entità del problema, ha continuato a farsi difendere da avvocati esterni accumulando di fatto materiale esplodente. E adesso, come per incanto, possono essere rimessi in discussione i presupposti alla base di molte sentenze di primo e secondo grado delle Commissioni Tributarie, in cui il contribuente era soccombente. Potrà sembrare un’uscita fuori contesto, ma non riesco a fare a meno di pensare a quella battuta del film “Apocalypse Now” in cui Robert Duval, nei panni del Colonnello Kilgore, prima di lanciare il mortale assalto del suo squadrone di elicotteri dice “Mi piace l’odore del napalm la mattina” e poi “quell’odore… sai quell’odore di benzina? Tutto intorno. Profumava come… come di vittoria”. A buon intenditor…

Che differenza tra Equitalia e Agenzia delle Entrate-Riscossione? Scrive il 7 novembre 2016 Angelo Greco su laleggepertutti.it. Il nuovo ente pubblico avrà più poteri di investigazione ai fini del pignoramento dei beni dei contribuenti, ma la sostanza rimane sempre la stessa: un organo sotto il controllo dell’Agenzia delle Entrate. Il tutto sotto il rischio della nullità dei futuri atti. Con la recente approvazione del decreto fiscale che mette in liquidazione Equitalia e, al suo posto, crea un nuovo ente pubblico dal nome Agenzia delle Entrate-Riscossione, sono in molti a chiedersi quali sono le differenze, soprattutto in termini di poteri nei confronti dei contribuenti, tra i due soggetti deputati alla riscossione delle tasse. Il timore è, infatti, che con l’accorpamento delle funzioni di accertamento e recupero delle entrate tributarie in capo all’Agenzia delle Entrate ci possa essere un eccessivo accentramento di poteri e, quindi, il rischio di abusi. Agenzia delle Entrate che, peraltro, proprio in questi ultimi mesi è stata al centro di due delicate questioni che ne hanno scalfito l’immagine: la prima sollevata da Striscia la notizia sui riclassamenti del valore degli immobili operati – secondo le accuse – in modo illegittimo; la seconda, invece, relativa alla nomina “motu proprio” e senza alcun concorso di ben 767 dirigenti. Prima di comprendere quali sono le differenze tra Equitalia e Agenzia delle Entrate-Riscossione, dobbiamo anche capire di chi stiamo parlando: nel primo caso, Equitalia, di una Spa (società per azioni) di diritto privato, ma il cui capitale è in mano pubblica, essendo il 51% detenuto dall’Agenzia delle Entrate e il residuo 49% dall’Inps; nel secondo caso, ossia Agenzia delle Entrate-Riscossione, di un ente pubblico economico, sottoposto all’indirizzo e alla vigilanza del ministro dell’Economia e delle Finanze, ma – come dice il nome stesso – rientrante nell’ambito della struttura dell’Agenzia delle Entrate. Dal punto di vista sostanziale, quindi, le cose non mutano di molto: in entrambi i casi, infatti, l’Agente per la riscossione esattoriale è un soggetto sotto l’egida e l’influenza dell’Agenzia delle Entrate, ieri in veste di socio di maggioranza, oggi come struttura “madre”. Questo significa che, almeno dal punto di vista della politica nei rapporti col contribuente, cambierà davvero poco. Ciò è rafforzato anche dal fatto che il personale dipendente – quello che, cioè, troveremo dietro lo sportello o a dirigere le singole sedi territoriali – sarà lo stesso che prima sedeva sulle poltrone della società per azioni. Ma, dal punto di vista formale, le differenze sono notevoli e queste potrebbero implicare, a cascata, problemi non di poco conto. Vediamoli qui di seguito.

Innanzitutto, il nuovo Agente per la riscossione, divenendo a tutti gli effetti una Pubblica Amministrazione, ne acquisirà anche i poteri che la legge non aveva mai esteso a Equitalia: in particolare, proprio quei poteri più penetranti che spettano all’Agenzia delle Entrate. Il riferimento è alla possibilità di accedere a qualsiasi banca dati telematica per verificare il possesso, da parte dei contribuenti, di redditi o beni da sottoporre a pignoramento. In altre parole, la fase dell’esecuzione forzata nei confronti di chi non pagherà le tasse sarà più precisa, mirata e, quindi, efficiente. C’è da dire che Equitalia aveva più volte sollecitato Governo e Parlamento per ottenere un’estensione dei propri poteri e, in un certo senso, è stata ascoltata!

Il secondo punto nodale del passaggio di struttura da società privata a ente pubblico attiene al personale dipendente. Se per le Spa, così come per tutti i datori di lavoro privati, le assunzioni non sono subordinate a regole specifiche, potendo quindi avvenire a «chiamata diretta», senza peraltro alcuna verifica e garanzia, nel settore pubblico non è così: la Costituzione [1], infatti, subordina qualsiasi reclutamento a un bando di concorso pubblico (e questo, secondo la Corte Costituzionale, vale sia per le nuove assunzioni che per le promozioni del personale già assunto). Il tutto per garantire l’imparzialità e il buon andamento della P.A. attraverso una procedura di selezione rigorosa dei “migliori”. In teoria, quindi, con la nascita di Agenzia delle Entrate-Riscossione, i dipendenti dovrebbero essere sottoposti a un concorso. E invece non sarà così. Nel decreto fiscale approvato dal Governo, infatti, c’è una resa incondizionata alle richieste dei sindacati, preoccupati della sorte dei propri iscritti (e non, evidentemente, dei contribuenti). Sicché la nuova legge prevede il passaggio del personale prima assunto in Equitalia al nuovo ente pubblico. Gli stessi dipendenti prima assunti dalla società privata, verranno trasferiti alla pubblica amministrazione, senza alcun previo concorso. La nuova norma dice solo che: «…il personale delle società del Gruppo Equitalia con contratto di lavoro a tempo indeterminato, in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto, senza soluzione di continuità e con la garanzia della posizione giuridica ed economica maturata alla data del trasferimento, è trasferito all’ente pubblico economico (…), previo superamento di apposita procedura di selezione e verifica delle competenze, in coerenza con i principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità». Una «procedura di selezione e verifica» che certo non è un bando pubblico: perché, altrimenti, non chiamare le cose col proprio nome, come Costituzione impone? Nessuno quindi dice come avverrà questa selezione, con quali criteri di valutazione, quali sono i requisiti minimi richiesti per l’assunzione: tutte circostanze che, invece, in un concorso pubblico vengono elencate nel bando, aperto peraltro a tutti e non solo a una fascia di ristretti fortunati. Chi ci dice come sono avvenute le assunzioni in Equitalia? Per pura ipotesi di scuola (e a voler pensare male), qualcuno potrebbe anche paventare il rischio di nomine clientelari, proprio perché non soggette ai controlli pubblici.

Da qui discendono due importanti conseguenze. La prima è davvero preoccupante: a un personale teoricamente non preparato e non formato secondo i crismi di un concorso pubblico, avremo accordato gli stessi forti poteri dei funzionari e dirigenti dell’Agenzia delle Entrate. Come abbiamo detto sopra, infatti, le attribuzioni del nuovo ente pubblico saranno molto più penetranti rispetto a quelle di Equitalia. Ci ritroveremo così con soggetti che, da semplici dipendenti di una società privata, saranno diventati, in un solo colpo, pubblici ufficiali – quelli stessi soggetti che, prima, facevano spallucce davanti alle richieste dei contribuenti dietro lo sportello e, al più, dinanzi all’incertezza delle decisioni, invitavano a «rivolgersi al giudice, perché noi non possiamo farci nulla». Questo personale potrà firmare atti, certificare copie di estratti di ruolo, notifiche e quant’altro, dando ad essi la fede privilegiata che viene attribuita, per legge, a tutti gli atti pubblici sottoscritti da pubblici ufficiali.

La seconda conseguenza è una diretta prosecuzione del ragionamento. Qualcuno domani potrebbe svegliarsi e ritenere tutto questo incostituzionale e, quindi, impugnare queste nomine proprio come avvenuto con quelle famose promozioni a dirigenti, all’interno dell’Agenzia delle Entrate, che la Corte Costituzionale solo l’anno scorso aveva annullato. Con la conseguenza che, caducati gli organi, cadranno anche i relativi poteri con effetto retroattivo e, con essi, gli atti e le cartelle firmate notificate da Agenzia delle Entrate-Riscossione. Questo significherà ricorsi dei contribuenti ai tribunali, spese processuali che sosterrà lo Stato e, in caso di soccombenza, mancato recupero dell’evasione fiscale. Ma intanto il Governo sarà cambiato e i costi di questa manovra populistica saranno sopportati dal successore. E indovinate chi paga…?

Fisco: la lodevole inchiesta di Striscia la Notizia sull'Agenzia Entrate, produce effetti, scrive il 30 aprile 2016 Agi. (Adusbef) - La lodevole inchiesta di Striscia la Notizia, Tg satirico di una TV commerciale che fa informazione, al contrario del servizio pubblico Rai finanziato dal canone dei cittadini da quest'anno sulle bollette elettriche spacciando pacchi su Raiuno in prima serata, che ha dedicato numerose puntate per smascherare usi, abusi, vessazioni ed ordinari soprusi dell'Agenzia dell'Entrate, che in alcuni casi ha portato a gesti sconsiderati di tartassati e maltrattati contribuenti, sembra abbia portato ad una modifica di comportamenti, nei rapporti non proprio idilliaci tra cittadini e fisco. Rosella Orlandi infatti, in una lettere ai dipendenti sulla "nuova strategia dell'Agenzia delle Entrate che punta a rivoluzionare i controlli fiscali che pone particolare attenzione a quello che il Tg satirico di Antonio Ricci ha denunciato, proprio  nel paragrafo "Contraddittori e accessi in loco per gli accertamenti sugli immobili" istituisce il confronto preventivo con il contribuente, per una inderogabile necessità il cui scopo principale è quello di fornire prima ancora dell'accertamento, tutti gli elementi utili a quantificare correttamente il valore dell'immobile oggetto dell'atto. La circolare incoraggia anche le visite presso l'immobile o l'azienda da valutare e i sopralluoghi nella zona di ubicazione, per acquisire una conoscenza diretta dello stato esteriore e delle caratteristiche del bene e intercettare così le corrette analogie e differenze con altri immobili o aziende presi a riferimento per la determinazione del prezzo di mercato. Sempre all'insegna della trasparenza, l'Agenzia per la raccomanda di allegare l'immagine dell'immobile accertato all'avviso di rettifica consegnato al contribuente, a supporto della motivazione che ha spinto la rivalutazione del bene da parte del Fisco. La sacrosanta battaglia informativa di Striscia la notizia, condivisa da Adusbef e dai contribuenti onesti spremuti, vessati e tartassati dall'Agenzia delle Entrate, i cui incentivi ai dirigenti sembrano tarati sull'imponibile accertato invece che sul riscosso, incentivando in tal modo anche una sopravvalutazione, in alcuni casi di puro stampo estorsivo, ha dato i primi frutti. Adusbef nel rammentare che bisogna continuare la lotta all'evasione ed all'elusione fiscale anche con il contrasto di interessi, grata a Striscia la Notizia per la coraggiosa battaglia a tutela dei diritti dei cittadini contribuenti e della legalità, auspica che l'Agenzia delle entrate, invece di minacciare azioni legali verso coloro che fanno informazione, diriga i suoi sforzi per una lotta alle grandi frodi fiscali, purtroppo non sempre perseguita, al contrario di vere e proprie persecuzioni verso chi dimentica, sbagliando, di emettere scontrini fiscali per modestissimi importi.

Agenzia delle Entrate contro Striscia la Notizia: la battaglia continua, scrive l'1 aprile 2016 blogdieconomia.it. Continua la battaglia tra l’Agenzia delle Entrate e la trasmissione televisiva, trasmessa su Canale 5, Striscia la Notizia di cui già vi avevamo parlato (clicca per leggere il nostro articolo). Nella puntata del 30 marzo Riccardo Trombetta nello spazio chiamato “Rapine in corso” ha intervistato Luciano Dissegna, ex dirigente dell’Agenzia delle Entrate chiedendo come funzionasse il sistema degli incentivi ai funzionari. Nell’intervista Dissegna va giù pesante dichiarando: “Più soldi si incassano più il dirigente fa carriera e anche soldi”, confermando che i dirigenti dell’Agenzia delle Entrate guadagnano in base agli obiettivi raggiunti in termini di accertamenti realizzati. L’ex dirigente spiega come l’Agenzia, a fronte di un accertamento da 100 milioni offra la possibilità di pagarne metà, e questa operazione viene definita dall’ex funzionario come una: “Questa costrizione io la trovo inaccettabile. Questa è, dal mio punto di vista e in buona fede, la più grande estorsione di tutti i tempi”. L’Agenzia delle Entrate il giorno dopo, il 31 marzo, è intervenuta con un comunicato stampa di 3 pagine, (ecco il link) in cui ribatte punto per punto, accusa per accusa, tutte le puntate di Striscia la Notizia in cui veniva criticato lo strano modo di accertare e “Inoltre, l’Amministrazione puntualizza che non esiste – come si lascia intendere nella trasmissione – una stretta correlazione tra il singolo controllo o accertamento e il premio annuale attribuito al dirigente. Il trattamento accessorio, infatti, è conferito dopo una valutazione complessiva del suo operato annuale, che si basa sul raggiungimento degli obiettivi complessivamente assegnati alla struttura da lui diretta e sulla valutazione delle capacità gestionali e professionali”. Sempre sulla questione degli incentivi l’Agenzia delle Entrate spiega come: “In merito ai premi incentivanti riservati ai dirigenti, l’Agenzia precisa che per nessun dipendente la misura del premio è correlata all’importo di accertamenti emessi e andati a buon fine né, tanto meno, al numero o all’entità delle anomalie evidenziate. Gli obiettivi da raggiungere per far scattare gli incentivi, stabiliti dalla Convenzione con il Ministero dell’Economia, sono molteplici e non limitati agli importi riscossi derivanti dall’attività di contrasto all’evasione fiscale. Ciò che acquista rilievo per gli incentivi, infatti, sono una serie di parametri che riguardano, tra gli altri, l’indice di vittoria in giudizio, l’erogazione di rimborsi, la semplificazione e il miglioramento della qualità dei servizi di informazione e assistenza. In altre parole, non c’è alcun nesso meccanico fra il recupero di un determinato importo evaso e il premio di cui beneficerebbe il funzionario che ha effettuato quel recupero. L’incentivo è una somma che complessivamente è devoluta all’Agenzia e si ripartisce poi tra tutto il personale in servizio (non solo tra i dirigenti) come premio per il raggiungimento di tutto l’insieme degli obiettivi fissati dalla Convenzione. Questi obiettivi non riguardano solo l’attività di accertamento, ma anche gli altri processi di missione, e in particolare quelli concernenti la gestione del contenzioso, l’erogazione dei rimborsi, la semplificazione e il miglioramento della qualità dei servizi di informazione e assistenza ai contribuenti, la riduzione di conflittualità dei rapporti con i contribuenti e l’impulso agli istituti deflativi del contenzioso.” La battaglia sembra destinata a continuare e l’Ufficio delle Entrate sembra non volersi fermare a dei semplici comunicati stampa avendo infatti anche comunicato l’intenzione di procedere per vie legali per tutelare la propria immagine e la sicurezza dei propri dipendenti per difendersi dalle forti accuse del programma diretto da Antonio Ricci.

Striscia la notizia, Agenzia Entrate querela: “Istigano alla violenza contro di noi”. La trasmissione: “Ci ringrazino”. La campagna della trasmissione satirica di Canale 5 contro le modalità "discutibili" con cui l'Agenzia delle Entrate conduce gli accertamenti su case e terreni dei contribuenti va avanti da qualche settimana e adesso finisce a carte bollate. A far scattare la querela della direttrice Orlandi contro il tg satirico, il vademecum anti ispettori mandato in onda da Striscia. Che attacca: "Dovrebbero ringraziarci, hanno accolto i nostri rilievi", scrive "Il Fatto Quotidiano il 16 maggio 2016. L’Agenzia delle Entrate contro Striscia la Notizia, Rossella Orlandi (direttrice dell’Agenzia) contro Antonio Ricci. La campagna della trasmissione satirica di Canale 5 contro le modalità “discutibili” con cui l’Agenzia delle Entrate conduce gli accertamenti su case e terreni dei contribuenti va avanti da qualche settimana e adesso finisce a carte bollate. La Orlandi, infatti, ha comunicato in audizione davanti alla Commissione Finanze di aver querelato Striscia: diffamazione e istigazione e delinquere le sue accuse alla trasmissione, che avrebbe “attaccato un’istituzione creando rischi di violenza. Ricordo bene quando una collega a Torino fu assalita con una scimitarra”, ha detto. Spiegando: “Non siamo mai stati interpellati né ci hanno mai chiesto di poter verificare la correttezza delle affermazioni riportate nei vari servizi”. Da marzo fino a qualche giorno fa, “subissati dalle segnalazioni di contribuenti disperati” – affermano dalla trasmissione – una lunga serie di servizi ha dato voce alle “vittime” degli accertamenti fiscali condotti dall’Agenzia delle Entrate. In sovrimpressione, il tg satirico ha anche dato conto dei suggerimenti che i telespettatori avrebbero dato per superare tutto l’aggravio di burocrazia a cui li costringerebbe l’Agenzia per colpa di suoi stessi errori di valutazione. Una sorta di vademecum anti ispettori: “Denunciare il funzionario per estorsione”, “obbligare il funzionario ad acquistare l’immobile al prezzo della valutazione fatta da lui”, o ancora “darsi fuoco per far conoscere l’ingiustizia subita”. Che avrebbe suggerito invece, secondo la Orlandi, delle vere e proprie azioni di rivalsa. E non tutte legittime: fra le alternative “proposte” da Striscia, infatti, la direttrice dell’Agenzia delle Entrate cita anche “trovare l’indirizzo del funzionario che ha firmato e bruciargli la casa”. Nella puntata di giovedì 12 maggio, Ficarra e Picone hanno replicato alle accuse della Orlandi accusando a loro volta l’Agenzia delle Entrate di portare avanti contro il tg satirico una “vessatoria campagna di bugie e minacce”: “La dottoressa Orlandi vuol far credere che abbiamo aizzato i cittadini contro i funzionari dell’Agenzia e che ‘solo per difendere i suoi dipendenti’ lei avrebbe deciso di farci causa per diffamazione e istigazione a delinquere. È vero il contrario. Ci siamo limitati a mostrare, stigmatizzandoli ogni volta, dieci sfoghi arrivati dai nostri segnalatori, che danno la misura di un’esasperazione sempre più diffusa. Soltanto la disperazione può spingere un contribuente a proporre quelle cose”. Gli episodi citati dalla Orlandi, cioè le aggressioni dei contribuenti ai danni del personale dell’Agenzia, “sono anteriori di anni ai nostri servizi sul fisco”, replicano da Striscia la notizia. Che ammette: “Abbiamo solo dato voce a un malessere che c’era da tempo”. Quindi il contrattacco. Come spiegato nei servizi mandati in onda nelle ultime settimane, Striscia sostiene che i controlli vengono effettuati sulla base di parametri virtuali calcolati su immobili o terreni analoghi. Senza alcun sopralluogo sul posto, nel fare l’accertamento, a dirimere ogni dubbio. Con una circolare del 28 aprile, fanno sapere dalla trasmissione Mediaset, l’Agenzia delle Entrate ha – nonostante le accuse e la querela alla trasmissione – di fatto accolto i rilievi del tg di Ricci, “invitando i funzionari a recarsi sul posto e documentare la pratica con fotografie”. Per poi, pochi giorni dopo, procedere per le vie legali. “Dovrebbe ringraziarci e invece ci denuncia”, chiosa il Gabibbo.

E con Equitalia ci si trova di fronte all’Usura di Stato. Si è sentito vessato da Equitalia. Anzi usurato. Così scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Perché le somme chiestegli per il pagamento di un debito sarebbero esose ed ingiustificate. Una serie di esosi «orpelli» che avrebbero fatto schizzare alle stelle l’originaria obbligazione. Un imprenditore biscegliese, ma residente a Trani, non ne ha potuto più e lo scorso 22 dicembre 2011 ha denunciato la storia ai carabinieri. Il sostituto procuratore della Repubblica di Trani Michele Ruggiero ha aperto un’inchiesta che però non vede indagata né Equitalia, né alcun suo funzionario o dipendente. Il fascicolo è rubricato contro ignoti. Se il nome della concessionaria di riscossione, come persona giuridica, o di qualche sua figura lavorativa finirà nel registro degli indagati è prematuro dirlo. Molto dipenderà dall’esito degli atti d’indagine che ha in serbo lo stesso Ruggiero. Che però, per ora, ha compiuto un importante atto formale: ha espresso parere favorevole alla sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento; in pratica momentaneo stop alla procedura avviata da Equitalia contro il 46enne imprenditore biscegliese. Un parere in via cautelare che si basa sull’ipotesi che la vicenda denunciata possa esser connotata da fatti penalmente rilevanti, paventati nella denuncia. Il parere è stato chiesto alla magistratura tranese dal Prefetto della Provincia Barletta-Andria-Trani Carlo Sessa sulla base di quanto previsto dalle legge n.44/1999, ovvero «Disposizioni concernenti il fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura». La normativa contempla l’ipotesi di sospensione dei termini a seguito di parere favorevole da parte della Procura della Repubblica in merito agli atti, in questo caso di Equitalia, «per le indagini in ordine ai delitti che hanno causato l’evento lesivo».

Denuncia Equitalia per usura e il pm gli sospende le rate, scrive “La Repubblica”. «Condannato ad un ergastolo finanziario». E il suo diventa il primo caso in Italia, destinato a fare scuola: una procura della Repubblica, quella di Trani, che dà parere favorevole all'istanza di sospensiva dei pagamenti nei confronti di Equitalia. Protagonista un imprenditore di Bisceglie ridotto sul lastrico e che adesso, per il tempo necessario delle indagini, non dovrà pagare i debiti che ha contratto nei confronti dell'Agenzia dell'Entrate e dell'Inps. Si definisce una vittima di usura, "condannato", dice, "ad un ergastolo finanziario". E il suo diventa il primo caso in Italia, destinato a fare scuola. Una procura della Repubblica che dà parere favorevole all' istanza di sospensiva dei pagamenti nei confronti di Equitalia, società pubblica incaricata della riscossione dei tributi. Protagonista un imprenditore nel campo della ricerca estetica di Bisceglie ridotto praticamente sul lastrico e che adesso, per il tempo necessario delle indagini, non dovrà pagare i debiti che pure ha contratto nei confronti dell'Agenzia dell'Entrate e dell'Inps. O meglio, sono al momento sospesi, in virtù della legge 44 del 1999, i ratei dei mutui ipotecari o bancari. E' stato il magistrato della procura di Trani Michele Ruggiero a firmare il provvedimento in questione dopo la denuncia dello stesso imprenditore presentata a dicembre dello scorso anno ai carabinieri. Pasquale Ricchiuti, questo il suo nome, ha chiesto la condanna di Equitalia spa e di Equitalia sud Bari per la violazione dell'articolo 644 del codice penale, il reato di usura. Questa la storia: nei mesi scorsi Ricchiuti aveva fatto periziare le cartelle di pagamento ricevute scoprendo, a suo dire, l'iniquità dei tassi applicati e quella che chiama "la maggiore pressione fiscale esercitata nei suoi confronti". Racconta di un dramma cominciato all'indomani della decisione della società pubblica di ipotecare la sua casa, sulla quale sta ancora pagando un mutuo, perché non era riuscito ad onorare dei debiti, 20mila euro cioè di contributi "dichiarati ma mai versati", dice. I problemi lo assalgono nel 2008 a causa della mancanza di liquidità, nel suo centro di estetica e di dimagrimento da quattro le assistenti assunte diventano due, poi una sola. E quei 20mila euro, tra interessi e sanzioni, raddoppiano e arrivano a quasi 40mila. «Ma se non potevo pagare quelli come posso pagarne tanti ora?», si è chiesto. Su Facebook ha formato un gruppo di "indignati" che non lanciano bombe alle sedi di Equitalia ma "si informano per resistere", spiega. Poi è diventato presidente di una lista civica nazionale "Italia libera" e ha messo insieme una serie di persone scontente, dal Friuli alla Sicilia. Negli ultimi mesi ha preso carta e penna e scritto proprio ad Equitalia, poi ha dispensato consigli a tutte le persone in difficoltà con le banche e la stessa società di riscossione: "Non stancatevi mai di lottare per i vostri diritti, fatelo per le vostre famiglie ma soprattutto per voi stessi, se le regole del gioco sono cambiate in corsa i falliti non siete voi, ma chi ha cambiato le regole senza pensare a chi si alza ogni mattina per poter mettere ancora un piatto sulla tavola per la propria famiglia». Non ce l'ha con le persone, conclude, "ma con il sistema, adesso altri imprenditori sanno che difendersi si può". E Trani, ancora una volta, diventa un caso nazionale.

GUIDA CONTRO L’USURA DI STATO. La Giovanna d'Arco degli imprenditori ci spiega come difendersi da Equitalia, scrive Giulia Cazzaniga su l'intraprendente.it il 18 febbraio 2013. C’è chi, come Marisa – «la prego, non scriva il mio vero nome, qui in paese ci conoscono tutti» – ha accudito il marito malato in ospedale più di dieci anni fa. Insieme titolari di due ristoranti, tra malattia e crisi hanno saltato alcune rate. E il debito si è ingigantito. «Trecentomila euro in più rispetto a quanto non abbiamo pagato». Succede nel ferrarese. Oppure c’è anche chi, come Nicola Bevilacqua, di fare il proprio nome non se ne fa scrupolo. Trentaseienne imprenditore originario di Domodossola, anche lui come Marisa ha presentato denuncia, dopo una cartella lievitata a 170mila euro. Chiedono entrambi che Equitalia sia perseguita per usura. A dare assistenza a loro e a centinaia di imprenditori che ogni giorno bussano alla sua porta è Wally Bonvicini, energica fondatrice di Federitalia. L’hanno definita la Giovanna d’Arco dei piccoli imprenditori che si ritengono vittime del fisco. L’Intraprendente le ha chiesto un piccolo vademecum: come si può capire se Equitalia sta passando il segno? Wally, iniziamo dal momento che toglie il sonno a tanti imprenditori: suona il campanello, arriva il postino, porta una raccomandata. È di Equitalia.

«Se la cartella viene inviata per raccomandata è nulla o inesistente. Deve essere notificata da un ufficiale abilitato. È quindi da contestare. Non vuol dire, ovviamente, che non deve essere pagata. Ma deve essere rispedita e notificata in modo corretto. Il costo della raccomandata, tra l’altro, viene addebitato a chi la riceve. Pure quello».

La cartella è arrivata, la apriamo.

«Nel 90% dei casi la prima pagina, la relata di notifica, non è compilata a dovere. Quindi si può contestare la cartella».

Bene, ma come faccio io imprenditore a capire se gli interessi che secondo Equitalia si sommano al mio debito con l’Agenzia delle Entrate sono da denuncia?

«Da solo purtroppo non posso. Ho bisogno di un esperto che faccia una perizia. E purtroppo devo stare anche attento che l’esperto non mi chieda una cifra esagerata: consiglio ai contribuenti che non volessero rivolgersi a Federitalia di tenere gli occhi aperti».

Da soli quindi non è possibile difendersi?

«La somma che viene contestata nella cartella esattoriale purtroppo è comprensiva, non consente di risalire al tasso di interesse praticato. Una violazione palese del diritto di difesa di ogni cittadino. Qualcosa però inizia a muoversi, per fortuna. Pochi giorni fa i giudici tributari hanno portato l’aggio della riscossione – tra l’8 e il 9% ad oggi – alla Corte Costituzionale. Da Torino e da Roma hanno sollevato il dubbio di incostituzionalità della somma che spetta a Equitalia per ripagare i costi del servizio di recupero di imposte e tributi. Violerebbe il principio di ragionevolezza insito nell’articolo 3 della Costituzione».

Quante tra le cartelle che esamina ogni giorno sono contestabili?

«Quasi tutte. Il 99,9% direi».

Perché Federitalia si muove attraverso denunce penali, per usura, e non come fanno la maggior parte delle altre associazioni, contestando solo responsabilità civili?

«Perché a nostro parere l’usura non si commette solo quando si presta denaro, ma anche quando si chiede una cifra sproporzionata per una prestazione come la riscossione. In presenza di una rateizzazione, è come trovarsi di fronte a un prestito. I tassi raggiungono in alcuni casi anche il 17 o il 18%, rendendo impossibile un concreto rientro del debito».

Equitalia, usura di Stato. "Troppo zelo e tassi di mora insostenibili. Il governo deve intervenire subito". Intervista a Elena G. Polidori, autrice di un libro sull'agenzia di riscossione, scrive il 9 gennaio 2012 Michela Rossetti su globalist.it. "Se Equitalia è diventata un bersaglio bisognerebbe capirne le ragioni, oltre che condannare le violenze". E’ stata questa la frase che ha scatenato la bufera su Beppe Grillo, reo di aver sottolineato "il problema Equitalia" al di là dei gesti di violenza che in queste settimane stanno colpendo l’agenzia di riscossione. Un problema che il leader del Movimento 5 Stelle non è il solo ad aver denunciato. Lo ha fatto con un libro - "Resistere a Equitalia" pubblicato da Aliberti Editore - Elena G. Polidori, giornalista del Quotidiano Nazionale (La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno), da sempre vicina ai diritti dei consumatori. Lei lo ha scritto nel testo chiaro e tondo. E oggi lo ripete ad alta voce al Salvagente.it: "Equitalia, per i contribuenti, è un incubo. E anche piuttosto ricorrente, considerando la frequenza con cui arrivano le cartelle esattoriali... Negli ultimi anni si è raggiunto il livello di saturazione, dovuto a un comportamento che disinvolto è dire poco".

Nel suo libro scrive che “una macchina da guerra creata per essere al servizio dei cittadini spesso si trasforma nel loro incubo peggiore”. Come succede?

"In molti modi. Con tassi di mora che dopo un certo periodo di tempo arrivano all’11%: una cifra altissima, se consideriamo che la soglia di usura è al 14%.  Succede con ipoteche sulla casa e sulla macchina per poche centinaia di euro, magari per una multa non pagata o il canone Rai evaso. Ci troviamo di fronte all’assurdo che si arrivano a pignorare gli strumenti di lavoro di un artigiano, o perfino le pecore di un pastore sardo. E’ successo anche questo, in Sardegna. Ma di esempi ne potrei fare a centinaia. Ad una persona di cui non farò il nome Equitalia ha ipotecato il garage di 80.000 euro, per un debito che era di 156 euro".

Anche lei ha avuto la sua esperienza personale...

"Come molti altri, sì. Per una multa non pagata Equitalia mi ha messo un’ipoteca sulla casa e anche protestato. Sa cosa vuole dire? Che mi potevano anche chiudere il conto corrente..."

Com’è finita?

"Fortunatamente bene. Ma non tutti, come me, possono permettersi i costi di una causa o di un avvocato per fare ricorso. Il problema è che Equitalia si comporta con un eccesso di zelo, e può davvero cambiarti la vita per una rata dell’immondizia mai arrivata, o un conto dell’Iva sbagliato dal commercialista. Fino a poco tempo fa non esisteva neanche una soglia di debito a cui far corrispondere un’ipoteca".

E oggi?

"Dopo un susseguirsi di ricorsi, la Cassazione - nel 2010 - ha stabilito un tetto di 8mila euro. Poi nel 2011 è intervenuta la legge ordinaria, anche grazie al pressing della Lega in difesa delle quote latte, che ha alzato la cifra a 20mila euro".

Qualcuno potrebbe obiettare - come è successo - che in un paese con una delle più alte evasioni fiscali Equitalia fa solo il suo dovere.

"Vero. Ma la questione non si risolve perseguendo i cittadini comuni e lasciando “in pace” i grandi evasori. Perchè questo succede con Equitalia. Succede che pagano coloro che denunciano al fisco case e macchine. Quelli, in sostanza, che normalmente le tasse già le pagano. Loro vengono perseguiti senza scampo, mentre i noti “furbetti delle tasse” che per far ritornare i capitali nascosti nei paradisi fiscali hanno preteso “scudi” e assicurazioni sul futuro che in nessun altro Paese un governo si sarebbe mai abbassato a promettere, la fanno magari franca. Pensiamo solo alla manovra di agosto scorso: mentre il governo Berlusconi prometteva una lotta serrata contro gli evasori, non si è riuscito a realizzare un accordo con la Svizzera, sul modello di quello già siglato da Germania e Gran bretagna, per imporre una tassa fissa ai propri cittadini titolari di conti correnti nelle banche elvetiche".

Il “Problema Equitalia” quindi esiste. Ma allora perché l’intera classe politica ha preso le distanze da Grillo quando ha semplicemente chiesto di analizzare le ragioni di un tema presente da anni?

"Perchè lo Stato non può sconfessare sé stesso. Equitalia è il braccio armato dell’Agenzia delle Entrate, controllata dal ministero del Tesoro. Un ministero oggi guidato da Monti, a capo del governo a cui i maggiori partiti hanno promesso sostegno".

Ieri Bersani si è “azzardato” a sollevare la questione di una riforma per Equitalia.

"Lo ripeto: Equitalia dipende dal governo. Non serve necessariamente una riforma, ma una volontà politica. Non a caso Attilio Befera - braccio destro di Tremonti sul fronte fiscale - è rimasto a capo dell’Agenzia delle Entrate anche con Prodi, di nuovo lì con Berlusconi e oggi con Monti. Serve una volontà politica precisa, che se da parte di Tremonti non c’era, con Monti non si è ancora vista".

Il "Robin Hood delle partite Iva", da esattore a difensore delle imprese, scrive Elena Filini il Sabato 26 Marzo 2016 su ilgazzettino.it. Vessati da Equitalia? Nel mirino dell'Agenzia delle entrate? Il vostro uomo si chiama Luciano Dissegna. È il "Robin Hood delle partite Iva", il Don Chisciotte della piccola impresa. Ex direttore dell'agenzia delle entrate di Montebelluna e poi in altre sedi del Nordest, ora difende i contribuenti dai soprusi del fisco, ovvero dai suoi ex datori di lavoro. Amante del Grappa, residente a Romano d'Ezzelino (Vi), con moglie trevigiana e cursus honorum nella Marca, Dissegna segue circa 30 casi sul territorio nazionale. E, per il 90%, a titolo gratuito: una crociata iniziata 7 anni fa con la richiesta di prepensionamento. Contattato da "Striscia la notizia", il tributarista ha rivelato il volto oscuro degli accertamenti esattoriali, esponendosi in prima persona. E non è certo la prima volta. Perchè ha deciso di dichiarare guerra all'Agenzia delle entrate? «Perché sta massacrando la piccola impresa in Italia. Con pratiche devastanti e una pressione psicologica inaudita. Il mio obiettivo è quello di far emergere il comportamento illegale delle agenzie». È questo che ha spiegato ai microfoni di Striscia? «Si, ho chiarito in linea generale qual è il meccanismo. Ogni anno le singole agenzie fissano un tetto di denaro da riuscire ad incamerare. Partono gli accertamenti, veicolati spesso dagli studi di settore. Ma non dobbiamo pensare che ad essere colpito sia solo chi ha effettivamente evaso. In moltissimi casi non è così. A tappeto significa, per lo più, arbitrariamente. Chi raggiunge il budget ottiene avanzamento di carriera e stipendio maggiorato. La tecnica è: impressionare l'imprenditore con cartelle esattoriali elevatissime, e poi cercare un patteggiamento inferiore ma in ogni caso importante. E devo dire che spesso i commercialisti consigliano di pagare, per evitare battaglie snervanti». Lei invece cosa suggerisce ai piccoli imprenditori? «Di tirare fuori tutto il coraggio possibile. Di difendersi non subendo, di venire in contatto con persone che hanno avuto esperienze simili». Cosa accade alle aziende post accertamento e riscossione? «Nel 44% dei casi, l'azienda chiude i battenti. Questi, almeno, sono i dati per il 2015». Ora che è diventato il paladino della piccola impresa, quale sarà la prossima mossa? «Ho deciso di fondare un'associazione: si chiamerà AgiReagire: anche quando la situazione sembra senza uscita, non bisogna mai perdere la speranza».

"Io, usato e dimenticato dai gialloverdi". L'imprenditore fallito per colpa dello Stato era stato osannato da Lega e M5s, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 07/09/2018 su "Il Giornale". Sergio Bramini, l'imprenditore fallito per colpa dei crediti mai pagati dallo Stato italiano, è stato per qualche giorno l'uomo simbolo dell'intesa politica tra Lega e M5s. A maggio, vincitori incontrastati delle elezioni ma non ancora ministri, i due leader Salvini e Di Maio erano andati a trovare personalmente (con corteo di parlamentari al seguito) l'imprenditore monzese, indicandolo come l'emblema dello Stato da cambiare con il nuovo corso gialloverde. «Questo simbolo - spiegò Di Maio - deve lavorare con noi al governo perché lo Stato possa smettere con questo genere di assurdità» spiegò Di Maio, annunciando che Bramini sarebbe diventato un suo consulente al ministero dello Sviluppo economico, perché con i grillini al governo «adesso lo Stato siamo noi». Finita la coreografia da inizio di governo, però, le cose sembrano aver preso una piega diversa per Bramini. Che è sì stato nominato dal ministro Di Maio come uno dei propri consulenti, ma con un ruolo a dir poco evanescente. Lo spiega direttamente Bramini (che nel frattempo, fallito e sfrattato per colpa dello Stato italiano, si deve arrangiare come agente di generi alimentari a pochi spiccioli) in una intervista a Panorama. Quando il settimanale gli chiede dell'impegno al ministero con Di Maio, l'ex imprenditore non ne vuole parlare («lasciamo perdere») e solo dopo insistenti richieste si sfoga con l'intervistatore. «Le dico solo che a oggi non ho preso un quattrino. Ho lavorato un mese senza nulla, poi mi è stato fatto un contratto che è partito a fine luglio, ma non bastava neppure a coprire le spese. Ci rimettevo. Ora è stato ritoccato ma non mi resta in tasca un euro». A Bramini non è andata giù la grande parata fatta quando serviva un testimonial, seguita poi dal disinteresse: «Ricordo Salvini che mi dice Sergio se ti cacciano da casa chiamami e vengo subito. L'hanno chiamato cinque volte e non s'è visto. Né lui né Di Maio». Il grillino, poi, sembra essersene dimenticato completamente, tanto che Bramini due settimane fa ha minacciato le dimissioni da consulente. Ha provato a proporre una norma nel Decreto dignità ma gli hanno detto che non è possibile, «e lì mi sono incazzato come una bestia». Meno male che i grillini gli avevano raccomandato di non parlare con la stampa, ma lui non è il tipo, «io dico tutto, passo dopo passo».

Dopo Bramini a Le Iene: salvati un'azienda e 700 posti di lavoro, scrivono Le Iene il 18 ottobre 2018. Siamo tornati a parlare di Sergio Bramini, l’imprenditore fallito e sfrattato nonostante vantasse 4 milioni di crediti mai pagati dallo Stato, ora consulente del governo. Con Alessandro De Giuseppe abbiamo affrontato anche il caso della Dusty srl, che aveva 17 milioni di questi crediti. Il giorno dopo quest’azienda è stata salvata. Ieri, domenica 17 ottobre, abbiamo parlato del caso dell'azienda Dusty srl, che rischiava di fallire per 17 milioni di euro di crediti mai pagati dallo Stato. Oggi quest’azienda, il giorno dopo il nostro servizio, è stata salvata assieme ai 700 posti di lavoro degli operai che ci lavorano. Abbiamo parlato della Dusty, nel servizio di Alessandro De Giuseppe su “Bramini collaboratore del governo” (sopra, potete vederne un estratto, in fondo all'articolo ve lo riproponiamo completo assieme a tutti gli articoli che abbiamo dedicato al caso). Con la nostra Iena, abbiamo seguito per primi la storia di Sergio Bramini, l’imprenditore monzese fallito nonostante vantasse 4 milioni di euro di crediti mai pagati dallo Stato e poi pure sfrattato di casa. L’imprenditore, che aveva ricevuto la solidarietà dei futuri vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio ai tempi dello sfratto, è stato chiamato a collaborare in particolare con il ministro per lo Sviluppo economico Di Maio, capo politico del Movimento 5 Stelle. A 71 anni Bramini vuole ancora lottare, “perché non succeda ad altri quello che è successo a me”. Nel servizio andato in onda ci ha parlato di 300mila persone sfrattate che potrebbero tornare a casa, del suo impegno per una nuova legge sui fallimenti e di quello per le migliaia di aziende che, come è successo alla sua, rischiano di fallire perché lo Stato non paga i crediti dovuti. Abbiamo parlato così di uno dei casi più emblematici, quello della Dusty srl, un’azienda siciliana impegnata proprio come quella di Bramini nello smaltimento dei rifiuti. “Abbiamo lavorato per due anni senza ricevere uno straccio di pagamento”, racconta ad Alessandro De Giuseppe la titolare Rossella Pezzino De Geronimo. In tutto per 17 milioni di euro di crediti mai pagati dallo Stato che hanno portato la Dusty sull’orlo del fallimento. Bramini si è impegnato per la “certificazione” di questi crediti dovuti dallo Stato, che così potrebbero davvero essere conteggiati a bilancio e tornare alle aziende. Quelli della Dusty non sono stati certificati per l’opposizione del Ragioniere generale dello Stato Daniele Franco. Alessandro De Giuseppe lo ha incontrato e ha cercato di parlargli, ma Daniele Franco si è chiuso nel più totale silenzio. Oggi, subito il giorno dopo il nostro servizio, è avvenuto “il miracolo”. Icrediti della Dusty sono stati riconosciuti, “certificati”, senza nessuna opposizione e andranno a finire in tasse da pagare. “L’azienda ora è salva assieme ai suoi 700 operai”, ci racconta felice al telefono Sergio Bramini. “Non solo, la Dusty, che opera a Messina, ha vinto un appalto anche a Catania e ora potrà dare lavoro lì ad altre 700 persone. Mi ha appena chiamato la titolare Rossella Pezzino De Geronimo. Mi ha detto in lacrime: Ci volevate te e Le Iene, grazie!”.

La vera storia di Sergio Bramini, l’imprenditore a cui lo Stato deve 4 milioni di euro, scrive il 18/05/2018 Giornalettismo. Sta succedendo un certo movimento in quel di Monza. Matteo Salvini e Luigi Di Maio si sono schierati a fianco di Sergio Bramini, 70 anni, ex titolare della “Icom“, azienda operante nel campo della gestione rifiuti. Bramini è sotto sfratto. La sua Icom è fallita nonostante vantasse 4 milioni di crediti dalle pubbliche amministrazioni. Soldi che l’azienda di Bramini non ha mai visto.

IL FALLIMENTO DELLA AZIENDA DI BRAMINI. “Fallito per colpa dello Stato”, ha spiegato più volte l’imprenditore. Perché però è sotto sfratto? Partiamo dall’inizio. Ovvero dalla sua Icom. L’azienda era florida, ha vinto diversi appalti nel Sud Italia, in Sicilia e a Napoli per l’emergenza rifiuti. Tutti contratti con pubbliche amministrazioni. Dal 2005 però gli enti pubblici hanno smesso di pagare. E quando raramente lo facevano lo facevano col contagocce. L’azienda – che nel suo core business vantava perlopiù questa tipologia di clientela – inizia ad avere grosse difficoltà. Per 5, 6 anni circa Bramini paga l’Iva su fatture “mai riscosse”. Che fare? Dichiarare fallimento e licenziare i dipendenti o andare avanti? L’imprenditore decide di fare due mutui. Uno di 500 mila euro sulla casa. E un altro, di 500 mila euro sugli uffici. “Per pagare il gasolio e il personale”, spiega alle Iene che lo seguono da mesi.

Nel 2011 l’azienda fallisce. Al momento del fallimento il credito delle p.a oltrepassava i 4 milioni di euro. In particolare l’Ato di Ragusa aveva la fetta di pagamenti più alta. Giovanni Vindigni, ex presidente Ato Ragusa ambiente spiegò al tempo a Le Iene: “L’Ato era una società per azioni, i cui azionisti erano i comuni. Se il Comune non pagava l’Ato da chi poteva prendere i soldi?”. Giuseppe Nicosi, ex sindaco di Vittoria (paesino del ragusano) rigetta però la patata bollente del collega: “Inadempienze? Si pagava. C’erano dei ritardi, come è nell’ambiente”.

“Ho venduto la Mercedes e quando ho avuto quei contanti li ho divisi con i miei dipendenti”. Bramini a Le Iene, ottobre 2017.

Ok, ci siete? Perché qui le cose si complicano. Il curatore fallimentare spiega a Bramini che doveva fallire prima e mandare tutti a casa. Andando avanti così per anni, in mezzo alle insolvenze altrui, avrebbe procurato un danno all’azienda pari a circa “un milione di euro”. Soldi che ora il Bramini deve. In pratica si risale così ai 500 mila euro chiesti sulla casa e quegli altri 500 mila euro di mutuo fatto sugli uffici. Il curatore fallimentare braccato da Le Iene ribadisce che Bramini ha sbagliato ma non fornisce ulteriori informazioni.

MA TORNIAMO ALLA CASA DEL BRAMINI. Come è stato chiesto il mutuo sulla casa di Bramini? A chiarire le cose è il Tribunale di Monza che ha scritto a Le Iene per il secondo servizio. L’immobile era intestato a Bramini e poi alla moglie (separata). A Monza si procede con lo sfratto sull’immobile pignorato da una banca con cui anni fa la Icom stipulava un contratto di mutuo. Contratto con cui Bramini da garanzia ipotecaria. Garanzia che per legge “dà diritto al creditore al creditore di agire direttamente sull’immobile ipotecato di fronte alla mancata restituzione del mutuo”.  La procedura di fallimento di Icom, spiegano da Monza, non è il fallimento personale del signor Bramini. A ciò si aggiunge il Tribunale di Milano, che invece segue il fallimento della società, e che ha dichiarato inefficace il cedimento dell’immobile alla moglie dell’imprenditore. Da Monza dichiarano la loro estraneità sulla procedura di fallimento seguita dei colleghi di Milano e spiegano che, per legge, non si poteva fare altrimenti. Nel servizio de Le Iene Bramini punta il dito sulla gestione del curatore. Anche perché la certificazione dei crediti, prevedibili per legge, non è stata chiesta. E così il tutto (inclusi i materiali di azienda) è stato svenduto e i debiti sanati con riduzioni consistenti. Lo sfratto è stato anticipato al 18 maggio, perché il primo giugno, a causa della Festa della Repubblica dell’indomani, le forze dell’ordine potrebbero essere sotto organico. Bramini intanto si è appellato anche alla neopresidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Finora inutilmente. La casa è stata scelta come domicilio parlamentare dal senatore Gianmarco Corbetta (M5S) e di un altro parlamentare leghista. Un tentativo questo, l’ultimo, per impedire uno sfratto su cui c’è già stato un rinvio.

LE MINACCE AI MAGISTRATI DI MONZA. I servizi de Le Iene e l’attenzione dei mass media hanno smosso critiche in rete. Perfino minacce, secondo quanto denuncia la sezione di Monza dell’associazione nazionale magistrati all’agenzia Ansa. L’associazione – in una nota – ha parlato di una eccessiva pressione mediatica sulla vicenda. “Non possiamo accettare che i singoli giudici siano oggetto di pressioni mediatiche volte a ostacolare il regolare corso del processo – si legge nella nota – attuate attraverso campagne denigratorie, che ledono la libertà personale del singolo e offendono l’intera magistratura monzese”. Secondo l’associazione dei magistrati “campagna mediatica” avrebbe l’intenzione di “condizionare l’attività dei giudici della terza sezione civile del Tribunale di Monza”. I magistrati hanno ribadito di non voler limitare il diritto di informazione, ma allo stesso modo “garantire l’opinione pubblica sul fatto che i Giudici di questo Tribunale esercitano e continueranno a esercitare le proprie funzioni con serenità e trasparenza, nel rispetto della legge, respingendo coercizioni di qualsiasi provenienza”. Ribadiscono “la regolarità delle procedure attuate dagli uffici preposti all’esecuzione”. Hanno precisato che “tutti i magistrati, e in particolare quelli che si occupano delle esecuzioni forzate, son ben consapevoli dei drammi umani di coloro che si trovano a subire l’esproprio della propria abitazione a causa di eventi sfortunati”. Tuttavia “non possono sottrarsi al dovere di applicare la legge”.

Banche e Stato contro cittadini: la parola di Bramini al LUC di Manfredonia, scrive Antonio Raffaele La Forgia su manfredonianews.it il 27 ottobre 2018. Ieri, al LUC, si è parlato di difesa dei cittadini che hanno debiti bancari nonostante siano creditori nei confronti della pubblica amministrazione. Il convegno – o “l’incontro tra amici” come ha preferito chiamarlo il nostrano On. Antonio Tasso durante il suo saluto al pubblico – è stato fortemente voluto dal gruppo locale dei 5S coadiuvati da una piccola delegazione leghista cittadina. Oltre 100 i partecipanti che erano lì per ascoltare Sergio Bramini, uomo simbolo della lotta, e chi come lui ha potuto contribuire al dibattito con la propria esperienza. Bramini è un imprenditore del milanese classe ’47 balzato alle cronache nazionali per le sue vicissitudini; vantava 4 milioni di euro di crediti nei confronti dello Stato, cosa che non ha dissuaso lo stato stesso a sfrattarlo da casa sua, il 18 maggio 2017, con l’intervento di ben 60 agenti in tenuta antisommossa. La sua storia è simile a quella di molti imprenditori, una storia fatta di leggi che spingono all’usura bancaria a scapito dei civili. Sono le leggi che Bramini sta modificando da quando il governo gialloverde lo ha voluto come consulente al Ministero dello Sviluppo Economico per dare un chiaro segnale di meritocrazia ai cittadini italiani. Dopotutto chi può conoscere il peso della burocrazia e della giustizia meglio di chi ne è stato vittima? Bramini, durante il suo intervento, è stato sintetico quanto chiaro: leggi come la Renzi-Boschi (“legge sulle esecuzioni e già il nome parla chiaro”, ha detto) prevedono 500.000 sfratti nei prossimi 6-8 mesi che colpiranno gravemente circa 135.000 famiglie. “E il sud sarà la zona più colpita”, ha confessato. “Mi chiedo che Paese stiamo diventando”, ha concluso il consulente del MiSE, al netto di un’Italia che sfratta i malati terminali, si accanisce contro i piccoli imprenditori e gli artigiani e sfrutta il lavoro del privato nel settore pubblico “dimenticandosi” di liquidare le fatture. Un’Italia che resta indietro rispetto alle altre nazioni che hanno capito che il benessere del cittadino, ogni singolo contribuente, è fondamentale per il progresso della nazione intera.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA BANCARIA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “SPECULOPOLI.”.  Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

L'usura bancaria. Da wikipedia. L'usura bancaria è una fattispecie normativa introdotta dall'Art. 644 del Codice penale italiano ed è stata riformulata dalla Legge n. 108 del 7 marzo 1996, che ha apportato profonde innovazioni e modifiche in materia di usura nell'ordinamento giuridico dell'Italia.

Descrizione. La norma ha ridefinito il quadro complessivo descritto dalla fattispecie incriminatrice affiancando ai parametri puramente soggettivi, previsti dalla vecchia formulazione, nuovi parametri cosiddetti "oggettivi". L'intervento del legislatore, ha contribuito ad ampliare, in maniera notevole, l'ambito di applicazione del reato di usura, e conseguentemente l'area di tutela offerta dalla norma. Essa non è più relegata ad operare esclusivamente nei casi in cui sussista lo "stato di bisogno" del quale taluno abbia "approfittato" conseguendo vantaggi per sé o per altri, ma opera anche ogni qual volta il limite (cosiddetto Tasso Soglia d'Usura) posto dall'art. 2 della stessa L. 108/96 venga superato. Pertanto, quella che era una norma destinata ad offrire tutela in casi estremi, nell'ambito dei quali l'usura costituiva, nella pratica, l'anello di una catena di fattispecie delittuose spesso complesse e più gravi, grazie all'intervento legislativo del 1996, ha acquisito una diversa rilevanza. Il legislatore ha infatti inteso delineare un importante ed oggettivo discrimine tra il lecito e l'illecito nel settore dell'erogazione del credito. Resta però oggetto di critica il fatto che il reato sia indirizzato a sanzionare solo la condotta soggettiva dell'autore persona fisica, senza estendersi all'ente di cui egli è dipendente o preposto e che, oggettivamente, si avvantaggia dell'usura percependone i proventi: a tal fine è stata avanzata la proposta di estendere a questo tipo di reato la disciplina, sopraggiunta nel 2001, della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

Situazione precedente. Prima dell'introduzione della nuova norma, modalità e termini relativi all'erogazione del credito ed il costo del denaro erano rimessi alla volontà delle parti: ovviamente la parte contrattualmente più forte era nella situazione di poter dettare termini e condizioni in maniera arbitraria, stante l'assenza di regole, sanzioni e conseguenti responsabilità. Con tale liberalità di mercato, in assenza di regole specifiche, era frequente, possibile e legale, che l'erogatore del credito addebitasse costi elevati al cliente e pertanto la L.108/96 ha colmato una lacuna normativa. La norma è volta a sanzionare la condotta di chi (banche ed operatori finanziari), a fronte di operazioni di erogazione di credito, applichi "commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e [...] spese, escluse quelle per le imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito" (Art. 1 L. 108/96) superiori al limite determinato dall'Art 2 della L. 108/96 (Tasso Soglia d'Usura ), il principale ambito di operatività della disciplina è costituito dai conti correnti, dai mutui e da altre operazioni di finanziamento e credito.

Usura in conto corrente. L'Usura in conto corrente è determinata dai costi addebitati al correntista, connessi alle operazioni di erogazione del credito, ai sensi dell'art. 1, comma 3, L.108/96: Per la determinazione del tasso d'interesse usurario si tiene conto, delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all'erogazione del credito.

Determinazione dei Tassi Soglia. Il costo del denaro deve, dunque, essere contenuto entro il limite del Tasso Soglia d'Usura (TSU) pubblicato trimestralmente sulla Gazzetta Ufficiale, determinato dal Legislatore (art. 2 L. 108/96) sulla base del T.E.G. (Tasso Effettivo Globale) medio applicato dagli istituti di credito e rilevato trimestralmente dalla Banca D'Italia. Per la determinazione sono necessari, oltre al tasso d'interesse effettivamente applicato (TAEG), dati tra i quali alcune informazioni inerenti a costi non immediatamente rilevabili, ma deducibili tramite calcoli matematici come gli interessi generati dall'applicazione della valuta, gli interessi generati dall'anatocismo, gli interessi generati dall'addebito della Commissione di Massimo Scoperto ed anche le spese.

Mutui ed altri finanziamenti. In seguito alla riforma operata dalla L. 108/96, ed all'abbattimento dei tassi d'interesse negli anni successivi, si creava una situazione per cui i mutui contratti prima del 1996 sarebbero divenuti usurari. Inoltre, i tassi di interesse in essi previsti, in seguito alla riforma avrebbero superato il tasso soglia usura, e conseguentemente l'usurarietà del mutuo avrebbe consentito al mutuario (colui chi accende il mutuo) di invocare l'applicazione dell'art. 1815, comma 2 C.C.: Se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi. Inoltre, tale circostanza avrebbe consentito al mutuario di chiedere ed ottenere la restituzione di quanto versato in eccedenza.

Decreto "Salva Banche". Per evitare gravi ripercussioni nel sistema bancario e creditizio italiano, si ritenne opportuno varare il D.L. n. 394/2000, successivamente convertito nella legge n. 24/2001, noto, ai più, come Decreto Salva Banche. Tale norma è intervenuta ad arginare la situazione che si sarebbe potuta creare a seguito dell'applicazione della L. 108/96, mediante la previsione dell'art. 1, comma 1 L. 24/2001, il quale dispone che Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, secondo comma c.c. si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal loro pagamento. Tuttavia, al fine di non pregiudicare i diritti dell'utenza creditizia mediante tale disposizione (cosiddetta di interpretazione autentica) proprio in considerazione dell'inaspettata caduta dei tassi di interesse verificatasi in Europa e in Italia, il legislatore stabilì un Tasso di sostituzione, fissato per l'8% per i mutui sulla prima casa fino a 150 milioni di lire, a favore di tutti coloro i quali avevano stipulato un mutuo a tasso fisso prima dell'aprile 1997.

Decreto Sviluppo. Nel 2011 è stato emanato un Decreto attuativo detto "Decreto Sviluppo": è stato constatato che finora le banche erano soggette ad un limite sui tassi di interesse che potevano applicare al mutuo; il cliente poteva, nel caso avesse riscontrato un possibile tasso d'usura, rescindere il contratto, anche se da tempo, gli istituti di credito non accettavano molto volentieri questo vincolo ritenendolo leonino. Ora per effetto del Decreto Sviluppo questo limite è stato innalzato. In sintesi cambia il metodo per il calcolo del tasso di usura, prevedendo che la soglia venga definita aumentando del 25% il tasso medio rilevato con l'aggiunta di un ulteriore 4%. Inoltre, la norma fissa un differenziale massimo tra tasso soglia e tasso medio pari all'8%.

USURA BANCARIA. IMPORTANTE SENTENZA IN CASSAZIONE. Scrive l'1 novembre 2018 agoranews. Importante vittoria di un utente contro la banca in Cassazione con la Suprema Corte che bacchetta anche giudici di merito e la Banca d’Italia che disattendono alcuni principi che dovrebbero essere cristallizzati da tempo in tema di usura bancaria. Per i Giudici di Piazza Cavour con l’ordinanza 27442/18, pubblicata il 30 ottobre dalla terza sezione civile, infatti, dev’essere dichiarato nullo il patto con cui si convengono interessi convenzionali moratori che alla data della stipula vanno oltre il tasso soglia indicato dalla normativa antiusura per il tipo di operazione cui si riferisce l’accordo. La ragione sta nel fatto che la legge 108/96 non distingue fra interessi corrispettivi e moratori nel comminare la nullità. Analogamente ciò per l’ampia formula degli articoli 644 Cp e 1 del decreto legge 394/00. D’altronde anche lo stesso organo amministrativo ammette in modo esplicito che gli interessi moratori sono soggetti alla normativa antiusura nella circolare del 3 luglio 2013. Accolto il ricorso di una società che aveva stipulato un leasing e del fideiussore, che si vedono riconosciute le proprie ragioni dopo una doppia sconfitta innanzi al Tribunale di Milano e alla Corte d’Appello lombarda. Non sono persuasive le argomentazioni dei giudici di primo e secondo grado che escludono la nullità sul rilievo della diversità «ontologica» fra interessi corrispettivi e moratori. La tesi sostenuta è che gli uni remunerano un capitale, gli altri costituiscono una sanzione convenzionale e una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall’inadempimento e dunque assimilabili alla clausola penale. Ancora in quanto i primi sono necessari e con fine di lucro e i secondi eventuali e sono necessari al risarcimento. Ma la distinzione non vale comunque a giustificare una diversa disciplina sul piano dell’usura, che sarebbe sistematica e contrastante con la ratio della legge 108/96, oltre che «con una esperienza giuridica millenaria». A nulla vale, peraltro, che la normativa non comprenda l’obbligo di rilevare il saggio convenzionale di mora medio: la legge 108/96 risulta infatti fondata sulla rilevazione dei tassi medi per tipo di contratto e risulta incompatibile con la rilevazione dei tassi medi per tipo di titolo giuridico. Le parti, poi, possono avvalersi o meno della facoltà di derogare al tasso legale previsto dall’articolo 5 del decreto legislativo 312/02 per le transazioni commerciali: il sistema della legge, quindi, è in sé razionale. Infine, i giudici di legittimità aggiungono che l’applicazione dell’articolo 1815, comma secondo del codice civile agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, perché la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa. In definitiva, di fronte a interessi convenzionali moratori usurari e alla nullità della clausola, è ragionevole attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale. Si tratta di una decisione molto importante non solo per la ricostruzione storico-giuridica della questione, ma anche perché pone un punto fermo su una questione dibattuta che spesso vede soccombenti nelle aule di giustizia di merito gli utenti che hanno lamentato tassi superiori a quelli legali a causa di un’interpretazione restrittiva che non avrà più senso di essere data quella odiernamente dalla Cassazione.

Usura bancaria e anatocismo: quello che c’è da sapere. Non sono poi così rari i casi di cittadini consumatori che si ritrovino ad avere problemi con le banche per quanto riguarda il calcolo degli interessi su altri interessi già maturati, scrive la Redazione di Varesenews.it il 13 luglio 2018. Non sono poi così rari i casi di cittadini consumatori che si ritrovino ad avere problemi con le banche per quanto riguarda il calcolo degli interessi su altri interessi già maturati. Una casistica che viene identificata con il termine tecnico di anatocismo. La Corte di Cassazione ha più volte etichettato tale pratica come illegale e in Italia si è cercato di regolamentarla spesso, soprattutto sotto la spinta delle varie associazioni a difesa dei consumatori. È del 2014 il primo tentativo di mettere questa pratica al bando con una norma precisa anti anatocismo, che è stata poi modificata prevedendo che il calcolo di interessi sugli interessi sia legale solo se a monte vi sia un accordo tra creditore e debitore. Perché in sostanza chi chiede un prestito con un tasso di interesse e non va poi a restituirlo, si vede calcolare le rate da restituire non più sulla somma iniziale ma su quella comprendente in tasso: ad esempio quindi, richiedendo la somma di 1.000 euro con un tasso di interesse del 2%, con l’anatocismo la cifra da restituire prevederà interessi non calcolati sui 1.000 euro bensì sui 1.200. E dall’anno successivo, il calcolo non sarà più sui 1.200 ma sui 1.440 e così via. Un meccanismo che genera una spirale di soldi e che spesso viene identificato anche con il termine di usura bancaria. Con la legge del 2014 come detto, si è tentato di porre un argine stabilendo che l’anatocismo bancario è possibile solo quando venga espressamente dichiarato e che vi sia un limite oltre il quale gli interessi sono ritenuti usurai. In sostanza quindi qualsiasi interesse sia ritenuto superiore a quello indicato dalla legge, noto come tasso di soglia, è inquadrato nella definizione di usura bancaria. Fattispecie che va ovviamente a costituire un reato. Una pratica che spesso è stata fatta passare in cavalleria per via della scarsa conoscenza che si aveva di questa materia con il risultato che, negli anni passati, diversi utenti si sono ritrovati a dover pagare somme stratosferiche. Oggi il tema è diventato per fortuna di dominio pubblico e sono tante le realtà, soprattutto associazioni a tutela del consumatore, che vanno a fornire un sostegno a chi incorra in problematiche di questo genere. L’ultima modifica alla norma è datata 2016 e parla di divieto di produrre altri interessi su interessi debitori maturati “salvo quelli di mora”. L’unica eccezione in materia di anatocismo bancario è quindi quella legata a interessi di mora per i quali si vanno ad applicare le disposizioni del codice civile.

E COME MAFIA DELL’ESTORSIONE E DELL’USURA ASSICURATIVA (RCA). 

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente il saggio “SPECULOPOLI.”.  Libro in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Assicurazioni, il business dei sinistri cresce nonostante la congiuntura. Il suo segreto? Il risarcimento può attendere. Secondo le stime della stessa lobby degli assicuratori, l'Ania, le compagnie hanno archiviato il 2017 con quasi 32 miliardi di premi raccolti nel ramo danni (+1%). La vigilanza, intanto, tiene il conto dei reclami dei consumatori (90 gli esposti al giorno nel 2016) e della loro fondatezza (almeno uno su tre). Il quadro finale è di una strategia di business molto più cristallina di quel che non sembrerebbe a un occhio distratto: gli affari riprendono quota principalmente grazie a due fattori: la mano pubblica e la distrazione del consumatore, scrivono F. Capozzi e G. Scacciavillani il 4 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Quello appena concluso sarà ricordato come un altro anno di discreti guadagni per il ramo danni delle compagnie assicurative italiane che, ancora una volta, dovrebbero essere riuscite a far quadrare i conti tra il calo fisiologico del mercato Rc Auto e i propri doveri di risarcimento. E il 2018, grazie anche all’ultima Legge di Bilancio, promette ancora meglio. Vallo a dire ai consumatori, che sempre più spesso devono armarsi di ostinazione e pazienza per ottenere i dovuti risarcimenti. A tracciare i confini di un business che si sta reinventando facendo slalom tra le necessità dei consumatori e quelle degli azionisti, va precisato, non è il Codacons, bensì la stessa lobby degli assicuratori, l’Ania. Secondo le stime dell’associazione delle compagnie, le assicurazioni hanno archiviato il 2017 con quasi 32 miliardi di premi raccolti nel ramo danni (+1%), mentre la vigilanza tiene il conto dei reclami dei consumatori (90 gli esposti al giorno nel 2016) e della loro fondatezza (almeno uno su tre). Ne emerge un quadro in cui la strategia di business è molto più cristallina di quel che non sembrerebbe a un occhio distratto: gli affari riprendono quota principalmente grazie a due fattori: la mano pubblica e la distrazione del consumatore.

GLI AFFARI RIPRENDONO QUOTA – Un esempio per tutti: dal 2009 al 2016, sul mercato italiano si è assistito a un aumento esponenziale aumento dei guadagni delle compagnie sia pure in un contesto di redditività più basso rispetto a Paesi come la Germania o la Gran Bretagna. A fronte di una flessione di oltre 4 miliardi dei premi danni, a parità di costi di gestione, le compagnie nella Penisola hanno potuto contare su un calo di circa 8 miliardi alla voce importi liquidati e da liquidare (oneri relativi a sinistri) con un contestuale aumento dei guadagni di poco inferiore ai 3 miliardi. Sempre secondo l’Ania, nel solo 2016 i guadagni netti del settore danni sono ammontati a 2,1 miliardi su un totale di premi incassati (riassicurazione esclusa) di quasi 30 miliardi a cui sono corrisposti 18,7 miliardi di sinistri liquidati o potenzialmente liquidabili. Da notare che sulla base delle regole europee sulla contabilità delle compagnie, la cifra include anche i contenziosi di cui però non c’è il dettaglio né nei dati Ania né nei bilanci delle società. Il risultato è che a spanne esiste una differenza di quasi 11 miliardi tra quanto incassato e quanto potenzialmente pagato dalle compagnie. Di questa somma circa 8 miliardi se ne vanno in spese di gestione e 3 restano in tasca alle società.

ARRIVANO I PRIMI FRUTTI DELLE NOVITA’ NORMATIVE – L’Ania, nelle sue stime sul 2017 nota “un rallentamento dei tassi di riduzione dei premi del ramo r.c. Auto” accompagnato da “un ulteriore sviluppo di tutti gli altri rami danni”. Ovvero salute, casa, rischio di perdita del posto di lavoro e attività professionali (+2,9% a quasi 19 miliardi). In particolare il ramo malattia, il secondo dopo l’Rc auto, farà la parte del leone con un tasso di crescita del 7%, “come conseguenza di una maggiore domanda di copertura per i rischi legati alle spese mediche e interventi chirurgici, soprattutto di polizze collettive legate a strumenti di welfare integrativo aziendale; il volume dei premi di questo ramo supererebbe i 2,5 miliardi a fine anno”, come spiega il rapporto Ania sull’Assicurazione Italiana 2016-2017. Che conferma così come il merito della crescita del mercato delle assicurazioni danni non auto sia quindi in buona parte ascrivibile agli ultimi due ultimi governi. Alla fine del 2016 l’esecutivo di Matteo Renzi ha infatti introdotto importanti incentivi a favore del welfare aziendale sottraendo un miliardo di risorse alle casse pubbliche e favorendo lo sviluppo di polizze sanitarie ad hoc come chiesto dalle compagnie. Roma ha poi anche deciso di rendere obbligatorie alcune assicurazioni professionali. E’ il caso dei medici e delle strutture sanitarie e più recentemente degli avvocati. Infine il governo Gentiloni ha completato l’opera con l’ultima legge di Bilancio in cui ha concesso detrazioni (19%) a partire dal 2018 sulle polizze per la casa contro le calamità naturali.

I CONSUMATORI VOGLIONO SODDISFAZIONE – Le compagnie, però, stando ai dati snocciolati dall’Ivass non ringraziano. Almeno, non direttamente. Se infatti nelle città italiane fioccano ricche sponsorizzazioni come l’illuminazione natalizia della galleria milanese targata Unipol, i centralini dell’Ivass sono letteralmente intasati di telefonate dei consumatori. Gli esposti presentati nel 2016 all’autorità di vigilanza sull’attività delle compagnie assicurative, che ha ricevuto 130 chiamate al giorno per lamentele dei consumatori sulle polizze assicurative, sono stati oltre 21mila, quasi 90 per giorno lavorativo. Principalmente in relazione al ramo danni e, in particolare, alle polizze Rc Auto (18.699, pari all’87% del totale). Il dato sale fino a quota 120.435reclami se si considerano tutti gli esposti che hanno raggiunto le compagnie italiane nel 2016. E segnala una flessione (5,3% per Ivass e 1,7% per le imprese del settore) rispetto ad un anno prima, ma dimostra in maniera inequivocabile come il rapporto tra cittadini e compagnie assicurative sia tutt’altro che pacifico. E questo nonostante i premi pagati dai primi continuino ad essere fonte di discreti guadagni per gli assicuratori, che pure in questi anni stanno beneficiando di una discreta mole di “stimoli” pubblici.

QUESTIONI DI TIMING – Però quando viene il loro turno di pagare sono abilissimi a prendere tempo. Non a caso del totale dei reclami, più di un terzo (6.971, il 36,7%) sono poi totalmente accolti dall’azienda e il dato sale ancora se si considerano anche i reclami solo parzialmente accolti dalle imprese (3.163 casi, il 16%). Segno che, dopo un’iniziale resistenza ad accogliere le istanze dell’assicurato, la compagnia si vede costretta a ricredersi. Ma intanto ha guadagnato tempo e risparmiato denaro. Già, perché ovviamente i ricorsi vertono principalmente su questo: “I consumatori lamentano, in primo luogo, ritardi e inefficienze nelle procedure di gestione e liquidazione dei sinistri”, scrive l’Ivass nella relazione annuale 2016. Notevole, poi, il fatto che “i reclami riguardanti il sistema di risarcimento diretto – nel ramo danni – evidenziano un incremento dell’8,7%, passando da 4.991 a 5.424, mentre per i sinistri r.c. auto gestiti in base alle regole del risarcimento ordinario si registra una flessione del 18,1%, pari a oltre 400 reclami”, evidenzia l’autorità di vigilanza. Che certifica come il pomo della discordia, nel 72,8% dei casi, sia la liquidazione del danno, cioè il momento in cui realmente la compagnia assicurativa deve svolgere il suo ruolo di soggetto incaricato di coprire il rischio per cui è stato pagato un premio.

I PROBLEMI INIZIANO QUANDO SI TRATTA DI PAGARE – “Dall’analisi dei reclami è emersa anche per il 2016 una rilevante concentrazione dei motivi di insoddisfazione dei consumatori nel ramo r.c. auto e in particolare nell’area liquidativa, per ritardi nella liquidazione dei risarcimenti dei danni e per la non corretta evasione delle richieste di accesso agli atti dei fascicoli di sinistro”, si legge nell’ultima relazione annuale della vigilanza. Questo vuol dire che i consumatori accusano le compagnie di pagare in ritardo e/o di essere poco trasparenti quando invece sarebbero tenute e motivare chiaramente le proprie decisioni in tema di risarcimenti. Ed è proprio per queste note dolenti che l’Ivass è intervenuta su alcune assicurazioni con una lettera datata 15 dicembre 2016in cui le compagnie sono state “richiamate a rivedere entro il 30 aprile 2017, anche attraverso l’analisi dei reclami, i propri processi liquidativi, a riformulare i testi delle comunicazioni di diniego”.

LA STRIGLIATA DELL’IVASS – La missiva nasceva infatti in scia ai molteplici reclami sul rifiuto dei risarcimenti Rc auto “senza adeguata motivazione. Le imprese si limitavano, nei casi rilevati, a contestare al danneggiato in modo generico il nesso di causa tra i danni subiti e l’evento denunciato, senza alcun riferimento ai risultati dell’istruttoria (perizie sui veicoli; testimonianze; dati della scatola nera presente sul veicolo; ecc.) e agli specifici motivi di incoerenza riscontrati. In questo modo i danneggiati non sono in grado di conoscere i reali motivi che escludono il risarcimento del danno, con conseguente malcontento e contenzioso con l’impresa”. La questione non è di lana caprina: come si fa a contestare un mancato risarcimento se non se ne conoscono le motivazioni? Non a caso gli esperti come Massimo Quezel se ne ricordano raccomandando ai consumatori di non mollare e di attenersi a tre semplici regole in tema di assicurazioni: 1) Ricordati sempre che esiste un organo di vigilanza sull’operato delle compagnie di assicurazione che si chiama Ivass e può irrogare sanzioni anche di importo considerevole. Perciò, se del caso, fai sentire la tua voce: gli ostruzionismi ingiustificati non vanno tollerati; 2) Anche se il tuo è un micro danno, non rinunciare mai a far valere i tuoi diritti soprattutto se sei vittima di un colpo di frusta ben documentato e, tuttavia, respinto dall’assicurazione; 3) Ricordati che esistono molti strumenti per tutelare i propri diritti anche in via processuale, ma non solo. La causa civile è uno soltanto dei possibili rimedi contro l’inerzia delle compagnie assicurative. Ci sono anche altri istituti come l’accertamento tecnico preventivo, la negoziazione assistita, il procedimento sommario. Se anche i tempi si dilatano, una pratica ben gestita ti porterà, alla fine, al traguardo voluto.

Rc-auto e reclami: ecco le 10 compagnie con cui si litiga di più, scrive Ettore Cera il 19 maggio 2018 su ilsalvagente.it. Si paga a caro prezzo e spesso si litiga pure tanto. La Rc-auto continua ad essere una delle principali “scocciature” degli automobilisti italiani. L’Ivass, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, come d’abitudine ha pubblicato gli ultimi dati (anno 2017) sui reclami ricevuti dalle singole compagnie di assicurazione e non è difficile valutare le aziende con le quali gli utenti litigano di più. Vuoi per ritardi nella liquidazione del danno, vuoi per la mancata attribuzione della classe giusta, vuoi per l’esosità dei premi, gli assicurati oltre a pagare le polizze tra le più care d’Europa spesso ricevono un servizio non adeguato. E presentano reclamo. Lamentele in diminuzione ma…. Complessivamente nel 2017 (considerando sia il ramo danni che quello vita) le lamentele degli utenti si sono ridotte del 13,7% rispetto al 2016. Le imprese di assicurazione italiane ed estere (che operano in Italia) hanno ricevuto complessivamente 103.974 reclami, di cui 49.896 (48%) relativi al ramo rRc-auto auto, 34.694 (33,4%) agli altri rami danni e 19.384 (18,6% del totale) ai rami vita... la Rc-auto fa sempre litigare. Se ci concentriamo sui reclami Rc-auto e prendiamo quelli ricevuti ogni 10mila contratti sottoscritti possiamo vedere quali sono le 10 compagnie peggiori:

DONAU VERSICHERUNG AG VIENNA INSURANCE GROUP (68 reclami ogni 10mila contratti)

VERTI ASSICURAZIONI – Ex Direct Line (66)

LE ASSICURAZIONI DI ROMA – MUTUA (45)

ADMIRAL INSURANCE COMPANY LIMITED (36)

AXA GLOBAL DIRECT SEGUROS Y REASEGUROS S.A.U. (35)

ZURICH INSURANCE COMPANY LTD (31)

AXA MPS ASSICURAZIONI DANNI (29)

GENERTEL (26)

ARISA ASSURANCES (24)

LINEAR (21)

Come si evince nella top ten ci sono ben 4 leader delle assicurazioni on line (Verti, Genertel, Zurich e Linear) segno che non sempre il servizio delle assicurazioni “dirette” si distingue in positivo.

DECRETO "FUFFA". Assicurazioni: a truffare non sono i meridionali ma le compagnie. Lo dice anche l'Antitrust, scrive Mario De Crescenzio su DUESICILIEOGGI il 14 gennaio 2014 su identitainsorgenti.com. Negli ultimi tempi il rapporto assicurato/compagnia assicurativa, in materia RCA AUTO, è diventato tremendamente complicato, problematico ed oneroso (per una sola delle due parti naturalmente). Tutto nasce venti anni fa circa con la cosiddetta liberalizzazione delle tariffe che avrebbe dovuto favorire la concorrenza tra le imprese assicurative, concorrenza di cui avrebbero dovuto beneficiare gli assicurati, ma che in realtà è diventata l’occasione per le compagnie di fare utili a spese degli assicurati stessi. Come si è potuti arrivare a ciò? Innanzitutto diamo atto alle compagnie assicurative di essere state molto scaltre nell’ aver saputo girare a proprio favore qualcosa di negativo per loro e che avrebbero dovuto contrastare nelle sedi di pertinenza, ovvero le truffe. Nessuno nega tale fenomeno, ma il fatto di non averle contrastate in alcun modo per anni nelle sedi preposte, per poi argomentare che le tariffe al Sud, ed in particolare a Napoli ed in alcune altre zone della Campania, erano lo specchio della disastrosa situazione legata al proliferare delle truffe in quelle zone, dà l’idea del disegno strategico da parte delle compagnie cui accennavamo poc’anzi. Se poi, come accade il più delle volte, le truffe cui fanno riferimento le compagnie sono solo presunte poichè ritenute tali all’ interno dei loro uffici di liquidazione e non certificate da organismi terzi, delegati dalla legge a farlo, il disegno più che strategico dà l’idea del diabolico poichè a causa di ciò il risultato per gli assicurati, quelli Meridionali in particolare, è quello di aver visto in questi vent’ anni decuplicato il costo della polizza RCA AUTO. Naturalmente in questa situazione sono da sottolineare i demeriti di una classe politica alternatasi al governo nel periodo sopraindicato, che se non è complice è quantomeno compiacente nei confronti delle suddette strategie dell’ ANIA dal momento che questi ultimi, sfruttando sempre l’argomento truffe, hanno fatto in modo da farsi approvare una serie di leggi ad hoc, dal risarcimento diretto ( la tristemente famosa legge Bersani ), al decreto Liberalizzazioni del 2012, all’ ultimo decreto emanato circa un mese fa denominato, quasi si trattasse di una beffa, Destinazione It..ANIA, che hanno avuto l’ effetto nel tempo di veder compressi sempre più i diritti degli assicurati a favore dei portafogli delle compagnie che, per citare un solo esempio, nell’ ultimo anno hanno prodotto nel solo ramo RCA AUTO la ragguardevole cifra di circa 1,8 Miliardi di euro. E gli organismi di controllo, in Italia ce ne sono ben due IVASS (ex ISVAP) ed ANTITRUST, nel frattempo cosa fanno? Questi confermano quanto sopra riportato relativamente all’ argomento truffe come chiaramente indicato nell’ Indagine Conoscitiva N. 42 dell’ ANTITRUST, nella quale, oltre a certificare che pur pagando tariffe di gran lunga più elevate, Napoli è sinistrosa al pari di Milano quanto a numero di sinistri e a costo medio degli stessi, si dice a chiare lettere che “anzichè adottare adeguati strumenti di contrasto alle frodi, le compagnie preferiscono scaricare i costi delle stesse sugli assicurati “, ma pur in presenza di tali riscontri gli organismi di controllo si limitano semplicemente a multare le compagnie con importi risibili che oltretutto vengono a loro volta scaricati indovinate un po’ su chi. Eppure la normativa comunitaria europea, che ha imposto la liberalizzazione di cui sopra, prevede a chiarissime lettere la possibilità, da parte degli organismi di controllo degli stati membri, di ritirare le autorizzazioni ad operare nel ramo danni alle imprese assicurative nel caso di reiterati comportamenti scorretti nei confronti degli assicurati: alla luce della situazione attuale, se si applicasse tale disposizione, immaginiamo che non opererebbero più compagnie assicurative in questo paese. Ma non ci illudiamo che ciò potrà mai accadere almeno finche’ chi ci governa nominerà ai vertici di tali istituti, L’ IVASS in particolare, persone che provengono dal mondo delle compagnie assicurative, classico esempio di controllato che controlla il controllore. Pertanto, alla luce di quanto sopradescritto, una domanda nasce spontanea: Nel rapporto compagnia/assicurato, chi è il truffatore e chi il truffato? A noi sembra che il vero truffato sia il cittadino Meridionale onesto, costretto a pagare importi abnormi, alle volte addirittura più alti del valore stesso del veicolo da assicurare, e magari sentirsi dire dal suo assicuratore, di fronte alla sua sacrosanta protesta, “eh ma che volete voi a Napoli fate le truffe”. E’ proprio vero che anche in questo siamo tutti frateLli d’It...ANIA. Mario De Crescenzio

Rc auto: compagnie truffate o truffatrici? Presentate 400 denunce alla magistratura, scrive il 26 Aprile 2013 Bruno Rossi su goleminformazione.it. In dieci anni le tariffe sono aumentate del 250%. Le più care d’Europa. Truffe e troppi incidenti al sud, si giustificano le Compagnie. I napoletani, con l’associazione “Mo Bast!”, rispondono denunciando le assicurazioni per aggiotaggio. Chissà perché, ogni volta che mi accingo a scrivere un pezzo sulle Compagnie assicurative italiane (lo faccio da almeno vent’anni), specie se devo parlare della Rca, mi viene in mente Pinocchio alle prese col gatto e la volpe. Sarà un caso, ma non c’è una sola volta che si possa dire: “bene, le Imprese assicurative italiane hanno capito il valore sociale del (loro) servizio pubblico e, insieme alle associazioni dei consumatori, si sono fatte promotrici di regole, prodotti e prezzi a favore della collettività”. Al contrario sono sempre alla ricerca del sistema che tuteli meglio i propri interessi. Non che non sia legittimo che un’impresa guadagni, ma perché farlo a tutti i costi e con ogni mezzo?  Guardando alle imprese assicuratrici Machiavelli sarebbe soddisfatto: le Compagnie hanno fatto proprio il principio secondo il quale “il fine giustifica i mezzi”. Ma quale fine deve essere raggiunto?  E quali sono i mezzi? Proviamo a chiarirci le idee.  

Quando l’obbligo non c’era. Prima del 1969, prima, cioè, che nascesse l’assicurazione obbligatoria dei veicoli a motore (nel 1957 circolavano 340.000 auto), lo scenario assicurativo era quello di una quindicina di Imprese, per lo più italiane, che faticavano non poco a vendere i propri prodotti. Le polizze erano poco più di un oggetto misterioso e la filosofia dell’assicurarsi era tutta da spiegare. Lo sanno bene i vecchi agenti che, però, a fronte di tanta fatica, percepivano laute provvigioni e avevano tutti i costi a carico dell’impresa mandante che li gratificava anche con premi di produzione. 

1970: Il boom delle polizze. Quando nacque, l’obbligo assicurativo coincise col boom economico dell’Italia che, da 1.600.000 auto circolanti nel 1959, fece registrare nel 1970 oltre 10 milioni di autoveicoli (oggi sono 42 milioni). Le Imprese non avevano che da fregarsi le mani… potevano spartirsi un cospicuo “bottino”. Le regole erano semplici ed uguali per tutti anche perché, come i prezzi delle polizze, erano imposti da una legge (L.990/69) che, col CIPE, decideva annualmente sugli eventuali aumenti: mai superiori al 2-3%. A sparigliare le carte e, lo scoprimmo dopo…, la tranquillità degli automobilisti, ci pensò la liberalizzazione del mercato impostaci da una direttiva europea, ma nel 1994, quando la liberalizzazione fu attuata, l’euforia che aveva galvanizzato le Compagnie nel ‘69 si trasferì ai consumatori i quali ritenevano (che ingenui…), che la concorrenza avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel ribasso dei prezzi. 

Il cartello delle Compagnie e le megamulte Antitrust. Non fu così, anzi… le Compagnie, al pari delle “sette sorelle”, arroganti signore del petrolio, fecero cartello, tanto che dovette intervenire l’Antitrust con una megamulta di 700 miliardi di lire comminata a 40 imprese (l’80% del mercato assicurativo): “Un vero e proprio "circuito informativo" che ha fatto sì che gli automobilisti pagassero l'assicurazione più cara”. Gli assicuratori - spiegò l'Antitrust- hanno stretto illecitamente l'intesa nel '93, cioè nel periodo immediatamente precedente alla liberalizzazione del settore. Una fase "particolarmente delicata", proprio "in un momento in cui si sarebbero dovute cogliere le nuove opportunità per uno sviluppo del mercato in senso concorrenziale". Con le stesse motivazioni, anche se per un ramo diverso,  l’Autority è intervenuta, in tempi più recenti (settembre 2011), con un’altra mega sanzione di 13 milioni di euro a carico di tre Compagnie: Gerling, Faro, Navale e dell’agenzia plurimandataria Primogest: “per avere attuato dal 2003 alla fine del 2008 un’unica e complessa intesa per spartirsi le varie procedure di affidamento di servizi assicurativi rami Responsabilità Civile Terzi (Rct) e Responsabilità Civile Operatori (Rco), decise da Aziende sanitarie locali e aziende ospedaliere campane”.

Discriminazione… razziale. C’è da stupirsi quindi se, pensando alle Compagnie, mi vengono in mente il gatto e la volpe? Ma non basta. Ci sono fatti ancora più gravi, molto più gravi, come le conseguenze delle bugie raccontate agli italiani per giustificare gli aumenti. Quelle conseguenze investirono e investono la Campania e tutto il sud Italia per arrivare a colpire l’intera nazione.  Per le imprese assicurative Napoli e il Sud sono un vivaio di truffatori tutti dediti ad architettare incidenti falsi o, bene che vada, a guidare senza un minimo di prudenza al punto da creare una quantità enorme di incidenti stradali, magari anche gonfiati. Da questo radicato convincimento, sono scaturite, come abbiamo detto, diverse gravissime conseguenze che stanno mettendo in ginocchio l’economia dell’intera “macroregione” del sud che assiste alla chiusura di aziende del settore dell’auto e moto e a tutto l’indotto. Sul piano assicurativo le Assicurazioni hanno determinato:

- rincaro abnorme dei prezzi delle polizze,

- rifiuto (di fatto) di vendere polizze,

- chiusura delle agenzie,

- chiusura di centri di liquidazione sinistri.

In pratica succede che, tanto per chiarire uno dei punti in elenco, un automobilista napoletano che guida con prudenza, non provoca mai incidenti e si trova, quindi, in prima classe, paga molto di più di un automobilista piemontese o valdostano altrettanto attento e prudente. Le due “prime classi” non sono uguali. E questo solo per il fatto di essere napoletani piuttosto che piemontesi o valdostani. Ora, anche ammesso per un attimo che la Campania e tutto il sud siano effettivamente quello che dicono le Compagnie, per i singoli cittadini prudenti e onesti, si tratterebbe di una vera e propria discriminazione razziale sulla quale non potrà non intervenire la commissione europea per i diritti dell’uomo.

Tariffe senza controlli. Provate a rispondere a queste domande:

- quante sono le truffe subite dalle Compagnie? 

- Quali cifre le imprese assicurative hanno dovuto sborsare per pagare sinistri falsi?  

Ovviamente non saprete rispondere, ma il problema grave è che non sanno rispondere nemmeno le Compagnie salvo riferire una generica percentuale che va da zero a 3%. Eppure è proprio questo dato, mancante o troppo generico, il maggior responsabile dei costi insostenibili delle tariffe Rca, a Napoli come a Milano o ad Aosta. Il problema vero sono le tariffe Rca: nessuno sa come siano costruite e nessuno controlla niente. Non dico che le Imprese assicurative debbano svelare le loro politiche aziendali, ma in nome della trasparenza dovuta ad un servizio di pubblica utilità com’è la Rca –obbligatoria-, che le Imprese siano almeno obbligate a dichiarare, come per i prodotti alimentari, “gli ingredienti”, cioè le voci che vanno a comporre le tariffe e, quando si tratta di truffe, che siano obbligate ad indicare quelle subite (e denunciate) con cifre assolute e in percentuale. Invece no, tutto viene lasciato al caso, all’anarchia, al mistero.  E’ questo il vero problema a cui nessuno pensa: non ci pensano le associazione dei consumatori, non ci pensa l’Antitrust e non ci pensa il Governo (ormai parliamo di quello che verrà, quando verrà…) che non ha ancora varato il disegno di legge che fissa le regole della trasparenza che - da sole - sarebbero in grado di fermare il continuo sfibrante assillo annuale e forse illegale dell’aumento dei prezzi.

Le truffe in Europa. Eppure le truffe alle assicurazioni, stenterete a crederci, non sono un fenomeno solo italiano. Anzi   l’Italia, stando al grafico qui accanto (indagine “Frodi nel settore assicurativo” di KPMG Advisor S.p.A. 2011) sarebbe solo il fanalino di coda. Dico sarebbe perché, e qui ritorniamo al problema di cui stiamo trattando, in Italia, a differenza di quanto accade negli altri paesi europei che si sono già attrezzati per combattere veramente il fenomeno, le truffe scoperte e denunciate sono probabilmente solo la punta dell’iceberg. Comunque se tutti i paesi se la devono vedere con le truffe assicurative, com’è che è solo l’Italia ad avere le polizze più care d’Europa?  A sentire Vittorio Verdone, direttore auto Ania, sembrerebbe che il responsabile, a parte le cosiddette truffe, sia “il colpo di frusta” che si presta alla speculazione da parte di medici e avvocati che riescono sempre a gonfiarne il risarcimento. In effetti che un’invalidità temporanea del 100%, per una lesione di pochi giorni, sia decisamente scandalosa è vero, ma non può essere questo il solo motivo delle “rapine” tariffarie subite dagli italiani. Allora qual è il motivo? 

Denunciare le truffe? No, meglio aumentare le tariffe. A scorrere le pagine dell’indagine bipartisa della KPMG Advisor, l’idea che viene fuori è che le Compagnie italiane, a differenza di quelle europee, non hanno mai fatto niente, non dico per denunciarle, ma nemmeno per difendersi, per opporsi alle truffe. Loro si basano sulle sensazioni…sulle truffe “percepite”. Sentite come conclude la lunga indagine della Kpmg: “In sintesi, il premio pagato dagli assicurati in Italia è superiore del 65% rispetto alla media europea. La frequenza dei sinistri in Italia è superiore del 32% rispetto a quanto rilevato in media nei principali paesi europei ed il costo medio della liquidazione dei sinistri si aggira intorno ai 4.000 Euro, il 41% in più rispetto alla media europea. Infine l’incidenza dei sinistri con danni alla persona è in assoluto la più elevata in Europa (21,9%), più del doppio rispetto alla media europea. Ciò nonostante in Italia su 100 sinistri solo 3 sono frodi ACCERTATE, contro una media europea che si aggira intorno al 6%. Tutto questo fa pensare ad un sistema piuttosto “generoso” nella liquidazione dei sinistri e “lasco” nei controlli ai fini dell’accertamento di eventuali frodi. Quest’ultimo aspetto è imputabile alle difficoltà riscontrate dalle compagnie italiane nell’individuazione e nell’accertamento di sinistri connessi a eventi fraudolenti per la scarsa capacità probatoria nel dimostrare le frodi sospette, dovuta a sistemi e strumenti di controllo ancora inadeguati, soprattutto a livello accentrato. Emerge, inoltre, che nel panorama internazionale gran parte dei Paesi ha già attivato processi e sistemi di scambio di informazioni tra le compagnie e istituito efficaci organismi di controllo. In Italia, invece, al momento niente di questo avviene. Nel contrasto delle frodi, infatti, l’Ania dal 2005 svolge un debole ruolo di coordinamento perché nella sua attività è limitata dal rispetto dei limiti imposti dalla legge sulla privacy”. Insomma, come abbiamo detto, per le Compagnie torna molto più comodo aumentare le tariffe piuttosto che contrastare le truffe. Di questo è convinta anche la commissione governativa che ha approntato il DDL sulle truffe che, in cambio della legge (che prevede la creazione di un’Agenzia anti-frode), chiede alle Imprese maggiore trasparenza e, aggiungiamo noi, di non aumentare le tariffe basandosi sulle truffe “percepite” (che per loro supererebbero il 15%), ma solo su quelle denunciate (non superiori al 3%). Dice la Commissione Finanze della Camera nel DDL: “e Compagnie sono tenute a fornire informazioni sulle frodi ACCERTATE e a DENUNCIARE i sinistri ritenuti sospetti secondo i parametri di significatività desunti dalla banca dati sinistri dell’Isvap”.

Tariffe Rca: doppia truffa per gli italiani? Tornando alla composizione delle tariffe create nelle chiuse stanze delle imprese assicurative, va detto che è la totale mancanza di controllo da parte degli organi ministeriali e il vuoto legislativo sulla trasparenza che permette alle Imprese, tra l’altro, pericolose libertà come quella sulla “riserva sinistri” creativa… Per chi non lo sapesse, la legge impone alle imprese di creare le cosiddette “riserve sinistri”: somme di danaro, da accantonare ogni anno per pagare sinistri non ancora risarciti.  Una norma giusta a difesa dei consumatori, ma in assenza di controlli nessuno sa, ma il sospetto è fortissimo, se le Imprese assicurative gonfino o meno quelle cifre in modo da portare i bilanci in rosso (specie in tempi in cui il falso in bilancio non è più reato) per giustificare poi gli aumenti del prezzo delle polizze. Aumenti che, accrescendo pesantemente la crisi economica e l’inflazione, non puniscono solo gli automobilisti napoletani, ma tutti gli italiani indistintamente. Se così fosse gli automobilisti sarebbero doppiamente truffati: da cosiddette truffe alle Compagnie (se non sono denunciate le truffe non esistono) e da bilanci gonfiati. 

MO BAST! Intanto i napoletani, stanchi delle continue e gravi vessazioni subite (il sud è stato pressoché cancellato dall’Italia assicurata) hanno costituito “MoBast!”.  Di questa associazione e delle importanti iniziative che sta portando avanti, parleremo a lungo nei prossimi servizi a cominciare dalla pubblicazione dell’intervista all’avvocato Bozzelli autore della prima denuncia alle Compagnie. Per il momento vi segnalo che 400 iscritti al movimento hanno inoltrato alla Procura della repubblica di Napoli altrettante denunce per il reato di aggiotaggio (art.  501 del Codice penale:"Chiunque al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato"). Tra i documenti correlati a questo articolo troverete il testo completo e le motivazioni della denuncia .

Una promessa ai lettori. Nei prossimi numeri di Golem vi presenteremo i protagonisti di MoBast che ci parleranno delle loro numerose iniziative: audizioni presso la commissione Europea, raccolta di firme, denunce alla Procura della Repubblica, mobilitazione dei cittadini che dimostreranno come le imprese assicurative abbiano creato una situazione insostenibile per il sud e per tutta Italia. Per questo noi staremo sul problema fino a quando non conosceremo i pareri della Procura della Repubblica napoletana e se, come sarebbe auspicabile, se ne aggiungessero altre, fino a quando non conosceremo le decisioni anche delle altre Procure, ma anche dell’Antitrust e della Commissione europea. Soprattutto staremo sul problema fino a quando non si otterrà un cambiamento di rotta col controllo sulle tariffe e con la successiva riduzione dei prezzi delle polizze. Bruno Rossi

Caro Rca. Quando le Compagnie truffano… sulle truffe le tariffe sono da rapina! Scrive il 5 Luglio 2013 Bruno Rossi su goleminformazione.it. Col recente intervento del presidente dell’Ivass, l’Antitrust conferma che la Rca in Italia è la più cara d’Europa. L’Ania risponde è colpa delle truffe. Ma le Compagnie non denunciano i truffatori e scaricano il problema sulle tasche degli italiani. Perché le Authority non sanzionano quelle corresponsabili di questa situazione? “Per le tariffe Rc auto l'alto numero dei sinistri aggravati dalle frodi è un problema serio. Ma non possiamo escludere che alla base del livello comparativamente elevato dei premi vi siano anche altre cause, inerenti alla efficienza e alla concorrenzialità del mercato". Questo l’intervento di Salvatore Rossi, presidente dell'Ivass all'assemblea dell'Ania del 2 luglio. Rossi, dopo la critica alle imprese fatta la scorsa settimana per il caro tariffe, ha invitato (sic) ad agire per rimuovere il problema: "dobbiamo chiederci quali strumenti abbiamo, ciascuno nel proprio ambito, per porre riparo allo squilibrio. Il nodo dell'Rc auto” - ha dichiarato, "è un ostacolo da rimuovere". Bravo presidente! Allora lo rimuova sanzionando le imprese che non denunciano  i truffatori. Non neghiamo che le frodi ci siano, è solo che le “quattro” compagnie nostrane, a parte qualche caso sporadico, non fanno assolutamente niente per evitarle.  E’ solo di due anni fa l’approfondita indagine della Kpmg, nota società di consulenza aziendale di diritto italiano e svizzero che ha fotografato la situazione truffe assicurative in Italia e all’estero e che ha così concluso: ” In Italia su 100 sinistri solo 3 sono frodi accertate, contro una media europea che si aggira intorno al 6%. Tutto questo fa pensare ad un sistema piuttosto generoso nella liquidazione dei sinistri e lasco nei controlli ai fini dell’accertamento di eventuali frodi”. In altri termini: le Compagnie preferiscono pagare e scaricare i costi delle truffe sospette sulle polizze senza sobbarcarsi l’onere (e il dovere) di scovare i truffatori e denunciarli. Abbiamo chiesto al curatore dell’indagine, Giuseppe Latorre, se le cose, due anni dopo, siano cambiate: "si cominciano a vedere i primi segnali di una inversione di tendenza: le Compagnie si stanno attrezzando per contrastare il fenomeno delle frodi."  Più o meno la stessa risposta di Giovanni Romito della “Gamma Investigazioni” di Napoli.

Le Authority che fanno? Ci hanno parlato di “primi segnali”…Ma se sono vent’anni che le Compagnie, soprattutto per colpa delle truffe,  hanno portato le tariffe oltre il 250% ! E stiamo ancora parlando di…“primi segnali”? In un servizio di pubblica utilità com’è quello della Rca obbligatoria, visto che gli italiani devono sopportare costi da rapina, come minimo hanno diritto di pretendere: 

1. che le Compagnie agiscano per scovare i truffatori, 

2. che li denuncino alle Autorità di polizia,

3. che giustifichino, cifre alla mano, la reale, concreta ed effettiva incidenza economica delle truffe vere sul costo dei sinistri. Incidenza che diminuirebbe perché una truffa scoperta è un danno economico evitato,

4. Soprattutto, visto che l’Isvap ha indicato precisi parametri di significatività per scoprire una truffa, vedere sanzionate dalle Autority le Compagnie...pigre. Più precisamente: inadempienti.

Quali truffe? Ma quali e quante sono le truffe? L’indagine demoscopica della Kpmg ha ricondotto sostanzialmente a due le truffe possibili: quella contro gli assicurati e quella contro le Imprese assicuratrici. 

La prima è realizzata da soggetti terzi (solitamente organizzazioni criminali di piccolo cabotaggio, visto che i guadagni illeciti che ne possono derivare non sono tali da interessare la malavita organizzata) con la vendita di polizze e contrassegni falsi di Compagnie vere e di Compagnie inesistenti. E’ vero che le false Compagnie sono periodicamente elencate nel sito IVASS, ma prima di entrare a far parte dell’elenco devono essere scoperte e vengono scoperte solo operando. Quindi c’è sempre una zona grigia che lascia spazio per truffare un po’ di assicurati. Tra i soggetti terzi vanno annoverati, secondo noi, anche quegli assicurati che si inventano di sana pianta un sinistro, con tanto di compiacenti testimoni, mettendo in difficoltà il povero innocente preso di mira che difficilmente riuscirà a dimostrare, prove inconfutabili alla mano, di non avere nulla a che fare con quel sinistro.  

Il secondo tipo di truffa viene realizzato da soggetti esterni: medici, avvocati, carrozzieri, periti ecc. che, attraverso il cosiddetto “commercio dei sinistri”, lucrano sulle liquidazioni, e da soggetti interni : intermediari e dipendenti  che, stando alla cronaca e ai bollettini antifrode della Gamma service, le Compagnie normalmente non denunciano, anche se i danni sono di centinaia di migliaia di euro (lo hanno fatto però le Autorità di polizia). 

Gonfiare un sinistro è reato, ma…In Italia, esagerare un danno subito in un incidente stradale, non è percepito come un tentativo di truffa, ma come una rivalsa, una sorta di “dovuta” compensazione che pareggia i conti con le salatissime tariffe Rca. Questo, però, genera un dannoso e pericoloso circolo vizioso: il progressivo incremento della frequenza delle frodi determina, per le Compagnie, l’aumento dei costi di liquidazione che li scaricano in parte sull’aumento dei premi pagati dagli assicurati che, a sua volta…. incentiva le truffe. Ma c’è, per noi, anche un terzo tipo di truffa ai danni degli assicurati: quello delle possibili truffe delle Compagnie nel manipolare i bilanci gonfiando le cosiddette “riserve sinistri” (il punto interrogativo nel grafico sta a significare che, per quanto ci siano diffusi sospetti, al momento non ci sono denunce). 

Cosa sono le “riserve sinistri”. Le riserve sinistri rappresentano una voce del bilancio nella quale le Imprese, per obbligo di legge, inseriscono i sinistri che non sono stati risarciti e che dovranno essere pagati nell’anno o negli anni successivi. Le cifre messe a bilancio sono ipotetiche (basate su riferimenti aleatori) e, quindi, facilmente suscettibili di manipolazioni: più le cifre sono alte e più il bilancio della Compagnia diventa “rosso”. Se questo “giochetto” lo facessero, per pura ipotesi, tutte le Compagnie, la conseguenza sarebbe quella di far schizzare in alto, molto in alto, le tariffe di tutte le polizze Rca…. (ma… non è quello che succede attualmente?). 

Truffe assicurative in Europa. Come già detto in un altro nostro servizio, le truffe alle assicurazioni non sono un fenomeno solo italiano.  Anzi   l’Italia sarebbe il fanalino di coda. Ma allora com’è che siamo solo noi ad avere le polizze più care d’Europa?  Il fatto è che per la Kpmg Advisor le Compagnie italiane, a differenza di quelle europee che si sono già organizzate per combattere il fenomeno, non hanno mai fatto niente, non dico per denunciarle, ma nemmeno per difendersi, per opporsi alle truffe. In Italia le truffe scoperte e denunciate sono probabilmente solo la punta dell’iceberg. Secondo i dati dell’ISVAP, nel 2009 l’incidenza dei sinistri connessi a fenomeni fraudolenti è aumentata di circa l’8,6%. I sinistri collegati a possibili frodi sono pari a 83.378, contro i 76.784 rilevati nel 2008. L’incidenza sul totale del numero di sinistri è passata dal 2,3% al 2,5%.  Nonostante tutto si parla di piccole cifre e di basse percentuali. Le Compagnie dicono (dicono) che le truffe si aggirano intorno al 10-15% dei sinistri denunciati. Ma quando parlano di frodi non si riferiscono a quelle denunciate, ma a quelle percepite. Sì, avete capito benissimo: percepite.

Ma la percezione è un dato tecnico di bilancio? Eppure, secondo KGM (35 Compagnie di ventisei gruppi finanziari italiani. Praticamente tutte) l’85% delle Compagnie del campione rappresentativo esaminato ha già una struttura organizzativa dedicata al contrasto delle frodi. La domanda è: a che serve avere una struttura organizzata se poi non la si adopera? Insisto, cosa aspettano le Autority a sanzionare questa “abulia”?

Banca dati sinistri Ania. Uno strumento per difendersi dalle truffe esiste già da tempo. L’ANIA ha istituito fin dal 2004 una banca dati sinistri alla quale pervengono- giornalmente- da tutte le imprese assicurative una valanga di dati (vedere il documento riservato dell’Ania in possesso delle sole Compagnie che “qualcuno” ha inviato al nostro giornale). In più l’Isvap ha individuato una lunga serie di parametri (art. 4, comma 3, del Provvedimento n. 2827 del 25 agosto 2010) che, se osservati, permetterebbero alle Compagnie di stanare i truffatori ripulendo le tariffe Rca. Il cervellone addirittura, essendo aggiornato quotidianamente, rende obsolete tutte le altre banche dati esistenti: dell’ACI e dello stesso PRA. Basterebbe solo interrogarlo. Anche per scovare ogni automobilista, tra i 4 milioni in circolazione senza polizza, che consentirebbero allo Stato di incassare, tra l’altro, un bel po’ di soldi. Ricordiamo che la sanzione per questi casi va da 841 a 3.366 euro, più ritiro della patente per un anno, confisca del veicolo e denuncia dell’automobilista all’Autorità giudiziaria. Facendo due conti e ipotizzando una sanzione media di 2.000 euro, arriviamo alla bella cifra di otto miliardi di euro. Quasi una finanziaria.

Aspettando l’agenzia antifrode. La Banca dati sinistri Ania qualche limite, però, lo ha. Le Compagnie perciò chiedono a gran voce l’istituzione dell’agenzia Antifrode o di una struttura ad hoc istituita presso l’ISVAP (il disegno di legge è ancora al vaglio della Commissione Finanze della Camera) che dovrebbe essere composta da un archivio informatico integrato e da un gruppo di lavoro, costituito da rappresentanti dei Ministeri competenti e da altri soggetti interessati, comprese le Forze di Polizia. Il provvedimento normativo chiede però, in cambio, maggiore trasparenza e migliore comunicazione da parte delle compagnie che sono tenute a fornire informazioni sulle frodi accertate e a denunciare i sinistri ritenuti sospetti secondo i parametri di significatività desunti dalla banca dati sinistri dell’ISVAP (vedi box).   Come si vede il Decreto “DDFL” la pensa come noi in fatto di cinico e irresponsabile menefreghismo delle Imprese assicurative. 

Uniqa denuncia. Qualche eccezione, però, c’è. Uniqa Protezione Spa di Udine ha denunciato decine di persone per truffe ai suoi danni. In alcuni casi si è trattato di sinistri stradali dichiarati dagli assicurati e, di fatto, mai avvenuti o non secondo le modalità dichiarate, in altri sarebbero false dichiarazioni fornite dagli assicurati relativamente alla località di residenza o alle caratteristiche dell’intestatario della polizza o alla classe di rischio, per pagare premi inferiori al dovuto. In altri casi ancora le denunce sarebbero scattate in seguito alla contraffazione del tagliando intestato all’assicurazione esposto sul parabrezza dell’auto da soggetti sconosciuti alla Compagnia.  

Nel mirino dell’Antitrust. Non che l’argomento che segnalo sia strettamente connesso alle truffe, ma col caro tariffe sì, perché si parla di concorrenza, o meglio, di mancata concorrenza e quindi di ostacoli alla diminuzione del caro Rca. “Otto assicurazioni nel mirino dell'Antitrust per ostacolo alla concorrenza”. Si tratta di: Unipol Gruppo Finanziario, Fondiaria-SAI, Generali, Allianz, Reale Mutua, Cattolica, Axa, Groupama. Le società interessate dal provvedimento rappresentano l'80% della raccolta premi nel ramo danni e nella Rc auto. 

Il lupo….. perde il pelo , ma non il vizio. Nel 1993, con la stessa motivazione, furono multate 40 imprese con 700 miliardi di lire, nel settembre 2011 sono state multate tre Compagnie con 13 milioni di euro. E poi (le Compagnie) dicono, e c’è qualcuno che ci crede, che il caro tariffe dipende dalle truffe…P.S. - in allegato pubblichiamo una lettera dell'Isvap del settembre 2012 con la quale si invitano le Compagnie ad eseguire i controlli preventivi e successivi contro le truffe. Un "invito" che di fatto non è stato mai accolto. Ecco perché auspichiamo che le Authority intervengano con adeguate sanzioni. Bruno Rossi

Polizze auto, tutti i trucchi per sopravvivere a truffe online e fregature. Polizze a prezzi stracciati ingolosiscono gli utenti ma dietro al prodotto che costa poco c'è sempre la fregatura. Ecco gli strumenti per evitare di cadere nella trappola, scrive Sonia Bedeschi, Giovedì 26/02/2015, su "Il Giornale". Complice la crisi economica, le abitudini degli italiani sono cambiate anche in termini di mobilità, e dopo le spese per la casa e le utenze, c'è l'auto, indispensabile per andare a lavorare e muoversi. Insomma il mezzo di trasporto diventa quasi un bene primario. Pullulano quindi le offerte di assicurazioni, i prezzi stracciati, le offerte dell'ultimo minuto, "l'affarone" on-line. Eppure dietro a prezzi scontatissimi nella maggior parte dei casi si nasconde la fregatura, quindi è bene avere a disposizione gli strumenti per riconoscerle e prevenirle. Lo chiediamo a Carlo Marietti Andreani, Presidente di Aiba (Associazione Italiana Brokers di Assicurazioni) che ammette quanto sia difficile, anche per chi è del mestiere, riconoscere le truffe on-line: "Riuscire a scovarle sarebbe un'arte sublime" - dice. Ci spiega che l'assicurazione in sè é un problema culturale di difficile conoscenza e valutazione. Spesso gli utenti acquistano ignorando il contenuto o i benefici di quel prodotto. L'assicurazione infatti viene percepita come una spesa "obbligata" e ci si dimentica, un po' per pigrizia, un po' per disinteresse, dei benefici che si potrebbero trarre. Come ci difendiamo?" Uno strumento consiste nella capacità o nell'interesse del cittadino di conoscere gli strumenti, il secondo di affidarsi a un professionista". Lui per primo infatti si lascia ingolosire quando acquista le assicurazioni, ma fa notare che troppo spesso ci si ferma al costo valutando solo ed esclusivamente quello. Questo é un errore enorme che potrebbe avere ripercussioni non indifferenti. Perché infondo si pensa che tutti i contratti siano uguali. "Infatti - continua Marietti - il rischio che si corre in futuro è proprio quello della standardizzazione. Non solo. Guardando al panorama delle assicurazioni on-line, è fondamentale che le offerte diano informazioni di contenuto e non solo di prezzo, questo é sinonimo di trasparenza e di correttezza. " Secondo il mio punto di vista il web viene consultato per reperire informazioni sulle compagnie assicurative e sulle proposte, ma quando si tratta di concretizzare e comprare, la scelta viene fatta con un professionista del mestiere"- precisa Marietti. Perché in realtà la maggior parte degli utenti è restia a comprare un prodotto "virtuale" incontrato in rete. Tra le varie insidie c'è quella della burocrazia con le sue montagne di carta, infatti solitamente si firma un contratto senza conoscerne il contenuto. Un esempio pratico in cui tutti si riconoscono è l'apertura di un conto corrente in Banca, dove uno sottoscrive ma non controlla. "Automatismi che possono diventare molto pericolosi" - conclude Marietti. Dando anche uno sguardo ai dati delle tariffe Rc Auto scopriamo che a gennaio 2015 c'è stato un calo del 5,7%. Le riduzioni tariffarie hanno interessato tutte le province italiane, con diminuzioni molto marcate in alcune città considerate a rischio: Bari e Napoli. Cali superiori alla media anche a Trieste, Trento, Bologna, Catanzaro, Cagliari. Flessione sotto la media nelle grandi città Roma (-5,2%), Venezia (-5.1%), Milano (-5%), Torino (-4.6%). Un calo positivo che però dipende dal difficile contesto economico-sociale in cui viviamo. Nonostante si stia riducendo il gap con gli altri paesi europei, servirebbe un intervento strutturale per combattere il caro Rc Auto in Italia, iniziando proprio rivedendo il profilo fiscale decisamente oneroso: tra imposte (15,6%) e contributo al Servizio Sanitario Nazionale (10,5%) incide oggi mediamente per il 26,1% del premio lordo, con variazioni territoriali in funzione delle disposizioni provinciali. Di riflesso la continua diminuzione degli incassi nell'Rc Auto (in calo dal 2011) favorisce la corsa per trattenere i clienti e conquistarne di nuovi, attraverso l'utilizzo degli sconti. Il 74% degli assicurati che hanno cambiato compagnia nel 2014, ha avuto uno sconto medio del 14,6% sul prezzo di listino. Ma si ricorre agli sconti anche per mantenere i clienti: il 25% di assicurati ha avuto uno sconto del 14,3% al momento del rinnovo della polizza.

 Il fenomeno delle truffe nel settore assicurativo. Passando la parola a Paolo Panarelli, direttore generale Consap (Concessionaria Servizi Assicurativi pubblici), ci rivela che il livello delle truffe denunciate e scoperte in Italia é al di sotto della media europea, in particolare di quei paesi che vengono considerati più virtuosi di noi nei comportamenti collettivi. "Il fondo vittime della strada é soggetto più del portafoglio alle truffe. Si parla quindi del fenomeno dei non assicurati che si lega poi ad attività della malavita organizzata. Ma negli ultimi cinque anni, dopo picchi preoccupanti, emerge una sostanziale stabilità del fenomeno"- spiega Panarelli. Certamente non dobbiamo lasciarci abbindolare dagli sconti nonostante il periodo duro di crisi. Inoltre è consigliato affidarsi a compagnie italiane conosciute e riconosciute.

PARLIAMO DI LIBERALIZZAZIONI: ASSICURAZIONI RCA E SICUREZZA STRADALE

In Italia ognuno fa ciò che vuole, impunemente e nell’ignavia generale. Si guardino gli aumenti ingiustificati delle polizze auto. Ci inculcano l’idea, attraverso le redazioni dei giornali nei media foraggiati dalle compagnie assicurative, che gli aumenti sono dovuti all’aumentare della sinistrosità. Invece l'attacco dei consumatori contro l'RcAuto: "In 11 anni tariffe +104%, sinistri -34%". Secondo l'Ania solo nell'ultimo anno la frequenza degli incidenti d'auto è diminuita del 12%. I costi per assicurare la vettura sono invece cresciuti del 30% negli ultimi due anni e sempre più sfuggono all'obbligo di legge. Le tariffe Rc Auto, di anno in anno, hanno raggiunto "livelli incredibili, con percentuali impressionanti se consideriamo i rincari". E' la dura accusa di Adusbef e Federconsumatori, secondo cui in 11 anni il costo delle polizze ha registrato un'impennata del 104%, nonostante l'incidentalità sia diminuita del 34%. Una crescita continua ed irrefrenabile, - sostengono le associazioni - confermata anche dai dati di quest'anno che registreranno una nuova crescita media di circa il 6% (+78 euro a polizza), portando l'aumento complessivo al 104%". Si tratta di una cifra "inaccettabile, che per di più non ha alcuna giustificazione, visti i dati sull'incidentalità", diminuita secondo i consumatori del 34% in undici anni. "E' ora di porre un freno a questo andamento, francamente scandaloso - concludono dopo i dati dell'Ania -. Ci aspettiamo risposte ed interventi immediati per incrementare la trasparenza e la competitività, attraverso il potenziamento del ruolo degli agenti plurimandatari, indispensabile per un abbattimento dei costi e con la modifica del meccanismo del bonus malus anche attraverso la tariffa unica per gli automobilisti virtuosi". Secondo i dati dell'Ania, infatti, gli aumenti dei prezzi dei carburanti hanno spinto gli italiani a lasciare sempre più spesso la macchina a casa, con un impatto niente affatto indifferente sulla frequenza degli incidenti d'auto che sono diminuiti del 12% rispetto all'anno precedente. Ma secondo l'Ania con la crescita delle tariffe assicurative calano anche le auto assicurate. Quindi l’aumento delle tariffe, non solo danneggia gli automobilisti, ma l’intera produzione industriale. 

Assicurazioni, la lobby più forte secondo l’inchiesta di Corrado Giustiniani su “L’Espresso”. Il governo Monti non ha toccato i loro privilegi e noi continueremo a pagare le polizze più care d'Europa. Colpa di una piovra potentissima in Parlamento, che blocca ogni liberalizzazione e ogni possibilità di concorrenza.

Cari automobilisti, coraggio: continuerete a pagare l'assicurazione più salata d'Europa. Passaggio dopo passaggio, il decreto Monti s'è svuotato e la liberalizzazione promessa è svanita alla luce della Gazzetta Ufficiale. E' scomparso l'obbligo del plurimandato, grazie al quale si sperava che l'agente, avendo più compagnie in portafoglio, potesse cucirti addosso la polizza più adatta e più conveniente. Rischia di produrre una valanga di cause la prevista penalizzazione del 30 per cento sul rimborso del danno per chi preferisse il carrozziere di fiducia a quello offerto dalla compagnia. E' indefinito lo sconto che l'assicurazione ti deve praticare, se lasci ispezionare l'auto prima della stipula. Avvio quanto mai soft della scatola nera per scoprire se l'incidente era reale o fittizio: nessun obbligo per le compagnie di montarla, sconti imprecisati per chi accetta di farsela installare.

C'era da aspettarselo. Troppo forte, in Italia, è la lobby delle compagnie, che dalla Rc auto nel 2010 hanno ricavato 18 miliardi di euro, riducendo la concorrenza al minimo. La metà del mercato, nel ramo danni, è appannaggio di due colossi: il nascente Unipol-Fonsai, che ne controlla oltre il 30 per cento, e le Generali, che si avvicinano al 20. In tutto appena cinque gruppi si dividono il 70 per cento: un livello di concentrazione sconosciuto negli altri paesi d'Europa. Così, mentre nell'area dell'euro i prezzi medi per l'assicurazione dei mezzi di trasporto sono partiti nel 2000 dal livello 89,3 per attestarsi a quota 109,9 nel 2010, da noi, nell'arco di dieci anni, ci si è mossi da più in basso, 74,9, per schizzare nel 2010 al picco assoluto di 117,2, con un incremento del 4,6 per cento l'anno che fa gridare allo scandalo, rispetto al più 0,7 della Germania, al più 0,9 della Francia e persino al più 2,7 della Spagna. L'indagine conoscitiva presentata il 12 ottobre del 2011 in Senato da Antonio Catricalà, allora presidente dell'Autorità Antitrust prima di passare il mese successivo al governo, documentava queste cifre e denunciava un'inquietante "tendenza al rialzo continuo". In base a dati dell'Isvap, l'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, un quarantenne che si trovi nella classe di bonus più favorevole, la prima, si è visto caricare nel biennio 2009-2011 un aumento medio del 26,9 per cento. E stiamo parlando di una categoria di guidatori non certo spericolati. Fino al 1994 le tariffe Rc auto erano imbrigliate dal prezzo amministrato. Lasciate libere, hanno recuperato immediatamente l'equilibrio per poi continuare a crescere, sfruttando l'obbligo degli automobilisti ad assicurarsi.

Ma questa corsa non era finita nel 2007, grazie alla legge Bersani? «In un primo tempo l'impatto delle nuove norme è stato molto positivo - spiega Claudio Demozzi, presidente del Sindacato nazionale agenti, il primo del settore con 8 mila iscritti su 15 mila agenzie attive -Bersani ha infatti messo fuorilegge il mandato di esclusiva, spiazzando così le compagnie, e ha ridotto l'onere per i neopatentati, iscrivendoli alla categoria bonus malus più favorevole in famiglia, anziché d'autorità alla 14 - Ma poi le compagnie hanno reagito, riallineando all'insù le tariffe, anche per le classi più basse. Alla legge Bersani, inoltre, mancava un tassello decisivo. Non bastava dire no al monomandato - Bisognava anche obbligare le compagnie ad accordare i nuovi contratti di agenzia -continua Demozzi - ma anche qui, dopo lo sbandamento iniziale, queste si sono riorganizzate facendo cartello.»

Hai già un rapporto d'esclusiva con le Generali e chiedi di lavorare anche per noi della Zurich? Niente da fare, disco rosso. E così il sogno della concorrenza veniva soffocato sul nascere. Non che gli agenti lavorino oggi tutti in esclusiva: uno su quattro opera già con più compagnie. Semplicemente è stato bloccato questo processo di espansione. L'obbligo del plurimandato sembrava un punto fermo del decreto Monti, e invece nel testo in vigore non ne è rimasta che una traccia beffarda, all'articolo 34, dove si dice che gli agenti, prima della stipula della sottoscrizione, devono "informare il cliente, in modo corretto, trasparente ed esaustivo, sulla tariffa e sulle altre condizioni contrattuali proposte da almeno tre diverse compagnie non appartenenti a medesimi gruppi". Questi dati l'agente può attingerli da Internet. "Ma che senso ha proporre al cliente polizze che poi non posso intermediare?", si domanda il presidente del Sna. Niente di più facile che gli agenti, per vendere la loro, mostrino al cliente le proposte peggiori delle compagnie più scamuffe. Tutte le inefficienze del sistema Rc auto forniscono lo spunto per produrre aumenti. L'Isvap nel 2010 ha comminato alle compagnie circa 4 mila sanzioni per 35 milioni di euro, e l'anno prima per 45 milioni di euro, soprattutto con riferimento a illeciti nella liquidazione dei sinistri. Che problema c'è? Versi la sanzione e poi rincari la polizza. Si dice poi che in Italia le tariffe siano così care a causa dei falsi incidenti e delle frodi che le compagnie subiscono. Strano però, che dai loro dati ufficiali tale piaga non traspaia affatto. Nel periodo 2007-2009 le frodi accertate sono infatti il 2-3 per cento del totale degli incidenti. Appena la metà di quelle scoperte in Francia, un quarto rispetto al Regno Unito. "Le compagnie - commenta l'Autorità Antitrust - non dedicano energie sufficienti a individuare le frodi, anche perché non hanno adeguati incentivi a controllare i propri costi". Fuor di metafora: meglio liquidare comunque un danno che spendere tempo e soldi in periti e avvocati per dimostrare che l'incidente non c'è mai stato, o che gli effetti sono gonfiati. Tanto poi ci rifacciamo sui prezzi. Come per l'evasione fiscale, gli onesti pagano il conto dei furbi.

Ma il decreto Monti risolve questi problemi? E' la stessa Ania, l'Associazione nazionale delle compagnie di assicurazione, a rispondere di no. «Per ridurre davvero i costi, e quindi i prezzi, occorrerebbe varare la tabella per la valutazione dei danni gravi alla persona - sostiene Vittorio Verdone, che dell'Ania è direttore del settore Auto - in più, estromettere dai risarcimenti le pseudo-lesioni lievissime, che non siano provate da accertamenti diagnostici strumentali. Così si taglierebbero le tariffe di un 20 per cento in un colpo solo». Per i consumatori, infine, il decreto è soltanto un proclama di buone intenzioni. «Senza alcun effetto pratico - commenta Pietro Giordano, segretario generale Adiconsum - Occorre rimodulare la "bonus malus", spostare l'assicurazione più sul conducente che sul veicolo, indurre le compagnie a un maggiore impegno contro le frodi. Speriamo che il Parlamento porti qualche modifica utile».

Dei cinque articoli del decreto che si occupano di Rc auto, il più concreto sembra quello che prescrive, di qui a due anni, l'abolizione di tutti i contrassegni cartacei sui vetri delle auto, per contrastare la piaga dei tagliandini falsi, e la loro sostituzione con sistemi elettronici o telematici in grado di rilevare anche le violazioni al codice della strada: sarà l'Isvap a dettare modalità e fasi di questa operazione. Ci sono poi le vaghe norme su ispezioni e scatola nera, la facoltà data alle compagnie di riparare l'auto, con l'improbabile penalizzazione del 30 per cento per chi fa da sé, e la presa in giro dei tre preventivi. Dopo la rivoluzione a metà di Bersani, i pannicelli caldi di Mario Monti. E dire che un sistema per aumentare la concorrenza e ridurre le tariffe già esiste ed è in funzione, ma pochi lo conoscono e lo praticano. Si chiama "Tuo preventivatore" e si trova sul sito del ministero dello Sviluppo economico e su quello dell'Isvap. Clicchi il bottone che ha il profilo di un'auto, ti iscrivi, fornisci alcune informazioni essenziali e, venti minuti dopo, ti arrivano per mail i migliori cinque o sei preventivi "su misura", validi per 60 giorni. Il congegno è in grado di determinare una significativa mobilità di utenti da una compagnia all'altra. Si tratta solo di integrare il ventaglio delle offerte contrattuali, di potenziare il servizio e di propagandarlo, sui giornali e in tv, con un po' di doverosa pubblicità progresso.

Peccato, però, che spesso le tariffe indicative e sono difformi da quelle reali che si potrebbero trovare presso le agenzie.

Si fa presto a dire liberalizzazioni. Questo dice Agostino Riitano in un articolo pubblicato su “L’Indro”. Le si nomina come panacea a tutti i mali dell’economia italiana. Ma appena un governo tenta di attuarle, c’è la corsa a erigere barricate. Tassisti, farmacisti, notai, avvocati, persino giornalisti. Tutti a rivendicare che va bene liberalizzare, ma “non si inizi da noi, noi non siamo una casta” e via protestando. L’unico settore dove la fine del monopolio, in questo caso statale, è stato salutato da un’ola lunga quanto l’Italia è stato quello delle assicurazioni. In teoria, ci avrebbero dovuto guadagnare tutti. Lo Stato, che si sarebbe liberato di compagnie vecchie e in perdita. I privati, che avrebbero potuto entrare in un mercato ’vergine’ e dai profitti potenziali enormi. I cittadini, che avrebbero dovuto vedere prezzi più bassi in onore della più spietata concorrenza. In pratica, gli unici a perdere sono stati gli unici che avrebbero dovuto vincere, i cittadini. I problemi sono quelli che tutti conoscono. Prezzi troppo alti e una fatica immane a farsi abbassare il premio. Ma la domanda è: “Perché?”. Beh, innanzitutto perché la concorrenza è rimasta sulla carta della legge voluta da Pierluigi Bersani. L’ultima condanna dell’Antitrust italiana è di settembre 2011. La motivazione suona come una campana a morto delle liberalizzazioni e della concorrenza: “Esistono accordi tra imprese volti alla fissazione dei prezzi di vendita. Questi accordi danno luogo ad aumenti dei prezzi e a riduzioni della quantità offerta e determinano, pertanto, una diminuzione complessiva del benessere sociale”. Il Parlamento, bontà sua, ha voluto vederci chiaro e, così, la commissione Prezzi ha convocato il presidente dell’Ania, l’associazione che riunisce le compagnie di assicurazione. Il direttore generale Paolo Garonna ha detto, più o meno: “Non siamo noi i colpevoli se le tariffe sono alte”. E ha elencato quelli che ha definito ’problemi di fondo’. E cioè: “L’assenza fino a oggi di strumenti efficaci per combattere le frodi; l’abnorme numero dei danni alla persona di lievissima entità di origine speculativa; il ritardo nell’emanazione della disciplina per il risarcimento dei danni alla persona di più grave entità; le norme tecnicamente sbagliate come quella che ha alterato il sistema bonus/malus o come quella che ha aumentato i costi di distribuzione mediante l’introduzione del divieto di monomandato agenziale; le incertezze normative e giurisprudenziali che hanno minato il sistema di risarcimento diretto; le carenze ed i ritardi della giustizia civile”. Il mensile ’Quattroruote’, specializzato del settore automobili, ha denunciato altre falle del sistema. E nel suo ’libretto rosso’ delle assicurazioni ha rimarcato dettagli risaputi ma mai troppo ’pubblicizzati’. Il giornale denuncia risarcimenti gonfiati ad arte per farvi rientrare l’onorario di un avvocato, che per legge non sarebbe dovuto, e periti sottopagati e disincentivati a scoprire truffe, anche perché bypassati a favore delle carrozzerie convenzionate, cui verrebbe data sostanziale libertà di gonfiare gli importi dei piccoli incidenti fino al massimo consentito dalle procedure interne delle compagnie prima di far scattare i controlli. Antonio Giangrande è il presidente della onlus Associazione contro tutte le mafie. Da anni si batte contro quelle che definisce la lobby delle assicurazioni. “In effetti - ci dice - questo dei carrozzieri è un problema che viene messo in evidenza troppo poco”. Giangrande non crede che le spiegazioni dell’Ania siano sufficienti per spiegare il livello delle tariffe della Rca. “Non ci sono numero certi, per esempio, che ci dicono che il Sud truffa più del Nord. Una truffa è tale solo quando c’è una sentenza definitiva di un tribunale, non quando lo dicono le assicurazioni. E se anche ci fossero tutte queste truffe, dove sono gli organi di controllo, come la magistratura?”. Per Giangrande la realtà è che c’è una ’discriminazione’ fra varie parti del Paese: “Un morto o un ferito in incidente stradale nel Meridione vale meno che nel resto di Italia. E’ giusto che chi subisce danni seri e reali paghi per altri? E poi che ci sta a fare un ente pubblico come l’Isvap, mantenuto dalle tasse di tutti noi, che dovrebbe controllare ma che non controlla un bel niente?”. Isvap, ovvero Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo. E’ un ente dotato di personalità giuridica istituito con legge 12 agosto 1982, n. 576, per “l’esercizio di funzioni di vigilanza nei confronti delle imprese di assicurazione e riassicurazione nonché di tutti gli altri soggetti sottoposti alla disciplina sulle assicurazioni private, compresi gli agenti e i mediatori di assicurazione. L’Isvap svolge le sue funzioni sulla base delle linee di politica assicurativa determinate dal Governo”. “Sa chi nomina i componenti dell’Istituto? - domanda Giangrande, dandosi una risposta -. Il governo. Quindi noi cittadini avremmo il diritto di conoscere perché l’ente non opera come dovrebbe. Gliene dico una per tutte: abbiamo verificato che i prezzi esposti sul sito istituzionale poi non hanno un riscontro nella realtà”. Giangrande aggiunge alle storture segnalate da ’Quattroruote’ altri casi pratici: “La legge diceva chiaramente che gli agenti sarebbero potuti essere plurimandatari, lavorare cioè per più compagnie. Di fatto, però, le compagnie obbligano gli agenti a lavorare solo per loro. E non è finita. Dopo l’entrata in vigore della norma, il successivo regolamento ha di fatto impedito ai subagenti di operare per più compagnie. Insomma, uno dei punti salienti delle liberalizzazioni è venuto a mancare”. Il Presidente dell’Associazione contro tutte le mafie chiude con un consiglio: “Le compagnie di assicurazione fanno cartello? Bene, gli automobilisti onesti rispondano con un altro cartello. Promettano di sottoscrivere contratti solo con chi garantisce prezzi e premi equi”.

Dello stesso tono è l’articolo pubblicato su “Prima da noi”.  I dati Isvap parlano chiaro: secondo le fonti Isvap, l’Italia nel 2002/2009 ha registrato un + 17,9% rispetto alla media UE del + 7,1 %. Un problema sentito soprattutto al Sud. E’ difficile spiegare perché, ma c’è chi come Antonio Giangrande, presidente dell’associazione “Contro Tutte le Mafie”, ha le idee abbastanza chiare.

Il premio di assicurazione (indennizzo) dovrebbe funzionare così: più l’automobilista è virtuoso (non fa incidenti stradali) meno alta è la tariffa che deve versare alla sua assicurazione, più l’assicurazione stessa è contenta. In realtà, secondo Giangrande, non è così. «Molti automobilisti», dice, «anche se non hanno fatto incidenti si vedono lievitare il premio di assicurazione. Quello che interessa all’assicurazione è il guadagno. L’obiettivo non è più la riduzione del rischio ma la convenienza o meno del meccanismo: più sei virtuoso, più il premio è basso, meno convieni all’assicurazione che ci guadagna poco. Allora le assicurazioni mettono in campo la storia degli incidenti e dicono che l’aumento della polizza è conseguenza di un aumento di incidenti stradali».

Secondo Giangrande il problema è l’oligopolio: poche compagnie assicurative concentrano il potere nelle loro mani ed impongono tariffe liberamente. La soluzione è la liberalizzazione del settore assicurativo.

La teoria di Giangrande trova riscontro nell’interrogazione parlamentare dell’onorevole Felice Belisario, nel 2007, con cui si chiedeva di verificare se i dati statistici sugli incidenti fossero manomessi per far figurare che ci sono più incidenti così da poter aumentare premi e polizze. Anche la Sna, (Sindacato Nazionale Agenti di Assicurazione) ha avviato una petizione popolare sul mercato assicurativo proprio contro il caro assicurazioni e contro l’impunità per i falsi sinistri. Gli autori della petizione chiedono al presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini di contrastare l’aumento smisurato delle tariffe, costituendo un Comitato Nazionale contro le frodi assicurative, con la massima partecipazione della Magistratura, dell’Isvap (organo preposto al controllo), delle forze di polizia, della rappresentanza degli agenti di assicurazione e dei consumatori. Tra le richieste anche una piena liberalizzazione del mercato assicurativo italiano che favorisca l’ingresso di altre compagnie assicurative estere, con aumento della qualità e quantità della offerta.

Liberalizzare, secondo Giangrande, significa soprattutto abolire il regolamento Isvap n.5 del 16 ottobre 2006 che impedisce il plurimandato assicurativo (cioè obbliga l’iscrizione dell’agente in una sola delle sezioni tenute dall’Isvap così da impedirgli di essere sub agente di un’altra compagnia). Tutto questo impedisce, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti. C’è poi la piaga del Sud dove l’assicurazione dell’auto costa molto di più e le compagnie decidono di chiudere i battenti perché non vi è interesse economico, provocando così disoccupazione e limitando la stessa concorrenza con lievitazione delle tariffe.

Naturalmente molte altre testate hanno pubblicato pari pari il pensiero del dr Antonio Giangrande.

Che la lobby delle compagnie di assicurazione autorizzate alla RCA fossero ben presenti in Parlamento, si sa.

Che questa lobby parlamentare gestisca i finanziamenti a giornali e tv, o sovvenzioni stampa e televisione con campagne pubblicitarie per comprare il loro silenzio, o sostenga campagne di “guida sicura” contro l’alcool nell’interesse di associazioni interessate, è risaputo.

Che ci siano associazioni che si dicono a difesa del consumatore e che si contano su adesioni fittizie, tanto da renderli meritevoli di percepire il finanziamento dello Stato, per questo da renderli muti in riferimento alla truffa della RCA, è un dato di fatto. 

Sicuro è che a guadagnarci dall’aumento dei premi assicurativi RCA sono il Fisco e le Compagnie.

Che si debba scrivere un resoconto di pubblico interesse per dimostrare che non c’è alcuna relazione tra l’aumento delle tariffe e la sinistrosità ed elemosinarne la pubblicazione è scandaloso, se si pensa che solo piccole redazioni ne danno il dovuto spazio.

Non capisco l’accanimento di certe “penne e tastiere saccenti”, che si ostinano ad ignorare il dr Antonio Giangrande. Questi giornalisti, le poche volte che lo fanno, parlano di un fenomeno, quale può essere la RCA, di cui nulla sanno, se non il sentito dire o il luogo comune.

Il Dr Antonio Giangrande, autore senza “peli sulla penna e sulla tastiera” della Collana editoriale “L’Italia del Trucco”, spiega il perché dell’aumento dei premi assicurativi. Ossia, essi sono solo frutto di orrida speculazione sostenuta dalla lobby in Parlamento.

Gli assicuratori dicono che l’aumento dei premi è colpa del numero dei sinistri ed il loro aumentato valore di dannosità.

Come dire che il carburante aumenta per colpa delle guerre e non dei petrolieri o del Fisco.

Come dire che l’accesso all’avvocatura è limitato perché vi sono molti avvocati e non per colpa degli avvocati che hanno abilitato parenti, amici ed amanti e vogliono limitarne l’esercizio esclusivamente a loro.

L’OLIGOPOLIO

L’Associazione Contro Tutte le Mafie ha presentato un ricorso, rimasto lettera morta, al Ministro dello Sviluppo Economico contro l’ISVAP, per la violazione della Concorrenza, del Mercato e dello spirito riformatore della nuova normativa in campo assicurativo.

La novella sulla carta prevede il plurimandato. Nel principio della legge ciò comporta che il plurimandatario offra al cliente la tariffa più conveniente. Ma di fatto non è così.

Il ricorso segue quello già presentato all’ANTITRUST, che ha fatto propri i dubbi sollevati.

Il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato assicurativo e, di fatto, la ricerca della tariffa più conveniente.

Il Regolamento prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione dell’agente in una sola delle sezioni tenute dall’ISVAP. In questo modo l’agente di una compagnia non può essere sub agente di altra compagnia.

Il Regolamento inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività professionale assicurativa come secondo lavoro.

Il Regolamento impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti.

Il Regolamento impone l’iscrizione dei subagenti solo se indicati dagli agenti presso cui operano, imponendo di fatto il mono mandato.

Lo stesso agente, però, è anch’esso mono mandatario, così obbligato dalla compagnia.

Il Regolamento è a favore di tutte le compagnie di assicurazione, le quali obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti sotto minaccia di mancata iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.

Le agenzie di assicurazione fidelizzano i clienti in sottoclassi non riconosciute da altre compagnie, per poi, quando il premio non è più redditizio per mancanza di sinistri, esercitano il loro diritto di recesso, obbligando il cliente a contrarre con nuove tariffe maggiorate. Maggiorate, sì, ma sempre più convenienti per il gioco delle sottoclassi di merito, non riconosciute altrove.

Le agenzie di assicurazione nell’assicurare la seconda auto, pur intestata ad un familiare, attingono sì alla stessa classe della prima auto, ma con tariffe maggiorate.

Molte agenzie non rilasciano l’attestato di rischio, impedendo al cliente di cambiare compagnia.

Molte compagnie non esercitano al sud perché non vi è interesse economico a farlo, tanto da limitare l’esercizio ad alcune di esse e limitare la stessa concorrenza con lievitazione delle tariffe.

Le compagnie di assicurazione dichiarano che i premi aumentano, in quanto vi sono più sinistri e maggiori danni. FALSO!!!

In premessa bisogna denunciare che un soggetto morto o lesionato al Sud Italia è risarcito in modo minore rispetto ad un soggetto del Nord Italia. Inoltre la normativa ha estromesso l’avvocato nella fase degli accertamenti peritali da effettuarsi in determinati termini temporali, investendo le carrozzerie per questo compito, con l’intento di limitare le spese legali.

Nonostante ciò le compagnie non definiscono le richieste di risarcimento nei tempi stabiliti dalla legge, che prevede delle sanzioni alla violazione dei termini indicati. Inoltre, i Giudici, investiti dalle cause civili, difficilmente condannano le compagnie per lite temeraria, per aver resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. I liquidatori introvabili, poi, sono capaci di trasformare incidenti stradali in interminabili odissee burocratiche. Questi signori hanno trovato pane giudiziario per i loro denti. È un giudice di pace di Sestri Ponente a toccare il tempo alle assicurazioni. Si chiama Roberto Garibbo e ha condannato una compagnia a pagare una somma anche per «l’inerzia e l’inadempienza» nel risarcimento dei danni. Un banale incidente, destinato a diventare un esempio per decine e decine di automobilisti. «Le cause pendenti sono circa 1.500», rivela l’avvocato Massimo Bianchi, nella doppia veste di difensore nella causa pilota di Sestri e presidente dell’Associazione genovese dei legali specializzati in incidenti stradali.

Alle Compagnie è nota l’esistenza di polizze false e polizze truffa, emesse in base a dichiarazioni false e reticenti, e nulla fanno per attuare un concreto controllo presso le agenzie.

Le compagnie assicurative ritengono che vi sia un rapporto tra aumento dei sinistri ed aumento dei premi. Responsabilità dei sinistri da addossare interamente agli utenti automobilisti.

Con tale inchiesta si dimostra il contrario.

RCA: LA TRUFFA DI STATO

Prima di rendicontare sulla questione si premette che il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie è sotto processo a Taranto per calunnia, senza che vi sia un solo atto che lo dimostri, per il sol fatto di aver difeso in tribunale un automobilista vittima di un sinistro truffa. Nel sistema giudiziario la magistratura e l’avvocatura è collusa nell’assumere testimonianze false nei processi in cui si dibattono i sinistri stradali. Guai a far emergere un sistema marcio, fonte di lauti guadagni per tutti, compresi gli assicuratori.

La regola è chiara e inequivocabile: più sei affidabile ovvero meno incidenti stradali commetti, più il premio assicurativo si abbassa, quindi meno ti costa la polizza secondo il famoso meccanismo bonus-malus. Risultato? Contento tu che paghi meno la tua assicurazione, contenta la tua compagnia che con un cliente virtuoso riduce il proprio rischio. Ma se questo sembrava essere il semplice principio alla base della RC Auto, ora non è più così. E infatti negli ultimi tempi su migliaia di automobilisti con pochi, a volte nessun incidente alla spalle, piovono disdette da parte delle compagnie assicurative o addirittura vengono proposti nuovi contratti più onerosi. Ma che motivo si nasconde dietro a questo comportamento apparentemente senza senso?

Lo spiega il Dr Antonio Giangrande

Nuove regole.

«Anzitutto c'è da dire che il comportamento descritto seppur scorretto è legale. Nel 2006 è entrato in vigore il nuovo Codice delle Assicurazioni private che mira a garantire l'assicurato e a favorire la concorrenza. In realtà però le nuove norme mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono "disdettare" polizze senza problemi e con un tempo di preavviso di soli 15 giorni.»

Ma perché?

«Rimangono ancora da chiarire però i motivi per cui ciò avviene. Dove sta la convenienza per la compagnia? E' presto detto. Da una parte la società assicuratrice preferisce ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese puntando sulla cacciata dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. E basta solo una piccolissima macchia nella propria condotta, a volte neanche quella. Ma la beffa non è finita. Se però il cliente è estremamente virtuoso, il motivo per disdire la polizza c'è comunque. Perché il criterio non è più l'eliminazione del rischio ma l'antieconomicità nel meccanismo bonus-malus di avere un assicurato troppo affidabile. Quindi in un caso o nell'altro puoi esser sempre fregato. Quaranta milioni di veicoli in circolazione, 18 miliardi di euro di premi obbligatori, le tariffe più care d'Europa. Eppure in Italia spesso i bilanci delle assicurazioni finiscono in rosso: per inefficienza, per incapacità di frenare le frodi, perché operano in un sistema malato. L'unica certezza in questa guerra di tutti contro tutti è che, alla fine, a pagare sono sempre e solo i cittadini onesti. Per far fronte alla crisi e alle truffe, le compagnie hanno messo in campo una politica molto aggressiva nei confronti della clientela. La parola d'ordine è "liberarsi dell'assicurato che non dà sicurezza". Ma tra errori, esagerazioni e furberie, molte persone del tutto innocenti si trovano di fronte a vere e proprie "espulsioni". E per rientrare ricevono proposte a prezzi anche sei volte più alti.»

Ma la stessa rilevazione del numero dei sinistri e truffaldina.

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-04166 presentata da FELICE BELISARIO

Martedì 26 giugno 2007 nella seduta n. 177 BELISARIO e RAITI. - Al Ministro dello sviluppo economico - Per sapere - premesso che:

nel numero del 2 febbraio 2007 del settimanale a diffusione nazionale «DIARIO» è apparsa un'inchiesta a firma del giornalista, Mario Portanova con la quale venivano segnalate una serie di possibili alterazioni dei dati relativi ai sinistri all'interno dei centri di liquidazione danni delle maggiori compagnie assicurative italiane che, come è noto, negli ultimi anni si sono consorziate per la gestione in comune dei servizi di liquidazione (fra questi Fondiaria - Sai - Milano, Generali - Assitalia-Fata, Ras-Allianz-Bernese, Unipolaurora-Navale, eccetera), mantenendo sostanzialmente scorporate le singole imprese per la raccolta dei premi e la fornitura dei prodotti e servizi assicurativi;

in particolare, un'intervista ad un ex ispettore sinistri, che aveva già denunciato tali prassi alla Procura di Lecce, evidenziava come attraverso «semplici trucchetti» venivano alterati alcuni dati «grazie ai quali i premi delle polizze continuano ad aumentare, i bilanci delle compagnie vengono alterati...»: fra questi l'apertura fittizia di sinistri allo scopo di aumentarne la frequenza;

esige il dato più inquietante che emergeva è che se «queste stesse manipolazioni fossero state eseguite a livello di tutti gli ispettorati dei maggiori gruppi assicurativi... il risultato sarebbe stato un aumento vertiginoso dei sinistri. Vale a dire un danno agli assicurati, poiché il solo scopo del trucco era il mantenimento di elevati livelli tariffari. Tanto nessuno può controllare queste procedure, se non le stesse compagnie...»;

queste circostanze sarebbero confermate anche da altri addetti agli ispettorati sinistri di altre compagnie del territorio nazionale;

in virtù dei sistemi informatici utilizzati all'interno degli ispettorati di gruppo avverrebbe uno scambio dei dati sensibili di assicurati e danneggiati delle compagnie consorziate, senza alcun riguardo per il diritto alla privacy;

tale scambio di dati relativi al numero dei sinistri, e ai pagamenti, se gli stessi fossero conosciuti da tutte le compagnie all'interno dello stesso gruppo, potrebbe comportare una violazione della normativa antitrust o un aggiramento della normativa stessa;

l'eventuale alterazione dei dati statistici all'interno degli ispettorati sinistri e le eventuali anomalie indicate nella citata inchiesta possono comportare un'alterazione del leale svolgimento dei mercati assicurativi e quindi possono essere in grado di aumentare le tariffe relative ai premi di assicurazione;

allo stato, ai sensi del decreto legislativo n. 209 del 2005 (Codice delle Assicurazioni), il nostro ordinamento affiderebbe il controllo e la vigilanza sulle compagnie e sui gruppi di assicurazioni, all'organismo di vigilanza ISVAP -:

se non intenda chiarire, anche attraverso eventuali iniziative legislative, se la normativa sui poteri di vigilanza dell'ISVAP, permetta il controllo diretto e la vigilanza sui dati relativi alla gestione interna e tecnica dei servizi di liquidazione sinistri delle Compagnie assicurative e di quelli di gruppo, e quindi l'esercizio dei poteri prescrittivi e repressivi conseguenti, o relega l'ISVAP ad un ruolo di mero organo accertatore dei dati e delle statistiche fornite dalle compagnie e dai gruppi assicurativi, specie in tema di numero di sinistri, pagamenti e costi;

quali siano i dati di cui il ministero dispone, anche ai sensi dell'articolo 136 del citato codice delle assicurazioni, in merito alle vicende esposte.

INSICUREZZA STRADALE: QUELLO CHE NON SI DICE

Sul portale della “Associazione contro tutte le mafie”, è stato pubblicato uno studio approfondito sulla sicurezza della circolazione stradale.

«Il tema dell’insicurezza stradale è sentito da tutti. Ognuno di noi, o un proprio caro, conosce l’esito di un sinistro: lesione o decesso - dice il suo presidente dr Antonio Giangrande - Nessuno conosce per certo i numeri e le cause del fenomeno, per porvi rimedio, salvo assistere alle strumentalizzazioni per interesse privato di enti ed associazioni tematiche.»

Quante sono le vittime?

«Secondo i dati ISTAT-ACI, ogni giorno in Italia si verificano in media 633 incidenti stradali, che provocano la morte di 14 persone e il ferimento di altre 893. Nel complesso, nell’anno 2007 (ultimi dati disponibili) sono stati rilevati 230.871 incidenti stradali, che hanno causato il decesso di 5.131 persone, mentre altre 325.850 hanno subito lesioni di diversa gravità. Si sono persi per strada ogni anno almeno 90 mila sinistri stradali con lesioni rilevati dalla polizia municipale. Manca infatti un sistema centrale informatico per la raccolta dell'attività della polizia locale che da sola rileva in Italia 3 incidenti su 4. Lo ha evidenziato l'Anvu con la pubblicazione del secondo stralcio della ricerca statistica sui dati dei sinistri stradali relativi al 2008, effettuata con il portale poliziamunicipale.it. Secondo l'osservatorio della polizia municipale i dati elaborati, analizzando un campione di comuni pari quasi al 30% della popolazione residente, evidenziano che i dati ufficiali diffusi ogni anno dall'Istat a fine anno sono gravemente carenti di informazioni. Nel 2007, secondo i dati ufficiali dell'Istat, infatti, il numero complessivo di incidenti con feriti o decessi ammontava a 230.871. Secondo la stima elaborata dall'osservatorio Anvu – poliziamunicipale.it - nel 2008, quelli effettivamente occorsi erano 320.000, quindi 90.000 in più rispetto ai dati ufficiali del 2007.»

Quale è la tipologia delle vittime secondo i dati Istat?

«Conducenti e passeggeri di autovetture, autocarri, autobus e Tir: 7 morti al giorno. Pedoni: 2 morti ogni giorno. Passeggiare tranquilli tra le vie della propria città, lasciando per una volta a casa la macchina, può purtroppo trasformarsi in un vero incubo. La conferma viene dagli ultimi dati statistici in tema di incidenti stradali: in Italia, ogni giorno, circa 60 persone vengono investite sulla strada. Di queste, oltre 2 al giorno perdono la vita, mentre circa 58 devono farsi medicare per lesioni più o meno gravi. Ci sono state 758 vittime. I feriti fra i pedoni si sono attestati a quota 21.062. Le cause di questa "strage" restano quelle di sempre: alta velocità, guida in stato di ebbrezza, distrazione, segnaletica verticale ed orizzontale insufficiente. Comportamento generalmente imprudente unito ad una sorta di vera e propria intolleranza degli automobilisti verso il pedone. A questi fattori bisogna aggiungere strisce pedonali che in diversi casi hanno perso il colore e sono praticamente invisibili; auto e scooter parcheggiati sui marciapiedi che costringono il pedone a slalom o passaggi obbligati sulla strada, magari con passeggini o sacchi della spesa al seguito; autobus che effettuano le fermate in mezzo alla strada. Sul versante delle responsabilità dell'incidente, le statistiche indicano che nel 51% dei casi di investimento nessuna responsabilità è da attribuirsi al pedone; nel rimanente 49% troviamo invece delle forme di corresponsabilità: non è vero, quindi, che, come si sente dire, "il pedone ha sempre ragione". Il pedone, infatti, oltre a diritti ha anche dei precisi doveri da rispettare elencati nell'art. 190 del CdS. I ciclisti: 1 morto ogni giorno. Ultimo dato Istat disponibile: morti 317 ciclisti. E non è tutto: in appena 3 anni, secondo un'inchiesta pubblicata sulla rivista il Centauro sono quasi 1.000 i ciclisti che hanno perso la vita sull'asfalto, con 12.476 feriti, (35.491 in tre anni). E sempre secondo le statistiche si sono contate 15 vittime fra i bambini che andavano in bici dagli 0 ai 14 anni. 13 maschi e 2 femmine. Sono state invece ben 161 le vittime fra i ciclisti over 65, pari al 50,8%. Fra gli anziani 122 erano maschi 75,8% e 39 le femmine 24,2%. I motociclisti: 4 morti ogni giorno. Il 90 per cento dei decessi avviene in ambito urbano, per colpa di un traffico caotico, di strade in pessimo stato, di trasporti pubblici inefficienti che spingono all'utilizzo delle due ruote come obbligo e non come scelta, dei mancati controlli sui comportamenti indisciplinati e pericolosi dei guidatori delle due e delle quattro ruote”. I dati emergono dall'indagine della Consulta nazionale per la sicurezza stradale del Cnel sull'analisi di rischio delle due ruote a motore.»

Quali sono le cause?

«Sono marginali i sinistri causati dagli autisti dei Tir, che secondo le inchieste svolte sono costretti dalle aziende a guidare per giorni senza dormire. Guidatori che si tengono su con la cocaina. E nessun rispetto delle leggi. Come non sono quantificabili le cause dovute al fenomeno dei collaudi falsi. Il fenomeno dei collaudi falsi è esteso, ma sottaciuto, se non con qualche servizio di Striscia la Notizia. Causa di incidenti stradali possono essere molteplici fattori. Si va dalle semplici disattenzioni a incidenti causati dalla cattiva condizione della carreggiata o condizioni meteorologiche. Ma stranamente si parla solo di ubriachi al volante. Incidenti dovuti alla condizione della strada: Fondo ghiacciato o innevato o presenza di fanghiglia o di pietrisco, fogliame o altro materiale scivoloso sulla carreggiata; macchie d'olio sull'asfalto; allagamento da forte pioggia. Incidenti dovuti alla struttura della strada: La ristrettezza della strada, presenza di strettoie non segnalate; la mancata segnalazione degli incroci; la mancanza di segnaletica orizzontale o verticale; la presenza di ostacoli occulti ed imprevedibili; presenza di animali; fondo stradale disconnesso, scarsa illuminazione. Incidenti dovuti alla condizione ambientale: Pioggia, neve o grandine; nebbia fitta; forte vento laterale. Incidenti dovuti alla condizione del mezzo: Manutenzione scarsa o assente; gomme lisce; rottura improvvisa di componenti meccaniche. Incidenti dovuti alla condizione soggettiva: Abbagliamento; curiosità quando sull'altra corsia dell'autostrada è successo un incidente o si è intervenuti in aiuto senza segnalare la propria persona né i veicoli coinvolti nel sinistro; guidare con il cellulare, magari fumando una sigaretta o armeggiare con l’autoradio; distrazione o disattenzione per fattori interni all’abitacolo o esterni; colpo di sonno; violazione delle norme del codice della strada quali il limite di velocità, sorpassi azzardati, non rispetto della segnaletica; stato psicologico alterato da alcool e droga.»

Dai dati ufficiali risulta che la distrazione è la causa principale per gli incidenti stradali.

«La ricerca sui fattori soggettivi degli incidenti stradali, condotta dall’Istituto Piepoli con il patrocinio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e su incarico dell’Anas Spa, della Fipe e del Silb, ha stabilito che la causa principale degli incidenti stradali è costituita dall’alterazione cognitiva dei processi di attenzione del guidatore, che può essere determinata da fattori psicologi, da stili di vita “irregolari” ovvero da stress o da stanchezza.»

Per gli aderenti al CNOSS 1/3 dei decessi è colpa delle condizioni delle strade.

«Gran parte delle associazioni aderenti al CNOSS si sono costituite proprio a causa di incidenti determinati dalla pericolosità delle strutture viarie italiane, ma le coscienze profumano più di pulito se queste responsabilità vengono viste con ingiustificata "benevolenza". Ecco il loro comunicato stampa: “Lo stiamo dicendo da anni, attirandoci le antipatie di molti enti gestori delle strade. In Italia un incidente mortale su tre è imputabile alle condizioni delle strade. Oggi giornali e televisioni hanno dato la notizia "scoop" con grande enfasi ed apparente sorpresa. Dopo il polverone iniziale, temiamo che alle migliaia di morti ammazzati, che ogni anno perdono la vita a causa delle vergognose condizioni delle strade italiane (gli altri) si aggiungeranno altre migliaia di ignari utenti della strada che oggi hanno appreso la notizia con fatalismo e senso di impotenza (da sorteggiare tra noi tutti). Alcune domande sorgono spontanee: Se un incidente mortale su tre è dovuto alle condizioni delle strade, perchè le responsabilità di questi omicidi non vengono quasi mai imputate agli Enti gestori? Perchè le forze dell'ordine o gli altri organismi istituiti per garantire la sicurezza sulle strade non denunciano queste situazioni di pericolo senza attendere che ci scappi il morto?»

E le istituzioni cosa fanno?

«I sinistri stradali colpiscono anche coloro che dovrebbero vigilare sulla sicurezza della circolazione. Il 70% delle vittime in divisa sono deceduti su strada e non per conflitti a fuoco (10%) o altro, per mancanza dell'uso delle cinture e macchine in stato pietoso. L'incredibile dato arriva dall'inchiesta pubblicata sul Centauro di giugno 2009, la rivista dell'Asaps, “Associazione amici polizia stradale”. Ma quanti di questi agenti si sarebbero potuti salvare se solo avessero indossato le cinture di sicurezza? “Probabilmente molti - spiega Giordano Biserni, presidente dell'Asaps - perché spesso le "divise" non le indossano ritenendole d'impaccio per una possibile fase operativa. Inoltre l'elevata velocità, in emergenze per servizio, sarebbe meglio gestita in termini sicurezza dopo un'apposita formazione con corsi di guida sicura, che una volta si facevano, ma che nel tempo si sono persi. A noi preme - continua Biserni - la sicurezza di tutti, quindi anche degli agenti e la perdita di una vita non in un conflitto a fuoco, ma in un drammatico incidente stradale non ci consola di più. Anzi, ci fa ancora più rabbia”. In ogni caso una cosa è certa: il 70% dei casi un poliziotto perde la vita in un incidente stradale. E stupisce come nessuno si ponga il problema se una piccola associazione di volontari sia l'unica che solleva un problema tanto grave: anche queste sono morti bianche e non si può negare che un uomo o una donna in divisa siano lavoratrici e lavoratori come tutti gli altri. “Ma quando un difensore dello Stato ci lascia la vita - spiegano all'Aspas - non è sempre detto che l'evento che ha cagionato un esito letale non debba essere studiato a fondo per evitarne una dolorosa ripetizione. Prendiamo il caso di uno spericolato inseguimento: è sempre necessario correre a rotta di collo per fermare un sospetto?”»

«Certo è che nessuno parla delle morti evitabili – continua il Dr Antonio Giangrande - secondo gli studi effettuati, il 30 % delle morti è riconducibile al soccorso inadeguato. Fatto che ha precise responsabilità. La tempestività di un intervento qualificato sul luogo dell’incidente consente di ridurre al massimo l’intervallo privo di terapia, considerato maggiormente a rischio ai fini della sopravvivenza, e di esaltare, invece, le possibilità di recupero delle funzioni vitali (la “golden hour” nel trattamento immediato del politraumatizzato) determinando una riduzione degli esiti infausti nel secondo picco di mortalità. Un’analisi retrospettiva di oltre 700 decessi ha evidenziato che il 52 per cento delle morti avviene sul luogo dell’incidente o comunque prima dell’arrivo in ospedale, mentre del restante 48 per cento delle vittime, il 23 per cento muore entro un’ora dal trauma ed un’ulteriore 35 per cento entro le prime 24 ore. La percentuale di “morti evitabili”, intendendo con questo termine quelle dovute ad insufficienza o ritardo nel soccorso immediato pre-ospedaliero, è stata valutata retrospettivamente in misura del 70 per cento qualora non coesistano gravi lesioni del SNC ed in misura del 30 per cento nel caso in cui queste siano presenti. È da considerare, inoltre, l’esistenza di una elevata quota di decessi e di sequele funzionali post-traumatiche gravi dovute non già al trauma di per se stesso, bensì al verificarsi di eventi successivi, connessi con un primo soccorso non qualificato o con l’invio in strutture non idonee: ad esempio, lesioni neurologiche irreversibili causate da uno stato di shock emorragico non adeguatamente corretto, lesioni ischemiche di arti fratturati non sufficientemente immobilizzati durante il trasporto, danni midollari spinali da incauta estrazione del traumatizzato dal veicolo, ecc. In Italia, un’analisi autoptica retrospettiva di 110 soggetti deceduti per trauma ha evidenziato che la causa principale di morte era rappresentata da shock emorragico per lesioni che sarebbe stato possibile trattare chirurgicamente.»

Collaborare alla divulgazione di tali inchieste è un modo alternativo per battere censura ed omertà.

RCA: LA TRUFFA DI STATO

Prima di rendicontare sulla questione con con l’inchiesta di “La Repubblica” si premette che il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie è stato processato a Taranto per calunnia per il sol fatto di aver difeso in tribunale un automobilista vittima di un sinistro truffa. Nel sistema giudiziario la magistratura e l’avvocatura è collusa nell’assumere testimonianze false nei processi in cui si dibattono i sinistri stradali. Guai a far emergere un sistema marcio, fonte di lauti guadagni per tutti, compresi gli assicuratori.

La regola è chiara e inequivocabile: più sei affidabile ovvero meno incidenti stradali commetti, più il premio assicurativo si abbassa, quindi meno ti costa la polizza secondo il famoso meccanismo bonus-malus. Risultato? Contento tu che paghi meno la tua assicurazione, contenta la tua compagnia che con un cliente virtuoso riduce il proprio rischio. Ma se questo sembrava essere il semplice principio alla base della RC Auto, ora non è più così. E infatti negli ultimi tempi su migliaia di automobilisti con pochi, a volte nessun incidente alla spalle, piovono disdette da parte delle compagnie assicurative o addirittura vengono proposti nuovi contratti più onerosi. Ma che motivo si nasconde dietro a questo comportamento apparentemente senza senso?

Nuove regole - Anzitutto c'è da dire che il comportamento descritto seppur scorretto è legale. Nel 2006 è entrato in vigore il nuovo Codice delle Assicurazioni private che mira a garantire l'assicurato e a favorire la concorrenza. In realtà però le nuove norme mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono "disdettare" polizze senza problemi e con un tempo di preavviso di soli 15 giorni.

Ma perché? - Ma rimangono ancora da chiarire però i motivi per cui ciò avviene. Dove sta la convenienza per la compagnia? E' presto detto. Da una parte la società assicuratrice preferisce ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese puntando sulla cacciata dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. E basta solo una piccolissima macchia nella propria condotta, a volte neanche quella. Ma la beffa non è finita. Se però il cliente è estremamente virtuoso, il motivo per disdire la polizza c'è comunque. Perché il criterio non è più l'eliminazione del rischio ma l'antieconomicità nel meccanismo bonus-malus di avere un assicurato troppo affidabile. Quindi in un caso o nell'altro puoi esser sempre fregato.

Quaranta milioni di veicoli in circolazione, 18 miliardi di euro di premi obbligatori, le tariffe più care d'Europa. Eppure in Italia spesso i bilanci delle assicurazioni finiscono in rosso: per inefficienza, per incapacità di frenare le frodi, perché operano in un sistema malato. L'unica certezza in questa guerra di tutti contro tutti è che, alla fine, a pagare sono sempre e solo i cittadini onesti. Per far fronte alla crisi e alle truffe, le compagnie hanno messo in campo una politica molto aggressiva nei confronti della clientela. La parola d'ordine è "liberarsi dell'assicurato che non dà sicurezza". Ma tra errori, esagerazioni e furberie, molte persone del tutto innocenti si trovano di fronte a vere e proprie "espulsioni". E per rientrare ricevono proposte a prezzi anche sei volte più alti.

La protesta dei consumatori e l'incapacità del sistema di trovare altre strade.

Mario, lo chiameremo così, non l’ha presa bene. La sua vecchia compagnia di assicurazione gli ha dato il benservito. Con una lettera che spazza via tutti quegli anni passati a pagare puntualmente la polizza. C’era stato un solo incidente con colpa, due anni prima di quella disdetta che lo mette alla porta. Mario però non ne vuole sapere, in fondo con quel "marchio" si trova bene. E allora, norme alla mano, pretende un altro contratto. L’assicuratore prima nicchia, poi risponde con una nuova proposta pronta per essere firmata. Manca solo un piccolo particolare: il prezzo. Che di colpo passa da 1.600 euro l’anno per la sola responsabilità civile, a 9mila euro, quasi sei volte di più. La storia di Mario è diventata un caso di scuola tanto che l’Isvap, ricevuta la denuncia del cittadino, ha aperto un fascicolo e tra qualche settimana appiopperà una multa salata all’impresa che ha tradito la fiducia del suo assicurato. Ma questa sanzione basterà a scoraggiare altri casi come questo?

Quel che sembra un caso limite, in realtà coinvolge ogni anno migliaia di automobilisti con pochi o a volte nessun incidente alle spalle. Improvvisamente arrivano disdette a pioggia, e l’obbligo ad assicurare viene aggirato con nonchalance. Ma perché le compagnie disdicono le polizze, invece di fare pulizia nell’azienda, tagliare i rami secchi e le inefficienze? Semplicemente perché preferiscono ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese. E puntano sulla scorciatoia della "cacciata" dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. Basta una piccola macchia (a volte nemmeno quella) per far suonare il campanello d’allarme negli uffici delle aziende del settore. Che, legge alla mano, procedono alla rescissione dei contratti. Sì perché le norme in vigore, nate per garantire l’assicurato e favorire la concorrenza, in realtà mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono disdettare polizze senza problemi. A partire dal 2006, infatti, il nuovo Codice delle Assicurazioni private ha introdotto una disciplina con tempi di preavviso ridotti a 15 giorni. Quello delle disdette è un fenomeno che, sulla spinta della crisi economica, rischia di esplodere: automobilisti con alle spalle decenni di guida "pulita" senza nemmeno un sinistro, e incappati magari in uno o due incidenti nell’ arco degli ultimi tre anni, si vedono recapitare dal postino il benservito. A quel punto scatta la spasmodica ricerca di una soluzione: c’è chi chiede di restare con lo stesso "marchio" (è un diritto dell’automobilista) e chi va in cerca dell’alternativa (spesso costosa).

Ma c’è anche un altro sistema per tenere lontani automobilisti poco affidabili, troppo giovani e inesperti, o semplicemente residenti in aree giudicate a rischio truffa (il Sud, ma non solo): si propongono tariffe fuori mercato, anche cinque o sei volte più alte del normale per convincere il malcapitato guidatore a cercare altrove la propria polizza. In questo caso si verifica una "elusione dell’obbligo a contrarre" le polizze, un dovere per le assicurazioni, che è stato sancito anche dalla Corte di Giustizia europea e che nei prossimi giorni verrà sanzionato con multe milionarie dall’Isvap. Negli ultimi mesi, i due fenomeni stanno rapidamente contagiando le agenzie e molti automobilisti rischiano di pagare polizze più care anche del 30% per assicurare di nuovo il proprio veicolo. Soltanto l’anno scorso le imprese hanno ricevuto ai propri centralini 114mila reclami. Di questi, 70mila riguardano la RC auto. E se il 70% tocca il tema dei risarcimenti, gli altri casi sono stati causati proprio da disdette e classi bonus-malus incoerenti. Nei prossimi giorni arriveranno le prime pesanti sanzioni nei confronti di tre società entrate nel mirino dell’istituto di vigilanza per il fenomeno dell’elusione. Entro il 2011 toccherà ad altre undici compagnie. In totale ci sono 14 gruppi assicurativi sui quali si abbatterà la scure dell’Isvap per un totale di quasi 30 milioni di multe che vanno ad aggiungersi ai 31 già cumulati per altre motivazioni nel corso del 2011 per un totale da record di 60 milioni di ammende. Le 14 compagnie rappresentano quasi il 20% del mercato. Segno che in alcune aree del Paese almeno due compagnie su dieci applicano sistematicamente l’elusione. Francesco Avallone di Federconsumatori conferma: "Soprattutto al Centro Sud le compagnie stanno violando l’obbligo a contrarre muovendosi in due direzioni: da una parte disdicono polizze a clienti che non hanno mai causato dei sinistri, dall’altra rinnovano polizze a prezzi quadruplicati, in modo da spingere questi clienti a non riassicurarsi. Così da abbandonare il territorio economicamente meno vantaggioso". Secondo l’Isvap, inoltre, tra il 2004 e il 2009 c’è stato un calo del 30% degli uffici di liquidazione dei sinistri, per lo più al Sud dove spesso le organizzazioni criminali scambiano i liquidatori per dei bancomat al loro servizio. Ecco perché nel Meridione oggi c’è un cosiddetto "punto di contatto" ogni 17.329 veicoli circolanti, mentre nel 2009 erano 15.854. In Campania si sale addirittura a 32.617. Al Nord ce n’è uno ogni 10.527 veicoli.

Per l’Ania, l’associazione che rappresenta il settore assicurativo, le disdette sono legali e non vanno intese come una "punizione del consumatore". "È vero che il cliente si sente come tradito dalla compagnia", spiega Vittorio Verdone, direttore "Auto, distribuzione e consumatori" dell’associazione, "ma dobbiamo pensare alle polizze auto come ad un contratto di assicurazione e non ad un servizio soggetto a tariffazione. E quando crescono le difficoltà per le aziende - con costi più elevati magari dovuti alle truffe, alle microinvalidità fino al 2%, o ad alcune norme come la Bersani - allora si seleziona il rischio". Il cliente allontanato può comunque rientrare, anche se il "premio" risulterà generalmente più alto del precedente.

Proprio le truffe restano uno dei punti dolenti del nostro sistema assicurativo auto. Se è vero - come ha spiegato il presidente dell’Antitrust Catricalà al Senato - che le tariffe sono aumentate del 25% per le auto e del 35% per i motocicli negli ultimi due anni, è anche vero che l’incidenza delle truffe deprime i bilanci delle compagnie. Non siamo ancora ai livelli della Gran Bretagna e della Francia, dove questi reati incredibilmente accadono molto più spesso che in Italia. Ma in alcune aree del nostro Paese le truffe raggiungono picchi insostenibili. È un business in costante sviluppo. I soli incidenti fraudolenti (e solo quelli scoperti) valgono 340 milioni. Poi ci sono le microlesioni (quelle inferiori al 9% di invalidità, come il colpo di frusta), una specialità della giurisprudenza nazionale. In Francia la disciplina n’existe pas, non esiste, ed è poco sviluppata nel resto d’Europa. Fatto 100 il totale costi dei risarcimenti Rc auto, solo il 35% va alle riparazioni, mentre il 41% (5,7 miliardi) è destinato a morti o invalidità gravi (superiori al 9%) e il 24% (3,4 miliardi) finisce alle lesioni di lieve entità. Quelle molto lievi, da 1 o 2 punti di invalidità, costano più di 2 miliardi l’anno e rappresentano due terzi delle lesioni con danni fisici. È la "sindrome del colpo di frusta", che flagella il Meridione e mantiene attorno al 40% i sinistri con feriti nelle province di Crotone, Brindisi, Taranto, Foggia, Bari, Lecce. Ma perché allora, non si combatte davvero il fenomeno delle truffe? Secondo l’Isvap le imprese dovrebbero investire per combattere questi comportamenti. Le compagnie — che a dir la verità preferiscono non denunciare certi reati — replicano che di frodi dovrebbe occuparsi l’autorità giudiziaria, perché spesso costa di più raccogliere le prove indiziarie che non liquidare qualche migliaio di euro. Talvolta, infine, false imprese si scambiano i ruoli (fraudolenti) con i clienti: i fenomeni di abusivismo e commercio di polizze contraffatte nel 2011 sono più che raddoppiati: sono 25 i casi individuati rispetto al 2010. Sono compagnie pirata che raggirano ignari cittadini offrendo premi stracciati, dietro cui non ci sono strutture né riserve né risarcimenti. Solo un contrassegno finto. I grandi aumenti: +30% in due anni In soli due anni i costi di una polizza Auto sono schizzati verso l'alto del 25% mentre quelli delle moto hanno raggiunto picchi di incremento del 35%. Secondo i dati dell'Antitrust, c'è stato un aumento del 25% tra il 2009 e il 2010. E un incremento con punte del 35% se si considerano gli anni che vanno dal 2006 al 2010.

Disdetta senza motivo. Mai un incidente, eppure la compagnia assicuratrice di Luciana di Gaeta ha cancellato la polizza per poi proporle di rientrare a una tariffa molto più alta. Mai un incidente, eppure indesiderata. Luciana S. di Gaeta ha ricevuto, incredula, la disdetta della polizza dall'assicurazione pur non avendo mai creato problemi alla sua agenzia: regolari i pagamenti del premio, mai uno scontro fatto o subìto. "Ho chiamato la mia agenzia - racconta Luciana - e mi hanno detto imbarazzati che la disdetta era dovuta a "motivi commerciali". Subito dopo mi hanno detto che, se volevo rientrare, dovevo azzerare il vecchio contratto e assicurarmi come nuovo cliente, a una tariffa notevolmente più alta. A questo punto sono stata costretta a rivolgermi a un'altra compagnia. E neanche qui è stato facile: ho perso giorni e giorni per trovare un assicuratore che applicasse condizioni almeno decenti".

Come diventare indesiderato. Due piccoli incidenti negli ultimi due anni dopo dieci senza un graffio. Tanto basta a Mario di Roma per ricevere una lettera e una telefonata che chiudono il contratto. Dieci anni senza fare un graffio alla macchina. Poi due piccoli incidenti (con colpa) negli ultimi due anni. Abbastanza per diventare un "indesiderato". La compagnia fa recapitare una lettera a Mario di Roma, e poi telefona per sancire il divorzio. "Dopo proteste e reclami, mi sono rassegnato a cercare un'altra compagnia. Ne trovo una telematica e faccio il preventivo denunciando i due incidenti avvenuti per mia colpa. Prezzo vantaggioso, pago il dovuto e attivo la polizza. Troppo bello. Un operatore mi contatta e mi chiede se, oltre ai due incidenti per colpa, ne avessi avuto anche uno senza colpa. Era così, in effetti. Risultato? Il preventivo quasi raddoppia. Io, rassegnato, non posso che pagare".

L'attestato di rischio negato. Gianluca di Rieti voleva cambiare compagnia ma quella vecchia gli fa lo sgambetto: non gli fornisce l'attestato di rischio e lui deve affrontare costi maggiorati. Prova a cambiare compagnia assicurativa, ma quella vecchia gli fa lo sgambetto: non gli dà l'attestato di rischio e Gianluca di Rieti finisce in un vicolo cieco. "Sono andato in agenzia per farmi fare un preventivo e sottoscrivere la nuova polizza. Avevo con me molti documenti della vecchia assicurazione. Ma non l'attestato. La nuova agenzia mi ha spiegato che avrebbe attivato l'assicurazione, ma io sarei rientrato nell'inferno della classe 14. Io, che partivo da una classe 4. Il risultato concreto? Costi da mal di testa per la nuova polizza. Avere l'attestato di rischio non è forse un mio diritto?". Nessun avviso e 170 euro in più.

Una polizza a consumo chilometrico, un aumento consistente senza avvertire e senza spiegare. E alla fine per Raffaella di Roma il rinnovo forzato per non restare scoperta. Raffaella di Roma ha dal 2006 una polizza a consumo chilometrico. Quest'anno si è vista aumentare il premio di 170 euro senza essere stata avvertita e senza aver ricevuto l'attestato di rischio (l'agenzia sostiene di averlo spedito, ma non può provarlo). "Se volessi rescindere il contratto, avrei l'obbligo di portare l'auto in una specifica officina per far rimuovere l'apparecchio che conta i chilometri. Costo: 120 euro. Quando ho chiesto che motivassero questa spesa, mi hanno detto di non poterlo fare. Alla fine, con la polizza scaduta da undici giorni, ho dovuto rinnovare, forzatamente, con la vecchia compagnia. Un altro anno, pur di non restare senza copertura".

Ritardo ingiustificato. Quando hanno capito che Angela di Roma stava per mollarli, quelli della compagnia hanno prima allungato i tempi dell'attestato di rischio, poi fatto un'offerta più vantaggiosa. Angela C. di Roma ha chiesto l'attestato di rischio, inutilmente: "Quando la mia compagnia ha fiutato che stavo per mollarli, mi ha avvertito che avrei dovuto aspettare oltre un mese per via di problemi burocratici interni. Ho tenuto la posizione: a me - ho precisato - l'attestato serviva subito. Alle mie proteste l'agente ha inviato una proposta migliorativa della polizza che alla fine, per forza di cose, ho accettato. Vorrei chiedere: non potevano applicarmi queste condizioni più vantaggiose senza aspettare il mio pressing?".

Tempi troppo lunghi. Tre anni senza macchina, poi Anna la ricompra e tenta invano di assicurarla con una compagnia online, respinta da richieste di documentazione eccessive e lungaggini. Anna era una cliente di un'assicurazione online. Ma la polizza era ormai scaduta da tre anni, non avendo più l'auto. Decide di acquistare una nuova vettura. Dopo una ricerca online trova una nuova assicurazione, più vantaggiosa della precedente, sempre telematica. Ottenuto a fatica l'attestato di rischio, la nuova assicurazione "mi chiede tutta una serie di documenti, tra cui un'autocertificazione dove dichiaravo di non aver avuto incidenti negli ultimi tre anni. Avrei ricevuto una risposta entro massimo un mese, a meno di stipulare l'assicurazione entrando in 14esima classe. Alla fine, sono rimasta con la vecchia compagnia, che nel frattempo mi ha proposto, a fronte di un piccolo sconto sulla polizza, la sottoscrizione di un'assicurazione sulla casa".

Il diritto di recedere. Cinque anni senza un sinistro, così per Lucio è stata una sorpresa ricevere una lettera in cui si dice che, per mutate condizioni di mercato, la tariffa va modificata. Lucio era assicurato dal 2006 con una compagnia. Tutti i pagamenti regolari, mai un sinistro, né con colpa né senza colpa. "Il 22 settembre mi hanno mandato una lettera in cui dicevano che - per mutate condizioni di mercato - non potevano confermare il contratto a quelle tariffe. Li ho chiamati per avere spiegazioni e mi hanno detto che era loro diritto recedere come lo è per il cliente. In ogni caso, non potevo ricevere spiegazioni via telefono. Avrei dovuto inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno. A quel punto, ho finto di abboccare: ho detto che avrei accettato le loro nuove condizioni. Erano così felici di sbranare la loro preda che sono rimasti al telefono minuti e minuti, diventando prodighi di informazioni".

Domande pretestuose. Una compagnia trovata su internet, un preventivo conveniente. Ma al dunque, per Marco da Genzano, è arrivato un interrogatorio così invadente da spingerlo a rinunciare. Marco M. di Genzano aveva individuato su Internet una compagnia assicurativa che applicava condizioni vantaggiose. "Mi hanno fatto un preventivo conveniente, mi sono preso alcuni giorni per valutare alcune clausole prima di prendere una decisione. Quando finalmente mi sono deciso a sottoscrivere la polizza, l'impiegato ha allungato i tempi con domande pretestuose sulla mia condotta di guida, costringendomi a tornare alla fine alla compagnia di provenienza".

L’Associazione Contro Tutte le Mafie ha presentato un ricorso contro l’ISVAP al Ministero dell’Economia per la violazione della Concorrenza del Mercato e dello spirito riformatore della nuova normativa in campo assicurativo, in cui si prevede il plurimandato e la conoscenza delle tariffe più convenienti.

Il ricorso segue quello già presentato all’ANTITRUST, il quale ha rilevato che vi è fondato motivo di approfondire la tematica sottesa.

Il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato assicurativo ed ogni altra forma di divulgazione delle tariffe RCA, impedendone di fatto la conoscenza per valutarne la loro convenienza.

Il D.Lgs 209/2005 ha disposto l’iscrizione nel registro degli intermediari assicurativi di tutti coloro che svolgono la professione di agente o subagente assicurativo. Inoltre le ultime norme di riforma, per agevolare la concorrenza ed il mercato a tutela degli operatori e degli utenti, prevedono la possibilità del plurimandato per gli agenti assicurativi, e per effetto, estesa per i subagenti.

Invece di tutt’altro verso va il regolamento ISVAP n. 5 del 16/10/2006:

nella parte in cui prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione in una sola delle sezioni. In questo caso, l’agente di una compagnia non può essere sub agente di altra compagnia;

nella parte in cui prevede l’incompatibilità lavorativa, che inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività professionale assicurativa come secondo lavoro;

nella parte in cui impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti;

nella parte in cui impone l’iscrizione dei subagenti a mera facoltà degli agenti.

Tutte le compagnie di assicurazione, obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti, sotto minaccia di mancata iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.

Alla mancata concorrenza si riscontra l’indecenza del costo della RCA, che spesso è superiore al valore del veicolo assicurato!

Le Compagnie assicurative indicano le spese legali come causa di maggiori esborsi risarcitori.

Se ciò è vero, perché non definiscono le richieste di risarcimento nei tempi stabiliti, nonostante la legge preveda delle sanzioni alla violazione dei termini indicati? Basta pagare per tempo e l’Avvocato non ha necessità di intervenire, ingolfando di cause il sistema giudiziario. Le compagnie, proprio per il vizioso sistema giudiziario, speculano sui tempi. Intanto il cittadino non saprà mai se la compagnia inadempiente, già segnalata, è stata punita, perché l’ISVAP, su richiesta di riscontri da parte del danneggiato a tutela dei suoi interessi, tace, celandosi dietro il segreto d’ufficio o alla legge sulla privacy.

Inoltre, i Giudici, investiti dalle cause civili, difficilmente condannano le compagnie per lite temeraria, per aver resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Fatte salve le eccezioni riscontrate. Le assicurazioni che rispondono evasive alle richieste di risarcimento dei danni e i liquidatori introvabili, capaci di trasformare incidenti stradali in interminabili odissee burocratiche, hanno trovato pane giudiziario per i loro denti. È un Giudice di Pace di Sestri Ponente a toccare la tasca delle assicurazioni. Si chiama Roberto Garibbo e ha condannato una compagnia a pagare una somma anche per «l’inerzia e l’inadempienza» nel risarcimento dei danni. Un banale incidente, destinato a diventare un esempio per decine e decine di automobilisti.

Le Compagnie assicurative indicano i sinistri truffa come causa di maggiori esborsi risarcitori.

Se ciò è vero, perché non smascherano i truffatori? Basta verificare la veridicità delle dinamiche indicate, le testimonianze prodotte, la vetustà dei danni. Questo non succede, perché metterebbero in dubbio la credibilità di alcuni Avvocati, quale parte avversa, minando la reciproca indulgenza.

I dati raccolti dall'Isvap sono contenuti nella relazione annuale dell'Ania: ogni cento incidenti vengono riscontrati tre tentativi di frode ai danni delle assicurazioni. La media nazionale è stata del 2,8%, ma il fenomeno è molto più frequente soprattutto al sud dove la media italiana si triplica arrivando all'8,3%, con il caso limite di Napoli (16,8%).

Alle Compagnie è nota l’esistenza di polizze false e polizze truffa, emesse in base a dichiarazioni false e reticenti, e nulla fanno per attuare un concreto controllo presso le agenzie.

Le Compagnie assicurative ritengono antieconomiche le polizze RCA.

Se la RCA è antieconomica per le compagnie, perché solo alcune di loro prevedono alla scadenza, senza disdetta, la cessazione automatica del contratto, lasciando liberi i loro clienti?

In conclusione. Se il rincaro ingiustificato RCA è dovuto ad aggravio di costi riconducibili a colpe delle Compagnie, ciò è civilmente illecito. Se il rincaro ingiustificato RCA è dovuto a dolo delle compagnie, ciò è reato da perseguire, senza impunità ed immunità. E’ una truffa contro l’utente, contraente coatto per obbligo di legge.

Intanto il cittadino nel disinteresse generale protesta inascoltato, emula e disimpara la legalità.

G COME MAFIA DEL GIUSTIZIALISMO E DELL’IMPUNITA’

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “STEFANO CUCCHI & COMPANY” E “IMPUNITOPOLI”.  Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Responsabilità civile dei magistrati: 7 casi accertati in 26 anni. Ecco i dati dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da anni si parla di introdurre una più realistica responsabilità civile per i magistrati italiani. Ma qual è la situazione effettiva? Quanti sono stati i giudici raggiunti da un’azione civile? Panorama.it, finalmente, è in grado di pubblicare dati ufficiali dell’Avvocatura generale dello Stato: e sono anche dati aggiornatissimi, visto che risalgono al 7 febbraio 2014. Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario. Le domande sono di per sé pochissime: poco più di 16 all'anno. Il motivo di una così rarefatta richiesta di giustizia da parte delle presunte vittime di malagiustizia, che invece stando alle cronache sono tantissime, sta nella complessità della procedura, ma anche nella scarsa fiducia nella capacità di ottenere effettivamente giustizia, e in certi casi forse anche nel timore di aggredire legalmente un magistrato. Del resto, fra tutti i ricorsi presentati, solamente 266 sono stati ritenuti inammissibili, mentre 71 sono ancora in attesa di ottenere la complicatissima patente di «ammissibilità» da parte di un tribunale. Altri 25 procedimenti già cassati sono stati ri-presentati con un'impugnazione da parte della presunta vittima di ingiustizia. In totale, insomma, le richieste presentate e ammesse al vaglio di un tribunale sono state 35 in un quarto di secolo: sono appena l'8,5% del totale. Mentre altre 44 sono ancora pendenti (generalmente dopo lunghi anni dalla presentazione). E come sono terminati i giudizi? Malissimo per i ricorrenti: perché anche alla fine del tormentatissimo iter legale, quasi metà delle richieste di accertamento della responsabilità civile di un magistrato sono state respinte: ben 17. E soltanto 7 sono state accolte. Sette in totale, sulle 410 avviate: ovverosia l'1,7%. A guidare la classifica dei giudizi negativi per i magistrati è il tribunale di Perugia, con 2 casi. Un caso a testa riguarda invece le avvocature di Brescia, Caltanissetta, Lecce, Reggio Calabria e Trento. Al momento, dei 44 ricorsi pendenti, 10 riguardano l'avvocatura di Messina, al primo posto; altri 7 sono a Salerno, altri 4 a Roma e altrettanti a Trento. Tre casi si segnalano a Potenza e ad Ancona. Due a testa sono pendenti davanti alle avvocature di Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova. Una riguarda Napoli, un'altra Brescia, l'ultima Venezia. I dati, se mai ce ne fosse stato bisogno, dimostrano che il sistema sanzionatorio varato 26 anni fa non funziona affatto. 

La responsabilità civile dei Magistrati esiste dal 1988, in 26 anni solo 4 condanne. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione» Voltaire. Da quando esiste la legge sulla responsabilità civile i magistrati non hanno mai sborsato un euro. C’è una legge che regola la responsabilità civile dei giudici. Esiste dal 1988 ed è nota con il nome di “Legge Vassalli”, scrive Enrico Novi su Il Garantista del 6 agosto 2014. Quella norma prevede in teoria che lo Stato, se costretto a risarcire un cittadino per un errore giudiziario, possa rivalersi sul giudice. In teoria, appunto. Perché in pratica quest’ultima circostanza si è verificata zero volte. Da 26 anni cioè non è ma successo che un magistrato abbia pagato per un proprio errore. Il che fa comprendere per quale motivo il ministro della Giustizia Andrea Orlando intenda rivedere la norma. Meno comprensibili sono le resistenze opposte dall’Anm. Soprattutto se si pensa che ogni anno vengono intentate, per esempio, decine di migliaia di cause per errori sanitari (circa 600mila dal 1994), e che di queste un terzo si conclude con una condanna. Su una cosa il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli batte con insistenza, riguardo alla responsabilità civile: non vanno toccati i filtri di ammissibilità. Il che di fatto equivale a dire che la legge Vassalli deve sopravvivere così com’è. Perché i “filtri” – cioè la valutazione di ammissibilità delle cause per danno giudiziario – rappresentano il punto decisivo: se non si tolgono quelli non cambia niente. E se non cambia niente i giudici continueranno a non risarcire un euro. Un euro che sia uno, e non è un’iperbole. Dall’introduzione della legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati, infatti, non è mai successo che lo Stato si rivalesse su un giudice. Mai, neppure una volta in 26 anni, perché la Vassalli è dell’88. Venne approvata per recepire l’esito di un referendum promosso dai radicali l’anno prima. Dopo 26 anni, con tutto il rispetto del grande giurista di cui porta il nome, si può dire che quella legge è una presa in giro. Non nelle intenzioni, evidentemente, ma nei fatti sì. In 26 anni solo 4 volte è capitato che arrivasse a sentenza definitiva una causa di risarcimento intentata contro lo Stato per un errore giudiziario. Parliamo di 4 volte in 26 anni, cioè in media viene condannato un giudice ogni 6 anni e mezzo. Dopodiché neppure in queste 4 misere occasioni il giudice in questione ha tirato fuori un soldo. Perché? Lo si deve proprio alla formulazione della legge Vassalli. Che su un punto si è rivelata particolarmente vaga: l’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Tale obbligo è formulato in modo talmente vago che di fatto non esiste. Cosicché neppure in una delle 4 occasioni in cui lo ha dovuto pagare un cittadino per colpa di un giudice, lo Stato ha provveduto ha rivalersi sul responsabile. Certo, seppure lo avesse fatto, il giudice non avrebbe comunque tirato fuori un euro dalle proprie tasche. Dalle buste paga di tutti i magistrati italiani infatti viene trattenuta una piccola quota che serve a pagare l’assicurazione sulla responsabilità civile. A quanto ammonta? “Io ho smesso di fare il giudice nel 2001: all’epoca la trattenuta era di 100mila lire l’anno”, ricorda il presidente della commissione Giustizia del Senato Francesco Nitto Palma. Oggi si arriva a circa 150 euro l’anno. Cifra davvero bassa: per una categoria di medici particolarmente esposta alle cause civili come quella dei chirurghi possono scattare premi assicurativi superiori ai 15mila euro, come segnala l’Ordine dei medici di Pavia. In pratica per ogni euro pagato all’assicurazione da un giudice, un chirurgo ne paga 100. Come si può intuire la posizione rigida assunta dall’Anm su questa materia rischia di perpetuare un effetto paradossale, di certo non voluto: ossia di preservare non solo l’intangibilità delle toghe ma anche il lucro delle assicurazioni. In 26 anni di legge Vassalli le compagnie hanno occupato il tempo a stappare champagne. Due conti: oggi a ogni magistrato vengono trattenuti in media 150 euro l’anno per la polizza; moltiplicato per i 9.000 magistrati italiani fa un milione e 350mila euro l’anno; moltiplicato per 26 anni, pure a tenere conto dell’inflazione, siamo intorno ai 30 milioni di euro. Una cifra regalata alle assicurazioni, pulita. Perché come detto, in questi 26 anni le compagnie non hanno mai dovuto pagare neppure un risarcimento. È pur vero che in qualche modo l’interesse delle toghe coincide con quello degli assicuratori. Se infatti le maglie della responsabilità civile fossero allargate, come vorrebbe fare il ministro Andrea Orlando, e aumentasse il rischio di veder condannati gli errori giudiziari, da una parte le compagnie comincerebbero finalmente a risarcire qualche danno, dall’atra aumenterebbero anche i premi assicurativi. Cioè potrebbe succedere che lo Stato debba trattenere dalla busta paga di un magistrato una cifra un po’ più consistente degli attuali 150 euro. Sempre di soldi si tratta, dunque. Di soldi e di rischi: roba da broker più che da guardasigilli. Ecco perché nella riforma di Orlando ci sono almeno altri due aspetti, oltre all’eliminazione dei filtri di ammissibilità, che tengono in allarme l’Associazione nazionale magistrati. Il primo è la definizione precisa dell’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Secondo la scheda tematica pubblicata l’altro ieri sul sito del ministero della Giustizia, la rivalsa sarebbe automatica non solo nel caso estremo del dolo (lo è già oggi) ma anche di fronte a una particolare fattispecie di colpa grave: la cosiddetta “mancanza per negligenza inescusabile”. Il secondo motivo di tensione tra governo e giudici è l’estensione dei casi nei quali un giudice può essere citato in giudizio: l’esecutivo pensa di recepire un’indicazione della Corte europea, secondo cui la responsabilità civile di un giudice deve essere prevista anche in caso di mancata adesione alla giurisprudenza comunitaria. L’Anm vorrebbe che questa casistica venisse limitata il più possibile. Il match, come si vede, è destinato ad andare avanti per parecchie riprese.

LA POLIZZA ASSICURATIVA DI 145, 50 EURO ANNUE

ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI

Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour - Roma

Dichiarazione da sottoscrivere da parte di chi aderisce all'assicurazione

Responsabilità Civile e Tutela Legale

(si prega di scrivere in stampatello)

Il sottoscritto_________________________________________________________________________________

Nato a __________________________ il _________________ Residente in ______________________________

Prov._______ Via __________________________________________________ n° ________ C.a.p. __________

Eventuale recapito per l'invio della corrispondenza, se diverso dalla residenza:

Città ____________________________________________________ Prov. __________ C.a.p. _______________

Via _____________________________________________________________________ Numero Civ. ________

Nota: si raccomanda di aggiornare ad ogni variazione sia la residenza sia il recapito della corrispondenza

Lo scrivente, dichiara di aderire ai contratti di assicurazione unici e collettivi stipulati dalla A.N.M. per la Responsabilità Civile del Magistrato (Legge 117/88), per la Responsabilità Amministrativa e Contabile e per la Legge 24/03/01 n° 89 e per la Legge 626/94, nonché per la Tutela Legale e si impegna a corrispondere i relativi premi annuali:

a) quanto al periodo intercorrente dalla data del versamento alla prima scadenza anniversario di polizza, prende atto che la stessa scadrà il 15/04 di ogni anno. Dichiara che ha provveduto a versare il relativo premio a mezzo di c/c postale n° xxxxxxxx intestato all'Associazione Nazionale Magistrati – Gestione Assicurazione Responsabilità Civile - Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour – Roma.

Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.

b) quanto alle annualità successive corrisponderà il premio il cui importo e le cui modalità di versamento verranno comunicati ad ogni scadenza anniversaria.

Il Sottoscritto dichiara altresì di aver ricevuto il testo delle condizioni tutte di assicurazione e di accettare il contenuto delle medesime.

_______________________ , li _____________________ ______________________________ firma

Negli ultimi 50 anni si valutano 5 milioni di cittadini vittime di errori commessi dai magistrati. Responsabilità civile dei magistrati? 7 casi accertati in 26 anni. Tanto poi paga l'assicurazione con polizza del costo di 150 euro circa l'anno. Il filtro posto dalle toghe contro le toghe funziona. Ecco i dati dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona.  Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario.

Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes nell’arco degli ultimi cinquant’anni sarebbero 5 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero dl Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. Ci si arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto di revisione. Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.

"Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada". Dal ‘92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione. L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell'errore giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.

Si stima che, dal 1988, circa 50 mila persone siano state vittima di ingiusta detenzione e errore giudiziario, e che dal 1991 lo Stato abbia risarcito per circa 600 milioni di euro questi innocenti - viene spiegato a tempi.it dal presidente dell’Unione Camere Penali, Valerio Spigarelli  Eppure, dal 1988, su 400 cause presentate per la responsabilità civile dei magistrati, solo 4 magistrati sono stati condannati. Com’è possibile e cosa ne pensa? La somma delle vittime e dei risarcimento è al ribasso. Si tenga conto che per l’ingiusta detenzione non sempre lo Stato concede il risarcimento, anche a fronte di una sentenza di assoluzione totale dell’ex detenuto. Purtroppo, anche la legge attuale sulla responsabilità civile è fatta male: c’è un filtro preliminare alle cause, di cui si occupa ovviamente la magistratura stessa. La legge oggi prevede la responsabilità solo per dolo o colpa grave, cioè solo per gravissimi casi. Restano esclusi ad esempio tutti gli errori di interpretazione delle prove o delle leggi, per cui se anche ci fosse un magistrato che compisse un errore clamoroso, come inventarsi una legge, paradossalmente non avrebbe responsabilità civile.

Entriamo nel mondo degli insabbiamenti e dell’impunità. Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”, scrive “The Frontpage”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.

Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;

b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;

c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;

d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;

e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;

f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm. E noi adesso lo diremo. Siamo cattivelli. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri. Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa).

Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!);

- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%);

- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%);

- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%);

- 2 sono stati  i rimossi (l’1%);

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia?

Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Quanto alla responsabilità civile, alias il rischio di sanzioni disciplinari, per gli esposti presentati contro i magistrati è previsto un filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di cassazione. Tra il 2009 e il 2011, sempre sui circa 9.000 magistrati ordinari in servizio, alla Procura generale sono pervenute 5.921 notizie di illecito, di cui 5.498 (il 92,9%) sono state archiviate. Ciò vuol dire che solo il 7,1% delle denunce è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm. Che strano...

9. E la responsabilità civile?

Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in teoria, ci sarebbe la Legge n. 117/1988, voluta dall'allora ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per l'esercizio dell'azione; prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e attribuisce allo Stato la possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a risarcimento di un errore giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole (con il tetto massimo di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati l'ultracasta, ci fa notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in Italia siano stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento danni da responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità; il 16,5% sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo l'8,5% sono state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34 ricorsi, 16 sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha perso solo 4 volte, pari all'l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati.

10. Da zero a uno: meno di 0,5.

Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un'organizzazione non profit, indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea, stila un indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell'aderenza del sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l'affidabilità, la credibilità e l'integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità delle Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di persone e cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del processo; la competenza e l'indipendenza dei magistrati e l'adeguatezza delle risorse messe a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori l'Italia supera lo 0,5, eccezion fatta per l'adeguatezza delle risorse... Se la qualità, l'indipendenza e l'efficienza della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta delle firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo da noi.

Magistratura italiana: verità e omissioni. L'Associazione Nazionale dei Magistrati ha pubblicato sul proprio sito il documento “La verità dell'Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla ANM e parametrati su quelli della Comunità Europea. Un rapporto talmente lacunoso da essere sospetto. Ecco perché, scrive “Agora Vox”. La Costituzione italiana assegna alla Magistratura il privilegio dell'autogoverno, cosicché essa si autogestisce senza rispondere a nessun altro che non a se stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio Superiore della Magistratura e fuori dal controllo dei cittadini.

Chi giudica i giudici? Nessuno a quanto pare, perchè non sono trasmesse le notizie dei procedimenti a carico. Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 28 settembre 1995, ha approvato la circolare in oggetto, (CSM. Circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995) che di seguito si riporta:

“Con deliberazione n. 151/91 in data 13 gennaio 1994 il Consiglio Superiore della Magistratura ha richiesto ai Procuratori Generali ed ai Procuratori della Repubblica:

a) di dare immediata comunicazione al Consiglio, con plico riservato al Comitato di Presidenza, di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio;

b) prescindendo dall’obbligo di informazione previsto dall’art. 129 disp. att. c.p.p. di informare di loro iniziativa il Consiglio, oltre che dei fatti cui il procedimento si riferisce e del suo inizio, anche del suo svolgimento, nelle varie fasi e nei diversi gradi, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possono rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone;

c) di trasmettere di loro iniziativa i provvedimenti più rilevanti e quelli conclusivi nelle diverse fasi e nei vari gradi dei procedimenti e dei processi a carico di magistrati.

Con la deliberazione in data 17 maggio 1995, concernente lo svolgimento di ispezioni ed inchieste ministeriali, il Consiglio ha ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità in linea di principio del segreto investigativo e della rimessione alla valutazione del magistrato procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il mantenimento del segreto anche nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di vigilanza.

Si sono dovute constatare notevoli difficoltà di adempimento da parte di numerosi uffici. Talora sono del tutto mancate le dovute comunicazioni ed il Consiglio ha dovuto prendere conoscenza attraverso la stampa di procedimenti riguardanti magistrati, addirittura già pervenuti alla conclusione della indagine preliminare.

Quasi mai gli uffici del pubblico ministero provvedono ad una informativa sui fatti cui il procedimento si riferisce, né trasmettono di loro iniziativa gli atti conclusivi delle fasi e gradi del procedimento, né i provvedimenti di misura cautelare a carico di magistrati. Quasi sempre gli uffici trasmettono elenchi cumulativi di procedimenti privi di indicazioni utili al Consiglio.

Accade anche che le comunicazioni al Consiglio non siano nel medesimo tempo fatte ai titolari della azione disciplinare, con evidente pregiudizio per l’esigenza di pronta informazione del Ministro di Grazia e Giustizia e del Procuratore Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione.

Tale stato di cose impedisce al Consiglio di svolgere le proprie funzioni e si traduce in uno spreco di attività di comunicazione, richiesta, sollecitazione, ecc.."

Chi giudica i giudici? Si chiede Enzo Rosati su “Panorama”. Meglio di qualsiasi convegno, meglio di ogni polemica tra politici e magistrati, la realtà, se conosciuta, apre gli occhi all'opinione pubblica su come funziona la giustizia in Italia. E cioè male. Un solo lato positivo: molti hanno potuto rendersi conto dell'esistenza e dell'importanza di vari, differenti e stavolta antagonisti ruoli e livelli di indagine e giudizio anche in un'inchiesta all'inizio, prima dell'arrivo in tribunale. Procura, polizia giudiziaria, giudice delle indagini preliminari, tribunale del riesame. Ognuno ha giocato la sua parte, e questa è stata evidenziata, analizzata, sviscerata. Finora agli occhi dell'opinione pubblica esisteva in pratica una verità: quella dei pubblici ministeri, cioè della procura. Dell'accusa. Un indagato diventava quasi automaticamente un colpevole. Un indagato messo in galera, poi, un colpevole doppio, perché il carcere in nessun altro modo era (e purtroppo è) percepito se non come l'anticipo della "giusta" pena. "Giusta" sulla base delle indiscrezioni fatte filtrare dalle stesse procure e dalla polizia giudiziaria. Un circuito perverso, è stato detto inutilmente mille volte; la condanna morale e materiale emessa non da un giudice ma da una parte in causa. Quanti si ricordano della presunzione d'innocenza, che nessuno può essere dichiarato e considerato colpevole prima dei tre gradi di giudizio? Quanti tra la gente comune sanno che anche l'operato di una procura è soggetto alla verifica di un gip e di un tribunale del riesame? Non è certo la prima volta che un'inchiesta viene sconfessata, una sentenza ribaltata. Non raramente si è assistito a un contrasto così forte a palese sui fondamenti stessi di come si debba condurre un'indagine, di come si possa mettere in carcere una persona o semplicemente additarla al pubblico sospetto. È evidente che qualcuno ha sbagliato. La procura? I carabinieri? Il gip? Il Tribunale del riesame? Può capitare. Ma che cosa suggerirebbe la logica? Che chi sa di non disporre di prove e indizi certi per accusare una persona di un reato si rimetta al lavoro per capire gli errori, coprire le lacune o, se è convinto di ciò che fa, andare avanti. Ma soprattutto che taccia. Non per punizione, ma perché lo impongono l'etica professionale, il dovere d'ufficio, il rispetto degli altri e il semplice buon senso. «Non commentiamo, non rilasciamo dichiarazioni, proseguiamo il nostro lavoro». Ottima idea. Smentita 24 ore dopo da una raffica di interviste. E che interviste. 1) far capire che il gip è forse troppo giovane ed esuberante, e per questo «non ha dato adeguatamente conto del lavoro dei carabinieri»; 2) che la procedura del Tribunale del riesame «è del tutto nuova»; 3) che «a forza di dubbi finiremo per dubitare che un delitto ci sia stato. Meno male che abbiamo prove incontestabili che ci sia un moti. Mi scuso della battuta macabra, però...».  Nomi, persone, vite private. Tutto in piazza. E non per il lavoro della stampa; no, con il sigillo di magistrati che forse pensano di risolvere così contrasti e vendette interne. Perché proprio questo si intuisce dietro il profluvio di dichiarazioni, di allusioni, di «non mi sembrerebbe generoso», di «non vorrei dirlo», di «non mi faccia fare nomi». E lasciamo stare criminologi e psichiatri vari, con la verità in tasca da settimane: la loro unica scusante è che non sono pubblici ufficiali. Il problema ora è: qualcuno pagherà per gli errori? Chi è ancora in grado di risolvere credibilmente le indagini? Certo, questi contrasti dimostrano che la magistratura ha una dialettica al proprio interno e ciò può essere considerato una garanzia per i cittadini. Purtroppo una sfilza di precedenti dimostrano che la situazione della giustizia non è rassicurante. C'è dunque qualcosa che non va. Senza considerare i processi vip, quelli ai politici, è la giustizia che riguarda la gente comune che non va. Ma i magistrati, come categoria (anzi, come corporazione), continuano ad autoassolversi. Non accettano riforme, non accettano di essere giudicati, se non da loro stessi. Ma come si vede i giudici sbagliano, e dunque il nodo è inesorabile: chi giudica i giudici?

Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre 2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3 mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè, la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è più vasto di quello che può sembrare.

Chi controlla i controllori? Questo è il punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta? Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse appartiene a questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il processo sancirà che un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il diritto alla pensione visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo? Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile dei giudici.

Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?

Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.

LA RESPONSABILITA' CIVILE IN EUROPA. La responsabilità civile secondo l’Unione Europea. Colpa semplice e dolo sono forieri di responsabilità.

L’Ue all’Italia: se i giudici sbagliano, lo Stato paga, scrive Guido Scorza su “Il Fatto Quotidiano”. È incompatibile con la disciplina europea il principio stabilito nella legge italiana secondo il quale lo Stato non risponde nei confronti dei cittadini per gli errori commessi dai giudici – con provvedimenti definitivi e, quindi, non ulteriormente impugnabili – ogni qualvolta si tratti di un errore di interpretazione della legge e/o di valutazione delle prove ovvero non vi sia la prova che i magistrati hanno agito con dolo o colpa grave. È questa la conclusione cui è pervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione europea all’esito di un procedimento promosso dalla Commissione nei confronti del nostro Paese. L’Italia, “escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave… è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.” Inequivocabile la posizione della Ue: non c’è ragione per la quale lo Stato debba sottrarsi al principio del “chi rompe, paga”, quando a “rompere” – o meglio a violare i diritti di un cittadino – siano i giudici. A leggere la sentenza, peraltro, si scopre una circostanza curiosa e, al tempo stesso, antipatica. Prima di avviare il procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia che ha poi portato alla sentenza di condanna dell’Italia, facendoci fare la solita pessima figura, la Commissione ha dapprima ripetutamente sollecitato il nostro Governo a fornire spiegazioni con lettere del febbraio e dell’ottobre del 2009 e, quindi, con una comunicazione del 22 marzo 2010, lo ha diffidato dall’adottare una serie di provvedimenti per riallineare il diritto interno a quello dell’Unione. Il nostro Governo, tuttavia, evidentemente preoccupato di questioni ben più serie legate alla sorte dei processi contro il premier, non ha mai risposto. Curioso che l’ex premier sempre pronto a chiedere la testa di questo o quel magistrato non abbia condiviso la battaglia di civiltà giuridica promossa da Bruxelles e vergognoso che un Paese si permetta il lusso di ignorare comunicazioni su questioni tanto delicate provenienti dalla Commissione Ue. A questo punto, però, giustizia è fatta: se i giudici sbagliano – con una sentenza definitiva - lo Stato paga senza eccezioni e limitazioni. All’Italia, tocca ora adeguarsi alle regole Ue a pena, in caso contrario, di pesanti sanzioni economiche delle quali, francamente, non si avverte il bisogno. Peccato  che una regola tanto elementare ce l’abbiano dovuta prima spiegare e poi, visto il nostro ostinato silenzio, imporre i giudici europei con una condanna.

LA RESPONSABILITA' CIVILE IN ITALIA. La responsabilità civile secondo l’Italia. Colpa grave e dolo sono forieri di responsabilità, ma solo se rilevata dalle stesse toghe contro i colleghi.

Si dice spesso che in nessun Paese europeo esista e sia prevista la responsabilità diretta del magistrato, ma in essi non c’è neppure un articolo 28 della Costituzione che espressamente la preveda; né in nessun altro Paese europeo i pubblici ministeri hanno l’autonomia e l’indipendenza che hanno quelli italiani, dato che in tutta Europa gli stessi rimangono – chi più, chi meno – al riparo dal potere esecutivo. Una volta chiuso il processo, nulla impedisce che si possa agire nei confronti del magistrato, non allungando in tal modo alcun tempo né moltiplicando le cause. È utile ricordare che a oggi la categoria della colpa grave è stata identificata dai giudici di legittimità in maniera talmente restrittiva e spesso miope che, nella realtà, è stata resa invocabile in sparuti casi. In definitiva, la Corte di Cassazione ha sempre fatto rientrare le ipotesi giunte alla sua attenzione o in un ambito prettamente interpretativo facendolo poi sfociare nella inammissibilità, o interpretando la colpa grave con il carattere aberrante dell’interpretazione. La responsabilità è un valore assoluto – non può essere un privilegio a danno degli italiani – pertanto è sacrosanta l’introduzione della responsabilità civile personale dei magistrati e, nel farlo, si tenga ben presente che lo stato della giustizia in Italia è tale per cui, lungi dal “confidare” in essa, si è tutti esposti ad iniziative giudiziarie discrezionali e variabili da Paese incivile. Nel 1987, sulla scia del “caso Tortora”, più dell’80% degli italiani votò perche fosse introdotta la responsabilità civile dei magistrati. Un anno dopo, dietro l’impulso dell’allora Ministro della Giustizia Vassalli nacque la legge del 13 aprile 1988 sul “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio nelle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati“.

Il 2 febbraio 2012, il colpo di scena con Governo battuto a scrutinio segreto. La Corte di Giustizia aveva chiesto, anzi “intimato” più volte all’Italia di cambiare la legge Vassalli a causa della sua mancata corrispondenza con quanto previsto dal diritto comunitario poichè la responsabilità andava estesa anche agli errori commessi dal magistrato per un’interpretazione errata delle norme europee e per una valutazione sbagliata di fatti o prove. In realtà, questo è stato il pretesto per modificare invece un principio ben più rilevante per il nostro ordinamento: non più solo lo Stato a rispondere degli errori commessi dal magistrato ma anche la responsabilità diretta del giudice, con conseguente risarcimento del danno. In particolare, l’emendamento Pini approvato dalla Camera stabilisce che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento” di un magistrato “in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni o per diniego di giustizia”, possa rivalersi facendo causa sia allo Stato che al magistrato per ottenere un risarcimento.

Invece il Governo Renzi, con il Ministro Orlando propone una contro riforma.

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, COMUNICATO 4 AGOSTO 2014.

Un corretto funzionamento della responsabilità civile dei magistrati costituisce un fondamentale strumento per la tutela dei cittadini ed un necessario corollario all’indipendenza ed all’autonomia della magistratura. Il meccanismo previsto dalla legge Vassalli adottato in esito al referendum abrogativo del 1987 ha funzionato in modo assolutamente limitato. La legge, infatti, pur condivisibile nell’impianto, prevede una serie di limitazioni per il ricorrente che, di fatto, finiscono per impedire l’accesso a questo tipo di rimedio e rendono poi aleatoria la concreta rivalsa sul magistrato ritenuto eventualmente responsabile. Si tratta, quindi, d’intervenire per rendere effettivo questo strumento. Un’ulteriore esigenza di intervento è rappresentata dalle pronunce della Corte Europea di Giustizia, che sollecita una maggiore effettività nelle procedure previste per il riconoscimento delle responsabilità conseguenti alla errata applicazione del diritto comunitario da parte del giudice.

Ampliamento dell’area di responsabilità. L’intervento sull’attuale disciplina di settore riguarda in primo luogo il profilo dell’ampliamento dell’area di responsabilità su cui possa far leva chi è pregiudicato dal cattivo uso del potere giudiziario, in linea con il diritto dell’Unione europea che include le ipotesi di violazione manifesta delle norme applicate ovvero manifesto errore nella rilevazione dei fatti e delle prove. In secondo luogo la responsabilità sarà estesa, nella ricorrenza dei medesimi presupposti, al magistrato onorario. I giudici popolari resteranno responsabili nei soli casi di dolo.

Superamento del filtro. Uno degli obiettivi del progetto è il superamento di ogni ostacolo frapposto all’azione di rivalsa, nei confronti del magistrato, che lo Stato dovrà esercitare a seguito dell’avvenuta riparazione del pregiudizio subito in conseguenza dello svolgimento dell’attività giudiziaria.

Certezza della rivalsa nei confronti del magistrato. L’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, esercitabile quando la violazione risulti essere stata determinata da negligenza inescusabile, diverrà obbligatoria.

Incremento della soglia della rivalsa. Sarà innalzata la soglia dell’azione di rivalsa, attualmente fissata, fuori dei casi di dolo, a un terzo dell’annualità dello stipendio del magistrato: il limite verrà incrementato fino alla metà della medesima annualità. Resterà ferma l’assenza di limite all’azione di rivalsa nell’ipotesi di dolo.

Coordinamento con la responsabilità disciplinare. Saranno rafforzati i rapporti tra la responsabilità civile del magistrato e quella disciplinare.

Per armonizzarsi con l'Europa, scrivono in via Arenula, bisogna innanzitutto includere tra le ipotesi di responsabilità civile del giudice «la violazione manifesta delle norme applicate ovvero il manifesto errore nella rilevazione dei fatti e delle prove», una sorta di punizione per la negligenza grave. Punizione che riguarderà sugli stessi presupposti anche i magistrati onorari, mentre i giudici popolari (cioé i cittadini aggregati alle Corti d'Assise) resteranno responsabili solo per i casi di dolo.  Nel progetto dell'esecutivo salta il filtro a protezione dei magistrati: una volta che lo Stato sia stato condannato a riparare il danno da denegata/errata giustizia, «dovrà» esercitare l'azione di rivalsa contro la o le toghe responsabili, azione che in sostanza diventa «obbligatoria». La rivalsa dello Stato sarà, da un punto di vista patrimoniale, «illimitata» nei casi di comprovato dolo del magistrato, mentre se gli sia addebitabile solo una negligenza lo Stato potrà rivalersi solo fino alla metà (oggi è un terzo, ma l'azione non è obbligatoria) dello stipendio annuale. Resta comunque esclusa l'azione diretta del cittadino nei confronti del giudice. Le linee guida creano infine un legame diretto e necessario tra responsabilità civile e azione disciplinare. Una condanna per negligenza costerà al giudice anche un procedimento amministrativo che, pare di intuire, non potrà prescindere dall'esito della prima. Quanto alla riduzione del filtro per l'azione volta a ottenere il risarcimento, «bisogna stare attenti perché è alto il rischio di azioni strumentali, cioè di reazione a un provvedimento sgradito del magistrato. Se si toglie il filtro, occorre evitare la proliferazione di azioni infondate, attraverso disincentivi o forme di sanzioni», ha detto il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli».

“L’Anm grida al lupo, quando il lupo, di fatto, ha fatto marcia indietro”. Esordisce così il Senatore Enrico Buemi, Capogruppo del Partito Socialista Italiano (PSI) in Commissione Giustizia a Palazzo Madama, interpellato dal Velino, a proposito della reazione del sindacato delle toghe alle linee guida del Governo sulla riforma della giustizia in materia di responsabilità civile dei magistrati. Buemi, che è relatore della norma al Senato e che sulla responsabilità civile dei magistrati ha presentato la pdl n. 1070, spiega che la sanzione applicabile in caso di colpa grave del magistrato “è molto limitata rispetto all’elaborazione fatta in commissione Giustizia, dove si profilava che il minimo recupero economico potesse essere intorno al 50% del danno arrecato”. Mentre nelle linee guida della riforma del ministro della Giustizia Andrea Orlando è previsto che il risarcimento per chi ha subito il danno può arrivare fino al 50% dello stipendio annuo netto del magistrato al momento in cui sono avvenuti i fatti. “Una briciola di incremento – commenta Buemi – rispetto a una situazione che prima era irrisoria. Stiamo infatti parlando di qualche migliaio di euro di incremento, passando dal 30% al 50% dello stipendio, e cioè a 25/30 mila euro di risarcimento del danno, in più col vincolo del prelievo mensile di un massimo del quinto dello stipendio”. Il risarcimento previsto dal ministero non e’ proporzionale al danno. “Di fronte a un danno che potrebbe essere di decine di migliaia di euro, penso in particolare ai magistrati del civile, c’è una non proporzionalità, tra il danno arrecato e la sanzione applicata”, osserva Buemi. Un discorso che vale anche per i comportamenti che prevedono la limitazione della libertà. “I magistrati – spiega ancora Buemi – non hanno mai risposto civilmente per gli arresti prolungati nel tempo che hanno generato azioni di risarcimento da parte di coloro che li hanno subiti. In 25 anni di applicazione della norma Vassalli – ricorda il senatore Psi – solo quattro casi sono andati a compimento, ma nessuno ha avuto un’azione di rivalsa”. Insomma “il lupo non c’è e nessuno c’è l’ha con i magistrati che svolgono azione meritoria – osserva Buemi rispondendo alle preoccupazione dell’Anm – inoltre è sempre un giudice che deve stabilire se un altro giudice ha commesso o no colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni”. Quando la riforma passerà all’esame del Parlamento “chiederò ai colleghi un atteggiamento coerente e lo chiederò anche al presidente del Consiglio, che in più riprese ha detto che ci deve essere lo stesso tipo di recupero rispetto al danno arrecato. Non dico che ci debba essere un recupero al cento per cento, ma ci deve essere una proporzionalità – ribadisce Buemi – tra il danno arrecato e l’azione di concorso all’indennizzo della parte che ha subito il danno, un indennizzo che non può essere irrisorio”.

Rita Bernardini, segretario dei Radicali italiani, intervistata da Andrea Barcariol su “Il Tempo” accoglie positivamente le linee guida sulla riforma della Giustizia ma con una grande riserva sul testo finale: «Dubito che rimanga così». Ampliata la responsabilità civile dei magistrati, in linea con le direttive europee, anche se non ci sarà responsabilità diretta.

Soddisfatta?

«Si tratta di una serie di intenzioni che mi sembrano piuttosto serie. Essendo passati 27 anni da quando il popolo italiano decise che voleva la responsabilità civile dei magistrati (legge Vassalli ndr), mi auguro che questa sia la volta buona».

Si aspetta dei cambiamenti tra la bozza e il testo finale?

«Le pressioni che farà l’Anm (associazione nazionale magistrati) saranno pesanti, come è normale in uno Stato dove non è affermata in modo chiaro la separazione dei poteri. Basti pensare a tutti i magistrati fuori ruolo che sono distaccati, in particolare presso il ministero della Giustizia. Affermare la responsabilità civile è giusto ma è necessario intervenire anche in altri settori come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale che oggi lascia completamente nelle mani della magistratura la scelta dei processi da celebrare e quelli da far cadere in prescrizione che sono circa 140 mila all’anno».

Il presidente Sabelli dell’Anm ha già parlato del rischio di cause strumentali.

«Saranno sempre i magistrati a giudicare... Cause strumentali ci possono sempre essere, a volte sono strumentali quelle che vengono fatte nei confronti dei cittadini che subiscono processi inutili».

Quali sono gli aspetti che la convincono di più del testo?

«Voglio vedere quanto regge il testo rispetto alle pressioni, ciò dimostrerà anche la determinazione del governo. L’aver previsto la violazione manifesta del diritto è un passaggio importante su cui c’era forte opposizione da parte dei magistrati. Sull’azione di rivalsa è vero che è sempre indiretta però lo Stato deve obbligatoriamente rivalersi nei confronti del magistrato quando c’è una negligenza inescusabile».

Quindi, secondo lei è stato centrato l'obiettivo dichiarato di togliere le limitazioni del ricorrente per facilitare l’azione di rivalsa?

«Se il testo rimane questo mi sembra un enorme passo avanti, ma io ne dubito».

Hanno troppo potere i magistrati...

«Comandano loro. Loro si scelgono i reati da perseguire e quelli da far cadere in prescrizione».

La responsabilità civile dei magistrati? Il Governo esclude quella diretta, e avrebbe già pronto un ddl che riscrive la responsabilità civile per i magistrati: via il filtro e una rivalsa dello Stato sulla toga non più di un terzo, ma della metà; e dunque chissenefrega di quanto ha approvato la Camera dei deputati accogliendo l’emendamento Pini. Del resto lo si è fatto tranquillamente con il referendum Tortora, i cui risultati erano inequivocabili, e venne varata una normativa che andava in senso opposto…

La Camera ha dato il 2 febbraio 2012 l’ok alla norma sulla “responsabilità civile dei giudici” con un voto trasversale: 264 sì. Anche parlamentari di Pd, Idv, Terzo polo e gruppo misto quindi hanno votato a favore dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini. “Partendo da un pronunciamento della Corte di giustizia europea, introduce il principio per cui «chi ha subito un danno ingiusto da un magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave» possa chiedere il risarcimento non solo allo Stato ma anche al «soggetto colpevole», ovvero al giudice che l’ha mandato ingiustamente in carcere o che gli ha causato problemi materiali, morali e psicologici” La responsabilità civile diretta preoccupa i magistrati. Per ora, se sbagliano, è lo Stato a punirli (può prelevare non oltre 1/3 dello stipendio), scrive “Tempi”. Dal 1988 al 2012, i casi in cui è stata applicata la responsabilità (indiretta) sui magistrati si contano sulle dita di una mano più un dito: 6. La giustizia è chiaramente blanda con le toghe. E ciò sembra confermato da una recente sentenza sulle punizioni dei magistrati delle Sezioni Unite della Cassazione. Nelle motivazioni di una sentenza di aprile 2014, depositate ieri, a poche ore dal sì della Camera all’emendamento Pini, le toghe supreme affermano che è troppo penalizzante la legge che obbliga il trasferimento di un giudice o di un pm per ogni condotta contraria al suo dovere di magistrato, anche se il magistrato in questione ha violato i suoi doveri. Per questo la Cassazione ha chiesto un parere alla Corte Costituzionale. La Cassazione si è espressa sul caso di un magistrato del tribunale di Cesena (anonimo) che nell’autunno 2010 dimenticò di liberare due persone dalla custodia cautelare. Soltanto 56 giorni dopo la scadenza dei termini di custodia, i due cittadini furono liberati dal giudice. Il caso finì al Csm, che condannò il giudice di Cesena al trasferimento di sede per avere agito «con negligenza inescusabile» e perché «arrecava un ingiusto danno ai predetti imputati che sono stati ingiustificatamente ristretti sine titulo per un mese e venticinque giorni». Il giudice, prosciolto dall’accusa di «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», ma “condannato” al trasferimento, fece ricorso in Cassazione. Nella sua difesa in Cassazione, il giudice condannato ha spiegato che la dimenticanza era un fatto di «scarsa rilevanza», che «era conseguenza delle carenze organizzative dell’ufficio». Un fatto che «non aveva compromesso la sua immagine di magistrato». La risposta della Cassazione? Ha sospeso la pena del magistrato e bocciato la legge che prevede il trasferimento dei giudici, impugnandola davanti alla Corte Costituzionale. Secondo la Cassazione, infatti, «la misura del trasferimento di sede o di ufficio è particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo sia morale che materiale». Non può dunque essere sempre e automaticamente prevista, nemmeno nel caso in cui il magistrato violi i diritti degli imputati e i propri obblighi di «imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio».

Medici punibili solo "per colpa grave". I pazienti sono abbastanza tutelati? Scrive il 14 dicembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano" Stefano Palmisano, Avvocato ambientale e alimentare. Per colpa grave. Solo in questo caso sarà possibile condannare per lesioni o omicidio colposi “l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita”. In ogni caso, “è esclusa la colpa grave quando, salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”. Questa è una delle previsioni più rilevanti del disegno di legge “in materia di responsabilità professionale del personale sanitario” all’esame del Senato, dopo l’approvazione alla Camera. In realtà, questa riforma si pone in evidente continuità con la cosiddetta “legge Balduzzi”, che fece da apripista in ambito di limitazioni di responsabilità penale per la classe medica. La motivazione ufficiale di questa “normativa speciale” è quella del contrasto alla cosiddetta “medicina difensiva”, il fenomeno per il quale i medici, ormai, sotto la pressione minacciosa di un contenzioso giudiziario crescente, sarebbero indotti, con sempre maggiore frequenza, più a badare all’illibatezza del loro certificato dei carichi pendenti che alla reale cura dei pazienti. A tal fine, obtorto collo, disporrebbero accertamenti e somministrerebbero prestazioni di dubbia utilità agli effettivi fini terapeutici del paziente, pur di non esser tacciabili in alcun modo di negligenza o, soprattutto, imperizia. E’ questione di straordinaria complessità e nevralgicità, per la massa di fondamentali interessi e diritti che vi sono coinvolti, l’un contro l’altro armati. E’ difficile, però, sfuggire alla sensazione preliminare che ci si trovi in presenza della coda della nobile onda lunga della legislazione di privilegio, “ad qualcosa” (“ad personam, ad aziendam”), che ha segnato indelebilmente, “impreziosendolo”, l’ordinamento giuridico di questo paese nel ventennio berlusconiano; essendo a sua volta – quella legislazione – espressione di una connaturata tendenza delle classi dirigenti autoctone all’esenzione dal diritto comune, alla normativa di favore, all’insofferenza al controllo di legalità. In questo caso, si tratterebbe di una legislazione “ad professionem”, quella medica, riesumerebbe, nella sostanza, antiche visioni (in qualche modo, afferenti al cosiddetto “paternalismo medico”) e, soprattutto, prassi giurisprudenziali di favore verso gli epigoni di Ippocrate invalse in un’epoca in cui, ancora, il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, affermato dall’art. 3 della Carta, non era considerato particolarmente vincolante, per così dire, da larghi settori del mondo giudiziario, anche di livello apicale. Ciò posto, una conseguenza molto probabile di una normativa di sostanziale immunità (o impunità, a seconda dei punti di vista) come quella del ddl in esame (peraltro, di portata più ridotta rispetto ai principi cui è approdata di recente la Cassazione interpretando la stessa legge Balduzzi) è l’apertura di, più o meno ampi, vuoti di tutela penale nei confronti delle vittime di errori medici. Questo è uno dei fondamentali diritti che vengono in rilievo in questa vicenda. Dall’altro lato, però, ce ne sono di altrettanto nodali. I dubbi metodologici sulla reale vocazione di questa normativa restano ma non sarebbe serio rimuovere dal dibattito il ruolo dell’abnorme diffusione del contenzioso sanitario cui si faceva cenno sopra. O, per dirla tutta, l’altrettanto patologica superfetazione di pretese, più o meno fondate, “di giustizia”, ossia risarcitorie, verso il personale sanitario, spesso formulate all’interno di procedimenti penali appositamente promossi contro gli stessi medici. Con la collegata proliferazione di agenzie, negozi, baracconi che promettono risarcimenti sicuri, a costo zero e chiavi in mano per il cliente – danneggiato, vittima della malasanità. E’ quella che è stata definita brillantemente la “parafanghizzazione” della colpa professionale: la pretesa di ristoro di un presunto danno alla salute subito per mano di un medico alla stessa stregua di quello patito al parafango della propria autovettura a causa di un sinistro stradale più o meno univoco. E’ una dinamica sociale che, a tacer d’altro, pesanti danni alla salute pubblica rischia di provocarli sul serio. Giacché, forse, per avere una classe medica seria e qualificatail modo migliore non è quello di trattarla (con la relativa struttura sanitaria) come una grande vacca da mungere per ogni, più o meno reale, danno all’incolumità fisica, propria e dei propri cari. Con la pistola del processo penale sempre puntata alla tempia del presunto danneggiante in camice bianco.

L’assicurazione Rc professionale medico e le novità della legge Gelli, scrive Toscana News il 22 novembre 2018. La legge n. 24 dell’8 marzo 2017 ha introdotto l’obbligo per chi esercita una professione sanitaria di avere una “copertura assicurativa obbligatoria”. Nello svolgere la propria attività medici ed operatori sanitari hanno responsabilità precise considerando i danni che possono provocare ai pazienti. Parliamo di due responsabilità specifiche una civile ed una penale. A dirimere la materia interviene in prima analisi l’art. 43 del Codice penale che condanna chi, in seguito a condotta illecita, si macchi della morte o provochi lesioni gravi ad un paziente per negligenza, imprudenza o imperizia. Tuttavia per imputare una qualsiasi responsabilità è necessario provare espressamente la colpa. Il danno deve essere rigorosamente accertato, e lo si deve legare ad una specifica condotta illecita. Da queste considerazioni, davvero molto importanti, nasce la necessità per la categoria sanitaria, di godere di una protezione grazie ad uno strumento quale l’assicurazione professionale medica.

Obbligo anche per i medici di sottoscrivere polizza Rc professionale. Con la legge n. 24 dell’8 marzo 2017, entrata in vigore il 1° aprile 2017, è stato introdotto l’obbligo per chi esercita una professione sanitaria di avere una “copertura assicurativa obbligatoria”, un diktat preciso che coinvolge anche le strutture sanitarie. Qui è possibile saperne di più. Nella fattispecie parliamo della cosiddetta legge Gelli, che ha inteso porre rimedio alle interpretazioni del passato e al lassismo perpetrato da una medicina chiaramente ‘difensiva’, troppo spesso incapace di mettere al centro il bene e i diritti del paziente.

La legge Gelli l’art. 590 Sexies e le responsabilità del medico. La legge Gelli ha introdotto nel codice penale l’art. 590 Sexies, che norma la nuova disciplina della responsabilità penale colposa per morte o lesioni in ambito medico.

Il nuovo articolo esclude la punibilità del sanitario “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia” e nel caso in cui si siano rispettate “ le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. La nuova norma stabilisce che il medico deve essere considerato responsabile penalmente per i danni cagionati solo in caso di colpa grave. È sollevato dalle responsabilità invece nel caso in cui dimostri di aver agito in conformità alle linee guida e alle pratiche assistenziali definite dall’Istituto Superiore di Sanità. In pratica il medico deve rispondere solo laddove si profila il caso di omicidio colposo o lesioni personali. La seconda novità della legge Gelli considera invece la responsabilità civile. Entrando nel merito in pratica il medico deve rispondere del danno solo nel caso in cui sia evidente che agisca con dolo o colpa. Inoltre spetta al paziente che ha subito il danno provare che la prestazione del medico è stata eseguita in ritardo o in maniera errata.

La legge Gelli introduce definitivamente l’obbligo di stipula di una polizza assicurativa in campo sanitario. La legge Gelli ha messo nero su bianco l’obbligo di stipula di polizze assicurative a carico delle strutture sanitarie sia pubbliche che private, così come per i medici dipendenti da strutture pubbliche e non.

L’assicurazione Rc professionale medici è quindi un obbligo per:

il medico che esercita la professione in qualità di libero professionista indipendente, sia in attività di intramoenia che extramoenia;

 il medico che esercita la professione come dipendente, consulente o collaboratore di strutture ospedaliere pubbliche o private, di cliniche o di qualsiasi altro istituto che fornisce servizi sanitari o servizi di supporto sanitario.

È bene sottolineare che l‘obbligo coinvolge anche i dipendenti di ospedali pubblici che svolgono, anche saltuariamente l’attività professionale in ambito privato.

L’assicurazione medici: cosa tutela. Le polizze Rc professionali per medici, così come tutte le coperture riservate a chi opera nel mondo della sanità, proteggono l’assicurato ma soprattutto il suo patrimonio nel caso vengano avanzate richieste di risarcimento da parte di terzi. La Rc professionale medici inoltre offre una tutela adeguata nel caso si verifichino errori professionali, offrendo una copertura in grado di rimborsare le spese legali e garantire la difesa legate dell’assicurato.

L’appello dei genitori di Eleonora, disabile per le negligenze durante il parto: «Ci hanno rovinato la vita». I genitori della piccola, che durante il parto ha subito gravissimi danni cerebrali per negligenza dei medici, saranno in Aula giovedì prossimo alla Corte d’Appello di Venezia: l’udienza sarà decisiva per stabilire un risarcimento per permettere loro di curare la bambina, che ha 9 anni, scrivono Virginia Piccolillo e Valentina Santarpia il 10 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". «Il giorno in cui mia figlia stava per nascere era il più bello della mia vita, fatto di sogni e aspettative. Poi in un attimo tutto è cambiato, sono caduta in una un precipizio senza fondo, il mondo mi è caduto addosso»: sono strazianti le parole di Benedetta Carminati, la madre della piccola Eleonora Gavazzeni, nata con gravi danni cerebrali a causa di grave negligenza dei medici al momento del parto. Sono le parole con cui la mamma di Eleonora, che oggi ha nove anni e ha bisogno di cure e assistenza continue, giovedì prossimo cercherà di appellarsi ai giudici che dovranno decidere sull’entità del risarcimento. Soldi indispensabili per permettere a lei e al marito, Davide Gavazzeni, di assistere la piccola in maniera dignitosa. «Siamo molto arrabbiati come genitori perché vorremmo regalarle una vita più degna possibile, ma fino ad oggi ci è stato impedito», spiega il papà di Eleonora, che ha stimato il costo complessivo delle terapie e delle cure farmaceutiche in 5 mila euro al mese. Anche lui sarà in Aula per far sentire le ragioni di una bambina a cui è stato sottratto il futuro.

I minuti drammatici del parto. Giovedì i giudici della Corte d’Appello di Venezia metteranno la parola fine sulle responsabilità delle due ginecologhe che lasciarono Eleonora dalle 20.40 alla mezzanotte e 3 minuti, incastrata nel canale del parto. È la notte del 3 dicembre del 2008 quando Benedetta Carminati si presenta all’ospedale di Rovigo per partorire. Eleonora si presenta con la fronte: sarebbe servito un cesareo. Ma la prima dottoressa, Cristina Dibello, non se ne accorge, anche se il tracciato cardiografico indica una grave asfissia. Alle 21.40 stacca il tracciato e per un’ora e 10 fa manovre di kristeller (colpi sulla pancia della madre che fratturano il cranio della piccola). Solo dopo chiede aiuto alla reperibile, Paola Cisotto, che dalle 23.10 senza visitare la madre e accorgersi della posizione impossibile, e senza allertare l’equipe della sala operatoria, in presenza di un tracciato «severamente patologico», ricomincia con le manovre di Kristeller e tenta di estrarla con due ventose poliuso nonostante le monouso siano più efficaci per l’estrazione del feto. Il cesareo arriva troppo tardi. I danni cerebrali sono gravissimi.

Le imperizie e negligenze dei medici. Da subito la perizia dell’assicurazione dell’Ospedale (svolta dal luminare Salvatore Alberico, teoricamente a difesa dell’azienda e delle ginecologhe) riconosce che sono stati causati dalla «gravissima imprudenza, negligenza e imperizia» delle due. Per dare il senso del trauma a causa di «pressioni, depressioni e trazioni anomale esercitate sulla testa fetale», usa una metafora: «Ipotizziamo che un pugile riceva, senza neanche la soddisfazione di poter reagire, un simile trattamento per due ore e cinque minuti possiamo immaginare come uscirebbe la sua testa e comprendere di conseguenza quello che ha subito la piccola Eleonora». Ma all’incontro obbligatorio di mediazione per il risarcimento la Asl non si presenta. Il risarcimento che sarebbe servito per curare la piccola e darle la possibilità di migliorare si blocca. Parte il processo penale. Il giudice però non acquisisce quella perizia e non ne dispone un’altra e le ginecologhe vengono assolte senza neanche una Consulenza tecnica (Ctu). In Appello, la Corte di Venezia, invece accoglie la consulenza tecnica svolta nel frattempo per il parallelo processo civile che riconosce come «gravemente negligente» la condotta di entrambe le ginecologhe e la mette in relazione con l’origine del danno cerebrale. Ne dispone anche un’altra ad un collegio, tra cui il professor Adriano Tagliabracci, che riconosce il nesso causale, anche se sostiene che per la Dibello si è trattato solo di «grave imperizia», giacché non sapeva leggere il tracciato cardiografico. Considerato l’Abc in sala parto. Nelle more dei processi le due dottoresse sono rimaste in servizio. Ecco perché il padre di Eleonora chiede giustizia.

L’appello dei genitori. «Nessuna somma ci ripagherà del danno subito, ma permetterle di vivere e curarla degnamente soprattutto quando non ci saremo più- chiede Gavazzeni - Chiedo che la Corte di Appello condanni le dottoresse che le hanno cagionato lesioni gravissime e condannata ad una vita ingiusta e chiedo inoltre che si emetta una sentenza giusta perché ci è stata rovinata la vita». Da quando Eleonora è nata, per la famiglia è stato un continuo scontrarsi con visite, medici, assistenza difficile da ottenere, e problemi economici: nel 2012 gli fu sequestrato il furgoncino con cui portavano la bambina alle visite in giro per l’Italia perché non aveva pagato quattro rate del finanziamento. In questi anni sono stati soprattutto la generosità di associazioni e comunità religiose ad aiutare la coppia, in mancanza di un risarcimento giudiziario. «Noi genitori abbandonati a noi stessi con un fardello che ci strappa l’anima e il cuore», sottolinea la mamma di Eleonora. Poi guarda sua figlia e le promette: «Ti adoro e ti amerò per il resto dei miei giorni: ogni tuo sorriso ci dà forza, io e tuo padre lotteremo per i tuoi diritti fino all’ultimo respiro».

Figlia invalida al 100% per gravi errori dei medici, nessuno paga. Video di Veronica Ruggeri del 27 novembre 2018 su Le Iene. Dopo una condanna a ginecologhe e ospedale a pagare 5 milioni di euro per come è stato gestito il parto di Benedetta, mamma di Eleonora (nata con una invalidità del 100%), nessuno sembra voler pagare. Veronica Ruggeri ha incontrato i protagonisti di questa terribile vicenda. Eleonora fino al momento della nascita era un feto sanissimo. Tutto filava liscio, ma durante il parto succede qualcosa. La dottoressa Dibello e la dottoressa Cisotto commettono non uno, ma una serie di errori, che hanno lasciato danni irreversibili sulla piccola Eleonora, che oggi ha dieci anni e una invalidità del 100%. Dopo 10 anni di lotte in tribunale un giudice condanna ginecologhe, ospedale e assicurazioni a pagare più di 5 milioni di euro di risarcimento. Ma a oggi non solo nessuno ha pagato, ma sembra che nessuno sia intenzionato a farlo. La famiglia non ha più soldi per andare avanti e rischia di essere sfrattata di casa. “Noi questa bambina l’abbiamo voluta tantissimo”, racconta la madre. “Il 2 dicembre di 10 anni fa vado in ospedale con forti dolori e mi dicono che stava andando tutto bene perché stavo avendo il travaglio”. Ma i medici sembrano ignorare, come aveva invece suggerito il ginecologo di Benedetta, in quel momento fuori turno, che con un parto naturale la donna rischia gravi danni alla vista. “Stavo malissimo, la bambina spingeva e era posizionata male. Ho chiesto disperatamente il cesareo e mi è stato negato dicendo che andava tutto bene”. Il cesareo viene fatto d’urgenza dopo quasi quattro ore di travaglio e pesanti errori da parte delle ginecologhe e Eleonora nasce in condizioni gravissime. I genitori di Eleonora, che hanno speso molti soldi per prendersi cura della piccola, oltre a una pensione di invalidità di mille euro, non percepiscono molto altro. Oggi rischiano di essere buttati fuori casa, mentre chi è stato condannato ancora non paga. Veronica Ruggeri va così a parlare con Antonio Compostella, direttore generale dell’ospedale “Ulss Rovigo” per chiedere perché questi soldi non siano ancora arrivati alla famiglia nonostante la sentenza. Ma la Iena fa una brutta scoperta… l’avvocato dell’ospedale le comunica che vuole ricorrere in Appello.

Eleonora, tetraplegica dopo il parto: il caso a Le Iene. Genitori sul lastrico, e l'ospedale non vuole pagare, scrive Domenico Zurlo su Leggo il 28 novembre 2018. Eleonora ha appena dieci anni e la sua vita è rovinata dal giorno in cui è nata. Colpa di come è stato gestito il parto della mamma Benedetta da parte di due ginecologhe dell'ospedale Ulss di Rovigo, che - come è stato accertato dai processi - aspettarono quattro ore prima di ricorrere al parto cesareo, nonostante le sofferenze della mamma e utilizzando delle manovre che furono poi fatali alla nascitura. La piccola Eleonora porta sul suo corpo i segni di quel tragico giorno: è tetraplegica e le sue cure costano alla famiglia circa cinquemila euro al mese. La storia, già nota negli anni scorsi, è stata raccontata nella puntata di martedì sera de Le Iene, con un servizio di Veronica Ruggeri, che ha intervistato il direttore generale dell'ospedale Ulss di Rovigo, Antonio Compostella, l'avvocato della struttura e persino i vertici delle compagnie di assicurazioni che coprono i sinistri di parecchi ospedali e strutture sanitarie in Italia.

NON VOGLIONO PAGARE. Ciò che infatti ha davvero dell'assurdo di questa storia è l'ostinazione con cui ospedale e compagnie assicurative si rifiutano di dare ai genitori di Eleonora ciò che gli spetterebbe di diritto: il tribunale ha infatti stabilito che l'assicurazione, anche per via della situazione economica difficile di mamma e papà della bimba, deve immediatamente versare 5 milioni di euro di risarcimento alla famiglia. Ma come confermato anche dal legale della famiglia, non solo le assicurazioni non hanno alcuna intenzione di pagare il premio, ma gli stessi legali delle compagnie hanno già annunciato di voler fare appello contro la sentenza, così come gli stessi vertici dell'ospedale, nonostante la magistratura abbia già accertato le responsabilità delle due ginecologhe.

TRA SMORFIE E SPINTONI. Le stesse immagini delle due ginecologhe, apparse aggressive con l'inviata Ruggeri e quasi in crisi isterica, fino a darle uno spintone per tenerla fuori dalla porta, sono raccapriccianti. A maggior ragione per via della loro strenua difesa della loro verità: «Io ho la coscienza pulita e continuo a lavorare qui perché la verità è dalla mia parte», ha detto una delle due dottoresse, la Dibello, con la Ruggeri che le ribatteva: «No, lei lavora qui perché è stata salvata dalla prescrizione». Resta impressa anche la reazione dell'altra ginecologa, la Cisotto, che risponde alla Iena con delle smorfie, dopo aver cambiato un paio di versioni diverse di quanto accadde quella notte, e aggiungendo anche che «la signora rifiutò il parto cesareo», ipotesi seccamente smentita invece dalla mamma di Eleonora.

SOCIAL INDIGNATI. La vicenda di Eleonora ha indignato i social e il pubblico de Le Iene: in tanti sulla pagina Facebook della trasmissione di Italia 1 hanno lanciato un appello affinché si faccia qualcosa per questa famiglia, che dopo aver speso tutti i propri risparmi per cercare di mantenere la piccola, si ritrova con alcuni mesi di ritardo nei pagamenti dell'affitto, a rischio sfratto e con tantissime spese da affrontare. «Fossi nei panni del giudice che dovrà decidere nel prossimo processo non solo negherei l'appello, ma alzarei la quota dei soldi da dare alla famiglia», scrive Melania. «Aprite un conto corrente così chi vuole fa una donazione anche solo di un euro», suggerisce Mario. «Fate un conto corrente per poter aiutare questa famiglia distrutta», aggiunge MariaDolores. «L'ospedale ti rovina e nessuno paga» era il titolo del servizio delle Iene: ma una volta tanto sarebbe ora che qualcuno pagasse per davvero.

Esclusivo: tangenti agli ospedali per far impiantare protesi killer. I colossi dei device pagano mezzo miliardo all’anno a medici e strutture. Per vendere congegni a rischio. Spesso non necessarie. Nuovo allarme mondiale per i seni artificiali cancerogeni. In Italia nessun controllo su molte donne in pericolo, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 06 dicembre 2018 su "L'Espresso". Decine di pazienti in attesa. Hanno portato le loro cartelle sanitarie, ma non vanno in ospedale. Stanno entrando in una caserma della Guardia di Finanza. Per essere sentiti come testimoni e possibili denuncianti. I convocati sono più di cento, divisi in turni giornalieri. Tutti hanno nel corpo una protesi ortopedica prodotta dalla multinazionale francese Ceraver. E tutti sono stati operati nel più grande ospedale privato di Monza. Dove due affermati chirurghi sono stati arrestati per tangenti: mazzette di contanti per impiantare quei congegni artificiali nei pazienti. Uno scandalo di corruzione nella sanità, l’ennesimo. Con un sospetto inquietante: quegli interventi chirurgici non erano necessari, le protesi sarebbero state installate in persone sane solo per fare soldi. Più profitti per la multinazionale. E più soldi in nero per un plotone di medici corrotti.

L’inchiesta giornalistica internazionale Implant Files, coordinata dal consorzio Icij e pubblicata domenica 25 novembre da L’Espresso, ha rivelato dati mondiali impressionanti: più di un milione e mezzo di persone hanno subito gravi lesioni collegate a dispositivi (medical device) difettosi, guasti, usurati o malfunzionanti, dagli apparecchi per il cuore alle protesi ortopediche. Tra molti congegni efficaci e sicuri, realizzati con moderne tecnologie che salvano la vita a milioni di persone, ci sono anche dispositivi-killer. Dal 2008 al 2017 solo le autorità statunitensi hanno registrato oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni personali. Sono i costi sociali della mancanza di regole e controlli. Che favoriscono una massiccia corruzione, aggravando i disastri sanitari. Storie di soldi e malaffare sulla pelle dei malati. Gli oltre cento pazienti interrogati in Brianza sono stati operati da due chirurghi arrestati l’anno scorso per corruzione e associazione per delinquere. Erano i boss dell’ortopedia del Policlinico di Monza, un ospedale privato accreditato, e quindi rimborsato dalle casse pubbliche, con una decina di cliniche tra Lombardia, Piemonte e Liguria. La struttura monzese, nel quinquennio incriminato, era diventata una fabbrica di degenti, con 2.368 persone ricoverate per quattro volte o più (con punte di 19) e una media di 6 protesi impiantate in ogni seduta operatoria (con un record di 16) da moltiplicare per 1.243 giornate di interventi. Le intercettazioni spiegano il perché di questi ritmi: c’è una squadra di medici che incassa tangenti per ogni protesi impiantata. E ci sono anche dottori onesti, che rifiutano il sistema, ma vengono emarginati. Nel settembre 2017, dopo due anni di indagini, scatta la retata dei camici bianchi: 5 in carcere, 9 ai domiciliari, 7 sospesi dalla professione, 1 al soggiorno obbligato. Dopo l’arresto, i direttori commerciali della Ceraver Italia confessano di pagare mazzette da più di dieci anni in molte regioni. Una corruzione sistematica, a tutti i livelli. I manager, confermando le intercettazioni, fanno i nomi di decine di medici di base, dalla Lombardia alla Calabria, dall’Emilia alla Toscana, che incassano soldi per reclutare pazienti. Quei dottori di famiglia li chiamano nei loro ambulatori, li fanno visitare dagli specialisti venuti da Monza e intascano 20-25 euro, in nero, per ogni presunto malato che accetta di farsi applicare una protesi. Ai chirurghi ortopedici va il triplo, 75 euro per ogni impianto all’anca o al ginocchio (in media, tremila euro al mese) oltre a vacanze gratis all’estero, ristoranti di lusso con amici e amanti, bonus aziendali per l’alto numero di interventi. L’inchiesta si allarga ad altri ospedali e cliniche private: agli Istituti Zucchi di Monza finisce agli arresti il primario di ortopedia, a Lucca vengono indagati altri specialisti, tra cui un colonnello medico militare di Roma. I magistrati trasmettono fascicoli a molte procure per indagare su dottori di altre città, come Milano, Varese, Lecco, Como, Bergamo, Piacenza, Reggio Emilia, Torino, Massa, Pescara. I manager arrestati giurano che «il mercato delle protesi funziona così» e spiegano di aver cominciato a pagare dottori oltre dieci anni fa, quando lavoravano per industrie tedesche o americane: «Quando siamo passati alla Ceraver, abbiamo portato con noi anche i medici corrotti, coi loro pazienti». Le intercettazioni più gravi fanno temere un disastro sanitario. I due chirurghi poi arrestati arrivano a dirsi, con divertita volgarità, che «queste protesi francesi fanno veramente cagare» e i colleghi onesti «si rifiutano di impiantarle». Mentre loro continuano, anzi ne approfittano per chiedere tangenti più alte alla Ceraver «per il disturbo, che aumenta».

La multinazionale francese difende la qualità delle sue protesi, «comprovata da oltre vent’anni di studi clinici: la salute dei pazienti non è mai stata messa a rischio». Gli sfoghi dei chirurghi intercettati, insomma, potrebbero dipendere dalla loro incapacità di utilizzarle. Invece di azzardare un difficile processo sui dispositivi, approvati da illustri scienziati finanziati dalla stessa azienda produttrice, la Procura di Monza ha posto ai medici legali un quesito diverso: quelle protesi erano davvero necessarie? In più di cento casi, la risposta è stata negativa: i pazienti non erano invalidi, si potevano curare con mezzi molto meno invasivi. Per questo, nelle settimane scorse, la Guardia di Finanza ha raccolto le testimonianze delle vittime della corruzione sanitaria. Una patologia che infetta l’intero mercato dei device (oltre 350 miliardi di euro all’anno) dominato da mille conflitti d’interessi e rapporti incestuosi tra medici e aziende. Le multinazionali dei dispositivi hanno dovuto pagare, dal 2008 ad oggi, più di un miliardo e 600 milioni di dollari alle autorità americane per chiudere procedimenti per tangenti, frodi e altre violazioni. Nei device c’è una nuova tecnologia della corruzione, più moderna delle tradizionali buste piene di denaro che negli anni di Tangentopoli portarono in carcere l’intero vertice della sanità italiana, compreso il ministro De Lorenzo. Prima e dopo gli arresti di Monza, le protesi ortopediche fanno scandalo anche a Milano. Dove due squadre di chirurghi di fama internazionale vengono arrestati per tangenti. Organizzate con nuovi sistemi corruttivi: medici che diventano soci occulti delle aziende fornitrici dei device.

SOLDI E SEGRETI IN OSPEDALE. «Tutto molto bene»: è il messaggio inviato alle 14.49 del 16 febbraio 2017 da un imprenditore lombardo al responsabile dei laboratori dell’istituto ortopedico Galeazzi di Milano. Il manager è a Francoforte ed è raggiante: si è appena aggiudicato una lucrosa fornitura alla multinazionale Heraeus Medical. E suggella il messaggio (intercettato) con tre emoticon, tre faccine che sorridono: quel colosso tedesco, con un giro d’affari da 21 miliardi, venderà nel mondo migliaia di dispositivi brevettati proprio dall’imprenditore, dal dirigente medico e dallo specialista che guida il reparto interessato dell’ospedale privato. Tre minuti dopo, i due camici bianchi commentano il successo dell’imprenditore, che chiamano «il ciccione», pianificando con entusiasmo le spese che potranno permettersi: una Maserati Ghibli da centomila euro, «blu metallizzata, interni in cuoio, cerchi in lega bruniti...». Lo stesso imprenditore, arrestato nell’aprile scorso, è accusato di aver corrotto altri famosi chirurghi dell’ospedale ortopedico Pini, sempre a Milano. Anche qui si scoprono medici in affari con le imprese. Un primario dell’ospedale pubblico, attraverso una società anonima britannica, controlla il 33 per cento dell’azienda che commercializza un prodotto (Avn) per la rigenerazione dei tessuti ossei. Brevettato dal solito imprenditore e dallo stesso luminare dell’ortopedia. In aggiunta, il medico intasca altri 206 mila euro per presunte consulenze al gruppo (sei aziende) dell’amico. Che a sua volta incassa cinque milioni e mezzo dall’ospedale pubblico per le forniture raccomandate dal primario. Il processo, che chiama in causa anche la direttrice sanitaria nominata dalla Regione Lombardia, è iniziato in ottobre. L’imprenditore e il primario hanno confessato, risarcito oltre mezzo milione di euro e patteggiato condanne attenuate (tre anni al manager, due anni e 10 mesi al medico). A Monza il processo, che coinvolge anche i vertici francesi della Ceraver, si aprirà l’anno prossimo. In attesa del prossimo scandalo. Sotto la corruzione, tra medici e aziende c’è un’ampia zona grigia, ai confini della legalità. Le aziende pagano consulenze, studi, pubblicazioni e brevetti a decine di dottori e scienziati. Secondo i dati americani raccolti con l’inchiesta Implant Files, le dieci più ricche multinazionali dei device hanno versato quasi 600 milioni di dollari, solo l’anno scorso, a medici e ospedali. Una star californiana dell’ortopedia, Thomas Schmalzried, ha incassato circa 30 milioni di dollari dalla Johnson & Johnson per sviluppare due protesi “metallo su metallo”: una è stata poi ritirata dal mercato, quando nuove ricerche cliniche indipendenti hanno dimostrato che avvelenava i pazienti. Negli Usa le aziende di device sono obbligate a dichiarare tutte le donazioni. E dal 2010 una legge ammette solo versamenti «modesti» per finanziare studi o convegni medici. In Italia la trasparenza è ancora lontana. Assobiomedica, l’associazione delle aziende italiane dei dispositivi, ha varato l’anno scorso un codice etico, che entrerà in vigore gradualmente. Dal gennaio prossimo, alle aziende che invitano dottori a «convegni, corsi o seminari» si raccomanda di «non proporre alberghi a cinque stelle, viaggi in prima classe, località turistiche, prolungamenti di trasferte a spese dell’organizzazione». E solo dal 2021 le società saranno tenute a «rendere noti sul proprio sito tutti i trasferimenti economici a favore di società scientifiche, provider, organizzazioni sanitarie, consulenze, donazioni, borse di studio». Nell’attesa, le piccole e grandi industrie possono continuare a finanziare medici e scienziati, compresi quelli che certificano la sicurezza dei loro prodotti. Medtronic, la più ricca e contestata multinazionale dei device, ha dovuto pubblicare, negli Usa, le sue donazioni dirette agli ospedali italiani. Che poi acquistano i suoi prodotti. Nella lista compaiono il Niguarda (progetto CareLink) e tre diversi cardiologi di Milano (nel 2012 e 2013); il San Filippo Neri di Roma (15 mila euro nel 2013 al reparto di un cardiochirurgo poi sospeso); alcuni specialisti del San Matteo di Pavia (nel 2013); gli ospedali di Urbino (2017), Crema (2018) e Desenzano (2012); borse di studio per il San Carlo di Milano (2017) e il San Giovanni di Roma (2018); computer in regalo all’azienda ospedaliera Brotzu di Cagliari (2013). Fra tanti generosi regali, spiccano 140 mila euro donati da Medtronic nel 2016 alla Città della salute di Torino, per un centro medico diretto da un professore che risulta anche autore delle linee-guida per la sua specialità. In base alla nuova legge Gelli, i dottori che rispettano quelle direttive non possono essere condannati per colpa medica. Finora s’ignorava che le linee guida pubbliche le avesse scritte uno specialista finanziato da un colosso privato dei device. Sempre secondo i dati resi pubblici dal consorzio Icij, la multinazionale americana ha donato almeno 60 mila euro anche a Federanziani, l’associazione italiana che ha promosso in televisione nuove terapie e dispositivi per la terza età, targati Medtronic. La sua controllata italiana Ngc invece non fa regali: ha investito 4,8 milioni di euro in una clinica privata di Castel Volturno, diretta da un cardiochirurgo che è un entusiastico sostenitore del Tavi. Il nuovo congegno cardiaco di Medtronic che sta conquistando anche il mercato italiano, nonostante i dubbi sulla sua durata.

TRAGEDIE INVISIBILI. I finanziamenti delle industrie a medici e scienziati sono leciti, fino a prova contraria, ma mettono in dubbio l’indipendenza delle verifiche che dovrebbero garantire la sicurezza dei pazienti. In Europa, dove i dispositivi sono autorizzati da società private pagate dagli stessi fabbricanti, l’inesistenza di controlli pubblici (e di dati imparziali) fa aumentare anche le tragedie nascoste. Il consorzio Icij ha schedato ben 2.100 casi di device associati a decessi, che invece erano stati registrati solo come guasti o lesioni minori. Un problema gravissimo di mancati allarmi (under-reporting) confermato anche dal nostro ministero della salute. La situazione più drammatica, in questi giorni, riguarda alcuni tipi di protesi al seno, sospettati di rompersi facilmente e provocare una rara forma di cancro. Dopo i primi allarmi in Gran Bretagna e Olanda, l’anno scorso la Fda americana ha rafforzato i controlli. E gli incidenti registrati sono schizzati alle stelle: dal 2008 al 2016 venivano segnalate meno di 300 lesioni all’anno; nel 2017 sono salite a 4.567, con 8 vittime. E solo da gennaio a giugno di quest’anno sono già stati censiti altri sette morti e ben 14.415 ferimenti. Pochi giorni fa l’agenzia francese Ansm ha invitato a sospendere questi modelli: entro febbraio si deciderà se vietarli e rimuoverli. In Italia però non esiste una banca dati per identificare migliaia di donne a rischio: da anni è previsto un registro nazionale delle protesi al seno, ma non è ancora attivo.

Migliaia di pazienti uccisi da protesi velenose o difettose: ecco l'inchiesta Implant Files. Pacemaker, valvole cardiache, seni al silicone, impianti artificiali: dagli Usa all’Italia sono oltre 82 mila le vittime di prodotti a rischio impiantati nei malati. Un business da 350 miliardi all’anno dominato da multinazionali senza controlli. Ecco il nuovo scoop internazionale dell’Espresso con il consorzio Icij, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Valvole cardiache, pacemaker, defibrillatori, protesi ortopediche, seni al silicone, infusori, cateteri, neurostimolatori. Sono una moltitudine di prodotti dell’industria sanitaria che vengono impiantati nei pazienti. Milioni di persone costrette a convivere per anni, o per sempre, con questi apparecchi dentro il corpo. Le aziende produttrici li presentano come innovativi strumenti salvavita: la medicina del futuro, le più moderne tecnologie applicate alla salute. Spesso è vero: protesi e congegni sempre più perfezionati proteggono milioni di persone. Alcuni però nascondono rischi e problemi gravissimi. In grado di rovinare masse di pazienti e provocare disastri sanitari su scala mondiale. La nuova inchiesta Implant Files coordinata dall’International consortium of investigative journalists (Icij), a cui hanno partecipato per l’Italia L'Espresso e Report, documenta per la prima volta come funziona e quali segreti nasconde il ricchissimo business dei cosiddetti dispositivi medici (medical device). Un mercato in continua crescita, dominato da multinazionali con un giro d’affari da oltre 350 miliardi di euro all’anno, ma totalmente fuori controllo. I dati ora rivelati mostrano che solo negli Stati Uniti, dal 2008 al 2017, sono stati registrati oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni personali collegate a migliaia di apparecchi segnalati come difettosi, guasti, usurati o malfunzionanti.

Finora si conoscevano solo episodi specifici di prodotti dichiarati pericolosi e già ritirati dal mercato. Come le migliaia di protesi al seno prodotte con silicone tossico dall’industria francese Pip, finita in bancarotta nel 2010. Oppure i risarcimenti milionari sborsati dalla multinazionale americana Johnson & Johnson per i danni causati dalle sue protesi ortopediche “metallo su metallo”, impiantate su oltre mezzo milione di persone. Nonostante questi allarmi, in Europa non esistono controlli pubblici prima dell’impianto: per vendere qualsiasi congegno da inserire nei pazienti, basta una certificazione rilasciata da società private, scelte e pagate dagli stessi fabbricanti. Una certificazione industriale, il marchio CE, come per i frigoriferi, i giocattoli e mille altri prodotti comuni, che non finiscono sotto la pelle dei cittadini. Anche i dispositivi a più alto rischio, dagli apparecchi per il cuore alle protesi permanenti, obbediscono a regole molto meno severe di quelle previste per i farmaci. E dopo l’impianto le autorità sanitarie, in Italia come in molti altri paesi, non sono in grado di rintracciare gran parte delle vittime.

Paradossalmente il mercato delle auto è più controllato. In caso di guasti o difetti di fabbricazione, una casa automobilistica può rintracciare tutti i clienti e richiamare interi blocchi di vetture a rischio. Se invece un congegno sanitario viene inserito nel corpo di migliaia di uomini, donne e bambini, non esistono procedure generali di allerta, sistemi standard di richiamo: una valvola difettosa viene scoperta con anni di ritardo; raramente i pazienti che devono conviverci vengono informati, visitati e curati; i medici possono continuare in buona fede a impiantare apparecchi di cui ignorano la pericolosità, anche se già ritirati da un’autorità estera perché uccidono troppi malati.

Ora, nell’inerzia dei governi, è il consorzio dei giornalisti ad aver creato il primo archivio informatico dei dispositivi medici, accessibile a tutti i cittadini via Internet: una banca dati globale, che permette a chiunque di controllare personalmente, per la prima volta, se l’apparecchio che porta addosso ha avuto problemi di sicurezza. È il maxi-archivio degli “Implant Files”, accessibile dal sito dell’Espresso, che permette di esaminare oltre 60 mila segnalazioni di guasti o incidenti, registrate dalle autorità sanitarie degli Stati Uniti e di altre nazioni, che riguardano migliaia di congegni sanitari di ogni tipo. Con dispositivi fuorilegge negli Usa, ma ancora in circolazione in Italia.

Pacemaker e defibrillatori difettosi: i dispositivi killer che hanno ucciso migliaia di cardiopatici. Il defibrillatore che diventa come una sedia elettrica. E il pacemaker con le batterie che perforano i tessuti. Così le grandi industrie vendono agli ospedali i device cardiaci più pericolosi, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Milioni di persone devono la vita ai pacemaker, valvole cardiache, defibrillatori, stent coronarici e altri dispositivi per il cuore. Ma alcuni dei congegni impiantati nel corpo dei pazienti si rivelano, a distanza di tempo, difettosi, guasti, usurati o malfunzionati. Problemi che mettono in pericolo la salute delle persone. E vengono scoperti con mesi o anni di ritardo, per mancanza di controlli preventivi. Sprint Fidelis è il nome di un defibrillatore che la multinazionale Medtronic riuscì a far approvare nel 2004 dalle autorità americane. È stato ritirato nell’ottobre 2007, dopo essere stato impiantato su circa 268 mila pazienti in tutto il mondo. Il dispositivo era difettoso: impazziva, inviando ai malati raffiche di scosse «molto dolorose»: «Era terrorizzante», ricordano i pazienti intervistati dal consorzio Icij, ancora traumatizzati. Due anni dopo, la Medtronic ha riconosciuto che quel defibrillatore poteva aver causato 13 vittime. Ora i dati raccolti dall'inchiesta giornalistica Implant Files associano quel dispositivo alla morte di oltre duemila persone.

Il Far West della salute: pazienti usati come cavie da un’industria miliardaria senza controlli. Nessuna verifica di autorità pubbliche su milioni di device impiantati nel corpo. L’inchiesta giornalistica internazionale svela lo strapotere delle lobby dei dispositivi. E i guai con la giustizia degli istituti italiani, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Valvole cardiache, pacemaker, protesi ortopediche e mille altre altre tecnologie mediche. Sono una moltitudine i prodotti dell’industria sanitaria (medical device) che vengono impiantati nel corpo dei pazienti. Dovrebbero essere sicuri, efficaci, solidi, sottoposti a rigorosi controlli pubblici e verificati da studi clinici di livello scientifico. L'inchiesta giornalistica mondiale del consorzio Icij, a cui hanno partecipato per l’Italia L’Espresso e Report, documenta invece una situazione ad altissimo rischio: una specie di Far West della salute. Un business da 350 miliardi di euro all'anno che è totalmente fuori controllo.

Femminicidio silenzioso: il calvario delle donne intossicate da tecno-spirali e silicone velenoso. Ottomila pazienti lesionate da protesi al seno pericolose solo nel primo semestre 2018. E ora scoppia il caso Essure, impiantato su almeno settemila italiane, ritirato dalla Bayer dopo lo stop delle autorità irlandesi, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Le donne pagano un prezzo altissimo alla mancanza di controlli pubblici sui dispositivi impiantabili nel corpo. Nel 2012 fu lo scandalo delle protesi al seno, prodotte con silicone tossico dalla ditta francese Pip, poi finita in bancarotta, a spingere le autorità di Bruxelles a varare il nuovo regolamento europeo sui medical device che entrerà pienamente in vigore solo a partire dal 2020. Nonostante le migliaia di vittime del caso Pip, alcuni molti modelli di protesi al seno sono ancora associati a problemi gravissimi: gli Implant Files segnalano, solo nel primo semestre 2018, sette casi di morte e oltre ottomila lesioni personali. Da mesi le donne di mezzo mondo si stanno mobilitando anche contro Essure, un anticoncezionale permanente creato dalla Conceptus, una ditta acquistata dalla Bayer. Due fili metallici, avvolti a spirale l’uno sull’altro, che dovrebbero favorire la chiusura per cicatrizzazione delle tube di Falloppio. I dispositivi, applicati a circa un milione di donne nel mondo, rilasciano sostanze sconosciute, si spezzano, possono infiltrarsi fino al cuore o ai polmoni. L’Espresso ha raccolto le testimonianze delle prime 33 donne italiane che si sono rivolte all’avvocato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo, per spedire alla Bayer una formale richiesta di risarcimento dei danni, preludio a una possibile causa collettiva (class action). In Italia Essure è stato impiantato su almeno settemila donne.

Tutte le intervistate descrivono lo stesso calvario: «Mi chiamo M.B., sono nata in Brianza, abito vicino a Treviso, ho 44 anni. Nel 2014 la mia ginecologa, dopo due parti con gravi complicanze, mi ha consigliato di impiantare Essure, assicurando che era sicuro e non aveva alcuna controindicazione. Dopo l’impianto all’ospedale di Mestre, la mia vita è cambiata. Sono sempre stata una persona molte forte, in buona salute. Ho cominciato ad avere emicranie sempre più frequenti e intense, sono aumentate molto di peso, ho il bacino sempre gonfio, continue bronchiti e infezioni, difese immunitarie basse, ma la cosa peggiore è una stanchezza cronica, una depressione costante, che mi ha spinto sull’orlo del suicidio. Ho pensato anche questo, prima di trovare altre donne con gli stessi problemi e capire. La mia nuova ginecologa dice che sono stati pazzi a impiantarmi Essure». La signora A.C., che ha organizzato un gruppo Facebook delle vittime italiane, ha tolto Essure ed è rinata: «Poche ore dopo ho ricominciato a camminare, a poter riafferrare gli oggetti, a vederci come prima, a non avere più mal di testa. Ora sono dimagrita, sto bene, sono tornata me stessa. Il problema più grande è che molte donne non collegano questi sintomi a Essure: i mariti ci credono impazzite, ci portano dallo psichiatra. Ora voglio aiutare le altre vittime».

Gli Implant Files segnalano 8.500 casi di rimozione negli Stati Uniti, altre migliaia in Europa, 769 solo in Belgio. Al ministero italiano risultano invece solo 13 «incidenti». L’Espresso però ha contato decine di rimozioni, con ginecologi che lavorano a tempo pieno per togliere Essure. La Bayer ha ritirato le sue tecno-spirali dal mercato italiano il 28 settembre 2017. Due giorni prima, il ministero aveva ricevuto un’email dalla rappresentante delle vittime, che denunciava l’inerzia italiana dopo lo stop deciso già il 2 agosto 2017 dall’ente certificatore irlandese Nsai, che aveva fatto perdere a Essure il marchio CE. L’indomani il ministero, senza dire nulla alle pazienti, ha inviato alla Bayer un avviso di sicurezza, invitando l’azienda a richiamare Essure. Sul sito del ministero, dal 2 ottobre 2017, i cittadini possono leggere solo il comunicato di Bayer Italia, che dichiara di aver ritirato Essure perché si vendeva poco, ma resta un prodotto «sicuro e benefico». Il colosso tedesco ha mandato negli ospedali a prelevare le spirali il suo «distributore esclusivo per l’Italia»: Cremascoli & Iris spa, un’azienda che appartiene alla famiglia dell'imprenditore Eugenio Cremaascoli, arrestato e condannato per corruzione nel 2005 a Torino. Dove ha confessato di aver pagato tangenti per oltre un decennio a tre famosi cardiochirurghi per vendere dispositivi medici e prodotti per il cuore ai più importanti ospedali pubblici. "Oggi come ieri chi detiene il potere sostiene che il giornalismo sia finito e che meglio sarebbe informarsi da soli. Noi pensiamo che sia un trucco che serve a lasciare i cittadini meno consapevoli e più soli. Questa inchiesta che state leggendo ha richiesto lavoro, approfondimento, una paziente verifica delle fonti, professionalità e passione. Tutto questo per noi è il giornalismo. Il nostro giornalismo, il giornalismo dell’Espresso che non è mai neutrale, ma schierato da una parte sola: al servizio del lettore. 

Esclusivo: ecco il database dei dispositivi killer. Chi ha una protesi impiantata nel proprio corpo può qui verificare quanto è sicura, scrive Marco Damilano il 22 novembre 2018 su "L'Espresso". Nel mondo ci sono milioni di protesi difettose impiantate nel corpo dei pazienti come spieghiamo nell'inchiesta Implant Files . Spesso le persone interessate non ne sono informate, perché non è detto che le aziende produttrici, gli enti governativi e gli ospedali abbiano segnalato il problema al paziente. L'Espresso e l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij) per la prima volta danno la possibilità a tutti i cittadini di verificare se il proprio dispositivo è sicuro o se invece ha avuto segnalazioni negative in passato. Accedere all'International Medical Device Database, realizzato dal consorzio giornalistico sulla base di 60mila avvisi di sicurezza registrati dalle autorità in oltre dieci nazioni, è semplice: basta inserire il nome del proprio dispositivo nella griglia qui sotto, per verificare se in passato è stato segnalato un problema su quello specifico apparecchio sanitario (medical device). Il consorzio Icij e l'Espresso continueranno ad aggiornare e ampliare questa banca dati globale nelle prossime settimane, in base alle nuove segnalazioni ricevute.

AVVERTENZA: I dispositivi medici aiutano a diagnosticare, prevenire e curare ferite e malattie. L'intento dell'International Medical Device Database non è di sostenere o far credere che le società o gli enti qui citati siano coinvolti in comportamenti illeciti o che abbiano agito in modo improprio. Inoltre uno stesso dispositivo potrebbe avere nomi differenti nelle diverse nazioni e quindi non essere rintracciabile nell'elenco. Questo database non è destinato a fornire consulenza medica: i pazienti dovranno consultare i propri medici curanti qualora ritenessero che le informazioni qui contenute possano avere delle implicazioni rispetto al proprio quadro sanitario.

Il gigante Medtronic: migliaia di incidenti e maxi-affari in Italia tra corruzione ed evasione. La multinazionale ha il primato mondiale delle vendite, ma anche dei problemi di sicurezza: oltre 1.800 morti sospette solo nel 2017. E in Lombardia ha contratti d’oro con i più importanti centri cardiologici, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 25 novembre 2018 su "L'Espresso". La multinazionale americana Medtronic è diventata in pochi anni la più ricca azienda di device del mondo. Ha un giro d'affari di oltre trenta miliardi di dollari all'anno, ha lanciato migliaia di nuovi dispositivi e ha aperto filiali in più di 160 paesi. Nelle sue campagne di comunicazione Medtronic rivendica che le sue tecnologie hanno salvato o migliorato la vita a 70 milioni di persone. L'inchiesta del consorzio Icij documenta però che questo colosso dell'industria sanitaria è stato accusato dalle autorità, in diversi paesi del mondo, di frodi milionarie alla salute pubblica, evasioni fiscali, accordi illeciti contro la concorrenza, uso di prodotti non autorizzati, presunte corruzioni e pagamenti a medici e scienziati per orientare gli studi clinici e ottenere dati favorevoli.

«Why Not era arrivata al cuore dello Stato. Poi mi hanno fermato». Parla l’ex magistrato e oggi sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, scrive Simona Musco il 13 Novembre 2018 su "Il Dubbio".  Togliere a Luigi De Magistris le inchieste “Poseidone” e “Why Not” fu un grave abuso, ma i responsabili non potranno più essere puniti, perché il reato è ormai prescritto. Si chiude così, con la sentenza della Corte d’Appello di Salerno, il processo “Scontro tra procure”, che ha parzialmente riformato, accogliendo l’atto d’appello di De Magistris, la sentenza di primo grado, con la quale erano stati assolti tutti gli imputati per l’illecita revoca del procedimento “Poseidone” e l’illecita avocazione del procedimento “Why Not” all’allora pm De Magistris. Un abuso d’ufficio del quale sono stati ritenuti responsabili gli allora procuratore generale facente funzioni Dolcino Favi, il procuratore aggiunto Salvatore Murone, il senatore Giancarlo Pittelli, il sottosegretario alle attività produttive Giuseppe Galati ed Antonio Saladino, responsabile per il sud della Compagnia delle Opere, nonché il procuratore della Repubblica Mariano Lombardi, morto nel corso del procedimento. «Con questa sentenza – ha commentato De Magistris – si è acclarato per via giudiziaria quello che per giustizia e verità tutte le persone per bene avevano già capito. Sono stato fermato dai miei capi, in collusione con altri, che invece di tutelarmi mi hanno tradito. Quelle inchieste erano arrivate al cuore dello Stato ed avevamo scoperto un livello di collusioni impressionante, tale da destabilizzare istituzioni divenute deviate del nostro Paese». Inchieste, spiega, che erano andate così a fondo da portare alla luce i rapporti tra criminalità organizzata, politica, istituzioni, affari e massoneria deviata, dando dunque fastidio a chi è intervenuto per fermarlo. «Avevamo individuato corruzioni devastanti – ha aggiunto – miliardi di euro di sperpero del denaro pubblico, infiltrazioni a livelli apicali della magistratura e delle forze dell’ordine. Quello scippo illecito delle indagini fu il pretesto perché il Consiglio superiore della magistratura, con una decisione indegna ed ingiusta, mi strappasse la toga di pubblico ministero trasferendomi per incompatibilità ambientale. Lasciarono operare indisturbati corrotti e mafiosi trasferendo chi stava rischiando la vita per conto dello Stato. Chi ha violentato la mia vita da magistrato e chi ha impedito l’accertamento della giustizia e della verità ha le mani sporche di sangue istituzionale. Nulla potrà mai riparare il danno alla giustizia e quello subito da un magistrato onesto e dai suoi stretti collaboratori. Hanno distrutto un magistrato e il suo lavoro». Una guerra di logoramento, quella subita da De Magistris come pm a Catanzaro, bombardato da interrogazioni parlamentari da parte della politica e fiaccato dai colleghi, che hanno sottratto al sindaco di Napoli le sue inchieste per farle finire su un binario morto.

Intascava soldi dall'imputato La Consulta boccia il Csm: «Quel giudice è da cacciare». I colleghi provano a salvare il magistrato che andava licenziato. Stop della Corte Costituzionale, scrive Luca Fazzo, Martedì 13/11/2018 su "Il Giornale". Va a sbattere contro la Corte Costituzionale uno dei tentativi più arditi del Consiglio superiore della magistratura di salvare la poltrona a una toga scoperta a prendere soldi. Che nel giudicare le colpe dei giudici al Csm siano inclini al garantismo è cosa risaputa: di magistrati assolti, o puniti blandamente, nonostante prove granitiche sono piene le cronache di questi anni. Ma nel caso di Luisanna Figliola, giudice preliminare a Roma e oggi pm a Napoli, sembrava che non ci fosse scampo: la legge prevedeva per lei come unica sanzione possibile la destituzione, ovvero il licenziamento. Il Csm ha ritenuto che l'obbligo di sfilare la toga alla collega violasse addirittura la Costituzione, e si è rivolto alla Corte Costituzionale perché cancellasse la norma. Ricevendone in risposta una brusca bocciatura. Se un magistrato si fa pagare da un imputato, non può continuare a fare il magistrato: sembra una ovvietà, ma per farla digerire al Csm c'è voluta la Consulta. La Figliolia è un magistrato maturo e di grande esperienza, con alle spalle processi importanti nella Capitale (compreso quello alle nuove Brigate Rosse) e con un passato di militante in una delle correnti della magistratura. Ma questo rende ancora più grave quanto avviene tra lei e Vittorio Cecchi Gori, il produttore cinematografico finito in dissesto. La sentenza della Corte Costituzionale riassume così le colpe: alla Figliolia «è contestato di avere ottenuto da un imprenditore, che sapeva essere indagato presso il proprio ufficio di appartenenza per il delitto di bancarotta fraudolenta, vantaggi indiretti (consistenti nel conferimento al proprio coniuge di un contratto per un corrispettivo mensile di 100.000 euro) e diretti (costituiti da numerosi soggiorni in lussuose abitazioni, viaggi in aereo privato, una borsa del valore di 700 euro e una festa di compleanno del valore di 2.056 euro)». Più colorito il contesto dei rapporti tra i due come li ha raccontati, nel processo alla Figliolia, l'ex fidanzata di Cecchi Gori, Mara Meis: secondo cui la giudice avrebbe imposto al produttore oltre ai servigi del marito anche la presenza di una maga, grazie alla quale l'uomo poteva dialogare con la madre morta. La Figliolia è stata assolta in sede penale, perché non si è dimostrato quali favori - a parte i dialoghi con l'Oltretomba - fornisse a Cecchi Gori in cambio dei soldi. La cacciata però sembrava inevitabile. Il Csm, nel luglio 2017, prova a salvarla. Ma la Consulta, con la sentenza depositata ieri, va giù dura: se l'obiettivo deve essere «restaurare la fiducia dei consociati nell'indipendenza, correttezza e imparzialità del sistema giudiziario», allora «una reazione ferma contro l'illecito disciplinare può effettivamente contribuire all'obiettivo delineato (...) non essendo affatto scontato che esso possa essere conseguito mediante una sanzione più mite». E il licenziamento lascia alla Figliolia «la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale».

Cucchi, la telefonata dei Cc al 118: "Un detenuto sta male". L'audio è stato depositato dal pm Musarò al processo, scrive l'ANSA il 25 ottobre 2018. "Abbiamo un detenuto che sta male, dice che ha attacchi di epilessia, ha tremori, non riesce a muoversi". Così un carabiniere della Stazione Tor Sapienza in una telefonata al 118 le prime ore del 16 ottobre 2009 parlava delle condizioni di Stefano Cucchi. Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della caserma e secondo le indagini era reduce dal pestaggio subito alla caserma Casilina. L'operatore del 118 chiede al militare, che è il piantone della stazione Tor Sapienza, se il detenuto è tranquillo. "Tranquillissimo -risponde il carabiniere- ha solo ste cose, fisicamente sta male di suo ma non ha i sintomi dell'epilessia". Poi fornisce i dati anagrafici: "è nato l'1-10-1978". L'operatore chiude dicendo che manderà un'ambulanza a via degli Armenti sede della caserma di Tor Sapienza. L'audio è stato depositato dal pm Giovanni Musarò al processo.

Caso Cucchi, l’audio della chiamata dei carabinieri al 118: “Un detenuto sta male, dice che è epilettico”. Nell'audio, i carabinieri spiegano che un detenuto non riesce a muoversi a causa dei tremori, "ma non ha i sintomi dell'epilessia", scrive TPI il 26 Ottobre 2018. Continuano ad aumentare le rivelazioni sul caso di Stefano Cucchi, il giovane romano morto nel 2009 nell’ospedale penitenziario Pertini. L’ultima notizia riguarda la diffusione dell’audio della chiamata fatta dai carabinieri di Tor Sapienza al 118. “Siamo i carabinieri di Tor Sapienza. Abbiamo un detenuto che sta male, ha tremori e non riesce a muoversi. Dice che ha attacchi di epilessia”. L’operatore del 118 risponde chiedendo maggiori informazioni sulle condizioni di salute del detenuto: nello specifico vuole sapere se l’uomo è tranquillo. “Tranquillissimo, ha solo ste cose, fisicamente sta male di suo ma non ha i sintomi dell’epilessia”. La chiamata risale al 16 ottobre del 2009, quando Stefano Cucchi è in una camera di sicurezza della caserma dove è stato fermato a Roma. Secondo le indagini, in quel momento il pestaggio nella caserma Casilina era già avvenuto. A seguito della chiamata, l’ambulanza arriva nella struttura di Tor Sapienza e gli operatori del 118 trovano Stefano avvolto in una coperta e tremante. Il giovane però dichiara di stare bene, nonostante non riesca a muoversi. A quel punto, dopo diverse insistenze, gli operatori vanno via. La registrazione della chiamata fra 118 e carabinieri è solo uno delle decine di documenti in formato cartaceo e audio depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte del giovane geometra romano. Solo alcuni giorni prima era stato diffuso un primo audio di una una conversazione telefonica, intercettata, avuta tra due carabinieri a poche ore dall’arresto di Stefano Cucchi. “Magari morisse, li mortacci sua”, si sente nell’audio, riportata in uno dei documenti che il pm Giovanni Musarò ha depositato mercoledì 24 ottobre ai giudici in Corte d’Assise. A parlare è uno dei carabinieri, poi imputati per calunnia nel processo-bis di Roma, con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale. In particolare il militare fa riferimento alle condizioni di salute del 31enne geometra che si trovava in quel momento nella stazione di Tor Sapienza, dopo essere stato pestato alla caserma Casilina. “Mi ha chiamato Tor Sapienza – dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c’è un detenuto dell’Appia, non so quando ce lo avete portato se stanotte o se ieri. È detenuto in cella e all’ospedale non può andare per fatti suoi”. E l’altro: “È da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua”. 

Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera il 26 ottobre 2018. «Cioè, effettivamente la firma l'ho riconosciuta, è mia pure quella della seconda, ma mica l'ho fatta io», dice il carabiniere Francesco Di Sano a un'amica il 14 ottobre scorso. L' ennesima conferma della falsa annotazione sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi dopo l'arresto arriva da un'intercettazione telefonica registrata due settimane fa. Il militare aveva prima scritto che il detenuto «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo, e di non poter camminare» (sintomi ipoteticamente collegabili a un pestaggio subìto in precedenza), e dopo firmò un altro rapporto, riveduto e corretto, dove tutto si riduce a un «dolore alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». Ma la seconda versione, ammette anche nella telefonata, non l'ha scritta lui. La storia delle relazioni modificate su ordine della scala gerarchica dei carabinieri è ricostruita ormai nei dettagli - ma fino a un determinato gradino - dall' indagine-bis condotta dal pubblico ministero Giovanni Musarò. Il quale attende di conoscere la versione dei due nuovi indagati: il maggiore Luciano Soligo e il colonnello Francesco Cavallo, che secondo il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola chiesero e ottennero le modifiche alle annotazioni dei due carabinieri che avevano avuto in custodia Cucchi dopo il rientro in caserma (e il pestaggio ora confessato dal carabiniere Francesco Tedesco). La prova è nella e-mail con cui il colonnello Cavallo rispedì a Colombo le nuove versioni (accompagnate dalla frase «Meglio così»), che il luogotenente ha conservato ed esibito al pm nell'interrogatorio della scorsa settimana. E di cui parla diffusamente nelle telefonate intercettate dalla polizia nell' ultimo mese. In una conversazione del 26 settembre con il fratello, Colombo dice: «Per fortuna c' ho questa mail... l'ho stampata, l'hanno vista in tanti, ho fatto già un primo filmino ma non viene bene, lo devo rifare perché ho paura che me la cancellano. Quella è il mio salvavita». Una sorta di assicurazione che infatti il luogotenente ha consegnato al magistrato, a differenza di quello che fecero nel 2015 i suoi colleghi che andarono ad acquisire tutti i documenti relativi alla vicenda Cucchi, presero le doppie versioni delle annotazioni ma senza la mail inviata da Cavallo a Colombo. Una stranezza che fa il paio con quella rilevata dal maresciallo Emilio Buccieri nel nuovo interrogatorio del 19 ottobre, quando dice di aver trasmesso i documenti su Cucchi presenti nella stazione Appia al comandante della Compagnia Casalina, senza che gli fosse consegnato alcun verbale di acquisizione. «Questo rappresenta un'anomalia», ha ammesso davanti al pm il maresciallo, che aveva comunque conservato la copia di una lettera della Compagnia con l'elenco del materiale inviato al Comando provinciale, accompagnata da un suo biglietto manoscritto: «A futura memoria per ricordare cosa è stato consegnato da noi nell' occasione del Nov. 2015». Tra le «anomalie» che costellano questa vicenda spiccano quelle verificatesi subito dopo la morte di Cucchi, all'inizio della prima inchiesta giudiziaria. Dopo la testimonianza del carabiniere Colicchio (autore di una delle due relazioni manomesse) il maggiore Soligo chiese al luogotenente Colombo un appunto sulla deposizione: «Mi disse di portarglielo presso il Comando provinciale». Colombo eseguì scrivendo, tra l'altro, che Colicchio aveva notato dei segni rossi sul volto di Cucchi, collegandoli «non a percosse ma alla conformazione fisica anoressica e al dichiarato stato di tossicodipendenza del medesimo». Al pm che gli ha ricordato il divieto di rivelare a chiunque il contenuto di dichiarazioni rese durante un'indagine preliminare, Colombo ha risposto: «Prendo atto. All' epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori. Certo oggi, col senno di poi, mi rendo conto di quanto mi evidenziate»

Cucchi, la frase choc del carabiniere: «Sta male? Magari morisse», poi una mail cambia le relazioni. La riunione coi vertici dopo la morte: pareva gli alcolisti anonimi. A raccontare l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda: in primis il luogotenente inquisito per falso che ha rivelato la manomissione dei resoconti, scrive Giovanni Bianconi il 24 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". La notte fra il 15 e il 16 ottobre 2009, quando Stefano Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della stazione carabinieri di Tor Sapienza a Roma, il capoturno della centrale operativa dell’Arma chiamò la stazione Appia, da dove venivano i militari che lo avevano arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. «Sta andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha attacchi epilettici e compagnia bella», disse. E l’altro carabiniere rispose: «E vabbè, chiamasse l’ambulanza... Magari morisse, li mortacci sua...». A pronunciare questa frase, secondo gli investigatori fu l’allora appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, oggi imputato al processo Cucchi per calunnia: al dibattimento contro gli agenti penitenziari (poi assolti) disse che Cucchi quella sera «camminava bene, era in condizioni normali, tranquillissimo proprio». Sfortunatamente per Cucchi e molti altri, l’auspicio (con insulto) di Nicolardi si avverò una settimana più tardi. E dal giorno dopo la morte del detenuto, all’interno dell’Arma si cominciarono a orchestrare i falsi e i depistaggi che stanno emergendo nel processo-bis attraverso la nuova indagine del pubblico ministero Giovanni Musarò. A raccontare nei dettagli l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda, testimoni e indagati, con il riscontro di recentissime intercettazioni telefoniche. Primo fra tutti il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, inquisito per falso, che la scorsa settimana ha rivelato l’origine della manomissioni delle due relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano sulle condizioni di salute di Cucchi. Avevano scritto che il detenuto denunciava «forti dolori al capo e giramenti di testa», nonché «di non poter camminare, dolori al costato e tremore». L’indomani, racconta Colombo Labriola, «il maggiore Soligo (suo diretto superiore, ndr) mi telefonò e mi disse che le annotazioni non andavano bene, perché erano troppo particolareggiate e venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai carabinieri». In caserma Soligo parlò con Colombo, Di Sano e Colicchio, infine fece trasmettere i due documenti via e-mail al colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio del Comando gruppo Roma diretto dal colonnello Alessandro Casarsa. Cavallo rispedì a Colombo due nuove versioni, scrivendo nella email: «Meglio così...». La situazione fisica di Cucchi era stata un po’ edulcorata (spariti i riferimenti ai dolori alla testa, al costato e al non poter camminare, con l’aggiunta della tossicodipendenza), Colombo passò le relazioni a Soligo che le sottopose a Di Sano e Colicchio per la firma. Il primo accettò senza problemi, il secondo rilesse e protestò: per lui la nuova versione non andava bene. «Il maggiore Soligo cercò di farmi calmare — ha testimoniato Colicchio il 19 ottobre —. Stava parlando al telefono con il colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli “il carabiniere è un po’ agitato”». Cavallo spiegò che in fondo era stata cambiata solo una frase, «ma io non volevo sentire ragioni». Il documento falso, a differenza di quello sottoscritto da Di Sano, non fu trasmesso alla Procura, ma rimase agli atti ed è saltato fuori nella nuova inchiesta. «Non ricevetti minacce esplicite da Soligo né da Cavallo — sostiene Colicchio —, però l’Arma è una struttura militare, e quando una richiesta proviene da un superiore, specie se fatta con una certa insistenza, inevitabilmente chi la riceve la vive come un’intimidazione. Per quello che percepii, anche il maggiore Soligo stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma». Uscito dall’interrogatorio il carabiniere chiama la moglie e le confida: «Gliel’ho dovuto dì... mo’ se scoperchia tutto il vaso di Pandora». In una telefonata con il fratello, intercettata il 26 settembre scorso, il luogotenente Colombo spiega i motivi del falso confezionato in un periodo, l’ottobre 2009, in cui i carabinieri di Roma erano già in imbarazzo per il coinvolgimento nel ricatto all’allora governatore della Regione Piero Marrazzo: «L’Arma ci teneva alla sua immagine... tutto il fatto “caso Marrazzo”... muore Cucchi, un secondo caso con l’Arma romana?... Perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati?! E fa correggere le due annotazioni...». Al pm, Colombo ha raccontato anche i dettagli della riunione con l’allora comandante provinciale Vittorio Tomasone, alla presenza di Casarsa, Soligo, il maresciallo Mandolini (imputato al processo bis) e altri militari che avevano avuto a che fare con Cucchi. Cavallo non c’era. «Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi — dice Colombo —; ognuno si alzava in piedi e spiegava il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Ricordo che uno dei carabinieri che aveva partecipato all’arresto di Cucchi aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro, e un paio di volte intervenne Mandolini per integrare... come fosse un interprete. A un certo punto il colonnello Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con parole sue, perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato».

Caso Cucchi, nell'intercettazione il carabiniere dice: "Magari morisse". Negli atti depositati oggi dal pm Giovanni Musarò durante l'udienza per il processo sulla morte del geometra romano spuntano intercettazioni: così Vincenzo Nicolardi parlava di Stefano Cucchi il giorno dopo l'arresto. E otto giorni dopo il decesso ci fu una riunione "tipo alcolisti anonimi" al Comando provinciale dei carabinieri di Roma, scrive il 24 ottobre 2018 "La Repubblica".  "Magari morisse, li mortacci sua". Con questa frase shock, secondo quanto riportato negli atti depositati dal pm Giovanni Musarò durante il processo sulla morte di Cucchi, uno dei 5 carabinieri imputati, Vincenzo Nicolardi, parlava di Stefano il giorno dopo l'arresto. Nel documento vengono riportate intercettazioni di comunicazioni radiofoniche e telefoniche avvenute tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, tra il capoturno della centrale operativa del comando provinciale e un carabiniere la cui voce è stata ricondotta dagli inquirenti a quella di Nicolardi, oggi a processo per calunnia. Nella conversazione si fa riferimento alle condizioni di salute di Cucchi, arrestato la sera prima: "Mi ha chiamato Tor Sapienza - dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c'è un detenuto dell'Appia, non so quando ce lo avete portato, se stanotte o se ieri. E' detenuto in cella e all'ospedale non può andare per fatti suoi". Il carabiniere risponde: "E' da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua".

"Riunione al Comando provinciale tipo alcolisti anonimi". Non solo. Sempre secondo quanto emerge dalle carte depositate oggi dall'accusa alla I Corte d'Assise del Tribunale di Roma, otto giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, il 30 ottobre 2009, ci fu una riunione "tipo gli alcolisti anonimi" al comando provinciale di Roma, convocata dall'allora comandante, generale Vittorio Tomasone, con i vari carabinieri coinvolti a vario titolo nella vicenda della morte del geometra romano. Lo afferma Massimiliano Colombo, comandante della stazione dei Carabinieri di Tor Sapienza, intercettato mentre parla con il fratello Fabio. "Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede: 'Fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al Comando provinciale perché siamo stati tutti convocati, 'cioè quelli dall'arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Tu che sei il comandante della stazione, anche se non hai fatto nulla, il comandante della compagnia Casilina, il maggiore Soligo, comandante di Montesacro, il comandante del Gruppo Roma, stavamo tutti quanti. Ci hanno convocato perché all'epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Abbiamo fatto tipo, hai visto 'gli alcolisti anonimi' che si riuniscono intorno ad un tavolo e ognuno racconta la sua esperienza, così abbiamo fatto noi quel giorno dove però io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla".

"Se non sei in grado di spiegarti con un superiore, come ti spieghi con un magistrato?" Colombo ha chiarito la vicenda anche durante l'interrogatorio tenuto la scorsa settimana davanti al pm Giovanni Musarò. A quella riunione presero parte anche "il comandate del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, il comandate della compagnia Montesacro, Luciano Soligo, il comandante di Casilina maggiore Unali, il maresciallo Mandolini e tre-quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c'erano il generale Tomasone e il colonello Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall'altra parte. Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all'arresto, aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché - ha concluso Colombo - se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato".

I medici del Fatebenefratelli: "Aveva una frattura vertebrale". "Visitai Stefano Cucchi due volte: aveva una frattura vertebrale e gli proposi di rimanere ricoverato da noi. Lui rifiutò dicendo "Non voglio ricoverami, preferisco ritornare a Regina Coeli dove c'è il medico di cui mi fido che sicuramente mi dà più giorni". Nel corso del processo è stato ascoltato anche Fabrizio Farina, medico del pronto soccorso del Fatebenefratelli. Fu lui a visitare il giovane due volte, il 16 ottobre 2009 e il giorno successivo. Il primo intervento si concluse con Cucchi che, dopo aver rifiutato il ricovero, "si alzò e venne verso di me a firmare il foglio di rifiuto ricovero". Cosa diversa il giorno successivo: "Non riusciva a muoversi". Circostanza, questa, confermata anche dal dottor Claudio Bastianelli, anch'egli del pronto soccorso del Fatebenefratelli, che accolse Cucchi in occasione del secondo 'accesso' in ospedale. "Arrivò e mi disse che voleva essere ricoverato; aveva cambiato idea perché aveva dolore in sede lombare. Gli chiesi com'era accaduto e mi rispose che era scivolato per una caduta accidentale. Ebbi io l'idea di trasferirlo all'ospedale Pertini perché da noi non c'era posto. Per questo attivai la procedura di ricerca del posto letto".

L'avvocato della famiglia Cucchi: "Siamo scioccati". "Siamo basiti, scioccati, non sappiamo più cosa pensare. Quello che ci fa veramente molto male e arrabbiare è che da quest'inchiesta emergono fatti e comportamenti esecrabili, indegni per appartenenti all'Arma dei Carabinieri, di cui si sono rese responsabili persone che non erano coinvolte nell'arresto di Stefano Cucchi né direttamente coinvolte nella sua morte". Così l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, intervistato su Radio 24. "Io e Ilaria abbiamo preso atto che per i Carabinieri i problemi sono Casamassima, Rosati e Tedesco, noi abbiamo fiducia nell'Arma dei Carabinieri, ma qui emerge un quadro desolante ed esiste un grave problema da risolvere". Intanto un altro ufficiale dei carabinieri è stato iscritto nel registro degli indagati: si tratta del colonnello Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti numero due del gruppo Roma. Prossima udienza, il 7 novembre. Continueranno le audizioni testimoniali, e non sono esclusi ulteriori colpi di scena.

Omicidio Cucchi, genesi di un depistaggio: «Magari morisse, mortacci sua». Le carte modificate per coprire le responsabilità, la necessità di evitare brutte figure all'Arma in un momento difficile e per non distruggere le carriere. E una frase shock. Ecco cosa dicono i nuovi atti in mano alla procura, scrive Giovanni Tizian il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". «Magari morisse, li mortacci sua». Così parlò il carabiniere la notte dell'arresto di Stefano Cucchi. Il militare si chiama Vincenzo Nicolardi, al processo è imputato per calunnia. E nel 2009 proferisce queste parole mentre dialoga con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre. Nei dialoghi si fa riferimento alle condizioni di salute del geometra 31enne che era stato arrestato poche ore prima e si trovava nella stazione di Tor Sapienza. Questo è solo uno dei dettagli che emerge dagli ultimi atti depositati dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi. Perché in realtà nell'aula della Corte d'Assise di Roma sta accadendo qualcosa di impensabile fino a qualche anno fa. Il muro di omertà che per nove anni ha coperto i colpevoli del pestaggio di Stefano Cucchi continua a sgretolarsi. Granello dopo granello, udienza dopo udienza, la muraglia dei silenzi si sta assottigliando. L'ultima udienza del processo bis sulla morte del geometra romano ha restituito un altro tassello di verità, per troppo tempo nascosta volontariamente in un labirinto costruito ad hoc fatto di verbali modificati e depistaggi architettati dalla scala gerarchica che comandava i carabinieri coinvolti direttamente nell'arresto di Cucchi e poi nel pestaggio. E ora della nuova indagine sui responsabili dell'occultamento delle prove che dimostrerebbero come andarono davvero le cose quella notte si sanno diverse cose. Si sa, per esempio, che sono almeno sei le persone indagate nel nuovo filone in cui si ipotizza il reato di falso. Cinque carabinieri e un avvocato. Tra i militari dell'Arma c'è anche il tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma, un ufficio di rilievo nella gerarchia. Secondo quanto emerge dalle nuove carte sarebbe stato Cavallo a suggerire al luogotenente Massimiliano Colombo - comandante della stazione Tor Sapienza anche lui sotto inchiesta - di effettuare modifiche all'annotazione di servizio sullo stato di salute di Cucchi. Gli altri indagati sono il carabiniere scelto Francesco Di Sano, sempre di Tor Sapienza, il maresciallo Roberto Mandolini- comandante della stazione Appia e tra i cinque militari imputati in corte d'assise- e il tenente colonnello Luciano Soligo, già comandante della compagnia Talenti Montesacro. Tra gli indagati c'è anche l'avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano. Il coinvolgimento di Cavallo in questa vicenda è legato a una mail esibita in sede di interrogatorio da Massimiliano Colombo cui Cavallo avrebbe suggerito le modifiche da apporre all'annotazione di servizio sulla salute di Stefano Cucchi. Ma dai nuovi atti depositati dal pm Musarò emerge ancora più evidente la pista delle responsabilità più alte. Seppure estranei all'indagine, i generali superiori dei militari finiti nell'inchiesta sul depistaggio ne escono male. Le intercettazioni degli indagati in questo senso sono significative. Una in particolare apre scenari inediti. Si tratta di una conversazione tra Francesco Di Sano e il suo legale, Giuseppe Di Sano. «Francesco (Di Sano ndr), ascoltami, io quello che penso ora per telefono non te lo posso dire, ma tu queste cose per ora, conservatele, anche perché ... incomprensibile ... però se tutto va come spero io, ste cose, ci serviranno dopo ... (.) ... per ricattare l'Arma, per che non vorrei che, se tutto va come penso io ... bene, cioè che tutto si chiude e l'Arma ti dice ah guarda comunque tu per noi non puoi stare qua' no?! Allora, io ho queste cose in mano, che fate? mi fate restare o vado al giornale? .. hai capito? .. (.) .. conservale gelosamente». Ricattare chi e su cosa? Per gli ordini ricevuti per modificare le annotazioni su Cucchi? Di certo, quei documenti sono da conservare gelosamente e da usare in casi estremi, come nel caso di un procedimento disciplinare a carico del carabiniere Di Sano. Del resto l'Arma in quel periodo non poteva permettersi clamori, sostengono gli indagati intercettati. Il motivo, ipotizzano gli indagati, è semplice: subito dopo la morte di Cucchi è emersa l'estorsione di alcuni carabinieri ai danni dell'ex presidente della regione Piero Marrazzo: «È successo subito dopo pure il caso Marrazzo, che c'era successo, capito in quello pure erano coinvolti i carabinieri, mi spiego?». Gli investigatori della Squadra mobile che stanno indagando sul caso Cucchi confermano la consequenzialità degli eventi. E nelle loro informative scrivono: «Difatti, il 23 ottobre 2009, ossia il giorno successivo alla morte di Stefano Cucchi, quattro carabinieri della Compagnia Roma Trionfale, sono stati arrestati dai carabinieri del R.O.S., a seguito di un'attività d'intercettazione telefonica, con l'accusa di aver ricattato, a scopo estorsivo, il presidente della Regione Lazio, perché in possesso di un filmato di Marrazzo in compagnia di un transessuale». «L'Arma che ci tiene alla sua immagine, voglio dire, perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati? E fa correggere le due annotazioni», commenta un secondo indagato. Insomma, se così fosse la verità su Cucchi sarebbe stata tenuta nascosta per evitare altre figuracce? E magari per non sporcare la carriera di ufficiali lanciatissimi. Un'ipotesi tra le altre, di certo i carabinieri semplici finiti nei guai in questo secondo filone non ci stanno a pagare per tutti. Anche perché, ribadiscono nei loro dialoghi, hanno obbedito a un ordine. A quale ordine? Di chi? E da chi è partito? Su questo punto è netto Massimiliano Colombo: «Se hanno indagato me allora dovranno indagare Cavallo, dovranno indagare Casarsa, dovranno indagare Tomasone». Cavallo è il capo ufficio del gruppo carabinieri Roma attualmente sotto inchiesta; Alessandro Casarsa è invece l'ex comandante della compagnia Casilina, tra le più importanti della Capitale con una competenza in un territorio dove vivono 800 mila persone, oggi comandante dei Corazieri al Quirinale; Vittorio Tomasone era il comandante provinciale di Roma. Tomasone e Casarsa nel 2018 sono diventati generali. Ma torniamo alla scala gerarchica. Dai nuovi atti depositati dal pm Musarò è ormai certo che l'ordine di modificare le carte è partito dai superiori. Che ruolo ha giocato la riunione del 30 ottobre 2009 al comando provinciale, una settimana dopo la morte di Cucchi? L'incontro ritorna spesso nei racconti degli indagati. Erano presenti i comandanti delle stazioni dalle quali era passato Cucchi, il generale Tomasone e il colonnello Alessandro Casarsa. Assente, invece, Francesco Cavallo. Di quell’incontro non c’è alcun verbale, niente di scritto. Quella riunione - che a detta di uno degli indagati sembrava una riunione degli «alcolisti anonimi» - non produsse alcun risultato. Ma la sensazione, rileggendo i verbali di interrogatorio, è che ora il summit con i generali e i colonnelli sia al centro di approfondimenti investigativi. Perché sul vertice convocato d'urgenza il 30 ottobre, le domande del pm, sia nelle passate udienze che negli interrogatori dei nuovi indagati, sono insistenti. Chi era presente quel giorno ha risposto così: «Ognuno, a turno, si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che aveva avuto nella vicenda in cui era stato coinvolto Stefano Cucchi. Ricordo che uno dei Carabinieri di Appia che aveva partecipato all'arresto di Stefano Cucchi aveva un eloquio poco fluido, e un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (oggi tra gli imputati ndr) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto il Col. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il Carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché, se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore, certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato». Il giorno prima della riunione al comando provinciale, il magistrato dell'epoca che seguiva il caso Cucchi aveva sentito nel suo ufficio alcuni dei militati coinvolti nella vicenda. Ma è dopo quattro mesi quella riunione alla presenza dei vertici romani dell'Arma che accade un altro misterioso fatto. Che verrà scoperto solo nell’ultima inchiesta aperta dalla procura di Roma. Si tratta di un documento “riparatore”. Due le firme, una è di Di Sano. È datato febbraio 2010, 120 giorni dopo la morte di Cucchi. In questa annotazione gli appuntati scrivono che il ragazzo si è rifiutato di firmare il registro «riservato agli arrestati». Un fatto che è smentito dalle testimonianze nel processo in corso. Dunque anche questo documento presenta delle inesattezze, che messe insieme compongono la tela del depistaggio che ha portato al primo processo i cui imputati erano gli agenti della polizia penitenziaria, poi assolti dalle accuse. Francesco Di Sano successivamente è stato promosso. Si è guadagnato la fiducia dei vertici militari. Ha lasciato la caserma di Tor Sapienza qualche mese dopo aver redatto l’ultima relazione sul caso che rischiava di travolgere l’Arma. Per una curiosa coincidenza è finito a fare l’autista del comandante provinciale, il generale Tomasone, che da lì a breve avrebbe salutato Roma per dirigere il comando regionale dell’Emilia Romagna. Non sono stati promossi, invece, a i due carabinieri che hanno testimoniato. A Francesco Tedesco è stato notificato un procedimento di Stato lo stesso giorno in cui si è presentato in procura per collaborare con il pm. Rischia la destituzione a causa del processo in cui è imputato. L’altro, Riccardo Casamassima, il primo a rompere il muro di silenzio, attraverso il suo legale sostiene di essere stato demansionato. Prima è stato trasferito nella stessa caserma del maresciallo che aveva accusato. E poi è stato messo a fare il piantone nella scuola di formazione. Un’umiliazione per uno “sbirro” di strada con alle spalle importanti sequestri di droga.

Cucchi, Salvini ai carabinieri: «L’errore di uno non infanghi il lavoro di tutti». Il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, alla cerimonia per i 40 anni del Gis: «La gravità dell’accaduto non si discute, ma non rispecchia la normalità del nostro modo di precedere». Trenta: «Chi nega i valori va isolato», scrive il 26 ottobre 2018 "Il Corriere della Sera". «L’Arma si deve ricordare che è nella virtù dei 110mila uomini che ogni giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo sempre la forza per continuare a servire le istituzioni; 110mila uomini che sono molti ma molti di più dei pochi che possono dimenticare la strada della virtù». Così il comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri ha concluso il suo discorso nel corso della cerimonia per i 40 anni del Gis, il gruppo di Intervento Speciale, l’unità per il controterrorismo italiana. Il generale aveva difeso l’Arma all’indomani della confessione che aveva scosso la «Benemerita», da parte di uno dei militari che aveva partecipato al pestaggio di Stefano Cucchi dopo l’arresto. «La gravità di ciò che è accaduto non si discute - aveva detto Nistri - ma è un episodio che non rispecchia la normalità del modo di procedere dell’Arma». Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, presente alla cerimonia, ha fatto scattare l’applauso dagli spettatori in tribuna, dichiarando: «Da ministro non ammetterò mai che un eventuale errore di uno possa infangare l’impegno e il sacrificio di migliaia di ragazze e ragazzi in divisa». Mentre il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha concluso il suo discorso affermando che «L’Arma è sempre stata vicina al cittadino» e i Carabinieri sono un «punto di riferimento, esempio di rettitudine, integrità e senso del dovere»: ma nel caso in cui «si accerti l’avvenuta negazione di questi valori si deve agire e accertare la verità isolando i responsabili allo scopo di ristabilire la fiducia dei cittadini nell’Arma».

I ricatti dentro L’Arma “Quelle carte su Cucchi sono il mio salvavita”. La congiura del silenzio mostrò fin da subito le prime crepe. Perché molti nascosero le copie di documenti compromettenti, scrive Carlo Bonini il 25 ottobre 2018 su "la Repubblica". La congiura del silenzio sull’omicidio di Stefano Cucchi non solo ha fatto deragliare per nove anni la ricerca della verità ma ha impiccato i vertici dell’Arma al nodo scorsoio del ricatto. Come documentano gli atti depositati dal pm Giovanni Musarò, falsi, omissioni, menzogne hanno imbalsamato in un patto non scritto di omertà l’intera catena gerarchica. E in nome del simul stabunt simul cadent, appuntati hanno dunque potuto ricattare marescialli, mare...

L’arma dell’Arma su Cucchi: trasferire e delegittimare. Depistaggio - Nelle carte della nuova inchiesta sulla morte di Stefano le pressioni della catena di comando per nascondere la verità, scrivono Antonio Massari e Valeria Pacelli il 26 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Adesso c’è da aspettare che mi trasferiscano, in modo tale che poi delegittimano le mie dichiarazioni verso l’altro con il risentimento del trasferimento (…) Dice: ‘Quello è stato trasferito e adesso ce l’ha con la scala gerarchica’”. Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione Tor Sapienza a Roma (dove Cucchi passò la notte del 15 ottobre […]

Caso Cucchi, i carabinieri e il dovere della fiducia. Il comandante generale dell'Arma dovrebbe rispondere a una situazione straordinaria con un segnale altrettanto straordinario, con parole che stronchino i sospetti e indichino una strada di riscatto, scrive Mario Calabresi il 25 ottobre 2018 su "La Repubblica". Non vogliamo e non possiamo credere che i carabinieri siano questi. Che l'immagine dell'Arma venga schiacciata sul comportamento di chi ha tradito la legge per nascondere la verità sulla fine di Stefano Cucchi. Che la fiducia di una nazione possa essere incrinata dalle accuse contro militari depistatori o corrotti. Le rivelazioni che emergono dal processo di Roma mettono sotto accusa, penalmente e moralmente, l'intera scala gerarchica della Capitale e richiedono una rispo... 

Valentina Errante per “il Messaggero” il 25 ottobre 2018. Nuove intercettazioni, sul caso Cucchi: il pm Giovanni Musarò le ha disposte un mese fa, mentre il film Sulla mia pelle raccontava la storia di Stefano e nelle udienze del processo, che vede alla sbarra cinque carabinieri, cominciava a sgretolarsi il muro di omertà. E in quelle conversazioni i militari ora accusati di falso parlano con amici e parenti, raccontano delle pressioni subite «Cosa avresti fatto se te lo ordinavano i tuoi superiori?», dice il maresciallo Francesco Di Sano al cugino avvocato. Così in ballo c' è la catena gerarchica dell'epoca: dovrebbero essere indagati. Gli atti depositati ieri in udienza da Musarò hanno rivelato un altro pezzo di questa storia, sul registro degli indagati è finito anche il nome di Francesco Cavallo, nel 2009 numero due del Gruppo Roma. Massimiliano Colombo, il comandante della stazione Tor Sapienza, da indagato per falso, ha parlato per sette ore davanti al pm, consegnandogli l'email che aveva custodito per tutto questo tempo: quella del 27 ottobre 2009 da Cavallo, nella quale venivano modificate le annotazioni redatte da Giancluca Colicchio e Francesco Di Sano, i piantoni che la notte tra il 15 e il 16 ottobre erano alla stazione mentre Cucchi stava in cella di sicurezza. «Meglio così», scriveva il colonnello, modificando gli atti. Il primo, dopo uno scontro con il colonnello Luciano Soligo, anche lui indagato, e con Cavallo, si era rifiutato di mandare ai pm la relazione modificata. Ma, soprattutto, Colombo racconta della riunione, «quasi una seduta degli alcolisti anonimi». E di come avesse dovuto redigere una relazione sulla testimonianza di Colicchio davanti al pm che allora indagava sulla morte di Cucchi, Vincenzo Barba. Sebbene il verbale dovesse rimanere segreto. Prima di riferire di quella riunione sul caso Cucchi, Colombo ne aveva parlato al telefono con un amico: «Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al comando provinciale perché siamo stati tutti convocati, cioè tutti coloro dall' arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Ci hanno convocato perché all' epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla». Circostanza ripetuta al pm: «Erano presenti: il comandante provinciale, colonnello Vittorio Tomasone, il comandante Gruppo Roma, colonnello Alessandro Casarsa, il Comandante della Compagnia di Montesacro, maggiore Luciano Soligo, il Comandante della compagnia Casilina, maggiore Unali, il maresciallo Mandolini (Roberto imputato per falso e calunnia ndr) e altri tre o quattro carabinieri del comando stazione Appia. Da una parte - racconta Tedesco - c' erano Tomasone e Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall' altra parte (posizione frontale). Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all' arresto, non era molto chiaro - ricorda Colombo - un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (Roberto, imputato per calunnia ndr) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Tomasone zittì Mandolini, dicendogli che i carabinieri dovevano esprimersi con parole proprie perché, se non erano in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbero spiegati con un magistrato». Colombo racconta della relazione di servizio che aveva stilato sul contenuto del verbale reso da Colicchio davanti al pm Barba: «Prendo atto che, come mi evidenziate - dice - in fase di indagini preliminari non è consentito chiedere ad una persona escussa di rivelare il contenuto delle dichiarazioni rese al pm. All' epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori». «Magari morisse, li mortacci sua». Così Vincenzo Nicolardi (il carabiniere imputato per calunnia nel processo davanti alla prima corte d' Assise per calunnia e falso), parlando di Stefano Cucchi con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale in una delle conversazioni registrate avvenute tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, il militare fa riferimento alle condizioni di salute del geometra che era stato arrestato da alcune ore e si trovava in quel momento nella stazione di Tor Sapienza.

Come ai tempi dei servizi segreti deviati: i depistaggi su Cucchi fanno venire i brividi. Le indagini hanno dimostrato che una catena gerarchica ha contribuito per anni a nascondere la verità sulla morte di Stefano. E questo è un problema serio in uno Stato democratico, scrive Gianni Cipriani il 25 ottobre 2018 su Globalist. Recitiamo la formula di rito che si usa sempre quando si tratta di apparati dello Stato: parliamo di una minoranza mentre la stragrande maggioranza dei carabinieri (polizia, finanza, penitenziaria, militari e via seguendo) fa il proprio dovere. Giusto dirlo ma sarebbe ancora più giusto dirlo sempre, magari includendo i napoletani (la stragrande maggioranza non truffa il prossimo) i meridionali (la stragrande maggioranza ha voglia di lavorare) e gli stranieri (la stragrande maggioranza, anzi la quasi totalità di quelli che vivono in Italia non sono terroristi). Però, come è noto dai tempi di Chicchennina, che in romanesco significa da molto tempo, c’è sempre la pessima abitudine di fare le distinzioni per gli amici e di fare di tutta l’erba un fascio per i nemici. Ora che la terribile verità sulla morte di Stefano Cucchi sta emergendo in tutta la brutalità, forse qualche ragionamento più stringente va fatto. Perché non si tratta del carabiniere stressato e manesco che si è lasciato andare contro il "tossico di merda" (cit.) e poi ha cercato maldestramente di camuffare gli eventi. No. Sta emergendo una filiera gerarchica che partendo dall’ultima ruota del carro e risalendo man mano a chi del carro forse aveva le redini ha pianificato un castello di menzogne che per molti anni ha negato verità e giustizia sulla morte di Stefano Cucchi, anche al prezzo di far finire sotto processo altri uomini dello Stato (gli agenti della Penitenziaria) che sono stati ingiustamente accusati anche a causa di quei depistaggi. La sequenza è impressionante. Il carabiniere che aggiusta e mente su ordine del superiore, che a sua volta obbedisce al superiore del superiore, che a sua volta obbedisce al superiore del superiore del superiore in una sequenza da Fiera dell’Est. Sarà l’inchiesta a stabilire chi siano penalmente i militari da portare a processo e saranno i giudici a valutare chi condannare o assolvere. Ma da un punto di vista politico - da cittadino e dalla parte del ‘popolo’ come va di moda dire - emerge chiaramente che una riflessione seria andrebbe fatta anche sull’Arma dei carabinieri e dentro la stessa Arma dei carabinieri. Perché quando non si muove il singolo, ma c’’è un’intera catena gerarchica a mettersi in modo per nascondere, depistare o - nella più favorevole delle letture - a minimizzare ritoccando, modificando e togliendo dalle relazioni di servizio, allora c’è qualcosa che non va. Non si può parlare di singola mela marcia, ma da un punto di vista politico (sempre se si vuole andare fino in fondo) c’è da capire quanti e quali servitori dello Stato abbiano preferito venire meno al loro dovere pur di coprire un misfatto e a costo di negare per anni la verità sulla brutale morte di un giovane ragazzo. Eppure - chi è più anziano lo sa - questo paese ha nella propria storia recente quella dei depistaggi dei servizi segreti sulle stragi e il terrorismo. All’epoca fu coniato il termine di ‘servizi segreti deviati’ che serviva a tanti per pulirsi la coscienza. Ossia c’era un apparato sano all’interno del quale c’erano alcuni poco di buono che - chissà perché - si divertivano a proteggere gli eversori. In realtà non esistevano i servizi segreti ‘deviati’, c’era semmai per ragioni storico-politiche ben note (la Guerra Fredda) un sistematico uso deviato dei servizi segreti e i depistatori che sono stati condannati erano solo un ingranaggio del sistema che in quanto tale non è mai stato messo in discussione e che è morto solo con la fine della guerra fredda. Ora i tempi sono totalmente diversi. La vicenda Cucchi non è la strategia della tensione, ma si tratta di qualcosa di gravissimo che getta un’ombra sullo Stato: la morte di questo ragazzo è avvenuta all’interno di un contesto poco lineare e che una democrazia ha il dovere di chiarire fino in fondo ed eliminare ogni zona d’ombra. Proprio chi ha grande considerazione dell’Arma dei carabinieri di Salvo D’Acquisto e Carlo Alberto Dalla Chiesa, di coloro che hanno combattuto le mafie e il terrorismo anche al prezzo della vita deve pretendere il massimo della trasparenza e della pulizia. Sono una minoranza? Sì. Una stragrande minoranza? Certo. Personalmente ho negli anni conosciuto decine e decine di carabinieri, poliziotti e servitori dello Stato del quale sono orgoglioso di essere stato o essere amico che in silenzio e senza diventare eroi mediatici hanno salvato vite, hanno difeso questo paese dai criminali, dal terrorismo e, in tempi più recenti, hanno impedito che nel nostro Paese ci fossero attentati come a Parigi, Londra o Bruxelles anche rischiando (sul serio) la vita. Ma non si parli di singoli o di isolate mele marce. La vicenda Cucchi fa vedere che c’è qualcosa di più. Girarsi dall’altra parte sarebbe ipocrita e vigliacco.

Cucchi è un’eccezione, scrive Luca Sofri venerdì su "Il Post. In mezzo alle tante cose sventate dette e sostenute intorno alla morte di Stefano Cucchi e alle indagini sulle circostanze di quella morte, ce n’è una su cui vale la pena dire due cose, perché ricorre in occasioni diverse ed è apparentemente convincente quanto ingannevole: ed è che i fatti dimostrino che “il sistema funziona” perché alla fine la verità emerge, le responsabilità vengono individuate, le “mele marce” si rivelano tali e soprusi, violazioni e reati finiscono per essere svelati. Insomma, il sistema di perseguimento dei reati, investigazione e amministrazione della giustizia funziona e prevale. È un argomento, dicevo, che ricorre spesso in contesti diversi: quello più frequente è quello dei veri “errori giudiziari” (che spesso non sono esattamente “errori”) quando vengono scoperti, corretti, annullati. In quei casi, qualcuno dentro o fuori dalla magistratura annuncia che quello a cui si è assistito non è un fallimento del sistema, ma la dimostrazione del suo funzionamento con la capacità di individuare ed emendare i propri errori. Naturalmente, è facile far notare che l’annullamento di quegli “errori” non annulla le loro conseguenze sulle vite di chi ne è stato vittima. Ma il punto non è tanto questo: punto a cui si risponde di solito che una quota di errore è inevitabile (soprassiedo su questa risposta). Il punto è che quello che ci viene rivelato in questi casi non è un errore individuato, una colpa smascherata, un sopruso svelato: quello che ci viene rivelato è l’esistenza certa di altri dieci, cento, mille, casi del genere che non sono stati individuati, smascherati, svelati. Cucchi è un’eccezione, ma in questo senso: è la storia che oggi conosciamo, a differenza delle altre. Quello che ci viene rivelato è un atteggiamento (violenza, prepotenza, incoscienza nei confronti delle vite altrui, cialtroneria, omertà) che chiaramente non si può essere manifestato solo quella volta lì, e pensa un po’ l’abbiamo puntualmente scoperta. Chi picchia gli arrestati, chi mostra disprezzo per le persone, chi nasconde la verità, chi fa prevalere altro sulla ricerca della verità, chi fa di tutto per mantenere il proprio partito preso a costo di tragedie, nelle caserme, nei tribunali, nelle carceri, nei luoghi chiusi della gestione di sicurezza e giustizia, non lo fa una sola volta, tutto da solo, contorcendosi dal tormento e giurandosi “non lo farò mai più” in un’autocritica dolorosa, prima di correre a mettere rimedio a quello che ha fatto. Ma quando mai. È quello che sono queste persone, queste culture, questi apparati, questi luoghi, a doverci preoccupare quando si svelano queste storie: non solo le singole storie. Il sistema funziona? Meglio che nel Cile degli anni Settanta, sì: dice il caso Cucchi.

Perché serve educare i poliziotti. Cambiare la cultura nelle forze dell’ordine è una sfida enorme. Ma indispensabile per la protezione di tutti, scrive Floriana Bulfon il 22 ottobre 2018 su "L'Espresso". Indagine su cittadini al di sopra di ogni sospetto, quelli con la divisa, che dovrebbero tutelare la legge e invece riescono a violarla senza correre rischi. Tra pochi giorni dalle scuole allievi usciranno quasi tremila Carabinieri pronti a raggiungere le stazioni in ogni parte del Paese. «Hanno avuto una formazione di 11 mesi e quest’anno per la prima volta, nel programma che prevede tecniche investigative, diritto, attività fisiche e tirocini, sono state introdotte 60 ore dedicate all’etica del comportamento», spiega il generale Michele Sirimarco. Punto centrale è il rapporto con le persone, in particolare con chi entra in custodia dello Stato: «Norme fondamentali come quelle del rispetto dei diritti umani, come dichiarare inagibili le camere di sicurezza che non hanno i requisiti. Tutti i giorni all’alza bandiera si legge un articolo della Costituzione, si sottolinea il rispetto dei diritti umani e si ricorda che il silenzio è illegittimo. Di fronte a un ordine che viola i principi costituzionali si è obbligati a denunciare. In questa scuola abbiamo parlato di quello che è accaduto a Stefano Cucchi, l’abbiamo fatto per stigmatizzare comportamenti che rifiutiamo e trarne insegnamento». La lezione da ricavare non riguarda solo la verità tradita sulla morte di Cucchi. Questo è solo l’ultimo episodio di una serie nera. Diciassette anni dopo le brutalità del G-8 di Genova, ci troviamo davanti alla stessa catena di violenze e omertà che pongono domande fondamentali per una democrazia. Anzitutto il rispetto delle regole da parte di chi ne è custode. E quell’abitudine a costruire muri di gomma fino a negare l’evidenza, «una malattia contratta durante l’uso permanente e prolungato del potere», come diceva il commissario interpretato da Gian Maria Volontè nel film di Elio Petri “Indagine”. «Una malattia professionale, comune a molte personalità che hanno in pugno le redini della nostra società». La società, appunto: «Come cittadini rinunciamo a una parte dei nostri diritti per essere protetti dalle forze dell’ordine. Ma nel momento in cui un agente compie un atto di violenza contro un cittadino, com’è avvenuto nel caso Cucchi, che era inerme nelle mani del più forte, non è solo quel singolo agente a perdere legittimità. È lo Stato che diventa illegittimo. E se lo Stato abusa del potere, si incrina inevitabilmente la fiducia dei cittadini. Gli effetti negativi investono la democrazia», spiega Donatella Di Cesare. Lei, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma ha scritto di recente un libro sulla tortura, uno sulla violenza globale, intitolato “Terrore e modernità”, e uno sulla migrazione. «La polizia agisce in quei casi di oscurità giuridica, in cui, appellandosi alla sicurezza, interviene sulla vita del cittadino. È ambivalente, si situa in quella sfera dove è abolita la separazione tra violenza che pone il diritto e violenza che lo mantiene. In breve, il diritto sconfina nella violenza, e la violenza nel diritto. È la continuità inquietante tra il sovrano e il boia. Il mutamento recente della figura del boia da aguzzino spietato ad agente-eroe, carismatico e leale, non cambia i termini della questione. Semmai li aggrava». Non si tratta solo di un’anomalia italiana, sono coinvolte anche le altre democrazie occidentali. «Primi tra tutti gli Stati Uniti. L’uso eccessivo della forza e delle torture si concentra spesso contro le persone considerate marginali, quelle rispetto alle quali non ci si aspetta una critica dell’opinione pubblica», sottolinea Donatella Alessandra Della Porta sociologa alla Scuola Normale Superiore, autrice con Herbert Reiter di “Polizia e protesta” (Il Mulino, 2013) uno dei saggi più noti sul G-8 di Genova, dove evidenzia «il ruolo di una cultura che tende a privilegiare l’efficacia rispetto ai valori democratici, orientata alla chiusura verso l’esterno e per questo legata a un forte senso dell’impunità». Ogni potere ha bisogno di contrappesi e per contrastare il rischio di devianze serve l’innesto di valori diversi: «Formare spiegando che per svolgere bene il loro ruolo hanno bisogno di legittimazione da parte del cittadino, introdurre la trasparenza e la riduzione delle gerarchie interne, aprirsi alla società», evidenzia la professoressa Della Porta. I modelli ci sono, come quelli introdotti in Scandinavia o in Inghilterra. E anche la polizia italiana ha cercato di imparare dagli errori. Dopo la “macelleria messicana” della Diaz è nata la scuola per l’ordine pubblico: insegna ad agire usando “meno fumogeni e più etica”. «Deve essere chiaro che chi denuncia non è mai un traditore, e che chiunque compie un reato, a maggior ragione se è una persona in divisa, deve essere perseguito in maniera tempestiva», sottolinea Antonio Patitucci, segretario generale del sindacato Silp Cgil. Per lui le forze di polizia sono istituzioni sane, ma suggerisce: «Per migliorare nella difficilissima professione che svolgiamo sarebbe opportuno arricchire i corsi con una formazione sul piano psicologico». C’è però un’altra questione, che va ben oltre la mentalità del poliziotto o del carabiniere. Dopo la ferocia, dopo le botte contro i sovversivi o contro lo spacciatore, sono arrivati i depistaggi. Mattone su mattone, falso su falso, il sistema ha costruito il suo muro di protezione grazie alle coperture delle gerarchie. Una menzogna di Stato che nel caso Cucchi è durata nove anni. «Con le dichiarazioni del carabiniere Francesco Tedesco il muro si è abbattuto per la prima volta. Non era mai successo che qualcuno protagonista e sotto processo parlasse. C’è stato sempre uno spirito di corpo granitico, che non si poteva scalfire», spiega Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Cucchi. Alle istituzioni devono gestire quella che Max Weber definiva “violenza legittima”, cioè usare la forza per la sicurezza comune rispettando però le leggi. «Con un mandato così particolare è necessaria molta coesione interna, identificazione con il compito, altruismo con i colleghi. Doti che possono degenerare, se non c’è un rigoroso controllo da parte dei superiori», analizza Fabrizio Battistelli dell’Università Sapienza di Roma, che ha compiuto molte ricerche sulla sociologia dei militari. Un deficit quindi nella gerarchia. Eppure i codici interni sono chiari. Era il 1822 quando il Regolamento dei Carabinieri Reali definiva “da delinquente” infliggere percosse e maltrattamenti a un prigioniero. «L’ostentazione della prepotenza non può mai essere il volto di una democrazia» si legge oggi su “L’Etica del Carabiniere” diventato il testo di riferimento delle scuole dell’Arma. Ha contribuito a scriverlo Stefano Semplici, docente di etica sociale e filosofia morale a Tor Vergata. Lui carabiniere ausiliario nel 1982 ricorda con emozione la prima volta che ha varcato un portone di una caserma a pochi giorni dall’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «I meccanismi più efficaci per rompere l’omertà sono la certezza che i muri del silenzio sono destinati a crollare. E poi la consapevolezza che le istituzioni sono, al fianco dei cittadini per scoprire la verità e non per occultarla». Ma i cittadini cosa vogliono? Dal 2001 si ha la sensazione che la paura abbia generato una tolleranza verso gli abusi di potere delle forze dell’ordine. «Dall’11 settembre il modello dello “Stato di sicurezza” ha finito per imporsi modificando dall’interno la democrazia» constata Di Cesare. Bisognerebbe però chiedersi come si traduce poi questa sicurezza. «Molti pensano semplicemente alla propria difesa contro gli altri, non riflettono alla possibilità di essere vittime di un abuso di violenza». Secondo Battistelli «da particella oscura oggi l’insicurezza si sta trasformando in una massa che ci sovrasta»: una costruzione della minaccia che tutto giustifica in nome della logica dell’emergenza. E per la Di Cesare, si arriva così «al crimine che si annida nel cuore di tenebra di ogni potere»: la tortura, che nel nostro Paese non era riconosciuta fino a poco tempo fa nemmeno come reato. «Il contesto politico in cui viviamo oggi in Italia - nota Di Cesare - è quello di una vera e propria fobocrazia. Con questo termine intendo un dominio della paura». Il governo della paura, quello che può farci accettare la negazione dei diritti umani. Un esempio? «Il decreto Salvini, dove la migrazione viene trattata come una questione di sicurezza e spacciata per un crimine. Il Ministro dell’Interno riduce il caso Cucchi a due mele marce, evitando di commentare quella complicità gerarchica che ha permesso di occultare la verità». Colpa anche dei modelli trasmessi dai media e dalla tv: «Penso a tante celebri serie poliziesche: da una parte il poliziotto eroe e dall’altra i “nemici”, dipinti sempre a caratteri foschi, il terrorista, il criminale. Il poliziotto-eroe, il torturatore gentiluomo, non è un carnefice, ma quasi una figura salvifica, e può permettersi di infrangere ogni regola, pur di garantire sicurezza. La violenza appare allora quasi purificatrice. Come ciò possa coniugarsi con la democrazia è difficile da comprendere». Sembra di tornare alle parole di Kafka: «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano».

Stefano Cucchi, ma i giudici di allora non videro nulla? Scrive il 17 gennaio 2017 Daria Lucca, Giornalista, su "Il Fatto Quotidiano". Per fortuna c’è un giudice anche a Roma… e finalmente sette anni dopo viene scritta la prima parola seria sulla fine del giovane Stefano Cucchi con l’unica ipotesi accettabile degli eventi: omicidio (seppur) preterintenzionale. Merito soprattutto della determinazione e del coraggio della sorella Ilaria, non c’è dubbio. Una determinazione, quella di cercare e mostrare al mondo la verità, viceversa non attribuibile agli organi istituzionali che si sono occupati del caso. Ripercorriamo i passaggi principali. La sera del 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi viene arrestato per possesso di droga. I carabinieri che lo fermano, lo tengono in caserma fino alla mattina successiva. Quando Stefano compare davanti al giudice per la convalida dell’arresto, mostra già i primi segni di uno stato fisico che nel giro di pochi giorni lo porterà alla morte. Prima domanda, rivolta a chi di dovere con tutto il garbo consentito dalla gravità dei fatti: il giudice che se lo trovò davanti non notò nulla di insolito? Qualcuno obietterà che Stefano non denunciò il pestaggio. Ettecredo, dicono a Roma. Se ti hanno massacrato fino a romperti una vertebra e causarti complicanze neurovescicali e infine cardiache (poi fatali), probabilmente sei anche terrorizzato. Non ce la fai a denunciare niente e tantomeno nessuno. Seconda domanda, rivolta con meno garbo: i medici dell’Ospedale Pertini considerano abitudinario il fatto di trovarsi davanti pazienti che presentano lesioni da tortura (così le voglio chiamare) e non sentire la necessità di presentare denuncia? Terza domanda, la più necessaria in uno Stato di diritto: ma il procuratore del tempo, quando si trovò fra le mani l’esposto della famiglia Cucchi e si cominciò il primo esame dei fatti, non ritenne opportuno mettere sotto indagine coloro che, persino agli occhi dell’ultimo dei rimbambiti, erano visibilmente i primi sospettati? I carabinieri. Non so voi, ma io me la immagino la scena, i magistrati riuniti a discutere come proseguire: che cosa abbiamo qui? Un fermo per possesso di droga, detenzione in caserma per l’intera notte… mhmm. Certo, tutto è possibile, possono esserci stati interventi successivi della polizia penitenziaria, più difficile che sia stato il personale ospedaliero a menarlo (gli inquirenti parlano come mangiano quando nessuno li ascolta, ndr), ma a noi corre l’obbligo di indagare anche i primi che lo hanno avuto in custodia. E invece no. Invece il procuratore capo del tempo (quando ci sono di mezzo eventuali reati contestabili alle forze dell’ordine e oltretutto di questa gravità, le autorizzazioni le dà il capo) decise che si potevano prendere per buone le calunnie (ora così sono state definite) agli agenti penitenziari in servizio al tribunale di Roma e che loro, i primi che lo ebbero in custodia, potevano tranquillamente essere esonerati da qualsiasi responsabilità. Perché? Questo andrà chiesto, da chi di dovere, a chi prese quelle decisioni. Ma certo il capitolo non si può chiudere così, fingendo che adesso è stato tutto rimesso in piedi, nella giusta prospettiva. Un giovane uomo è morto mentre era nella custodia dello Stato. Nonostante la denuncia della famiglia, i custodi hanno continuato a mentire, accusando altri e cercando di insabbiare la verità. Due processi non sono riusciti a fare chiarezza. L’istituzione che doveva rendere giustizia alla vittima si sente esente da qualsiasi responsabilità? Aspettiamo questa risposta.

Telese: Me ne sono andato dal Fatto perché non voglio morire manettaro, scrive Chiara Sirianni il 5 luglio 2012 su Tempi. «Non ce l’ho con nessuno, ma la mia linea non è quella di Travaglio. È da venti giorni che parla di Napolitano come se fosse Totò Riina. Basta, la politica non è un virus contaminante». Ecco perché Luca Telese si fa il suo Pubblico. «Ero stufo di papelli, politologia, teoremi astrusi. A volte, invece che stare sul campo a scotennare i pochi superstiti, è importante accorgersi che la guerra è finita». Luca Telese è spavaldo, ora che ha ufficialmente divorziato dal quotidiano di via Orazio per approdare in edicola, da settembre, con una testata tutta sua. Del resto anche il Fatto quotidiano, creatura di Antonio Padellaro (direttore) e Marco Travaglio (vicedirettore e uomo icona) è nato da alcuni “dissidenti” dell’Unità (Furio Colombo in primis). E la ruota, prima o poi, gira. Pubblico sarà un giornale di 20-30 pagine, formato Berliner (leggermente più grande del tabloid, utilizzato soprattutto dai quotidiani francesi), molto colorato, pieno di disegni. Il modello di business sarà lo stesso del Fatto: gruppo di soci promotori che detengono il 51 per cento del capitale, per un investimento iniziale complessivo di 650 mila euro. Distribuito su quasi tutto il territorio nazionale, con tre centri stampa in Sardegna, a Milano e a Roma. Aspettative? «Se vendiamo diecimila copie, andiamo in pareggio. Se non vendiamo, chiudiamo». Quindici i redattori, con l’obiettivo di raccontare l’Italia della crisi, «dagli imprenditori suicidi agli operai bidonati da Marchionne». Nonostante non sia un buon momento per l’editoria (Nielsen registra -241 milioni di euro di investimenti pubblicitari nel periodo gennaio-aprile 2012 rispetto all’anno precedente), il campo di gioco è piuttosto affollato. Mentre i partiti di centrosinistra si preparano a rimescolarsi in vista delle elezioni del 2013, anche un altro giornalista “compagno” è alle prese con un debutto cartaceo nel prossimo autunno: si tratta di Piero Sansonetti, già condirettore all’Unità e poi di Liberazione, che ha in cantiere un tabloid, Paese, in distribuzione con alcune testate del Sud. Poi c’è il Manifesto, “salvato” dal decreto editoria approvato dal Senato.

Telese, col Fatto quotidiano non vi siete lasciati benissimo, stando al comunicato stampa con cui le hanno sarcasticamente augurato «buona fortuna». 

«Al Fatto eravamo divisi tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. Politicamente, a un certo punto, hanno preso il potere i croati. Parlo di Marco Travaglio e del suo gruppo. Non ho insultato nessuno: ho solo precisato che c’era una differenza di linea. In generale non ci sono stati scontri, anche perché in questi tre anni sono rimasto in redazione certo più di Marco. Faremo persino una partita di calcetto, Pubblico contro i colleghi del Fatto».

Sarà una partita appassionante, visto che in una recente intervista Travaglio ha detto: «A Telese non rispondo: preferisco ricordarmelo da vivo».

«In casi come questo c’è davvero poco da aggiungere. Fa ridere? Non mi pare. È spiritoso? Nemmeno. Intende dire che è come se fossi morto? Se sì, mi preoccupo per lui. Io invece gli auguro di fare un ottimo giornale, e di parlare di mafia finché avrà fiato per farlo. Io faccio un altro mestiere».

Si riferisce alle conversazioni telefoniche, pubblicate sul Fatto, tra Nicola Mancino e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio in relazione alla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra?

«È da venti giorni che il Fatto tratta la vicenda come se Napolitano fosse Totò Riina. È “giudiziarismo” giacobino, esasperato. Conduce alla non realtà. Il problema di Travaglio è l’antiberlusconismo tardivo, a oltranza. È come se nell’America odierna ci si ponesse il problema di liberare gli atolli dagli ultimi soldati giapponesi».

Eugenio Scalfari, fondatore ed editorialista di Repubblica, l’aveva predetto con un pizzico di sadismo: ora che non c’è più Berlusconi, Marco Travaglio avrà qualche problemino. 

«È l’ideologia del nemico. Il rischio è quello di recitare la commedia anche quando il sipario è calato. Marco è molto carismatico, ma è rimasto un po’ prigioniero del suo ruolo. Che qualcuno pensi di essere portatore di una verità rivelata a me, personalmente, inquieta molto. Contemporaneamente, Beppe Grillo è sembrato una facile via d’uscita: è un partito in forte ascesa? Sì. Ha bisogno di un quotidiano di partito? Diamoglielo».

Perché no?

«Che senso ha scagliarsi per anni contro un imprenditore televisivo per poi mitizzare un comico? Serve altro per fare politica. Non basta urlare a un microfono “siete tutti morti!”. Purtroppo in tempo di crisi tornano in auge i comici e le fattucchiere. Quando invece serve fare, non distruggere».

Ando Gilardi, uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, parlando del rotocalco Lavoro (organo della Cgil) si espresse così, riferendosi al prototipo di operaio da lui fotografato: «Si alzava la mattina troppo presto (…) e dopo troppe ore ecco che usciva e raggiungeva faticosamente casa, dove stanco morto cenava. Ora secondo la stampa illustrata di sinistra quel disgraziato, prima di andare a letto, avrebbe dovuto leggere un giornale che gli parlava della sua vita? Dio remuneri con la Gazzetta rosa tutta la stampa sportiva che è la sola che ha fatto allora, e spero continui a fare, qualcosa di utile per i lavoratori». È un rischio? La gente vuole solo evadere dalla crisi o vuole essere ritratta?

«C’era un bisogno, almeno per me, di puntare il riflettore sull’Italia che soffre. Vorrei raccontare storie di coraggio, di persone che pur nella crisi reagiscono, senza stipendio, senza paracadute. Di certo sarà un giornale di sinistra. Parafrasando Hollande, il giornale del cambiamento. Perché per uscire dalla crisi occorrono soluzioni. I cosiddetti tecnici si sono rivelati dei totali incompetenti, e sento l’esigenza di difendere lo stato sociale da un assalto che si compie togliendo i diritti ai cittadini, dandoci in pasto all’antipolitica».

E qualora i vendoliani di Sel rientrassero in Parlamento, voi accettereste un finanziamento pubblico?

«Vogliamo abbonati e lettori: ci basiamo su quelli, anche perché tutti i giornali finanziati sono falliti. Bisogna aspettare due anni, è rischioso. Stiamo presentando il giornale ovunque: andiamo ai circoli Idv, passando per Fli e le feste del Pd. Su Lusi e Penati andremo giù col Napalm, perché siamo al di là del bene e del male, siamo nel campo della criminalità. Ma con grande rispetto per chi cucina i cappelletti o fa volontariato, come i militanti Pd di Bagnacavallo, con cui parlavo qualche sera fa. Una signora, ostetrica, mi ha chiesto: vorrete mica criticare Bersani? Certo che sì. Serve un Bersani meno bollito».

Per esempio un Nichi Vendola?

«Un giornale non fa politica: suggerisce alla politica un’agenda. La mia sarà una posizione molto laica, dato che non ho tentazioni. Conosco Vendola da anni, e sono libero di dire quando sbaglia e quando la fa giusta. Conosco bene Di Pietro: su personaggi come Scilipoti lo critichiamo, se propone un referendum utile, come quello coltro la riforma Fornero, lo sosteniamo. Ho conosciuto bene pregi e difetti dei politici, e non ho il complesso del vampiro. È Travaglio quello che considera la politica come una sorta di virus contaminante».

Nina Moric contro Marco Travaglio: "Prima manettaro, poi garantista e infine inquisitore", scrive il 5 Novembre 2016 Libero Quotidiano". Marco Travaglio riesce nella mirabile impresa di farsi umiliare da Nina Moric, che lo fa a fettine con una precisione che, onestamente, non era così semplice attendersi. Lo spunto arriva da "un tale Andrea Paolini", così lei scrive, che sul Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo tutto dedicato alle battute infelici della Moric. "Io rispetto il parere degli altri - scrive Nina -, ma un giornalista dovrebbe usare aggettivi soltanto quando questi siano oggettivi o altrimenti specificare che si tratta di opinioni personali di chi scrive". E così, dopo la premessa e qualche insulto gratuito, la Moric demolisce Marco Manetta, alias direttor Travaglio. Lo definisce "una persona confusa, è diventato celebre per le sue accuse a Berlusconi e il suo scarso garantismo riguardo tutti i processi di Silvio". Ma, nota la Moric, "ad un certo punto con un cambiamento di idee da far impallidire Paolo Brosio, è diventato un garantista, uno che diceva che il carcere fosse per i criminali veri". Si parla della campagna condotta anche da Travaglio per la grazie all'ex marito della Moric, Fabrizio Corona. "Lanciò una vera e propria campagna per la sua liberazione - ricorda la croata -, cosa che a me non è dispiaciuta, sia chiaro, salvo poi sul giornale da lui diretto, pubblicare delle vere e proprie inquisizioni su Fabrizio favorendone il ritorno in carcere".

Manettari con tutti gli altri, garantisti coi Cinque Stelle: che brutta fine, Travaglio & co, scrive il 16 giugno 2018 "L'Inkiesta". Con l'ascesa al governo di Di Maio, i censori del Fatto quotidiano sono d'improvviso diventati cauti e garantisti. Salvini, poi, diventa “per distacco il politico più bravo”. La verità? I giornalisti - com'è normale che sia - hanno valori e convinzioni: ammetterlo sarebbe una bella prova d'onestà. Ci vuole fisico per recitare la parte del giornalista censore, sempre concentrato a contare i brufoli del potere, intento a cogliere ogni piccola bava, ogni sfumatura sbagliata, ogni frammento di inopportunità di chi governa e poi, improvvisamente, ritrovarsi ad avere al governo il partito indicato da sempre come unica soluzione possibile di tutti i mali. Ci vogliono le spalle larghe per non mostrare cedimento, per continuare a rimanere affilati e cattivi e riuscire a separare la speranza dall’analisi con onestà intellettuale e invece il Movimento 5 Stelle al governo (o meglio, a fare il cane da passeggio di Salvini mentre Salvini governa e Conte viene usato come controfigura nelle scene più pericolosamente buone e istituzionali) tra le sue conseguenze registra la caduta degli dei del giornalismo giustizialista mai disposto a perdonare che ora diventa iper garantista e insolitamente cauto. Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo. Se vi serve provate a ricordare anche tutti gli scoop sui cugini di Renzi e Berlusconi, sul loro panettiere, sulla fedina penale dei parrucchieri. Bene. Oggi Il Fatto Quotidiano, in riferimento all’inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ha visto coinvolto tra gli altri anche Luca Lanzalone (che no, non è solo presidente dell’Acea ma è soprattutto uno degli uomini più vicini a Casaleggio nonché una delle penne dello statuto del Movimento 5 Stelle) scrive: “Diversamente da altri partiti, M5S e Lega non gridano al complotto togato, all’accanimento giudiziario o alla giustizia a orologeria. Salvini però difende Parnasi, dicendo che è una persona perbene, anche se dalle carte risulta tutt’altro. Di Maio ripete che nei 5Stelle chi sbaglia paga e attiva probiviri. Ma se i due azionisti del governo Conte vogliono dimostrarsi diversi dagli altri, non possono accontentarsi di così poco. Salvini, ora che Parnasi è in carcere per corruzione, deve restituirgli i 250 mila euro versati alla onlus leghista. E pubblicare nomi e importi degli altri donatori. I 5Stelle devono cacciare Lanzalone da Acea, dopo aver preteso l’elenco di tutti gli incarichi professionali ricevuti da quando lavora per loro, per verificare e stroncare altri eventuali conflitti d’interessi. E guardarsi da figure ibride come la sua, destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione.”

Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo.

In pratica il direttore censore de Il Fatto Quotidiano dice che devono bastarci i probiviri del Movimento (quelli che per anni dalle pagine de Il Fatto hanno perculato ritenendoli inutili in politica) e ci informa delle attenuanti di cui gode Lanzalone poiché “figure ibride come la sua” sono “destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione”: insomma, dice Travaglio che poveretto Lanzalone è pieno di cattivi lì fuori. In compenso dalle pagine degli organi di stampa vicini al M5S è tutto uno strillare che il costruttore Parnasi “ha dato soldi a tutti i partiti”. Curioso anche questo: sono anni che si ripete che i corruttori corrompono chi governa (e non quelli comodi all’opposizione) e qualcuno se n’è accorto oggi. Meglio tardi che mai. Ma non è il caso specifico che ci interessa: il nuovo governo giallo-verde ha sdoganato una volta per tutte la figura dei funambolici equilibristi anche tra quelli che rivendicavano la propria nettezza di posizioni e di contenuti. Andrea Scanzi (sempre per Il Fatto Quotidiano) ci informa che il razzismo di Salvini non esiste, che l’Italia “pone un problema reale” e che “Salvini è il politico più bravo, per distacco, del lotto. Continua a essere sottovalutato in maniera puerile e miope. Oppure si confonde la bravura con la simpatia”. Chi abbia parlato della simpatia di Salvini in questi giorni di melmosa politica che tiene in ostaggio delle persone perché incapace di trattare con l’Europa non è dato saperlo. E siccome Scanzi ci dice che Salvini “è bravo” (in cosa non è dato saperlo, visto che anch’io vincerei i 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara ma non mi aspetterei certo gli applausi dello stadio) nel polpettone dei suoi editoriali ci ricorda che ci "sono gli Zucconi a vivere sull’Iperuranio di Stocazzo” e infila un paio di righe per prendere per il culo Nardella e “le Ascani” (che sono dei tipi, evidentemente, alla Travaglio). Così oltre alla bruma di un tempo in cui Giulio Regeni conta meno dei rapporti con l’Egitto, in cui i migranti si dilettano in pacchie e crociere, in cui gli onesti finiscono agli arresti, in cui i giornalisti che cercano i soldi di Salvini vengono trattenuti in caserma senza avvocati, in cui la difesa d’ufficio viene bollata come “business degli avvocati” e in cui il presidente del consiglio vale meno del segretario di un partito al 17% ci tocca sorbirci anche la caduta degli dei del giornalismo senza sconti che lamentano la troppa attenzione dei colleghi. Il punto forse è che il giornalismo che deve essere asettico è una cagata pazzesca che ognuno usa pro bono sua: i giornalisti hanno dei valori e delle convinzioni (che vi piaccia o meno) che non sono negoziabili nemmeno di fronte al potere di turno e quindi inevitabilmente hanno delle posizioni. Con una differenza sostanziale: ammetterle sarebbe una bella prova di maturità e di onestà intellettuale.

Travaglio punito dal giudice, scivola sulle intercettazioni. Multa più risarcimento di 30mila euro per diffamazione Accusò una giornalista del Tg1 di dare cifre «a casaccio», scrive Stefano Zurlo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". L'aveva definita, senza tanti complimenti, la «minzolina di complemento». E l'aveva messa alla berlina, spiegando come il servizio firmato da Grazia Graziadei per il Tg1, sul delicatissimo tema delle intercettazioni telefoniche, fosse zeppo di cifre e numeri ubriachi e campati per aria. Non era così, anche se il pezzo confezionato per il telegiornale delle 20 conteneva in effetti alcuni errori. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2010 hanno passato il segno. Per questo, dopo otto lunghissimi anni, il noto editorialista è stato condannato per diffamazione: la pena, una multa più un robusto risarcimento di 30mila euro a favore della Graziadei, è poco più che simbolica, anche perché sul caso pende la scure della prescrizione, ma in ogni caso per il celebre scrittore è arrivata la condanna. Un verdetto forse inatteso, che giunge dopo un braccio di ferro quasi surreale all'interno della magistratura: per ben tre volte tre giudici diversi di Roma, tre gup, avevano disposto il non luogo a procedere e chiuso il match. E altrettante volte la Cassazione ha annullato quei provvedimenti e riaperto la partita. Quasi un record, con una battaglia sui confini del diritto di critica e di cronaca. «Ieri sera - aveva attaccato Travaglio - il Tg1 per supportare le balle del Banana al Tg4 sulle intercettazioni, ha sparato cifre a casaccio spacciandole per cifre ufficiali del ministero della giustizia». Poi, andava avanti, «ecco il dato farlocco: gli obiettivi messi sotto esame ogni anno sono 130mila». Insomma, per il Fatto Quotidiano il Tg1, allora diretto da Augusto Minzolini, aveva montato la panna descrivendo un Paese immaginario in cui tutti sono intercettati e sotto il controllo di una sorta di Grande Fratello giudiziario. Peccato che il numero dei bersagli «spiati» non fosse stato detto a vanvera ma esatto. Anche se, naturalmente, ogni persona può avere più utenze, fisse o mobili, e dunque certe moltiplicazioni facili e generalizzazioni vanno prese con le pinze. E possono provocare illusioni ottiche e percezioni lontane dalla realtà. Travaglio però aveva contestato proprio quel dato, corretto, e su quello aveva costruito una critica feroce, fino a ridicolizzare l'autrice del servizio. Graziadei aveva infatti messo in evidenza un elemento sorprendente: «Sono pochissime le inchieste di mafia basate solo su intercettazioni». «Sarebbe interessante sapere quante sarebbero finite nel nulla - aveva replicato lui - se non si fossero avvalse anche di intercettazioni. Ma per saperlo ci vorrebbe un telegiornale. Pretesa assurda, trattandosi del Tg1». Per la Cassazione, che ha gettato le fondamenta su cui oggi è scattata la condanna, il «teorema» di Travaglio non sta in piedi, proprio perché altera il punto di partenza: «Una volta accertato che il numero degli obiettivi sottoposti a controllo su base annua era veritiero (e la notizia non poteva che avere la fonte nel competente ministero) ne seguiva che alla giornalista era stato attribuito, contrariamente al vero, l'uso di cifre individuate arbitrariamente («a casaccio») e la loro falsa attribuzione alla fonte ministeriale, con lesione della sua immagine professionale». Travaglio è andato troppo in là. E dopo un ping pong davvero unico, ecco ora la condanna. Anche se quasi al novantesimo dei tempi della giustizia.

Renzi: "Prima condanna a Travaglio per aver diffamato mio padre". L'annuncio del senatore pd su Facebook: "Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia". Il processo per 6 articoli, tre ritenuti diffamatori dal Tribunale di Firenze, scrive il 22 ottobre 2018 "La Repubblica". "Una notizia personale. Oggi è arrivata la prima decisione su una (lunga) serie di azioni civili intentate da mio padre, Tiziano Renzi, nei confronti di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano". Lo scrive, su Facebook, il senatore del Pd Matteo Renzi. "La prima di oggi - prosegue - vede la condanna del direttore Travaglio, di una sua giornalista e della società editoriale per una cifra di 95.000 euro (novantacinquemila). Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni. Volevo condividerlo con voi. Buona giornata, amici". Il processo civile che ha visto contrapporsi Tiziano Renzi e Il Fatto Quotidiano era incentrato su 6 articoli. Il Tribunale di Firenze ha stabilito che per tre articoli non sussiste diffamazione, e quindi ha assolto il quotidiano. Mentre lo ha condannato per altri tre articoli pubblicati tra fine 2015 e inizio 2016.  Due editoriali e il titolo di un terzo articolo. Nel primo, intitolato "I Babboccioni", parlando dell'indagine in corso a Genova sulla azienda controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi Chil Post, Travaglio aveva usato il termine "fa bancarotta"; nel secondo articolo, dal titolo "Hasta la lista" Tiziano Renzi era stato accostato per "affarucci" a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio invece il titolo di un articolo apparso on line inerente Banca Etruria e Tiziano Renzi firmato dalla giornalista Gaia Scacciavillani. Tiziano Renzi aveva chiesto danni per 300 mila euro. 

Lo Stato di diritto contro Travaglio, scrive il 24 ottobre 2018 Democratica. La campagna mediatica giustizialista di Marco Travaglio subisce una brusca battuta d’arresto. Il paradigma giornalistico del “diamogli addosso” di Marco Travaglio non ha passato l’esame del Tribunale di Firenze. L’esito finale della sentenza che condanna il Fatto Quotidiano a pagare 95000 euro al padre di Matteo Renzi, Tiziano, può essere considerato come l’albero sul quale si è schiantato a tutta velocità il giustizialismo usa e getta messo in campo nella campagna mediatica travagliesca contro Renzi. Sulla sentenza che condanna Travaglio e dà ragione a Tiziano Renzi c’è molto da dire. Innanzitutto bisognerebbe dire basta alle campagne di odio politico svincolato dai fatti. Chi tenta di collocare il baricentro del discorso pubblico partendo dal garantismo diviene egli stesso oggetto di attacco. Succede di frequente: si viene inseriti nella black list della Casta, si viene classificati come servi del potere, persino scribacchini mercenari. Intanto Travaglio ha preannunciato che ricorrerà in appello perché è sicuro del fatto che il suo giornale abbia scritto la verità, nonostante i giudici civili, almeno in parte, gli abbiano dato torto. Una mossa lecita se non fosse accompagna dalla reiterazione dell’attacco fine a se stesso: “Cercheremo di farci ridare i soldi. Se le balle, poi, fossero reato, Renzi sarebbe all’ergastolo, quindi starei tranquillo al posto suo. Noi le balle non le abbiamo mai raccontate”. Ora più che mai Marco Travaglio appare un apprendista stregone che oggi paradossalmente incappa in una sentenza di quella magistratura che egli ha eletto al vertice del sistema. L’utilizzo delle notizie maneggiate, quelle prese e ricostruite artificiosamente, l’uso di certe parole offensive, finanche la storpiatura dei nomi per canzonare l’avversario: il direttore del Fatto ripensi al suo modo di fare giornalismo. Ma l’informazione politica, anche quella schierata, non dovrebbe essere altro?

Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha anche condannato il padre dell'ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli - firmati con Gaia Scacciavillani - sono stati ritenuti perfettamente veri, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 22 ottobre 2018. Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri. “In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta. Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi”. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democratico quali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzo sulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”. Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settoreoutlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio.

Ha ragione (sic!) Travaglio, scrive Piero Sansonetti il 24 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Beh, stavolta mi tocca dar ragione a Marco Travaglio. Ieri ha scritto un articolo appassionato, sul Fatto, per difendere se stesso e il suo giornale da una sentenza di condanna inflittagli dal tribunale per via di una querela che si era beccato da Tiziano Renzi, il padre del leader del Pd. Nessuno può negare che il Fatto da qualche anno abbia scelto Matteo Renzi, i suoi genitori, Maria Elena Boschi e chiunque altro abbia frequentazioni con l’ex premier, come bersagli fissi delle sue polemiche. A volte sensate, spesso costruite su notizie (non sempre vere) fatte recapitare da alcune Procure ai suoi cronisti (penso alla campagna battente su Consip, fondata anche su alcune false informazioni e conclusasi solo quando la Procura di Roma ha bloccato i rubinetti della fuga illegale di notizie proveniente da Napoli). E nessuno può togliere al Fatto la colpa o il merito di avere in questo modo (anche con metodi giornalistici che io francamente non condivido e che considero la quintessenza del giustizialismo) contribuito largamente alla pesante sconfitta politica di Matteo Renzi, al dimezzamento elettorale del Pd, al trionfo delle forze penta- leghiste. Ma tutto questo può essere – e a mio giudizio deve essere – il terreno di una battaglia politica e di cultura. Le Procure non c’entrano niente. E’ vero che né la politica, né tantomeno il giornalismo, sono stati capaci di contrastare le campagne del Fatto, da posizioni garantiste e liberali. Anzi, spesso gli sono corsi appresso. Ma questa circostanza non è colpa del Fatto e comunque in nessun modo investe i compiti delle Procure. Sarebbe bene metterselo in testa una volta per tutte: le Procure non possono e non devono svolgere una funzione di “surroga” della politica. Se la politica è assente è assente: non può un altro potere costituzionale assumerne i compiti. Altrimenti si realizza un corto circuito e questo cortocircuito comporta un disastro, perché riduce le libertà di tutti. E innanzitutto riduce la libertà di stampa. Una cosa è una polemica, dove si può prevalere o soccombere o nessuna delle due cose. Una cosa è una sentenza che ti manda in prigione o riduce drasticamente le tue disponibilità economiche. Travaglio su questo ha del tutto ragione. E’ probabile che sul Fatto sia uscita qualche imprecisione sugli affari economici del papà di Renzi, ed è anche molto probabile che queste imprecisioni fossero funzionali a una polemica esagerata nei confronti dello stesso papà, in quanto papà, e cioè che mirassero a danneggiare il figlio. Ma se ogni imprecisione nelle polemiche, anziché combattuta con l’arma della smentita e della rivalsa polemica, finisce con una sentenza severissima del tribunale, succede esattamente quello che denuncia Travaglio: chi svolge questo mestiere, cioè il giornalista, se mai tra le sue intenzioni ci fosse quella di criticare il potere, si rassegnerà a lasciar perdere e a diventare quieto e mansueto. Il potere non perdona, sa come intimidire, e per farsi valere usa la magistratura. Talvolta, come in questo caso, sono i politici o i parenti dei politici a usare la magistratura. Talvolta – io almeno ho questa esperienza – sono direttamente i magistrati a praticare lo stesso metodo. E’ vero che i giornalisti che criticano i magistrati sono molto meno di quelli che criticano i politici, ma quei pochi sono a rischio altissimo, anche perché i politici spesso le cause le perdono, i magistrati assai raramente. Travaglio alla fine del suo articolo propone la riforma del sistema delle querele e delle cause per risarcimento. Credo che abbia ragione da vendere stavolta. Magari dovrebbe tenere conto, nei prossimi anni, del fatto che tutto questo succede anche per un eccesso di potere assunto dalla magistratura. E dovrebbe ragionare sulla possibilità che questo eccesso di potere sia nato anche in seguito al “fiancheggiamento” della stampa giustizialista. Però è probabile che questa mia speranza sia eccessiva.

Mi sono fatto un paio di domande sulla condanna di Travaglio. Nessuna soddisfazione nel ricorrere alla magistratura nei confronti di qualcuno che mi sta sullo stomaco, scrive Andrea Marcenaro il 24 Ottobre 2018 su Il Foglio. Se c’è una cosa che mi fa onore è non aver mai voluto perdere tempo a chiamare alcuno dei miei amici anziani, ma che furono feroci ai loro tempi, per organizzare l’avvelenamento, o l’omicidio semplice, o peggio ancora lo squartamento di Marco Travaglio. Mai, non mi è nemmeno mai venuto in mente. Così ieri, quando ho visto che Travaglio stesso era stato condannato da un tribunale a pagare 95 mila euri per aver sputtanato uno dei mille che ha sputtanato, posso dirvi in tutta sincerità di essermi domandato, primo, se, come persona che aborre l’intervento della magistratura come risolutrice di ogni questione, avrei fatto un’eccezione per qualcuno che mi stava sullo stomaco. Mi sono risposto che non dovevo. E che non l’avrei fatta. Secondo, se avrei provato comunque, al di là della ragione, una per quanto piccola soddisfazione nel profondo del cuore per quella condanna. No, mi sono risposto per la seconda volta, non provavo alcun compiacimento. Neppure un’ombra. E non ho nulla di cui vantarmi, intendiamoci bene, sono fatto così. Dio, però, quanto mi piace sparare cazzate come queste.

Marco Travaglio sbancato in tribunale da Tiziano Renzi: 95mila euro sono troppi, da rivedere la legge, scrive Renato Farina il 24 Ottobre 2018 su "Libero Quotidiano". A Berlusconi dev’essersi sollevato il morale, nonostante i guai tirolesi, per l’umile e insieme dignitosa domanda d’ingresso di Marco Travaglio nel club del quale il Cavaliere è da circa 25 anni presidente. Il circolo si chiama “A me mi hanno rovinato i giudici”. Leggendo l’editoriale di ieri del direttore sulla prima pagina del Fatto quotidiano siamo messi davanti a due avvenimenti antipatici e ad uno stato d’animo atto a suscitare nel lettore un moto di solidarietà. Cominciamo dai fatti. È capitato che il Tribunale di Genova, in sede civile, abbia condannato per diffamazione Travaglio e una sua cronista ad un risarcimento di 95mila euro a ristoro di Tiziano Renzi, il papà di Matteo. Questa sentenza - ci racconta il salassato con una prosa meno satirica del solito - viene dopo un’altra decisione tribunalizia, ancora più pesante: da rifondere con 150mila euro sono in questo caso i giudici di Palermo maltrattati dal Fatto per aver assolto il generale Mario Mori in uno dei tanti processi cui è stato sottoposto. In entrambi i casi siamo al primo grado di giudizio, e non è stata deliberata l’esecutività dell’esborso. Non entriamo nel merito delle sentenze. Travaglio si difende con cipiglio, e le giudica sbagliate fino allo scandalo. Per quanto ci riguarda, noi abbiamo una stanza dei trofei delle assurdità. Ci è capitato di essere condannati per aver scritto che un brigatista rosso aveva partecipato a tre assassinii, mentre pare fossero solo due, e gli avremmo così rovinato la reputazione. In un’altra vicenda, un imam espulso dall’Italia e restituito al Marocco in quanto teorico del terrorismo, è stato gratificato su ordine del Tribunale di 100mila euro: glieli ha dovuti fornire Libero per non averlo trattato come un noto pacifista. La speranza è che se li sia bevuti o spesi a donne, ma temiamo siano stati impiegati per far danni.

UMORE AMARO. Travaglio dice che se va avanti cosi, tra Tribunali e avvocati, il Fatto rischia di chiudere. «Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali “a strascico” sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze». Chiede soccorso ai lettori, a questo punto. Ci risparmia di associarsi alla lagna di quelli che chiedono aiuto al sindacato unico e all’Ordine dei gazzettieri, entrambi enti non solo inutili ma dannosi. E di questo Dio gliene renderà merito: guai a invocare l’aiuto di Belzebù. A nostra volta non gli faremo il torto di fingerci accorati per lui e il suo giro. Siamo stati costretti dalla nascita, 18 e rotti anni fa, a grattarci le rogne da soli, e se le sentenze dei Tribunali ci hanno spennato, a zittirci hanno provato con qualche successo i consigli disciplinari della sventurata categoria, senza trovare sostegno da chicchessia. Amen.

Dicevo dei sentimenti toccanti che traboccano dallo scritto di Travaglio e quasi annegano gli eventi. Si avverte nel giornalista torinese l’umore sconfortato e amaro del cornuto, cui tocca persino versare l’assegno alimentare alla magistratura così amata eppur fedifraga.

REATI DI OPINIONE. Nessuno può mettere in dubbio la nostra cordiale partecipazione al lutto, avendo Libero dedicato al tema di tradimenti e ripicche una fortunata serie, dove Feltri non ha lesinato spigliati consigli per tirare su il morale agli sventurati. Ma uno buono Travaglio lo dà da solo a se stesso, associandosi a una causa che vede il nostro quotidiano, e il direttore in particolare, ingaggiato dall’età di Gutenberg in una battaglia senza quartiere. Quella per dare una regolata seria alle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa. Logico che chi sbaglia deve pagare. Ogni categoria professionale, dal medico al meccanico al giornalista, è esposta alla possibilità di errori. Che debba risarcire i danneggiati è ovvio, anche se da questa ovvietà sono immuni i magistrati, nonostante un referendum che nessuno ha osato dal 1988 applicare davvero. Occorre però misura e buon senso. Nel caso delle pretese diffamazioni - oltre alla depenalizzazione - occorre predisporre un tariffario certo e non assassino della libertà di stampa nel definire l’entità del danno, oltre a prevedere forme diverse o sostitutive del ristoro in pecunia, che vadano dalla rettifica alle scuse pubbliche. Sarebbe davvero il caso che questo “governo del cambiamento” mutasse il codice sfoltendolo dai reati di opinione e vilipendio, e impedendo che si punisca una parola esagerata come un omicidio stradale. Renato Farina

Stangata su Travaglio: dovrà versare altri 50mila euro al padre di Renzi. A fine ottobre fu condannato a pagare 95mila euro per aver diffamato Tiziano Renzi. Oggi un'altra sentenza a sfavore: dovrà versargli altri 50mila euro, scrive Sergio Rame, Venerdì 16/11/2018, su "Il Giornale". "Nella seconda causa Tiziano Renzi contro Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano è stato nuovamente condannato, stavolta per un intervento televisivo". Ad annunciarlo sul proprio profilo Facebook è stato Matteo Renzi. È la seconda condanna che il giornalista riceve nel giro di un mese. Adesso dovrà pagare altri 50mila euro. "Sono ovviamente contento per mio padre - ha commentato l'ex presidente del Consiglio - bisogna sopportare le ingiustizie, le falsità, le diffamazioni. Perché la verità prima o poi arriva". "Il tempo è galantuomo". A guardare il passato Renzi è dispiaciuto. Ma adesso che Travaglio è stato nuovamente condannato non nasconde la propria soddisfazione. "Ci sono dei giudici in Italia - è il commento affidato a Facebook - bisogna solo saper aspettare". E per la seconda volta che un giudice ha dato ragione al padre dell'ex premier piddì. La prima volta era successo il 22 ottobre quando Travaglio, una sua collega e la società del Fatto Quotidiano erano stati condannati a sborsare 95mila euro a Tiziano Renzi. In quell'occasione matteo aveva avvertito: "È solo l'inizio...". E così è stato. "Non si può diffamare una persona senza essere chiamati a risponderne - commentano ora dal quartier generale del Partito democratico - è una lezione che spero impari anche Marco Travaglio". Mentre Travaglio chiedeva aiuto ai propri lettori lamentando che il pagamento dei 95mila euro avrebbero mandato il giornale in rovina, i giudici hanno portato avanti nuove cause. E oggi è arrivata un'altra sentenza che obbliga il Fatto Quotidiano a pagare altri 50mila euro. "Verrà presto il tempo in cui la serietà tornerà di moda - ha scritto oggi matteo Renzi - hanno rovesciato un mare di fango addosso. Nessun risarcimento ci ridarà ciò che abbiamo sofferto ma la verità è più forte delle menzogne". Quindi la stoccata: "Adesso sono solo curioso di vedere come i Tg daranno la notizia". Al Nazareno sono in molti ad applaudire alla sentenza. E non manca chi si mette a bacchettare il direttore del Fatto Quotidiano. "Diffamare e raccontare fake news non è giornalismo, non è cronaca e quindi è giusto che abbia un prezzo da pagare - ha detto il senatore dem Dario Stefano - Travaglio inizi a fare economie per onorare la Giustizia".

Matteo Renzi, 16 novembre 2018: "Nella seconda causa Tiziano Renzi contro Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano è stato nuovamente condannato, stavolta per un intervento televisivo. Travaglio condannato due volte nel giro di un mese, insomma: dovrà pagare altri 50.000€. Sono ovviamente contento per mio padre, ben difeso dall’avvocato Luca Mirco. Ma soprattutto vorrei condividere con voi un pensiero: bisogna sopportare le ingiustizie, le falsità, le diffamazioni. Perché la verità prima o poi arriva. Il tempo è galantuomo. Ci sono dei giudici in Italia, bisogna solo saper aspettare. E verrà presto il tempo in cui la serietà tornerà di moda. Ci hanno rovesciato un mare di fango addosso. Nessun risarcimento ci ridarà ciò che abbiamo sofferto ma la verità è più forte delle menzogne. Adesso sono solo curioso di vedere come i TG daranno la notizia. Buona giornata a tutti".

L'impunità (dei giudici) è l'origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti su Il Dubbio, il 9 luglio 2016. Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo "Il Fatto". E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la "chimica" (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due "elementi" così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell'indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il "Fatto" è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all'indipendenza che fonda quella autolimitazione dell'indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull'indipendenza dal potere la propria - volontaria - rinuncia all'autonomia, e cioè all'indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il "Fatto". E si auto-colloca in una posizione di subalternità all'ideale - quasi religioso - del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l'hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l'Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell'aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). "Il Fatto" però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l'accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c'è assoluzione. Per capirci, c'è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all'imputato di rinunciare alla prescrizione e così' si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi - ovviamente - si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c'era e dunque era doveroso svolgere l'inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa "Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi". In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell'indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell'obbligatorietà dell'azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent'anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l'unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il "Corriere della Sera" parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la "Stampa" ha calcolato in 7000 all'anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall'Anm?

La vera anomalia italiana: l'impunità di tutti i giudici. Un referendum promosso dai radicali punta a riconoscere la responsabilità civile dei magistrati: in vent'anni sono stati ritenuti colpevoli per danni ai cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo, Domenica 18/08/2013, su "Il Giornale". Attualmente i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili da un punto di vista sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino nell'esercizio delle loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva abrogato gli «articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della responsabilità civile. Ciò in seguito all'onda emotiva sollevata dalla incredibile vicenda di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non dell'unico) errore giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse forte e chiara in quell'occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale e i «sì» vinsero con l'80,20 per cento anche grazie all'impegno dello stesso Tortora, che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad altri non toccasse quello che era capitato a lui per un'incredibile somma di equivoci, casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni fa, sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge Vassalli, infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia» possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento, ma agendo non contro il magistrato bensì contro lo Stato, che può poi rivalersi a sua volta contro il magistrato colpevole nella misura di un terzo. Non può però dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, ciò che di fatto esclude gran parte delle fattispecie. In pratica si può dar luogo a risarcimento solo in casi eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che rende di fatto non esercitabile l'azione risarcitoria da parte dei cittadini. Il mancato riconoscimento della responsabilità civile dei giudici è tra l'altro costata all'Italia anche le censure della Corte di Giustizia dell'Ue. La questione è da anni oggetto di un dibattito acceso tra i fautori della responsabilità, che vedono in questo principio un inderogabile segnale di civiltà, e coloro che invece vedono come il fumo negli occhi la possibilità che un magistrato che sbagli possa rimborsare il cittadino vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici» vede infatti il referendum come l'ennesima minaccia all'indipendenza del potere giudiziario e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la magistratura goda di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un emendamento alla legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio nelle funzioni giudiziarie anche ad alcuni casi di «interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile che porta all'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un'anomalia tutta italiana.

Quando Oriana diceva: Impuniti e impunibili, sono i magistrati che oggi comandano, scrive il giornale il 15 settembre 2013. I magistrati che sappiamo. I sindacati che da sessant’anni sono un feudo personale di Karl Marx. I banchieri che in barba al Popolo custodiscono i miliardi dell’ex Pci. I giornali che sognano di vederlo penzolare a capo in giù da un gancio di piazzale Loreto. Le televisioni che egli possiede invano. (…) L’Olimpo Costituzionale che, non avendo con lui debiti di gratitudine, ha sempre fatto di tutto per dimostrare che non lo può soffrire. E la stessa Confindustria che al solito va dove la porta il vento dei suoi calcoli finanziari, sicché non meravigliarti se il suo presidente si presenta come un Agnelli alla festa che la Cgil ha organizzato a Serravalle Pistoiese e gli operai lo applaudono nel modo in cui applaudivano Togliatti o Berlinguer. Ferito, infine, dal fatto di non appartenere alla mafia politica e d’essere in quel senso un parvenu. I parvenus, cioè i new-comers, i self-made men, piacciono in America dove la moderna democrazia è stata inventata. Non in Europa dove neanche la Rivoluzione Francese servì a spengere l’asservimento psicologico al concetto di aristocrazia. D’accordo, la storia d’Europa è colma di parvenus e new-comers e self-made men giunti al potere. Ha ragione Bill Kristol quando sul suo Weekly Standard chiede al Congresso di condurre un serio dibattito per distinguere l’indipendenza dei giudici dall’arroganza del potere giudiziario. (…) Pensi all’Italia dove, come ha ben capito la sinistra che se ne serve senza pudore, lo strapotere dei magistrati ha raggiunto vette inaccettabili. Impuniti e impunibili, sono i magistrati che oggi comandano. Manipolando la legge con interpretazioni di parte cioè dettate dalla loro militanza politica e dalle loro antipatie personali, approfittandosi della loro immeritata autorità e quindi comportandosi da padroni come i Padreterni della Corte Suprema statunitense… Chi osa biasimare o censurare o denunciare un magistrato, in Italia? Chi osa dire che per diventar magistrato bisognerebbe essere un santo o almeno un campione di onestà e di intelligenza, non un uomo di parte e di conseguenza indegno d’indossare la toga? Nessuno. Hanno tutti paura di loro. Anche quando subiscono un torto palese, una carognata evidente, si profondono in inchini di deferenza reverenza ossequio. «Io-ho-fiducia-nella-Legge. Io-ho-fiducia-nella-Magistratura…».

L'autogiustizia dei giudici: chi sbaglia non paga mai. Nei procedimenti disciplinari al Csm le condanne sono irrilevanti. Così le toghe mantengono posto (e stipendio), scrive Lodovica Bulian, Venerdì 24/03/2017, su "Il Giornale". C'è chi si dimentica di liberare un imputato entro i termini previsti, come quel poveretto che è rimasto trentasette giorni in più dietro le sbarre perché il gip non si era premurato di ordinare la sua scarcerazione. C'è anche chi si è letteralmente inventato un provvedimento «non previsto dalle norme vigenti», con cui anziché sottoporre a interrogatorio una nigeriana accusata di riduzione in schiavitù e sfruttamento, l'ha liberata perché l'ordine di arresto era «in una lingua a lei non conosciuta». L'errore, definito dai giudici disciplinari «macroscopico», è solo un esempio delle storie che macchiano il buon nome delle toghe italiane. Che però, nella maggior parte dei casi, quando sbagliano se la cavano con qualche tirata d'orecchie, mentre il comune cittadino è costretto a misurare la propria vita con il caos calmo della giustizia. Colpevole o innocente, spesso vittima inconsapevole degli errori di chi lo giudica. Sviste, interferenze, ritardi, violazione degli obblighi di diligenza, inescusabili negligenze. L'altra faccia della magistratura si materializza ogni anno in 170-190 procedimenti all'esame nella sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, il regno dove giudici giudicano altri giudici. Dove si infliggono sanzioni ma molte più volte si assolvono i colleghi distratti sotto le formule di «irrilevanza del fatto», «insussistenza», «non luogo a procedere». Appena il 70% delle richieste finisce col rinvio a giudizio e poco meno del 50% dei processati subisce una condanna, secondo fonti del Csm. Per non parlare di certi comportamenti «riprovevoli» che sfuggono alle maglie che classificano gli illeciti disciplinari: condotte che germogliano nella zona grigia che esula dall'esercizio delle funzioni e pertanto non sanzionabili. Non per questo meno disonorevoli. Quando e se si arriva a condanna, fioccano ammonimenti, poco più che un invito a fare più attenzione, censure, un semplice biasimo formale, molto più raramente si registrano sospensioni dall'incarico. Poco male, visto che i magistrati che vi incorrono incassano comunque i due terzi del loro stipendio. Quasi mai si arriva alla rimozione, la sanzione più pesante prevista dall'ordinamento: «Io in questi anni non ne ho viste» dice Pierantonio Zanettin, membro laico del Csm. Così, se il sistema disciplinare viene sventolato a garanzia dell'autonomia della magistratura, la credibilità dell'autocritica della categoria rischia di sgonfiarsi in un «sistema inefficace - aggiunge Zanettin - in cui troppe volte certe opacità sono rimaste tali». I numeri snocciolati in un convegno di Magistratura indipendente a Torino dal già vicepresidente del Csm Michele Vietti rivelano che dai procedimenti svolti dalla sezione disciplinare tra settembre 2014 e gennaio 2017, sono uscite 122 condanne, 118 assoluzioni, 124 ordinanze di «non luogo a procedere» e 17 sentenze di «non doversi procedere». Al primo posto nella classifica delle lacune dei magistrati, oltre alle violazioni delle libertà personali e delle garanzie dell'indagato, come le tardive scarcerazioni per negligenza, ci sono «incoerenza e mancanza» delle motivazioni e clamorosi ritardi nelle sentenze. Un giudice invece ha pensato di sbrigarsela con un verdetto di assoluzione facendo copia e incolla dell'arringa difensiva dell'avvocato. Un suo collega ha collezionato ritardi, superiori a un anno, nel deposito di 164 sentenze. Errori «formali» che diventano «sostanza» micidiale quando la giustizia intercetta vite, storie, persone. Se i procedimenti svolti dal Csm confermano la «serietà» e il rigore nell'autogiudizio, secondo Vietti però «non tutto funziona». La «tipizzazione degli illeciti lascia non poche smagliature», apre varchi di impunità che non permettono «di intercettare condotte riprovevoli» perché non classificate dalle norme. Così comportamenti «irrispettosi» scivolano nell'oblio grazie a «formule tortuose». Un magistrato per un anno ha fatto campagna elettorale per diventare vicesindaco della propria città con una lista collegata a un partito. È stato assolto perché la partecipazione alla vita politica «non si è configurata come continuativa» e passibile di sanzione. Contraddizioni. Paradossi. E l'ammonimento: «La materia disciplinare - avverte - non diventi una trincea in cui l'ordinamento si chiude a difesa di se stesso e delle sue prerogative».

Come nasce l’impunità dei magistrati. Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Parla Nordio, procuratore aggiunto a Venezia. C’entra anche la possibilità di influenzare la politica, scrive di Maurizio Crippa il 20 Maggio 2015 su "Il Foglio". Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, dalle pensioni ai ricorsi sugli Autovelox, il paese di decenni consumati nella guerra senza vincitori tra magistratura e politica, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Carlo Nordio, procuratore aggiunto a Venezia, sul petto le medaglie di inchieste importanti condotte rifuggendo i clamori mediatici, ha preso spunto sul Messaggero di lunedì dal ricorso alla Corte costituzionale da parte di un giudice civile di Verona contro la legge sulla responsabilità civile per dire cose importanti: non solo sulla magistratura, ma sui guasti illiberali che da tempo minano la convivenza civile. Argomenta, Nordio, che al primo ricorso altri seguiranno, e verosimilmente saranno accolti perché non esiste una “manifesta infondatezza” tecnica. Anche il principio del “chi sbaglia paga” sventolato spesso dalla politica, è mal posto: “In tutto il mondo ci sono due o tre gradi di giudizio, proprio per il principio di poter rimediare a errori; ma non esistono sale operatorie di primo, secondo, o terzo grado. La giustizia prevede di poter sbagliare. Per questo la legge parla di errore in quanto "travisamento del fatto", non di errori di merito o di interpretazione”. Ma tutto questo non fa dire a Nordio, come magari a qualche suo collega, che debba esistere una sostanziale impunità. E non toglie che ci siano “errori non scusabili. Primo: il magistrato che non conosce la legge. Secondo: il magistrato che non legge le carte. Ma io dico che porre un risarcimento pecuniario in questi casi non serve, tanto siamo già tutti assicurati. No, ci vuole una sanzione sulla carriera, a seconda della gravità. Se un magistrato non sa fare il suo dovere, deve essere giudicato e sanzionato”. Questo sul merito di una legge che è stata vissuta da una parte della magistratura come un assalto. Ma la cosa più interessante, per Nordio, è spiegare perché le cose vadano così. Perché non solo sia difficile risarcire gli errori giudiziari e sanzionare i colpevoli, ma anche valutare le carriere. In una visione liberale e di sostanza come la sua, il guasto sta nel manico. Andiamo per ordine. “Siamo l’unico paese al mondo con un processo accusatorio e con azione penale obbligatoria. Per cui abbiamo creato l’informazione di garanzia da inviare quando si apre un fascicolo, “obbligatoriamente”. Ma siccome siamo un paese, diciamo così, imperfetto, l’informazione di garanzia è diventata una condanna preventiva in base alla quale un politico può essere costretto a dimettersi. Fate due più due: obbligatorietà dell’azione penale più obbligatorietà dell’informazione di garanzia uguale estromissione dalla politica. Ovvero, i pm condizionano la politica. Qui nasce lo strapotere. Oltre al fatto che è lo stesso pm che comanda la polizia giudiziaria e sostiene l’accusa. E al fatto che detiene il potere di estrapolare dall’indagine un’ipotesi di reato anche diversa, e di estendere le indagini ad altri reati e altre persone”. Così parte un altro avviso di garanzia, e si ricomincia: la possibilità di influenzare la politica è davvero enorme. “Ma è colpa di un sistema che lo permette, questo strapotere. Da qui nasce la commistione perversa tra giustizia e politica”. Da un lato la magistratura condiziona la politica, dall’altro c’è la sua non giudicabilità. Nordio preferisce muoversi nei territori di una visione liberale e non delle polemiche. “Nel 1989 abbiamo adottato il nuovo Codice di procedura penale, ma abbiamo lasciato le basi del sistema come erano prima. Prendiamo gli Stati Uniti: lì l’Attorney ha molto potere e c’è la discrezionalità dell’azione penale. Però le carriere sono separate e inoltre il giudice – la sua controparte – non decide del fatto, di quello decide la giuria. Ha presente i telefilm? “Obiezione accolta… la giuria non ne tenga conto”. Per questo alla fine l’Attorney è giudicato secondo i suoi risultati. E allo stesso tempo nessuno ha il problema di fare causa al giudice, dovrebbe al massimo farla ai giurati. Ma questo nel nostro ordinamento non c’è, noi abbiamo inserito la riforma su un impianto costituzionale basato sul codice Rocco. Senza separazione delle carriere, senza meccanismo di valutazione esterna dei magistrati. E’ come prendere una Ferrari e metterci il motore della 500”. Di Nordio è nota la posizione sulle intercettazioni. “Sono un male necessario, come le confidenze alla polizia. Detto questo, la soluzione c’è senza imbavagliare la stampa. Il problema che da elemento di ricerca di una prova (e che quindi dovrebbero rimanere fuori dai fascicoli processuali) sono diventati elemento di prova e come tali vengono trascritte. E una volta che i fascicoli sono depositati è difficile dire a un giornalista di non pubblicarle. Ma c’è di più: poiché diventano prove, allora è giusto siano inserite tutte, anche quelle irrilevanti. Basterebbe non abusarne, ma ne abusiamo”. Così la libertà di stampa ridotta a circo mediatico-giudiziario: “La cosa grave è che alla fine della catena spesso al giornalista non arriva il nome che gli interessa, ma quello che i pm hanno messo nel fascicolo”. Bisogna portare Nordio un po’ fuori dal suo terreno d’elezione per sentirgli esprimere giudizi ponderati sul paese del “nessuno mi può giudicare”. Individua il retaggio profondo, atavico, “nel paese di cultura cattolica, dove alla fine tutto è perdonato”. Con buona pace di Bergoglio, è “la riserva mentale di un gesuitismo profondo. A differenza di paesi protestanti che hanno introiettato la responsabilità personale. E’ l’angoscia dei giansenisti, dei calvinisti, per il rimorso. In Italia continuiamo a parlare di etica della responsabilità, ma è sempre la responsabilità degli altri”. A questo si somma un’altra pecca, la vocazione a supplire con le leggi alla mancanza di regole condivise, per cui “abbiamo dieci volte le leggi della Gran Bretagna e continuiamo a metterne, o ad alzare i massimali di pena, senza che ciò abbia conseguenze pratiche, anzi”. E’ un po’ il caso delle nuove leggi sull’anticorruzione? “E’ un buon esempio. Invece servono poche leggi, chiare, rispettate”. E’ anche per questo che assistiamo al debordare del potere giudiziario, quello che gli anglosassoni chiamano “giuridicizzazione”, in cui ogni decisione diventa questione di magistrati, non di scelta politica? “E’ un altro problema culturale. Ma tanto più è debole la politica, tanto più lo spazio viene occupato dalla magistratura. E a molti livelli sul diritto per come è scritto prevale quello che viene chiamato con uno slogan ‘il diritto vivente’. Ad esempio è quello che ha fatto la Consulta sulle pensioni ritenendo, credo, di dover dire qualcosa sui livelli di salvaguardia dei redditi, cosa che dovrebbe decidere invece il Parlamento”. Hanno notato in molti: la Consulta forza la mano alla politica. “Un aspetto mi inquieta. La sua sentenza aggrava i conti pubblici, impone al governo di operare senza la necessaria copertura, cosa che invece la Costituzione prevede. Siamo a un caso in cui la Corte costituzionale, per assurdo, forza l’esecutivo ad agire al di fuori della Costituzione”.

G COME MAFIA DELLA GIUSTIZIA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “IMPUNITOPOLI” E “GIUSTIZIOPOLI” E “MALAGIUSTIZIOPOLI” E “MANETTOPOLI” E “IL DELITTO DI PERUGIA” E “SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA” E “STEFANO CUCCHI & COMPANY” E “YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE”. Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Il libro mastro delle sentenze truccate: sotto inchiesta venti magistrati, scrive l'11 giugno 2018 Alessandra Ziniti su "La Repubblica". Di che cosa stiamo parlando. Sentenze amministrative comprate e un’azione di dossieraggio per inquinare e depistare importanti inchieste penali. A febbraio una grossa indagine delle procure di Roma e Messina ha portato all’arresto di 15 persone per corruzione in atti giudiziari. In manette anche un pm della procura di Siracusa e il regista di questo giro di mazzette, l’avvocato siciliano Piero Amara con una grossa clientela internazionale. Tra gli indagati anche l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato Virgilio. Sono partiti da un elenco di 35 sentenze trovato a casa di uno dei faccendieri e sono arrivati lì dove non avrebbero mai voluto arrivare, per di più consapevoli di essere solo sull'uscio di una porta che spalanca la strada a quella che potrebbe essere una delle più esplosive inchieste italiane sulla corruzione degli ultimi anni. Ci sono più di venti magistrati iscritti per corruzione in atti giudiziari nel registro degli indagati delle procure di Roma e di Messina per un giro enorme di processi aggiustati nell'ambito della giustizia amministrativa. Lo scenario che si apre, gravissimo e desolante al tempo stesso, è quello di un Consiglio di Stato e di un Consiglio di giustizia amministrativa fortemente condizionati dall'attivismo di un numero molto consistente di giudici a libro paga che avrebbero preso mazzette per favorire i clienti più importanti rappresentati dallo studio legale Amara-Calafiore, i due avvocati siciliani arrestati tre mesi fa e che da alcune settimane stanno facendo importantissime ammissioni riempiendo decine di pagine di verbali davanti ai pm romani coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e messinesi diretti dal procuratore Maurizio de Lucia. Alcuni atti, che coinvolgono seppure in maniera marginale un magistrato del penale di Roma il cui nome emerge dagli atti per alcune cointeressenze in società, sono stati mandati per competenza alla procura di Perugia ma l'indagine promette di allargarsi e interessare altri uffici giudiziari italiani. L'inchiesta è quella che, a febbraio, ha visto finire agli arresti quindici persone (e tra questi anche l'ex pm di Siracusa Giancarlo Longo) per un giro di corruzione allora valutato in 400 milioni di euro. Bazzecole rispetto al vorticoso passaggio di mazzette, molte delle quali estero su estero, che gli investigatori della Guardia di finanza stanno faticosamente ricostruendo in questi mesi. Partendo da questa sorta di libro mastro delle sentenze aggiustate, ma grazie anche alle dichiarazioni fatte dai due avvocati accusati di aver costruito questo fittissimo reticolo di relazioni capace di condizionare le sentenze della giustizia amministrativa in favore dei loro facoltosi clienti, tutti interessati ad appalti milionari, molti dei quali affidati dalla Consip. L'altra ma non meno importante faccia della medaglia era l'ingegnoso metodo, quello dei procedimenti cosiddetti "a specchio", che il pm amico di Amara, Giancarlo Longo, apriva a Siracusa con l'obiettivo o di entrare a conoscenza di elementi riservati di inchieste delicatissime (come quella milanese sulle tangenti Eni in Niger) condotte da altre procure o addirittura di inquinarle o rallentarli con atti appositamente compiuti. Un'attività di depistaggio e dossieraggio che viaggiava tra Roma, Milano, Siracusa e Trani e che resta al centro di un capitolo tra i più delicati dell'inchiesta. Il primo a parlare, dopo tre mesi in carcere, è stato il rampantissimo Piero Amara, 48enne avvocato originario di Augusta ma con una importante clientela internazionale e amicizie nelle stanze dei bottoni. Messa da parte la linea di difesa iniziale, quando aveva negato di aver pagato magistrati per indirizzare le sentenze, ha finito con spiegare, almeno in parte, qual era il meccanismo messo in piedi per facilitare i suoi clienti: ricorso al Tar se la gara andava male e da lì verdetto sicuro o in primo o in secondo grado. Di cose interessanti ne ha raccontate diverse ma avrebbe in parte cercato di spostare le responsabilità sul collega di studio Calafiore. Il quale non l'avrebbe presa benissimo. E così, quando i pm gli hanno contestato le dichiarazioni di Amara, anche Calafiore ha deciso di rompere il silenzio contribuendo a sua volta a mettere tanta carne al fuoco delle due procure. E alla fine, due settimane fa, anche lui si è "guadagnato" i domiciliari. Nomi su nomi di magistrati amministrativi "avvicinati" e una lettura, adesso ovviamente al vaglio degli inquirenti, dell'elenco delle sentenze aggiustate (qualcuna con relativa cifra accanto) custodito da uno dei faccendieri che lo studio legale Amara-Calafiore utilizzava per sbrigare i suoi affari. Almeno quindici i nomi dei componenti del Consiglio di Stato finiti sotto indagine a cui si aggiungono quelli iscritti a Messina tra giudici del Consiglio di giustizia amministrativa e dei Tar di Palermo e Catania. Un "cerchio magico", quello messo su negli ultimi anni da Amara e Calafiore, del quale facevano parte anche diversi avvocati (anche qui molti nuovi indagati) rappresentanti delle imprese favorite nei contenziosi amministrativi: tra i più importanti il contenzioso Ciclat e quello della Exitone. Anche Fabrizio Centofanti, imprenditore anello di questa catena, haottenuto i domiciliari. Ma lui continua a tacere.

Dossier e depistaggi per condizionare i processi, spiata anche l'inchiesta sulle tangenti Eni. Quindici arrestati tra Roma e Messina, tra cui l'avvocato Piero Amara e il magistrato Giancarlo Longo. Avevano messo in piedi una finta indagine per inquinare quella della procura di Milano su Descalzi e le mazzette per il petrolio in Nigeria. In manette anche Enzo Bigotti, già coinvolto nel caso Consip. Ed è indagato Riccardo Virgilio, ex presidente del Consiglio di Stato, scrive Alessandro Ziniti il 6 febbraio 2018 su "La Repubblica". Alla fine l'avvocato più rampante d'Italia è finito agli arresti, insieme ai componenti di quel cerchio magico, magistrati, avvocati, professionisti, consulenti, docenti universitari, con i quali - grazie ad una sapiente quanto spregiudicata opera di dossieraggio e depistaggi - sarebbe riuscito negli ultimi anni a condizionare l'esito di procedimenti amministrativi per un valore di svariate centinaia di milioni di euro, a vantaggio dei propri clienti a anche delle aziende in cui aveva interessi personali, e a frenare o intorbidare procedimenti penali in procure di mezza Italia, da Siracusa a Roma a Milano.

L'avvocato rampante. Piero Amara, 48enne avvocato di Augusta, una clientela internazionale di primissimo piano tra le aziende ma anche consigliere per gli investimenti di molti magistrati della giustizia amministrativa, tra il Consiglio di Stato, il Consiglio di giustizia amministrativa e il Tar Sicilia, è il protagonista principale dell'operazione della Guardia di finanza che questa mattina, in esecuzione di ordinanze di custodia cautelare firmate dai gip di Roma e Messina, ha eseguito i provvedimenti restrittivi.

Nella rete giornalisti, magistrati e professori. Quindici quelli in Sicilia chiesti ed ottenuti dalla Direzione distrettuale antimafia guidata da Maurizio de Lucia. Oltre ad Amara, è finito agli arresti il magistrato Giancarlo Longo, fino a qualche mese fa pm alla Procura di Siracusa e poi trasferito per motivi disciplinari dal Csm al tribunale civile di Napoli, dove sono in corso perquisizioni. Tra gli arrestati figurano anche Enzo Bigotti, imprenditore già indagato per il caso Consip, l'avvocato Giuseppe Calafiore, socio e collega di Amara, il professore universitario della Sapienza di Roma Vincenzo Naso. Provvedimenti restrittivi, tra gli altri, anche per il dirigente regionale Mauro Verace e per il giornalista siracusano Giuseppe Guastella. Indagato per concorso in corruzione l'ex presidente del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio: la richiesta di arresto è stata respinta perché non ci sono esigenze cautelari.

Inchieste specchio per spiare i processi. Associazione per delinquere, corruzione, falso, intralcio alla giustizia la sfilza di reati a vario titolo contestato agli indagati che, negli ultimi cinque anni, avrebbero pesantemente condizionato l'azione della giustizia sia in sede civile che penale. Di particolare gravità la posizione del giudice Longo, secondo le indagini a libro paga di Amara e del suo socio Calafiore. Ottantottomila euro in contanti più il prezzo di vacanze offerte a lui e a tutta la sua famiglia a Dubai e un capodanno a Caserta, il prezzo della corruzione del magistrato che, nella sua veste di pm a Siracusa, avrebbe servito gli interessi di Amara mettendo su un sofisticato meccanismo di procedimenti giudiziari "specchio" che, pur senza averne alcun titolo, gli avrebbe consentito di venire a conoscenza di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. A cominciare da quella, aperta presso la Procura di Milano, che vedeva indagato l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, proprio un mese fa rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi di euro per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria.

Il caso Eni e il finto rapimento. Proprio nel tentativo di inquinare l'indagine milanese, Amara ( difensore di Eni) avrebbe messo su un tentativo di depistaggio facendo presentare alla Procura di Siracusa il suo amico Alessandro Ferrara che, nell'estate 2016, denunciò di essere stato vittima di un fantomatico tentativo di sequestro a Siracusa da parte di due nigeriani e un italiano interessati a sapere da lui notizie su un report che, di fatto, avrebbe provato un complotto internazionale per far fuori Descalzi ordito dai servizi segreti nigeriani in combutta con ambienti finanziari italiani e con alcuni consiglieri del cda di Eni. Ad aprire il fascicolo, che gli diede la possibilità per mesi di scambiare informazioni con il collega di Milano Fabio De Pasquale (che non cadde nel tentativo di depistaggio) fu proprio il pm Giancarlo Longo.

Le sentenze pilotate. L'attività inquinante del magistrato sarebbe invece stata decisiva nel consentire ai clienti o alle imprese vicine ad Amara  (a cominciare dal noto gruppo imprenditoriale Frontino di Siracusa) di aggiudicarsi importantissimi contenziosi amministrativi davanti al Tar Sicilia o al Cga, come quelli sul centro commerciale Open Land di Siracusa, per il quale il Comune fu condannato a pagare un risarcimento da 24 milioni di euro, o come quello sulla discarica Cisma a Melilli, o ancora quello sulla costruzione di un complesso edilizio a Siracusa che valse all'Am group un risarcimento da 240 milioni di euro.

L'esposto dei colleghi e le telecamere. A dare nuovo impulso alle indagini sul comitato d'affari diretto da Amara è stato un esposto firmato da 8 degli 11 sostituti della Procura di Siracusa nei confronti del collega Longo, ripreso poi dalle telecamere piazzate nella sua stanza dalla Guardia di finanza mentre, ricevuta notizia di microspie nel suo ufficio, cerca di rinvenirle per neutralizzare le indagini a suo carico. 

La rete delle toghe a libro paga: «Così i processi si aggiustavano». L’avvocato Piero Amara e l’imprenditore Fabrizio Centofanti gestivano il sistema, scrive Fiorenza Sarzanini il 6 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Un giudice del Consiglio di Stato, un magistrato della Corte dei Conti, un pubblico ministero di Siracusa, un ufficiale della Finanza, un alto funzionario del ministero dell’Economia: nella “rete” tessuta dall’avvocato Piero Amara e dall’imprenditore Fabrizio Centofanti c’erano le giuste pedine per avere informazioni riservate sulle indagini in corso e soprattutto per “aggiustare” i processi. Personaggi di alto livello che sarebbero stati messi a “libro paga” per garantirsi decisioni favorevoli nel settore amministrativo e così avere la certezza di aggiudicarsi gli appalti pubblici, primi fra tutti quelli di Consip. Ma anche per “spiare” le inchieste, in particolare quella sulle tangenti dell’Eni avviata a Milano. Amara e Centofanti sono stati arrestati su richiesta delle procure di Roma e Messina. Ai domiciliari ci sono altre 13 persone, compreso Enzo Bigotti, l’imprenditore amico di Denis Verdini e già finito nel fascicolo Consip proprio per aver ottenuto commesse milionarie.

Soldi a Malta. Per Riccardo Virgilio, presidente di sezione del Consiglio di Stato, i magistrati coordinati dall’aggiunto Paolo Ielo avevano chiesto l’arresto. Nell’ordinanza si spiega che «la misura non è necessaria perché è ormai in pensione», ma nei suoi confronti rimane l’accusa gravissima di aver “pilotato” ben 18 tra sentenze, ordinanze e decreti in modo da favorire le società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore (sfuggito alla cattura visto che due giorni fa è partito per Dubai). Virgilio avrebbe anche annullato una decisione del Tar che escludeva un’azienda di Bigotti dalla gara per le “Buone scuole”. L’appalto rientrava, secondo l’accusa, nella spartizione dei lavori assegnati da Consip decisa a tavolino tra le imprese partecipanti. In cambio il giudice avrebbe ottenuto il trasferimento di 750 mila euro che aveva depositato su un conto svizzero «in un veicolo societario maltese, la Investment Eleven limited messa a disposizione da Amara». E secondo il gip «l’operazione ha rappresentato un’utilità concreta per Virgilio assicurandogli, da un lato, di non dover dichiarare al fisco italiano la somma di denaro detenuta in Svizzera e, dall’altro, di essere garantito nell’investimento effettuato».

La “soffiata”. Tra le persone perquisite ieri c’è Emanuele Barone Ricciardelli, funzionario del ministero dell’Economia. In una intercettazione del 3 agosto scorso parla con Bigotti e lo avvisa «di segnalazioni della Guardia di Finanza per turbativa d’asta nella gara Consip», e soprattutto «di accertamenti con le Procure». Le indagini del Nucleo Tributario di Roma sono effettivamente in pieno svolgimento e il dirigente promette di attivarsi. Scrive il giudice: «Nella stessa giornata Barone Ricciardelli inoltrava alla procura di Roma, tramite mail certificata, una richiesta formale per conoscere l’esistenza di iscrizioni a carico di Bigotti nel registro degli indagati».

Accertamenti sono in corso anche sulla ristrutturazione di una casa che Luigi Della Volpe ha affittato a partire dal 2014 ad una società di Centofanti che a sua volta lo ha subaffittato ad Amara. Della Volpe potrebbe infatti essere un ufficiale della Guardia di Finanza ora ai servizi segreti, e il sospetto degli inquirenti è che quel contratto sia in realtà fittizio e utilizzato semplicemente per l’emissione di false fatture.

L’ex assessore. È lungo l’elenco degli indagati e comprende altri giudici che si sarebbero messi a disposizione. Uno è Nicola Russo, che faceva parte dello stesso collegio di Virgilio e con Centofanti è legato da antica amicizia. Nel 2016 il giudice, nel ruolo di componente della Commissione tributaria di Roma, è stato accusato di aver favorito l’imprenditore Stefano Ricucci. E di essere stato ricompensato con pranzi, viaggi e i favori di alcune ragazze. Cinque anni fa fu invece accusato di sfruttamento della prostituzione minorile e a difenderlo c’era sempre l’avvocato Amara. Verifiche sono state disposte pure sul consigliere Raffaele De Lipsis e sul giudice contabile Luigi Caruso, entrambi avvisati da Amara di essere sotto intercettazione. Violazioni fiscali sono state invece contestate a Umberto Croppi, assessore alla Cultura quando sindaco di Roma era Gianni Alemanno. Croppi è presidente del Cda di Cosmec, azienda che fa capo a Centofanti. Secondo l’accusa avrebbe «evaso le imposte sui redditi e l’Iva per un totale di quasi 43mila euro grazie ad una serie di fatture relative ad operazioni inesistenti inserite nella contabilità societaria».

Siracusa, magistrati contro un pm. Ecco chi ha fatto saltare il banco, scrive Riccardo Lo Verso Martedì 6 Febbraio 2018 su Live Sicilia.  Il retroscena: otto magistrati denunciarono Giancarlo Longo. L'inchiesta. “È con profondo imbarazzo...”, inizia così l'esposto che ha dato vita all'inchiesta delle Procura di Roma e Messina. Sono guidate da Giuseppe Pignatone e Maurizio De Lucia che ai tempi in cui entrambi lavoravano a Palermo erano maestro e allievo. Stamani sono stati arrestati magistrati, avvocati, professioni e giornalisti. Si sarebbero messi d'accordo per inventare complotti come quello che scuote l'Eni, aprire fascicoli fantasma, acquisire le carte di altre indagini, minacciare e spiare colleghi. Sono stati proprio otto magistrati siracusani, il 23 settembre 2016, a firmare l'esposto per denunciare i rapporti fra un collega, Gianluca Longo, e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, tutti e tre raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare richiesta dalla Procura di Messina. Anticipavano tutto ciò che sarebbe emerso nel corso delle indagini. “Nell'ambito della gestione di diversi procedimenti penali - si leggeva nell'esposto – si sono palesati elementi che inducono a temere che parte dell'azione della Procura della Repubblica possa essere oggetto di inquinamento, funzionale alla tutela di interessi estranei alla corretta e indipendente amministrazione della giustizia”. In calce i nomi dei magistrati Margherita Brianese, Salvatore Grillo, Magda Guarnaccia, Davide Lucignani, Antonio Nicastro, Vincenzo Nitti, Tommaso Pagano e Andrea Palmieri. L'esposto partiva dalla vicenda Open Land, società della famiglia di imprenditori Frontino, che ha costruito il centro commerciale “Fiera del Sud” in viale Epipoli, a Siracusa. Si è aperto un braccio di ferro tra l’amministrazione comunale ed il gruppo imprenditoriale che ha chiesto un risarcimento di oltre 20 milioni di euro al Comune per un ritardo nella concessione edilizia. È stata una sentenza del Cga, allora presieduto da Raffaele De Lipsis, a stabilire che Open Land, assistita dagli avvocati Amara e Calafiore, doveva essere risarcita. Per quantificare il danno fu scelto un commercialista di Pachino, Salvatore Maria Pace. Pure quest'ultimo è finito nei guai giudiziari e si trova agli arresti domiciliari. Solo che lo scorso giugno il Consiglio di giustizia amministrativa, con una nuova composizione, ha revocato la sentenza che aveva riconosciuto il risarcimento. Bisogna rifare la perizia e valutare di nuovo il danno. Nel frattempo il Comune di Siracusa è stato costretto a pagare 2 milioni e 800 mila euro.

Quei veleni tra pm che hanno portato all’arresto di Longo, scrive Errico Novi l'8 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’indagine di Messina è partita da un esposto di 8 sostituiti della procura di Siracusa, contro il collega che maneggiava fascicoli relativi agli appalti del Comune. Che a Siracusa ci fosse un verminaio il Csm lo aveva accertato poco meno di un anno fa. La lista dei protagonisti, nel vortice dei veleni in Procura, includeva già Giampaolo Longo, l’ex pm dell’ufficio inquirente siciliano (da luglio trasferito a Napoli come giudice nella sezione distaccata di Ischia) arrestato martedì scorso con accuse di corruzione e falso, in un quadro da associazione a delinquere. Secondo il gip di Messina Maria Vermiglio, il collega sarebbe il perno della presunta cricca che vedrebbe coinvolti imprenditori, avvocati e appunto magistrati, e che avrebbe depistato indagini per favorire, in particolare, i clienti del legale di Eni Piero Amara. Non c’era solo Longo, nell’elenco dei cattivi finito già a maggio scorso nel mirino di Palazzo dei Marescialli, in parallelo con i primi passi dell’inchiesta di Messina: con lui anche il capo della Procu- ra siracusana, Francesco Paolo Giordano, e un altro sostituto, Maurizio Musco, protagonista a sua volta di un primo “ciclo” di intricatissime vicende relative allo stesso ufficio inquirente e già condannato in via definitiva per il reato di abuso. È fissato per oggi alle 13.30, nel carcere di Poggioreale a Napoli, l’interrogatorio di garanzia per Longo. Dovrà rispondere alle contestazioni mossegli nell’ordinanza del gip di Messina: sarebbe stato al soldo degli interessi di Amara, con una «mercificazione» della propria attività di pm. Avrebbe acquisito informazioni utili ai suoi sodali attraverso l’apertura di fascicoli sui reati attribuiti agli imprenditori clienti dell’avvocato presunto correo. Ma la ricostruzione dei fatti non si annuncia semplice. Perché appunto molte delle attività illecite con cui l’ex sostituto di Siracusa avrebbe approfittato della propria funzione riguardano proprio le vicende attorno alle quali si è scatenata la guerra tra toghe monitorata l’anno scorso dal Csm, in seguito alla quale Longo ha chiesto e ottenuto il trasferimento d’ufficio. Il difensore del magistrato, Bonny Candido, contesta intanto «la sproporzione della misura cautelare», la custodia in carcere, «anche tenuto conto del fatto che il mio assistito da diversi mesi non svolge più funzioni inquirenti». Secondo l’avvocato Candido dunque, «l’ordinanza non può non essere carente dei requisiti di attualità e pericolo di reiterazione di reati». Ma la difesa segnalerà nel corso dell’interrogatorio anche un altro aspetto: «Pochi giorni fa Longo ha presentato alla Procura di Messina due corpose e circostanziate denunzie sui fatti oggetto del procedimento in questione che avrebbero dovuto essere approfondite prima di chiedere e disporre la misura», dice il difensore del magistrato. Si tratta delle ricostruzioni fatte dall’ex pm di Siracusa sui conflitti insorti nell’ufficio in cui ha lavorato fino a meno di un anno fa. Una tensione in cui non si sono risparmiati colpi, e che ha spinto altri otto magistrati a presentare l’esposto al Csm e alla Procura di Messina (competente per i reati commessi dai colleghi di Siracusa), da cui si è sviluppata l’inchiesta sui presunti depistaggi. Al centro dei veleni c’era anche il fascicolo aperto da Longo per indagare sul presunto complotto ai danni dell’ad dell’Eni Claudio Descalzi, ma non solo. Si trattava anche di affari che vedevano coinvolta l’amministrazione cittadina di Siracusa. Non a caso il sindaco Gancarlo Garozzo ieri ha ricordato con perfidia «l’impegno» di Longo nei confronti della sua giunta. Dal porto di Augusta agli appalti comunali, dai servizi di gestione delle risorse idriche ai rifiuti, i fascicoli maneggiati dall’ex pm toccavano non solo gli interessi dell’Eni, ma anche quelli della politica locale. Ed è questa l’altra faccia dell’intreccio che oggi Longo proporrà al giudice nell’interrogatorio.

Peculato e pe(R)culati, scrive Giampaolo Rossi il 25 marzo 2018 su "Il Giornale".

IL SENATORE E IL MAGISTRATO. Che differenza c’è tra un senatore e un magistrato di fronte ad un’accusa di peculato provata? La differenza è che il primo viene condannato (da un magistrato e dalla stampa); il secondo viene perdonato (da un magistrato e dalla stampa). Il senatore in questione è Paolo Romani forzista della prima ora, ex ministro di Berlusconi e uomo di punta del centrodestra. Il magistrato in questione è Nicolò Zanon, togato illustre della Corte Costituzionale scelto direttamente nel 2014 dall’allora Presidente Napolitano. Il primo finisce nei guai per un telefonino. Il secondo per un auto blu.

IL CASO ROMANI. Romani, nell’Ottobre del 2017, è stato condannato in via definitiva per peculato; l’inchiesta, scaturita da uno scoop giornalistico del 2011, rivelò che il senatore, allora Ministro del Governo Berlusconi ma anche assessore all’Expo di Monza, aveva fatto utilizzare il telefonino di servizio del Comune alla figlia quindicenne. Romani si è sempre difeso affermando che non era a conoscenza dell’uso di quella Sim da parte della ragazza avendo lui un’altra utenza di servizio (quella del Ministero); e quando ha preso coscienza del guaio l’ex Ministro si è recato immediatamente in Comune a risarcire di tasca propria l’intero ammontare delle utenze telefoniche (circa 12 mila euro) tanto che l’amministrazione di centrosinistra di Monza non si è costituita neppure parte civile. Per il giudice invece Romani era a conoscenza dell’utilizzo che ne fece la figlia e anzi ne diede “pieno consenso” e per questo è stato condannato. In questi giorni il caso è tornato alla ribalta essendo stata questa condanna alla base della decisione del M5S di non appoggiare la candidatura di Romani alla Presidenza del Senato.

IL CASO ZANON. Il Giudice Zanon nei giorni scorsi è stato invece costretto ad auto-sospendersi poiché è emersa una vicenda più imbarazzante: dalle risultanze del suo autista di servizio si è scoperto che il magistrato ha fatto utilizzare una delle due auto blu di cui sono dotati i giudici della Consulta, ai suoi parenti per scopi del tutto privati. La storia è emersa perché l’autista ha dovuto motivare le troppe ore di straordinario accumulate durante il servizio: ore che ovviamente paga lo Stato, cioè noi. E a quel punto si è scoperto l’uso non proprio d’ufficio dell’automobile con in più una nota curiosa: e cioè che spesso era la moglie del magistrato a chiamare direttamente il carabiniere-autista per dargli disposizioni di come usare l’auto blu del marito; insomma, era un “auto di servizio familiare” a tutti gli effetti. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta che è stata velocemente archiviata due giorni fa. Il motivo? Semplice: l’utilizzo “dell’auto di servizio a persone terze” è previsto dal Regolamento che i giudici si sono fatti da soli. È quindi del tutto lecito che l’auto blu del giudice Zanon sia stata utilizzata dalla moglie (esponente del Pd milanese) per recarsi più volte nella loro casa al mare in Versilia, per andare a prendere la cognata alla stazione o per accompagnare la figlia nei suoi giri privati. Incredibile vero? La cosa è molta strana per due ragioni.

Primo, perché se fosse così, non si capirebbe il motivo per cui la Procura avrebbe aperto un’inchiesta; bastava leggere il Regolamento in vigore.

Secondo, perché questo significa che anche altri giudici della “Corte suprema” utilizzano le auto di servizio pagate dai cittadini magari per scorrazzare in giro parenti, amici, vicini di casa o per “ragioni istituzionali” di shopping, vacanza, cene fuori o serate a teatro.

Questo significa, tra le altre cose, che a differenza del Senatore Romani (che ha rimborsato il danno causato di tasca sua ancora prima dell’inchiesta), il Magistrato non pagherà lui le ore in cui il suo autista ha fatto da autista a moglie, figlia e cognata. Ma il vero problema è che è stato applicato il principio giuridico della “autodichia” che prevede che la Consulta è un organo “autogiudicante”; e cioé il magistrato Zanon può essere giudicato solo dai suoi colleghi della Consulta, che ovviamente (potendo per “Regolamento” fare la stessa cosa) difficilmente riscontreranno un abuso nel suo operato. Ora alla Corte Costituzionale spiegano che stanno cambiando il Regolamento, ma finché il nuovo non entrerà in vigore, l’auto blu rimane un diritto inalienabile per i magistrati e i loro parenti. Ovviamente la storia del senatore Romani ha trovato maree di editoriali scandalizzati (compreso quello dell’immancabile Travaglio) mentre quella del giudice Zanon, no (neppure uno dell’immancabile Travaglio).

LA VERA CASTA. Le due storie sono l’ennesima riprova di quale sia la vera casta intoccabile nel nostro Paese; e di come ai magistrati sia concesso fare ciò che per qualsiasi altro cittadino (politici compresi) sarebbe reato. Perché in Italia la vera differenza che c’è tra un magistrato e un cittadino normale è la stessa che passa tra il peculato e i pe(r)culati.

Le scomode verità di Enrico Zucca, scrive Lorenzo Guadagnucci il 24 marzo 2018 su vari portali web. Parafrasando un aforisma del compianto Roberto Freak Antoni potremmo dire, pensando alla bufera mediatica esplosa attorno a Enrico Zucca, che non c’è gusto in Italia a dire la verità. Invece d’essere ascoltato e ringraziato, il magistrato è stato additato come una minaccia da buona parte della nomenclatura istituzionale, con il chiaro obiettivo di non discutere le questioni da lui sollevate. Enrico Zucca, che fu pm nel processo Diaz (il cui esito non è mai stato digerito ai vari piani del Palazzo), durante un convegno a Genova ha messo in fila alcune evidenze processuali degli ultimi anni. Ha detto che la tutela dei diritti fondamentali è diventata più difficile dopo l’11 settembre e l’avvio della cosiddetta guerra al terrorismo, tanto che la ragion di stato, in più casi, ha prevalso sulle regole scritte nelle Convenzioni sui diritti umani. Ha detto che l’Italia ha violato più volte queste convenzioni, ad esempio nel caso Abu Omar (l’imam rapito a Milano dalla Cia e consegnato all’Egitto dove è stato torturato), subendo così una condanna davanti alla Corte europea per i diritti umani, e anche nelle vicende riguardanti il G8 di Genova, quando il nostro paese ha disatteso l’impegno a sospendere e rimuovere i funzionari condannati per le torture alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Ha aggiunto che simili condotte, con l’implicita indifferenza verso gli impegni dettati da Carte così solenni, mina la statura morale del nostro paese quando si trova a chiedere ad altri paesi, com’è il caso dell’Egitto per l’omicidio di Giulio Regeni, di punire e consegnare i responsabili di abusi e torture. Enrico Zucca ha quindi offerto una dettagliata e articolata ricostruzione di vicende giudiziarie ben conosciute, arrivando a conclusioni assai fondate: è noto, addirittura stranoto, che i funzionari processati e poi condannati per le torture alla Diaz e a Bolzaneto sono stati nel tempo protetti, promossi (almeno quelli di grado gerarchico più alto) e infine reintegrati in servizio, anche in ruoli di vertice, alla scadenza dei cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. È bene ricordare un passaggio contenuto nella dirompente sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Diaz (Cestaro vs Italia, del 7 aprile 2015), una sentenza che non suscitò alcuna seria reazione da parte di chi oggi grida allo scandalo per l’intervento di Enrico Zucca. È il paragrafo 216: “(…) l’assenza di identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti in causa deriva dalla difficoltà oggettiva della procura di procedere a identificazioni certe e dalla mancata collaborazione della polizia nel corso delle indagini preliminari. La Corte si rammarica che la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura”. Quel “rifiutarsi impunemente” è un macigno che pesa sulla credibilità della nostra polizia quanto la mancata sospensione dei funzionari durante indagini e processi e la loro mancata rimozione dopo le condanne definitive (paragrafo 210). Il quadro d’insieme è tanto limpido quanto desolante: nei nostri recenti casi di tortura, la protezione istituzionale verso indagati, imputati e condannati è stata la rotta seguita dai vertici amministrativi e politici dello stato. Per questi motivi l’ondata di indignazione e sdegno per l’intervento di Enrico Zucca avviata dal capo della polizia Franco Gabrielli e molti altri, tutti attenti a non entrare nel merito delle constatazioni e delle valutazioni espresse dal magistrato, appare come una montagna di panna montata sotto la quale si conta di occultare alcune scomode verità. Né Gabrielli né altri hanno spiegato perché la polizia di stato abbia coperto, promosso, reintegrato i responsabili della cosiddetta perquisizione alla scuola Diaz, qualificata come un caso di tortura dalla Corte di Strasburgo, ed è proprio questo il punto dell’intera vicenda. Per la reputazione della polizia di stato non sono oltraggiose le parole di Enrico Zucca, bensì le condotte tenute nel corso del tempo, dal 2001 in poi, da numerosi funzionari, dirigenti e responsabili politici. Condotte delle quali non si vuole parlare. Si tace sulla sostanza e si urla su immaginari oltraggi. Fra tante grida scomposte, le parole più serie e sincere le dobbiamo ai genitori di Giulio Regeni, che hanno espresso “stima e gratitudine al dottor Zucca per il suo intervento preciso ed equilibrato”.

Lorenzo Guadagnucci. Giornalista e scrittore, fa parte del Comitato Verità e Giustizia per Genova. Trai suoi ultimi libri Era un giorno qualsiasi. Sant’Anna di Stazzema, la strage del ’44 e la ricerca della verità. Una storia lunga tre generazioni (Editore Terre di Mezzo). Ha aderito alla campagna “Un mondo nuovo comincia da qui”. Questo il suo blog.

La risposta del pm Zucca a Gramellini che il Corriere non ha (ancora) pubblicato, scrive Enrico Zucca il 23 marzo 2018 su "Altra Economia". Pubblichiamo la richiesta di smentita che il pm Enrico Zucca ha inviato al direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, in risposta a Massimo Gramellini, che alle frasi del Sostituto Procuratore Generale di Genova aveva dedicato il 21 marzo la sua rubrica sul quotidiano milanese. Pubblichiamo la richiesta di smentita che il pm Enrico Zucca ha inviato al direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, in risposta a Massimo Gramellini, che alle frasi del Sostituto Procuratore Generale di Genova aveva dedicato il 21 marzo la sua rubrica sul quotidiano milanese.

A oggi, 23 marzo 2018, nonostante sia doveroso farlo, il Corriere non ha pubblicato la missiva del dr. Zucca.

Egregio Direttore, Le sottopongo le seguenti considerazioni in replica al commento di Massimo Gramellini apparso oggi, in prima pagina, sul suo giornale con il titolo “Sale in Zucca”. La prego di considerare comunque la presente come una smentita ai sensi delle leggi sulla stampa essendomi attribuiti nell’articolo parole e pensieri, come dimostrabile dalla registrazione dell’intervento, del tutto arbitrari.

Grazie della attenzione.

"Le democrazie occidentali dopo l’11 settembre hanno purtroppo relativizzato i principi su cui si fondano. I Giudici continuano a sostenerne invece l’assolutezza ad ogni costo, pur rendendosi conto che il mondo reale non è quello che dovrebbe essere. Spesso non si è raggiunto l’elevato standard posto a tutela dei diritti umani ed anche l’Italia ha violato convenzioni facendo prevalere la c.d. ragion di Stato. L’ha fatto nel caso Abu Omar, consentendo la tortura per conto terzi e per questo è stata condannata dai Giudici di Strasburgo. L’ha fatto in altre occasioni e, infine, con il reintegro di funzionari condannati per aver coperto torture, commesse dalla polizia durante il G8. Punire e rimuovere i funzionari coinvolti è un obbligo convenzionale, non un’opinione. Ho ben sottolineato la diversa valenza dei fatti di Genova, ma ciò rende più biasimevole la violazione accertata dalla Corte Europea. L’Italia nel suo passato remoto ha tuttavia storie più gravi d’impunità di torturatori istituzionali. Se adesso la democrazia è più solida, lo si deve non a quelle torture, ma alla scelta di fondo del ricorso alla sola forza della legge. Oggi l’indifferenza per la violazione delle convenzioni che dimostriamo, in un contesto internazionale che ha visto vacillare i valori di civiltà, è in grado di minare lo standing morale per pretendere dai paesi dittatoriali “amici” il rispetto delle stesse convenzioni, che impongono di scovare e punire i torturatori, indipendentemente dalla convenienza delle ragioni di Stato. Se le istituzioni non hanno sempre fede nei principi, non la possono avere i cittadini. Io non posso che parlare con la bocca dei Giudici che, grazie al cielo, da questa parte del mondo, quella fede la testimoniano. Concordo quindi con Gramellini, che però ha confutato un suo (cattivo) pensiero, non il mio. Enrico Zucca Sostituto Procuratore Generale Genova.

Bufera sul Pm che accusa i vertici della polizia, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 22 Mar 2018 su "Il Dubbio". Il più duro è il capo della polizia Gabrielli che ha definito «oltraggiose» le parole del magistrato Enrico Zucca sugli agenti “torturatori”. Come era abbondantemente prevedibile, le parole del sostituto pg di Genova Enrico Zucca hanno ancora una volta acceso i riflettori sui tragici fatti del G8 del 2001. «Chi ha coperto i nostri torturatori, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?», si domandava Zucca l’altro giorno intervenendo ad un convegno sul diritto internazionale alla presenza dei genitori di Giulio Regeni. Immediata la replica stizzita al “parallelismo” con le forze di sicurezza del generale Al Sisi da parte capo della polizia Franco Gabrielli che ha definito «oltraggiose» le affermazioni della toga genovese. Sia il ministro della Giustizia Andrea Orlando che il pg della Cassazione Riccardo Fuzio, titolari dell’azione disciplinare, hanno comunque già fatto sapere che avrebbero acquisito l’intervento integrale del magistrato per gli accertamenti preliminari sulla sua condotta. Sempre ieri, in apertura di Plenum, il vice presidente del Csm Giovanni Legnini ha voluto esprimere alla polizia «piena fiducia e sostegno per l’opera insostituibile cui assolve, per la sicurezza nazionale», ricordando che a breve saranno emanate delle linee guida per «orientare i magistrati sulle modalità di esternazioni opportune». Per il consigliere togato del Csm Claudio Galoppi, infatti, le dichiarazioni di Zucca «sono di inaudita gravità e non meritano alcun commento». Ancora più dure il consigliere Antonio Leone che chiede il «trasferimento per incompatibilità ambientale». Con cadenza ormai periodica, la vicenda dell’irruzione nella scuola Diaz e quella della caserma di Bolzaneto infiammano i rapporti fra magistratura e politica. Zucca, che da pm condusse le indagini sui pestaggi, non è nuovo a queste affermazioni. In una intervista aveva parlato anche di «totale rimozione» delle vicende del G8 e del rifiuto per anni da parte della polizia italiana, diversamente da quella straniere, di «leggere se stessa» per «evitare il ripetersi» di errori. Anche in quella occasione immediata era stata la reazione dell’allora capo della polizia Alessandro Pansa che, d’intesa col ministro dell’Interno dell’epoca Angelino Alfano si attivò per aprire un procedimento disciplinare a carico del magistrato. Magistratura democratica, la corrente di Zucca, difese allora il pm. La vicenda, polemiche a parte, è complessa. I poliziotti materialmente autori delle violenze sui manifestanti, che hanno determinato la condanna dell’Italia per tortura da parte della Corte Edu di Strasburgo, non vennero mai identificati. Un “muro di gomma” impedì di risalire ai nomi dei picchiatori in divisa. Chi venne condannato furono invece i funzionari responsabili dei falsi verbali che trasformarono nelle armi «trovate sul posto» per inchiodare i black bloc le molotov portate poco prima dalla polizia nella scuola Diaz. Funzionari che «hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero», scrissero i giudici e che sono stati condannati in via definitiva, aprendo la strada a maxi risarcimenti. Scontata la condanna, definito il procedimento disciplinare, sono tutti tornati in servizio secondo le regole ministeriali vigenti. Alcuni anche con incarichi di prestigio. Gilberto Caldarozzi è diventato il n. 2 della Dia, Piero Troiani, quello che portò fisicamente le molotov, dirigente della polstrada del Lazio. Un fatto che ha destato “perplessità”, come ricordato da Raffaele Cantone.

Anche il Csm contro Zucca, il pm che infanga la polizia. Per il parallelo tra G8 di Genova e l'Egitto delle torture rischia l'indagine. Difeso solo dalle toghe rosse di Md, scrive Riccardo Pelliccetti, Giovedì 22/03/2018, su "Il Giornale". Un putiferio è dir poco. Le parole del pm di Genova Enrico Zucca continuano a scatenare reazioni a tutti i livelli. Il magistrato, fra i giudici del processo per la scuola Diaz, durante un convegno di diritto internazionale, a cui partecipavano anche i genitori di Giulio Regeni, non aveva fatto mistero delle sue opinioni sull'operato delle forze dell'ordine italiane. «I nostri torturatori sono ai vertici della polizia», aveva dichiarato senza mezzi termini. Nel suo discorso aveva affrontato il tema della morte di Regeni, il ricercatore friulano assassinato in Egitto nel 2016, il ruolo delle forze di sicurezza egiziane e il pantano in cui sono finite le indagini al Cairo. Secondo Zucca l'11 settembre 2001 e il G8 di Genova «hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper fare. I nostri torturatori, o meglio chi ha coperto i torturatori, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono ai vertici della Polizia. Come possiamo chiedere all'Egitto di consegnarci i suoi torturatori?». Parole pesanti, che generalizzano, come se le illegalità di alcuni trasformassero in fuorilegge tutti i poliziotti italiani. Dura, perciò, la replica del capo della Polizia, Franco Gabrielli, il quale ha definito «oltraggiose» le parole del magistrato genovese. «Noi facciamo i conti con la nostra storia ogni giorno - ha sottolineato -. Noi sappiamo riconoscere i nostri errori. Noi, al contrario di altri, sappiamo pesare i comportamenti. Ma, al contrario di altri, ogni giorno i nostri uomini e le nostre donne su tutto il territorio nazionale garantiscono la serenità, la sicurezza e la tranquillità. E in nome di chi ha dato il sangue, di chi ha dato la vita, chiediamo rispetto. Gli arditi parallelismi e le infamanti accuse - ha sentenziato Gabrielli - qualificano soltanto chi li proferisce». Anche i vertici della magistratura hanno preso le distanze. Il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha detto che quella della toga genovese «è stata una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata». Legnini, nel corso dell'apertura del plenum del Csm, ha espresso «piena fiducia e sostegno ai vertici delle forze di polizia per l'opera insostituibile nella sicurezza nazionale». Il vice presidente del Csm ha anche rilevato che con quelle le dichiarazioni il magistrato «è intervenuto, facendo riferimento a un procedimento di cui si è occupato con impegno e professionalità, su un altro procedimento molto delicato, che vede anche la gestione di rapporti internazionali, della Procura di Roma, esprimendo giudizi sulle forze di polizia, facendo riferimento a quelle vicende processuali». Insomma, per Legnini, Zucca ha espresso «un giudizio inappropriato sulla polizia». Il magistrato genovese ha cercato poi di correggere il tiro. «La frase riportata è imprecisa, estrapolata da un contesto più ampio», ha precisato. «La rimozione di un funzionario condannato è un obbligo convenzionale non una scelta politica», ha aggiunto riferendosi a Gilberto Caldarozzi, condannato per la Diaz e oggi vice direttore della Dia. E ha spiegato il senso del suo discorso: «Il governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Noi violiamo le convenzioni, quindi è difficile farle rispettare ai paesi non democratici». In sua difesa accorrono Area e Magistratura democratica: per Md le parole di Zucca «non sono oltraggiose per le forze dell'ordine». Ma nel frattempo il pg della Cassazione, che assieme al Guardasigilli è titolare dell'azione disciplinare, ha avviato accertamenti preliminari per quelle dichiarazioni, disponendo l'acquisizione degli atti relativi alle parole di Zucca.

Sicuri che non abbia qualche ragione? Scrive Piero Sansonetti il 22 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Le dichiarazioni molto aspre del Pm genovese Enrico Zucca, a proposito dei vertici della polizia, aprono almeno due problemi complessi e di difficile soluzione. Tutti e due riguardano il rapporto intricato che esiste tra libertà ( e diritti individuali) e Istituzioni ( e doveri istituzionali). Zucca ha usato frasi- shock per sollevare il problema, e forse (probabilmente) ha sbagliato. Ma la sollevazione contro di lui da parte dei vertici delle istituzioni rischia di nascondere sotto il tappeto molta polvere. Polvere che esiste ancora nel funzionamento di alcune nostre istituzioni che dispongono di grandi poteri. Per esempio la polizia, per esempio la magistratura. Vediamo la prima questione, che è la più bruciante. Il dottor Zucca, certo, ha torto però ha anche un po’ ragione…Zucca ha messo sul tavolo il tema del diritto al reintegro dei funzionari di polizia condannati per reati che riguardano l’esercizio delle proprie funzioni e il rapporto con i cittadini. Lo ha ha fatto usando parole un po’ più ruvide di quelle che sto adoperando io. Ha detto: «Torturatori». La giustificazione formale per l’uso di questo termine, molto ingiurioso, è che effettivamente a Genova, nel 2001, ci furono episodi gravi di vera e propria tortura da parte di poliziotti e altri tutori dell’ordine. E questo fatto gettò un grande discredito sul nostro paese: ne sfregiò l’immagine a livello internazionale. Il problema è che una cosa è dire che ci fu tortura, e un’altra cosa è indicare i nomi dei torturatori, o almeno farli intuire, riferendosi a persone – dirigenti di polizia – che sono stati con- dannati da un tribunale ma per reati diversi dalla tortura (reato che all’epoca, peraltro, non esisteva). Domanda: può un magistrato, il quale ha il dovere di dimostrare rigore ed equilibrio di fronte a tutti i cittadini – perché tutti i cittadini, potenzialmente, potrebbero essere giudicati da lui – usare giudizi approssimativi in un suo ragionamento politico? E per di più, approssimativi sul piano giuridico? O invece deve astenersi, o dal ragionamento politico, o comunque dalle forzature polemiche?

Mi spiego meglio. Io penso che la sostanza del ragionamento di Zucca abbia un fondamento. Anch’io mi sono sempre chiesto come possa uno Stato che per dire – ha visto un suo cittadino (penso a Stefano Cucchi) picchiato a morte in una sua prigione (nella quale, oltretutto, era stato portato per motivi discutibili), e che dieci anni dopo non sa ancora dirci chi ha picchiato a morte Stefano, dove, come e perché; come può, dicevo, indignarsi perché lo Stato egiziano non sa dirci come è stato ucciso Giulio Regeni? Ipocrisia massima. Io però non sono un magistrato, e – volendo – posso anche esagerare nella polemica. Il dottor Zucca – che ha sollevato esattamente questo tema, con più di una ragione – è autorizzato a farlo usando toni ancora più alti e azzardati di quelli che sto usando io, libero cittadino senza incarichi nello Stato?

E’ la sostanza del problema, vecchio – e che ci si ostina a non affrontare – del rapporto tra magistratura e politica, e dei limiti che i magistrati devono imporsi. Naturalmente il pensiero va immediatamente ad altri magistrati, anche con incarichi molto più alti di quelli del dottor Zucca, che varie volte hanno distribuito alla stampa e alla Tv pareri molto spericolati, ad esempio, sulla colpevolezza a prescindere dei politici, e non solo, ed è impossibile non notare che nei confronti di quei magistrati le reazioni sono state molto più blande e quei magistrati non sono mai stati sottoposti a procedimenti. In ogni caso il problema c’è, è lì, e andrebbe affrontato una volta per tutte. Fino a quale confine può spingersi la libertà politica di un magistrato senza mettere in discussione la sua credibilità e la sua terzietà?

Quando la politica porrà mano a questo problema sarà sempre un po’ tardi. La seconda questione è quella del rapporto tra garanzie individuali e funzione pubblica. Io non so bene a quali poliziotti si riferisse il dottor Zucca. Sicuramente c’è il caso del dottor Gilberto Caldarozzi, che è appunto uno dei poliziotti condannato per le violenze di Genova e che, dopo aver scontato la pena, è stato reintegrato ed è stato nominato ai vertici della Direzione nazionale antimafia. Ha assunto il ruolo di vicedirettore. E’ chiaro che ci sono due esigenze giuste che cozzano. La prima è il rispetto del senso della pena. Aver scontato la pena estingue il reato. E una volta estinto il reato e pagato il prezzo per i propri errori, ciascuno di noi ha il diritto di essere pienamente reintegrato nella società. Anche il poliziotto che ha sbagliato a Genova. Ma, detto questo, mi chiedo: è giusto che sia assegnato un compito delicato come quello di guidare la lotta alla mafia e al terrorismo, a una persona che in passato ha svolto i suoi compiti usando metodi inaccettabili e che hanno provocato grandi ingiustizie? Quali certezze ho che questa persona, seguendo le indagini e quindi occupandosi di cittadini sospetti ma innocenti, non userà ancora i metodi che ha usato a Genova? Sono – lo vedete bene – due esigenze tutte e due sacrosante ma inconciliabili. Vi confesserò che questo problema non so risolverlo, nemmeno sul piano teorico. Stavolta, in modo clamoroso, rivendico il diritto al dubbio.

G8 e torturatori, continua la polemica. Sansa si schiera con Zucca: «Ha detto solo la verità», scrive il 23 marzo 2018 Marco Grasso su "Il Secolo XIX". È un’altra giornata di polemiche sulle dichiarazioni di Enrico Zucca, pm che indagò sull’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 del 2001, pronunciate a un incontro con i genitori di Giulio Regeni («chi ha coperto i torturatori del G8 è ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di rispettare convenzioni che noi stessi violiamo?»). In sua difesa interviene Adriano Sansa, ex pretore d’assalto ed ex sindaco di Genova: «Esprimo massima solidarietà a Zucca e non posso che stimarlo, se a sessant’anni ha ancora voglia di indignarsi. Anche a me capitò di subire due procedimenti disciplinari per dichiarazioni che feci, ne uscii sempre pulito. Le cose che ha detto sono tutte vere. Nessuno infatti le ha confutate nel merito e ora il dibattito, in modo surreale, ruota attorno “all’opportunità” delle sue opinioni. Oggi non è più come vent’anni fa, i giovani magistrati hanno paura a esprimere il proprio pensiero, c’è un clima di sfiducia nella magistratura nel Paese, e più in generale di disinteresse nei confronti della cosa pubblica. E questo è un male: un giudice per essere indipendente, e immune dal potere, deve sentirsi protetto dalla cittadinanza».

«Ci vuole equilibrio». Dopo l’attacco del capo della polizia, Franco Gabrielli («da Zucca accuse infamanti e parole oltraggiose»), anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte ha espresso parole critiche nei confronti del magistrato genovese: «Il pm deve essere imparziale ed equilibrato, sia nel corso del processo, sia nella fase successiva, quando ormai lo stesso processo è chiuso. Un’eccessiva aggressività anche nel commentare i fatti del processo dopo anni potrebbe dare l’impressione di un atteggiamento animoso che ha influenzato le scelte processuali». Parole che, a loro volta, hanno provocato reazioni sdegnate da parte di molti iscritti a Magistratura democratica, corrente progressista delle toghe, cui appartiene lo stesso Albamonte. «Non sa di cosa parla - commenta Zucca - lo stesso Gabrielli ha riconosciuto che nelle inchieste sul G8 non è mai mancata imparzialità». Sempre ieri, è arrivato un appello di solidarietà al pm firmato dalla sigla Giuristi democratici. Nel frattempo la procura generale della Corte di Cassazione ha acquisito la videoregistrazione del convegno, per valutare eventuali procedimenti disciplinari.

«Scomodo chi dice il vero». Sansa, un po’ come Zucca, porta su di sé la fama di magistrato “scomodo”: «È una definizione che di solito uno non si sceglie, lo posso assicurare - scherza - Zucca è una persona onesta e un magistrato rigoroso. Forse per questo dà fastidio. Tutti parlano di sovrastrutture e continuano a evitare il merito della questione: è un fatto che il G8 fu una vergogna per la città e per la polizia; è un fatto che alcuni poliziotti che si macchiarono di reati gravi, come il falso, abbiano fatto una grande carriera; ed è un fatto che l’Europa ha definito quei comportamenti torture, e che abbia condannato l’Italia per non aver portato avanti procedimenti disciplinari e non esserci dotati di legge sulla tortura. Dovremmo riflettere sul generale restringimento del spazio del dibattito pubblico. Quando fui sottoposto a un procedimento disciplinare, scoprii con stupore che uno studente, su un treno, raccolse in mio favore 400 firme a mia difesa. Temo che oggi non accadrebbe più».

Zucca. Tortura e vertici di polizia. La verità fa sempre scandalo anche a un corso per avvocati e giornalisti, scrive il 23 marzo 2018 su "Articolo 21" Marcello Zinola. Una scomoda verità sulla quale, allora, “dagli addosso alla pelle dell’orso”. E se poi l’orso è un magistrato, oggi sostituto procuratore generale, ma protagonista di molte delle indagini sul G8 di Genova allora ancora meglio. Perché così si può scatenare il capo della polizia che si era scusato (alla luce delle reazioni sui fatti dell’altro ieri erano e sono state sincere e credibili?) con una lunga (ritardata di oltre 15 anni) confessione giornalistica su Repubblica proprio per i fatti di Genova 2001. Ma questa volta per bastonare il magistrato, Enrico Zucca, perché a un corso di formazione dell’ordine degli avvocati di Genova, condiviso anche dall’Ordine dei giornalisti della Liguria, quindi in un consesso di noti attentatori delle istituzioni, ha ricordato come ai vertici della polizia in passato e nel presente si siano tenuti «dei torturatori o chi li ha coperti». Con riferimenti precisi anche agli anni di piombo (l’ex funzionario Ucigos De Tormentis (1) e i “quattro dell’Ave Maria”) e al 2001 «anno tragico e drammatico non solo per la vicenda genovese del G8 ma per il quadro internazionale, l’11 settembre e quanto ne derivò». I processi hanno confermato come ci fu tortura anche se all’epoca non era prevista come reato (difficilmente potrà esserlo anche con la legge approvata nei mesi scorsi) nella sezione del carcere provvisorio (primo e unico caso dell’Italia repubblicana) nella caserma di polizia di Bolzaneto, o abusi vari su arrestati che non dovevano essere arrestati come nel caso della Diaz. Enrico Zucca non ha detto nulla di sconvolgente e, tantomeno, ha parlato tanto per ottenere “due righe in cronaca”, basta ascoltare il lavoro-video della giornalista genovese di Repubblica, Giulia Destefanis (componente della giunta della Associazione Ligure dei Giornalisti della Fnsi). E vanno tenuti presenti alcuni elementi anche per chiarire cosa molti politici (ma non sarebbe quasi una notizia), alti vertici della polizia e anche un po’ i media hanno confuso o fatto finta di non sapere per creare ancora più confusione. Posso dirlo perché c’ero, dall’inizio alla fine e le registrazioni del confronto sono lì a dimostrarlo.

Innanzitutto IL LUOGO. Ovvero il centro formazione degli avvocati genovesi. Il corso era sui diritti delle persone all’estero oltre che nel loro paese. Con al centro il caso Regeni i cui genitori erano tra i relatori con l’avvocato Alessandra Ballerini e il giornalista Giuliano Foschini di Repubblica, il presidente della sezione ligure dell’Anm Domenico Pellegrini e il presidente dell’ordine forense genovese, Alessandro Vaccaro. Un legale, Vaccaro (tanto per capirci), criticato da alcuni legali (tranquilli, non è un pericoloso anarcoinsurrezionalista, è un laico) per avere partecipato all’inaugurazione della sede degli avvocati di strada di Genova nella sede dell’associazione di don Gallo ribadendo che i diritti sono di tutti e i legali devono sempre ricordarsi di tutelare i deboli.

I FATTI. Enrico Zucca è stato introdotto nell’intervento da Giuliano Foschini che ha collegato la domanda al magistrato con quanto avevano detto poco prima i genitori di Giulio, sulle istituzioni, sulla tortura, le loro delusioni, la volontà di esserci sempre e di non mollare. Zucca ha centrato, in sostanza, tre elementi.

I PRINCIPI E LA LORO “FEDE”. Principi di diritto e di democrazia, dei diritti delle persone (tema peraltro sottolineato nell’intervento del presidente dell’Anm Ligure, Domenico Pellegrini), la credibilità delle istituzioni che si misura anche sulla capacità di reazione alle violazioni e sulla nostra capacità di rivendicare i diritti umani: oggi come e quanta ne abbiamo? O diamo per scontato che determinati fatti, regole cadute o non rispettate per esigenze di sicurezza o ragion di stato siano accettabili?

LA RAGION DI STATO E LE RAGIONI DI SICUREZZA. Elementi che nei fatti hanno come effetto, con la loro accettazione, «quello di annullare o di impedire l’accertamento della giustizia (…) di impedire la giustizia (…) ripetendo il corto circuito non c’è verità senza giustizia, non c’è giustizia senza verità (..) insomma non c’è pace senza giustizia». Temi e parole da sovversivo? Forse, ma detto da laico, più da scandalo evangelico (Zucca ha anche sottolineato un paio di volte come i diritti siano oggi un principio molto relativizzato) che da richiesta di sanzioni o stracciamento delle vesti del capo della polizia.

LA TORTURA, CHI LA COPRE, CHI LA PRATICA: ROBA DA PROFESSIONISTI. A spiegare che la tortura non è cosa “banale” o occasionale, parlando dell’Egitto, era stata poco prima di Zucca, la mamma di Giulio Regeni. Zucca ha costruito il suo ragionamento dopo quello sui principi. Ricordando – facendo le debite differenze tra Italia ed Egitto – la difficoltà o talvolta anche il ritardo nell’azione dei pm in queste indagini. Ancora: «la tortura non è una una cosa sporadica (…) Non possiamo trascurare il fatto che la tortura non è da dilettanti ma da professionisti (…) è istituzione perché non è sporadica o eccezionale (…) se in Egitto si tortura in quel modo è perché “necessita”» ovviamente «al sistema dittatoriale». A questo punto lo snodo per dire, in sostanza «come facciamo con la nostra storia (…) persone che hanno coperto o tenuto torturatori ai vertici della polizia (…) con che voce possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci la verità cioè i torturatori?».

Ecco lo scandalo, la notizia clamorosa (?). Zucca ha semplicemente ricordato dei fatti: le sentenze del G8, indirettamente le promozioni (ne abbiamo parlato a lungo qui in Articolo 21) di condannati e inquisiti. I fatti degli anni di piombo (il caso De Tormentis e i “quattro dell’Ave Maria”). Cosa ha detto di diffamatorio? Che (da sentenza) «le nostre forze di polizia non ci hanno consegnato un torturatore (…) a Bolzaneto non siamo stati in grado di consegnarci nessun torturatore (..)». Oppure che «a una verità brutta, scomoda, ci siamo abituati»? Certo ha ribadito il concetto un paio di volte. E allora? Sconvolgente e diffamatorio per il capo della Polizia avere ricordato fatti e sentenze? Il “pudore” e i ritardi (e solo dopo reiterate condanne della Cedu) con cui l’Italia ha approvato una (blanda e di difficile applicazione) legge sulla tortura? Oppure avere invitato i genitori di Giulio a non «sentirsi petulanti (…) o portatori di istanze scomode (…)» continuando «a sbatterci faccia la realtà»?

Ecco cosa 17 anni dopo il G8 è accaduto in un pomeriggio guarda a caso, nuovamente di Genova, non in un rodeo di piazza con vetrine in fiamme, ma a un corso di formazione sui diritti. La verità, infatti, spesso è scomoda e a quella odiosa, schifosa, citata da Zucca o ci stiamo abituando o c’è chi lo ha già fatto da tempo. A Genova 2001 arrivammo (anche molti di noi) assopiti e tranquilli. Anzi scandalizzati per quelli come Zucca, i genitori di Giulio, Alessandra, che continuano a «sbatterci in faccia la realtà».

Nicola Ciocia Era un funzionario di polizia noto nell’ambiente con lo pseudonimo di professor De Tormentis con squadre speciali di intervento una detta i 4 dell’Ave Maria. Il professor De Tormentis parla diffusamente il libro di Nicola Rao: Colpo al cuore. Dai pentiti ai metodi speciali: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata. Venne intervistato da Il Corriere della sera (10 febbraio 2012) e ammise di essere la persona indicata appunto con lo pseudonimo di «professor De Tormentis». Ad attribuirgli il soprannome spiega il Corriere – fu Umberto Improta del quale Ciocia fu uno stretto collaboratore.

In libreria: INNOCENTI. Il nuovo libro di Alberto Matano, scrive l'1 aprile 2018 "Da Sapere". “L’errore umano esiste in ogni campo, ma dobbiamo ricordarcelo, prima di puntare il dito su chiunque venga anche solo indagato, figuriamoci se viene arrestato. Potrebbe capitare anche a noi. La realtà è complessa, il sistema giudiziario affaticato, la giustizia, parola meravigliosa, a volte sembra un’utopia. Non per questo dobbiamo smettere di crederci e di pretenderla”.

Dalla Prefazione di Daria Bignardi. Gridare la propria innocenza e restare inascoltati. Trovarsi all’improvviso a fare i conti con un marchio indelebile. È l’incubo che ciascuno di noi potrebbe trovarsi a vivere, con le foto segnaletiche, le impronte digitali, i processi, gli sguardi della gente e i titoli sui giornali, l’esperienza atroce del carcere tra pericoli e privazioni. Un inferno, e in mezzo a tutto questo sei innocente. È una ferita che rimane aperta, anche a distanza di anni, nonostante le assoluzioni e – non sempre – le compensazioni economiche. Lo sanno e lo raccontano i protagonisti di questo libro, presunti colpevoli, riconosciuti innocenti. Maria Andò, accusata di una rapina e di un tentato omicidio avvenuti in una città in cui non è mai stata. Giuseppe Gulotta, la cui odissea di processi e detenzioni in seguito a un clamoroso errore giudiziario dura quarant’anni, di cui ventidue in carcere. Diego Olivieri, onesto commerciante che finisce in carcere per una storia di droga, per colpa di un’intercettazione male interpretata. E gli altri protagonisti di queste pagine, che raccontano le loro esperienze e i loro incontri, i loro traumi e la loro ostinata volontà di rinascita. Alberto Matano costruisce in questo libro una narrazione intensa e cruda, in cui ogni singola vicenda è un capitolo avvincente di una storia più grande, quella dell’ordinaria ingiustizia che accade accanto a ognuno di noi, senza che la vediamo. Un invito a esercitare la nostra attenzione e la nostra umanità, ogni giorno. “Quando finisci in carcere e dici di essere innocente non ti crede nessuno, lì sono tutti innocenti”. Immaginatevi, soltanto per qualche secondo, di trovarvi in questa situazione, di finire dietro le sbarre, senza neanche capire perché, e con la consapevolezza di non aver fatto nulla. Gridare la propria innocenza, e restare inascoltati. Trovarsi all’improvviso a fare i conti con quel marchio indelebile, anche a distanza di anni quando tutto è finito, quando la giustizia, che ha sbagliato, alla fine è giusta. È l’incubo che ciascuno di noi può trovarsi a vivere e di cui sappiamo spesso troppo poco.

Alberto Matano, giornalista, conduttore del Tg1 delle 20, dal 2017 è autore e conduttore della trasmissione di Rai3 “Sono Innocente”, giunta alla sua seconda edizione.

L’8 aprile torna, su Rai3, “Sono Innocente”. Alberto Matano racconta le novità della nuova edizione, scrive il 31.03. 2018 Renato Franco su Il Corriere della Sera. L’impersonalità della legge e la fallibilità dell’uomo, la giustizia che diventa ingiusta, persone innocenti la cui vita si trasforma in incubo. È in questo perimetro narrativo in cui si muove «Sono innocente», il programma condotto da Alberto Matano che torna da domenica 8 aprile in prima serata su Rai3. «Raccontiamo storie di gente come noi, persone comuni, che all’improvviso si ritrovano in una prospettiva di vita ribaltata — spiega il giornalista —. Persone che senza sapere bene perché finiscono ingiustamente in carcere». In questa nuova stagione il racconto si dividerà in tre momenti, con tre storie differenti tra loro: le vicende di persone comuni; quelle di persone famose; quelle a tinte più oscure che trattano di pedofilia, satanismo e omicidi efferati. Cosa c’è alla radice di questi clamorosi errori giudiziari? «Indagini frettolose e fatte male, la necessità di trovare un colpevole, in molti casi uno scambio di persona, spesso il pregiudizio: sulla famiglia di origine, sulle frequentazioni, sul luogo dove si vive, come è successo a due ragazzi — uno di Scampia e l’altro di Casal di Principe — che sono stati accusati e condannati per il solo motivo di abitare nel luogo sbagliato. L’errore è umano, ma quando si può influire così tanto sulla vita delle persone, un supplemento di responsabilità e rigore è necessario». Sulla storia più dura Matano non ha dubbi: «La vicenda di Aldo Scardella, lo studente universitario di Cagliari, ingiustamente accusato di omicidio e morto suicida in carcere». «Sono innocente» rievoca anche quei casi di ingiustizia di rilevanza nazionale che hanno segnato il vissuto collettivo: da Enzo Tortora, con la presenza in studio della figlia Gaia, al delitto di Meredith Kercher, con la testimonianza di Patrick Lumumba. Anche lo chef Filippo La Mantia finì in carcere negli anni 80 per un delitto di mafia: «All’epoca faceva il fotoreporter a Palermo e fu accusato di favoreggiamento nell’ambito delle indagini sull’omicidio Cassarà. La Mantia racconta che nelle cucine del carcere sviluppò quell’attenzione al gusto che è poi è diventata la passione della sua vita». Il risarcimento però è una magra consolazione. Chi baratterebbe 22 anni di carcere con 6 milioni di euro quando esci a 60 anni? «Tutti gli innocenti ingiustamente condannati dicono la stessa cosa, nessun risarcimento ti darà indietro quello che hai vissuto, quello che hai provato, quello che hai perso». Anche la riabilitazione sociale non ha lo stesso impatto che hanno avuto le condanne sulla vita delle persone: «Quando la giustizia rimette le cose a posto, l’eco è decisamente minore rispetto al clamore precedente. Vito Gamberale, il dirigente pubblico arrestato con l’accusa di abuso d’ufficio e concussione, mostrerà la rassegna stampa che lo riguarda: centinaia di pagine sulla sua condanna, appena tre fogli sull’assoluzione con formula piena».

M COME MAFIA DELLE MAFIE E DELLE ANTIMAFIE.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CASTOPOLI” E “LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA” E “MAFIOPOLI” E “MASSONERIOPOLI” E USUROPOLI”.  Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Bergoglio, Ratzinger e Wojtyla, i tre papi antimafia. Le condanne e gli anatemi dei pontefici nel tempo: una sola voce contro la criminalità organizzata, scrive Orazio La Rocca il 17 settembre 2018 su "Panorama". "Mafiosi, convertitevi! Chi uccide non è cristiano!". "Mafiosi, convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!". Sono i due storici pubblici anatemi contro cosche mafiose e malavita organizzata in Sicilia e altrove lanciati con parole quasi uguali da due papi a poco più di 25 anni di distanza l'uno dall'altro. Il primo è di Giovanni Paolo II, il polacco Karol Wojtyla, pronunciato in Sicilia il 9 maggio 1993. Il secondo, esternato qualche giorno fa da papa Francesco, l'argentino Jorge Mario Bergoglio, a Palermo nel suo secondo viaggio in Sicilia, dopo quello dell'8 luglio 2013 a Lampedusa. Ma nelle condanne antimafia, Wojtyla e Francesco nel corso dell'ultimo quarto di secolo non sono stati soli. Un analogo anatema antimafia l'ha pronunciato il più grande teologo contemporaneo, il tedesco Benedetto XVI, a Palermo nel 2010.

I tre papi stranieri contro la mafia. Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio, vale a dire i 3 papi non italiani - solo un caso? - che si sono sentiti in dovere di correre in Sicilia per dire con una simbolica sola voce "mafiosi, basta! Convertitevi! Cambiate vita! Quello che fate non è cristiano, Dio non è con voi! Dio ha ordinato non uccidere!". Una positiva casualità che, ovviamente, non cancella gli interventi contro guerre, dittature, mafie, malavita, oppressioni, sfruttamento dell'uomo contro l'uomo, fatti anche dai papi del secolo scorso, da Leone XIII a Benedetto XV il papa che disse no alla prima guerra mondiale definendola "inutile strage"; da Pio XI, il papa dell'enciclica contro il nazismo e il comunismo, che si rifiutò di ricevere Hitler nella sua unica visita alla Roma di Mussolini, a Pio XII, condannò le persecuzioni antiebraiche in un messaggio diffuso dalla Radio Vaticana, e salvò migliaia di ebrei nelle cattedrali e nelle chiese di Roma; da Giovanni XXIII, il papa della Paem in Terris, l'enciclica che contribuì a raffreddare le tensioni Usa-Urss; a Paolo VI, il papa che all'Onu gridò: "Mai più la guerra! Mai più la guerra! Svuotate gli arsenali e riempite i granai per sfamare poveri e affamati!.

Dire no ai boss in casa loro. Il merito storico di Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio è, in sostanza, aver affrontato tutti e tre il cancro della mafia a viso aperto sul suo stesso territorio. Giovanni Paolo II lo fa senza averlo programmato in Sicilia nel '93 quando - parlando alla spianata della Valle dei Templi di Agrigento, appoggiato alla croce astile come una sorta di protezione e col dito della mano destra puntato in alto - pronuncia con rabbia e determinazione parole antimafia che hanno segnato la storia in termini di chiarezza e di indiscutibile scelta a favore della legalità, nel tormentato rapporto tra boss e Chiesa. Quella Chiesa troppe volte “usata” dalle cupole mafiose per ostentare “una religiosità falsa e antievangelica”, avverte tra l'altro Wojtyla parlando a braccio. Seguendo poi il suo istinto di antico pastore che lotta per salvare il suo gregge in pericolo ordina "mafiosi convertitevi, verrà un giorno il giudizio Divino! Dio ha detto non uccidere! Basta! Fermatevi! Questa Sicilia non merita tutto questo...pentitevi!...!". Parole inequivocabili che toccarono il cuore della gente siciliana, e non, anche dei diretti interessati, i mafiosi nascosti nelle loro tane o intrufolati tra i pellegrini.

Bombe e morti, le "risposte dei mafiosi. Ma la risposta, purtroppo, non tardò a venire con gli attentati mafiosi alla biblioteca-museo dei Georgofili di Firenze e alla basilica di San Giovanni in Laterano, e a un'altra chiesa rinascimentale sul Palatino. Quando la mafia si sente accerchiata ed è colpita "risponde con la morte" - ha sempre sostenuto in libri e in migliaia di articoli Attilio Bolzoni, firma storica del quotidiano La Repubblica e tra i massimi esperti del fenomeno malavitoso italiano - perchè così "tenta di recuperare il terreno perduto e il dominio sul territorio attraverso la paura e la pressione sulle istituzioni civili e religiose, e sugli uomini". Ma dopo le bombe di luglio, il 15 settembre 1993 a Brancaccio due sicari uccidono don Pino Puglisi, il primo martire di mafia beatificato dalla Chiesa. Anche Benedetto XVI nel suo viaggio a Palermo nel 2010, in occasione del 17esimo anniversario dell'omicidio di don Puglisi, si pronuncia contro mafia e criminalità, appellandosi in particolare ai giovani: "Non abbiate paura di contrastare il male!... Non cedete alle suggestioni della mafia... Strada di morte".

Gli inchini della Madonne ai mafiosi, "scandalo anticristiano". Parole in totale sintonia con quelle pronunciate ancora a Palermo da Francesco che, nel celebrare il 25esimo anniversario del martirio di don Puglisi, rilancia il "mafiosi convertitevi!" di wojtyliana memoria. Ma condanna pure "l'inchino forzato delle statue della Madonna e dei Santi Patroni durante le processioni davanti ai capi mafiosi". Destinatari del monito di Bergoglio anche quei parroci che, per quieto vivere, ignorando la testimonianza di don Puglisi, si rendono complici, sebbene indirettamente, degli inchini delle Madonne davanti alle case dei boss. Deleterie scelte di "pace" sociale a scapito della vera fede che il papa ha bollato come "errate, anticristiane, umilianti per la religione e per i simboli della religiosità popolare". Qualche parroco, in verità, negli ultimi tempi si è opposto interrompendo le processioni e chiamando i carabinieri. Ma se Francesco ha sollevato il problema evidentemente la strada è ancora lunga perchè tutto il clero, siciliano e non, ma anche la società civile, si pongano sulle orme di don Pino Puglisi, come pure di don Giuseppe Diana martire della camorra in Campania, arrivando se necessario a sacrificare la vita per opporsi ai poteri mafiosi. L'argentino Bergoglio lo ha ammonito senza preoccuparsi di invadere campi socio-politici forse non propriamente ecclesiali. A parte i deleteri inchini delle Madonne. Ma è singolare che dai Palazzi delle Istituzioni e dai leader di tutti i partiti politici sono arrivati solo elogi ed apprezzamenti per papa Francesco "pubblico nemico" di mafiosi e delinquenti. Buon segno.

''La cupola che non c'è. La strana dimenticanza del Procuratore de Raho'', scrive Chris Barlati su Sa Defenza il 6 dicembre 2018. La notizia dell'arresto della "nuova cupola" di Cosa Nostra è una fandonia incommensurabile, errata storicamente e giornalisticamente, al punto da suscitare ilarità. La commissione di Cosa Nostra, tenendo presente il codice della Mano Nera, si è dissolta con Totò Riina che, a seguito dell'arresto nei lontani anni della lotta allo Stato, viene sostituito da Bernardo Provenzano, nuovo interlocutore della milizia siciliana tra i partiti di Governo e Falange Armata. Nessuna commissione si costituì per eleggere Provenzano che, di fatto, divenne il successore legittimo di Salvatore Riina. Tale circostanza indusse in molti ad ipotizzare una consegna del capo dei capi da parte dell'organizzazione mafiosa nelle braccia dello Stato a causa della sua spietata condotta stragista che attuò non solo nei confronti delle forze istituzionali, ma all'interno dell'organizzazione stessa con terrore ed assassini di amici e familiari. Con il raggiungimento della pax mafiosa, declassa anche il ruolo di Provenzano che, arrestato l'11 aprile del 2006, verrà completamente relegato ai libri di storia ed ai manuali della Dia. Nuovo capo indiscusso della Mafia, o meglio della "Cosa Nuova", sarà Matteo Messina Denaro, rampante "mafioso economista", colui che in passato scalò le vette dell'associazione criminale più potente d'Italia, collegandosi alla massoneria, alla ndrangheta ed ai Servizi Segreti.

La commissione provinciale è un organo che, ribadiamo, storicamente si riunisce per eleggere il capo dei capi, ovvero di tutta Cosa Nostra e non solo di Palermo. Le parole dei rappresentanti delle istituzioni hanno lanciato un messaggio inequivocabile, ribadendo come il prossimo della lista potrebbe essere il noto Matteo Messina Denaro, personaggio "al di fuori comunque della commissione provinciale e sicuramente il soggetto sul quale c'è tantissima indagine, tantissima attenzione". Ci si domanda, arrivati a questo punto, per quale motivo lo Stato ha così facilmente tratto in arresto quattro nostalgici sprovveduti che facilmente si sono lasciati andare in commenti intercettabili, mentre non è riuscito e non riesce nemmeno a stilare un identikit di chi ha assistono in diretta all'omicidio di Falcone e Borsellino, di chi ha saputo raccogliere l'eredità di Provenzano e coagulare in un super soggetto criminale, una "Cosa Nuova" unione di Cosa Nostra e 'Ndrangheta. E perché sottolineare, come ha fatto Cafiero de Raho, che Matteo Messina Denaro è estraneo alla commissione di Cosa Nostra, dunque non il capo dei capi, quando sappiamo che invece è esattamente il contrario?

Appare alquanto sospetto e pericoloso tutto ciò, questa voluta disinformazione sull'organigramma della criminalità siciliana che, iniziata con i servizi del programma di Berlusconi "le Iene", ha dato avvio ad una martellante campagna mediatica volta alla svalutazione dell'importanza di Matteo Messina Denaro ed allo spostamento di ogni pregiudizio ed attenzione al filone "Riina", oramai abbandonato da ogni inchiesta giornalistica a seguito del suo arresto e, in definitiva, della sua morte.

Le dichiarazioni di De Raho diventano anacronistiche ed errate nel prosieguo, e sarebbe troppo stupido pensare ad un errore del procuratore De Raho per le seguenti affermazioni: "Vi era un'esigenza per i capimandamento di individuare una disciplina di condivisione per tutti soprattutto in relazione alla nuova mafia. La nuova mafia è quella che si proietta sul globo intero. E' quella che si proietta sugli affari. E' quella che, sostanzialmente, riesce a cogestire anche con le altre organizzazioni: 'ndrangheta, camorra. E' questo che emerge dalle altre indagini. E' evidente che di fronte ad uno scenario di questo tipo, Palermo non poteva restare così arretrata da non condividere

con tutti i capimandamento quello che doveva essere il programma."

De Raho sembra dimenticare i colloqui avuti con Carmine Schiavone, il pentito che permise la scoperta di "terra dei fuochi" lo scandalo dell'interramento di fusti nucleari in aree dedite all'agricoltura, che avevano contaminato anche le falde acquifere campane. Carmine Schiavone, appartenente a Cosa Nostra campana, aveva più volte espresso stima nei riguardi di De Raho, al quale aveva confidato gli ostacoli interposti dallo stesso nucleo nazionale antimafia all'avanzare della verità.

De Raho pecca anche d'ignoranza nel definire la "nuova mafia" come una mafia che tenterebbe di cogestire e di immettersi nel "globo intero" (un paradosso di definizioni). La "nuova" mafia a cui fa riferimento De Raho è stata la mafia degli anni 2000, la mafia quotata in borsa e degli investimenti in buoni del tesoro. Tale mafia non può coesistere con altre organizzazioni poiché priva di centralismo. Senza un capo che possa stabilire una successione, un'organizzazione criminale non potrebbe per nulla al mondo prendere accordi ed immettersi sul mercato. La dimensione palermitana della cupola appena dileguata di Cosa Nostra è troppo piccola e priva di un capo per immettersi nei circuiti economici "globali", figuriamoci per convivere con 'ndrangheta e camorra. L'unica mafia in grado di proiettarsi nel mondo è la 'ndrangheta, non quella ufficiale, ma quella che da tempo ha conquistato i circoli massonici europei ed imprenditoriali, e che è arrivata addirittura a gestire lo spaccio di stupefacenti e ad assoldare la Black Axe, la mafia nigeriana, manodopera intoccabile dal punto di vista legislativo, perfettamente adatta ai traffici di basso livello. De Raho speriamo si sia solo confuso con tali affermazioni, poiché è troppo informato sulla deviazione e la corruzione all'interno della stessa direzione nazionale antimafia, nonché sui patti espliciti tra servizi segreti e criminalità.

Con il tempo, saremo in grado di vedere se De Raho abbia voluto inviare uno specifico messaggio citando Messina Denaro o se sia stato solo un caso eccezionale ed isolato questo suo errore di linguaggio. La nuova cupola è stata arrestata? La mafia non ha più bisogna di una cupola per proteggersi. Certe cose le fa tranquillamente a cielo aperto. Oramai, è un'istituzione protetta da Governo, Servizi e libero mercato.

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017, su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Il 416 bis, quell'articolo che fa tanto discutere, scrivono il 18 settembre 2018 su "la Repubblica". Toty Condorelli e Giuseppe Nigroli - Link Campus University, relatrice professoressa Daniela Mainenti. Le parole del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini aprono una recente problematica riguardo l’interpretazione o la giusta connotazione dell’articolo 416 bis, in luce dell’affermazione di nuove associazioni criminali in zone del territorio italiano in cui si pensava non vi fossero infiltrazioni mafiose, ma solo presenza e diffusione di delinquenza generica. Il processo definito “Mafia Capitale”, suscita l’attenzione di una diatriba giurisprudenziale e dottrinale riguardo il capo di imputazione dei soggetti coinvolti e per i quali la Procura di Roma contesta l’aggravante del metodo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis, Codice Penale. In primo grado il Tribunale di Roma non ha accolto l’istanza della Procura (in Appello, qualche giorno fa, è avvenuto il contrario) riguardo l’attribuzione al sodalizio criminale dell’aggravante del metodo mafioso, non classificando le attività dei consociati corrispondenti alla previsione legislativa contestata (416 bis). La motivazione della sentenza dimostra quanto la previsione della fattispecie astratta del 416bis non sia più adatta a prevedere nuove tipologie di mafie diverse da quelle affermatesi negli anni addietro in Sicilia e Calabria, le quali si connotavano per la forza di intimidazione con metodo sovversivo, l’assoggettamento e l’omertà come aspetto fenomenico consequenziale all’esercizio della forza di condizionamento mafioso che si manifesta nelle vittime potenziali dell’associazione. Nella formulazione dell’accusa, la Procura di Roma, a seguito di lunghe e dettagliate indagini, ha ricostruito un apparato criminale capillare infiltrato non soltanto nel mondo imprenditoriale, ma anche nel tessuto politico e amministrativo, operante secondo un metodo mafioso nuovo e camaleontico ed in grado di compiere svariati affari grazie ad un sistema corruttivo ad ampio raggio. Il vero punto di svolta a cui giunge la magistratura inquirente è la classificazione e l’affermazione di nuove condotte mafiose non sovversive nel rapporto tra mezzi usati e fini perseguiti dai consociasti del sodalizio criminale; non si assiste, infatti, a stragi ed omicidi per l’affermazione del potere, ma si costruisce un tessuto economico- politico illecito alternativo a quello statale finalizzato ad acquisire in modo diretto ed indiretto la gestione ed il controllo delle attività. E' questo l’elemento che dimostra maggiormente l’inadeguatezza e l’arretratezza dalla fattispecie astratta del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, elaborata negli anni ‘90 per contrastare attività criminali che si manifestavano con caratteri violenti e stragisti; “La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Con queste parole Giovanni Falcone ha dato un’importante connotazione umana ad un fenomeno criminale soggetto ad evoluzione storico-sociale. Ed è proprio a causa dello scorrere del tempo che previsioni legislative prodotte nei decenni precedenti possono non essere adeguate a disciplinare condotte mafiose “moderne” e “camaleontiche”, in grado di confondersi nel tessuto sociale ed economico dello Stato. Per far fronte a tali problematiche, la dottrina giuridica ha elaborato nuove teorie in tema di associazionismo mafioso, connotando con il termine “mafia silente” quel sodalizio che si avvale della forza d’intimidazione non attraverso metodi eclatanti, ma con condotte che derivano dal “non detto”, dall’“accennato” e dal “sussurrato”; questo concetto diventa penetrante nel processo “Mafia Capitale”, in quanto vi è una doppia interpretazione del 416 bis, letterale da parte del Tribunale, estensivo da parte della Procura. Secondo i principi del diritto penale in generale, e soprattutto secondo quello della certezza del diritto, la magistratura non può discostarsi dall’interpretazione letterale degli articoli del Codice, “ergo”, nel caso in cui non vi sia piena corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, non si integrano gli estremi del reato contestato dalla Procura, in quanto codicisticamente non aggiornato all’evoluzione del fenomeno mafioso. Sarebbe opportuno, quindi, un intervento legislativo mirato ad ampliare i confini del 416bis, ormai vetusto e legato a vecchie ideologie e concezioni di mafia stragista ed intimidatoria, che non trova più riscontro nella società moderna, ed a garantire soluzioni più concrete ed efficaci che possano creare consenso tra dottrina e giurisprudenza.

Fiammetta Borsellino: «La mafia uccise mio padre. Lo Stato ha depistato e insabbiato i dossier», scrive Damiano Aliprandi il 5 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Fiammetta Borsellino in questa intervista denuncia i depistaggi che hanno impedito di scoprire chi e perché ha ucciso suo padre. «Nessuno ha dato un contributo di verità negli anni, possibile che tutti siano stati fatti fessi da Arnaldo La Barbera?». Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso in Via D’Amelio, racconta a Il Dubbio il suo stupore di fronte al fatto che nessuno si sia accorto di quello che succedeva sotto i propri occhi, e cioè uno dei più “grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, così come è stato definito dalle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater. Fiammetta non si capacita soprattutto dei magistrati di allora che non solo credettero all’auto- accusa indotta di Vincenzo Scarantino, ma in seguito non presero atto della sua ritrattazione. In questi anni la figlia di Paolo Borsellino, assieme alla sua famiglia, ha lottato per la verità, non perdendo mai la lucidità, anche se il dolore per la perdita di un padre, ucciso barbaramente assieme alla sua scorta, è sempre più logorante con il passar del tempo. Il dolore aumenta soprattutto quando ci si accorge che alcuni ex colleghi del padre tradirono la sua fiducia. Però c’è una Procura, quella di Caltanissetta, che vuole andare fino in fondo. Non a caso, dopo la sentenza del Borsellino Quater, la Procura nissena ha rinviato a giudizio i tre poliziotti che avrebbero avuto un ruolo per il depistaggio. Tutti accusati di concorso in calunnia. I tre facevano parte del gruppo “Falcone-Borsellino”, creato dopo le stragi per fare luce su quanto accaduto nel 1992. Per l’accusa, i tre poliziotti avrebbero agito con l’aggravante di avere agevolato Cosa nostra. Il 5 novembre ci sarà la prima udienza preliminare. Fiammetta Borsellino si augura che sia una occasione per non limitarsi solo a stabilire le responsabilità di loro tre, ma per capire chi c’era dietro. Magari anche attraverso le testimonianze dei magistrati di allora. Quelli che sarebbero stati fatti “fessi” da La Barbera, il funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato, poi morto di tumore nel 2002. Parliamo della sentenza Borsellino quater, dove dalle motivazioni emerge il depistaggio (e non vengono salvati neppure gli inquirenti), tant’è vero che giudica le incongruenze, le oscillazioni e le ritrattazioni delle dichiarazioni di Scarantino, come elementi tutti che avrebbero dovuto consigliare un atteggiamento di particolare cautela. Si attendevano le motivazioni della sentenza, ma già il dibattimento aveva reso chiaro che Scarantino è stato indotto alla calunnia da coloro che lo gestivano. Oggi, il rinvio a giudizio dei tre investigatori, che parteciparono alle indagini sotto la direzione di La Barbera, non è che la naturale conseguenza di quello che era emerso durante il processo Borsellino quater. Ora in questo momento mi faccio solo una domanda: come questi investigatori, mandati a giudizio, possono aver fatto tutto da soli? Non finirò mai di farmi questa domanda. Anche il Csm, se da un lato ha fatto le audizioni, dall’altro ha messo le mani avanti, dicendo che non ha poteri. Mi sono chiesta se si potesse dare inizio ad un’audizione dicendo “scusate” al magistrato che si sta per sentire. Mi chiedo: chi ha potere per stanare certe verità?

Che cosa si aspetta da questo processo che partirà nei confronti dei tre investigatori?

«Mi aspetto che le persone chiamate a giudizio non dicano i soliti “non ricordo”. Ma non solo: io mi auguro che tra i testimoni che verranno citati ci siano anche i magistrati, e che in veste di testimoni diano dei chiarimenti esaustivi. Diversamente, ci dovremo rassegnare a non avere più una risposta alle domande sull’attentato che uccise mio padre».

Ma questo è un processo contro i tre poliziotti, e peraltro il loro superiore è morto.

«Sì, ma non è una scusante la circostanza di essere dei poliziotti e di aver eseguito solo degli ordini. Il problema è anche un altro: hanno fatto passare 27 anni, era prevedibile il rischio che certe persone potessero morire con tutti i loro segreti. In più, è vero anche che La Barbera era un dirigente del gruppo “Falcone- Borsellino”, ma a questi livelli non si può tacere che le persone del suo ruolo agiscano sotto l’impulso di vertici superiori, anche di magistrati. Mi auguro, da figlia e da cittadina, che non si rinunci a intraprendere questo percorso verso la verità: non so dove ci porterà, ma che sia la strada della giustizia. Non si può tacere che c’è un punto di rottura tra la famiglia e le istituzioni, non tutte naturalmente: se da un lato si è arrivati a intraprendere certi percorsi verso la verità grazie ad una Procura che sta lavorando in questa direzione, e nella quale noi riponiamo fiducia, è anche vero che questa stessa Procura non può fare tutto da sola: ha bisogno della collaborazione delle persone che saranno chiamate in causa».

Nelle motivazioni del Borsellino quater si cerca di affrontare non solo il discorso del depistaggio, ma anche la causa dell’attentato di Capaci richiamandosi all’indagine “mafia- appalti”, di cui recentemente noi de Il Dubbio ci siamo occupati molto.

«Sono convinta che nel dossier “mafia- appalti” ci siano le risposte: e non capisco perché sia stata chiusa l’indagine. Capisco però che ci sono persone che allora dovevano assumersi lo stesso impegno che si erano assunti mio padre, Falcone e tanti altri, per cercare la verità e invece questa verità l’hanno occultata, archiviando l’indagine. L’unico mio sapere è questo. Avrebbero dovuto fare qualcosa fin da subito, invece noi siamo stati ingannati dalle persone amiche o che si professavano tali, colleghi e quant’altro, che per lunghi anni – cosa che abbiamo capito dopo – ci hanno tenuti a bada e mai ci hanno informato di nulla. Siamo stati traditi a tutti i livelli, dai magistrati agli avvocati, in un momento in cui non potevamo fare nulla, perché a distanza di anni nulla si può fare se non sopravvivere a qualcosa di inimmaginabile. Mi domando, cosa avremmo potuto fare noi: forse i controllori dell’operato dei colleghi di mio padre, amici che entravano e uscivano da casa nostra? Del resto, anche oggi nessuno di loro Annamaria Palma o Nino Di Matteo sono gli unici che oggi posso citare – ha pensato di avvicinarsi a noi per darci delle spiegazioni».

Lei si è data molto da fare. È riuscita anche ad andare a trovare i fratelli Graviano che sono al 41 bis da anni. Ha avuto modo di parlare con loro? Che sensazione ha avuto?

«Ho avuto molti incontri che sono durati ore, ma devo dire con sincerità che non possono essere qui sintetizzati in poche parole, perché sono di una vastità enorme. Posso dire che queste sono situazioni che in pochi capiscono; solo chi ha fatto percorsi di questo tipo può intenderne a pieno il significato. Sono entrata in carcere grazie ai pareri delle Procure competenti, che erano almeno quattro perché i Graviano avevano processi pendenti. Io andavo a fare loro visita per capire, non certo per fare indagini. Né ci poteva essere pericolo di una specie di depistaggio, come invece fu detto dalle Procure che ad un certo punto, senza motivo, mi vietarono di proseguire gli incontri. Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta. Sono cosciente che hanno dato pure l’alibi a queste persone per non parlare, del resto nemmeno loro sanno con chi parlare: con il depistatore, con i magistrati di Caltanissetta dell’epoca, con chi? In più c’è da dire che l’informazione non dà risalto alle Procure che si stanno occupando di indagare sulla verità, dando invece accondiscendenza a un circuito mediatico che mette in evidenza altro. L’esito dei processi è stato emblematico: l’orrore stava a monte, già nell’individuazione del pool: cosa hanno dedicato a mio padre? Tinebra, notoriamente vicino alla massoneria; Palma, una che è andata a fare il Capo di Gabinetto del signor Pisani; Carmelo Petralia che nel Borsellino Quater ha dichiarato di non essersi mai occupato di mafia prima di allora, come scusante; e infine Di Matteo, che all’epoca era alle prime armi, e che ha negato di aver partecipato alle indagini, pur avendo condotto almeno 5 interrogatori. Mi chiedo: erano tutti nelle mani di Scarantino, fatti fessi da La Barbera, ignari e inconsapevoli?»

Clan al porto, Coop Ariete vittima per la Procura, collusa per la Prefettura. L'azienda aveva in organico (ereditato da altro appaltatore) tre pregiudicati che ha subito licenziato. Nel frattempo è stata interdetta dagli appalti, scrive Massimiliano Scagliarini il 14 Ottobre 2018 su "la Gazzetta del Mezzogiorno". In Tribunale siederà a fianco del ministero dell’Interno per chiedere i danni ai presunti mafiosi che avevano trasformato il porto di Bari nella loro base operativa. Ma per la Prefettura di Bari, la Cooperativa Ariete sarebbe stata strumento del clan Capriati, quelli di cui facevano parte i tre dipendenti arrestati ad aprile scorso. Un evidente paradosso tra due diversi approcci. Eppure venerdì alla coop barese delle pulizie, 1.200 addetti, 35 milioni di fatturato, è stata notificata una interdittiva ai sensi della legge antimafia che potrebbe avere conseguenze pesantissime. Un corto circuito anche temporale. Perché il provvedimento firmato dal prefetto Marilisa Magno è stato notificato proprio nelle stesse ore in cui il gup Antonella Cafagna ammetteva la costituzione di parte civile della Ariete nei confronti delle stesse tre persone contigue al clan Capriati che, secondo l’Ufficio territoriale del governo, sarebbero riuscite a «infiltrarsi nei complessi meccanismi del porto di Bari». Parliamo di un appalto da 1,5 milioni di euro per la gestione della viabilità del porto che rappresenta una piccola parte del fatturato della cooperativa e ne assorbe meno del 5% del personale. I 21 arresti chiesti in aprile dalla pm Isabella Ginefra, che ha qualificato Ariete come parte offesa, hanno riguardato anche Vito Capriati, figlio dello storico capoclan Filippo, e i due responsabili operativi dell’appalto, Giovanni Rossini e Vito Genchi, quest’ultimo procugino di Filippo Capriati, accusati di aver consentito agli uomini del clan di spadroneggiare nel porto. Genchi e Rossini erano stati assunti per effetto della clausola sociale (dal precedente appaltatore) e risultavano incensurati. Capriati, pure lui all’epoca incensurato, era invece transitato dalla Porti Levante Security, la società interamente partecipata dall’Autorità Portuale che si occupa della gestione degli accessi. Tutti e tre sono stati licenziati tra maggio e giugno scorso, dopo gli arresti. Ma per la Prefettura non è sufficiente: «Tale licenziamento, intervenuto poco prima dell’emanazione del provvedimento interdittivo, non solo appare “tardivo” ma ragionevolmente preordinato a preservare il controllo mafioso attraverso l’artificiosa creazione di una “ripulitura” della società». La tesi è insomma che Ariete «non poteva non sapere» chi fosse Vito Capriati, e che la sua presenza (e quella di altri pregiudicati impegnati nell’appalto del porto di Bari, anche loro «ereditati» dai precedenti appaltatori) sia sintomatica «di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della società». In questo senso, la Prefettura - che si basa sulle risultanze dell’indagine della Procura e sulle relazioni della Dia - valorizza un episodio dell’agosto 2014, riportato nell’ordinanza di arresto, ovvero la nomina di Genchi a nuovo responsabile operativo dell’appalto: il suo predecessore era il marito di una cugina di Filippo Capriati, da cui aveva divorziato perdendo così il ruolo di responsabilità all’interno del porto dove gli uomini del clan, secondo le indagini, erano in grado di spadroneggiare. La cooperativa, che ha licenziato complessivamente otto persone tra quelle considerate più «critiche» in relazione all’appalto del porto, farà ricorso al Tar. Ma nel frattempo l’interdittiva comporta il diniego all’iscrizione nella «white list» delle imprese, e dunque lo stop alla partecipazione alle gare d’appalto. Gli attuali contratti che Ariete ha in tutta Italia dovrebbero invece andare avanti sotto la gestione di commissari nominati dalla prefettura.

«Vi restituiamo le aziende, purtroppo son fallite…». Il tribunale dissequestra i beni dei Niceta: “Non siete mafiosi”, scrive Errico Novi il 10 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". L’avvocato, Roberto Tricoli, offre un prodigio di eufemismo: «La perizia del Tribunale di Palermo è stata lunga e complessa, alla fine si è accertato che i fratelli Niceta non erano affatto pericolosi, che le accuse di aver alimentato l’attività economica con soldi mafiosi era infondata: ma servono correttivi nelle norme sui sequestri di prevenzione, perché il meccanismo non va». E certo che non va. L’attività economica di Massimo, Pietro e Olimpia Niceta, nello specifico una quindicina di accorsatissimi (un tempo) negozi di abbigliamento tra Palermo e Trapani, è stata incenerita dagli amministratori giudiziari. Ieri la sezione Misure di prevenzione del capoluogo siciliano, ora presieduta dal dottor Raffaele Malizia, ha depositato l’ordinanza di dissequestro. Ha restituito alla famiglia di imprenditori un patrimonio che all’epoca valeva 20 milioni di euro. Peccato che, in 5 anni, sia fallito tutto. Tutto. Non c’è più una vetrina, né un dipendente: solo debiti da quantificare fra i 3 e i 4 milioni di euro. Non li hanno fatti Massimo, Pietro e Olimpia Niceta, no. Loro sono stati estromessi dalla gestione nell’ormai lontano 2013. Fu l’allora presidente della sezione Misure di prevenzione, Silvana Saguto, a ordinare il maxi sequestro. Adesso Saguto è sotto processo a Caltanissetta con tutta la rete di amministratori a cui era solita affidare le aziende. Su di loro incombe un’ottantina di capi d’imputazione. Ma i danni del “sistema” sono irreparabili. E la conferma viene proprio dalla vicenda dei Niceta, felicemente conclusa per modo di dire. «Oggi viene restituito l’onore, ai Niceta e ai loro dipendenti, ma non resta nulla delle loro attività», commenta il dirigente radicale Sergio D’Elia. Che ha praticamente reclutato uno dei fratelli, Massimo, come altre vittime dell’antimafia spericolata, nella campagna del partito di Pannella per cambiare le misure di prevenzione antimafia. E lui, l’imprenditore, si è fatto coinvolgere eccome. Ha girato la Sicilia e non solo con le “carovane della giustizia” radicali. Ha portato la propria testimonianza. E oggi la battaglia per cambiare le norme del Codice antimafia costituisce la sua vera ragione di vita. Ma di quel patrimonio fondato addirittura dal bisnonno dei tre fratelli “riabilitati”, restano solo i debiti fatti dall’assai allegra gestione degli amministratori giudiziari. Come nasce l’uragano che travolge i Niceta? A descrivere la follia della macchina governata fino a pochi mesi fa da una giudice poi radiata dalla magistratura, era stato Massimo Niceta in un’incredibile testimonianza pubblicata sul Dubbio lo scorso 10 aprile. Vale la pena di recuperarne ampie citazioni. «Nel 2009 io e mio fratello Pietro eravamo stati raggiunti da un avviso di garanzia per il reato di intestazione fittizia di beni in concorso con la famiglia Guttadauro. Il procedimento si basava su una serie di intercettazioni e su alcune audizioni di collaboratori di giustizia e, all’esito della naturale scadenza dei 18 mesi di indagini, era stato archiviato in quanto non sussistevano i presupposti per un rinvio a giudizio». Ma, scriveva ancora Niceta, «nel 2013 sulle stesse identiche basi, utilizzando le stesse identiche intercettazioni, siamo stati raggiunti da due diversi provvedimenti di prevenzione patrimoniale e personale. Uno, del Tribunale di Trapani, si è concluso con sentenza passata in giudicato, che ci ha dato ragione su ogni punto. L’altro, a firma della dottoressa Saguto, aveva come oggetto il sequestro del nostro intero patrimonio…». La meccanica sembrerebbe dunque questa: dove c’era un appiglio pur vago, pur smentito da precedenti ordinanze di archiviazione, si sequestrava e si affidava a una rete ben nota di amministratori giudiziari. I quali, scriveva sempre Niceta sul Dubbio nell’aprile scorso, «hanno preso un milione di euro in due anni: ben ventisette persone sono state collocate a vario titolo dentro la mia azienda causando la chiusura di quindici punti vendita e il licenziamento di centoventi dipendenti. Quindi il costo della legalità in realtà è questo: togliere il pane a qualcuno e darlo a qualcun altro che se lo mangia». Nessuno per quelle parole si è azzardato a querelare Niceta. Che ricordava d’altronde come «l’amministratore giudiziario nominato per la gestione del patrimonio» fosse «Aulo Gigante, oggi a processo a Caltanissetta, per fatti relativi alla gestione della nostra azienda». E in quel processo, Massimo e i suoi due fratelli si sono costituiti parte civile. Tutto chiaro? C’è bisogno di altro? Ieri Niceta si è tolto via facebook un bel po’ di sassolini dalle scarpe. Su di lui aveva infierito anche la delegazione M5s alla Regione Sicilia, che lo scorso 2 ottobre aveva protestato per il suo ingresso nella sala intitolata a Piersanti Mattarella in occasione di una delle assemblee radicali. Bersaglio di quegli anatemi era stata, con Massimo, un’altra vittima della giostra dei sequestri antimafia, Pietro Cavallotti, che ieri Niceta ha ringraziato così su facebook: «Con lui abbiamo avuto il coraggio di sognare un cambiamento e abbiamo cominciato un percorso che ci ha permesso di dire a tutti cosa succede con le misure di prevenzione» . Sergio D’Elia spiega di essere «felice per Massimo e per il segnale positivo che arriva dall’ordinanza: è da un anno e mezzo che questo imprenditore lotta, anche insieme con il Partito radicale. Si batte contro un sistema in cui le misure di prevenzione sono stabilite con procedimenti privi di contraddittorio, senza possibilità di difesa», ricorda il segretario di Nessuno tocchi Caino. Il “bello” è che nella legislatura appena trascorsa tale irragionevole compressione dei diritti è stata estesa anche ai reati associativi di corruzione. Un’impennata anziché un dietrofront. L’unica è sperare, in effetti, che casi come quello dei Niceta riaccendano una scintilla anche nel legislatore.

Mala gestio dei beni sequestrati. Prof e avvocati sotto accusa, scrive Riccardo Lo Verso Martedì 9 Ottobre 2018 su Live Sicilia. Un docente universitario, due avvocati e amministratori giudiziari. Per tutti e tre c'è la richiesta di rinvio a giudizio della Procura. Walter Virga, Luca Nivarra e Fabrizio Morabito, il prossimo 22 novembre, conosceranno il loro futuro processuale. L'udienza preliminare è fissata davanti al giudice Filippo Serio. Sono due le vicende che si intrecciano: il sequestro dei beni Rappa e la gestione di una grossa eredità. Furono gli eredi del ricco possidente Bartolomeo Sapuppo ad impugnare il testamento e a farlo annullare dal Tribunale. Il patrimonio era stato gestito fino a quel momento da Nivarra, professore di Diritto privato all'Università, e successivamente da Morabito. Dal 2006 erano stati incaricati dal Tribunale civile di occuparsi degli affitti di una settantina di appartamenti. Nel 2014 il testamento di Sapuppo fu annullato per “incapacità del testatore” e fu ordinato all'amministratore provvisorio di rilasciare i beni agli eredi. Nivarra, in carica fino al 2014 aveva nel frattempo passato l'incarico a Morabito, nominato dal Tribunale su indicazione dello stesso docente universitario. Erano amici e collaboratori. Nonostante le richieste e le diffide degli eredi, Morabito non ha consegnato la documentazione e i rendiconti del patrimonio. E così nel 2016 il Tribunale ha chiesto a un consulente contabile di ricostruire la situazione patrimoniale. Il procuratore aggiunto Sergio Demontis e i sostituti Francesca Dessì e Claudia Ferrari si sono affidati ai finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria. Il risultato è spiegato nel capo di imputazione: i due legali si sarebbero appropriati di oltre trecento mila euro di affitti pagati in contanti dagli inquilini e mai versati sul conto corrente. Per coprire gli ammanchi Nivarra avrebbe presentato “relazioni ideologicamente false”. Morabito, invece, si è difeso sostenendo che la colpa era degli inquilini morosi. Da qui l'accusa di peculato contestata ad entrambi. Nel corso delle indagini Morabito ha prima restituito 67 mila euro che, così ha detto, aveva trovato tra i carteggi della gestione, e poi ha effettuato diversi bonifici sul conto corrente della procedura per quasi 99 mila euro. Un modo, dicono gli investigatori, per rendere meno pesante il buco finanziario. Questa indagine è stata riunita con quella per falso e truffa, ipotesi contestate a Nivarra e Virga. Nivarra e l'avvocato si erano conosciuti all'Università. Il prof, infatti, aveva dapprima nominato Virga “cultore della materia nel 2003”, poi era stato relatore della sua tesi di dottorato nel 2007 e infine era stato membro interno nella commissione aggiudicatrice del titolo di ricercatore assegnato a Virga jr nel 2014. Il 2014 è l'anno in cui l'ex presidente delle Misure di prevenzione Silvana Saguto nominò Virga amministratore del patrimonio Rappa (la decisione sul dissequestro o la confisca è attesa nei prossimi giorni). A sua volta Virga scelse Nivarra per alcune consulenze legali: circa 30 mila euro di incarichi inutili anche perché Finmed e Med Immobiliare (due delle società del gruppo Rappa) avevano già dei professionisti. Una duplicazione, secondo l'accusa, decisa per favorire Nivarra.

Lo Stato nemico dei briganti e amico dei mafiosi, scrive il 20 giugno 2018 su "La Repubblica" Enzo Ciconte, Storico. Perché il Regno d’Italia, nato a seguito dell’impresa di Garibaldi e dei suoi Mille, sin dall’inizio sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione con camorra e mafia – che altro non sono che gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza per ottenere potere e ricchezza – mentre invece combatte i briganti fino alla loro sconfitta finale? È una scelta precisa: lo Stato combatte i briganti fino alla loro distruzione mentre per il fenomeno mafioso imbocca la strada opposta della tolleranza e della convivenza i cui effetti si prolungheranno fino ai nostri giorni. La scelta è fatta per assecondare i desideri della grande proprietà terriera meridionale che non accetta di venire incontro alle richieste dei contadini di avere almeno uno spicchio di terra delle immense distese di terreni demaniali usurpati con l’inganno dai galantuomini. Queste erano le terre richieste, mentre non c’erano rivendicazioni su quelle dell’aristocrazia il cui possesso legittimo non era posto in discussione. Ma la grande paura avvinse gli uni e gli altri preoccupati del fatto che, intaccate le proprietà degli usurpatori, si finisse col prendere di mira anche le altre proprietà. La conseguenza fu che tutte le richieste contadine furono respinte. E ciò alimentò il grande brigantaggio sociale che spinse alla macchia gran parte dei contadini che avendo occupato le terre temevano di finire in prigione. Nel fenomeno del brigantaggio, oltre ai criminali, ci furono anche coloro che sognavano il ritorno al potere della dinastia dei Borbone. Ma il brigantaggio di marca borbonica e clericale è durato un paio d’anni; s’è spento ben presto nell’illusione di far risorgere due regni – quello dei Borbone e quello del papa – che non sarebbero più tornati. Persino il generale Govone, uno degli ufficiali più noti di quel periodo, ha colto la radice sociale del fenomeno scrivendo che il brigantaggio era “una vendetta sociale la quale talora si applica con qualche giustizia”. I proprietari si sentirono minacciati dai briganti e protetti dai militari mentre i mafiosi erano visti, dagli stessi proprietari, come persone con le quali si poteva trattare e raggiungere un accordo. La lotta al brigantaggio è affidata con ampia delega ai militari che mostrano la loro inadeguatezza ad affrontare un nemico che usa i metodi della guerriglia invece che quelli insegnati nelle accademie militari più prestigiose e moderne. La carica in terreno aperto era un sogno irrealizzabile e le bande brigantesche erano favorite perché conoscevano i posti, i boschi e gli anfratti delle montagne. Il potere affidato ai militari ha determinato nei fatti la supremazia sulle autorità civili, prefetti e magistratura compresa. Hanno origine ben presto conflitti tra apparati dello Stato che si manifestano nei primi anni del nuovo Regno e che prelude ad altri, più impegnativi, conflitti. Durante il primo decennio della destra storica si sospendono le garanzie costituzionali per ragioni d’ordine pubblico. Non tutti erano d’accordo, ci furono discussioni e fondati dubbi sulla legalità dei provvedimenti che non vengono bloccati perché riguardano il Mezzogiorno; circostanza, questa, che rese la prima sperimentazione, che è una soluzione di forza, accettabile, o quasi. Eppure, nonostante un dispiegamento impressionante di militari, gli stati d’assedio e l’adozione di leggi eccezionali come la legge Pica, cresce e si rafforza la convinzione nei vertici militari – con l’avallo tacito o esplicito dei ministri e di qualche presidente del Consiglio – che per sconfiggere i briganti ci sia bisogno del terrore e di oltrepassare la stretta legalità adottando misure non consentite dalle leggi ordinarie. Nasce da questa convinzione l’idea che occorra dare mano libera ai militari che fucilano un numero enorme di persone, molte delle quali catturate senza armi in mano, arrestano i parenti dei briganti senza consegnarli alla magistratura, oppure uccidono i briganti mentre sono portati da un luogo ad un altro. Ci sono, inoltre, stragi e incendi dei paesi da parte delle truppe. S’introduce nella cultura dei militari – gran parte dei quali sono i parlamentari del nuovo Regno d’Italia – l’idea che i predecessori francesi e borbonici avevano messo in pratica: bisogna dare l’esempio e terrorizzare le popolazioni, fare stragi, bruciare paesi o case, arrestare tutti i parenti dei briganti per il solo fatto di essere parenti. Emergono una concezione e una cultura che s’impadroniscono della concreta azione dei militari, i quali non trovano ostacoli nel governo se non quando non se ne può proprio fare a meno. Questa è la ragione che spiega il fatto che nessuno degli ufficiali superiori, responsabili di stragi, di assassinii, di violazioni della legalità verrà mai punito. I vertici militari e i vertici governativi copriranno sempre chi ha commesso le violazioni. Dunque, nella lotta ai cafoni meridionali emergono i tratti illiberali e la mentalità coloniale di gruppi dirigenti che si definiscono liberali e che nella pratica sconfessano questa loro appartenenza. Un fatto è certo: la lotta, anzi la guerra vera e propria, intrapresa dai poteri costituiti contro banditi e briganti ha riguardato quasi sempre le classi subalterne, infime come vengono definite in alcuni documenti, i contadini affamati e senza terra, i poveri e i poverissimi, i braccianti senza lavoro, i soggetti più deboli. Per queste ragioni ci furono più guerre oltre a quella militare: una guerra civile che ha contrapposto selvaggiamente italiani del Nord e italiani del Sud, una guerra fratricida, paese per paese, di meridionali contro altri meridionali, una guerra di classe tra proprietari e contadini senza terre. Il brigantaggio è stato un fenomeno sociale e di classe che fu trasformato in un problema criminale. È stato un errore tragico che ha segnato la stessa formazione delle classi dirigenti meridionali ed italiane. In quegli anni di sfiducia profonda e di disprezzo verso i meridionali, sentimenti che aveva una parte della classe dirigente nazionale, si inviarono nel Mezzogiorno, oltre ai quadri dell’esercito e dei carabinieri, anche prefetti, questori, magistrati, personale amministrativo d’origine settentrionale perché solo loro avrebbero potuto risolvere i problemi della realtà meridionale, peraltro del tutto sconosciuta ai nuovi arrivati. Ma fu un’illusione che si rivelò sbagliata e dannosa. Il libro: “La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio”, Laterza

Dietro ogni grande boss c'è una (grande) donna, scrivono il 30 agosto 2018 su "La Repubblica" di Teresa Santangelo, Lucia Coco e Virginia Ciancio. Cosa Nostra organizza le vite dei mafiosi dalla nascita alla morte ed in questo il ruolo della donna è centrale. E’ importante porsi una domanda: chi insegna la cultura mafiosa ai figli con il padre spesso assente o latitante? No, le donne, le madri, che creano nell’immaginario dei figli una figura di padre esemplare da imitare. È proprio la donna che insegna ai figli che prima di tutto vi è l’organizzazione mafiosa, all’interno della quale vi è ricchezza, potere: la madre inculca quegli ossimorici “valori negativi” a cui il figlio deve ambire. Alle donne sin da piccole, infatti, viene inculcato che è necessario uccidere per vendicare la morte di un padre, un fratello o un marito. Esse si prostrano davanti le loro bare, ma saranno loro stesse ad ordinare una vera e propria vendetta di sangue. Le donne delle famiglie mafiose rappresentano, di fatto, il loro biglietto da visita con l’esterno. Numerosi sono gli esempi nella storia mafiosa; indubbiamente dietro la violenza di Totò Riina, boss di Corleone e latitante dal 1969 al 1993, c’è stata Ninetta Bagarella. Il suo è un caso emblematico: cresciuta in una famiglia mafiosa, sorella di Leoluca Bagarella, killer e mafioso ha contribuito a radicalizzare un modus operandi et cogitandi tale da pensare d’essere sempre nel giusto.  Non ha salvaguardato i figli pur di non tradire la cultura mafiosa, al punto tale che due di essi, uno addirittura alla pena dell’ergastolo, verranno poi condannati per associazione mafiosa. Altra figura femminile rilevante in Cosa Nostra è stata quella di Giusy Vitale, sorella dei potenti boss mafiosi di Partinico Vito e Leonardo, che, dopo il loro arresto, prese il loro posto all’interno dell’organizzazione. Durante la latitanza dei fratelli fece da tramite per le loro relazioni. Nominata capo mandamento, organizzava omicidi e gestiva il denaro della famiglia. È stata, di fatto, la prima donna condannata per il delitto di associazione mafiosa dalla Procura di Palermo. Collaboratrice di giustizia all’età di 33 anni, venne ripudiata dalla sua famiglia; oggi, all’età di 40 anni vive con i figli sotto il programma di protezione testimoni, senza mai rinnegare il suo passato da criminale, ricusando l’appellativo di “pentita” ed affermando che il pentimento non avrebbe riportato in vita le persone da lei uccise. Un’ulteriore figura di donna, certamente “di rottura” rispetto alle due summenzionate è stata sicuramente Rita Atria.  Figlia di Vito e sorella di Nicolò, esponenti della famiglia mafiosa di Partanna, uccisi dal loro stesso clan, nel 1991, all’età di 17 anni, si presentò spontaneamente dinanzi alle autorità giudiziarie, fornendo utili informazioni sugli affari e sulle dinamiche della cosca. Grazie a Paolo Borsellino riesce a collaborare, nonostante il ripudio da parte di madre e sorella rimaste fedeli al sodalizio, considerata da queste una “infame”. Dopo la morte del giudice, qualche giorno dopo quel 19 luglio 1992, Rita Atria si suicidò buttandosi da un balcone di un appartamento a Roma in cui viveva sotto copertura, comunicando, con il suo gesto estremo, che la mafia aveva vinto contro lo Stato, e anche contro di lei. Nessun compaesano partecipò ai funerali della giovane, e anche in questa occasione verrà trattata con disprezzo dalla propria famiglia. Solo Michela Buscemi, prima donna ad aver testimoniato contro la mafia, fu tra coloro che portarono il suo feretro ai funerali ma, successivamente, la stessa, costituitasi parte civile al maxi processo del 1986, revocò la sua costituzione nel processo a seguito una minaccia telefonica. Malgrado, però, le donne, all’interno della famiglia mafiosa, siano l’anello di congiunzione con il latitante e garantiscano l’omertà o siano loro stesse ad organizzare omicidi e gestire il denaro, vi è poca parità tra uomo e donna – sia livello interno che giudiziale -; si è rilevato, infatti, che vengono comminate ad esse pene senza dubbio più lievi. Da vittime a carnefici, infatti, da sottomesse a padrone del proprio destino, il ruolo della donna ha avuto una veloce evoluzione negli ultimi decenni e non solo nel modo in cui la società le vede, ma anche e soprattutto in termini di diritti, legge e sociologia. Per lungo tempo le teorie criminologiche hanno preso in considerazione fattori sociali, biologici e personali, escludendo la differenziazione di genere e conseguentemente non concependo la figura della “donna criminale”. Secondo questa vecchia prospettiva le donne erano considerate biologicamente e psicologicamente inferiori, paragonate in un certo senso ai bambini. Per questo motivo la devianza femminile non era considerata come un atto cosciente perché si pensava che le donne non fossero capaci di compiere atti o pensieri criminosi volontariamente, bensì che questi derivassero da una malattia mentale o addirittura possessione. Caratteristiche come l’aggressività e la violenza giudicate prettamente maschili, non affini alla figura femminile che veniva perciò esclusa dalle indagini di polizia. La partecipazione delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose è così sempre stata ambigua. Sulla base di questo errato assunto, le donne all’interno del gruppo criminale sono state idealizzate come “vittime inconsapevoli”, sottomesse e servili, ciecamente obbedienti al proprio uomo. Solo da pochi anni la recente criminologia ha iniziato a vedere le figure delle donne come soggetti in grado di delinquere, superando l’antico dogma di donna moglie e madre. Al contrario, le donne, all’interno delle organizzazioni mafiose, sono state in grado di agire indisturbate per molti anni, traendo vantaggio dal modo in cui la società le vedeva. Di conseguenza, nei procedimenti penali, almeno fino agli anni '90, non fu contestata la partecipazione dell'associazione mafiosa o della collusione, ma la possibilità di favoreggiamento di conseguenza che, in presenza di un rapporto familiare, stava operando la causa di punibilità prevista dall'art. 384 c.p. Emblematica è la sentenza emessa nel maggio 1983 dal Tribunale Penale di Palermo che non dispose le misure personali e patrimoniali contro Francesca Citarda, moglie e figlia di due boss, nonostante siano state riscontrate prove circostanziali, incluso il riciclaggio di denaro. Questa sentenza ha sollevato le organizzazioni femminili, perché stereotipi culturali e sentenze sottolineavano la condizione di sottomissione della moglie a suo marito, così come la condizione di ignoranza e inferiorità culturale, per escludere definitivamente la consapevolezza, in relazione alla natura illecita delle operazioni finanziarie effettuate, sebbene le fossero state date merci, società o altri beni e, nonostante la legge Rognoni-La Torre, permettendole di impadronirsi dei beni della mafia, estendendo le indagini anche alla famiglia. Al contrario, al giorno d'oggi, le donne hanno iniziato a essere davvero coinvolte in un ruolo da protagoniste. Quando il boss (padre, marito, fratello che sia) è in prigione, le donne in effetti giocano un ruolo dominante e lo sostituiscono in tutto e per tutto. Di estremo interesse processual-penalistico, sottolineando come la Procura abbia compiuto un’evoluzione ed un’apertura nei confronti delle donne e del loro ruolo all’interno delle organizzazioni mafiose, il dato secondo cui soltanto nel 1996 venne applicato per la prima volta il regime del carcere duro disciplinato dall’art. 41 bis del c.p.p a Maria Filippa Messina. In Italia, poi, la prima donna condannata per reati di mafia è stata Anna Mazza, a capo della Camorra per quasi vent’anni. Mentre la prima donna siciliana condannata per appartenenza a Cosa Nostra è stata invece Maria Catena Cammarata soltanto nel 1998. Le risultanze processuali hanno quindi svelato profili criminali assai strutturati con curriculum pieni di accuse tra le più gravi quali omicidio, tentato omicidio, estorsione ed associazione mafiosa. Donne sempre più frequentemente sottoposte al 41 bis come Nella Serpa, una vera e propria donna boss, capo cosca della ‘ndrangheta di Paola, Cosenza. Per non parlare di figure intimidatorie e violente di madri dell’area barese, come testimoniato dalle sequenze televisive della recente aggressione alla giornalista RAI Maria Grazia Mazzola. Dunque si è finalmente prospettata l’applicazione del regime del 41 bis anche per le donne mafiose.   Come è noto, il regime di carcere duro è fondato sulla necessità di isolamento dei detenuti con l’esterno onde evitare qualsiasi rapporto con altri esponenti mafiosi. Essi vivono in spazi ridottissimi, avendo a disposizione una sola ora d’aria giornaliera ed un colloquio al mese concesso con la famiglia. C’è, però, chi non ce l’ha fatta a resistere in queste condizioni, come nel carcere delle Costarelle, l’Aquila, dove la detenuta Diana Blefari, non riuscendo a sopravvivere a tali restrizioni, si suicidò.  Qui le detenute vivono in condizioni estreme e in celle dalle dimensioni molto ridotte.  Ecco che, a 25 anni dall’introduzione nel nostro ordinamento del regime di carcere duro della Legge 26 luglio 1975 n. 354, interviene la circolare n. 3676/6126 diramata il 2 Ottobre u.s. dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ai Provveditori Regionali e ai Direttori degli Istituti penitenziari. Tale circolare regolamenta la detenzione speciale affinché si garantisca l’uniformità di applicazione, evitando forme di arbitrio di carattere afflittivo. Inoltre, come recita il testo, si definiscono “le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna, con particolare riferimento ai colloqui con i minori; al dovere in capo al Direttore dell’istituto di rispondere entro termini ragionevoli alle istanze dei detenuti; la limitazione delle forme invasive di controllo dei detenuti ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza; la possibilità di tenere all’interno della camera detentiva libri ed altri oggetti utili all’attività di studio e formazione; la possibilità di custodire effetti personali di vario genere, anche allo scopo di favorire l’affettività dei detenuti ed il loro contatto con i familiari”. Sicuramente una normativa più giusta, in attesa della riforma del sistema penitenziario, che si avvicini di più alla trasparenza e guardi al rispetto dei diritti umani.

«Così il sistema Saguto spolpava le aziende e arricchiva gli amici». Gli stipendi d’oro degli amministratori nominati dall’allora presidente delle misure prevenzione, scrive il 18 Agosto 2018 "Il Dubbio". Quella che è segue è la testimonianza portata da Vincenzo Mogavero all’assemblea del Partito radicale svolta a Capo d’Orlando lo scorso 30 luglio. Mogavero è tuttora dirigente di un’azienda che negli anni scorsi era stata indebitamente posta sotto sequestro per presunti legami con la mafia del suo proprietario, legami di cui un processo penale ha poi svelato l’insussistenza. Mi chiamo Vincenzo Mogavero e sono il responsabile del personale della “Abbazia Santa Anastasia”. L’azienda ha sede a Castelbuono, in Provincia di Palermo, e svolge due attività: quella vinicola e quella di ricezione alberghiera nel contesto di un agriturismo a cinque stelle. Dal 2001 al 2008, la cantina è stata dotata di moderne attrezzature per la produzione di vini biologici e di alta qualità, mentre l’esistente antico monastero dei benedettini, con relativa chiesa per il culto, è stato trasformato in un resort di 29 camere dotato di sala ristorazione, sala conferenza e piscina. Nel giugno del 2010 il proprietario, il signor Francesco Lena, è stato arrestato con l’infamante accusa di mafia. Contestualmente, l’azienda è stata posta sotto sequestro preventivo penale ed è stato nominato un amministratore giudiziario che, sin da subito, ne accresciuto vertiginosamente i costi. Se prima la gestione era condotta dal proprietario, dai due figli, dagli impiegati, da un commercialista e da un consulente del lavoro, l’amministrazione giudiziaria ha costituito un Consiglio di Amministrazione formato da ben tre persone che hanno percepito un corrispettivo mensile di 9.000 euro ciascuno. I componenti del Consiglio di Amministrazione, in mancanza di liquidità, pur di pagarsi le parcelle, hanno svenduto a un importo di 20mila euro un mezzo aziendale che aveva un valore di 90mila euro. Il figlio del signor Lena è stato allontanato dall’azienda e, al suo posto, è stato assunto il parente di uno dei membri del Consiglio di Amministrazione che ha fatto “crollare” le vendite. Nel novembre del 2011 il signor Lena è stato assolto e il Consiglio di Amministrazione è decaduto. Tuttavia, per effetto del sequestro di prevenzione nel frattempo disposto dal Tribunale di Palermo, sezione Misure di prevenzione, allora presieduto dalla dottoressa Silvana Saguto, è stato nominato un nuovo amministratore giudiziario, il dottor Scimeca, che ha inaugurato nei confronti di tutti i dipendenti un vero e proprio regime del terrore. Scimeca ha cercato di estorcere da me dichiarazioni su inesistenti atti illeciti compiuti da Lena in seno all’azienda, finendo col notificarmi una contestazione disciplinare, all’evidente scopo di licenziarmi. “Quali intrecci devo riferire?”, rispondevo. Replicavo che in azienda non si era mai svolto lavoro in nero; che l’azienda rispettava tutte le norme in materia di sicurezza; che possedeva tutte le autorizzazioni indispensabili per esercitare una attività avviata con risorse economiche tracciate nei conti correnti bancari. L’amministratore giudiziario, appena insediatosi, assunse un coadiutore che, senza alcuna esperienza, organizzava e gestiva l’attività con l’autorità di un padrone. Fu assunto anche un agronomo che, a differenza del suo predecessore – il quale percepiva emolumenti non superiori 12mila euro annui, spese incluse – incassava 29mila euro all’anno, oltre al vitto ed all’uso dei mezzi aziendali. Lo stesso ha arrecato un grave danno alle colture. Non eseguendo sui vigneti le lavorazioni necessarie, ha dimezzato la produzione. Ciononostante, gli veniva corrisposto un “premio di produzione” di 12mila euro. Venne assunto anche un soggetto che avrebbe dovuto occuparsi della vendita del vino, cui fu corrisposto uno stipendio di 28mila e 800 euro. Quest’ultimo si dimostrò da subito incompetente: banchettava e ospitava i suoi amici a spese dell’azienda. Venne assunto inoltre un “esperto del turismo” con uno stipendio di 15mila e 600 euro che si recava in azienda non più di una volta a settimana portando con sé, alla stessa stregua del collega responsabile delle vendite, amici che mangiavano a spese della azienda. Oltre all’assunzione di figure professionali non adeguate, l’amministrazione giudiziaria ha messo in atto scelte gestionali antieconomiche che vanno dalla produzione di grappa (mai finita né commercializzata) alla creazione di altre linee di vino e di spumanti, noncurante delle reali esigenze di mercato e della difficoltà di immissione dei prodotti nei vari segmenti commerciali. Il signor Lena adesso si ritrova tra le mani una serie di prodotti estranei alla linea storica aziendale. A dicembre del 2016 il nuovo collegio della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, ha revocato l’incarico al dottor Scimeca che, come si evince da alcune intercettazioni telefoniche, aveva ordito insieme alla Saguto una “truffetta” per fare fallire le società del signor Lena. A gennaio del 2017 si è insediato un altro amministratore giudiziario con il compito di verificare l’operato del suo predecessore. A maggio del 2018, dopo otto anni di processo, ciò che rimane dell’azienda è stato riconsegnato al signor Lena, a seguito della revoca del sequestro disposta dal nuovo collegio della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo.

"Negati i diritti umani di Provenzano": la Corte europea condanna l'Italia. Il boss rimase in regime di carcere duro fino alla morte. Per i giudici di Strasburgo negli ultimi 4 mesi fu violato il suo diritto di non essere sottoposto a trattamenti degradanti. Il pm Di Matteo, che si occupò del caso: "E' stato costantemente ricoverato in strutture civili ricevendo le cure necessarie", scrive il 25 ottobre 2018 "La Repubblica". La Corte europea dei diritti umani ha condannato l'Italia perché decise di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 alla morte del boss mafioso, avvenuta 4 mesi dopo. Secondo i giudici, il ministero della giustizia italiano ha violato il diritto di Provenzano a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Allo stesso tempo la Corte di Strasburgo ha affermato che la decisione di continuare la detenzione di Provenzano non ha leso i suoi diritti. Provenzano morì il 13 luglio 2016 mentre era detenuto al regime di 41 bis nell'ospedale San Paolo di Milano. Il decesso arrivò dopo un lungo periodo di malattia e numerose polemiche sulle sue condizioni di detenzione. Prima della morte i medici gli avevano diagnosticato un grave stato di decadimento cognitivo, lunghi periodi di sonno, rare parole di senso compiuto, eloquio assolutamente incomprensibile, quadro neurologico in progressivo, anche se lento, peggioramento. Nelle loro conclusioni i medici dichiaravano il paziente "incompatibile con il regime carcerario", aggiungendo che "l'assistenza che gli serve è garantita solo in una struttura sanitaria di lungodegenza". Di parere diverso i provvedimenti del ministero della Giustizia, che si fondavano sui pareri della direzione distrettuale antimafia di Palermo e della direzione nazionale antimafia. Dice oggi il sostituto procuratore Nino Di Matteo, ex pubblico ministero del processo "Trattativa Stato-mafia" in cui il boss era imputato: "Provenzano, benchè sottoposto al regime del 41 bis, negli ultimi anni è stato pressocchè costantemente ricoverato presso strutture ospedaliere civili fruendo delle cure necessarie approntante da medici specialisti di quelle strutture. Il 41 bis quindi - prosegue Di Matteo - non ha certamente impedito a Provenzano di essere assistito e curato probabilmente meglio di quanto avrebbe potuto essere assistito e curato se fosse stato rimesso in libertà". Dice ancora Di Matteo: "Spero che la precisa ricostruzione dei fatti, così come realmente avvenuti, blocchi sul nascere eventuali strumentalizzazioni finalizzate a rivedere il sistema del 41 bis, che è stato e resterà fondamentale nell'impianto complessivo di contrasto efficace alle mafie". Da anni l'avvocato del boss, Rosalba Di Gregorio, chiedeva la revoca del regime carcerario duro e la sospensione dell'esecuzione della pena per il suo assistito, proprio in virtù delle sue condizioni di salute. Il legale aveva presentato due istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell'esecuzione della pena. Tutte sono state respinte. "Quella che abbiamo combattuto - dice Di Gregorio - è stata una lotta per l'affermazione di un principio e cioè che applicare il carcere duro a chi non è più socialmente pericoloso si riduce ad una persecuzione". Adesso Di Gregorio attende di leggere il provvedimento: "Non ci è stato notificato. dice - perché la decisione è stata presa al termine di un procedimento camerale, ma da quanto ci hanno riferito la Cedu non avrebbe stabilito un risarcimento. Per noi era importante l'affermazione del principio, questa battaglia non aveva come fine l'ottenere risarcimenti monetari". "Se lo Stato risponde al sentimento di rancore delle persone, alla voglia di vendetta, lo fa a discapito del diritto - commenta invece il figlio del boss, Angelo Provenzano - Questo credo sia ciò che la Corte di Strasburgo ha affermato sul 41 bis applicato a mio padre dopo che era incapace di intendere e di volere".

Il governo: "Il 41 bis non si tocca". Gli esponenti del governo sono invece fermi nel ribadire la necessità del 41 bis. "I comportamenti inumani - commenta invece il vicepremier Luigi Di Maio- erano quelli di Provenzano. Il 41bis è stato ed è uno strumento fondamentale per debellare la mafia e non si tocca. Con la mafia nessuna pietà". Per l'altro vicepremier Matteo Salvini si tratta invece dell'"ennesima dimostrazione dell'inutilità di questo ennesimo baraccone europeo. Per l'Italia - scrive - decidono gli italiani, non altri". "Rispetto questa sentenza - dice invece il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede - ma non la commento. Voglio sottolineare solo una cosa: il 41 bis non si tocca".

Maria Falcone: "Strasburgo non mette in discussione il 41bis". "La sentenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo - annota Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso a Capaci - non mette in discussione il 41 bis che, impedendo ai boss di continuare a comandare anche dal carcere e spezzando il legame dei capimafia col territorio, è stato e rimane uno strumento irrinunciabile nella lotta alla mafia". "Da Strasburgo neanche quando sono morti ci risparmiano di menzionarli, e ci ricordano i nostri aguzzini, caso mai cercassimo di dimenticarli - dice invece Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili - Dove era Strasburgo dei diritti dell'uomo la notte del 27 maggio 1993 quando Provenzano ha mandato i suoi uomini a Firenze ad ammazzarci per far annullare il 41 bis, giusto sulla carta bollata? La Corte di Strasburgo ci offende, ci fa indignare mentre riconosce i diritti ai mafiosi post mortum e non batte un colpo sul fronte delle vittime di mafia". “Credo che Provenzano sia stato privato del diritto di morire nella sua abitazione con la sua famiglia vicina, lui come altri - osserva infine Claudio Fava, presidente della commissione regionale Antimafia della Sicilia, in un'intervista a InBlu Radio - Se fosse dipeso da me nel momento in cui si avviava verso la fine dei suoi giorni, lui come Riina, avrei immaginato che potesse chiudere suo tempo sulla terra in modo più umano invece che in una stanza d’ospedale guardata a vista e blindata. Il giorno in cui noi saremo in condizione di fare a meno del 41 bis sarà una vittoria non solo dal punto di vista dell’umanità della pena ma anche perché sarà una vittoria dal punto di vista della sicurezza”.

La Cedu: «Non si torturano neanche i boss mafiosi». La Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia per il 41 bis a Bernardo Provenzano morente, scrive Damiano Aliprandi il 26 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". L’Italia condannata per aver rinnovato il 41 bis a Bernardo Provenzano, violando così il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Una condanna che arriva, a camere chiuse, dalla Corte europea dei diritti umani. Un ricorso presentato tempo orsono dall’avvocata Rosalba Di Gregorio, divenuta il difensore di fiducia di Bernardo Provenzano. La Corte aveva chiesto una serie di documenti e approfondimenti al governo italiano. La sentenza giunge a più di due anni di distanza della morte dell’ex capo della mafia che dal punto di vista celebrale era gravemente compromesso, in stato vegetativo tanto da essere nutrito con un sondino. Da diverso tempo, prima di morire, era in coma. Eppure, nonostante diverse istanze che chiedevano la revoca del regime duro, Provenzano alla fine è deceduto senza che i familiari potessero dargli l’ultima carezza. Morì in una stanza singola dell’ospedale San Paolo di Milano, video- sorvegliato tutto il giorno e con le ristrettezze afflittive contemplate dal regime duro come appunto il vetro blindato, che nel gergo carcerario viene chiamato “l’acquario”. I familiari potevano vederlo solo una volta al mese, dietro un vetro, e tentare di parlagli tramite un citofono che uno del Gom (gruppo operativo mobile) gli teneva vicino all’orecchio. Ovviamente del tutto inutile, visto che Provenzano non rispondeva, né riusciva ad aprire gli occhi. La sentenza della Corte di Strasburgo ripercorre la storia di Provenzano e la sua vicissitudine clinica durante la detenzione al 41 bis. Indica ovviamente il contesto, spiegando che Provenzano era stato in fuga per oltre quaranta anni, ed era stato poi arrestato l’11 aprile 2006. Parecchie serie di procedimenti penali furono avviate contro l’ex capo della mafia, al seguito delle quali arrivarono le condanne a venti ergastoli per omicidio multiplo, tentato omicidio aggravato, traffico di droga, rapimento, coercizione criminale, furto aggravato, possesso illegale di armi da fuoco e, naturalmente, appartenenza a Cosa Nostra. Altri procedimenti penali erano ancora pendenti nei confronti di Provenzano. Nell’ambito di uno di tali procedimenti – esattamente il processo sulla cosiddetta trattativa stato – mafia, il 7 dicembre 2012 il Giudice istruttore preliminare del Tribunale distrettuale di Palermo aveva ordinato una valutazione da parte di esperti sulla salute del richiedente al fine di valutare la sua capacità di comprendere e quindi alla possibilità di partecipare razionalmente all’udienza preliminare. Il 12 dicembre 2012 gli esperti nominati dal tribunale effettuarono un primo esame. Che però non arrivò a una conclusione perché il 17 dicembre 2012 l’ex boss fu sottoposto ad intervento chirurgico per rimuovere un ematoma subdurale dal suo cervello. Sulla base del loro primo esame e delle cartelle cliniche di Provenzano, gli esperti riferirono comunque che mostrava una ridotta consapevolezza e reattività nei confronti dell’ambiente circo- stante, nonché una limitata capacità di esprimersi. Con un’ordinanza dell’8 gennaio 2013 il Gup rinviò il procedimento nei suoi confronti. Nello stesso periodo furono organizzate numerosi consulti specialistici e Provenzano fu esaminato da un cardiologo, uno specialista in malattie infettive, un urologo, un endocrinologo, un otorinolaringoiatra uno pneumologo, un ortopedico, un fisiatra e uno specialista in nutrizione. Furono eseguiti numerosi test diagnostici su di lui. Il 7 giugno 2013 fu trasferito all’Ospedale di Parma, dove è rimasto fino al suo trasferimento al Centro di Trattamento e Diagnostica (centro diagnostico terapeutico) del carcere Opera di Milano. Il 9 aprile 2014 venne ricoverato, sempre al 41 bis, dell’Ospedale San Paolo di Milano, e ci rimase fino alla morte.

Secondo la più recente relazione medica in archivio, rilasciata dall’ospedale San Paolo di Milano nell’aprile 2015, la situazione neurologica del richiedente era stabile, sebbene il suo progressivo declino nel funzionamento cognitivo viene descritto come grave. È costretto a rimanere al letto, ha un catetere urinario e riceve il suo supporto nutrizionale attraverso un sondino naso- intestinale. La sua situazione si è ulteriormente aggravata, portandolo a uno stato comatoso fino a morire il 13 luglio del 2016. Ora la Corte di Strasburgo condanna il governo dicendo che gli è stato rinnovato il 41 bis, nonostante i referti accertassero il suo grave stato di salute. La Corte, indirettamente, punta l’indice anche sulle relazioni della Dda di Palermo, che riteneva la necessità del 41 bis (ancora capace di mandare messaggi all’esterno e quindi resta un soggetto pericoloso, requisito che la legge richiede per il mantenimento del regime detentivo speciale) senza prendere in considerazione i referti medici che attestavano il suo stato vegetativo. Secondo la Corte, l’Italia ha quindi violato l’articolo 3 della Convenzione in cui si dice che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Raggiunta da Il Dubbio, l’avvocata Rosalba Di Gregorio, ha espresso felicitazioni per la sentenza di condanna e racconta la sua battaglia legale per chiedere la revoca del 41 bis. «Non ho mai fatto alcuna istanza di scarcerazione – ci tiene a sottolineare l’avvocata -, ma ho chiesto la revoca del 41 bis in tutte le sedi possibili, a Parma, Milano e a Roma. A questo si aggiunge che i tre ministri della Giustizia che si sono susseguiti, quindi la Severino, la Cancellieri e infine Orlando, si sono preoccupati di rinnovare il 41 bis nonostante Provenzano non fosse capace di intendere e di volere, infatti avevamo ottenuto dal tribunale di Milano la nomina dell’amministratore di sostegno perché incapace, appunto, persino di capire le notifiche che gli arrivavano. Ma per i ministri che si sono susseguiti, il regime duro era necessario». La Di Gregorio non riesce ancora a capacitarsi di quei rinnovi, visto che lo scopo del 41 bis è quello di mantenere misure speciali nei confronti di chi è ancora pericoloso e quindi potenzialmente abile nel comunicare con l’esterno. «L’ultima istanza che feci era al tribunale di Milano, per chiedere che Provenzano fosse spostato dal regime duro dove era ricoverato all’ospedale San Paolo, a un reparto diverso per consentire ai parenti di poterlo salutare senza il vetro divisorio». La risposta è stata paradossale. «Il tribunale – spiega Di Gregorio – rispose che Provenzano era curato meglio al 41 bis; feci ricorso alla Cassazione che purtroppo confermò la motivazione». Alla luce di tutti questi dinieghi che si erano succeduti, l’avvocata Di Gregorio si dice soddisfatta delle sentenza che è giunta dalla Corte Europea. «Ripeto che non chiedevamo nessuna scarcerazione, nessuna richiesta dei domiciliari, ma semplicemente la revoca del 41 bis. Questa sentenza ci dà ragione, perché certifica che il Diritto è stato messo sotto i piedi».

L’avvocata di Provenzano: «Quanti sconosciuti lasciati morire al 41 bis», scrive Valentina Stella il 12 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista alla legale Rosalba Di Gregorio che difese il vecchio boss: «Ci sono centinaia di persone in condizioni gravemente malate solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa». Riina, il cosiddetto carcere duro, alla presunta trattativa Stato-mafia. Di questi temi parla l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di numerosi boss come Bernardo Provenzano. «Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa».

Continua a tenere banco la condizione di salute di Riina rispetto ai suoi status di detenuto e imputato. Dello stato di salute di Provenzano non si discusse con lo stesso approfondimento.

«Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato: quando la Suprema corte afferma che bisogna motivare sull’attualità della pericolosità. Sostiene cose talmente ovvie, scontate e conformi al diritto che non ci sarebbe proprio da discuterne, se non per dire che andrebbe applicata a chiunque. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose dal punto di vista sanitario, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa. Vorrei chiedere all’onorevole Bindi perché non è andata a verificare anche le condizioni di salute di Provenzano, quando all’epoca la stampa se ne occupò dopo che sollevammo l’incompatibilità con il 41bis per una persona che era un vegetale. Perché non sono andati a visitarlo quando anche lui era a Parma? Io ho documentato che quando si ritiravano le magliette intime di Provenzano erano intrise di urina perché lì gli cambiavano il pannolone solo due volte al giorno e quindi poi l’urina arrivava dappertutto, fino al collo. Ho fatto fare persino il test del Dna sull’urina perché non si dicesse che non era la sua. Tutto è stato denunciato alla Procura di Parma che naturalmente ha archiviato. Ora l’onorevole Fava della commissione Antimafia dice che le condizioni di Riina non sono paragonabili a quelle di Provenzano: allora deduco che all’epoca la Commissione era in ferie».

L’Antimafia all’epoca era senza dubbio attiva: quale altra spiegazione si può trovare?

«Si scelse di dare una risposta ai familiari delle vittime lasciandolo al 41bis. Ai quali va tutta la mia comprensione, ma i problemi giuridici andrebbero affrontati in quanto tali».

Rita Dalla Chiesa, dice "mio padre non ha avuto una morte dignitosa": perché concederla a Riina?

«Il dolore è comprensibile, la solidarietà è massima, ma ciò non significa che uno Stato di diritto possa abrogare o non applicare le norme perché esiste la sofferenza delle vittime».

La presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, al termine della visita a Parma dove ha verificato le condizioni di Riina, ha dato l’impressione di voler anticipare la sentenza del Tribunale di Bologna sul differimento pena.

«È bene precisare che la Commissione è andata nel reparto detenuti 41 bis dell’ospedale Maggiore di Parma. Io invito tutti invece ad andare al carcere per rendersi conto se quello al suo interno è un centro clinico e se non ci dobbiamo vergognare dei nostri cosiddetti centri clinici nei penitenziari. Ma per tornare alla domanda, a me hanno insegnato che siamo in una Nazione in cui il potere giudiziario è indipendente da quello politico. Non credo che i parlamentari dell’Antimafia abbiamo acquisito capacità medico diagnostiche e possano stabilire, con uno sguardo, al posto dei Tribunali, cosa sia giusto per un detenuto. Io non ne faccio un problema per Riina ma per tutti i reclusi. Il 41 bis si lascia ai soggetti pericolosi».

Bindi è certa che Riina sia "ancora il capo di Cosa nostra, è così per le regole interne alla mafia".

«Per principio lo dice. E così si disse di Provenzano. Bisogna che si mettano d’accordo su chi era il capo dei capi. Se muore anche Riina avremo allora una organizzazione acefala».

Lei ha lanciato un appello ai politici affinché visitino i reparti del 41 bis.

«Più che un appello era una sfida che credo nessuno raccoglierà mai. Per fare una cosa del genere bisogna recarsi lì all’improvviso e visitare tutte le sezioni, non solo quelle che vogliono farti vedere i direttori delle carceri».

Sul 41 bis si sono espresse riserve sia nella relazione di Luigi Manconi sia negli Stati generali dell’esecuzione penale.

«Il problema è la modalità di attuazione del 41 bis, ovvero la vivibilità in termini umani. E che si tratta di un provvedimento emergenziale diventato la norma. Non ci può essere una presunzione della presenza del contatto del detenuto con l’organizzazione criminale. Ci devono essere segnali precisi, per ipotizzare che il recluso stia veicolando ordini all’esterno. I pareri sulla permanenza al 41 bis vengono elaborati dal profilo criminale, dalle vecchie schede, ma c’è gente nel carcere che dopo anni ha fatto percorsi di ravvedimento, di cui nessuno prende atto».

In realtà come ha documentato Ambrogio Crespi nel docufilm Spes contra Spem, prodotto da Nessuno Tocchi Caino, anche persone che hanno commesso 40 omicidi dopo decenni possono riabilitarsi.

«Il problema oggi, e lo ha detto il presidente del Senato Grasso, è che o accedi alla collaborazione oppure si deduce che non vi è stata rivisitazione critica del proprio vissuto. Teoricamente si dovrebbero trasformare tutti in collaboratori di giustizia».

C’è il rischio che non si abbia nulla da dire e che si offrano false informazioni su cui poi però si imbastiscono processi.

«Il problema è a monte: lo Stato non può pretendere di usare il 41 bis per farti pentire».

Al processo Borsellino bis, Vincenzo Scarantino ha mandato al 41 bis per 20 anni degli innocenti.

«Il Borsellino quater ha stabilito che Scarantino è stato indotto a ‘ collaborare’. Si può presupporre un mancato vaglio da parte dei magistrati, prima inquirenti poi giudicanti, sul lavoro degli investigatori. Che cosa c’è stata a fare tutta la Procura in questi anni?»

Del processo Borsellino quater si è parlato pochissimo.

«L’agenda rossa di Borsellino non l’ha presa Toto Riina e neppure Graviano, non se ne facevano niente. Se Borsellino avesse annotato "la Mafia mi fa schifo" era una notizia già nota ai mafiosi. Dal processo è emerso l’intervento di terzi un po’ più in alto rispetto a quelli che io considero esecutori del depistaggio, a partire da dirigenti della Polizia, e a qualcuno non fa comodo che si sappia».

Capitolo "trattativa": Mori è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia per non aver catturato Provenzano quando si poteva.

«Non ho letto le carte processuali, ma qualcosa si può dedurre dal fatto che c’è una triplice conformità sull’assoluzione. O buttiamo via i processi o dobbiamo prendere atto di queste sentenze».

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato come inedita la dichiarazione di Graviano secondo cui Pannella nell’ 87 andò in carcere a raccogliere iscrizioni tra i detenuti.

«Da sempre in carcere si trova sostegno per le battaglie garantiste. Non mi pare una notizia che possa scalfire l’immagine del Partito radicale».

Al 41 bis a 90 anni suonati: si chiama crudeltà di Stato, scrive Damiano Aliprandi il 18 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Follia nel carcere di Parma dove tre ultra novantenni sono reclusi in regime di carcere duro, uno di loro, Francesco Barbaro, ha il morbo di Alzheimer. La denuncia di Rita Bernardini. Nel carcere di Parma ci sono almeno tre detenuti novantenni reclusi al 41 bis (cioè nel regime di carcere duro), tra i quali uno che presenta i sintomi dell’Alzheimer. L’istituto di Parma è un carcere di alta sicurezza noto per aver ospitato negli ultimi anni detenuti al 41 bis come Bernardo Provenzano (deceduto nel luglio dello scorso anno), Raffaele Cutolo (il fondatore della Nuova Camorra Organizzata), Totò Riina (che ha raggiunto la soglia degli 86 anni) e Massimo Carminati che è in attesa di giudizio. Poco noto il fatto che al 41 bis ci sono numerosi detenuti ultra ottantenni, tra i quali Francesco Barbaro – 90 anni compiuti il 13 maggio scorso – che presenta patologie cliniche incompatibili con la carcerazione speciale. A rivelarlo è Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito Radicale. Dalla cartella clinica penitenziaria, sempre secondo l’esponente radicale, è emerso che Barbaro presenta dei deficit cognitivi, disturbi della memoria e altre patologie legate alla sua età avanzata. Al momento risulta che non ci sono criticità tali da ricoverarlo d’urgenza, ma potrebbe da un momento all’altro peggiorare. Infatti gli stessi sanitari dell’istituto penitenziario avrebbero espresso il parere favorevole per un suo trasferimento. Eppure, nonostante ciò, persiste la carcerazione speciale al 41 bis in quanto è considerato ancora un soggetto pericoloso e in grado di mantenere rapporti con la criminalità organizzata. Francesco Barbaro, detto U castano, appartenente alla ‘ ndrangheta, era conosciuto negli anni 80 come il re dei sequestri. Fu arrestato il 5 gennaio del 1989 e detenuto fino al 5 febbraio del 2013. Dopodiché, all’età di 88 anni, accusato di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio del brigadiere dei carabinieri Antonino Marino, ucciso a Bovalino il 9 settembre del 1990, viene arrestato a settembre del 2015 e condannato all’ergastolo. Avendo avuto un passato di ‘ndranghetista, l’ergastolo lo sta scontando tuttora nel regime del 41 bis. La sezione speciale del 41 bis del carcere di Parma, più che a un carcere assomiglia sempre di più a un ospizio per anziani con problemi di salute e acciacchi dovuti dall’età. L’età media continua ad alzarsi. A confermarlo è il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri. Raggiunto da Il Dubbio, spiega che attualmente alla sezione del 41 bis vi sono reclusi 65 detenuti, con l’età media che raggiunge quasi i 65 anni. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. A questo va aggiunto il discorso sanitario. Sì, perché oltre ai tre novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Infatti, appena si liberano i pochi posti della sezione terapeutica alla quale l’amministrazione penitenziaria assegna i detenuti per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica in fase di scompenso, subito vengono rimpiazzati da coloro che stanno male. A tal proposito il garante Cavalieri spiega che tale reparto – adibito per un massimo di 30 posti – è diventato un punto di riferimento anche per gli altri penitenziari: inviano i loro detenuti (anche comuni) malati che, una volta superata la fase diagnostica, rimangono nel carcere. Cavalieri, riferendosi al reparto sanitario, parla di un vero e proprio “parcheggio”. Ma non solo. Il garante denuncia che nell’ospedale parmense c’è il “repartino” adibito per i detenuti che necessitano di cure urgenti. Non a caso viene definito con un diminutivo: è composto solo da tre stanze e attualmente vi sono ricoverati tre detenuti del 41 bis. Pluri-ottantenni anche loro. Una assistenza sanitaria così carente che va a sommarsi alle patologie legate sia alla vecchiaia che alla salute precaria dei detenuti reclusi nell’istituto penitenziario. Il garante Cavalieri spiega che il carcere di Parma è una casa di reclusione che al suo interno è suddivisa in quattro strutture: una per i detenuti in alta sicurezza (AS3), un’altra per i detenuti comuni di media sicurezza, un’altra ancora per l’alta sicurezza per gli ex 41 bis (AS1) e infine il 41 bis. In totale risultano 610 detenuti, il 10% dei detenuti ha più di 65 anni e – secondo una stima del garante – tra 10 anni raddoppieranno. Il 17% hanno 5 o più diagnosi croniche: patologie respiratorie, delle arterie, cerebrovascolari, delle basse vie respiratorie e quelle osteoarticolari registrano valori di prevalenza più che doppi per il servizio. Una vera e propria bomba sanitaria che produce disagio e ostruisce i percorsi di riabilitazione prevista dalla nostra costituzione. Un problema che porta al disagio psichico fino a concludersi anche con il suicidio. Come già denunciato dal garante Cavalieri, l’ultimo suicidio avvenuto al carcere di Parma riguarda un 76enne che viveva in un reparto per disabili. Lo scorso aprile invece un uomo di 62 anni, A. T. cittadino italiano, è deceduto in una sezione di alta sicurezza dopo che da diverso tempo protestava per le sue precarie condizioni di salute e la insufficienza delle cure ricevute. Sul caso, sentito il legale del detenuto, si è potuto appurare che alcuna diagnosi era stata ancora rilasciata dai sanitari.

A proposito del 41 bis il garante ci ha consegnato questa sua riflessione: «L’attenzione per questi detenuti va posta al fine di evitare l’innescarsi di fenomeni afflittivi limitando gli strumenti di impedimento all’esercizio della libertà personale alle sole attività finalizzate all’impedire la relazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale. Tutte le misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno sono quindi legittime ma non lo sono quelle che rendono più intollerabile la pena». Ad esempio si domanda che bisogno c’è – come accade al carcere parmense di puntare la videocamera anche sul water?

Mafia, stampa, tv: i casi celebri trattati dalla Cedu. Da Contrada a Ricci di «Striscia la notizia», quanti ricorsi contro le sentenze nazionali, scrive Mercoledì 01/03/2017 "Il Giornale". Dal superpoliziotto Contrada ad Antonio Ricci di Striscia la notizia. La Corte di Strasburgo è intervenuta spesso su temi e personaggi di rilievo dell'attualità italiana. I casi più numerosi, almeno nel passato, hanno riguardato due tradizionali pecche del sistema giudiziario del nostro Paese (sesto per casi pendenti dopo Ucraina, Turchia, Ungheria, Russia e Romania): il sovraffollamento delle carceri e l'eccessiva lunghezza dei processi. Le sentenze della Cedu hanno portato all'approvazione della cosiddetta legge Pinto che prevede il diritto di richiedere un risarcimento per il danno subito per l'irragionevole durata dei procedimenti (anche questa legge è stata però oggetto di numerosi ricorsi). Nel 2015 è arrivata la sanzione al nostro Paese per la pena inflitta a Bruno Contrada, ex capo della squadra mobile di Palermo e numero tre del Sisde, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il principio violato, secondo Strasburgo, era quello dell'irretroattività della pena: le condotte sotto accusa erano precedenti all'elaborazione giurisprudenziale della figura di reato. Del 2014 è invece la pronuncia contro l'Italia per il processo e la multa Consob affibbiata a Franco Grande Stevens, Gianluigi Gabetti e Virgilio Marrone per la vicenda dell'«equity swap Fiat». Pochi giorni fa, invece, a essere sconfitto è stato Marco Travaglio: era stato condannato per diffamazione ai danni di Cesare Previti e aveva fatto ricorso. La Corte gli ha dato torto. Quanto ad Antonio Ricci, Striscia la Notizia aveva divulgato un fuori onda tra il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi. Su richiesta della Rai era stato processato e condannato. Per la Corte, i magistrati italiani hanno violato il principio di libera espressione del pensiero.

Così la sentenza Cedu su Contrada è andata “di traverso” alla giustizia italiana. Come, dopo 25 anni, si arrivati da Strasburgo all'assoluzione dell'ex superpoliziotto, scrive Fabio Cammaleri il 17 Luglio 2017 su "Il Dubbio". La vicenda di Bruno Contrada, nonostante tutto, è ancora stretta fra parole un po' esoteriche e un po' tartufesche: come solo quelle del diritto, quando vogliono, sanno essere. Da un lato, il “titolo di reato”, che non c’era, ma fecondo di dieci anni di reclusione; dall’altro, una condanna che, pur divenuta “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”, rimane tale. Il “titolo di reato” è l’attribuzione ad una condotta umana di un certo valore criminoso; l’Autorità Giudiziaria penale esiste in ragione di questo potere di attribuzione. Perciò, quando se ne discute, non si discute di una parte: ma del tutto. E, sappiamo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, decidendo sul ricorso “Contrada contro Italia”, ha sancito che questo benedetto “titolo”, il c.d. “concorso esterno in associazione mafiosa”, doveva esistere al tempo dei fatti, poi contestati; e, invece, allora non esisteva. L’ignaro di mirabilia giuridiche si aspetterebbe che finisca lì. Perché, allora, quella formula? Alla fine della fiera, sembra che la proposizione “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”, implichi una sorta di significato “suicida”. Come se, dichiarato “inesistente” il “titolo”, contasse averne almeno un feticcio: sterilizzato, ma con un residuo stigmatizzante. Contrada in questa storia ha fatto lo scalatore e, anche dopo Strasburgo, ha dovuto seguitare a farlo. Provato la revisione (Novembre 2015), e a Caltanissetta avevano respinto; poi, il ricorso straordinario per “errore materiale o di fatto” (Luglio 2016), e la Cassazione l’aveva dichiarato inammissibile; quindi, “l’incidente di esecuzione” a Palermo, per ottenere “la revoca” della sentenza, e lì, la Corte di Appello aveva dichiarato inammissibile pure quella richiesta. Alla fine, la Cassazione ha annullato senza rinvio tale ultimo diniego: tuttavia, decidendo nei termini visti. Si ha l’impressione che la sentenza CEDU su Bruno Contrada sia andata di traverso al sistema giudiziario italiano. Perciò, cavillare, sopire. Il punto è che quella pronuncia era stata dirompente non solo, e non tanto, perché aveva censurato l’impreciso conio “giurisprudenziale” del c.d. “concorso esterno” al tempo dei “fatti”; ma, soprattutto, perché ne aveva colto acutamente proprio “l’origine giurisprudenziale”. Si erano resi penalmente rilevanti i comportamenti di Contrada, rendendolo reprobo retroattivamente: in maniera analoga a come sarebbe accaduto se fosse stata emanata una norma successiva ai fatti, e appositamente incriminatrice. Da Strasburgo sono formalmente baluginate movenze persecutorie. Alla Corte di Appello di Palermo, quella dell’ultimo diniego, dopo lunghe e dotte distinzioni in punta di diritto, era come scappata un’affermazione, piuttosto illuminante, nel suo genere: si era trattato di “una interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l’ordinamento giuridico italiano”. Non solo; ma si aggiungeva che andava negata la stessa “origine giurisprudenziale” del concorso esterno: non c’entrano i giudici, è la legge italiana (peraltro fissando una tesi che verrà diffusamente ripresa). Tanta perentorietà, nell’affermare quello che non è (la natura “normativa” del concorso esterno); una così poco sorvegliata “autarchia ermeneutica”, ragionevolmente, non si spiegano con la sola questione procedurale. Pare più plausibile un’altra spiegazione. Probabilmente, si avverte il rischio che, a partire da una singola vicenda, pur di capitale portata simbolica, si possa porre l’accento sul presupposto di quella “origine giurisprudenziale” del “titolo”; e, dunque, si offra il fianco ad una questione “ordinamentale”: “La” questione. Sulle “vere storie d’Italia”, di cui il c.d. “concorso esterno” è stato il lievito giuridico, si è costruito un complesso sistema di legittimazione emotiva e culturale, coercitivamente presidiato: dove è sempre meno agevole distinguere le “avanguardie” dai “moderati” (ad es., l’idea, recepita a maggioranza parlamentare, per cui “la pericolosità sociale della P.A. merita Misure di Prevenzione uguali a quelle già previste per la mafia, è solo l’ultimo frutto, in ordine di tempo, di quella legittimazione); e che, proprio per questa comprensiva complessità, a riscuoterlo dalle fondamenta, potrebbe aprire vaste voragini. Ecco perché, quasi fra le righe, si insiste sulla natura “normativa” del “concorso esterno”, con il coinvolgimento/ammonizione dell’intero sistema istituzionale, compreso il legislativo. Ecco perché, gli argomenti di tipo negazionistico (“non è successo niente”), anche in queste ore, si dispongono a seguire questo accomunante solco “patriottico” e “legislativo”. Ecco perché, quella formula tortuosa, “condanna improduttiva di effetti” (ma ancora tale), finisce col fungere da puntello sistemico: permette di estenuare l’equivoco sui “fatti” i quali, nonostante la carenza del “titolo di reato”, sarebbero ancora tutti lì. Ma il “titolo di reato” non è un inerte contenitore di “fatti” che siano già rigidamente conformati, e debbano solo accatastarsi al suo interno, mantenendo quella loro forma immutabile; agisce piuttosto come un calco su una materia malleabile, gommosa; che, una volta liberata dalla erronea costrizione, si riespande, e riprende forme e configurazioni autonome. Gli stessi fatti, con il “titolo” hanno una forma, senza, ne hanno un’altra. Entrare in una casa altrui e asportarne un bene, si chiama furto; farlo con una divisa addosso si chiama sequestro. Contrada teneva condotte di intelligence che, alla valutazione imposta dal “titolo”, dal calco, non si presentavano commendevoli. Ora si è capito che era stato un errore ritenerle, “conformarle” come tali. La “condanna”, dunque, è una riprovazione formalmente qualificata di una condotta; la riprovazione prende legittimo corpo nei suoi “effetti penali”; disconoscere questi, significa negare che la riprovazione, e il giudizio che l’ha sostenuta, fossero fondati. 

Dopo venticinque anni, per “dignità gnoseologica”, per decenza istituzionale, per verità morale, non ci dovrebbe essere altro. Cavilli a parte.

M COME MAFIA DELLE MALEFATTE DELL’ANTIMAFIA.

Sul tema l’autore ha scritto analiticamente i saggi “CASTOPOLI” E “LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA” E “MAFIOPOLI” E “MASSONERIOPOLI” E USUROPOLI”.  Libri in formato E-book ed Book da cui si trae qualche brano.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Ecco perchè la mia associazione nazionale si chiama "Associazione Contro Tutte le Mafie", perchè quelli come me i veri nemici li hanno nelle istituzioni. I servitori dello Stato, quindi "servi" nostri e pagati da noi, abusano dei loro poteri e nessuno li perseguita. Sbandierano leggi e sparlano di legalità: leggi e legalità che "lo stato" (s minuscola) calpesta sotto i piedi. Mi si dica: qual è la differenza tra chi ti fa chiudere l'azienda con le bombe e chi non te la fa riaprire? Io, Antonio Giangrande, non trovo differenza e per questo non sono pubblicizzato come Don Ciotti e "Libera": sostenuti da magistratura, media e politica e sindacati di sinistra.

Oltre ad essere scrittore, sono presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio nazionale antiracket ed antiusura (al pari di Libera). Associazione già iscritta all’apposito elenco prefettizio di Taranto, ma cancellata il 6 settembre 2017 per mia volontà, non volendo sottostare alle condizioni imposte dalla normativa nazionale: obbligo delle denunce (incentivo alla calunnia ed alla delazione) e obbligo alla costituzione di parte civile (speculazione sui procedimenti attivati su denunce pretestuose). Come presidente di questa associazione antimafia sono destinatario di centinaia di segnalazioni da tutta Italia. Segnalazioni ricevute in virtù della previsione statutaria associativa.

La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la stessa cosa.

Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stata impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.

Don Ciotti, presidente di “Libera”: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra".

Antonio Giangrande, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie: “I beni confiscati sono cosa di tutti, non degli apparati appoggiati dalla sinistra. Basta favoritismi ed ipocrisie. Ben venga la riforma. I proventi della vendita dei beni non assegnati vadano a finanziare i bisogni della Giustizia e non essere un peso al bilancio dello Stato”.

“Libera”, è un coordinamento di oltre 1500 associazioni o comitati locali, che spesso si appoggiano presso le sedi ARCI, ACLI, CGIL. Esse sono assegnatari dei beni confiscati e beneficiari dei finanziamenti per la fruizione e la funzionalità di immobili ed aziende. Loro santificano i magistrati e sono appoggiati dall’apparato dei media, dei docenti, degli intellettuali, dei politici e dei magistrati di sinistra. Con un apparato del genere e con molte Giunte che la sovvenzionano, “Libera” non ha bisogno di elemosinare sostegno, finanziamenti e visibilità.

La associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.

In prima battuta ogni associazione antimafia con regolare sede legale in una determinata provincia poteva chiedere l’iscrizione all’elenco dei sodalizi antiracket ed antiusura tenuto dalla Prefettura di riferimento e poteva, altresì, chiedere l’iscrizione presso altre prefetture, con la nomina di rappresentanti locali, sostenuti da sodali e vittime di racket ed usura. Questo al fine di espandersi e diffondersi, per potersi iscrivere al Registro Nazionale ed accedere ai relativi fondi.

Fatto sta che improvvisamente uscì fuori un decreto Ministeriale n. 220 del 24 ottobre 2007 a firma del Ministro dell’Interno Amato e del Ministro della Giustizia Mastella.

Tale decreto impose requisiti specifici atti a favorire specificatamente solo alcune associazioni, impedendo altresì l’espandersi delle più meritevoli.

Democraticità Se da una parte la democraticità prevista è legittima, diventa strumentale quando la si usa per poter gestire il potere da parte di chi è abituato a farlo. Per questo spesso e volentieri la CGIL ha propri iscritti in queste associazioni.

Capacità ad operare. La capacità, se perviene da titoli di studio o esperienza sul campo, è fondamentale. E’ impeditiva se impone la collaborazione con alcune le forze dell’Ordine, anche quando pare chiaro che vi sia commistione e coperture con le organizzazioni criminali. E’ strumentale, altresì se impongono per la permanenza nell’elenco la denuncia e la costituzione di parte civile, anche quando non ve ne sia ragione.

Tutto questo contornato da ambigua e farraginosa burocrazia.

Ma la cosa principale prevista è il divieto alle associazioni antiracket ed antiusura di iscriversi al di fuori della provincia competente sulla propria sede legale.

Di fatto “Libera” di Don Ciotti è l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale.

Di fatto non potrebbe essere iscritta perché l’associazione "Libera" è solo un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali.

L’antimafia pirandelliana, ovvero l’antiracket che chiede il "pizzo"…, scrive I Nuovi Vespri il 30 ottobre 2018. Quello che viene fuori in queste ore da un’inchiesta a Catania è una storia paradossale. Ma, ragionando, è la stessa storia che la Sicilia vive dalla fine degli anni ’80 del secolo passato, quando alla finta antimafia politica si unisce la finta antimafia sociale. Confindustria Sicilia di Antonello Montante non nasce dal nulla, ma è il prodotto di un inganno che ancora continua, nella politica e nella società della Sicilia. Per ora ci sono arresti. Il seguito di questa storia chiarirà meglio che cosa è avvenuto. Ma dalle prime battute siamo davanti a una vicenda che non è esagerato definire paradossale, quasi pirandelliana: il protagonista di un’Associazione antiracket che finisce agli arresti per falso ideologico e peculato. Indagato, anche, leggiamo su La Sicilia on line, “per estorsione continuata nei confronti di alcune vittime del racket che avevano richiesto accesso allo specifico fondo di solidarietà statale”. Una conferenza stampa, prevista i tarda mattinata, chiarirà i contorni di questa ennesima storia di malaffare all’insegna della ‘legalità’. Proprio in questi giorni si celebra il processo ad Antonello Montante, l’ex presidente di Confindustria Sicilia che, appena qualche anno fa, era considerato il paladino dell’antimafia. Come dimenticare gli anni in cui Montante e i suoi amici distribuivano ‘patentini’ di antimafiosi a destra e a manca? La lotta alla mafia di qua, la lotta alla mafia di là, indietro non si torna, la legalità, i protocolli antimafia con i Prefetti: di tutto e di più. Sceneggiate a mai finire e, dietro, grandi affari: commesse, appalti, acqua, rifiuti e via continuando. Oggi le cronache ci raccontano di un’Associazione antiestorsione che ne combinava di cotte e di crude. Ribadiamo: in questi casi è bene attendere non soltanto l’esito delle indagini, ma anche il finale di eventuali processi. Ma alcune considerazioni ci sembrano quasi obbligatorie. Non su questa storia, ma sull’atmosfera che si respira i Sicilia dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo passato. Quando, ad esempio, gli appalti venivano gestiti dai mafiosi con il ‘bollino’ del parastato. O quando a Palermo, in piena "Primavera", si scopre che Vito Ciancimino continuava a controllare i grandi affari della città. Insomma, quello che succede oggi con i “Professionisti dell’antimafia” finiti alla sbarra ha una propria storia, e affonda le radici in un’antimafia politica che non sempre è stata seria. Dal 1962 al 1976 – anni in cui operò la prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia – le speculazioni politiche erano all’ordine del giorno. C’era, è vero chi, dai banche del Parlamento nazionale, cercava di combattere la mafia. Ma c’era anche chi utilizzava le polemiche su mafia e antimafia per eliminare avversari politici. I democristiani e i comunisti, in questo particolare sport tutto italiano, erano maestri insuperabili. Accuse da una parte e dell’altra, quasi sempre senza prove. In qualche caso c’erano indizi seri, in altri casi solo chiacchiere. Da ricordare il ‘cannibalismo’ dentro la Dc siciliana, dove, in alcuni casi, i colpi bassi, tra esponenti dello stesso partito, erano una mezza prassi quando c’erano di mezzo poltrone e candidature. Insomma, quando, nel 1988, lo scrittore Leonardo Sciascia scrisse il celebre articolo sui “Professionisti dell’Antimafia”, il terreno, in Sicilia, era stato ben ‘arato’ dalle maldicenze. E dai profittatori. Perché se le accuse di mafia potevano servire per eliminare avversari politici, ebbene, potevano servire pure per fare veloci carriere politiche. E così, in alcuni casi, è stato. Perché stupirsi se, dalla politica, l’uso disinvolto della finta antimafia – dell’antimafia di facciata – sia arrivata a pervadere anche altri "gangli" della società? Se sbandierando la finta antimafia da politico si facevano soldi e carriere, perché non farlo pure in altri settori della vita pubblica? Forse il salto di qualità, ovvero il momento i cui le antimafie si fondono in un progetto politico è il 2008, quando si prepara il Governo regionale del ribaltone. Nel 2009 l’antimafia politica del centrosinistra si unirà all’antimafia di Confindustria Sicilia. Quest’ultima organizzazione entrerà nel Governo regionale con un proprio rappresentante. Nel 2012, alle elezioni regionali siciliane, antimafia politica del centrosinistra e l’antimafia di Confindustria Sicilia vinceranno le elezioni. A stento, certo, con l’appoggio di una parte di ex democristiani e con mezza Forza Italia: ma vinceranno. E governeranno. E, benché azzoppata, questa ‘temperie’ è ancora oggi presente, se è vero che nell’attuale Governo regionale ci sono personaggi che, a vario titolo, hanno fatto parte dei due Governi regionali precedenti. Che significa questo? Che la lotta per liberare la Sicilia da questi soggetti è ancora lunga.

Il pizzo dell'antimafia, scrive Antonio Condorelli su Live Sicilia Martedì 30 Ottobre 2018. Il passaggio del pizzo viene immortalato dalle telecamere nascoste della guardia di finanza. I soldi, in contanti, per non lasciare tracce, sono contenuti in una busta bianca. Passano di mano in mano velocemente. A pagare è, ancora una volta, una vittima di usura ed estorsione, riconosciuta dallo Stato, che ha ricevuto il sostegno economico necessario a fare andare avanti la sua impresa, taglieggiata da Cosa Nostra. Ma a incassare la somma non è un boss né uno scagnozzo, ma il presidente di una delle più importanti associazioni antiracket siciliane: Salvo Campo, fondatore della A.SI.A., associazione siciliana antiracket. Volto notissimo a livello nazionale, più volte ospite del Maurizio Costanzo Show, secondo quanto accertato dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza etnea, chiedeva il 5% sulle somme che riusciva a far ottenere agli associati, tutte vittime di usura e del racket mafioso, imprenditori in ginocchio che spesso rischiavano la vita e si affidavano a lui per avere sostegno psicologico e assistenza processuale. Ma poi, secondo quanto accertato dal gruppo sui reati dei colletti bianchi, coordinato dal sostituto procuratore Fabio Regolo, le vittime della mafia si ritrovano, nuovamente, davanti a quell'inferno dal quale erano scappati: corrispondere una percentuale fissa, del 5% a colui che, in quel momento, rappresentava lo Stato. Proprio per questo a Campo viene contestato il peculato, reato tipico dei pubblici ufficiali, anche perché si trattava di fondi pubblici.

L'ASSOCIAZIONE – Nasce nel 2008 la A.SI.A. con lo scopo di “esercitare una costante azione di stimolo nei confronti dell'opinione pubblica e nei confronti di tutte le autorità costituite affinché il problema dei delitti di estorsione e di usura vengano considerati primari ed essenziali non solo per le categorie che li subiscono ma anche per l'intera comunità che direttamente da tali delitti viene gravemente danneggiata”. Non si tratta di una piccola associazione antiracket, ma di una delle più importanti in Sicilia, con ben 152 associati.

LE INTERCETTAZIONI – Campo si sentiva sicuro, pubblicamente era stato in prima linea fondando anche il Consorzio per la legalità siciliano. Ma a lui piacevano i soldi, in contanti. Soldi provenienti dal fondo antiracket che avrebbe utilizzato per scopi strettamente personali. Ad ogni associato faceva firmare una documento, che lo obbligava a corrispondere il 5% all'associazione antiracket che presiedeva. La cifra doveva essere corrisposta con puntualità. Comunque stiamo attenti – dice Campo a una vittima di usura - questo per me è lavoro e tu lo sai che non voglio ricordare nulla ... ma nel caso noi dovessimo riuscire, veramente, ad avere quello che compete a te ... il 5% me lo riconosci...” “Perché no! Non sono stato sempre...”, risponde l'associato. Ma lui, il presidente antimafioso insiste: “Va beh! Ma io ... la percentuale già l'abbiamo detta... la sappiamo dall'inizio... io già lo so e mi batterò, perché il 5% sul valore degli immobili saranno soldi...”. La vittima di usura si mostra perplessa: “Sì, ma dico... io credo di non essere mai mancato ad un impegno...”. “Firma”, tuona Campo, che pretende il rispetto degli accordi. “La vittima – hanno documentato gli inquirenti – a fronte di un risarcimento economico di 43mila euro, aveva corrisposto a Campo la somma di 4mila euro”.

QUESTIONE DI SOLDI - Tutto documentato dalle cimici della Finanza. “Il mio lavoro – dice il presidente dell'associazione antiracket - me lo ha pagato lei? Ah... io non me lo ricordo...il mio lavoro...di questi 43.000,00 euro me lo ha pagato lei? Non mi ha dato niente!”. A questo punto, il socio dell'associazione, è meravigliato e chiede: “Come pagato? La prossima volta io le domando la ricevuta... se lo è scordato che gli abbiamo fatto il regalo anche alla signora?”. “Che mi ha dato?”, ribatte Campo: “Quattromila euro le ho dato – conclude l'associato – dottor Campo”.

“LAVORO” - I fondi statali concessi alle vittime di usura ed estorsione, per il presidente dell'antiracket rappresentavano un “lavoro”, una somma dovuta per quello che faceva e per riscuotere faceva pressioni. “Eh, ho capito – dice il presidente antimafioso alla vittima della mafia – che dobbiamo fare?”. La vittima, che non aveva corrisposto il “dovuto”, tenta di prendere tempo: “No, ma tranquillo, non si preoccupi, anche, poi le spiego”. Ma il paladino insiste: “Non è che possiamo fare sta cosa!”. La vittima tenta di rassicurarlo: “Non si preoccupi”. Ma a questo punto della conversazione, Campo ammette candidamente che per lui, è un motivo di lavoro. “Il mio lavoro – dice Campo intercettato – deve essere soddisfatto...il lavoro deve essere, per me è lavoro, non è che per dire...”.

OSSIGENO – I fondi nazionali antiracket per il presidente arrestato erano ossigeno. “Ah! - dice a una parente - un poco di ossigeno (OMISSIS)... mi ha portato mille euro”, dice. E poi precisa: “Così i soldi della pensione non li tocchiamo lunedì ...”. Quei fondi, però, servivano per salvare l'impresa dai danni provocati dalla mafia. Ma per uno strano scherzo del destino, erano finiti nelle tasche dell'antimafia.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

"Non lavoro più in nero per te" e Don Ciotti lo prende a ceffoni. Voleva un impiego regolare. Il prete lo prende a sberle e pedate, poi colto dal rimorso gli scrive e confessa di averlo picchiato. Leggi la lettera, scrive di Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è   stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa - caratteristica preziosa e rara da quelle parti - e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e - stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara - lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l'antimafia...».

 “L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…).

Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti.   

«L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!».

Va giù duro il presidente Antonio Giangrande.

«Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D'altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!»

Continua Antonio Giangrande.

«Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Le associazioni antiracket ed antiusura riconosciute dal Ministero dell’Interno sono pubblicate sul sito ministeriale.

Alcune non sono schierate, molte di loro, invece, fanno capo al FAI (Federazione Antiracket Antiusura Italiana) di Tano Grasso ed a LIBERA di Don Ciotti. Notoriamente, questi coordinamenti sono destinatari dei fondi statali e regionali.

Quei sette milioni che spaccano l'antiracket, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. L'ultima polemica nell'antimafia è scoppiata dopo la firma di quattro convenzioni, per quasi 7 milioni di euro, fra il ministero dell'Interno e le associazioni che fanno capo al leader storico del movimento antiracket, Tano Grasso. «Convenzioni basate su un finanziamento milionario», accusa Lino Busà, presidente nazionale di Sos Impresa, animatore di un'altra rete nazionale di associazioni antiracket, la Rete per la legalità: «D'ora in poi potremo dire che esiste un antiracket no profit e un'industria dell'antiracket», accusa Busà. «Stiamo valutando la legittimità di quelle convenzioni, che hanno assegnato finanziamenti davvero esorbitanti senza alcun bando pubblico», aggiunge il presidente di Sos Impresa. «Quei finanziamenti tolgono soprattutto autonomia alle associazioni», dice l'avvocato Fausto Amato, legale di parte civile in molti processi di mafia, impegnato anche lui nelle iniziative di Sos impresa e della Rete per la legalità. Una delle convenzioni riguarda anche l'attivissima associazione palermitana Addiopizzo: con la collaborazione della federazione di Tano Grasso si occuperà di promuovere la diffusione del "consumo critico antiracket", fra Palermo e Gela. Per questa iniziativa, che proseguirà per tre anni, il commissario antiracket del governo ha previsto un milione e 400 mila euro. Dice Tano Grasso, presidente onorario della Fai, federazione delle associazioni antiracket e antiusura: «È necessario dare una svolta all'impegno importantissimo delle associazioni sul territorio. E per farlo sono necessari strumenti. Per il resto, le associazioni continueranno ad operare in autonomia, senza alcuna soggezione nei confronti della politica, anche perché quei finanziamenti arrivano dall'Unione Europea, non dallo Stato. Cosa avremmo dovuto fare? Rinunciare a questa opportunità, che è anche un riconoscimento che l'Europa fa del lavoro svolto dalle associazioni sul territorio?». Grasso spiega che Fai e Addiopizzo avranno solo il compito di coordinare le iniziative: «Gli operatori degli sportelli sono stati selezioni attraverso rigide selezioni avvenute attraverso un bando pubblico», spiega. «Sono stati scelti professionisti che neanche conosco - dice ancora Tano Grasso - sono tutte persone che concretamente, e in modo professionale, potranno aiutare le vittime degli esattori». È ormai scontro fra le due anime del movimento antiracket: da una parte il Fai, dall'altra la Rete per la legalità. «Da due anni abbiamo fatto una scelta netta - dice Busà - vogliamo essere liberi dalla politica. Non riesco davvero a comprendere come si possa arrivare a finanziamenti così elevati: vengono dati 700 mila euro per realizzare uno sportello che noi offriamo da anni gratuitamente». La settimana prossima, il ministro dell'Interno firmerà un'altra convenzione, questa volta con il presidente Confindustria Emma Marcegaglia: il cuore di altre iniziative antiracket sarà la provincia di Caltanissetta. «L' antiracket non è solo Palermo o Napoli, dove tanti commercianti hanno scelto di denunciare», prosegue Tano Grasso: «In tante realtà, soprattutto in provincia, la situazione è ancora difficile, e non basta il volontariato delle associazioni, bisogna costruire progetti e sostenerli con adeguate professionalità, solo così potremo vincere davvero la lotta al pizzo». Busà ribatte: «Le associazioni antiracket devono nascere dal basso, dagli stessi commercianti. Non servono soldi, solo tanta buona volontà».

Il venticello della calunnia sfiora e avvelena il fronte dell'antiracket, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera” . Non perché i boss siano passati al contrattacco nell'era della ribellione di commercianti e imprenditori. Ma perché a temere una burocratizzazione delle strutture «anti» e, addirittura, a sospettare un giro di mazzette per pilotare i rimborsi del Fondo appositamente costituito è qualche «vittima» adesso lanciata contro i vertici delle associazioni. E un nome s'impone su tutti, quello di Tano Grasso, mitico condottiero dei commercianti di Capo d'Orlando ai tempi di Libero Grassi, presidente onorario della Fai, la federazione antiracket, casa a Napoli dove è consulente del sindaco per la stessa materia. «Spazzatura», dicono di ogni accusa i suoi amici, da don Luigi Ciotti a Pina Grassi, comprese le icone dell'antiracket in Calabria e Campania, Maria Teresa Monaco e Silvana Fucito. Come l'avvocato di Grasso, Fausto Amato, già alla settima querela. Mentre lui sale al Viminale temendo la «delegittimazione» e trovando solidarietà nel ministro Amato. Sembra riecheggiare la polemica sui professionisti dell'antimafia dopo le prime frecciate arrivate attraverso «L'Espresso» con la storia di Giuseppe Gulizia, il costruttore siciliano che ha denunciato il coordinatore Fai nell'isola Mario Caniglia, altro simbolo dell'antiracket. Un terremoto. Perché Gulizia sostiene di avere «ringraziato», dopo i primi rimborsi del Fondo, con bottiglie di champagne imbottite da mazzette da cento euro e di avere dovuto comprare olio a prezzo maggiorato. In totale, una tangente di circa 60 mila euro, il dieci per cento di una prima tranche da 600 mila euro incassata dallo stesso imprenditore con le pratiche antiracket. La vicenda è complessa. Di certezze nessuno ne ha. L'indagine appare difficilissima. E chi denuncia potrebbe passare per un calunniatore. Ma il sospetto soffia come una bufera. Anche contro Grasso che Gulizia giura di avere informato. Quanto basta per scatenare un fuoco di sbarramento a difesa, ma anche nuovi forti attacchi. Come quello di Sonia Alfano, quasi conterranea di Grasso visto che la mafia le ha ucciso il padre giornalista a Barcellona, vicino a Capo d'Orlando, adesso candidata per Grillo alla presidenza della Regione: «L'antiracket non può essere una sola persona. Si faccia da parte per un momento Grasso, se ci sono ombre. Come abbiamo chiesto tante volte a chi ha i riflettori della giustizia puntati addosso. E' il caso di Caniglia. Altrimenti si da la sensazione di una casta. Se si tocca uno di loro ci si scotta...». Non piace questa posizione a don Ciotti che invita piuttosto «ad accertare le responsabilità di chi sparge zizzania». Un po' come Pina Grassi, arrabbiata con i cronisti: «Le notizie vanno verificate prima di questi subdoli attacchi...». E Maria Teresa Morano, coordinatrice dell'antiracket in Calabria: «Noi, con Grasso, siamo quelli che da 15 anni accompagniamo le vittime in tribunale. Il resto lascia il tempo che trova». Severa Silvana Fucito, presidente dell'associazione San Giovanni a Teduccio, tre anni fa indicata da Time «personaggio dell'anno in Europa»: «Sono infuriata contro chi si erge a giudice additando le associazioni e Tano Grasso. Mi sento parte offesa in prima persona». Un fiume in piena e anche se Rita Borsellino non risparmia «solidarietà» a Grasso, la Fucito che sa di una frizione con Don Ciotti bacchetta pure su questo fronte: «La Borsellino ormai non riesce a guardare verso il basso, dove noi operiamo accanto a chi soffre e vive i problemi...». Altra frecciata interna ad un mondo sul quale non tollera «il rischio delegittimazione» lo stesso Grasso: «Per questo sono andato da Amato, pronto alle dimissioni. Ma io sono sciasciano puro. E, da professionista dell'antimafia, convinto che Sciascia avesse ragione, ho usato la sua lezione come antidoto. Ombre? Vedo solo quelle di chi vuole ridimensionare il ruolo dell'antiracket e normalizzare».

Esponente della Terra dei fuochi allontanato dall’aula del Suor Orsola. Angelo Ferrillo senza autorizzazione per entrare. «Toglietemi le mani di dosso», scrive “Il Corriere della Sera” il 20 novembre 2015. Durante l’apertura del nuovo anno accademico all’Università Suor Orsola Benincasa, in attesa dell’arrivo del Capo dello Stato Sergio Mattarella, il leader del movimento “Mai più la Terra dei fuochi” Angelo Ferrillo è stato allontanato dall’aula Magna dove si sta svolgendo la cerimonia. Gli uomini della polizia sono intervenuti in quanto Ferrillo non aveva espletato le procedure per accreditarsi ed essere autorizzato ad entrare. «Sono un cittadino, non ho fatto niente. Voglio stare qua, non sono un camorrista e dovete togliermi le mani di dosso. Come è possibile che nessuno mi venga a difendere? Mi state strappando tutti i vestiti. Basta, presidente. Mi trattate così perché sto facendo una battaglia per la terra dei fuochi», queste le urla di Ferrillo che ha opposto resistenza all’intervento delle forze dell’ordine.

Mattarella a Napoli: momenti di tensione, allontanato attivista della Terra dei fuochi, scrive “La Repubblica” del 20 novembre 2015. Dopo numerosi inviti a uscire da parte delle forze dell'ordine e dal questore, Angelo Ferrillo, attivista e fondatore del blog "laterradeifuochi.it", è stato trascinato all'esterno dell'aula magna del Suor Orsola Benincasa, poco prima dell'arrivo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l'inaugurazione dell'anno accademico. Ferrillo era seduto in sala pur non essendo accreditato. Mentre le forze dell'ordine tentavano di portarlo via l'attivista ha urlato: "Sono un cittadino. Ho diritto a stare qui. Al Presidente stanno dicendo bugie, non vogliono che sappia la verità sulla terra dei fuochi". 

Mattarella a Napoli, tensione al Suor Orsola. Disturbatore Ferrillo portato via dalla digos. L'uomo si sarebbe introdotto all'Università accreditandosi come studente, scrive il 20-11-2015 Salvatore Piro su “Lo Strillone” mettendolo in cattiva luce. “Lasciatemi mi fate male. Sono un cittadino, non un camorrista. A Mattarella dicono solo bugie sulla Terra dei Fuochi. Io voglio raccontargli la verità”. Così Angelo Ferrillo, da anni la voce contro i rifiuti tossici nelle province di Napoli e Caserta, portato via con la forza stamattina da quattro agenti della digos. Ferrillo ha provato oggi a disturbare la visita del Capo dello Stato. Visita in programma all’Università Suor Orsola Benincasa, in occasione dell’apertura del 114esimo anno accademico dell’Ateneo. L’attivista della Terra dei Fuochi, secondo le prime ricostruzioni in polizia, avrebbe evitato i controlli ai varchi d’ingresso della sede di Corso Vittorio Emanuele, accreditandosi come studente. In questo modo, sarebbe riuscito a non mostrare il suo documento di riconoscimento. In basso, il video integrale dell’intervento con la forza della digos in Aula Magna.

Ferrillo cacciato dalla sala in attesa di Mattarella, la replica: “Avevo l’accredito”, scrive il 20 Novembre 2015 “Il Meridiano News”. Il blogger è stato allontanato di forza dalla sala dell’Università Suor Orsola Benincasa prima dell’arrivo del Capo dello Stato. “Caro Presidente, su Terra dei Fuochi le hanno detto un mare di bugie”. Attimi di tensione stamani durante la cerimonia di apertura del nuovo anno accademico all’Università Suor Orsola Benincasa. L’attivista-blogger della Terra dei Fuochi Angelo Ferrillo è stato portato via di forza dal personale addetto alla sicurezza prima dell’arrivo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ferrillo è stato portato anche in Questura ed ora ha deciso di affidare la sua versione dei fatti ad un post pubblicato su facebook: “Sono entrato chiedendo permesso e mostrando i miei documenti, – afferma – non trovato l’accredito inviato all’ufficio del cerimoniale, allora chiedevo e mi hanno lasciato entrare sedendomi tra il pubblico in ultima fila con gli universitari. Quella dell’accredito è stato un pretesto perché forse qualcuno non vuole arrivino certe informazioni al Presidente Mattarella. Tant’è che anche il capo dell’ufficio stampa del Suor Orsola, il dottor Conte, aveva detto davanti a tutti che potevo restare. Non immaginavo che una pubblica Università sarebbe diventata un’accademia militare o un circolo privato. Ripeto, volevo solo assistere alla conferenza stampa e consegnare nelle mani del Presidente della Repubblica la nostra lettera che sin dal suo insediamento nessuno pare gli voglia consegnare! Caro Presidente, nonché Capo delle Procure di tutta Italia e presidente del CSM, su terra dei fuochi le hanno detto un mare di bugie. Attendo fiducioso – conclude il blogger – di essere ricevuto da Lei per comunicarLe importanti notizie di reato. Solo Lei può ascoltarci”.

Ferrillo cacciato dal Suor Orsola, cinque giorni di prognosi. Il blogger: “Trattato come un criminale”, scrive il 21 Novembre 2015 “Il Meridiano. Il portavoce de “La Terra dei Fuochi” ha riportato ecchimosi ed escoriazioni. In Questura è stato trattenuto cinque ore in stato di fermo. Non se l’è vista bene ieri Angelo Ferrillo, il portavoce dell’associazione “La Terra dei Fuochi”, cacciato con la forza dai poliziotti dall’aula magna del Suor Orsola Benincasa perché – secondo gli stessi – privo di accredito. Dopo essere stato vittima di quell’episodio, la cui notizia ha fatto subito il giro del web, Ferrillo è stato trattenuto in Questura, in stato di fermo, per cinque ore con i vestiti stracciati. Una volta rilasciato, si è recato in visita al Pronto Soccorso dell’ospedale dei Pellegrini. I medici gli hanno diagnosticato ecchimosi ed escoriazioni in varie parti del corpo, guaribili in 5 giorni. “Il nostro portavoce Angelo Ferrillo dopo i fatti di ieri – si legge sulla pagina ufficiale dell’associazione – accusa ancora forte dolore al collo e alla gola dovuto alla stretta procuratagli attorno alla testa con violenza. L’associazione pertanto chiede le scuse del Questore di ‎Napoli, il quale, come si vede anche nel video, ha condotto personalmente tale operazione, e si riserva di difendersi in ogni sede contro questo abuso e le lesioni cagionate al nostro portavoce”. Ancora oggi Ferrillo – contattato dalla nostra redazione – lamenta dolori alla gola, nausea e mal di testa. E’ tornato in ospedale per accertamenti. “Un trattamento che non si riserva manco ai criminali – ci ha scritto -. Mi hanno strangolato quasi affogandomi, con lesioni ed ecchimosi, e senza reagire solo perché mi hanno voluto tirare via”.

LUCA ABETE PORTA A “STRISCIA” IL CASO ANGELO FERRILLO. Scrive il 27 novembre 2015 “Isola Verde tv”. L’inviato di Striscia la Notizia nel servizio andato in onda ieri sera al tg satirico di Antonio Ricci ha mostrato i modi barbari utilizzati per allontanare Angelo Ferrillo (fondatore dell’associazione La TERRA dei FUOCHI) dalla sala dove era atteso il presidente Mattarella. La violenza con cui Ferrillo è stato trascinato di peso fuori dalla sala riempie di sconcerto e stupore. Le immagini andate in onda su Canale 5 mostrano come alcuni agenti in borghese prendano di peso, con la forza l’uomo per poi trascinarlo via dalla sala del Suor Orsola, tra le sue grida disperate. Luca Abete ha intervistato Ferrillo sulla questione per avere spiegazioni sull’accaduto. L’uomo, blogger e fondatore dell’associazione Terra dei Fuochi, ha affermato di essere entrato da comune cittadino, accreditato come portavoce della sua associazione, e di essere stato cacciato in quanto voleva dare al Capo dello Stato un invito sottoscritto dagli associati. Al termine dell’intervista Ferrillo si è commosso e Luca Abete ha rivolto un appello o a Mattarella perché prenda a cuore il dramma dei territori campani interessati dai roghi tossici. “Ognuno può pensarla come crede, ma in una terra dove non si contano i disastri ambientali, un rappresentante dei cittadini non andrebbe trattato come un CAMORRISTA.” ha scritto su facebook Abete.

È accaduto nella giornata di Mattarella a Napoli. Il presidente dell'associazione "La terra dei fuochi" a Luca Abete: "Sono stato letteralmente strozzato, strangolato, ho sentito un dolore cane", scrive Valeria Scotti il 27 Novembre 2015 su "Napoli Today". È approdato a Striscia la Notizia il caso di Angelo Ferrillo cacciato dall’aula magna del Suor Orsola Benincasa in occasione della visita del Capo dello Stato, Sergio Mattarella. A parlarne in un servizio è Luca Abete. Dopo aver riproposto il video delle polemiche -  il blogger de La Terra dei Fuochi viene strattonato e portato via dall'aula - il racconto del blogger notevolmente commosso. "Sono stato letteralmente strozzato, strangolato, ho sentito un dolore cane, si vede dale immagini. Ancora adesso ho dei dolori al collo. Dopo aver ascoltato in religioso silenzio la sua conferenza, volevo consegnare nelle mani dello staff del Presidente un documento in cui gli chiedevo un incontro per dirgli come stanno i fatti. La Terra dei fuochi brucia ancora ed una una vicenda su cui sono state raccontate molte bugie”. "Lotta contro la TERRA dei FUOCHI e lo trattano come un CRIMINALE. I modi utilizzati per allontanare Angelo Ferrillo (fondatore dell'associazione La TERRA dei FUOCHI) dalla sala dove era atteso il presidente MATTARELLA riempiono di sconcerto e stupore. Ognuno può pensarla come crede, ma in una terra dove non si contano i disastri ambientali, un rappresentante dei cittadini non andrebbe trattato come un CAMORRISTA. Ed ora... #‎presidenteTOCCAaLEI".

Terra dei Fuochi, è scontro tra i comitati. Sale la tensione in vista della nuova manifestazione del sedici novembre, scrive il 28 ottobre 2013 su “La Repubblica” Conchita Sannino. L’obiettivo è comune, ma il popolo che protesta e chiede giustizia, per la Campania inquinata, resta pericolosamente diviso. Con la temperatura dello scontro pronta a salire. Dopo la coda di polemiche con cui si è chiuso il corteo dei 50 mila promosso dal blogger Angelo Ferrillo e dagli attivisti de “La Terra dei fuochi” che sabato ha attraversato tutto il centro, si temono scintille e nuove tensioni per l’altro evento gemello in programma per sabato 16 novembre. È la manifestazione che si annuncia imponente e vedrà in prima fila il parroco Maurizio Patriciello, il medico Antonio Marfella e migliaia di famiglie colpite da lutti e malattie che vengono ricondotte, pur in assenza di una correlazione scientificamente condivisa, allo sversamento di rifiuti e veleni nelle terre del giuglianese e dell’agroaversano. Sabato scorso, proprio l’assenza del prete e dei tantissimi cittadini che si riconoscono nella sua battagliera leadership ha mostrato, platealmente, ciò che prima si poteva solo intuire: la Terra dei fuochi non è solo la drammatica fotografia di territori rimasti per anni sotto il dominio delle ecomafie e dei business criminali, non è solo bandiera di un riscatto civico per un’intera provincia che aveva finto di non vedere e non sapere, ma rischia di diventare anche “brand” di una lotta dagli istinti diversi. Da un lato, quelli che come Ferrillo pensano che «sia inutile chiedere ora le bonifiche se prima non si spengono i roghi» e denunciano «aspirazioni personali di pochi, nel business e nella vigilanza dei luoghi». Dall’altro, il coordinamento guidato da don Patriciello, a cui si accompagnano i comitati antidiscariche e del “No all’inceneritore di Giugliano”, che dialogano con istituzioni e politica, chiedono l’intervento del ministro Andrea Orlando, ritengono «necessario» un grande investimento sulle bonifiche «per salvare altre vite umane» e riconquistare «vivibilità per queste terre martoriate». Lo stesso Patriciello, nei giorni scorsi, ha dialogato con il Capo dello Stato, incontrato la commissione Ambiente del Senato, inviato accorati sos a Papa Francesco. Tanto da dire: «Da un momento all’altro, il Papa mi chiamerà sul cellulare. Sono convinto che, dopo aver visto una parte delle 150 mila cartoline che ritraggono le undici mamme con i loro piccoli uccisi dal cancro, Sua Santità si farà vivo». Resta il dubbio: cosa resterà dell’escalation mediatica, della collezione di testimonial? Cosa cambierà davvero, nel quotidiano, per famiglie che si sentono, a ragione o a torto, esposti all’“avvelenamento”? Rintracciato, don Patriciello non può rispondere perché «impegnato a ritirare il premio Moscati a Carinola», nel casertano. Ma dopo, per ore, fino a tarda sera, il suo cellulare squilla invano. Posizioni ormai inconciliabili. L’altro giorno, durante il corteo, numerose scintille. Prima le tensioni con esponenti di CasaPound, allontanati poco dopo. Poi le contestazioni contro Ferrillo, che ha guidato il corteo via microfono, dall’inizio alla fine, fino a quando non sono scattate le proteste. Un gruppo di partecipanti issa lo striscione: “No all’inceneritore”, chiede di esprimersi. Ferrillo li “richiama”, ricordando che «non devono esserci protagonismi e striscioni», quelli reagiscono con urla, insulti, accuse contro il “monopolizzatore” Ferrillo, mentre quest’ultimo chiede ordine e arriva a dire “Chiamate la Digos”. Ieri su Facebook lo stesso Ferrillo definisce «camorristi» gli atteggiamenti di alcuni partecipanti. «Noi abbiamo ricevuto un attacco — scrive infatti — Questi sono atteggiamenti in stile camorristico organizzato». E poi: «Non ci faremo intimidire, né dai partiti né dai loro riferimenti associativi. Siamo solo all’inizio». Per oggi, alle 12, Ferrillo annuncia nuova conferenza (ma i giornalisti non erano il bersagliopreferito?) presso lo studio legale Bersani, al 60 di vico Tre Re a Toledo (accrediti: a staff@laterradeifuochi.it; oppure al 338/2601669). E ora il movimento promette di tornare a marciare anche il 16 novembre: vicini, nonostante le divisioni. Impazza ovviamente il flusso del web, reazioni di pancia comprese. Pochi, ma accorati, gli appelli al buon senso: «Dividetevi tra voi in privato, ma cerchiamo di essere compatti per le nostre terre e il futuro dei nostri figli». 

La terra dei fuochi è mia, la versione di Ferrillo, scrive Adriana Costanzo il 25 ottobre 2013. A cura di Vincenzo Strino su “Rete News”. L’ennesima guerra tra poveri. Ulteriore dimostrazione che non sono solo i partiti politici a dividersi. Ma anche li compulsa ogni giorno richiamandoli al loro dovere. In queste ore infatti si sta consumando lo strappo definitivo tra i sostenitori di don Maurizio Patriciello e del medico Antonio Marfella, e tra quelli di Angelo Ferrillo, deus ex machina del comitato della Terra dei Fuochi. La diatriba è nata a causa della manifestazione indetta da Ferrillo per domani pomeriggio a Napoli alla quale sia don Patriciello che Marfella non parteciperanno perché, come loro stessi hanno dichiarato, avevano già dato la loro adesione ad una manifestazione a Macerata Campana. Da qui la reazione di Ferrillo pubblicata sul suo profilo Facebook: “E’ proprio vero le delusioni non finiscono mai. Si parla di unione e poi si dice, o questa o quella…Andiamo avanti!”. Ma i sostenitori del duo Patriciello-Marfella non ci stanno e giudicano la manifestazione di domani soltanto una contro-manifestazione rispetto a quella contro il biocidio in programma per il 16 novembre, creata quindi solo per semplice personalismo di Ferrillo. Come se non bastasse, trattandosi di una polemica in cui il terreno dello scontro è il social network per eccellenza, la guerra si è estesa persino agli hastag di twitter: #fiumeinpiena quello della manifestazione di novembre e #ondainarrestabile quello comparso da pochi giorni sui link della manifestazione di domani, con Ferrillo accusato di aver “pezzottato” l’hastag del 16 novembre. Ecco la rettifica inviata da Ferrillo: “Si fa riferimento a informazioni inventate di sana pianta in base a un discorso non ascoltato ma preso dal web da interviste altrui e smentite dallo stesso autore del pezzo al quale il vostro cronista dice di aver fatto riferimento”.

Vertice in prefettura Don Patriciello attacca Ferrillo, si legge sul canale youtube di Angelo Ferrillo in allegato ad un video pubblicato il 24 luglio 2014. Don Maurizio Patriciello ancora una volta parlava per mezze frasi dicendo "finti attivisti e finti scienziati", così al mio invito a fare i nomi è venuto fuori il vero don Patriciello. Se queste sono le parole di un uomo di Chiesa intenzionato a unire giudicate voi. Quello che ha detto nei nostri confronti è vergognoso. Ora, si assuma le responsabilità. Intanto attendiamo pazienti le sue pubbliche scuse. Reduci dall'ennesimo vertice in Prefettura, questa volta a un anno dall'entrata in vigore del cosiddetto "patto per la terra dei fuochi", pur riscontrando l'impegno del delegato del Ministero dell'Interno, Donato Cafagna, rilevando una serie di criticità da lui stesso confermate, lo abbiamo invitato a portare sul tavolo del Governo le sue dimissioni qualora non ci fossero le condizioni ulteriori per continuare a svolgere in modo incisivo e decisivo il suo compito. A quasi due anni dal suo mandato i dati forniti sono parziali e i #roghitossici non sono affatto diminuiti, anzi! Inoltre, (come vedete dal video) denunciamo che nel suo intervento di apertura don Maurizio Patriciello anziché prendersela -esclusivamente- con chi detiene ruoli e obblighi istituzionali, lancia accuse diffamanti verso di noi e di quanti assieme a noi stanno facendo emergere la farsa che si protrae ai danni di tutti. 

Patriciello shock sui falsi attivisti e Ferrillo: "Si vendono per un piatto di lenticchie". Scontro in prefettura, spunta un «fuori onda». A Roma i ministri annunciano: pronti con visite gratis, scrive "Il CorrieredelMezzogiorno" il 28 luglio 2014. Impazza sul web lo scontro polemico che c’è stato quattro giorni fa in Prefettura, al tavolo sull’emergenza ambientale, tra il parroco di Caivano, don Maurizio Patriciello, ed il responsabile della pagina web LaTerradeiFuochi.it Angelo Ferrillo. Il secondo ha interrotto don Patriciello mentre, riferendosi allo scontro scientifico sul tema, sempre caldissimo, della correlazione tra le malattie oncologiche ed i rifiuti tossico-nocivi smaltiti o bruciati illegalmente in Campania, il sacerdote accusava genericamente fila «negazioniste» di presunti esperti - o che includono personaggi in passato al vertice di autorità preposte alla tutela dell’ambiente e della salute, anche nel doppio ruolo di controllori e controllati - responsabili, secondo Patriciello, del confondere ancora le acque davanti ad un’emergenza per la salute gravissima. A quel punto Ferrillo ha detto al parroco: «Faccia i nomi». Quindi Patriciello non si è risparmiato nel criticare Ferrillo e suoi intimi: «Vi vendete per un piatto di lenticchie».

TERRA DEI FUOCHI IL PARROCO DI CAIVANO POLEMIZZA CON IL COORDINATORE DEL SITO SUI ROGHI. Terra dei Fuochi: divampa l’incendio tra Don Patriciello e Ferrillo, scrive il 26 Luglio 2014 Martina Brusco su “L’Espresso”. Decisamente incandescente il tavolo tecnico tenutosi l'altro ieri in Prefettura. Convocato e coordinato dal Prefetto Donato Cafagna, commissario contro i roghi tossici in Campania, incaricato dal Ministero degli Interni, ha visto la partecipazione di rappresentanti della Regione Campania, delle Forze dell'Ordine, Legambiente, comitati e associazioni impegnate nella tutela dell'ambiente. Tra i presenti Don Patriciello, il parroco di Caivano divenuto icona della battaglia per il risanamento della Terra dei Fuochi, Angelo Ferrillo, attivista e creatore di un seguitissimo blog che da anni denuncia i numerosi roghi tossici nell'area e il Dott. Antonio Marfella, oncologo presso l'Istituto Nazionale Tumori "Pascale" di Napoli e membro dell'IISDE Medici per l'Ambiente. Sin dai primi interventi la tensione è alta e non solo nei confronti delle istituzioni presenti. L'intervento di Don Patriciello, denuncia la staticità della situazione, l'inefficienza delle strutture ospedaliere, una sanità sempre più privata che pubblica e il deludente servizio svolto dall'esercito nell'ambito dei provvedimenti stabiliti dalla legge Terra dei Fuochi. Il controllo del territorio promesso dal Governo, che avrebbe dovuto mettere in campo per due anni 850 militari - denuncia don Patriciello - al momento ha fornito solo un centinaio di unità, insufficienti per presidiare un'area così vasta e che quindi non si sono quasi mai visti nelle zone a rischio. Ma la verità scomoda quanto innegabile, che Don Patriciello urla a gran voce, è l'impossibilità di risolvere la questione attraverso una semplice raccolta differenziata. Il problema non sta nella "monnezza della nonna", ma in qualcosa di ben più serio, ovvero un sistema di illegalità. Le accuse di ipocrisia, che il parroco scaglia contro chiunque affermi il contrario o ometta tale punto, sono sferzanti e colpiscono soprattutto Ferrillo: "Sei tu, Ferrillo, che insieme ai tuoi amici stai rendendo un pessimo servizio perché ti avranno offerto un piatto di lenticchie". Divampa immediatamente un'aspra polemica tra le parti, polemica che ha radici ben più profonde frutto di divisioni in merito alle proposte. Ferrillo, infatti accusa le Istituzioni di interventi parziali e insufficienti e propone, essenzialmente, una maggiore sensibilizzazione ad opera dei media, l'ottimizzazione degli interventi delle forze dell'ordine che, a suo parere, svolgono un ruolo esclusivamente di repressione, ma ancora troppo poco di prevenzione e l'istituzione di "sentinelle ambientali" al fine di favorire una partecipazione più attiva dei cittadini e rendere gli interventi delle Forze dell'Ordine più diretti. Piuttosto eloquente l'implicito invito, rivolto al Prefetto Cafagna, di rassegnare le dimissioni qualora i ministeri preposti non fossero in grado di fornirgli mezzi adeguati. Ad avere un ulteriore ruolo nell'accesa discussione, è il Dott. Antonio Marfella. L'oncologo, da sempre in prima linea soprattutto in merito alle inefficienze scientifico-sanitarie, ha contestato duramente l'operato del Ministero della Salute e dell'Assessorato regionale della Sanità, in particolare contro coloro che, possedendo conoscenze adeguate, dovrebbero impegnarsi maggiormente nella risoluzione della problematica. Denuncia inoltre la mancanza di impianti per lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri radioattivi e le difficoltà nella realizzazione dei Registri Tumori, ottenuti dopo anni di opposizioni politiche e lungaggini burocratiche dalla Regione Campania. Nonostante numerosi attacchi incrociati appare evidente come gli interventi convergano su diversi punti: l'inutilità degli interventi repressivi condotti da Forze dell'ordine ed Esercito come stabilito della legge sulla Terra dei Fuochi, la denuncia di un servizio sanitario sempre più attento alle esigenze del privato, destinando quindi pochi fondi al pubblico che risulta inefficace nell'affrontare una tale emergenza e l'assenza delle Istituzioni, assenza confermata, tra l'altro, dalla scarsissima partecipazione delle stesse alla discussione svoltasi al tavolo tecnico. Ma tra i punti deboli di tale questione non è forse opportuno annoverare anche l'inconcludenza delle parti in causa che, sebbene attive ed impegnate sul territorio, hanno speso gran parte del tempo nello scagliarsi l'una contro l'altra piuttosto che fare fronte comune con lo scopo di porre fine alla vergognosa catastrofe che è la Terra dei Fuochi? Del resto, l'obiettivo è comune, eppure sembrano infinite le futili polemiche che sottraggono tempo ed energia alla ricerca di soluzioni efficienti. E intanto, mentre le Istituzioni si nascondono, la sanità e le industrie badano al proprio tornaconto, la malavita organizzata continua nella sua opera di distruzione del territorio, nella 'Terra dei Fuochi' l'incidenza dei tumori continua ad aumentare e la gente continua a morire.

Perché questo astio nei confronti di Ferrillo? Forse perché non è omologato e genuflesso al potere istituzionale come le altre associazioni e comitati antimafia? Forse perché ha il coraggio di denunciare le omissioni dei Vigili del Fuoco, delle Forze dell’Ordine e della Magistratura, cosa che altri non fanno? Conosciamo meglio il pensiero di Angelo Ferrillo attraverso la lettura dei suoi post della sua pagina facebook. “Ogni volta che un magistrato dà spiegazioni sulla #‎terradeifuochi, è evidente che in questo Paese non cambierà mai niente. Scuse. Solo e sempre giustificazioni. "Non ci sono le leggi". "Non possiamo fare più di tanto". "Non dipende da noi". Insomma, in questa dannata Italia, pare che le responsabilità non siano mai di nessuno... Nel frattempo anche oggi il nostro avvelenamento da #‎roghitossici continua indisturbato. Questi signori o non hanno compreso la gravità dei fatti o fanno finta di non capire. Quanto ancora durerà questa Farsa (?)”

La Terra dei fuochi è fuori controllo? Secondo la Prefettura i roghi illegali di rifiuti sono in calo, ma le foto dei residenti mostrano ancora decine di incendi al mese, scrive Gianluca Dotti, Giornalista scientifico, su “Wired” l'1 settembre 2014. L’associazione La Terra dei fuochi, presieduta da Angelo Ferrillo, ha dichiarato che le forze dell’ordine e le istituzioni non sono in grado di controllare il territorio tra le province di Napoli e Caserta. La Terra dei fuochi sarebbe ancora tempestata ogni mese da centinaia di incendi illegali di rifiuti speciali, come confermato delle foto di roghi scattate durante il mese di agosto e dalle decine di segnalazioni dei residenti sia sul portale laterradeifuochi.it che sulla sua pagina Facebook. Le denunce dell’associazione sono in contrasto con i dati recentemente diffusi dalla Prefettura, che invece testimoniavano una diminuzione degli incendi di rifiuti speciali a 8 mesi dal decreto, a quasi due anni dalla nomina del commissario e 4 mesi dopo che l’esercito ha inviato sul posto 100 militari. Secondo Ferrillo, invece, la situazione continua come prima, se non peggio: richieste di intervento alla Polizia non evase, Vigili del Fuoco in carenza di organico in particolare di notte, “assenza di intelligence” nelle operazioni di contrasto alla malavita. A questo poi, secondo Ferrillo, si aggiunge la disorganizzazione delle istituzioni a tutti i livelli, “dai magistrati ai prefetti fino agli amministratori locali e governativi”, definiti “come dilettanti allo sbaraglio”.

Ferrillo: Terra dei fuochi fuori dal controllo delle forze dell’ordine di Angelo Ferrillo Presidente Associazione "La terra dei fuochi” su “La Voce Sociale” del 30 agosto 2014. Il territorio della cosiddetta terra dei fuochi è completamente fuori il controllo delle forze dell’ordine e di ogni istituzione preposta. È sufficiente consultare il portale www.laterradeifuochi.it o la sua pagina facebook utilizzata dai residenti, per trovarsi di fronte a un quadro apocalittico. I territori a nord di Napoli e a sud di Caserta sono tempestati da centinaia di incendi illegali di rifiuti speciali al mese. Decine le segnalazioni e testimonianze dei residenti. Richieste di intervento alle forze di polizia non evase. Vigili del Fuoco in carenza di organico non sempre tempestivi nel rispondere alle centinaia di chiamate soprattutto notturne. Denunce fatte da anni e depositate nelle Procure che non intervengono a dovere su ogni livello di responsabilità. Assenza di Intelligence nelle operazioni di contrasto finora messe in campo. Insomma istituzioni come dilettanti allo sbaraglio. Dai magistrati ai prefetti fino agli amministratori locali (Regione e Comuni) e governativi. Questo il quadro drammatico della situazione a ben 8 mesi dal Decreto, e dopo che si sono spesi in prima persona ben 8 ministri della Repubblica degli ultimi 3 governi (Monti, Letta, Renzi) , 2 primi ministri (Letta e Renzi) e ultimo tra tutti, il Capo dello Stato Giorgio Napolitano. I ministri coinvolti in ordine sono stati Cancellieri, Clini e Balduzzi del Governo Monti, poi Lorenzin, De Girolamo, Orlando, Alfano del Governo Letta, e ancora Orlando, Galletti e Alfano sotto il Governo Renzi. Ricordiamo inoltre che sono passati quasi due anni dalla nomina di un commissario ad acta incaricato dal Ministero dell’Interno (vice prefetto Donato Cafagna) e 4 mesi dall’invio di 100 uomini dell’Esercito Italiano. Recentemente la Prefettura ha diffuso dati confortanti parlando di una diminuzione degli incendi di rifiuti speciali, ma essi non corrispondono assolutamente alla realtà. Malgrado tutto questo, l’avvelenamento da roghi di rifiuti speciali continua come se non peggio di prima.

CAMERA DEI DEPUTATI SENATO DELLA REPUBBLICA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLE ATTIVITÀ ILLECITE CONNESSE AL CICLO DEI RIFIUTI. RESOCONTO STENOGRAFICO MISSIONE GIOVEDÌ 16 LUGLIO 2009 PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GAETANO PECORELLA INDICE Audizione del dottor Angelo Ferrillo, responsabile regionale di «Terra dei fuochi», accompagnato dal dottor Gianluca Manco.

Pecorella Gaetano, Presidente …………………………………………………

D’Ambrosio Gerardo (PD) …………………………………………………….

De Angelis Candido (PdL) …………………………………………………….

Ferrillo Angelo, responsabile regionale di «Terra dei fuochi» ……………….

Izzo Cosimo (PdL) ………………………………………………………………

La seduta comincia alle 13.50.

PRESIDENTE. Signor Ferrillo, lei è responsabile regionale di «Terra dei fuochi» e mi pare che abbiate fatto oggetto di alcune riprese il fenomeno degli incendi notturni appiccati per eliminare immondizie e in particolare copertoni. Vorrei sapere innanzitutto se, in queste occasioni, ci siano stati interventi della forza pubblica, dell'autorità giudiziaria, per impedire di registrare, o se invece abbiate potuto registrare tranquillamente, in assenza di chicchessia.

ANGELO FERILLO, responsabile regionale di «Terra dei fuochi». Interventi ce ne sono stati, però non in misura sufficiente, rispetto alla mole di fenomeni criminali che si verificano sul territorio. Molte volte abbiamo registrato la carenza di risorse (uomini e mezzi) da parte dei vigili del fuoco e delle stesse forze dell'ordine, nella fattispecie la polizia e i carabinieri. Parlo della mia zona di residenza, la provincia di Napoli nord: Giugliano, Villaricca, Qualiano, in cui abbiamo due commissariati (carabinieri e polizia). Tra poco sarà inaugurato il terzo commissariato a Villaricca. Si parla di due sole pattuglie «volanti» per il turno notturno, una in forza ai carabinieri e l’altra in forza alla polizia. Allo stato dei fatti, le forze dell'ordine sono in grande difficoltà nell’intervenire, qualora i cittadini segnalino questo tipo di problematiche. Anche alcuni vigili del fuoco, tramite le testimonianze video che abbiamo registrato mantenendo la riservatezza della privacy, dichiaravano di non essere in numero sufficiente per sopperire alle esigenze dell'intero territorio.

PRESIDENTE. Vorrei sapere come fate a essere tempestivamente presenti dove si verificano questi incendi.

ANGELO FERILLO, responsabile regionale di «Terra dei fuochi». È presto detto: abbiamo stabilito una rete informatica su internet, tramite la quale i cittadini dislocati sul territorio, qualora si manifesti un fenomeno del genere, ci avvisano mediante e-mail, sms, telefonate o altri modi consueti. Ad esempio, c'è un amico che fa parte della nostra associazione, che abita in una zona panoramica, sui Camaldoli, e ha tutta la situazione sotto controllo. Non volendo, stiamo svolgendo un compito che spetterebbe alle istituzioni e in particolar modo alla Protezione civile. Abbiamo istituito un sito che è un punto di raccolta informazioni e, se vogliamo, è anche un'unità speciale di gestione di questa crisi e di questa emergenza. I roghi, talvolta, si verificano in vicinanza dei centri abitati, non solo nelle zone abbandonate di campagna o poco controllate. Si parla di Scampia, territorio cittadino del comune di Napoli, di Giugliano, località Ponte Riccio, dove, oltre alla zona ASI (Area sviluppo industriale), ci sono abitazioni, oppure di Casoria, altro sito interessato da questo fenomeno. Le persone, insomma, hanno il fumo in casa, quindi sono direttamente interessate. Non ci vuole un mezzo speciale per intervenire, o per sapere dell'evento. Avendo tempo a disposizione, avendo sposato questa causa, ci stiamo dedicando alla raccolta di prove di reato inconfutabili, dal momento che i fatti dimostrano continui fumi neri che si levano dal suolo e non sono imputabili a fabbriche o industrie (peraltro non sono presenti sul territorio), bensì a incendi indiscriminati, incontrollati e dolosi di rifiuti speciali, tossici e nocivi, ovvero tutti quei rifiuti che non rientrano nei rifiuti solidi urbani. Non si tratta di malcostume, o di un fenomeno culturale antropologico, come si potrebbe pensare. Queste componenti, magari, sono anche presenti nel fenomeno globale; tuttavia, questo fenomeno è imputabile prevalentemente a un’economia «in nero», che deve smaltire «in nero». Si tratta di un intero indotto economico, che va dal gommista (prima sono stati citati i copertoni) a chi ha un’impresa di termoidraulica e produce resti di lavorazione (tubi di rame ricoperti da guaine di coibentazione). Sapete benissimo che il rame è ritenuto «l’oro rosso», ha un costo e un mercato nero, ragion per cui questi materiali vengono riciclati in modo illegale, recuperando il rame e bruciando le guaine e le plastiche. Come abbiamo documentato, questa attività avviene un po' su tutto il territorio regionale: un rogo l'abbiamo individuato proprio ora sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, venendo qui. Sappiamo che sono roghi tossici, perché partono dal suolo e si trovano in aree delocalizzate. Non può essere, quindi, l’incendio di un capannone, ma potrebbe essere un incendio di altro tipo di materiale. Insomma, si tratta di roghi la cui unica ipotesi di reato è quella dell’incendio di rifiuti, per le aree in cui si trovano. Spesso, quando ne abbiamo avuto il tempo e le condizioni ce l’hanno permesso, siamo arrivati fin sul posto per riprendere quello che bruciava. Si evince dai video che si bruciano copertoni e carcasse di elettrodomestici. Molte volte le finalità degli incendi sono due: per smaltimento e per far perdere le tracce della provenienza del rifiuto. Ad esempio, se ho una fabbrica che produce «in nero» calzature e manifatture in genere di pellame o tessile, devo per forza smaltirne i residui «in nero». Se ci sono dei segni che possono permettere di risalire alla produzione, questi scompaiono con l'incenerimento che, però, lascia spazio ad altri scarichi e quant’altro. Il fenomeno, quindi, è molto complesso. In particolar modo, ci sentiamo di denunciare – fino ad ora non abbiamo sentito voci nella pubblica opinione di questa parte del reato – che purtroppo la maggioranza di questi fenomeni si verifica nei campi Rom localizzati sul territorio, o nei loro pressi. Comunque, si manifestano in tutte le zone degradate, o lontane dai centri abitati e poco controllate. Il fenomeno, però, ha una particolare gravità nei campi Rom, dove dal calar del sole, in tutti i periodi dell'anno, fino all'alba si producono incendi a ciclo continuo. È come una centrale che non si ferma mai.

PRESIDENTE. Ho capito. Vorrei sapere se, nel momento in cui ricevete una segnalazione, non la trasmettiate anche all’autorità di polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Certamente: è stata sporta una denuncia, in cui specifichiamo questi fatti. Al momento, chiamiamo sempre tutte le forze dell'ordine, telefonicamente.

PRESIDENTE. Le chiedo anche se queste forze dell’ordine intervengano sempre.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Molte volte non intervengono, perché i vigili del fuoco – sono due le caserme che competono la nostra zona, quella di Scampia e quella di Monte Ruscello – sono fuori per altri tipi di intervento.

PRESIDENTE. Non ci ha detto niente riguardo a carabinieri e polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Carabinieri e polizia non intervengono quasi mai: ci dicono di chiamare i vigili del fuoco.

PRESIDENTE. Il problema non è di spegnere l'incendio, ma di individuare i responsabili.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Infatti abbiamo pronta una citazione per grave condotta omissiva anche nei confronti delle forze dell'ordine locali, perché, ogni volta che chiamiamo, riscontriamo questo scaricabarile tra la polizia, le forze dell'ordine e i vigili del fuoco. La prima telefonata che si fa è ai vigili del fuoco; poi, provvediamo a chiamare Polizia, Carabinieri e qualche volta anche il Corpo forestale dello Stato. Ebbene, ogni volta ci sentiamo rispondere che dobbiamo chiamare i vigili del fuoco, perché, se non li chiamiamo, loro non intervengono. Da parte nostra sottolineiamo che si tratta sempre degli stessi posti. Non stiamo parlando di luoghi diversi e bisognerebbe svolgere un'attività di controllo per prendere in flagranza di reato questi criminali, Il decreto n. 90 del 2008, istituito dall'attuale Governo, prevede l'arresto, in flagranza di reato. Puntualmente, però, ci troviamo di fronte a questo scaricabarile di responsabilità tra le forze dell'ordine e i vigili del fuoco. Molte volte, ci viene detto che non hanno pattuglie per intervenire. Questa è una situazione paradossale e drammatica. Voglio fare un richiamo alla denuncia che abbiamo sporto. In base ai fatti appena detti, si denunciano seri danni per la salute dei cittadini sottoposti a questi fumi nelle aree indicate, sulla base dei dati emersi dagli studi condotti dall'Istituto superiore di sanità e dall’OMS. Inoltre, sussiste una contaminazione di tutta la catena agroalimentare. Come ben sapete, il problema del latte alla diossina può essere facilmente ricondotto anche a questo tipo di fenomeni. Per di più, i danni sono anche biologici, esistenziali, morali, economici e all'immagine dell'intero territorio. Pertanto, in base alle normative vigenti, visti gli articoli di legge 32 della Costituzione, 40 del codice penale, 2043, 2050, 2051, 2053 e 2059 del codice civile, chiediamo l'adozione di provvedimenti urgenti e cautelari a carattere di straordinarietà e ai fini della salvaguardia della salute e della sicurezza pubblica. La mancata adozione di tali misure integrerà gli estremi dei già gravi reati omissivi a carico della pubblica amministrazione competente, in riferimento al codice penale. Riteniamo che uno dei tanti modi per risolvere la questione (che va al di là dell'emergenza, poiché questa è una questione che risale a vent'anni fa, come già testimoniano i rapporti di Legambiente, i rapporti ecomafia e le varie denunce dei cittadini), sarebbe quello dell’istituzione di un'unità di crisi per coordinare tutte le forze sul territorio (comuni, province, regioni) affinché si affronti il problema a 360 gradi. Partendo da queste economie, che producono i loro rifiuti «in nero», o dalle economie legali, che smaltiscono per abbattere i costi, bisogna cercare di risolvere il problema alla radice, così impedendo alla criminalità locale o extracomunitaria di fare da manovalanza per questo tipo di smaltimento. Le consegno un dossier, con allegata una breve descrizione dei fatti, assieme ad alcune copie per tutti i presenti.

PRESIDENTE. Vorrei sapere se abbiate presentato una denuncia alla procura della Repubblica, per omissione di atti d'ufficio, o se vi siate limitati a un atto politico.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Abbiamo presentato alla procura della Repubblica una denuncia a carico d’ignoti, per reati contro l'ambiente. In base ai documenti prodotti, il prossimo passo sarà….

GERARDO D’AMBROSIO. Mi scusi, vorrei chiedere se abbiate anche indicato, in questa denuncia, tutte le località, note e precise, in cui questi roghi di solito avvengono. Lei parlava prima, ad esempio, di campi Rom: vorrei sapere se ne abbiate indicato l’ubicazione.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Sì, queste località sono specificate e la ringrazio per la domanda, che mi offre la possibilità di precisarlo.

COSIMO IZZO. Quando provvedete a comunicare alle autorità di polizia dell’incendio in corso, vorrei sapere se lo facciate verbalmente, comunicando soltanto che c'è un incendio, o se invece indichiate qualcosa di più particolare in riferimento al sito ed eventualmente, atteso che vi rechiate anche sul posto, comunichiate anche quello che può essere un sospetto sul materiale che viene incendiato.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. La ringrazio per questa domanda, che trovo molto pertinente. Tengo a precisare che, ogni volta che intervengono i vigili del fuoco, viene redatto un verbale d'intervento, dal quale scaturisce una notificazione alla procura e alla prefettura di notizie di reato. I vigili del fuoco riscontrano il materiale che sta bruciando, per cui penso che il Comando generale provinciale dei vigili del fuoco abbia faldoni enormi, relativi a interventi di questo tipo. Questa è una delle tante cose che evinciamo con questa denuncia e ci chiediamo per quale ragione, se le istituzioni sanno, nessuno intervenga. Nell'ultimo anno, solo a Scampia, i vigili del fuoco hanno fatto circa 4.000 interventi, di cui l’80 per cento circa per spegnimento di incendi di rifiuti, con una percentuale di rifiuti speciali. I dati sono in possesso del comando provinciale dei vigili del fuoco. Inoltre, abbiamo fatto una segnalazione unica, mediante una petizione di 700 firme, denunciando questo tipo di reato a carico di ignoti, alla sede della procura della Repubblica di Napoli. Tuttavia, è impossibile da parte dei cittadini fare una dichiarazione scritta di quello che sta bruciando, anche perché non compete loro.

PRESIDENTE. Vogliamo capire se c'è un disinteresse da parte delle forze dell’ordine. Vogliamo sapere, ad esempio, se, quando telefonate, comunichiate specificamente che in una certa località si sta sviluppando un incendio con fumo, oppure se vi limitate a fare una comunicazione dopo l’intervento.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Il disinteresse lo possiamo riscontrare da parte dei vigili del fuoco, in alcuni casi. Non voglio giustificare i vigili del fuoco, ma sono costretti a intervenire nei campi Rom decine di volte al giorno, in particolar modo in quelli di Giugliano e di Scampia. Molte volte – è una testimonianza che ho raccolto con una telecamera che puntava a terra senza riprendere le persone e si sentono solo le voci – la centrale operativa a volte degrada la priorità di questi interventi, perché non possono stare sempre nel campo Rom: non appena si allontano, tornano a incendiare.

PRESIDENTE. Voi sapete che esiste un reparto speciale dei carabinieri, il NOE. Quando si sta verificando un incendio, voi venite avvertiti e, chi vi avverte, vi comunicherà il posto preciso. Ebbene, le chiedo se facciate la stessa cosa con i carabinieri e con la polizia.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. È matematicamente impossibile farlo ogni volta. Chiamiamo i carabinieri, il 113 e il 115, però al numero del NOE non risponde mai nessuno. Aggiungo che, nel momento in cui facciamo la telefonata d’emergenza, al 113 e al 112, specifichiamo il posto dove si sta verificando l’incendio. Addirittura, facciamo di più: sul sito internet, che adesso è diventato un portale, abbiamo raccolto su una mappa digitale – usiamo una tecnologia GPS – ogni singolo luogo che è stato oggetto, fino a oggi, del nostro intervento. Sono stati censiti, quindi, oltre 400 siti da bonificare e da verificare, non presenti nei rapporti ufficiali – questo è specificato nel foglio che vi ho dato – con tanto di coordinate GPS. Abbiamo chiesto anche alla procura di ascoltarci, perché abbiamo del materiale utile per fare intervenire direttamente le forze dell'ordine, o i commissariati per la bonifica. Ripeto che si tratta di siti che non sono presenti nei rapporti ufficiali ARPAC e del Commissario per l’emergenza.

COSIMO IZZO. Al di là dei complimenti per questa attività che svolgete, alla luce di questo censimento che fate dei siti, vorrei che ci chiarisse se ci sono siti ricorrenti.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Sono sempre gli stessi.

COSIMO RIZZO. Le chiedo se, come associazione, non abbiate avuto l'idea di esporre alle autorità e alla magistratura questa ripetizione di incendi, che avvengono sempre nello stesso sito. Non ho capito se lo abbiate già fatto, o meno.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Nella denuncia di novembre 2008 è stato specificato tutto ciò.

CANDIDO DE ANGELIS. Nel materiale bruciato non ci sono solo copertoni. Le chiedo che cosa si bruci d’altro.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. I rifiuti speciali bruciati in questi incendi sono i più svariati possibili. I copertoni sono una parte del problema, perché, come si è accertato da parte di questa Commissione nella riunione che si è tenuta in prefettura in questi giorni…

CANDIDO DE ANGELIS. Mi scusi, la interrompo per chiederle se, secondo voi, si tratti di una questione di criminalità organizzata, oppure di rom. Lei ha fatto un presupposto preciso, poco fa.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Il fenomeno è complesso. Secondo noi dietro tutto ciò si cela un sistema: lo rivelano la sistematicità degli eventi, l’esistenza di un indotto economico, come testimoniano anche le operazioni della procura di Torino fatte un mese fa, che hanno smantellato una banda italo rumena che faceva traffico e ricettazione di rame per un valore di 8 milioni di euro all'anno, 22.000 euro al giorno. Non dimentichiamo che Torino è una città quattro volte più piccola di Napoli e provincia. Se solo volessimo citare il settore specifico del rame, qui in Campania, in particolare nella provincia di Napoli, immaginate di quali cifre stiamo parlando: cifre forse quattro volte superiori a quelle di Torino, quindi siamo nell’ordine dei 30 milioni di euro all'anno. A questo, poi, bisogna aggiungere il mercato degli altri metalli (acciaio e ferro) che vengono ricavati. Pensate che, nell'incendio dell’altra sera nel campo Rom di Giugliano, dove i vigili del fuoco sono intervenuti per merito nostro – i vigilantes all'esterno del campo non volevano farci passare, tanto che ho ricevuto anche intimidazioni verbali – abbiamo trovato che stavano bruciando (ho girato alcuni video) resti di climatizzatori, privati delle parti interne per bruciare le carcasse e per separare le materie plastiche dall’anima di metallo. Immaginate l’inquinamento che si sta producendo! Mentre siamo qui a preoccuparci di ben altri problemi, noi abbiamo definito questa come la vera emergenza della Campania.

PRESIDENTE. Grazie.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Signor presidente, le chiedo di farci sentire la vostra vicinanza, poiché abbiamo ricevuto minacce, non limitate alle sole intimidazioni verbali. Personalmente, ho subito un inseguimento e ho dovuto rottamare una macchina. Hanno cercato più volte di scoraggiarci in questo tipo di attività che svolgiamo. Vista l’attività condotta fino ad ora, senza mettersi contro le istituzioni e cercando sempre il dialogo e un modo civile di servire la cittadinanza, penso che sarebbe il minimo.

PRESIDENTE. Faremo veramente quello che è possibile fare, anche parlando di nuovo con il questore, che abbiamo sentito questa mattina.

ANGELO FERRILLO, responsabile regionale di “Terra dei fuochi”. Ringrazio la Commissione e buon lavoro.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa l’audizione La seduta termina alle 14.15

Mafia capitale, M5s: “Indagare sulle associazioni antimafia di Ostia”, scrive il 2 dicembre 2015 “Il Nuovo Corriere di Roma”. A due giorni dalla visita della Commissione parlamentare Antimafia ad Ostia, l’unico Municipio di Roma sciolto per le infiltrazioni della criminalità organizzata, M5S ha chiesto «un’indagine approfondita su tutte le associazioni antimafia attive nel X Municipio – dicono fonti parlamentari del Movimento -, che si concilia con la volontà di far luce su ogni attore che opera sul territorio ostiense, visto l’alto grado di permeabilità criminale del territorio». Nella relazione su Ostia, firmata dai consiglieri M5S in Campidoglio – poi decaduti per la fine dell’amministrazione Marino – si fa riferimento «all’Associazione daSUD», al «Comitato Civico 2013», a «I cittadini contro le mafie e la corruzione», a Luna Nuova e a Libera di don Luigi Ciotti. La polemica tra associazioni antimafia a Ostia – un territorio di 300 mila abitanti in cui operano Camorra, Cosa Nostra e clan nomade Spada – e tra Pd e M5S è infuriata soprattutto negli ultimi mesi, specie dopo le dimissioni e il successivo arresto nell’inchiesta Mafia Capitale del presidente Pd del X Municipio Andrea Tassone. Il senatore dem Stefano Esposito, commissario del partito a Ostia e assessore ai Trasporti nell’ultima fase della Giunta Marino, ha più volte accusato i 5 Stelle di essere ambigui con personaggi criminali o chiacchierati di Ostia. «Alla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi del Pd» chiediamo di svolgere le opportune verifiche di indagine al fine di valutare in modo certo e inequivocabile la natura politica e legale di ognuna delle suddette associazioni – si legge nella relazione M5S -, ricorrendo ai poteri che l’ordinamento giuridico. «Il fenomeno dell’associazionismo – scrivono ancora i grillini – dev’essere considerato con molta attenzione in quanto, se da una parte può sicuramente rappresentare uno strumento fondamentale di azione civile per il contrasto e la lotta alla mafia, dall’altra si può rivelare uno strumento per la gestione di imponenti interessi economici dietro apparenti attività non lucrative, sociali o culturali che, come dimostrano le indagini riguardanti Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, possono essere spesso un facile strumento operativo in mano a gruppi criminali». «Dopo l’arresto dell’ex presidente di Ostia Andrea Tassone (PD) esistono attualmente, per la prima volta, tutte le condizioni per una rivoluzione innanzitutto culturale nel X Municipio – ancora dalla relazione -, che potrebbe raggiungere il fine di isolare i clan criminali e mafiosi, infondere coraggio ai commercianti onesti che si ribellano alle estorsioni del racket e rafforzare l’azione sociale di contrasto all’illegalità da parte della rete di associazioni del territorio». «Ad Ostia – scrivono i 5 Stelle – la mafia è un cancro da estirpare ed è possibile farlo». Inoltre nel testo si chiede che la Commissione Antimafia «sviluppi un’indagine approfondita e accurata sul grado di permeabilità criminale che interessi o possa interessare» sia «il Partito Democratico capitolino e nazionale», sia «Forza Italia» ed in particolare l’ex giunta Vizzani del X Municipio.

L’antimafia che indaga l’antimafia, scrive Giulio Cavalli il 2 dicembre 2015 su Left”. Il paradosso è che, come conferma il vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, ormai si arrivi ad indagare se stessi: i parlamentari decidono di aprire una serie di audizioni per capire cosa sta succedendo nel movimento antimafia che negli ultimi anni vive un lento e inesorabile declino di credibilità che di sicuro non rende felice nessuno. Mafiosi a parte, ovviamente. E così mentre si cerca di capire come è potuto succedere che in Sicilia scoppi il bubbone della gestione dei beni confiscati (con la giudice Saguto, intercettata, in preda a deliri di onnipotenza, senza che nessuno se ne accorga). E proprio sui fatti siciliani e sul processo romano di “Mafia Capitale” ha acceso la luce l’addio a Libera di Franco La Torre, storico componente del movimento nonché figlio di quel Pio La Torre che ebbe l’intuizione di una legge (quella della confisca e riuso sociale dei beni mafiosi) che gli costò la vita. E La Torre, senza mezzi termini e con molta lucidità, ha parlato di «inadeguatezza della classe dirigente» riferendosi a Libera in tutte le sue ramificazioni. Perché se l’antimafia è un cosa seria allora è utile che il movimento sia plurale, con una classe dirigente all’altezza e al passo con i tempi e soprattutto trasparenza. Il magistrato calabrese Nicola Gratteri (uno che l’antimafia la vive al fronte tutti i giorni, mica nei palazzi) ha dato una soluzione che se a prima vista può sembrare banale in realtà sarebbe sicuramente chiarificatrice: togliete i soldi all’antimafia, quei soldi dateli alle scuole e sarà facile capire chi c’è per passione e chi per mestiere. E sarebbe un’ottima idea. Già.

ALTRA TEGOLA SULL'ANTIMAFIA! Scrive il 02/12/2015 Telesud3. A sbattere la porta dell'associazione guidata da don Ciotti è stato il figlio di Pio La Torre, ex segretario regionale del PCI assassinato dalla mafia; entrato in rotta di collisione con il leader torinese, Franco La Torre diventa l'ennesima tegola che si abbatte sull'Annus horribilis dell'Antimafia political correct. Nella seconda edizione del nostro Tg, La Torre ha spiegato a Telesud i motivi della sua decisione di lasciare Libera. A pochi giorni dalle parole del presidente del Senato Pietro Grasso, un’altra tegola si abbatte sull'Antimafia "praticante": Franco La Torre lascia polemicamente Libera. Già l'ex Procuratore Nazionale Antimafia era andato giù duro rivolgendo parole di fuoco al fronte della lotta alla criminalità organizzata invitandola "a guardare al proprio interno ed a abbandonare sensazionalismo, protagonismo, pretesa primazia di ogni attore, corsa al finanziamento pubblico e privato". E l'uno-due è arrivato ieri dal figlio dell'ex segretario regionale del PCI, trucidato da Cosa Nostra nel 82. La Torre mette nero su bianco il suo sconforto, sottolineando "l'inadeguatezza della classe dirigente di Libera" rea di ostacolare quel confronto che servirebbe alla sua crescita, rifugiandosi spesso "in un silenzio assordante" mentre "è crescente l'eco dell'Antimafia di convenienza schermo d'interessi indicibili". Parole durissime che si sommano nell'Annus horribilis delle star della lotta alla mafia caduti in disgrazia; dall'inchiesta sul leader di Confindustria Montante al presidente della Camera di Commercio Roberto Helg, tratto in arresto mentre intascava una mazzetta. Ma soprattutto, lo scandalo del Giudice per le Misure di prevenzione di Palermo Saguto, caduta nelle polveri per una indagine che definire imbarazzante è poco; tanto da far decidere al CSM la sua sospensione dalla professione. Ora, l'uno-due di Grasso e La Torre; soggetti che conoscono bene quel mondo, motivo per cui risultano ancora più inquietanti le loro parole. Da registrare che don Ciotti si è detto addolorato per le critiche dell'ex responsabile di Libera Europa, difendendo però la sua creatura "con le unghie e con i denti" ribadendone "l'integrità e correttezza" nel proprio operato; il fondatore di Libera in verità aveva anticipato la "cacciata" di La Torre, con uno stringatissimo sms, dopo che il figlio dell'ex segretario comunista aveva criticato l'associazione all'assemblea generale tenuta ad Assisi lo scorso 7 novembre, in un intervento dal palco dove anticipava le frasi poi ribadite in questi giorni alla stampa.

“SONO STATO CACCIATO NEMMENO CON UNA TELEFONATA MA CON UN SMS DI DON LUIGI CIOTTI. PERBACCO, HO 60 ANNI E PENSO DI MERITARE RISPETTO E BUONA EDUCAZIONE”. La voce di Franco La Torre è pacata, il fraseggio elegante e misurato. Eppure non si capacita della rottura clamorosa con il fondatore di Libera, che l’ha allontanato dall’associazione e persino dalla cura del premio dedicato al padre Pio La Torre, il politico Pci ucciso nel 1982 a Palermo dalla mafia. Una vicenda che scuote il mondo dell’antimafia perché Franco La Torre è uno dei nomi più altisonanti nella battaglia alla criminalità organizzata: “Don Ciotti è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario, questa cacciata ha il sapore della rabbia di un padre contro il figlio ma io un padre ce l’ho e me lo tengo stretto”, dice al telefono con l’HuffPost. Tutto è cominciato con un intervento all’assemblea generale di Libera il 7 novembre ad Assisi. Dal palco, apertamente, La Torre aveva sollevato questioni imbarazzanti come la mancata comprensione di Mafia Capitale o le problematiche di Palermo, dove in pochi mesi un simbolo dell’antimafia come il presidente di Confindustria Sicilia è stato arrestato per rapporti con Cosa Nostra mentre la giudice Silvana Saguto è indagata per la gestione dei beni confiscati ed è stata intercettata mentre sproloquia contro la famiglia Borsellino. E Libera non si era accorta di nulla, o almeno questa è la lettura di La Torre. Dopo qualche giorno un secco messaggio di don Ciotti: “Si è rotto il rapporto di fiducia”. Poi il nulla. La Torre è categorico: “Una modalità impropria e irrispettosa: di quale fiducia parliamo se si può neutralizzare con un messaggio di 140 caratteri?”.

Cacciato da Libera. Ha capito il motivo?

Provo un grande dolore per questa vicenda. Poiché non sono ancora riuscito a parlare direttamente con don Luigi, posso supporre che la ragione del mio brusco allontanamento sia dovuta proprio alle mie parole all’assemblea di Libera. Ma ho 60 anni e pretendo un minimo di educazione. Se don Luigi non la pensa come me, allora dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia. E invece nonostante i miei numerosi tentativi per il momento ho saputo che don Ciotti non desidera parlare con me, o forse lo farà prossimamente. Chissà.

Perché ha mosso critiche a Libera? Cosa non va nell’associazione?

Libera è cresciuta in maniera straordinaria grazie a don Luigi e alle migliaia di attivisti che lavorano volontariamente a livello locale. Ma anche la mafia è cambiata negli ultimi anni. Le classi dominanti che noi chiamiamo mafia hanno assunto caratteristiche differenti e basti guardare all’inchiesta Mafia Capitale. Ecco, all’interno di Libera eravamo molto concentrati su Ostia, dove avevamo fatto un ottimo lavoro, ma abbiamo perso la visuale d’insieme che invece è stata compresa perfettamente dal procuratore Pignatone. Purtroppo avevamo sottovalutato il fenomeno così come abbiamo sottovalutato i casi della giudice Segato a Palermo. Da quel palco ad Assisi ho detto che dovevamo alzare l’asticella.

Ha accusato Libera di mancanza di democrazia interna. Questa caratteristica è legata alla mancata comprensione della nuova mafia?

La crescita vertiginosa di Libera non ha permesso il rafforzamento, la formazione e la selezione di una classe dirigente. Non vedo i criteri di alcune nomine dall’alto, poiché penso che una persona debba essere testata sul campo prima di affidarle un compito dirigenziale. Allo stesso tempo se in pochi mesi cinque figure di primo piano si allontanano allora significa che occorre rivedere gli schemi. A don Ciotti forse non è piaciuto che lo dicessi così apertamente: gli riconosco grandi capacità e un enorme carisma ma è un personaggio paternalistico con tratti autoritari.

Libera non è più all’altezza del suo compito?

L’associazione ha dei meriti enormi, a partire dalla lotta per i beni confiscati. Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Don Luigi proprio a causa di queste inefficienze è costretto a occuparsi in prima persona di assemblee provinciali e regionali e troppi in Libera sono ancora convinti che “tanto c’è don Luigi”. Ma fino a quando porterà la croce? Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità.

Si è dimesso anche dal premio intitolato a suo padre, Pio La Torre. Lo lascerà in mano a Libera?

Il premio Pio La Torre è libero e indipendente ma per comprendere cosa succederà dovrebbe chiederlo ai referenti di Libera.

Se don Ciotti dovesse tornare sulla propria decisione?

Ho raccontato la mia verità e probabilmente devo fare anch’io autocritica. Sulla vicenda della mafia ad Ostia non sono stato presente e avrei dovuto dare una mano. Io mi auguro di parlare presto con don Luigi, queste sono le mie idee e se non siamo d’accordo possiamo anche dividerci ma non capisco perché la discordanza di vedute debba portare a un litigio che ricorda le rabbie famigliari e non certo un’associazione matura come dovrebbe essere questa. Credo che l’antimafia debba compiere un salto ulteriore per continuare a svolgere il suo compito importante. E’ una grande opportunità, spero che a Libera sappiano coglierla. Articolo di Laura Eduati su "L'huffingtonpost" dell'1 dicembre 2015.

Estremisti dell'antimafia riflettete sul caso Libera. La lite Ciotti-La Torre manda in crisi un mondo che crede di avere la verità in tasca, scrive Peppino Caldarola il 02 Dicembre 2015 su “Lettera 43”. La rottura al vertice di Libera racconta molte cose sui cambiamenti nell’Italia di ieri. Scrivo l’Italia di ieri perché fino a poco tempo fa alcuni nomi, alcune associazioni, alcune situazioni apparivano inattaccabili e ogni critica veniva presa come lesa maestà o, peggio, collusione con il nemico. Libera si è spaccata perché Franco La Torre, figlio di Pio, è stato estromesso con un sms di don Luigi Ciotti dal vertice dell’associazione dopo un suo duro intervento nell’ultima assise. Don Ciotti è un prete benemerito a cui dobbiamo tanta parte della crescita civile del Paese. Instancabilmente ha girato l’Italia per sollecitare prese di posizione singole e associate contro il crimine, ha segnato con la sua presenza stagioni intere dell’Antimafia, ha salvato ragazzi dalle droghe. Una bella storia, una bella biografia. Franco La Torre è un uomo mite e colto. A differenza del suo papà, di cui mi onoro di essere stato amico e che mi chiese di collaborare con lui quando diventò responsabile del Mezzogiorno del Pci, Franco non ama le grandi platee. Era un conduttore molto bravo di Italiaradio, l'emittente del Pci di cui fu la “voce” con un altro personaggio ora scomparso di grande valore, Romeo Ripanti, poi scelse l’associazionismo. Insomma, stiamo parlando di due persone di qualità, diversissime che hanno per anni collaborato e che ora si lasciano bruscamente e con un filo di rancore. Non so se riusciranno a ricomporre il rapporto, sappiamo che un vero terremoto sta scuotendo il mondo che ha segnato la cultura di sinistra in Italia negli ultimi trenta anni. È caduto il mito della magistratura integerrima e infallibile. Si sono moltiplicati i casi, l’ultimo a Palermo, di magistrati infedeli, troppi pm hanno scelto la strada della politica rivelando la propria modesta statura (basta pensare alle ultime dichiarazioni di Ingroia contro il Pd legato a gruppi criminali), i magistrati litigano fra di loro come comari inselvatichite, persino Travaglio comincia a nutrire qualche dubbio sul casino che lui e i suoi hanno combinato. Sul versante politico il movimento 5Stelle, la cui crescita è stata agevolata dagli errori della sinistra e dalla strada spianata del giustizialismo, mostra di non voler avere debito verso alcuno: hanno messo alla porta Di Pietro, ignorato Ingroia, attaccato don Ciotti su Ostia. C’è solo un piccolo drappello di politici e giornalisti ( e uso il termine “drappello” non a caso perché notoriamente indica un gruppo ristretto di uomini comandati da ufficiali di rango inferiore) che continua a muoversi sulla scena pubblica come se stessimo nel passato. La ricreazione, invece, è finita anche per loro. Vedete la fine dei talk serali interamente politici, inventati a sinistra e oggi dominati da centurioni della destra. Ciascuno è vittima delle proprie macchinazioni. Il tema di oggi è come salvare il meglio di quelle esperienze, come mettere in sicurezza quei settori della magistratura che hanno ben lavorato senza secondi fini spettacolari o politici, dare fiducia a quegli uomini e donne dell’associazionismo che hanno faticato per costruire una tela che ha aiutato l’Italia a salvarsi, quel mondo intellettuale, specie siciliano, ma non solo, che ha analizzato la mafia con gli strumenti scientifici (Fiandaca, Lupo, Sciarrone) e non con i teoremi di magistrati in vena di spettacolarizzazione. Forse bisognerebbe invitare questi mondi antimafia, e quelli pacifisti che gli sono stati a fianco, a fare un’analisi realistica sui limiti culturali della loro esperienza, sul prezzo pagato al protagonismo di leader e capipopolo, su una maggiore apertura verso chi non ha sposato le loro tesi estremiste. Insomma loro, come tutti sapevamo, non avevano la verità in tasca e spesso nelle loro fila qualcuno in tasca non aveva buone intenzioni, come teme Franco La Torre.

Maledizione Antimafia su Libera. Volano gli stracci tra i duri e puri, scrive Martedì 01 Dicembre 2015 Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Il network di associazioni fondato da don Ciotti, che negli anni ha visto accrescere il suo peso anche nel rapporto con la politica, non viene risparmiato dai veleni che hanno attraversato in questo anno il mondo dell'antimafia. E alla fine, proprio negli ultimi scampoli, l'anno maledetto dell'Antimafia non ne risparmiò nemmeno l'ultimo baluardo. Investendo persino Libera, l'ultimo moloch rimasto in piedi dell'antimafiosità organizzata, con una polemica interna innestata da Franco La Torre, figlio di Pio, che lascia la creatura di don Ciotti sbattendo la porta. Una baruffa che scuote il coordinamento di associazioni antimafia, fondato e presieduto del sacerdote torinese. La Torre, nell'articolo apparso oggi su Repubblica, parla di “autoritarismo” e “mancanza di democrazia”, sollevando dubbi sulla classe dirigente del movimento. Un network che in questi vent'anni ha visto crescere esponenzialmente le sue dimensioni e il suo peso. E ampliare sempre di più la sua influenza sulla politica. Libera è un coordinamento di associazioni antimafia, punto di riferimento per oltre 1.600 realtà nazionali e internazionali, impegnato su diversi fronti contro la criminalità organizzata. Un mondo articolato e variegato il cui cuore economico, ricostruiva in un dettagliato articolo su Livesicilia Claudio Reale qualche mese fa, è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i sei milioni di euro. All'impegno sul fronte dei beni confiscati, la galassia di don Ciotti affianca altre attività di impegno sociale come i percorsi educativi in collaborazione con 4.500 scuole e numerose facoltà universitarie e il sostegno alle famiglie delle vittime delle mafie, che passa anche dalla mobilitazione annuale del 21 marzo, “Giornata della memoria e dell’impegno”. Affollatissima quella di quest'anno a Bologna, presenti tra gli altri la presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi e l'immancabile Giancarlo Caselli, che con don Ciotti da tempo forma un ideale tandem, germogliato in quel cattolicesimo torinese di sinistra (cattocomunista, direbbero i detrattori), dialogante con la tradizione azionista del capoluogo piemontese. Un ambiente culturale e politico rappresentato ai massimi livelli, non solo nell'associazionismo e nelle procure. Ma anche nella politica, dove la galassia di Libera si è fatta e si fa sentire eccome. Ad esempio spingendo anni fa, a suon di imponenti raccolte di firme, per l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati. Ma anche, negli ultimi anni, con una più diretta attività di lobby, entrando direttamente nelle Istituzioni con propri rappresentanti. Come già era avvenuto con Rita Borsellino, cofondatrice, vicepresidente e poi presidente onoraria dell'associazione. Alle ultime Politiche, i candidati vicini a don Ciotti furono ben quattro, tra Piemonte e Calabria, distribuiti tra Pd e Azione civile di Antonio Ingroia. Tra loro il piemontese Davide Mattiello, per anni dirigente di Libera, che in Parlamento è andato a fare anche il relatore della legge di riforma della gestione dei beni confiscati, tema quanto mai caro a Libera. Riverita dai politici di sinistra (che fanno a gara ad apparire pubblicamente a fianco al “don”), la creatura di don Ciotti negli ultimi tempi è stata presa di mira dal Movimento 5 Stelle per una vicenda che riguardava la gestione di lidi balneari a Ostia. Vicenda sulla quale Libera rispose punto per punto alle accuse grilline. Fu la rottura di quello che era sembrato un mezzo idillio con i pentastellati. Ora arriva il “caso” La Torre. Raccontato oggi da quello che in questi anni è stato uno dei giornali più attenti alle vicende della creature di don Ciotti, quella Repubblica diretta (ancora per un po') da un altro figlio della Torino crogiolo di ideologie in cui confluivano il Pci, la cultura azionista e pure un certo "intransigentismo" cattolico, cioè Ezio Mauro. A sua volta già direttore de La Stampa, quotidiano che negli anni della Primavera seguì da molto vicino le mosse di quell'antimafia politica che prendeva corpo in Sicilia e che per lessico antisistema e contenuti aveva quasi un filo rosso a collegare la Palermo di Padre Sorge, Padre Pintacuda e Leoluca Orlando alla Torino di Cesare Romiti. Proprio negli anni caldissimi della procura guidata da Giancarlo Caselli. Nell'anno in cui l'Antimafia s'è rotta, insomma, nessuno sembra immune dal terremoto. Azzoppata l'antimafia-lobby in giacca e cravatta degli imprenditori, "mascariata" persino quella togata dopo lo choc dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati, ha tenuto botta quella delle t-shirt, del clergyman e dei cappellini. Che pur restando lontana da scandali giudiziari, vede adesso irrompere l'ombra dello scontro e dei veleni. Scatenati, spiega La Torre a Riccardo Lo Verso, anche dal “caso Saguto”. Già quella Silvana Saguto che raccontò in un'intervista di avere ricevuto da Libera e Addiopizzo segnalazioni sugli amministratori da nominare. Circostanza questa smentita dagli interessati. Che pararono il colpo, così come era accaduto con la polemica dei 5 Stelle. Ma che stavolta si trovano a dover fare i conti con le accuse di chi ha vissuto sotto quel tetto per anni. È l'annus horribilis dell'Antimafia, in cui ogni giorno ha la sua pena. Proprio per tutti.

Clamoroso, Don Ciotti vuole abolire la parola “antimafia”: Libera in crisi, scrive “Sicilia Informazioni” il 2 dicembre 2015. “Antimafia è una parola che non bisognerebbe più usare, è stata svuotata di ogni significato”. Don Luigi Ciotti in una intervista a La Repubblica, ha lanciato la sua provocazione. La sua “creatura”, Libera, vive una stagione difficile. Crisi nera. Cinque dirigenti dimissionari e l’uscita di scena di Franco La Torre, figlio di Pio, che se ne va accusando Libera di non avere saputo prevenire ed intercettare fenomeni gravi, come Roma Capitale e il caso Saguto, Palermo, i beni sequestrati alla mafia. E’ stata la magistratura a scoperchiare la pentola. Libera non ha mai avvertito alcuna delle anomalie diventate oggetto di inchiesta giudiziaria. Sulla gestione dei patrimoni sequestrati si è osservato il silenzio. Non sapevano niente o andava bene così? Ora le domande se li fanno anche all’interno di Libera. A cominciare da Franco La Torre che propone il suo j’accuse, dopo le dimissioni. “Libera – sostiene – unisce l’autoritarismo, l’assenza di democrazia, l’inadeguatezza della sua classe dirigente. E ricorda le dimissioni dei dirigenti, il silenzio assordante sull’antimafia di convenienza, “schermo di interessi indicibili”. Libera, accusa La Torre, non è riuscita ad “intercettare interessi oscuri che si muovono in campi di sua competenza”. Don Luigi Ciotti confessa di essere addolorato per ciò che avviene, ma raccomanda di uscire dalla generalizzazione, di indicare fatti precisi su cui intervenire e riflettere. Altrimenti si fa danno e basta. Ma le accuse di Franco La Torre “bruciano”. Chi è il destinatario principale? Chi gestirebbe Libera con pugno di ferro? Chi sono gli incompetenti che l’hanno danneggiata? Chi protegge gli oscuri indicibili interessi? Don Luigi Ciotti, amareggiato, avverte che lanciare strali generici fa solo male a Libera, ma lancia a sua volta accuse molto gravi sul mondo dell’antimafia, contro “chi ha approfittato del lavoro e del sacrificio di migliaia di persone”. Libera non è una holding, ricorda, ma un tante associazioni insieme, che agiscono in piena indipendenza ed autonomia. “Ci sono comportamenti che hanno fatto venir meno il rapporto fiduciario”, osserva Don Ciotti, lasciando anche lui molte domande senza risposta. Stanno esplodendo, uno dopo l’altro, i casi di un uso “privato” della lotta al crimine organizzato. Mafia Capitale e la sezione dei beni confiscati di Palermo sono stati, forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La crisi di Libera è, infatti, la crisi dell’antimafia. Libera è il cuore dell’antimafia, la sua proiezione nazionale più forte e, finora, più rispettata. Ma è anche qualcos’altro, le sue associazioni di Libera gestiscono patrimoni colossali ovunque nel Paese, ed in particolar modo in Sicilia, Campania e Puglia, Calabria. La gestione “autoritaria”, denunciata da Franco La Torre, e l’ingente patrimonio amministrato forse spiegano, in qualche misura, la crisi di Libera. Don Ciotti, preoccupato, vuol abolire la parola “antimafia”. Potrebbe servire ben altro.

A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dove, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia, il 41 bis, ma il 12 marzo del 2001 gli venne revocato l'isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell'ora di libertà. Proprio mentre era sottoposto a regime di 41 bis, il 24 maggio 1994 durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l'uccisione del giudice Antonino Scopelliti fu raggiunto dal capo-redattore della Gazzetta del Sud Paolo Pollichieni, al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli ed altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L'intervento di Riina causò l'apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura contro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto. Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41 bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno. Nella primavera del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci, e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell'ospedale di Ascoli Piceno per un infarto. Sempre nel 2003, a settembre, viene nuovamente ricoverato per problemi cardiaci. Il 22 maggio 2004, nell'udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d'Amelio, e riferisce dei contatti fra l'allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo al tempo non convocato in dibattimento. Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006 all'ospedale San Paolo di Milano, sempre per problemi cardiaci. Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte del Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l'accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato. Il 31 Agosto 2014 i giornali riferiscono che nel novembre dell'anno prima il Riina avrebbe rivolto minacce anche nei confronti di Don Luigi Ciotti.

Le marchette a favore di Libera e di don Ciotti. Dal carcere duro di Opera, Totò Riina, pericoloso e potente boss di Cosa Nostra minaccia Don Luigi Ciotti, uomo semplice, sacerdote con il Vangelo sempre in tasca e le mani sempre tese verso l'altro. Ma perché tanta paura di un solo prete?, si chiede Desirèe Canistrà su “Parolibero”. Le intercettazioni pubblicate da La Repubblica, risalgono al 14 settembre scorso, vigilia del ventesimo anniversario dell'omicidio di Padre Pino Puglisi; sono le solite chiacchierate tra Riina e il suo compagno d'ora d'aria, Alberto Lorusso, boss della Sacra Corona Unita, ascoltate in diretta dagli investigatori della Dia di Palermo. A rendere irrequieto Riina sembra essere il desiderio della Chiesa di rilanciare il messaggio del prete di Brancaccio, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno e beatificato lo scorso anno. «Questo prete- afferma Riina in riferimento a Don Luigi Ciotti - è una stampa e una figura che somiglia a padre Puglisi; il quartiere lo voleva comandare. Ma tu fatti il parrino, pensa alle messe, lasciali stare... il territorio, il campo, la Chiesa, lo vedete cosa voleva fare? Tutte cose voleva fare iddu nel territorio... cose che non ci credete». Don Ciotti prende le distanze da questo paragone con Padre Puglisi, «Sono un uomo piccolo e fragile» afferma, preferisce definirsi un membro della «Chiesa che interferisce». Ma il punto é proprio questo: c'è una Chiesa che interferisce? O gli uomini consacrati, che si impegnano ogni giorno per il bene comune, sono solo persone stra-ordinarie? Nel dialogo Riina-Lorusso, l'ex boss di Cosa Nostra ha poi minacciato di morte il sacerdote presidente di Libera «Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo...Salvatore Riina, uscendo, è sempre un pericolo per lui... figlio di puttana». Nella Chiesa che interferisce, queste parole non fanno paura, «la forza si trova nel "noi", è un "noi" che vince» ripete anche in questa occasione Don Luigi, un "noi" che racchiude vent'anni di lotta contro la criminalità organizzata attraverso l'associazionismo laico e attraverso la testimonianza del Vangelo da parte di un sacerdote che non si impone con catechismo e magistero ma dimostra l'amore per Dio e per gli altri attraverso l'impegno quotidiano, «Per me l'impegno contro la mafia - afferma Don Ciotti - è da sempre un atto di fedeltà al Vangelo, alla sua denuncia delle ingiustizie, delle violenze, al suo stare dalla parte delle vittime, dei poveri, degli esclusi». «Sono sempre agitato perché con questi sequestri di beni..."; è con questa frase a metà del Boss di Corleone che, ancora ora oggi, l'intuizione di Rognoni e La Torre e la legge sul riuso sociale dei beni confiscati ai malavitosi si dimostrano le armi più potenti per la lotta contro la mafia. «Quei beni restituiti a uso sociale segnano un meno nei bilanci delle mafie e un più in quelli della cultura, del lavoro, della dignità che non si piega alle prepotenze e alle scorciatoie - prosegue Ciotti - C'è una mentalità che dobbiamo sradicare, quella della mafiosità, dei patti sottobanco, dall'intrallazzo in guanti bianchi, dalla disonestà condita da buone maniere».

La verità è che Riina è un vecchio ergastolano, che non fa più paura a nessuno, ma che, nonostante sia al 41 bis, quindi in isolamento, ogni sua affermazione stranamente trapela e viene diffusa in tutto il mondo. Il regime si applica a singoli detenuti ed è volto ad ostacolare le comunicazioni degli stessi con le organizzazioni criminali operanti all'esterno, i contatti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale all'interno del carcere ed i contrasti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l'ordine pubblico anche fuori dalle carceri. La legge specifica le misure applicabili, tra cui le principali sono il rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo alla necessità di prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, la limitazione della permanenza all'aperto (cosiddetta ora d'aria) e la censura della corrispondenza. Eppure, come spesso si legge su “La Repubblica”, le intercettazioni sono passate e pubblicate. I pizzini ora li danno i magistrati ed i giornalisti. Che senso ha diffondere una notizia di procurato allarme per una minaccia inesistente e montare un coro unanime di solidarietà con destinatario Don Ciotti. Che avesse bisogno di ulteriore visibilità, rispetto alla sua flebile notorietà destinata all’oblio?

Di seguito vi è un articolo di "la Repubblica", noto giornale fan sfegatato dei magistrati e di Libera di Don Ciotti. Un esempio lampante di come il sistema di pennivendoli corrotti dall’ideologia, prono alla sinistra ed ai magistrati, riesca a fare una pubblicità ingannevole a favore di Libera, infangando centinaia di associazioni antimafia locali, che non possono difendersi, proprio perchè non hanno soldi per pagare l'informazione. Sì. Perchè l'informazione si paga.

«Cari miei amici giornalisti e magistrati comunisti – afferma Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte Le mafie” – il fatto che denigrate o ignorate o addirittura perseguitate quelli che come me danno fastidio al vostro tornaconto, non mi esime dal dirvi che non un euro è stato versato alla mia associazione, sia da privati, che dallo Stato, né un bene confiscato alla mafia mi è stato affidato. Non per questo, però, mi si impedisce di far leggere i miei libri in tutto il mondo. Giusto per raccontare una verità storica in antitesi alle vostra verità artefatte ed ingannevoli.»

Il lato oscuro dell'antimafia. Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo e Alan Davis Scifo su “La Repubblica”. Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà.

Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparente.

Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio.

Gli inganni dell'antimafia. Nel composito -  e talvolta oscuro -  universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".

A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.

Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?

"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: 'O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casinò".

Lei come ha risposto?

"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".

Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?

"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".

Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.

"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".

Da chi è composta questa associazione antimafia?

"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".

Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telematico.

"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".

Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?

"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".

Lei ha paura di queste persone?

"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".

Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?

"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".

La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.

Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".

Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?

"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".

Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?

"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".

Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?

"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".

Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?

"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".

Che tipo di controlli si possono fare?

"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".

Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?

"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".

Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?

"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".

Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?

"Assolutamente sì".

Un'associazione per tutti i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie tutti i testimoni di giustizia d'Italia.

Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione che raccoglie tutti i testimoni di giustizia?

"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.

Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?

Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.

Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?

Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?

Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?

Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.

Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.

Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi…

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nell