Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

 

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

COMUNISTI E POST COMUNISTI

 

 

SE LI CONOSCI, LI EVITI

 

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

 

 

 

 

 

Quando la Sinistra e la Destra sono uno spazio, più che una ideologia.

Solo con quattro tipi di persone non puoi instaurare un rapporto in antitesi, o non puoi tenere un discorso difforme al loro essere: I mussulmani; i testimoni di Geova; i comunisti (fascisti) e post comunisti (post fascisti) ed i coglioni ignoranti.

 

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PREFAZIONE. L’UTOPIA MARXISTA.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LE SETTE IDEOLOGICHE FIGLIE DEL SOCIALISMO: FASCISMO, COMUNISMO, LEGHISMO E GRILLISMO.

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

IL DOVERE DI UCCIDERE.

LA PROPAGANDA E L'OSSESSIONE ANTIFASCISTA.

FAKE NEWS, OSSIA BUFALE E DISINFORMAZIONE DI STAMPA E REGIME.

MORALISTI E MORALIZZATORI. IL MORALISMO E LA MORALIZZAZIONE COMUNISTA.

IL MORALISMO DEI TIFOSI.

A SCUOLA LIBRI FAZIOSI E SINISTRI.

COMUNISTI? NO, SETTARISTI!

IL VANGELO SECONDO LENIN.

COME I COMUNISTI UCCIDONO IL LAVORO.

COMUNISTI ITALIANI. LE CRITICHE DALL’INTERNO DELL’APPARATO.

LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.

IL TRAVESTITISMO.

C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.

I CATTIVI MAESTRI DELLA SINISTRA.

LA SINISTRA E LA SINDROME DEL TRADIMENTO.

CERCANDO LA SINISTRA: COMUNISTI COL ROLEX.

IL COMUNISMO. UNA FEDE MORTALE.

IL COMUNISMO E L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO: LE PROFEZIE.

SOCIALISMO ISLAMICO.

ATTENTATO A BARCELLONA. DA KARL MARX A MAOMETTO.

IL FASCISMO ISLAMICO. QUELLO CHE I FASCISTI NON VORREBBERO SAPERE…

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

I COMUNISTI NON MUOIONO MAI.

DESTRA-SINISTRA.

LA MASSONERIA ED IL NAZI-FASCISMO-COMUNISMO.

GLI ACCORDI SEGRETI DEI GERARCHI.

E LA CHIAMANO DEMOCRAZIA…

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

L’INVIDIA E L’ODIO DI CLASSE.

I REGIMI TOTALITARI FIGLI DEL SOCIALISMO/COMUNISMO.

I PADRI COMUNISTI.

LA STORIA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO.

ORIGINI E CARATTERISTICHE COMUNI DI NAZISMO E COMUNISMO.

BENITO MUSSOLINI. UN COMUNISTA UCCISO DAI COMUNISTI.

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

COMUNISTA/FASCISTA A CHI?

PALMIRO TOGLIATTI, UN DEMOCRATICO ALLA STALIN...

STUPRI E FEMMINICIDI DEI CLANDESTINI: L'ASSOLUZIONE IDEOLOGICA.

L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’. DAL ’68 AL ’77.

25 APRILE. DATA DI UNA SCONFITTA.

MALEDETTO 25 APRILE.

PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.

I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.

LA TRUFFA DELL'ANTIFASCISMO.

DEMOCRATICI: SOLO A PAROLE.

ANTROPOLOGIA SINISTROIDE. VIAGGIO NEL CERVELLO PROGRESSISTA CHE “HA SEMPRE RAGIONE”.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

L’ITALIA DELLE MENZOGNE.

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

L’OLOCAUSTO COMUNISTA.                                                        

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

REVISIONISMO STORICO.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI RENZO DE FELICE.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI GIAMPAOLO PANSA.

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

IL TRAVESTITISMO.

IL MINISTERO DELLA CULTURA POPOLARE (MINCULPOP) FASCISTA/COMUNISTA

TOPONOMASTICA DIVISIVA ED IDEOLOGICA.

ONESTA’ E DISONESTA’.

LE PRIMARIE A COMPENSO DEL PD.

LA DEMOCRAZIA A MODO MIO.

ANTIFASCISTA UN PO' FASCISTA.

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

LA STAMPA ROSSA BRINDA ALL’ODIO.

QUANDO IL PCI RICATTO’ IL COLLE PER LA GRAZIA ALL’ERGASTOLANO.

I POST COMUNISTI. I POST DELLA VERGOGNA.

POOL MANI PULITE, MAGISTRATURA DEMOCRATICA E COMUNISMO: ATTRAZIONE FATALE PER FAR FUORI AVVERSARI POLITICI E MAGISTRATI SCOMODI!

CHI TRADI' LE BRIGATE ROSSE? I ROSSI!

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.

POVIA ED I MORALIZZATORI.

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PARTE SECONDA

 

COMUNISTA/FASCISTA A CHI?

Salvini, Di Maio o Renzi? Gli elettori del PD alla Leopolda non distinguono le dichiarazioni dell'ex leader politico del partito. Gli elettori del PD alla Leopolda non distinguono Matteo Renzi da Matteo Salvini. Scrive Saverio Tommasi il 23 ottobre 2018 (Video pubblicato su Striscia La Notizia di Canale 5 il 31 ottobre 2018. Sono stato alla Leopolda di Matteo Renzi per provare un esperimento sociale: sottoporre agli elettori del PD le dichiarazioni di Matteo Renzi, ma senza dire loro che le aveva pronunciate proprio il loro leader: Renzi.  Così le ho lette e ho chiesto loro di indovinare se le avesse pronunciate Luigi Di Maio o Matteo Salvini, attribuendo così la loro autenticità a uno dei due, invece che al loro vero autore: Matteo Renzi. Gli elettori di Matteo Renzi avranno riconosciuto l'autore delle dichiarazioni che abbiamo sottoposto loro? O le avranno attribuite davvero a Salvini e Di Maio? E quali saranno stati i loro commenti su tali dichiarazioni, non sapendo che le aveva pronunciate il loro leader Renzi, ma i due avversari politici Matteo Salvini e Luigi di Maio? Tutte le risposte le trovate nel video. IMPORTANTE: il video è sostanzialmente un gioco, teso soprattutto a mostrare come molti leader parlino in modo simile, con dichiarazioni talvolta interscambiabili. Non c'è nessuna volontà di presa in giro di elettori ed elettrici che anzi partecipano attivamente alla vita democratica di un partito o di un movimento, e questo è sempre un bene, qualunque sia quel partito o quel movimento. La volontà è invece quella di spingerci verso la memoria, per non scordare quello che i leader - di qualunque partito - dichiarano o promettono. Video di: Giampaolo Mannu e Saverio Tommasi.

Il fascistometro a premi. 24 domande per sapere da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo, scrive il 31 Agosto 2014 Domenico Maltoni dalla sezione delPartito Comunista Lavoratori Romagna. Vi proponiamo il solito giochetto estivo, per passare il tempo ma anche per esercitare il senso critico: il Fascistometro. Un questionario per misurare la quantità di autoritarismo attualmente presente nel nostro paese. Il fascismo fu il livello massimo di autoritarismo dello Stato mai raggiunto in epoca moderna, per cui ci appare lontano più di quanto lo sia realmente negli anni. Ma il fascismo, come tutti i sistemi di governo e di potere, non è ciò che appare ai posteri ma ciò che appariva e come veniva percepito a livello di massa nel periodo in cui c’era. Dobbiamo infatti considerare che qualsiasi sistema politico, una volta stabilizzato, (il fascismo durò vent’anni), non si regge mai sulla pura coercizione ma anche su una certa quantità di consenso, non solo fra le classi dirigenti ma anche a livello popolare. Ma pure il consenso va qualificato; il consenso di massa al fascismo fu passivo, conformista e organizzato dall’alto con tecniche pubblicitarie assolutamente all’avanguardia per i tempi. Insomma quando c’era il fascismo la maggior parte della gente non sapeva che ci fosse, nel senso che quello era la realtà e non poteva esistere nient’altro. Questo fu possibile perché il fascismo si affermò con la sconfitta del movimento operaio, anzi fu lo strumento della borghesia e delle classi medie per reprimere le rivendicazioni dei movimenti proletari, operai e contadini. Lascio a voi le conclusioni: rispondendo alle domande del Fascistometro potrete misurare la quantità di fascismo che, secondo voi, è attualmente in vigore nel nostro paese. Ad ogni domanda rispondete dando un punteggio da uno a dieci. Una volta risposto a tutte le domande fate la somma e dividete per 24. 

Più basso sarà il punteggio medio ottenuto più alto risulterà il fascismo presente oggi in Italia. Se il Fascistometro avrà successo fra i nostri “visitatori”, colui/colei che si sarà avvicinato/a di più al punteggio medio di tutti i questionari inviati riceverà a casa gratuitamente un libro e l'ultimo numero della rivista teorica del PCL: “Marxismo Rivoluzionario”. 

1 Quanto l'attuale Governo risponde ai bisogni di tutti i cittadini? 

2 Quanta è la differenza ideologica e programmatica fra i partiti di governo e quelli di opposizione rappresentati in parlamento? 

3 A quale livello situate la rappresentanza dei lavoratori dipendenti nelle istituzioni nazionali e locali? 

4 Le attuali leggi elettorali maggioritarie, in che misura influenzano il risultato finale delle elezioni? Sotto i sei punti influenzano il risultato finale.

5 Durante le campagne elettorali, in che misura i mezzi di informazione di massa, soprattutto le televisioni, concedono uguale spazio ad ogni forza politica (par condicio)? 

6 Fra i poteri dello Stato, quale prevale fra potere esecutivo (governo) e potere legislativo (parlamento). Sotto i sei punti prevale l'esecutivo.

7 Quanta fiducia riponete nelle elezioni come mezzo per cambiare le cose? 

8 Quanto la giustizia è davvero uguale per tutti? 

9 In che misura le forze dell'ordine si comportano nella stessa maniera nei confronti di tutti? 

10 Le leggi in vigore tutelano di più i ricchi o i poveri? Sotto i sei punti tutelano i ricchi.

11 Secondo voi, quanto è presente fra gli italiani la solidarietà nei confronti degli immigrati? 

12 I Sindacati confederali (CGIL-CISL-UIL) quanto rappresentano veramente i lavoratori? 

13 Che voto daresti all'ultimo contratto della tua categoria? 

14 Sta migliorando o peggiorando il potere di acquisto dei salari degli stipendi e delle pensioni? Sotto i sei punti sta peggiorando.

15 I diritti dei lavoratori stanno migliorando o peggiorando? Sotto i sei punti peggiorano.

16 Quanto conta l'opinione dei lavoratori all'interno delle imprese? 

17 La sanità pubblica migliora o peggiora? Sotto i sei punti sta peggiorando.

18 La scuola pubblica migliora o peggiora? Sotto i sei punti sta peggiorando.

19 Quanto il governo opera per la tutela dell'ambiente naturale? 

20 Quanto il governo finanzia l'arte, la cultura e la ricerca scientifica per fini sociali? 

21 Il Governo e le forze politiche in parlamento, in che misura agiscono autonomamente dalle posizioni della chiesa cattolica? (laicità dello stato)

22 Che voto dareste al nostro Governo come operatore di pace nel mondo? 

23 In che misura è diffusa fra gli Italiani la conoscenza della propria storia? 

24 A che livello ponete la conoscenza politica degli italiani?

Il fascistometro di Michela Murgia: scopri la sinistra tragicomica, scrive Eugenio Palazzini il 31 ottobre 2018 su ilprimatonazionale.it. Michela Murgia scriveva romanzi. Poi si ricordò il passato nell’Azione Cattolica e decise che l’impegno politico era cosa buona e giusta, ma soprattutto fonte di salvezza. Rilasciò così qualche intervista estemporanea e fece subito capire a tutti di saperci fare anche con il realismo: auspicò l’indipendenza della Sardegna. Forte degli entusiasmanti successi elettorali del suo straripante partito, Progetu Repùblica de Sardigna, si convinse allora che l’isola c’è ed è italiana, ma qualcun altro più che altro ci fa e vorrebbe non esserlo. D’un tratto la fulgida figura della Murgia si ritrovò sulla copertina de L’Espresso insieme al compagno di folgorazioni Zerocalcare, con tanto di spiegone Damilano: “Ribelliamoci alla destra egemone. Perché nessuno possa dire: non avete fatto niente”, tuonava il settimanale del cristallino De Benedetti. Apriti sesamo, la scrittrice ex insegnante di religione cattolica ha spalancato le porte del magico regno della sinistra materialista. Ci siamo signori, nel deserto del tartaro ideologico si può adesso sguazzare ed emergere. Nessun punto di riferimento, nessuna credibilità, distacco totale da quel maledetto popolino che non ci segue più. Siamo pronti per “raccontare le parole perdute da ritrovare”, novelli Pollicino contro i vigliacchi oziosi sordi a ogni sofferenza. Caro Sancho, solo i cinici e i codardi non si svegliano all’aurora, eccoti serviti i nuovi Don Chisciotte (Cervantes ci perdoni per l’ignobile paragone). Pronti così a lanciarsi contro i mulini a vento in sella all’antifascismo ronzinante e armati del libello rosso dell’avvenire: “Istruzioni per diventare fascisti”. Perbacco Sancho, è un capolavoro questo saggio che ti propone in fin di sermone un bel test: “Scopri quanto sei fascista”. Il fascistometro della Murgia, pubblicato convintamente da L’Espresso, segnerà un’inaspettata svolta nella liquida irrealtà esistenziale di sinistra. “Spunta le frasi che ti sembrano di buon senso”, vi chiede la scrittrice sarda. Potrete leggere una sequela di esternazioni che quel maledetto popolino osa dire e pensare. Poi all’improvviso eccola, la frase delle frasi, quella che vi farà sobbalzare dalla sedia: “Il suffragio universale è sopravvalutato”. Fermi tutti, ma non era il Barbapapà di Repubblica Scalfari a dire di farla finita con questa “trovata” troppo democratica? Nossignori, secondo la Murgia è il popolo che vota male, ovvero non come vorrebbe lei. Lo stesso che urla (si legge nel fascistrometro) che “un paese senza confini non è un paese”. Perbacco fortuna che la Sardegna di confini ne è priva, altrimenti sai gli indipendentisti. E che straparla di “radici cristiane da difendere”, perché acciderbolina mica siamo all’Azione Cattolica adesso. Il resto delle presunte frasi in bocca al popolo pronto a diventare fascista potete gustarvele sul settimanale debenedettino. Vi serviranno ad ammirare la banalità del presunto bene di cui si ammantano i detentori della morale, gli stessi che si dilettano a citare il “male” della Arendt, quasi sempre avendone letto giusto la quarta di copertina sugli scaffali della Feltrinelli. Un coacervo di stereotipi e caricature del popolo, quella massa prima osannata e oggi appunto relegata a popolino che si fa abbindolare dal populismo. Sul piedistallo del disprezzo si finisce disprezzati e non resta che il tempus loquendi proprio quando urge il tacendi. Ma la sinistra ha smesso di voltarsi indietro alla ricerca di se stessa, ormai è fuori dal tempo e cerca solo castagne marce nel paniere dell’avversario. Eppure l’avversario gioca ormai una partita in solitaria, senza il piacere di trovarsi di fronte un giocatore, come in un settimo sigillo privo di cavalieri ma stracolmo di saltimbanchi che sembrano non accorgersi della tragedia che li circonda. Eugenio Palazzini

Mi costituisco: "Io sono un fascista". Lo ha detto la Murgia. Il test radical chic sull'Espresso: basta non essere fan dell'immigrazione per essere schedati come fascisti, scrive Francesco Maria Del Vigo, Venerdì 2/11/2018 su "Il Giornale". Mi costituisco: sono fascista. Le forze dell'ordine chiamino pure la segreteria del Giornale che darà loro i miei estremi. Tra l'altro abito a Milano, quindi ci mettono un attimo a tradurmi in piazzale Loreto. Sono fascista a mia insaputa. D'altronde c'è chi aveva le case a sua insaputa, figurarsi se io non posso avere il cuore nero, a mia insaputa. Sono fascista al 54,5 per cento, lo so con precisione, perché me lo ha detto la Murgia. Michela Murgia, la scrittrice che con la scusa di andare in tv a smarchettare i suoi libri propala tonnellate di buonismo. Spettacolo al contempo disgustoso ed esilarante. La Murgia, essendo di professione denunciatrice di fascismi (con un lievissimo ritardo di 73 anni), vede ovunque camicie nere e fasci littori. Ha così paura di rimanere senza lavoro - cioè senza camerati - che si è anche premurata di dare alle stampe un libro dal titolo chiarissimo: «Istruzioni per diventare fascista». Lei pensa di essere provocatoria e invece è inconsapevolmente sincera: foraggia il settore sul quale lucra. La Murgia sta al fascismo come il servizio di pompe funebri sta alla morte. Il primo non si augura esplicitamente il secondo, ma diciamo che gli fa comodo. Così, non essendoci fascismo in Italia, lei se lo inventa. Vede fascisti in ogni dove. In calce al suo libro, per fugare ogni dubbio, ha messo un test: il fascistometro. Prontamente ripreso dal sito dell'Espresso e immediatamente spernacchiato in rete. «Come direbbe Forrest Gump: fascista è chi il fascista fa. Ma pensaci un attimo: quanto puoi dirti davvero fascista? (...). Perciò meglio non rischiare: esegui questo test, scopri qual è il tuo livello di fascismo e segui le istruzioni per migliorarti puoi sempre farlo, non c'è limite al fascismo», recita il testo. E poi il trappolone, perché, ovviamente, lo scopo del questionario è farti sentire anche solo un briciolo fascista. E quindi sbagliato. «Spunta le frasi che ti sembrano di buon senso», mi esorta la Murgia. E giù una lenzuolata di sessantacinque dichiarazioni: alcune surreali, altre naïf, molte banali e tante condivisibili. «Non abbiamo il dovere morale di accoglierli tutti», «in Italia chiunque può dire No e bloccare un'opera strategica», «prima dovrebbero venire gli italiani», «i bambini dovrebbero fare i bambini e le bambine le bambine», «facile parlare quando hai il culo al caldo e l'attico in centro», «uno vale uno», «non sono profughi, sono migranti economici», «penso ai nostri ragazzi delle forze armate», «c'erano quelli dei centri sociali» e via discorrendo. Alla Murgia piace vincere facile, è evidente. Perché mentre spunto il questionario in modo furtivo, guardando che alle spalle non arrivi una brigata partigiana per rastrellarmi, mi rendo conto che secondo il Murgia-pensiero tutto ciò che non è ipocrita melassa radical chic è fascismo. Ma proprio tutto: da Forza Italia al Pd, passando per il Movimento 5 Stelle e ovviamente la Lega. Praticamente rimangono fuori solo lei, quattro gatti di Leu e due vecchi arnesi di Potere al popolo. Basta mettere, anche solo minimamente, in dubbio l'accoglienza indiscriminata, lamentarsi della sicurezza e magari difendere gli interessi del proprio Paese e in un battibaleno ci si ritrova con gli stivaloni, il fez e la camicia nera. Finito l'estenuante test, clicco in fondo alla pagina e dopo qualche secondo di interminabile attesa ho il responso: sono fascista al 54,5 per cento. Con la mano sinistra blocco il braccio destro, perché qui - d'istinto - stava per partirmi un saluto romano. Avrei dato una gioia alla Murgia. Non la merita. E poi io credo nel libero mercato, penso che lo Stato sia un male (necessario) che debba stare il più possibile alla larga da me, sono garantista e libertario, ho pure i capelli lunghi e la barba. Cosa vuole la Murgia dalla mia vita? Non ho manco fatto il militare. Mussolini mi avrebbe mandato direttamente al confino. Che poi, se penso a quello di Curzio Malaparte, non era neppure così male eh... Accidenti, ma allora sono davvero fascista? Una delle affermazioni del questionario era proprio «non ha ucciso nessuno, al massimo mandava la gente in vacanza al confino». E io non l'ho nemmeno spuntata, altrimenti salivo all'80 per cento nel fascistometro. Il problema è che la Murgia, e quelli come lei, vorrebbero mandare al confino, morale e intellettuale, tutti quelli che non la pensano come loro. Da un altro punto di vista, però, il fascistometro è uno strumento formidabile. Perché si trasforma in un radicalchiccometro che ci restituisce perfettamente tutto l'odio e il distacco che quel che resta della sinistra ha per la pubblica opinione. Per usare il dizionario della Murgia: c'è odore di fascismo in questo aristocratico complesso di superiorità. Va beh, chiudo il computer e vado a farmi due salti nei cerchi infuocati.

Lenin è di destra. Lo dice il demenziale fascistometro, scrive il 2 novembre 2018 Diego Fusaro, Filosofo, su "Il Fatto Quotidiano". L’antifascismo in assenza di fascismo come alibi delle sinistre per non essere anticapitaliste in presenza di capitalismo è già abominevole di suo. Ma non bastava. Ecco recentemente: “È un cane fascista. L’interrogazione del consigliere Pd di Monza”. Il logos è perduto e, con esso, anche la dignità. Ma, anche in questo caso, non bastava. Ed ecco ora che arriva il termometro che misura la temperatura fascista nascosta in ciascuno di noi. È il fascistometro, il culmine dell’idiozia delle sinistre che si dilettano nel fare le antifasciste, finché il fascismo non c’è, per poter essere lietamente al servigio del capitale, quando esso c’è. E così possono tranquillamente condannare il manganello mussoliniano, che per fortuna non c’è più, e insieme accettare e legittimare il manganello invisibile dell’Unione europea e delle politiche di austerità liberista, che sta massacrando le classi lavoratrici e i popoli d’Europa. Secondo il fascistometro, di fatto figura come fascista chiunque non sia ortodosso rispetto ai dogmi del pensiero unico mondialista liberal-libertario. Fascista chi crede nella sovranità nazionale democratica dell’Italia. Fascista chi difende la famiglia. Fascista chi vuole proteggere i diritti dei lavoratori contro il mercato cosmopolita. Fascista chi non rinunzi al concetto di patria. Insomma, secondo il demenziale fascistometro sarebbero fascisti financo Lenin e Togliatti, Gramsci e il Che Guevara di Patria o Muerte. L’abbiamo capito. Il fascistometro è un’arma, per quanto risibile, nelle mani dei dominanti, a cui procura consenso e legittimazione. L’ho detto e lo ridico. Il benemerito ed eroico antifascismo di Gramsci era patriottico, anticapitalista e in presenza reale di fascismo. L’antifascismo patetico e vile odierno delle sinistre è globalista, ultracapitalista e in assenza totale di fascismo. Quando poi il fascismo torna, le suddette sinistre lo appoggiano in pieno. Ricordate il colpo di Stato in Ucraina nel 2014? Secondo la Russia, era appoggiato dagli Usa e dalla Ue, desiderosi di destabilizzare gli ex spazi sovietici e di atlantizzarli. Ordunque, le sinistre erano con l’Ucraina e contro Putin, che si batté contro i nazifascisti ucraini (Svoboda, Pravi Sektor) mentre per i nostri antifascisti è il fascista per eccellenza. Di tutto ciò ovviamente non v’è traccia nel demenziale fascistometro messo a punto da qualche intellettuale che ha messo la propria testa al servizio del capitale e della sua classe di riferimento.

Oddio, siamo tutti fascisti (oppure il Fascistometro è rotto), scrive "L'Inkiesta" l'1 novembre 2018. Il test per determinare il quoziente di fascismo legato al libro di Michela Murgia offre risultati imbarazzanti. E fa capire molti argomenti e ragionamenti considerati fascisti fanno parte in modo radicato dei valori e delle idee di sinistra. Il Professor G.C., uno che studia storia dell'Urss da tutta la vita e non nasconde la nostalgia per l'Est prima della caduta del Muro, ammette di essere ai limiti: punteggio 15,2, la soglia che divide i «democratici incazzati» dai fascisti. Il compagno A.D.L il limite l'ha superato e sta a 28,6, cioè pronto per il fez e l'orbace. B.C. Ha in bacheca foto di Che Guevara e però sta a quota 17, «neofita o proto-fascista», e viene ammonito: «Sei consapevole di quanto il metodo fascista sia efficace ma lo consideri un'opzione tra le altre». Il test allegato all'ultimo libro di Michela Murgia (“Istruzioni per diventare fascisti”, Einaudi, pp. 112, euro 12) suscita più apprensione a sinistra che a destraperché, cliccando sulle 65 domande riproposte dall'Espresso online, anche i più tenaci democratici scoprono di coltivare segrete pulsioni autoritarie e nostalgie innominabili. Il questionario è effettivamente illuminante. Leggendolo, è chiaro che una volta stabilito l'assioma populismo = fascismo, toccherà promuovere a Quadrumviri un buon numero di democratici doc. «Lo stupro è più inaccettabile se lo commette uno straniero»? La prima a dirlo fu Debora Serracchiani, all'epoca governatrice Pd del Friuli. «Le indennità parlamentari sono un insopportabile privilegio»? Opinione largamente condivisa da Leu a Fratelli d'Italia. «Rottamiamoli»? Sicuramente Made in Matteo Renzi. «Le quote rosa sono offensive per le donne»? Lo pensano soprattutto i deputati del Pd, furono loro nel 2014 ad affossare il capitolo dell'Italicum che le prevedeva. «Le quote rosa sono offensive per le donne»? Lo pensano soprattutto i deputati del Pd, furono loro nel 2014 ad affossare il capitolo dell'Italicum che le prevedeva. Insomma, a guardare il Fascistometro, «Vogliamo i Colonnelli» lo gridano un po' tutti, destra, sinistra, centro. Persino sul tema degli stranieri, cartina al tornasole dei tempi, l'eventuale consenso all'espressione «aiutiamoli a casa loro» mette insieme affondatori di barconi e terzomondisti convinti, simpatizzanti del Ku Klux Klan e vecchi supporter della guerriglia del Frelimo, per non parlare di Marco Minniti e di Matteo Salvini, entrambi convinti della validità dell'opzione. Tutti fascisti, nessuno fascista o cosa? Il paradosso della situazione è che la sinistra, per demolire la narrazione della maschia gioventù dovrebbe scavalcarla proprio sul piano della fascisteria. Terre incolte in concessione per vent'anni alle famiglie? Il fascismo le terre diede in proprietà ai braccianti, dopo aver espropriato il latifondo ai principi, abbiate il coraggio di fare altrettanto. Premi alla natalità? Tirate fuori un'Opera Maternità e Infanzia, una tassa sul celibato, un prestito matrimoniale a tasso zero, un premio di natalità per tutte (500 lire, un mese di stipendio di un impiegato qualificato). Grandi opere? Non basta un ponte, una pedemontana, un tunnel per farsi belli, fateci vedere una bonifica pontina. Ma ovviamente questo incasinerebbe ulteriormente le cose perché i signori G.C., A.D.L. E B.C., con i loro trascorsi sicuramente democratici e progressisti, si ritroverebbero a polemizzare col fascismo alle vongole in nome del fascismo storico. Roba da psichiatra. L'eventuale consenso all'espressione «aiutiamoli a casa loro» mette insieme affondatori di barconi e terzomondisti convinti, simpatizzanti del Ku Klux Klan e vecchi supporter della guerriglia del Frelimo, per non parlare di Marco Minniti. Qualche giorno fa in un editoriale molto discusso Paolo Mieli, giusto in coincidenza con la fatal data del 28 ottobre, invitava a riflettere sull'uso improprio delle accuse di fascismo, nel tempo rivolte da sinistra a qualsiasi avversario: da Gronchi a Segni, e in seguito anche Saragat, Leone, Cossiga, Fanfani e persino Scelba (quello che firmò la legge che vietava la ricostituzione del Pnf), per non parlare di Andreotti, Craxi, Berlusconi e ogni leader straniero non-amico a cominciare da Charles De Gaulle, che pure guidò la resistenza francese al nazismo. Attenzione – concludeva Mieli – ad agitare fantasmi, si rischia di non capire «la specificità di movimenti nuovi che vanno individuate in ogni epoca senza indulgere alle evocazioni facilone». A quel tipo di pericolo se ne aggiunge adesso uno nuovo. A furia di allargare la definizione di fascismo, di estenderla a ogni manifestazione dell'autorità che non ci piace, ecco, tra un po' scopriremo che è fascista pure il fidanzato appena tornato dalla convention di Zingaretti, la moglie andata in piazza con “Tutti per Roma”, per non parlare dell'amica del cuore che cento volte ha scritto sulla sua bacheca «Vi ricordo che questa gente vota» (voce n. 40 del Fascistometro).

Da “Circo Massimo - Radio Capital”, 1 novembre 2018. Un test che fa arrabbiare tutti. Alla fine dell'ultimo saggio di Michela Murgia "Istruzioni per diventare fascisti" (Einaudi) c'è il fascistometro, un questionario che misura quanto si è fascisti: "È una raccolta di 65 frasi veramente pronunciate da politici negli ultimi vent'anni. Potrebbero essere state dette dalla stessa persona, ma alcune le ha pronunciate Salvini e altre Serracchiani", racconta Murgia a Circo Massimo, su Radio Capital, "Persone che ideologicamente dovrebbero essere contrapposte. Come Renzi e Salvini, che hanno utilizzato due parole, rottamazione ruspa, che appartengono alla stessa area semantica: entrambe vedono l'altro come un detrito, un rifiuto". Quel fascistometro, però, ha fatto arrabbiare tanti. Anzi, tutti: "Tante persone di sinistra che hanno fatto il test si sono infuriate perché sono risultate simpatizzanti", rivela la scrittrice, "ma mi hanno scritto anche militanti di Casapound indignati perché risultavano fascisti solo al 47%". Critico anche Massimo Gramellini, risultato protofascista: "Avrei detto un punteggio più alto", scherza Murgia, che poi risponde al vicedirettore del Corriere della Sera: "Sbaglia quando dice che misurare il fascismo altrui è un gesto fascista, perché quel test serve a misurare il mio fascismo, e anche il suo, in termini di metodo. Ideologicamente, siamo tutti d'accordo, quelli di sinistra, di non essere fascisti; il problema è quando ci ritroviamo a fare le stesse cose che fanno gli altri, come quando alcune persone di di estrema sinistra aggredirono un nazifascista". Il risultato di Massimo Gramellini, fra l'altro, è lo stesso proprio di Michela Murgia: "Anch'io sono risultata protofascista, ma secondo me perché non sono stata del tutto sincera. Chiaro che all'esito della brexit ho guardato i risultati e ho pensato che il suffragio universale fosse sopravvalutato, poi però mi fermo un attimo e ragionando mi rendo conto che non vorrei un mondo in cui il voto fosse solo di pochi oligarchi illuminati".  

CONFESSIONI DI UN PROTOFASCISTA. Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2018. Ho risposto alle sessantacinque domande del fascistometro, l'illuminante test pubblicato da Michela Murgia nel suo ultimo saggio Einaudi per misurare il tasso di fascismo presente in ciascuno di noi, e sono preoccupato. Risulto appartenere al profilo «protofascista». Non ancora un gerarca con l'orbace, ma un insincero democratico che considera il ricorso alla dittatura una delle opzioni possibili. E tutto perché ho spuntato alcune voci che, nella mia ingenuità (altro sintomo, temo, di protofascismo), consideravo ovvie. Per esempio che in Italia ci sono troppi parlamentari: il doppio degli Stati Uniti, cinque volte più popolati di noi. O che la gran parte dei richiedenti asilo sono migranti economici e non rifugiati politici: affermazione non attribuibile al Ku Klux Klan, ma ai report del ministero dell'Interno. Oppure che, nella patria dei Tar, chiunque può bloccare un'opera pubblica con ricorsi infiniti. Non si tratta di opinioni, ma di fatti. A meno che, per meritarsi l'appellativo di fascista, in alcuni casi basti dire la verità. Quando verrò chiamato a rispondere dei miei crimini, proverò a difendermi così. Non tutto ciò che pensa la maggioranza è reazionario. I luoghi comuni diventano tali anche perché ogni tanto sono veri. E se il fascismo è sopraffazione, conformismo e inflessibile mancanza di senso dell'ironia, alle sessantacinque voci del fascistometro bisognerebbe aggiungere la numero 66: «Scrivere un test per misurare il fascismo altrui».

IL FASCISTOMETRO BUONISTA TRASFORMA TUTTI IN CAMICIE NERE di Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” l'1 novembre 2018. Mi costituisco: sono fascista. Le forze dell'ordine chiamino pure la segreteria del Giornale che darà loro i miei estremi. Tra l'altro abito a Milano, quindi ci mettono un attimo a tradurmi in piazzale Loreto. Sono fascista a mia insaputa. D'altronde c' è chi aveva le case a sua insaputa, figurarsi se io non posso avere il cuore nero, a mia insaputa. Sono fascista al 54,5 per cento, lo so con precisione, perché me lo ha detto la Murgia. Michela Murgia, la scrittrice che con la scusa di andare in tv a smarchettare i suoi libri propala tonnellate di buonismo. Spettacolo al contempo disgustoso ed esilarante. La Murgia, essendo di professione denunciatrice di fascismi (con un lievissimo ritardo di 73 anni), vede ovunque camicie nere e fasci littori. Ha così paura di rimanere senza lavoro - cioè senza camerati - che si è anche premurata di dare alle stampe un libro dal titolo chiarissimo: «Istruzioni per diventare fascista». Lei pensa di essere provocatoria e invece è inconsapevolmente sincera: foraggia il settore sul quale lucra. La Murgia sta al fascismo come il servizio di pompe funebri sta alla morte. Il primo non si augura esplicitamente il secondo, ma diciamo che gli fa comodo. Così, non essendoci fascismo in Italia, lei se lo inventa. Vede fascisti in ogni dove. In calce al suo libro, per fugare ogni dubbio, ha messo un test: il fascistometro. Prontamente ripreso dal sito dell'Espresso e immediatamente spernacchiato in rete. «Come direbbe Forrest Gump: fascista è chi il fascista fa. Ma pensaci un attimo: quanto puoi dirti davvero fascista? Perciò meglio non rischiare: esegui questo test, scopri qual è il tuo livello di fascismo e segui le istruzioni per migliorarti puoi sempre farlo, non c' è limite al fascismo», recita il testo. E poi il trappolone, perché, ovviamente, lo scopo del questionario è farti sentire anche solo un briciolo fascista. E quindi sbagliato. «Spunta le frasi che ti sembrano di buon senso», mi esorta la Murgia. E giù una lenzuolata di sessantacinque dichiarazioni: alcune surreali, altre naïf, molte banali e tante condivisibili. «Non abbiamo il dovere morale di accoglierli tutti», «in Italia chiunque può dire No e bloccare un'opera strategica», «prima dovrebbero venire gli italiani», «i bambini dovrebbero fare i bambini e le bambine le bambine», «facile parlare quando hai il culo al caldo e l'attico in centro», «uno vale uno», «non sono profughi, sono migranti economici», «penso ai nostri ragazzi delle forze armate», «c' erano quelli dei centri sociali» e via discorrendo. Alla Murgia piace vincere facile, è evidente. Perché mentre spunto il questionario in modo furtivo, guardando che alle spalle non arrivi una brigata partigiana per rastrellarmi, mi rendo conto che secondo il Murgia-pensiero tutto ciò che non è ipocrita melassa radical chic è fascismo. Ma proprio tutto: da Forza Italia al Pd, passando per il Movimento 5 Stelle e ovviamente la Lega. Praticamente rimangono fuori solo lei, quattro gatti di Leu e due vecchi arnesi di Potere al popolo. Basta mettere, anche solo minimamente, in dubbio l'accoglienza indiscriminata, lamentarsi della sicurezza e magari difendere gli interessi del proprio Paese e in un battibaleno ci si ritrova con gli stivaloni, il fez e la camicia nera. Finito l'estenuante test, clicco in fondo alla pagina e dopo qualche secondo di interminabile attesa ho il responso: sono fascista al 54,5 per cento. Con la mano sinistra blocco il braccio destro, perché qui - d' istinto - stava per partirmi un saluto romano. Avrei dato una gioia alla Murgia. Non la merita. E poi io credo nel libero mercato, penso che lo Stato sia un male (necessario) che debba stare il più possibile alla larga da me, sono garantista e libertario, ho pure i capelli lunghi e la barba. Cosa vuole la Murgia dalla mia vita? Non ho manco fatto il militare. Mussolini mi avrebbe mandato direttamente al confino. Che poi, se penso a quello di Curzio Malaparte, non era neppure così male eh... Accidenti, ma allora sono davvero fascista? Una delle affermazioni del questionario era proprio «non ha ucciso nessuno, al massimo mandava la gente in vacanza al confino». E io non l'ho nemmeno spuntata, altrimenti salivo all' 80 per cento nel fascistometro. Il problema è che la Murgia, e quelli come lei, vorrebbero mandare al confino, morale e intellettuale, tutti quelli che non la pensano come loro. Da un altro punto di vista, però, il fascistometro è uno strumento formidabile. Perché si trasforma in un radicalchiccometro che ci restituisce perfettamente tutto l'odio e il distacco che quel che resta della sinistra ha per la pubblica opinione. Per usare il dizionario della Murgia: c'è odore di fascismo in questo aristocratico complesso di superiorità. Va beh, chiudo il computer e vado a farmi due salti nei cerchi infuocati.

Il giorno in cui ci siamo svegliati tutti fascisti, grazie a Michela Murgia. Il “fascistometro” della scrittrice doveva stabilire il grado di fascismo in noi, ma ci ha fatto capire cosa considera fascista lei: più o meno tutto. E se tutto è fascista, niente è fascista, scrive Manuel Peruzzo il 2 novembre 2018 su Wired. Non sapevo d’essere fascista. Michela Murgia ha inventato un nuovo format col quale indagare il nostro grado di violenza politica, è il fascistometro, un test sull’Espresso con 65 frasi da bar che sembra servire più a promuovere il suo nuovo libro Istruzioni per diventare fascisti, Einaudi, che a stabilire quanto siamo nei guai. Tra le domande ci sono frasi da bar (“loro sono i primi che rubano”; “Non rispettano le nostre tradizioni”; “E i nostri figli laureati costretti a emigrare!”), ci sono i tormentoni leghisti (“è finita la pacchia” “l’ideologia gender sta rovinando le famiglie” “li raderei al suolo e spianerei con una ruspa”), i mantra grillini (“uno vale uno” “Non sono profughi, sono migranti economici” “sono laureato all’università della vita”) e pure la quota Pd (“rottamiamoli tutti”). Ci sono anche frasi generiche, alcuni luoghi comuni che diventano tali perché effettivamente hanno un fondo di verità, frasi su cui si può discutere: ma bollare come fascista chiude le porte a qualsiasi tipo di discorso, ovviamente. Per Murgia c’è del proto fascismo in tutti. “Il suffragio universale è sopravvalutato”, uno degli enunciati presenti nel fascistometro murgiano, è una frase che possiamo trovare in Contro la democrazia di Jason Brennan, filosofo analitico e libertario, che sostiene in questo saggio la possibilità di superare la democrazia grazie a un sistema nel quale il potere politico è ripartito sulla base della conoscenza; “il cittadino medio è come un bambino di 12 anni non troppo intelligente”, non è altro che l’esito di numerosi studi: lo scienziato politico Larry Bartels osserva che “l’ignoranza politica degli elettori americani è uno dei tratti meglio documentati della politica contemporanea”, il teorico della politica Jeffrey Friedman che “il pubblico è estremamente più ignorante di quanto gli accademici e i giornalisti che lo osservano possono immaginare” (e in Italia le cose non vanno meglio). Ancora, proseguendo nel questionario della scrittrice, “non abbiamo il dovere morale di accoglierli tutti” non significa solo, sempre e necessariamente che non si debba prestare soccorso a chi naufraga, ma può anche assumere una prospettiva che richiede un minimo di realismo: non si può effettivamente accogliere chiunque senza una politica, dei mezzi, una certa dovuta organizzazione; “le quote rosa sono offensive per le donne”, è una frase che suona diversa a seconda di chi la pronuncia: se a dirlo sono Camille Paglia e Emma Bonino è un conto, se è MachoLatino85 su internet del tutto un altro. La cattiva fede di chi esprime una frase ambigua non deve però screditare o portare a facili assolutismi (tipici dei regimi totalitari, peraltro): in quest’ultimo caso, il principio che si può intendere è che l’autodeterminazione femminile, per alcune femministe, passa per l’equità nel merito e non per aiuti speciali in quote percentuali. Murgia riesce anche a sostenere che se uno dice “ci vorrebbe il presidenzialismo” è un po’ fascista (Pannella si starà rivoltando nella tomba). Non resta che chiederselo: cos’è il fascismo? Prendere a scarpate gli appunti del commissario europeo agli Affari economici, indossare una maglietta con la scritta Auschwitzland a Predappio, concedere terreni coltivabili e da bonificare alle famiglie che fanno il terzo figlio, essere conservatori sul ruolo della donna nella società, negare diritti all’aborto, alle coppie di fatto, all’eutanasia, forse. Ma forse no. Facendo di tutta l’erba un fascio (ops), in ogni caso, si rischia di svuotare la parola fascismo del suo significato: se tutto è fascismo non lo è più nulla. Una destra conservatrice, cattolica, bigotta non è necessariamente fascista. Una donna in gita a Predappio forse sarà fascista, ma è soprattutto penosa e grottesca. Non lo era di certo Renzi quando cercava il ricambio generazionale, e probabilmente non lo sono neppure i grillini. Sono qualcos’altro, e il problema è adattare lenti interpretative vecchie a fenomeni nuovi, finendo per deformare tutto. Il fascistometro di Murgia più che stabilire il grado di fascismo in noi, qualsiasi cosa voglia dire, ci fa capire cosa considera fascista lei: più o meno tutto. Se credi nel presidenzialismo, sei fascista; se sai che l’elettorato è mediamente ignorante e vota senza cognizione, sei fascista; se dai ascolto ai dati e sai che i migranti sono soprattutto economici, sei fascista; se dai una possibilità all’epistemocrazia e pensi che la democrazia possa essere migliorabile, sei fascista. E se non sei fascista puoi diventarlo perché alcuni fascisti secondo Murgia erano democratici (forse si riferisce ai comunisti: che non erano democratici). Come manovra di marketing funziona, tutti ne parlano e si sentono in colpa, ma dal punto di vista storico e interpretativo è un ottusometro. Murgia mi ha convinto, per capire meglio il fascismo meglio i libri di Renzo De Felice, Sergio Luzzatto ed Emilio Gentile. 

Michela Murgia e il "fascistometro". La vergogna rossa sull'Espresso, come insulta gli italiani, scrive il 2 Novembre 2018 Gianluca Veneziani su "Libero Quotidiano". Gentili signori della corte rossa, giudici del Tribunale del Pensiero Unico, lo confesso: sono un fascista. Ho ripetutamente difeso la famiglia naturale, ho creduto che i bambini debbano fare i bambini e le bambine le bambine, ho scritto di radici cristiane dell'Europa e mi sono convinto che un Paese, per essere tale, debba avere dei confini; ho perfino sostenuto la bontà della legittima difesa, ho polemizzato contro le quote rosa, ho sottolineato la differenza tra migranti economici e profughi e ho addirittura elogiato l'operato delle Forze Armate. Sì, lo so, non vado ancora in giro con fez e camicia nera, non ostento saluti romani né grido in pubblica piazza «Viva il Duce»; sono ancora un fascista immaturo, un proto-fascista, come risulta dall' illuminante test del «Fascistometro», pubblicato sul sito dell'Espresso, cui mi sono volontariamente sottoposto, per tirar fuori il fascista nascosto che è in me. Devo migliorare, ne sono consapevole, ma in questo percorso di formazione mi aiuterà il vademecum per riconoscersi camerati a propria insaputa, ossia l'imperdibile "Istruzioni per diventare fascisti" (Einaudi, pp. 100, euro 12) della nostrissima Michela Murgia. Questo testo servirà a me e tutti voi, cripto-fascisti, a identificare non solo latenti nostalgie del Ventennio, ma soprattutto a riconoscere metodi, linguaggi, stile e approccio alla vita di un uomo nato con la camicia (nera). Perché, fa sapere l'autrice attingendo al filosofo Forrest Gump, fascista è chi il fascista fa.

EJA EJA ALALÀ - Ad esempio, siete soliti utilizzare la parola «capo» anziché «leader», o cercate qualcuno da cui essere guidati e non solo ispirati? Ebbene, siete dei fascisti! Osate sostenere che gli italiani si sono impoveriti e che gli anziani debbano essere sostenuti con contributi materiali? Non fate altro che attingere alla retorica già adottata da zio Benito. Ancora: siete favorevoli all' uso della forza da parte dello Stato per tutelarci dai malviventi, oppure, in assenza dello Stato, siete disposti a difendervi da soli con le armi? Non lo ammettete, ma in entrambi i casi siete fascisti appassionati di violenza. Se poi vi siete stancati del linguaggio politicamente corretto, e avete preso a chiamare le cose col loro nome, tipo «rottura di coglioni» una seccatura e «troie» le mestieranti di strada, allora voi parlate da fascisti, perché nell' animo in fondo lo siete. Molto più banalmente, se pensate che la famiglia naturale sia composta da maschio e femmina, se ritenete pericolosa l'ideologia gender, o se ricorrete alla parola scandalosa «madre», allora in modo implicito state dichiarando la vostra nostalgia del regime mussoliniano.

Sì, perché come già faceva notare l'autrice in tv, se «la donna viene protetta ed esaltata solo in quanto madre», «se tu riduci l'interesse su una donna al suo utero, ti stai comportando secondo le istruzioni che caratterizzano il metodo fascista». Siete avvisati, bimbi e bimbe, che vi ostinate a dire «mamma» come prima parola. Potreste essere presto tacciati di apologia di fascismo.

La Ducessa - Ma attenti anche a quando fate i piacioni e cercate il consenso di un gruppo di persone: inconsapevolmente state facendo i fascisti. Come insegna la Murgia, «se volete essere fascisti, siate prima di tutto seduttori», compiacete cioè tutti e tutte; e allora lodate le piccole imprese del Nord, che hanno saputo far grande il made in Italy (tipico discorso da gerarchi col fascio), oppure sollecitate l'autostima dei meridionali, sostenendo che sono accoglienti e veraci (e quale fascista non li ha conquistati così!). Sui temi politici, poi, occhio a come screditate l'avversario, che per voi è sempre un nemico da eliminare: se sostenete che non è buono ma solo buonista, o che fa il comunista col Rolex, allora siete sulla buona strada per gridare Eja Eja Alalà. Ma anche se affermate la necessità di una riforma presidenzialista, o tifate per le grandi infrastrutture, disprezzando chi dice a prescindere No, ci risiamo: avete da qualche parte nascosta la tessera del Pnf. In base a questo prontuario, praticamente siamo tutti fascisti potenziali, incoscienti ma in fin dei conti convinti (perfino chi non condivide nessuna delle frasi del Fascistometro, secondo il test, è comunque un «aspirante» fascista). E lo deve essere verosimilmente anche l'autrice di questo libro, alla quale proponiamo un accordo: noi ci impegniamo per diventare fascisti-modello seguendo le sue istruzioni, ma lei si candida a essere la nostra nuova Leader, pardon, il nostro nuovo Capo. Facciamo Michela Murgia Ducessa del risorto Fascismo 3.0. E il 28 ottobre, in suo onore, al posto della Marcia, organizzeremo la Murgia su Roma. 

IL TEST. E tu quanto sei fascista? Scoprilo con il fascistometro di Michela Murgia pubblicato il 29 ottobre 2018 su "L'Espresso". Il provocatorio saggio della scrittrice, “Istruzioni per diventare fascisti” pubblicato da Einaudi, propone in conclusione un test: per misurare il grado di apprendimento raggiunto e i progressi fatti. Sessantacinque frasi, luoghi comuni, slogan. Spuntate quelle che vi sembrano di buon senso e leggete il risultato finale.

1 Il suffragio universale è sopravvalutato.

2 Non abbiamo il dovere morale di soccorrerli tutti.

3 Il cittadino medio è come un bambino di 12 anni non troppo intelligente.

4 Basta partiti e partitini.

5. Come può fare il ministro uno che non ha manco il diploma.

6 Sono laureato all’università della vita.

7 In Italia chiunque può dire NO e bloccare un’opera strategica.

8 Lo stupro è più inaccettabile se commesso da chi chiede accoglienza.

9 I bambini facciano i bambini, le bambine facciano le bambine.

10 Prima dovrebbero venire gli italiani.

11 Con la cultura non si mangia.

12 L’Italia è un paese ingovernabile.

13 Una donna, per quanto in vista, deve sempre dare luce ad un uomo.

14 Ci sarà una ragione se la cultura occidentale è quella che ha plasmato il mondo.

15 Davvero ci serve un altro tavolo di concertazione?

16 Le indennità dei parlamentari sono un insopportabile privilegio.

17 Non ha ucciso nessuno, al massimo mandava la gente in vacanza al confino.

18 Facile parlare quando hai il culo al caldo e l’attico al centro.

19 E comunque esiste una famiglia naturale.

20 Non ricordo tutta questa solidarietà per i nostri terremotati

21 La lobby gay adesso sta esagerando con le pretese.

22 Bisogna capire che la gente è stanca.

23 Abbiamo le radici cristiane da difendere.

24 A questi manca la cultura del lavoro.

25 Ci rubano il lavoro.

26 I sindacalisti sono dei servi venduti.

27 Il femminismo ha insegnato alle donne ad odiare gli uomini.

28 La prima cosa è diminuire il numero dei parlamentari.

29 Questa non è bontà, è buonismo.

30 Un paese senza confini non è un paese.

31 Rottamiamoli tutti.

32 Sarebbe meglio aiutarli a casa loro.

33 Un paese civile non può dare diritto di voto a gente che ieri stava sugli alberi.

34 Non sono profughi, sono migranti economici.

35 Se lo Stato non mi protegge, devo proteggermi da solo.

36 Le quote rosa sono offensive per le donne.

37 E’ razzismo al contrario.

38 Destra e sinistra ormai sono uguali.

39 Uno vale uno.

40 Vi ricordo che questa gente vota.

41 I giornalisti sono tutti servi del potere.

42 Noi siamo violenti per necessità, non per cultura.

43 Anche i partigiani comunque non erano stinchi di Santo.

44 Penso ai nostri ragazzi delle Forze Armate.

45 E il radical chic che dà lezioni col Rolex al polso?

46 E i nostri figli laureati costretti ad emigrare!

47 Non si fa nulla per il problema delle culle vuote.

48 Nei loro paesi questo a noi non lo lasciano fare.

49 C’erano gli anarcoinsurrezionalisti dei centri sociali.

50 L’ideologia gender sta rovinando le famiglie.

51 Ma il Parlamento a che serve?

52 E’ finita la pacchia.

53 Comunque è vero che ha fatto cose buone.

54 Non rispettano le nostre tradizioni.

55 Quando ti imporrano il burqa non lamentarti.

56 Certo, se vai in giro conciata così un po’ te la cerchi.

57 Basta con quelli che dicono di NO a tutto.

58 Bisogna sapere quanti sono, censirli.

59 Senza vincolo di mandato i parlamentari cambiano casacca ogni volta che vogliono.

60 Loro sono i primi che rubano.

61 I nostri nonni emigravano con già un lavoro.

62 Questa è giustizia ad orologeria.

63 Ci vorrebbe il Presidenzialismo.

64 Li raderei al suolo e poi spianerei con la ruspa.

65 Se ti piacciono tanto, portali a casa tua.

LA SINISTRA CHE ROSICA. Fascio-test? E allora ecco lo "zeccometro". Sull'Espresso un elenco di luoghi comuni per stabilire il tasso "mussoliniano" nei lettori. E noi replichiamo col misura-comunismo, scrive Pietro De Leo il 2 Novembre 2018 su "Il Tempo". Un «fascistometro» per scoprire quanto di «ducesco» alberga in noi. È l’ultima discutibile iniziativa dell’Espresso che, con la collaborazione della scrittrice Michela Murgia, ha coniato un test basato su 65 luoghi comuni considerati, evidentemente, indice di fascismo. A seconda di quanti vengono considerati condivisibili dal lettore, il test rivela un profilo che può spaziare da «aspirante» (o fascista primordiale) a «proto fascista», da «non sono fascista ma...» a «Militante consapevole», fino al livello massimo: «Patriota». L’iniziativa, già comica di suo, diventa ancora più paradossale se si dà uno sguardo alla assoluta indeterminatezza delle frasi proposte, totalmente sganciate da ogni contesto. Per quelli dell’Espresso, insomma, basterebbe condividere un pensiero come «questo è razzismo al contrario» o «con la cultura non si mangia» per essere, in fondo all’animo, un po’ fascisti. E allora Il Tempo ha deciso di accettare il livello - basso, a dir la verità - del ragionamento e di proporre un test uguale e contrario. Scoprite anche voi, attraverso il nostro «comunistometro», se sotto i vostri vestiti si nasconde un radical chic con rolex e attico in centro.

Spunta le frasi che ti sembrano di buonsenso:

1) Accogliere tutti gli immigrati è una dimostrazione di umanità.

2) Se Salvini vola nei sondaggi è perché gli italiani sono un popolo di ignoranti.

3) Con la vittoria di Trump è tornato il suprematismo bianco.

4) Si dice «ministra».

5) Se i rom rubano è colpa nostra che non li sappiamo integrare.

6) Ah, se fosse passata la riforma di Renzi!

7) Serve un partito di «competenti».

8) Non è vero che gli immigrati delinquono di più, ma è solo percezione.

9) Dobbiamo accoglierli perché scappano dalla guerra.

10) Lo Ius soli è una misura che va incontro ai diritti di migliaia di bambini nati in Italia da genitori stranieri e parlano italiano, tifano squadre italiane e mangiano cibo italiano.

11) Gli immigrati sono risorse.

12) Con le unioni civili, l’Italia si è adeguata al resto del mondo.

13) Meglio cresciuto da una coppia di gay che in un orfanotrofio.

14) L’aborto garantisce la libertà delle donne.

15) Finalmente Papa Francesco!

16) Gli immigrati ci pagano le pensioni.

17) Dagli immigrati possiamo imparare tantissimo.

18) Il fascismo può sempre tornare.

19) Embe’? Perché, forse gli italiani non stuprano?

20) In uno Stato laico il crocifisso a scuola non ha senso.

21) Il presepe a scuola offende i figli dei musulmani.

22) La Festa della Mamma e la Festa del Papà offendono i bambini di coppie omosessuali.

23) Non si dice «sesso», si dice «genere».

24) Sui documenti pubblici, invece di «madre» e «padre» è meglio indicare Genitore 1 e Genitore 2.

25) Abbiamo il dovere di accogliere, ma purtroppo non ho spazio per ospitarne uno a casa mia.

26) Di questo passo finiremo come la Grecia.

27) Il mio eroe civile è Mimmo Lucano, sindaco di Riace.

28) Non è un caso che il Decreto Sicurezza arrivi 80 anni dopo le Leggi Razziali.

29) La ragazza era già tossicodipendente e aveva brutte compagnie, se anche è stata ammazzata da un gruppo di africani l’immigrazione non c’entra niente.

30) Il movimento Metoo è una straordinaria affermazione dei diritti della donna.

31) Contro le donne esiste anche la «molestia percepita».

32) Dire «è finita la pacchia» agli immigrati è un abominio.

33) Le Ong sono indispensabili per salvare le vite.

34) George Soros sotenitore delle migrazioni di massa è una fake news.

35) Il Pd perde le elezioni per colpa delle fake news.

36) C’è un clima da Weimar.

37) Il sovranismo può portare ad una nuova stagione di conflitti bellici.

38) La bocciatura a scuola è un’umiliazione diseducativa per i ragazzi.

39) I bulli non vanno puniti ma vanno comprese le ragioni del loro disagio.

40) Ricordare i delitti dei partigiani nel triangolo rosso il 25 Aprile è demagogia revisionista.

41) Nel mio Pantheon ideale voglio Steve Jobs e Nelson Mandela.

42) L’Islam con l’Isis non c’entra niente.

43) La responsabilità dei naufragi nel Mediterraneo è di chi vuole chiudere i porti.

44) Non lo dico apertamente, ma in fondo un’altra Piazzale Loreto non sarebbe poi così male.

45) Rivedere l’istituto della «protezione umanitaria» significa rispedire donne e bambini nelle zone di guerra.

46) Ha ragione Saviano.

47) L’Italia è diventato un Paese razzista.

48) Gli odiatori del web sono tutti del M5S.

49) Salvini cominciasse a restituire i 49 milioni.

50) L’Unione Europea è l’unica garanzia di libertà.

51) Quasi quasi era meglio Berlusconi.

52) La flat tax aiuta i super ricchi.

53) Fortuna c’è Mattarella.

54) Da quando c’è Salvini al governo, le violenze contro gli stranieri sono aumentate.

55) …E allora le Crociate dei cristiani?

56) Le pubblicità in cui è la mamma che porta a tavola sono sessiste.

57) Liberalizzare la cannabis sconfiggerebbe lo spaccio.

58) Riformare la legittima difesa è un regalo alla lobby delle armi.

59) Con questo governo l’Italia non conta più niente in Europa.

60) Putin finanzia tutti i partiti della destra europea.

61) Bisognerebbe vietare la vendita dei gadget del Ventennio.

62) Chi pensa che il fascismo abbia prodotto anche opere positive è un fascista.

63) Bisognerebbe abbattere l’obelisco Mussolini.

64) Lo stupro commesso da un immigrato non è più condannabile di uno commesso da un italiano.

65) Non è vero che il Corano invita alla sottomissione.

66) Il primato della famiglia tradizionale è un retaggio anacronistico.

67) Il velo islamico non è un’anomalia perché anche le nostre nonne sessant’anni fa si coprivano il capo con un fazzoletto.

68) Si dice «Spianata delle Moschee», non Monte del Tempio.

69) Ha ragione l’Europa.

70) È doveroso inserire menù etnici nelle mense scolastiche.

71) Serve una grande mobilitazione di resistenza civile.

72) Stefano Cucchi era un geometra.

73) Carlo Giuliani è morto da eroe.

74) Alessandra Mussolini, con quel cognome, dovrebbe solo tacere.

Attribuisci un punto per ogni espressione spuntata e controlla i risultati.

Da 1 a 15 - Medioprogressista d’assalto. “Proprio comunista no. Vede, io sono medioprogressista”, rispondeva il Mega Direttore alla domanda di uno stralunato Fantozzi su quale fosse il suo orientamento politico. Hai i tuoi punti fermi di legge e ordine, ma un piedino nel mare del politicamente corretto lo metti. Magari per non sfigurare nelle tue frequentazioni altolocate dove guai a confondersi con “quelli di destra”. Diciamola tutta. Pure a te urta l’immigrato che ti tormenta fuori dal supermercato, o spaccia nel parco dove giocavi da bambino. Il “torna a casa tua” ti balla sul palato ma te ne guardi bene, perchè in certe occasioni “la solidarietà” fa figo e peraltro non vuoi fare la figura di un troglodita nei tuoi apericena alla moda. Tranquillo, anche se ti sgamano, nessuno dei tuoi compari dirà mai nulla. Perché la pensano esattamente uguale.

Da 16 a 35 - Osservatore coinvolto. Il mondo di colpisce dalla poltrona di casa. Ti senti coinvolto, vorresti fare qualcosa, ma tanto da solo che cambieresti? E comunque, quelli di là, quelli del non accogliere, della sicurezza, della famiglia tradizionale, un microscopico dubbio te lo mettono. Allora meglio farsi le proprie letture, da “selezionare” attentamente sul web per non incappare nelle fake news, aspettare che questi “tempi bui, signora mia” finiscano. Però guai intavolare con te una conversazione che abbia come tema l’immigrazione, il multiculturalismo, la famiglia tradizionale. Da Clark Kent ti trasformi in un Superman di logorrea politicamente corretta. E ti schieri, sì, ti schieri, slegato dalle inibizioni, travolgendo il malcapitato interlocutore.

Da 36 a 50 - Militante irreggimentato. Non te ne perdi una: gli editoriali di Saviano, le vignette di Vauro, le sortite dell’attore tal dei tali contro Salvini. E’ il tuo momento, anche tu fai parte della Resistenza. Lavori molto sui social, posti, condividi. Spesso scrivi pensierini seriosi, perché tu ti senti ampiamente calato nella Storia di cui vuoi essere protagonista, convinto che “se tutti noi nel nostro piccolo ecc.”. A vederti fare la spesa sembri uno così a modo. Ma ti trasformi al cospetto del tuo nemico numero uno, l’elettore salviniano. Se lo identifichi, lo guardi storto. Se ti tocca salutarlo perché lo conosci, lo fai a mezza bocca. Se lo punti sul web, lì c’è il rischio che ti scappi la frizione, e la bontà ostentata lascia il posto al rancore autentico. Tu, una Piazzale Loreto, la vuoi eccome. Ah, se sei donna, inutile discutere con te: contraddirti significherebbe essere sessista.

Da 51 a 74 - Zecca irrecuperabile. Qui la politica non c’entra nulla, sei completamente ottenebrato da un’ideologia abbracciata con una superficialità tale da spingere gli altri a vergognarsi per te. Hai la foto di Mussolini a Piazzale Loreto come sfondo del Desktop, la tua bandiera non è il tricolore ma quella arcobaleno. Nuoti nella contraddizione. Ti dichiari per la libertà della donna, ma tolleri l’arrivo di quelli che la costringono al velo. Odi l’Occidente, ma col cavolo che andresti a vivere nel Terzo Mondo. Se sei giovane, frequenti i centri sociali, e manifestando non disdegni gli scontri con “gli sbirri”. Perché ovviamente ti dichiari anche non violento. Talmente non violento da augurare di “penzolare” a chi non la pensa come te, a cui apponi in automatico il timbro di “fascio”. 

IL DEMOCRATOMETRO, scrive il 02.11.2018 G. P. su conflittiestrategie.it. Picchiavano sulla teste i comunisti, picchiavano i fascisti, picchiava la polizia al servizio dei liberali, quest’ultimi i più codardi di tutti perché violenti per procura, sempre dietro ad una cattedra o una cadrega, protetti dai corpi speciali della Bestia Statale (come la chiamano in sede economica). Lenin invocava la rottura dei crani, Mussolini quella delle reni, Hitler quella di tutte le ossa. I liberali, dall’alto ideale, sganciavano la bomba mortale, oltre a tutto il resto dell’arsenale. Siamo tutti canaglie, quando obbligati dal flusso conflittuale della società a lottare per primeggiare. Dare del fascista ad uno non aggiunge ne’ sottrae nulla all’infinita cattiveria di cui siamo capaci. Anzi, i fascisti che distribuivano gratis olio di ricino erano dei buonisti rispetto agli americani che distribuiscono ancora gas in giro per il mondo, in nome della libertà, la loro. Non c’è gente più violenta dei democratici, per questo hanno vinto le guerre. Per stigmatizzare qualcuno di carattere violento bisognerebbe dirgli “sei un democratico”. La definizione sarebbe assoluta e non attualmente superabile. I democratici sono in cima alla catena alimentare della predazione intraspecifica. Se volete insultare veramente qualcuno chiamatelo democratico e se volete proprio esagerare anche liberal-democratico. Al momento la specie umana non offre esseri più ferali. Altro che fascisti e comunisti! Il fascistometro non misura più nulla se non l’ignoranza di certi letterati.

Ps. I crimini si reiterano perché chi li ha commessi ha una giustificazione da offrire, chi li ha subiti dei torti da cancellare e tutti sempre dei pretesti da utilizzare all’occorrenza, per avere ragione della ragione. Così va la Storia, un po’ si è vittime, un po’ carnefici, un po’ opportunisti, dipende dall’epoca.

PALMIRO TOGLIATTI, UN DEMOCRATICO ALLA STALIN...

Stalin. Il leader comunista non massacrò solo uomini ma uccise anche la lingua. La Repubblica 02/08/2005. Stalin. Il leader comunista non massacrò solo uomini ma uccise anche la lingua. La Repubblica 02/08/2005. Dopo il 1946 esistevano, in alcune città italiane, delle piccole librerie. Le incontravi all’ improvviso, all’ angolo di un profumato viale di Torino, o accanto alla Piazza dei Cavalieri di Pisa. Il libraio pareva sempre lo stesso: gentile, austero, severo, con l’espressione di chi dedica la vita a un compito di immenso rilievo, che quasi nessuno, forse nemmeno lui, comprende. Nei pochi scaffali, non c’ erano libri di letteratura. Gli uni accanto agli altri, grossi volumi di tela blu-cupa, con un medaglione inciso, titolo in lettere dorate, contenevano le opere, tradotte in italiano, dei Classici del Marxismo: Marx, Engels, Lenin, Stalin, la Storia del Partito Comunista bolscevico dell’Urss. Stampati a Mosca, dalle Edizioni in lingue estere, tutti i libri emanavano un intensissimo odore di petrolio, perché le industrie sovietiche non riuscivano a trasformare in carta decorosa le foreste della Siberia. Dopo sessanta anni, quel profumo, che ha impregnato a lungo una piccola parte della mia biblioteca, è svanito, come altri profumi molto più preziosi. Quando poco tempo fa ripresi in mano le opere di Lenin, precedute da otto discorsi e articoli di Stalin, sono stato assalito dalla desolazione. Quel passato era irreparabilmente defunto (sia pure con mia gioia): le idee nelle quali avevano creduto centinaia di milioni di uomini non c’ erano più, e sembrava che non ci fossero mai state. «Passato e puro Nulla, sono assolutamente lo stesso», dice Mefistofele nel Faust di Goethe. Con la sua mano polverosa, il tempo aveva cancellato ogni traccia: Stalin credeva di possedere tutto il futuro: immaginava di essere immortale; e ora non aveva più nemmeno una tana o uno sgabuzzino o un loculo nella fossa del passato. Quando lessi qualche pagina a un mio giovane amico, mi guardò con occhi stupiti e incantati: non capiva come qualcuno, sia pure nel 1922 o nel 1937 o nel 1945, avesse potuto scrivere quelle parole. Gli editti di Ramsete II o di Dario il Grande gli parevano più vicini e famigliari. Poi il mio giovane amico cominciò a ridere. Tutto gli sembrava irresistibilmente comico: persino le carceri, i gulag e le fucilazioni gli parevano appartenere a una farsa di Feydeau o di Labiche o di Scarpetta, riscritta con enorme calligrafia nel sinistro ventesimo secolo. Tra le otto prefazioni di Stalin, una era incomparabile. Era l’undici settembre 1937. Nel Gran Teatro di Mosca, si svolgeva «la riunione elettorale della circoscrizione Stalin di Mosca». Lui, Josif Visarionovic Dzugasvili detto Stalin, era soltanto un umilissimo candidato al Soviet Supremo. Come l’ultimo dei principianti, aveva un presentatore: «Il nostro egregio Nikita Sergeevic»: proprio Chruscev, il futuro affossatore, che appariva nelle vesti del servo buffone. Quando Stalin cominciò a parlare, si schermì con grazia: prima di lui, Kalinin, Molotov, Vorosilov, Kaganovic avevano già detto e ripetuto tutto quanto bisognava dire. Cosa poteva aggiungere lui, l’ultimo dei candidati? Forse, doveva fare un discorso su tutto e su nulla? (La sala proruppe in un’immensa risata). Sapeva che c’ erano specialisti in frivolezze, non solo laggiù, nei paesi capitalisti, ma anche qui, nell’ austero paese dei Soviet (applausi e risate prolungatissime). Questo cenno avrebbe potuto far rabbrividire il pubblico del teatro. Ma subito Stalin entrò nella parte di candidato, cambiò voce, e parlò con calma intorno alle prossime elezioni. Lo entusiasmavano. Non c’ erano mai state, nella storia del mondo, nemmeno nella Grecia antica, in Francia o in Inghilterra, elezioni così libere e democratiche. «La storia - Stalin disse - non conosce un altro esempio simile... Da noi le elezioni avvengono in un ambiente di fiducia reciproca e, direi, di amicizia reciproca». Non credo che nessuno abbia mai pronunciato, «nella storia del mondo», una menzogna così grandiosa ed enorme: una menzogna che, con un balzo, varcava ogni limite e possibilità dell’immaginazione. Così pieno di grazia e di charme, il candidato Stalin sapeva benissimo cosa accadeva in Russia nel dicembre del 1937. In quei giorni «di fiducia e di amore reciproco», la sua polizia aveva mandato centinaia di migliaia di comunisti nelle carceri e nei gulag: li aveva torturati, feriti, storpiati, fucilati, uccisi di fame, di gelo e di consunzione. Non erano affatto menscevichi, trockisti, zinoveviani, buchariniani, rykoviani, come sostenevano i giudici. Quei morti e moribondi erano fedeli di Stalin, che avevano creduto ciecamente in lui, e ora incontravano nelle carceri le proprie vittime, depositate strati sopra strati, le une sopra le altre. Mentre parlava della fiducia e dell’amicizia reciproche, Stalin rideva profondamente dentro sé stesso. Con lo spirito che non lo abbandonò mai, rideva di tutto: dei comunisti russi, che l’applaudivano per entusiasmo o disperazione, dell’eco che la sua vasta risata aveva fino in Siberia o sulle coste ghiacciate del Mar Bianco, della gioia suscitata fra i suoi simpatizzanti europei e americani, e del proprio incomparabile dono di mentire. Aveva massacrato folle. Ora le folle l’applaudivano: esaltavano in lui il GRANDE DISCEPOLO DI LENIN; e questo spettacolo paradossale lo rendeva felice e quasi euforico, come il vecchio gatto che ha appena finito di ingoiare i topi della sua cantina. In quegli anni si diffuse in Russia un nuovo linguaggio: lo staliniano, che presto si sarebbe esteso senza misura, fino a dominare l’Unione Sovietica e quasi metà dell’universo. Forse il suo capolavoro è la Storia del Partito Comunista bolscevico dell’Urss, pubblicata nel 1938. Non so chi abbia inventato questo linguaggio: se un intellettuale o un burocrate: o l’intero comitato centrale del Partito comunista, o l’intera Unione scrittori; o chi altri. Mi piacerebbe moltissimo conoscere la vera firma. Sebbene raccolga molte frasi di Lenin o di Stalin, il linguaggio della Storia del Partito Comunista è una creazione completamente nuova. Nella storia umana, non si era mai scritto, o letto o ascoltato, qualcosa di simile. Mussolini ed Hitler parlavano e scrivevano in lingua: sebbene fosse una lingua mostruosa, demagogica, e psicotica. L’ ambizione dei seguaci di Stalin era molto più grande: volevano distruggere la lingua, abolire le parole, come per migliaia di anni il genere umano le aveva conosciute. Cancellarono il colore e il timbro della voce, l’inventività metaforica, la precisione razionale, la fantasia, l’entusiasmo, l’ironia, il ritmo, la volgarità, la chiacchiera. La non-lingua del futuro doveva essere implacabile: formule, incessanti ripetizioni, variazioni ripetitive, espressioni meccaniche. I capoversi iniziavano con le stesse parole: le immagini consentite non erano più di quattro. Mentre Mussolini e Hitler volevano suscitare entusiasmo e violenza, la voce staliniana evitava ogni pathos: perché il comunista (così si diceva) era un uomo sovranamente giusto, e quasi senza passione. Chi leggeva o ascoltava, udiva la musica di una macchina complicata e misteriosa. Oltre non si poteva andare: perché più avanti c’ erano soltanto il vuoto e il nulla. Questa voce lasciava cadere una specie di velo, che avvolgeva tutte le cose. Mai la realtà - che nei libri di Marx era stata così compatta, massiccia ed esuberante - veniva rappresentata, evocata o suggerita. Sembrava che non esistesse più niente, tranne la ripetizione delle formule. Anche un albero o un uccello o un vestito o una casa o un’arancia o un paio di scarpe avrebbero preso la fuga, terrorizzati dalla voce soffocante. L’ immenso velo grigio o nero era stato lasciato cadere dalla Menzogna: una menzogna onniavvolgente e onnipresente, alla quale nei libri staliniani non si poteva sfuggire, diffondeva attorno a sé una specie di ipnosi nebbiosa. Anche la «logica scientifica», la ragione e l’analisi, che gli stalinisti fingevano di adorare, erano scomparsi. Non restava che uno spazio desolato e deserto, dove nessuno pensava. I libri staliniani erano pieni di nemici. Avevano molti nomi: korniloviani, denikiniani, menscevichi, kulaki, buchariniani, zinoveviani, kameneviani, rykoviani, che la Storia del partito comunista ricorda con puntigliosa precisione. Ogni mese, nasceva un nuovo fiore delittuoso. I nemici cambiavano nome, uscivano da tutti gli abissi e le fogne della terra, si moltiplicavano, si trasformavano, scomparivano chissà dove e poi riapparivano, cambiando testa e ali e artigli come diavoli medievali. Mai il cambiamento era apparente. I nemici erano sempre lo stesso nemico: il Malvagio. Cominciava col compiere colpevoli errori, faceva tenebrose deviazioni, indossava una o più maschere, una doppia o tripla faccia, prendeva soldi dai capitalisti, diventava una spia americana o nazista, e poi piombava nel baratro - assassinii, incendi, esplosioni di miniere, roghi di officine, sabotaggi di kolchoz, fascismo e nazismo. Tutte queste tappe erano fatali: tutti questi momenti necessari. Alla fine, grazie alla vigilanza del GLORIOSO COMPAGNO Stalin, i nemici venivano smascherati, e il loro volto nudo e ghignante appariva alla luce. Con gioioso senso del dovere il popolo li fucilava: dappertutto, da Vladivostok a Kijev, perché dappertutto si erano diffusi il crimine e il tradimento. Mi sono sempre chiesto quali fossero i sentimenti degli stalinisti russi, negli anni che videro il partito travolto da una violenza incomprensibile, che scendeva dall’ alto. Come potevano vivere senza linguaggio, senza parole, senza realtà, senza verità, senza ragione? Come abitare un mondo così atroce, deserto e vuoto? Molti conobbero terribili sofferenze interiori. Se tutto era morto, tanto valeva infilare il collo in un cappio, o tagliarsi la gola. Ma quell’ onda ipnotica, quella nube oscura, la voce misteriosa della grande macchina staliniana, risvegliavano anche sentimenti opposti. Qualcuno fu felice, quasi euforico. Ripetere sempre le stesse parole dava fiducia. Credere nell’ incomprensibile dava gioia. Obbedire sempre era un’esperienza quasi estatica. Uccidere la lingua, la verità, la ragione, soffocando le contraddizioni suscitava a volte l’impressione che tutti insieme, sulle orme di Stalin, stessero «scalando il cielo». * * * Il 5 marzo 1953, Stalin morì: non so come. Ma ricordo benissimo le fotografie del funerale: cielo nero, bara nera, grandi berretti di astrakan nero, qualche fiocco di neve; e Berija, Malenkov, Chruscev, Mikojan, Vorosilov, Molotov, Suslov che portavano a turno la bara. Il comunismo portava alle esequie se stesso, seppellendo il Padre mostruoso e amoroso, col quale si era identificato. Poi vennero le lacrime. Una parte dell’Unione Sovietica pianse chi l’aveva torturata, massacrata, fucilata: le vittime, o una parte di esse, amano spesso i propri torturatori. Durante e dopo i funerali, le folle piangenti si accalcarono, si schiacciarono, si soffocarono: a terra rimasero migliaia di morti. Una folta nube di dolore coprì anche l’Italia e la Francia. Non ricordo cosa disse Togliatti. Molti italiani piansero. In Francia, un episodio divertentissimo diede un lieve tocco di involontaria frivolezza al massimo funerale della storia. In quei tempi, Louis Aragon dirigeva Les lettres francaises, settimanale culturale del partito comunista. Anche lui soffrì e pianse. Nel numero di Lettres francaises, che uscì il 12 marzo 1953, paragonò la morte di Stalin alla morte di sua madre, avvenuta undici anni prima. Da tempo la madre aveva fiducia soltanto nel partito comunista; e, negli ultimi giorni di vita, che il figlio rievocava con commozione, ripeteva il nome di Stalin come in una giaculatoria. Chiedeva continuamente al figlio cosa aveva detto Stalin, là, nei lontani geli della Russia. Dubito che il figlio potesse risponderle: perché ormai le parole di Stalin erano ineffabili e impronunciabili, come quelle di Jahve tra le nubi e i suoni di tromba del Sinai. Con in mente quella doppia scomparsa, Louis Aragon ebbe un’idea che, per sua sfortuna, giudicò brillantissima. In occasione della morte di Stalin, voleva pubblicare su Lettres francaises un suo ritratto: lo chiese al compagno Pablo Picasso, che aveva dipinto le «colombe della pace», diffuse per il mondo a decine di milioni di esemplari. Mai volo pacifico era stato così sinistro. Immagino che Picasso nutrisse una specie di simpatia per Stalin: doveva apprezzarne l’ironia, la finta bonomia, il cinismo: sapeva che era un grandissimo mostro e lui aveva una conoscenza impareggiabile di tutti i mostri reali e fantastici. Pochi anni prima, Stalin aveva detto ad André Malraux una frase che, certo, aveva incantato Picasso: «Quanto a me, in arte, amo soltanto Shakespeare e il balletto». Picasso accettò l’invito. Cominciò a disegnare rapidissimamente, come era sua abitudine. Non amava lo Stalin ufficiale: a cavallo sui monumenti sovietici, col glorioso petto carico di medaglie; né gli piaceva l’Eroe della guerra patriottica, o il fedele compagno di Lenin, o il tremendo Sterminatore delle spie e dei traditori. A lui la storia interessava pochissimo. Il suo Stalin era un giovane contadino russo, con occhi profondi, folti baffi e una specie di strana innocenza. Forse, il suo Stalin non era ancora fuggito dal seminario, né aveva assalito banche e treni, e non immaginava ancora la Rivoluzione. Aragon non prevedeva la tempesta di indignazione e di maledizioni, che folgorò lui e Lettres francaises quando, il 12 marzo, il ritratto venne pubblicato. Sei giorni dopo, il partito comunista dichiarò: «La segreteria del partito comunista francese disapprova categoricamente la pubblicazione, su Lettres francaises del 12 marzo, del ritratto del grande Stalin disegnato dal compagno Picasso». Subito dopo, giunsero le lettere affrante e sconvolte dei comunisti di Parigi e della provincia. «Un simile ritratto non è all’altezza delle dimensioni del genio immortale di Stalin». «Quando un operaio parla del nostro compagno Stalin, è sempre con rispetto e senza nessuna fantasia». «In questi giorni, i lavoratori hanno cercato nelle fotografie e nelle opere degli artisti, i tratti amati del compagno Stalin. La minima alterazione, la minima trasposizione del suo pensiero e del suo viso sono intollerabili». Nel disegno di Picasso, Stalin era stato calunniato. La luce, l’intelligenza, la bontà, la grandezza, gli occhi dolcissimi che da settantatré anni guardavano amorosamente gli uomini che aveva redento: nemmeno un aspetto, un lineamento o un segno del «genio immortale» aveva lasciato una traccia nel disegno. Per molti anni, Aragon chinò il capo davanti agli ordini del partito, che gli imponeva di amare Stalin come la madre. Quanto a Picasso, parlando del suo disegno, disse: «Ho portato dei fiori per la sepoltura. Non sono piaciuti alla famiglia». Immagino che Stalin, nel profondo dei suoi confortevoli abissi, dove forse ammirava balletti infernali, abbia sorriso. P. S. Le notizie sulla storia di Aragon e di Picasso sono tratte da un bel saggio di Gérard Macé, compreso in Colportage III. Images, Gallimard 2001. Pietro Citati LA REPUBBLICA 02/08/2005

Il nemico - Vindice Lecis racconta gli intrighi e i misteri del PCI. Intervista del 2 maggio 2018 de L’Inkiesta

Grazie a questo libro del giornalista Vindice Lecis ho potuto ripercorrere parte della storia del PCI, un saggio che riesce ad essere avvincente come un romanzo. Come sempre vi propongo il libro in breve, l’intervista e infine una breve nota sull’autore. Con taglio narrativo, ma con l'ausilio di documenti d'archivio, in gran parte inediti, questo libro ripercorre il clima di sospetto e assedio in cui il Pci mosse i suoi primi passi nell'Italia del dopoguerra. Nel dicembre del 1951 un oscuro episodio, di cui esistono scarse testimonianze, coinvolse il segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti. Nella sua casa vennero sistemati dei microfoni spia dal capo della Commissione di Vigilanza, su precisa indicazione di alcuni uomini ai vertici del partito: Edoardo D'Onofrio, capo dell'Ufficio Quadri, e Pietro Secchia, responsabile della Commissione d'Organizzazione. Più che per spiare Togliatti, i microfoni furono messi per controllare la sua compagna Nilde Jotti, sospettata di essere in contatto con ambienti vaticani. Ma non si tratta dell'unico fatto misterioso che riguardò Togliatti in quegli anni. Nell'agosto del 1950 il segretario del Pci rimase ferito in un incidente stradale. La dinamica destò sospetti, e persino Stalin si disse convinto di un attentato. Pochi mesi dopo Togliatti perse conoscenza: operato d'urgenza si salvò, ma ordinò di condurre un'inchiesta approfondita sull'episodio. Il suo medico, infatti, aveva confidato a Pietro Secchia di temere che Togliatti fosse stato avvelenato. Con taglio narrativo, ma con l'ausilio di documenti d'archivio, in gran parte inediti, questo libro ripercorre il clima di sospetto e assedio in cui il Pci mosse i suoi primi passi nell'Italia del dopoguerra. Vengono anche riproposte le schede segrete dell'Ufficio Quadri e documenti che confermano l'opera di intelligence dei servizi, proprio mentre nasceva l'organizzazione Gladio. L’INTERVISTA:

1) La prima domanda che voglio farle è questa, il Pci era nato per fare la “rivoluzione “, di fatto si è rivelato un partito bigotto e conformista. È stata una peculiarità del Pci o era una caratteristica di tutti i partiti comunisti? (La “doppia morale” intendo).

"Il Pci è stato un partito rivoluzionario nato sull'onda della rivoluzione bolscevica del 1917 nel momento di sviluppo storico che imponeva un rivolgimento radicale in senso socialista. La sua fondazione, la sua crescita, i suoi errori e anche le sconfitte devono essere lette mettendo al centro il ruolo della classe operaia in grado, secondo i comunisti, di presentarsi come forza capace, alla testa di tutta la nazione, di guidare questa trasformazione. Il Pcd'I nasce come sezione italiana della III internazionale ma sviluppa sempre più e anche in condizioni di enorme difficoltà e persecuzione durante il fascismo, una sua idea originale di avanzata verso il socialismo nell'azione e nel pensiero di Gramsci e Togliatti sino alla guida di Berlinguer. In pratica il Pci divenne, grazie a queste intuizioni e scelte politiche, il cardine della lotta di Liberazione, uno dei fondatori della Repubblica democratica e fu alla testa delle battaglie per la Costituzione e le successive conquiste sociali. Non mancarono errori, sottovalutazioni ma bisogna capire che cosa abbia significato operare in un Paese che per decenni ha fatto della discriminazione anticomunista, quasi in continuità col fascismo, una delle sue caratteristiche. Per non parlare delle trame bere e del terrorismo rosso. Definirlo bigotto e conformista, alla luce della Costituzione e delle conquiste sociali realizzate grazie al Pci, mi sembra un'affermazione che francamente non mi sento di condividere, anche sulle questioni legate alle battaglie civili come il divorzio e l'aborto alle quali i comunisti diedero un contributo decisivo".

2) Secondo lei, se uno dei due attentati a Togliatti fosse andato a segno, con Secchia e Seniga alla guida che Pci sarebbe stato?

"Il Pci era un partito coeso e abbastanza immune dal culto della personalità anche nei confronti del proprio segretario generale. Ciò che contava realmente era la consapevolezza della propria funzione nazionale e democratica al di la della figura del segretario. Tuttavia, senza Togliatti questo partito non avrebbe avuto quel poderoso radicamento e quella funzione nazionale che poi ebbe. Secchia era una sorta di togliattiano riluttante, leale ma certamente diverso per formazione e prospettive da indicare. Certo assai legato al partito sovietico. Seniga è invece un personaggio minore di secondo piano che ebbe un ruolo invece nei gangli dell'apparato di vigilanza e tradì la fiducia dei suoi compagni".

3) Il nemico comincia con il racconto del momento in cui alcuni uomini del partito vanno a “piazzare” dei microfoni a casa di Togliatti e Jotti per spiarli. Il Pci nasce con il “germe” del complottismo interno, questa “dittatura” insita era inevitabile o è stato un errore umano?

"La vicenda delle cimici in casa di Togliatti non è un errore ma è una reazione paradossale all'esasperato clima di repressione anticomunista presente nel Paese - vorrei ricordare i settanta lavoratori uccisi dalla polizia in pochi anni - e dalla necessità di preservare un partito che contava due milioni di iscritti e aveva oltre il 20% di consenso elettorale. Quelle microspie sono il frutto anche dell'ossessione della vigilanza che, quella volta, mette nel mirino persino la compagna di Togliatti, Nilde Jotti sospettata di essere vicina ad ambienti cattolici e vaticani".

4) Rita Montagnana e Teresa Noce furono rispettivamente mogli di Togliatti e Longo. Entrambe sono state lasciate per donne più giovani. Poco male, se non fosse che il Pci volle giustificare, in un’ottica dal sapore borghese e maschilista, queste scelte dei suoi uomini, eppure le due tanto avevano fatto per il partito. Che ruolo hanno avuto dunque le donne nel Pci?

"Le donne del Pci combatterono nella Resistenza ed ebbero ruoli importanti nelle istituzioni e nel partito: oltre a Montagnana e Noce ricorderei anche Jotti, Nadia Spano, Camilla Ravera e altre. Tuttavia nel Pci pesava la contraddizione dell'essere un partito rivoluzionario che voleva evitare di essere considerato poco affidabile sui temi, ad esempio, della famiglia. Il ritardo fu evidente ma fu colmato presto. Il Pci negli anni cinquanta, certamente moralista, è molto diverso da quello degli anni settanta in poi."

5) Nel 1950 il Pci aveva più di 2 milioni di iscritti, riesce a descriverci l’italiano elettore del Pci di quegli anni?

"Un partito assai attivo, insediato profondamente nella società italiana, una sorta di stato parallelo con giornali, sedi, strutture, associazioni dopolavoristiche, persino agenzie di viaggio e reti commerciali e cooperative. E diecimila sezioni. Già alle amministrative del 1951 divenne la seconda forza politica del Paese consolidata nelle politiche del 1953, quando non scattò la legge truffa. In quell'anno il Pci ottenne il 20,1% di voti nel triangolo industriale Milano Torino-Genova, il 13,2% nelle cosiddette zone bianche del nord est, il 33,5% nelle regioni rosse, il 22,4% nel Mezzogiorno e il 21,7% nelle isole. Nel 1951 il 75% dei parlamentari era di estrazione operaia e bracciantile. Gli operai nel periodo dal 1950 al 1954 rappresentavano oltre il 40% degli iscritti".

6) Il Pci aveva una organizzazione molto militare. Ma dopo aver vissuto una dittatura, nell’immaginario collettivo questo aspetto del partito era abbastanza chiaro? Non faceva paura?

"I comunisti disponevano di un'organizzazione articolata e gestivano la vita interna secondo le regole del centralismo democratico e della disciplina interna, tipica dei partiti di formazione leninista. Disciplina che si fondava sulla libera adesione beninteso, ma anche sulla necessità di autodifesa negli anni del centrismo asfissiante. Il Pci aveva dei livelli riservati di azione in previsione di colpi di mano dell'avversario. Ma nulla di più".

7) Quando fu scoperta Gladio non so bene perché (ero giovane) ne rimasi sconvolta. Mi ricordo che ad una interrogazione un professore mi chiese quale evento di quelli accaduti nel 1989 sarebbe passato alla storia, si aspettava la risposta ovvia” la caduta del muro di Berlino “invece dissi Gladio (si arrabbiò!). Ma quando fu creata Gladio aveva davvero senso secondo lei o era una cosa tipo “meglio prevenire che curare”?

"Gladio fu avviata nel 1951 e resa concreta nel 1956 come formazione illegale della Nato in funzione anticomunista. Venne costituita all'insaputa del Parlamento e aveva ruoli e livelli di attività in contrasto con un paese democratico. Se lei collega Gladio alla P2 e alle altre organizzazioni riservate e deviate abbiamo un quadro di degenerazione gigantesca".

8) Giulio Seniga nel 1954 scappò con la cassa del partito. Sappiamo che accampò scuse di natura politica, ideologica, rimproverava a Togliatti di aver fatto abortire la rivoluzione. Ma oggi questo personaggio come è passato alla storia? Come un traditore o...

"Seniga era stato un bravo partigiano e divenne un uomo dell'apparato di vigilanza del Pci, assai vicino a Pietro Secchia. Certamente ebbe molti tratti ambigui e la sua vicenda appare ancora oggi poco chiara. Certo è che Togliatti utilizzò la fuga di Seniga con una parte dei soldi del partito per rimuovere il suo antagonista Secchia nel 1954, sostituito con Amendola alla guida della potente commissione di organizzazione. Scelta che forse non piacque ai sovietici".

9) Se dovesse mettere a confronto Togliatti e Berlinguer, secondo lei chi ha incarnato meglio lo spirito del suo tempo?

"Togliatti elaborò la linea della via italiana al socialismo che Berlinguer con la Terza via portò a un alto livello di ricerca. Togliatti fu il segretario della lotta al fascismo, del movimento comunista internazionale, del partito nuovo ma dentro la logica della Guerra Fredda. Enrico Berlinguer incarnò un'Italia nuova e onesta, del lavoro, della terza via e della totale autonomia del Pci nel contesto internazionale: il suo Pci fu al centro delle attenzioni dei comunisti e dei movimenti di liberazione e delle forze progressiste del mondo. Togliatti e Berlinguer sono però parte di una storia che ha fatto del Pci appunto un partito innervato nella storia repubblicana, pur con limiti e ritardi".

10) Intorno alle figure di Togliatti e Berlinguer è cresciuta nel tempo una iconografia encomiastica inossidabile. Tra i politici degli ultimi 20 anni secondo lei ci sono degli eredi (non per forza di sinistra)? Degli uomini che saranno ricordati a lungo?

Solo ora si sta attenuando la rimozione della figura di Togliatti e diradando l'alone nero che certa pubblicistica reazionaria gli ha cucito addosso. Invece di Berlinguer si preferisce solo quello della questione morale, depotenziandone tutte le altre idee che ebbe sulla democrazia, la pace e la coesistenza. Dopo la Bolognina per la sinistra è cominciato il declino anche nella qualità dei cosiddetti leader".

11) Io non ho ricordi miei di Berlinguer ma mi impressiona il fatto che Kissinger lo trovava pericoloso. Suggestione di quel momento storico o secondo lei col senno di poi era sopravvalutato?

"Per gli Usa i comunisti italiani erano un pericolo perché volevano superare la logica dei blocchi contrapposti e si opponevano a una concezione di guerra dello stare negli organismi come la Nato. Il Pci era totalmente autonomo da Mosca - e non piaceva nemmeno al Pcus - e puntava alla dignità nazionale. Troppo per Kissinger e altri fautori della sovranità nazionale. La stessa vicenda del terrorismo va inquadrata in quest'ottica. Moro fu ucciso dalle Br dentro una concezione atlantica che voleva impedire qualsiasi avvicinamento del PCI nell'area del governo".

12) Il Pci e la sinistra italiana hanno storicamente portato avanti strategie “sconfittiste “. Cosa ha tenuto in vita il Pci e tutte le sue numerose declinazioni secondo lei?

"Non capisco la domanda. Il Pci è stato sempre all'opposizione pur contribuendo allo sviluppo democratico del Paese da quella collocazione. Pur con il 33 % dei voti gli fu impedito di governare. Lo sconfittismo al quale lei allude forse riguarda i pallidi ed esangui epigoni di quella grande storia. Ma si tratta di cose diverse. La cosiddetta sinistra quasi scomparsa in Europa è perché negli ultimi anni è stata paladina delle più scellerate politiche di destra, dall'austerità al rigorismo a senso unico. Non è sinistra se si massacra lo stato sociale, si toglie l'articolo 18, si vuole manomettere la Costituzione e si colpiscono scuola e sanità e il precariato è la norma. Questo ha fatto un partito come il Pd che non è nemmeno lontano parente della sinistra storica italiana. Che, infatti, non ha lasciato eredi".

La domanda era, ammetto, capziosa ma taccio, in questo particolare momento mi capita di fare pensieri polemici sulla nostra sinistra... sorry!

13) Oggi un social network sembra essere lo strumento per influenzare gli elettori, una volta molto più semplicemente si sottraevano le schede elettorali, come sembra abbia fatto la Cia nel 1948 in Italia. Ma se avessero vinto i comunisti quell’anno, che Italia sarebbe stata?

"La vittoria della Dc nel 1948 fu netta, frutto di una forsennata e terroristica campagna anticomunista. Le truffe sembra che ci siano state ma non so quanto abbiamo potuto influenzare il risultato finale. Non credo comunque che se avesse vinto il Fronte popolare i cosacchi avrebbero fatto abbeverare i loro cavalli a San Pietro".

14) Infine. “Non si governa con il 51%” questa frase “rinunciataria” di Berlinguer è passata alla storia, potrebbe commentarla per favore?

"Quella affermazione era legata alla situazione determinatasi in Cile col colpo di stato fascista e la caduta dell'esperienza progressista di Unidad Popular di Allende. Berlinguer fu colpito da quella vicenda. Col compromesso storico, non indicava una formula di governo ma un'idea unitaria di rinnovamento del Paese. Per questo motivo, e solo in quella drammatica fase, pose il problema di un'intesa democratica. Che la Dc rifiutò. Mi piace però ricordare anche il Berlinguer che nel 1980 propose un'alternativa secca e definitiva alla Dc".

L’AUTORE. Vindice Lecis (Sassari, 1957), giornalista, ha lavorato per trentacinque anni per il gruppo Espresso. È autore di romanzi storici e saggi sulla politica italiana del Novecento e sulla storia antica della Sardegna, tra cui La resa dei conti (2003), Togliatti deve morire (2005), Da una parte della barricata (2007), Le pietre di Nur (2011), Golpe (2011), Buiakesos: le guardie del Giudice (2012), Il condaghe segreto (2013), Judikes (2014), Rapidum (2015), Le pietre di Nur (2016). Per Nutrimenti ha pubblicato La voce della verità (2014) e L’infiltrato (2016). IL NEMICO - VINDICE LECIS - NUTRIMENTI 2018

Togliatti e Stalin, il gran rifiuto. Non accettò la guida del Cominform. Gianluca Fiocco, «Togliatti, il realismo della politica» (Carocci, pagine 478, euro 39). Un libro di Gianluca Fiocco (Carocci) analizza le scelte cruciali del leader comunista. Le aperture alla Dc, i contrasti con Krusciov, il plauso all’invasione dell’Ungheria, scrive Paolo Mieli il 29 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Insorti attorno all’enorme statua di Stalin che fu abbattuta a Budapest durante la rivoluzione del 1956. Togliatti approvò in pieno, anzi con una lettera sollecitò, l’intervento militare sovietico per stroncare la rivolta nel sangue. Un articolo dello scrittore Francesco Piccolo pubblicato su «la Lettura» del «Corriere della Sera» nel febbraio 2014 (intitolato Rivalutare Togliatti) ha offerto a Gianluca Fiocco lo spunto per un libro, Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, pubblicato dall’editore Carocci. Dopo la fine dell’Urss e del Pci, scrive Fiocco, «la damnatio memoriae calata sull’intera parabola del comunismo novecentesco» ha condizionato pesantemente l’opinione nei confronti di Togliatti. Tant’è che spesso ai tempi della cosiddetta Seconda Repubblica si è levata la richiesta di eliminare intestazioni al segretario del Pci in molte vie e piazze d’Italia. Ma oggi le cose sembrano essere cambiate e quell’articolo di Piccolo scritto nel cinquantenario della sua morte ha segnato il «forse involontario» avvio di discussioni con «toni più pacati», ha contribuito a determinare un clima «più propizio a una valutazione equilibrata della sua figura e più atto a recepire le acquisizioni maturate in sede storiografica». Valutazione che rende oggi possibili giudizi più sfumati sui suoi rapporti con Gramsci, con Stalin, e sul suo intervento nella politica italiana del secondo dopoguerra. Fiocco non si propone di «rivalutare Togliatti», ma prova ad offrircene un quadro più sfaccettato. Vuole così spiegare che cosa rese possibile che al momento della sua morte (agosto 1964) gli italiani furono forse sorpresi da una manifestazione pubblica di cordoglio che non aveva precedenti. Non si è mai visto «niente di simile né a Roma né in Italia», scrisse sull’«Espresso» Manlio Cancogni: «Nemmeno per i funerali di Giuseppe Verdi». L’autore ripercorre gli studi di Togliatti all’Università di Torino, l’incontro con Antonio Gramsci e i loro primi contrasti, l’esperienza de «L’Ordine Nuovo», la nascita nel 1921 del Pcd’I, il suo primo arresto, la vita a Mosca negli anni dell’Italia fascista. Poi il ritorno in Italia, la «svolta di Salerno», la fondazione della Repubblica, la sconfitta alle elezioni del 18 aprile 1948, l’attentato subito nel luglio di quello stesso 1948, il conflitto con il dittatore dell’Urss negli anni precedenti alla sua scomparsa (1953), la denuncia dei crimini di Stalin al XX Congresso del Pcus (1956), la reazione del Pci al primo centrosinistra (1963), la morte a Jalta e il memoriale che lasciò ai compagni (1964). Fiocco non tace certo della compromissione di Togliatti con il regime staliniano. Ma si sofferma anche sulla sua complessità, da cui esce un’immagine più variegata. Un esempio? A fine agosto del 1950, Togliatti ebbe, com’è noto, un incidente automobilistico a Ivrea mentre stava andando in vacanza in Val d’Aosta. Batté fortemente il capo, ma in un primo tempo sembrò che si sarebbe rimesso in tempi relativamente rapidi. Ad ottobre, però, le sue condizioni di salute si aggravarono. Fu ipotizzato un ematoma o un tumore al cervello e si rese necessario un intervento d’urgenza. La vicenda, scrive Fiocco, «lasciò uno strascico di ombre e sospetti». Pietro Secchia riferì in seguito che fu lo stesso Togliatti a chiedergli di «condurre un’indagine accurata» su quel che gli era accaduto: «Un’indagine su tutti, nessuno escluso». Perché? Il sospetto era che la vettura su cui viaggiava Togliatti fosse stata sabotata e che perciò quel che era capitato ad Ivrea non fosse stato un «vero incidente». Sempre Secchia riferì che Mario Spallone, medico del segretario comunista, avanzò l’ipotesi che a danno del suo paziente fosse in corso un «avvelenamento». Fu in questo clima che Stalin invitò Togliatti a Mosca per ulteriori accertamenti clinici. Ma il capo del comunismo sovietico aveva in mente anche qualcosa d’altro.

Vediamo i fatti. Il segretario del Pci partì per Mosca il 17 dicembre. Appena giunse nella zona d’occupazione sovietica in Austria, sorprendentemente, ricevette la conferma che il progetto staliniano non si limitava alle cure mediche: il suo treno venne accolto da un picchetto d’onore e da quel momento «fu tutto un susseguirsi di attenzioni particolari, in genere riservate solo ai capi di Stato». Quando poi il convoglio entrò in territorio russo, Togliatti si accorse che «fin nelle stazioni più piccole erano in attesa soldati e delegazioni, ferme sotto la neve anche durante la notte, lì giunte per rendergli omaggio». Eccessivo per un viaggio di convalescenza di un leader pur importante quale era Togliatti. Il quale capì che cosa era stato progettato per lui appena giunse a Mosca, allorché Stalin in persona si recò a fargli visita e, dopo un brevissimo preambolo, gli propose di lasciare l’Italia e di trasferirsi a Praga per assumere la guida del Cominform. Togliatti provò a divincolarsi da quell’«offerta» e chiese che fosse convocato a Mosca un membro della segreteria del Pci il quale, sperava, avrebbe perorato la causa di una sua permanenza a Roma, ai vertici del Partito comunista italiano. Stalin ne convocò due, i più importanti: Secchia e Luigi Longo. I quali, in una riunione alla quale furono presenti anche Molotov e Malenkov, a sorpresa appoggiarono l’iniziativa del dittatore georgiano. E non avvenne solo questo. Secchia e Longo, rientrati in Italia, convocarono la direzione del Pci che quasi all’unanimità si schierò a favore del trasferimento del loro capo alla guida del Cominform. Si dissero contrari solo Umberto Terracini, Teresa Noce e Giuseppe Di Vittorio. Togliatti fu costretto a far ricorso a tutta la sua sottigliezza per convincere Stalin a lasciarlo tornare a Roma — sia pure in via provvisoria — per affrontare le imminenti battaglie politiche (anche se probabilmente il capo del Partito comunista dell’Urss comprese però che la sua iniziativa era andata definitivamente in fumo). E Togliatti poté rientrare in Italia. La sua partenza da Mosca, racconta Fiocco, «avvenne di notte in una stazione ferroviaria deserta: nessun dirigente sovietico si recò a salutarlo e non vi fu neppure l’ombra degli onori ricevuti nel viaggio di andata». Passando per Praga, Togliatti ebbe un rapido incontro con Rudolf Slansky, il leader politico che di lì a breve sarebbe stato condannato a morte. Tornato a casa, il segretario del Pci affrontò la preparazione dei lavori in vista del VII Congresso del suo partito che si sarebbe tenuto nell’aprile del 1951. E lo fece in maniera imprevista: andò a presiedere il congresso della federazione comunista milanese «roccaforte operaista», scrive Fiocco, «dove le idee del partito nuovo non erano penetrate a fondo come in altri luoghi». Il clima della guerra fredda e le dure vertenze sindacali avevano provocato negli anni recenti un irrigidimento rispetto alle aperture del dopoguerra «determinando una vita di partito abbastanza ripiegata al proprio interno e concentrata sui problemi della resistenza organizzativa nella fabbrica». Al termine dei lavori, Togliatti pronunciò un discorso che era «agli antipodi di questa prospettiva». Prevedendo, forse, che avrebbe provocato un certo clamore annunciò la disponibilità dei comunisti a «cessare la loro opposizione», se si fosse formato un «governo di pace, non più prono agli interessi dell’imperialismo americano». Il Pci, «cosciente dei limiti imposti dalla situazione internazionale, non avrebbe preteso di far parte di un simile governo, ma avrebbe sostenuto responsabilmente le misure atte a marcare l’indipendenza del Paese». Parole sorprendenti, ancorché in qualche sintonia con le più recenti dichiarazioni staliniane che prospettavano la «non inevitabilità» di un nuovo conflitto mondiale. Sorprendenti perché non c’era in Italia nessun segnale che la Democrazia cristiana, forte del voto plebiscitario ottenuto il 18 aprile del 1948, potesse accingersi a dar vita ad un esecutivo come quello prospettato dal leader comunista. Tanto più nel periodo storico in cui era in corso la guerra di Corea (1950-1953), che quasi tutti ritenevano potesse degenerare in un terzo conflitto mondiale, che avrebbe opposto il «mondo libero» a quello comunista. È più probabile che Togliatti, con quel discorso di Milano, volesse mandare un segnale all’ampio settore post resistenziale del proprio partito che ancora si dedicava, segretamente, a costruire una prospettiva insurrezionale e rivoluzionaria. Togliatti fu di nuovo a Mosca a febbraio del 1956 per il XX congresso del Pcus, quello in cui Krusciov avrebbe fatto a pezzi la figura di Stalin (morto tre anni prima). Tornò nella capitale dell’Urss, scrive Fiocco, «con il carico dei suoi ricordi e provò come un tempo l’insofferenza per gli eccessivi controlli». Rifiutò di «stare in una villetta a parte — trattamento che per il suo rango gli sarebbe spettato — per socializzare e subire una sorveglianza meno oppressiva». Nei discorsi iniziali delle assise si parlò genericamente di violazioni commesse da «una certa personalità». Ma tutti compresero chi fosse quella «personalità». Vittorio Vidali chiese allora al segretario del Pci fino a che punto i sovietici si sarebbero spinti nella critica a Stalin e lui rispose che a suo avviso «non lo avrebbero liquidato, non vi sarebbe stato uno screditamento totale della sua figura». Sbagliava. Nel «rapporto segreto» Stalin venne descritto come un «paranoico responsabile di tragedie inenarrabili, dall’uccisione di tanti innocenti al tempo delle grandi purghe agli errori strategici commessi all’epoca dell’aggressione hitleriana». Quel documento venne mostrato di notte a Togliatti mentre era in albergo: «Ne poté prendere visione senza trattenerne una copia, con la consegna di non rivelarne l’esistenza».

Tornato a Roma, mentre sui giornali «borghesi» uscivano le prime indiscrezioni sulle denunce di Krusciov, Togliatti non diede ai dirigenti del Pci ragguagli circostanziati. Entrò in dettaglio con Tito registrando come anche il leader jugoslavo fosse rimasto perplesso circa la mancata indicazione di quel che nel sistema sovietico aveva reso possibile che si sviluppasse il «culto della personalità». Ancora più severo il giudizio del capo dei comunisti francesi Maurice Thorez, che volle incontrare Togliatti per esprimergli il proprio sdegno: «Quanto fango quel Krusciov ha fatto ricadere su tutti noi! Con le sue rivelazioni ha sporcato un passato luminoso, splendente, eroico. Una bella porcheria non c’è che dire». Il capo dei comunisti francesi non riuscì però a convincere il leader del Pci a rendere pubblica questa presa di distanze. Quando poi, il 4 giugno, il «New York Times», pubblicò il testo integrale del «rapporto segreto», Togliatti reagì con un’intervista a «Nuovi Argomenti» in cui riconosceva i misfatti imputati a Stalin, ma bocciava la teoria del «culto della personalità»: «Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo, ora tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti», protestò. Nelle settimane successive disse che quei mali erano riconducibili ad una «degenerazione burocratica» del sistema sovietico. I dirigenti del Pcus gli rimproverarono di aver fatto ricorso ad una «formulazione trotskista». Su queste tensioni, in autunno si innestarono nei Paesi dell’Europa dell’Est due vicende di insubordinazione all’Urss: la prima in Polonia, la seconda in Ungheria. In entrambe Togliatti si schierò inizialmente dalla parte degli innovatori. In Polonia le cose si risolsero con l’arrivo al potere del «riformatore» Wladyslaw Gomulka. In Ungheria l’ascesa di Imre Nagy — che avrebbe dovuto essere il Gomulka di Budapest — provocò invece due interventi armati dell’Urss che spinsero il Pci a schierarsi, dopo molte lacerazioni interne, dalla parte di Mosca. Ma, nonostante ciò, i rapporti con Krusciov rimasero gelidi e il Partito comunista dell’Urss cercò ulteriormente di isolare quello italiano che si batteva per una propria autonomia. Nagy, imprigionato in Romania nel gennaio del 1957, cercò di ottenere il sostegno di Togliatti a favore di una «commissione internazionale d’inchiesta» formata dai «rappresentanti dei partiti fratelli». Commissione che avrebbe dovuto appurare ciò che era accaduto davvero in Ungheria. Evidentemente Nagy riteneva di poter fare affidamento su Togliatti. Ma questi neanche gli rispose. L’anno successivo Nagy fu impiccato e Togliatti in una Tribuna politica del 28 giugno 1961 sostenne che la sentenza era stata «giusta» dal momento che Nagy aveva «commesso dei delitti». Togliatti sarebbe poi morto a Jalta nell’agosto del 1964. Poche settimane dopo in quello stesso anno Krusciov sarebbe stato destituito.

Bibliografia. La biografia più ampia del leader comunista è Palmiro Togliatti di Aldo Agosti (Utet, 1996). Molto più critico verso il segretario del Pci il saggio di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky Togliatti e Stalin (il Mulino), la cui edizione più aggiornata è del 2007. Pionieristici, ma sempre validi, i libri di Renato Mieli Togliatti 1937 (Rizzoli, 1964) e Giorgio Bocca Palmiro Togliatti (Laterza, 1973). Dedica ampio spazio all’opera di Togliatti dopo il 1943 il saggio appena uscito di Giuseppe Vacca L’Italia contesa (Marsilio, pagine 346, euro 19). Sottolinea l’asprezza dei contrasti fra Togliatti e Antonio Gramsci il libro di Mauro Canali Il tradimento (Marsilio, 2013). Da ricordare anche la raccolta di saggi Le ceneri di Togliatti, a cura di Mario Baccianini (Lucarini, 1991).

MA STALIN DISSE DI NO, scrive Simonetta Fiori il 23 settembre 1994 su "La Repubblica". Un incontro ufficiale tra Stalin e Togliatti da tenersi nella primavera del 1948, alla vigilia delle elezioni in Italia? Ma non se ne parla neppure lontanamente: questi italiani devono esser proprio matti. Certo Andrej Zdanov, homo sovieticus esemplare nella sua rigidezza, temutissimo generale dell'Armata Rossa a Leningrado, non avrebbe mai immaginato di dover dare lezioni di autonomia italiana al compagno italiano Pietro Secchia. Siamo a Mosca, nel dicembre del 1947. La proposta che gli ha appena formulato Secchia - una proposta nata da Togliatti - lo lascia di stucco: un colloquio con i crismi dell'ufficialità tra il segretario del Pci e il vertice del Pcus, Stalin o Molotov, nel quale i sovietici avrebbero dovuto promettere aiuti economici all' Italia in caso di vittoria delle sinistre. Ma con un simile passo, obietta Zdanov a Secchia, i sovietici si sarebbero messi sullo stesso piano degli americani, dando luogo a una violazione dell'indipendenza nazionale e della sovranità del paese. Niente da fare: Stalin non vuole dare l'impressione di ingerire sugli affari italiani. Zdanov più ' democratico' di Secchia? Stalin più accorto di Togliatti? Dopo quarantasette anni, le segrete carte del Cominform - il segretissimo Ufficio internazionale nato il 22 settembre del 1947 a Szklarska Poreba, in Polonia - riscrivono in modo singolare anche la storia dei rapporti tra Pci e Pcus tra il 1947 e il 1948. Un nuovo film in cui sfila un prudentissimo Stalin, tenacemente contrario alla insurrezione armata nel nostro paese e ben attento a non sfidare l'avversario Usa sul terreno italiano. E poi l' “ambiguo” Secchia che, nel corso del suo viaggio a Mosca, nelle sedi ufficiali interpreta fedelmente il verbo togliattiano (no all'insurrezione in Italia) ma poi s' infiamma per la lotta armata. E ancora i tanti compagni italiani che cedono alle pressioni estremistiche degli jugoslavi (sì all' insurrezione in Italia, su modello greco) più di quanto finora si sospettasse. Queste nuove carte fanno parte di un archivio più ampio che la Fondazione Feltrinelli sta per pubblicare in prima edizione mondiale bilingue (The Cominform. Minutes of the three Conferences 1947/ 1948/ 1949, a cura di Giuliano Procacci, Anna Di Biagio, Francesca Gori, Silvio Pons e i russi Adibekov e Leonid Gibjanskij). Con quali vantaggi per la conoscenza storica? "Oggi", spiega Silvio Pons, "siamo in grado di costruire con maggiore sicurezza l'impostazione data dai sovietici alla prima Conferenza del Cominform, con qualche sorpresa sul fronte della politica estera staliniana tra il 1947 e il 1948: la controffensiva verso la sfera d' influenza occidentale venne ridimensionata e rimandata a tempi migliori". In che cosa consista questa ' sfida mancata' lo spiega diffusamente lo stesso Pons nella relazione che leggerà stamane al Convegno di Cortona, L' Unione Sovietica e l'Europa nella guerra fredda, promosso sempre dalla Fondazione Feltrinelli. Innanzitutto la grande cautela di Stalin nei confronti dell'ipotesi insurrezionale in Italia, sostenuta invece dagli jugoslavi. E qui occorre introdurre il viaggio di Secchia a Mosca (dicembre 1947), a cui si faceva riferimento all' inizio. "Il dirigente italiano", spiega Pons, "incontrò due volte Zdanov (12 e 16 dicembre) e una volta Stalin, alla presenza di Zdanov e Malenkov (14 dicembre). Da un appunto su quest' ultimo incontro, conservato nel fondo personale di Zdanov, risulta evidente che nella sua esposizione Secchia aveva chiesto il parere dei sovietici sulla prospettiva insurrezionale, riferendo che Togliatti si rifiutava di porre l'alternativa secca tra insurrezione e pacifico sviluppo parlamentare. Stalin in persona prese atto del messaggio politico inviato da Togliatti e dell'inopportunità di porre all'ordine del giorno l'ipotesi dello scatenamento di una guerra civile in Italia". I toni di Secchia si fanno assai più infiammati quando s' avvia alla sezione di Politica Estera del Comitato centrale del Pcus. Lo stenogramma del discorso rivela un suono diverso dalla campana di Togliatti. "Secchia", continua Pons, "criticò le illusioni parlamentaristiche dei compagni italiani in una chiave retrospettiva, riecheggiante le critiche di matrice jugoslava. E nelle conclusioni egli ricordò che la lotta per la estensione della democrazia si svolgeva pur sempre in un paese dove le posizioni della reazione sono ancora forti e che il partito doveva comunque esser pronto a passare alla lotta armata in caso di necessità". Ai sovietici non dovette sfuggire la diversità d' accento, ma la soluzione cui erano pervenuti sul fronte italiano consisteva nella formula né autonomia né insurrezionismo, non avendo alcuna intenzione di esporsi fino in fondo. "Questa scelta era implicita anche nel rifiuto secco alla proposta, che Secchia presentò a nome di Togliatti, di preparare un incontro ufficiale tra i due partiti alla vigilia delle elezioni in Italia". Prima s' è accennato a una nutrita minoranza del Pci che, in opposizione a Togliatti, confidava in una soluzione armata. "Quanto sia stata consistente è difficile dirlo", conclude Pons. "Ma certamente in molti erano sensibili alle critiche che venivano da Belgrado. C' è poi la testimonianza di Matteo Secchia, fratello di Pietro e segretario di Togliatti, il quale riferì all' ambasciatore Kostylev che le pressioni degli jugoslavi erano addirittura cresciute dopo le elezioni del 18 aprile. Ed egli stesso fece ammenda per aver guardato alla Jugoslavia come la nostra retrovia in caso di scontro con gli americani".

Quando Togliatti disse: «Dove c’è la pace, c’è Stalin», scrive Eugenio Cipolla (Segnalazione Quelsi) l'8aprile 2014 su Agerecontra. “Fu una lotta terribile nel corso della quale ho dovuto distruggere dieci milioni di vite. Fu qualcosa di spaventoso. Durò quattro anni ma fu assolutamente necessario». Rileggere la confessione che un giorno Josip Stalin fece al premier inglese Winston Churchill sulla gigantesca carestia prodotta artificialmente in Ucraina nei primi anni trenta del novecento per piegare i contadini, ai quali fu requisito il raccolto e proibita la vendita privata di qualunque prodotto, fa male. E poco importa che siano passati quasi settant’anni. E’ per questo che ci siamo presi la briga di accompagnare le parole del dittatore georgiano, riportate dallo storico Simon Sebag Montefiore nel suo libro Gli uomini di Stalin, al “commuovente” elogio funebre che Palmiro Togliatti fece nell’aula di Montecitorio il 6 marzo 1953, all’indomani della morte di Stalin. Sarà il lettore a trarne le dovute conclusioni. «Questa notte Giuseppe Stalin è morto. E’ difficile a me parlare, signor Presidente. L’anima è oppressa dall’angoscia per la scomparsa dell’uomo più che tutti gli altri venerato e amato, per la perdita del maestro, del compagno, dell’amico. Ma questa stessa angoscia, onorevoli colleghi, stringe oggi il cuore di diecine di milioni, anzi di centinaia e centinaia di milioni di uomini, da oriente ad occidente, nel mondo intero; stringe il cuore, anzi, di tutta l’umanità civile, perché non è necessario avere di Giuseppe Stalin condiviso le idee, esaltato le opere, per rimanere percossi, attoniti, nel momento in cui si chiude questa vita prodigiosa. Solo un animo meschino, cattivo, spregevole, potrebbe essere capace in questo momento di recriminazioni vane. Giuseppe Stalin è un gigante del pensiero, è un gigante dell’azione. Col suo nome verrà chiamato un secolo intero, il più drammatico forse, certo il più denso di eventi decisivi della storia faticosa e gloriosa del genere umano: è il secolo in cui finisce un ordine economico politico, muore una civiltà, e un ordine e una civiltà nuovi si generano e creano dal lavoro, dalla passione, dalle sofferenze anche, degli uomini. Stalin fu artefice geniale di questa creazione immane, capo riconosciuto della classe più avanzata che mai sia apparsa sulla scena della storia, guida di popoli sopra un cammino nuovo. Insieme con Lenin, Egli fu a capo della rivoluzione socialista dell’ottobre 1917, il più profondo rivolgimento politico e sociale che mai sia stato. Insieme con Lenin, Egli gettò le basi del nuovo ordinamento economico e politico, le fondamenta dello Stato socialista. A lui spettò poi affrontare, dibattere, risolvere i problemi formidabili, nuovi, assolutamente nuovi, posti dallo sviluppo e dal consolidamento di questo Stato.

Li risolse: superò le difficoltà oggettive, trionfò di tutti i nemici, di quelli di fuori, di quelli di dentro; il suo paese, il primo paese socialista, fu da lui portato al rinnovamento economico, al benessere, alla compatta unità interna, alla potenza. Oggi il primo nel mondo per lo slancio produttivo ininterrotto, per la fiducia profonda che anima i popoli che lo abitano, passati attraverso mille prove, oggi uniti nella sicurezza del loro avvenire. Stalin li ha guidati, Stalin continuerà a guidarli con il suo insegnamento immortale. Nella grande famiglia dei popoli e degli Stati che dall’inizio della prima guerra mondiale a oggi hanno vissuto e vivono ore di tragedia, lacerati, spinti gli uni contro gli altri in conflitti sanguinosi, ogni volta che viene pronunciata una parola di pace, ogni volta che si compie un atto che può assicurare la pace, ivi troviamo Stalin, la sua mente saggia, prudente, il suo animo sollecito di assicurare ai popoli quella che è necessità prima alla loro esistenza: la pace; e non solo per un giorno o per un anno, ma per un intero periodo della storia, una pace fondata su comprensione, tolleranza, collaborazione reciproche. Stalin fu l’alfiere della politica di sicurezza collettiva alla vigilia della seconda guerra mondiale. Quando vide fallire questa politica davanti alla brutale offensiva fascista e alla doppiezza e pusillanimità di altri gruppi dirigenti, Stalin fece almeno tutto quello che poteva per salvare dal flagello della guerra fino all’ultimo i popoli sovietici. Quando i popoli sovietici, nonostante tutto, furono vilmente aggrediti, li condusse alla vittoria più grande che si potesse sperare. Durante tutta l’ultima guerra da Stalin venne a tutti i popoli amanti di libertà e di pace l’ammonimento severo ad unirsi, a combattere uniti perché questa era la sola via di vittoria. Perciò la vittoria militare sul fascismo avrà nella storia prima di tutto il nome di Stalin e il nome di Stalin ha oggi per tutti i popoli quella politica che vede e cerca nella pacifica convivenza fra sistemi economici e politici diversi la via sicura di una pace durevole per tutto il genere umano. Proposte di pace furono tutte quelle da Lui fatte nel corso degli anni più recenti fino all’ultima del Natale dell’anno scorso, che ha acceso tante speranze non ancora spente. Sicuri interpreti dell’animo del popolo italiano, onoriamo in Stalin il fondatore e capo dello Stato socialista, il vittorioso sul fascismo, l’alfiere della pace. Inchiniamoci all’uomo che ha incarnato in sé, difeso, portato al trionfo una causa che è nel cuore di tutti gli uomini semplici, la causa del progresso sociale, del socialismo, della fraternità fra tutte le nazioni. Onoriamolo come italiani. È stato Stalin – nessuno può averlo dimenticati – che nel terribile 1944 per primo tese al nostro popolo la mano. Ricordo il colloquio con lui in quell’anno, prima del mio ritorno in Italia, per il nostro paese, che pure il fascismo aveva gettato contro la Russia in una guerra scellerata: Egli non ebbe che parole di comprensione, sollecitudine per il nostro avvenire, per la restaurazione completa dell’indipendenza del nostro popolo. Primo egli riconobbe, mentre ancora durava la guerra, la sovranità dello Stato italiano e ci offrì, con l’amicizia, una strada che sarebbe stata quella della salvezza totale e rapida non solo della sovranità, ma dell’integrità nostra. Inviamo l’espressione del nostro cordoglio al Governo sovietico, al partito comunista, ai popoli dell’unione Sovietica: Sappiamo quanto grave ed irreparabile sia per loro, come per noi, come per tutta l’umanità, la perdita di Stalin. Siamo certi che gli uomini e i popoli da lui educati e guidati sapranno andare avanti, fermi, sicuri di sé, sulla via di progresso e di pace da lui tracciata. L’eredità che egli lascia nella dottrina e nell’azione politica, la strada che egli ha impresso nella mente e nel cuore degli uomini è troppo profonda perché da essa ci si possa dipartire. Scompare l’uomo, si spegne la mente del pensatore intrepido, ha un termine la vita eroica del combattente vittorioso. La sua causa trionfa, la sua causa trionferà in tutto il mondo. Io le sarei grato, signor Presidente, se, a significare il nostro cordoglio, ella volesse disporre una sospensione della seduta».

Palmiro Togliatti, un democratico alla... Stalin: la contro-opinione, scrive Italo Francesco Baldo, Sabato 23 Agosto 2014 su Vicenza più. Che la nota di Giorgio Langella su Palmiro Togliatti scatenasse una qualche reazione era abbastanza prevedibile. Ecco quella dell'altra nostra "firma libera" schierata, anche questa notoriamente, su posizioni oppose a quelle del segretario regionale del PdCI: Italo Francesco Baldo. Palmiero Togliatti, il Migliore era definito, colui che considerò, come tutti i comunisti la democrazia, come affermava Lenin, solo un passaggio per l'avvento del comunismo e non la vera condizione di una Stato (nella foto a sx Togliatti con gli altri membri del Komintern al VII Congresso nel 1935). La storia gli ha dato torto e in modo preciso, perché gli stessi suoi eredi, non aspirano, tranne qualche piccola percentuale, ad affermare il regime totalitario che Lenin prima e Stalin poi avevano costruito in Russia. Proprio in URSS Togliatti trovò rifugio e non risulta che aiutasse il povero Antonio Gramsci. Nessuno se ne curò, rimase in Italia e di lui si occupò il Tribunale Speciale, come ben sappiamo. Una pagina su cui non si è mai fatta ben luce, ovvero su come mai il Segretario del Partito Comunista d'Italia non fu il primo ad essere consigliato di recarsi nel territorio sovietico per salvaguardarsi e dove già si trovavano la moglie e i figli. Togliatti visse all'ombra di Stalin e lo accettò in tutto e per tutto: la Siberia era lontana, più vicine le isole Soloveckie, note anche con il nome di Solovki, un arcipelago del Mar Bianco dove fu relegato prima di essere fucilato dai comunisti il filosofo e matematico Pavel Florenskijk. Non risulta poi, ad esempio, che vi siano posizioni contro le leggi razziali provenienti dall'URSS e dagli esuli, ma forse il regime sovietico stava già trattando con il nazionalsocialismo per occupare la Polonia. Non va dimenticato che lo scoppio della seconda guerra mondiale fu un accordo comunismo-nazionalsocialismo. Che disse Togliatti? Che fece Togliatti? Nulla. Accettò, perché gli conveniva ed opporsi a Stalin significava se non la Siberia almeno le isole. Arrivò in Italia quando il re Vittorio Emanale II con Badoglio si era illusoriamente sbarazzato di Mussolini e attuò la famosa svolta di Salerno. In realtà fu una scelta tattica e non strategica, come insegnava Lenin in Stato e rivoluzione, perché l'obiettivo per Togliatti rimase sempre e comunque il comunismo, Accettò pro tempore la democrazia in Italia con la Costituzione e si accattivò i cattolici, accettando il Concordato, consapevole che molti esponenti dello stesso partito della Democrazia Cristiana, Dossetti e pure il vicentino Rumor, guardavano con simpatia a sinistra. Togliatti scelse la lunga marcia attraverso le istituzioni per giungere al potere. Riuscì? Ah, sì, ma solo con D'Alema e ci risparmiamo i commenti che gli stessi epigoni del comunismo fanno nei suoi confronti. Togliatti operò una scelta tattica, dicevamo, e ad essa si mantenne fedele. Ne è prova il collateralismo a Stalin e successori nelle insurrezioni polacca e ungherese, per le quali i democratici che si ribellarono al comunismo furono bollati da "teppisti", disse un noto esponente comunista di Napoli che mai ha chiesto almeno scusa per quelle sue frasi, anche quando portò una corona al monumento dei caduti della rivolta. Non sappiamo come il Migliore avrebbe considerato la primavera di Praga e come avrebbe agito nei confronti degli esponenti de Il manifesto, ma certamente non avrebbe accettato gli scissionisti, perchè il partito doveva essere monolitico. Fu, a differenza di molti suoi seguaci e estimatori odierni, anche un vero politico, capace di impostazioni teoriche e di azioni conformi, come quella qui sotto riportata, e reperibile sul web. Come per Enrico Berlinguer esiste anche per Palmiro Togliatti una precisa agiografia e ad essa ci si richiama, dimenticando i lati oscuri. Forse sarebbe bene iniziare una critica storica e valutare alla luce di quello che ha prodotto l'idea seguita da Togliatti. Quest'idea non ha attualità, anche se sarebbe auspicabile che vi fossero politici e politiche con la capacità che al Migliore va comunque riconosciuta. Italo Francesco Baldo

Stalin a Togliatti: colpire i cattolici. Nel 1949 il leader sovietico confidò al segretario del Pci: in Italia è la Chiesa la forza più pericolosa per noi, scrivono Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky Sabato 23 Agosto 2014 su Vicenza più. Nel dicembre 1949, durante le celebrazioni del settantesimo anniversario di Stalin, si radunarono a Mosca tutti i dirigenti dei paesi del blocco sovietico e del movimento comunista internazionale. Stalin ebbe incontri personali con i più importanti tra loro, e tra questi il 26 dicembre ricevette Togliatti. Il verbale di questo incontro non si trova negli archivi di Mosca, perché esso si svolse in russo, e non richiedeva quindi la presenza di un traduttore, che ne avrebbe trascritto il verbale. Il contenuto dell'incontro ci è noto per la sintesi fattane da Togliatti, il cui testo si trova nelle carte di Togliatti, presso la fondazione dell'Istituto Gramsci. Il documento è stato ampiamente citato in un saggio del 1992 da Silvio Pons, che però in quel periodo non poteva essere certo dell'identità dell'interlocutore di Togliatti, indicato soltanto con la lettera S2. L'importanza del documento è data dal fatto che questo fu il primo incontro tra Togliatti e Stalin dopo quello avvenuto prima della partenza di Togliatti da Mosca nel marzo 1944. I due leader discussero sia la situazione interna italiana che quella internazionale. Anche se i contenuti del colloquio sono riportati da Togliatti in modo sommario, e nonostante l'andamento altalenante del discorso che passa più volte dalla situazione interna del Pci e dell'Italia a quella internazionale, sono chiari i temi dominanti. Nel caso italiano, la conversazione verte sulla questione dei rapporti di forza all'interno del paese e sulle prospettive di una partecipazione comunista al governo e di un'eventuale presa del potere. Di fronte all'eterna alternativa tra un'azione insurrezionale e la crescita graduale del consenso popolare attraverso metodi legali, è Togliatti a porre la domanda cruciale: «Si può forzare?», per mostrare la sua disponibilità di fronte alla costante pressione dell'ala estremista del partito rappresentata da Secchia; ed è Stalin a indicare, invece, l'obiettivo di un «governo borghese con partecipazione comunista» come «primo passo», e aggiunge: «Un vero governo democratico si può avere solo con azione extraparlamentare - oggi non realizzabile ». Entrambi sono concordi nella strategia di puntare sulla parola d'ordine di un ««governo di unità nazionale», cioè di tornare alla situazione esistente prima dell'estromissione delle sinistre dal governo nel 1947. Secondo Stalin, la forza politica più pericolosa per i comunisti è la Chiesa cattolica, e per colpire questo temibile «avversario» suggerisce di «non attaccare» direttamente la religione, ma le sue organizzazioni. Il tono ottimista dell'incontro si spiega con il cambiamento della «correlazione delle forze» a favore del blocco sovietico, avvenuto proprio nei mesi precedenti con l'acquisizione della bomba atomica da parte dell'Urss e la vittoria comunista in Cina. Il secondo documento rappresenta una parte del telegramma del ministro degli Esteri sovietico Andrei Vyshinsky all'ambasciatore sovietico in Italia Mikhail Kostylev che contiene la lettera del Politburo a Togliatti del 21 giugno 1952. Il Politburo, in seguito alla richiesta di Nenni di essere ricevuto da Stalin, chiede a Togliatti di chiarire le vere intenzioni del leader socialista. Da tempo Togliatti, con grande abilità, 'curava' i rapporti tra Mosca e il Psi: forniva dettagliate informazioni sulla situazione all'interno del Partito socialista, suggerendo come rafforzare la posizione di Nenni nella Direzione e consigliando come meglio sfruttare la nota 'vanità' del leader socialista. La decisione sovietica nel 1952 di insignire Nenni del premio Stalin fu discussa con Togliatti, ricevendo la sua piena approvazione. Ogni autonoma mossa del leader socialista non concordata con Togliatti diventava nota a Mosca, provocando immediatamente sospetti. Così fu quando Nenni, nel marzo 1952, incontrò De Gasperi senza informare Togliatti sul contenuto dell'incontro. La successiva richiesta di Nenni di essere ricevuto da Stalin a Mosca dopo la cerimonia del conferimento del premio diede luogo alla decisione del Politburo di mandare, attraverso l'ambasciatore Kostylev, questa lettera a Togliatti per ricevere da lui chiarimenti su scopi e contenuti dell'incontro di Nenni con De Gasperi. Mosca indicò a Togliatti che qualsiasi apertura del Psi verso il governo sarebbe stata accettata da Mosca soltanto «a condizione che le basi americane sul territorio italiano vengano liquidate». Il Politburo chiedeva a Togliatti di assicurare che Nenni avrebbe condiviso questa impostazione e non l'avrebbe rinnegata nel corso delle trattative con De Gasperi. Solo dopo le rassicurazioni di Togliatti a Nenni venne concesso l'incontro con Stalin. Nenni fu così l'ultimo politico occidentale ad incontrare il dittatore sovietico al Cremlino e ad avere con lui un lungo colloquio. Il resoconto stenografico del colloquio non è stato ancora rinvenuto negli archivi di Mosca, ma Nenni nei suoi Diari ne ricostruì il contenuto. La visita del luglio si svolse in un'atmosfera di grande cordialità e di unità di vedute. «Un segno tangibile dell'apprezzamento di Stalin fu la decisione del Politburo del 29 luglio 1952 di concedere al Psi nuovi finanziamenti in aggiunta a quelli già stanziati per il 1952». La lettera dal vertice sovietico a Togliatti getta luce sul rapporto tra Stalin, Togliatti e Nenni, confermando, tra l'altro, la diffidenza che la leadership del Cremlino continuava a nutrire verso il leader del Psi, malgrado tante dimostrazioni della sua affidabilità nel mantenere l'unità d'azione con il Pci e nel seguire la linea della politica estera staliniana. 

Togliatti, il cinismo di un «mito». Il suo principio della «democrazia progressiva» era un inganno Padre costituente? Nel 1930 rinunciò alla cittadinanza italiana, scrive il 27 Maggio 2014 Il Tempo. Il 21 agosto 1964 moriva Palmiro Togliatti, uno dei protagonisti della storia del Novecento. Il suo ultimo scritto, il "memorandum di Yalta", pubblicato postumo e presentato come ideale testamento, fu letto quale dimostrazione dell'intelligenza di un leader pronto a portare il Pci sull'orlo di una frattura con il Pcus e a caldeggiare l'idea di una politica "nazionale" dei partiti comunisti europei. In realtà, esso, predisposto in vista di una conferenza internazionale che avrebbe dovuto condannare la Cina, non lasciava trasparire velleità di autonomia da Mosca: lo dimostravano i paragrafi dedicati alla politica estera, in particolare alla Nato e al Mec dai quali emergeva che i partiti comunisti, a cominciare dal Pci, sarebbero dovuti rimanere fedeli alle istruzioni di Mosca. Il rapporto fra Togliatti e l'Urss fu sempre stretto. Togliatti trascorse in Urss molti anni. Giunto nella patria del comunismo nel 1926, si schierò con Stalin nella lotta di potere per la successione di Lenin. E di Stalin seguì, approvò e giustificò scelte e decisioni, anche le più criminali, poco importa se per convinzione o per timore di finire pur egli vittima delle "purghe". Quando ci furono i processi di Mosca che portarono alla liquidazione fisica della vecchia guardia bolscevica, non esitò ad aggiungere la sua voce al coro di coloro che plaudivano alle purghe del Robespierre sovietico e ad esaltare "l'inflessibile giustizia socialista". Alla fedeltà al dittatore non venne mai meno anche a costo di tradire gli stessi compagni, primo fra tutti Antonio Gramsci. Del resto, le parole da lui pronunciate in occasione della morte del dittatore, il 6 marzo 1953, sono emblematiche: «Stalin è un gigante del pensiero, è un gigante dell'azione. Col suo nome verrà chiamato un secolo intero, il più drammatico forse, certo il più denso di eventi decisivi della storia faticosa e gloriosa del genere umano». Malgrado il passato di alto dirigente del Comintern e le incontestabili caratteristiche di stalinista di ferro, malgrado il ruolo di zelante esecutore delle direttive di Mosca anche attraverso la delazione su compagni di partito, malgrado il cinismo dimostrato sulla sorte dei prigionieri italiani in Urss, malgrado la condanna delle rivolte nelle democrazie popolari, malgrado l'entusiasmo col quale salutò l'invasione dei carri armati russi a Budapest e via dicendo, Togliatti viene periodicamente presentato come alfiere di democrazia e antesignano della "via italiana al socialismo": un politico illuminato più socialdemocratico che comunista. Della storia dell'Italia democratica, "il Migliore" ebbe gran parte, anche come "padre costituente". Ciò è incontestabile, ma, a proposito del suo patriottismo, vale la pena di rammentare che nel 1930 rivendicò orgogliosamente la rinuncia alla cittadinanza italiana perché - disse allora - come italiano si sentiva «un miserabile mandolinista e nulla più» mentre, come «cittadino sovietico» sentiva di «valere dieci volte più del migliore italiano». Il rapporto fra Togliatti e Stalin spiega molto della storia del Pci, della "doppia lealtà" cui questo ispirò la sua azione politica. Gran parte della storiografia di orientamento comunista ha cercato di avallare miti che riaffiorano pertinaci. Uno di questi, gravido di conseguenze nella vita politica dell'Italia postbellica, interpreta la storia del Pci come storia di continua evoluzione verso una sempre maggiore autonomia da Mosca e dalle sue decisioni. Nel volume, Togliatti e Stalin (Il Mulino, 2007), Victor Zaslavsky ed Elena Aga Rossi ridussero in frantumi questo mito, dimostrando che la maggior parte dei dirigenti del Pci apparteneva a una élite rivoluzionaria guidata dall'Urss, addestrata in Urss e proprio dall'Urss inviata in Italia a fare politica. Essi fecero vedere che il Pci - per i suoi collegamenti ideologici, funzionali e strutturali con il comunismo internazionale - non poteva essere considerato alla stregua di un qualsiasi altro partito operante nel sistema politico italiano. I due smontarono anche un altro mito, quello della cosiddetta "svolta di Salerno". La storiografia comunista aveva sostenuto che quella "svolta" - cioè il proposito di Togliatti, rientrato in Italia nel 1944, di collaborare con Badoglio e la monarchia - fosse frutto di una decisione autonoma rispetto a Mosca e rappresentasse il primo passo di un graduale affrancamento del Pci dall'influenza sovietica. Hanno dimostrato che, al contrario, fu proprio Stalin a volere la svolta. Le loro conclusioni resero obsolete la maggior parte delle ricerche storiografiche precedenti sul Pci, basate su due presupposti errati: la sopravvalutazione dell'indipendenza del Pci da Mosca durante il periodo di Stalin e la sottovalutazione della capacità del sistema staliniano di controllare e guidare all'estero i suoi meccanismi distorsivi dell'informazione. Del resto, sulla vocazione rivoluzionaria del Pci durante la lotta per la liberazione anche Renzo De Felice osservò che il gruppo dirigente del Pci non aveva mai accettato che «la lotta partigiana dovesse portare a un ritorno alla democrazia "parlamentare borghese" e che la svolta di Salerno potesse non essere un espediente tattico» aggiungendo che a quella svolta non poteva «essere attribuito alcun carattere di autonomia politica rispetto all'Urss». Alla base di questa alterazione della verità storica c'era il fatto che l'Urss era riuscita a veicolare l'idea mitologica dell'assimilazione dell'antifascismo alla democrazia in nome del principio dell'unità della Resistenza dimenticando che per i comunisti la Resistenza era concepita come un grande evento rivoluzionario. Che tale assimilazione fosse ideologicamente fuorviante lo dimostra la considerazione che, se è vero che la democrazia presuppone l'antifascismo, non è altrettanto vero che l'antifascismo presupponga la democrazia. Eppure, questa equazione errata, sulla quale si fondava il principio togliattiano della "democrazia progressiva", finì per dominare la cultura politica italiana, segnatamente storiografica, grazie al peso di quella egemonia culturale comunista e azionista che ha elevato l'antifascismo a ideologia di Stato. A distanza di mezzo secolo dalla scomparsa di Togliatti, la rivista Nuova Storia Contemporanea presenta un fascicolo speciale che si propone di riconsiderarne la figura e l'attività, senza nulla togliere alla sua abilità di uomo politico spregiudicato e intelligente ma profondamente cinico, per metterne in luce la vera personalità e sfatare la leggenda di una rappresentazione unitaria della storia del Pci, come quella di un partito a vocazione "nazionale". I saggi del dossier offrono un quadro esaustivo. Massimo Caprara, per tanti anni suo segretario, tratteggia il ritratto umano di Togliatti, mentre Piero Ostellino ne ricostruisce il comportamento durante le purghe degli anni trenta e Luciano Pellicani ne studia il ruolo di rifondatore del Pci. Antonio Ciarrapico si sofferma sulla "democrazia progressiva" come punto d'arrivo del progetto politico di Togliatti mentre Alberto Indelicato analizza gli esiti concreti delle sue scelte in politica estera inquadrandole nelle direttrici di politica internazionale dell'Urss e Giuseppe Bedeschi ne illustra il comportamento di fronte alla rivolta ungherese del 1956. Luigi Nieddu mette a confronto le figure di Togliatti e Gramsci, mentre Sergio Bertelli si occupa della relazione fra Togliatti e la sua segretaria Nina Bocenina. Infine Pietro Neglie si sofferma sulla strategia comunista di egemonizzazione della cultura mentre Natalia Terekhova traccia un bilancio dei giudizi della storiografia sovietica e di quella russa su Togliatti. Nel complesso, i saggi di questi studiosi costituiscono un importante contributo alla verità storica e un antidoto alla prevedibile invasione di pubblicazioni agiografiche su Togliatti in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte.

Lo stalinista Togliatti che non disse mai: "Compagni, ci siamo sbagliati". Il segretario del Pci appoggiò l’eliminazione politica e fisica di molti comunisti dissidenti. Non per paura di Mosca ma per "coerenza" ideologica, scrive Piero Ostellino, Mercoledì 14/05/2014, su "Il Giornale". Molti anni fa, in un libro diventato famoso (Togliatti 1937, Rizzoli 1964) Renato Mieli si chiedeva perché anche i comunisti italiani - dopo le rivelazioni di Kruscev sui crimini di Stalin - non sentissero la necessità di «stabilire la verità sulla fine di quei dirigenti comunisti europei che scomparvero nell'Unione Sovietica durante quel periodo». Commentava Mieli: «Il silenzio dei comunisti europei su questo doloroso passato è veramente sconcertante». Ma, scomparso Togliatti, l'ultimo dei grandi superstiti del Comintern e anche l'unico che avrebbe potuto parlare e rifiutò di farlo, la verità resta sepolta sotto la pesante coltre delle complicità e dell'omertà. «Il tempo - scriveva allora Mieli - cancellerà le tracce e gli uomini dimenticheranno ciò che è stato. È questo che si vuole? Un delitto perfetto insomma». Palmiro Togliatti era, nel 1937, col bulgaro Dimitrov, il finlandese Kuusinen e il sovietico Manuilski, uno dei membri della segreteria del Comintern. Furono loro ad avallare lo sterminio di tutti i dirigenti del partito comunista polacco (con l'eccezione di Gomulka) a opera della polizia staliniana con una sentenza di condanna politica. Quali fossero le ragioni che potevano aver indotto Stalin a liberarsi del partito comunista polacco appare evidente dal particolare momento in cui si svolsero quegli avvenimenti. Mosca stava per accordarsi con Hitler attraverso il Patto del 1939 che avrebbe portato alla spartizione della Polonia e allo scoppio della guerra. Il Pc polacco rappresentava un ostacolo a tale spartizione e perciò Stalin lo eliminò per spianarsi la strada all'eliminazione della stessa Polonia come Stato indipendente. A spiegare l'atteggiamento dei dirigenti del Comintern c'è invece una sola ragione, e cioè, come scrive Mieli, «la loro fedeltà al comunismo e quindi la loro totale sottomissione al tiranno e la conseguente loro impotenza ad opporsi». Ma avrebbero potuto Togliatti e i suoi compagni opporsi a Stalin? Lo stesso Mieli riconosce che «c'era poco da scegliere in quelle condizioni: o si collaborava con il regime o si finiva in galera. Togliatti, come tanti altri, è riuscito a sopravvivere appunto perché non ha scelto la galera». Il clima di terrore instaurato da Stalin in Urss e all'interno del movimento comunista internazionale non è sufficiente, però, a giustificare la remissività e persino la complicità di cui si resero responsabili gli uomini come il segretario del Pci. Alle radici più profonde dei loro comportamenti c'era una ragione sostanziale: che essi erano intimamente stalinisti e che in quel momento essere comunisti e militare nella Terza internazionale equivaleva a essere dalla parte di Stalin e condividerne i metodi. Togliatti non solo approvò ed esaltò, a titolo personale e a nome del suo stesso partito, gli eccidi di Zinoviev e di Kamenev, di Bukharin e di Rykov, del maresciallo Tukacevski e degli altri ufficiali dell'Armata rossa, ma adottò del sanguinario dittatore al servizio del quale si era messo e aveva messo il suo partito anche e soprattutto l'ideologia. Mieli ce ne fornisce intelligentemente un esempio, riferendo dell'atteggiamento tenuto dal segretario del Pci sulla questione polacca anche dopo le rivelazioni di Kruscev al XX congresso del Pcus. Togliatti, da quel momento, non sostenne più, come in precedenza, che la lotta di frazione all'interno del Pc polacco fosse una prova sufficiente a dimostrare che il partito era stato infiltrato dalla polizia di Pilsudski. Ma non smise, solo per questo, di affermare che all'epoca in cui si erano svolti i fatti ciò poteva essere ritenuto verosimile, cioè che il frazionismo bastava da solo a rendere responsabili i dirigenti di quel partito delle colpe di cui li si accusava ingiustamente. «Questo - concludeva Mieli - è esattamente il pensiero di Stalin che fu all'origine del periodo del terrore». In altre parole il segretario del Pci, pur riconoscendo di essere stato indotto in errore dalla falsa teoria staliniana sull'inasprimento della lotta di classe e dalle prove fornite dalla polizia sovietica, non ammise mai di essere stato egli stesso uno degli artefici della condanna politica del Pc polacco che giustificò l'annientamento fisico dei suoi dirigenti. E soprattutto non riconobbe mai di non aver neppure cercato di appurare se le accuse a loro carico fossero false, in base all'assunzione che le motivazioni di Stalin erano «in sé» sufficienti a giustificare il comportamento di un buon comunista in quella circostanza. «Che questa scelta fosse coerente con l'ideologia originaria - scriveva Mieli - è ovvio. Ma come si coniuga al presente, tenendo conto della pretesa del Pci di essere considerato come democratico? Come può un partito sedicente democratico riconoscersi in un passato che è una negazione brutale della democrazia?». Scriveva Mieli che, per i comunisti, «non si tratta di processare questo o quel dirigente di altri tempi, bensì di condannare il sistema che essi tentarono di instaurare, in ossequio a una ideologia totalitaria, che non sembra del tutto scomparsa nelle loro file». In altre parole, il Pci avrebbe dovuto riprendere il grido disperato a suo tempo inascoltato di una delle vittime italiane del terrore staliniano, Emilio Guarnaschelli: «Compagni, ci siamo sbagliati». Ma poteva un'organizzazione di massa, un grande partito come il partito comunista proclamare formalmente il fallimento degli ideali per i quali è nato e si è battuto nel corso di tutta la sua esistenza? Personalmente ne dubito. Del resto, è proprio questa la ragione per la quale le generose sollecitazioni di Mieli al Pci affinché facesse luce sul proprio passato sono cadute nel vuoto: perché ciò che per lui era un imperativo morale, per il Pci era un impedimento politico. I comunisti italiani sono sempre stati inchiodati alla loro storia come a una croce, perché è la parola stessa «comunismo» che la storia ha condannato senza appello. Il fatto poi che molti di loro, presi individualmente, lo sapessero non significa che tale consapevolezza dovesse tradursi in comportamenti politici concreti a livello di coscienza collettiva, cioè di partito. È a quest'ultimo che ieri furono immolate tante vittime innocenti e oggi è sacrificata la ricerca della verità sulla loro tragica sorte. Come membro autorevole del Comintern, Togliatti ne divenne uno dei massimi dirigenti, contribuendo all'eliminazione, politica ma anche fisica, di molti comunisti la cui sola colpa era di non condividere, nei confronti dei propri Paesi, i brutali metodi di Stalin. Ciò non di meno fu, in questo caso, ortodossamente machiavelliano, un grande realista sia escludendo, con la «svolta di Salerno» e l'adesione alla democrazia parlamentare e monarchica ormai nell'orbita degli Usa - che sarebbero intervenuti militarmente in caso di pericolo rivoluzionario - sia in occasione dell'attentato subito, quando raccomandò ai compagni di «non perdere la testa» e di non abbandonarsi a tentativi rivoluzionari, un'avventura impraticabile che avrebbe portato il Partito comunista, del quale era segretario pur non essendo mai stato eletto da un Congresso, alla rovina.

 STUPRI E FEMMINICIDI DEI CLANDESTINI: L'ASSOLUZIONE IDEOLOGICA.

Il nigeriano intercettato: "Deve far sparire Pamela, anche a costo di mangiarla". Metodi da mafia africana nelle parole di Desmond Lucky. La procura rivela che nei telefonini sono state trovate anche immagini di torture, scrive il 25/04/2018 l'Huffington Post. Sezionare un corpo "è una cosa di poco conto, un gioco da bambini". La frase choc, ha detto oggi il procuratore di Macerata Giovanni Giorgio, è stata pronunciata da Desmond Lucky, uno dei tre nigeriani arrestati per l'uccisione e lo smembramento della 18enne romana Pamela Mastropietro, durante una conversazione intercettata in carcere con Awelima Lucky, fermato per gli stessi reati: i due avrebbero parlato di come Oseghale avrebbe potuto disfarsi del cadavere. Desmond Lucky, uno degli accusati di omicidio, il cui Dna non è nella casa degli orrori (ma il suo cellulare sì), arriva a dire che "Oseghale avrebbe dovuto far sparire il cadavere tagliandone una parte a pezzettini da gettare nel gabinetto, e mangiando il resto, dopo averlo congelato". "Va tenuto presente - ha però precisato il procuratore Giorgio - che le intercettazioni non sempre sono rivelazione della verità. C'è da valutare bene le singole parole e spiegare se dette in liberà o corrispondenti al vero". Lucky ha detto ad Awelima di aver fatto parte in patria di un "gruppo criminale" e di aver compiuto "cose terribili". Tra le foto trovate nei cellulari, ha spiegato Giorgio, in particolare di Awelima, ce ne sono alcune di africani torturati e del sezionamento di un animale. "Quando ci saranno noti tutti i risultati dei prelievi - ha aggiunto Giorgio - trarremo le conclusioni. Non cerchiamo capri espiatori, o nigeriani perché nigeriani, ma solo gli autori dell'omicidio".

“Doveva mangiarla, un pezzo alla volta”. Caso Pamela, l’intercettazione shock, scrive Anna Pedri il 10 maggio 2018 su Primato nazionale. Una nuova, agghiacciante intercettazione, svela un altro tassello relativo al macabro omicidio di Pamela Mastropietro, la diciottenne fatta a pezzi a Macerata dal nigeriano Innocent Oseghale, che prima l’ha stordita e violentata. Cannibalismo. “Sarebbe stato meglio se l’avesse mangiata, magari cucinata a poco a poco in brodo, tenendo i pezzi del corpo in freezer”. Frasi di questo tenore sono state intercettate in carcere tra Desmond Lucky e Awelima Lucky, anch’essi nigeriani, finiti in carcere per l’omicidio di Pamela. Parlando di Oseghale, Desmond dice ad Awelima: “L’ha tagliata… l’ha tagliata, l’ha tagliata”, “Gli ha tolto l’intestino… è molto coraggioso”. Al che il compagno di cella risponde: “Quell’intestino forse l’ha buttato nel bagno”. Da qui segue una conversazione sconvolgente, fatta di consigli e suggerimenti su quale sarebbe stato il modo migliore per Oseghale per non essere scoperto. Se il loro connazionale avesse mangiato il corpo di Pamela, anche a pezzi, nel corso del tempo, avrebbe avuto l’unico problema di far sparire la testa.

Desmond: «L’intestino è lungo. Come puoi buttarlo dentro al bagno?!».

Awelima: «L’intestino poteva tagliarlo a pezzi».

D.: «Tagliarlo in pezzettini?».

A.: «Sì. Pezzi, pezzi. Così buttava a pezzetti. Così sarebbe stato più facile… Forse lui (inteso Innocent) ha già ucciso una persona così».

D.: «Gli ha tolto tutto il cuore».

A.: «Poteva mangiarlo. Perché non l’ha mangiato?».

D.: «Poteva metterlo in frigo».

A.: «Lo metteva in frigo e cominciava a mangiare i pezzi».

D.: «Così sarebbe stato meglio per lui mangiare il corpo».

A.: «Sarebbe stato meglio. Avrebbe avuto solo il problema per la testa, quella avrebbe dovuto buttarla. Tutto il resto invece lo metteva dentro il frigo e poi quando voleva lo cucinava.

D.: «Faceva il brodo».

A.: «Sì, continuava a mangiare il brodo poco a poco».

D.: «Se lui avesse avuto un congelatore grande, avrebbe potuto metterlo lì».

A.: «Poi lui quello che non riusciva a cucinare, lo buttava piano piano…».

D.: «Però lui ha detto che non è stata lui a tagliarla e forse per questo stanno ancora investigando».

A.: «Per questo stanno cercando qualcun altro».

La pista del cannibalismo era già stata battuta in seguito alle intercettazioni tra i due nigeriani finiti in cella insieme a Innocent Oseghale. Ma ora la diffusione delle intercettazioni e la loro trasmissione in tv, evidenzia il livello di disumanità degli assassini.

Di seguito il video pubblicato sulla pagine facebook della trasmissione Chi l’ha Visto, con le intercettazioni tra Lucky Awelima e Desmond Lucky.

"In fila per stuprare Desirée". Ecco il "gioco" dell'orrore. Gli stupratori della 16enne avrebbero atteso il loro turno per poterla violentare. Un rito macabro finito con la morte, scrive Franco Grilli, Domenica 28/10/2018, su "Il Giornale". Lo stupro di Desirée Mariottini è stato crudele, osceno, una sorta di rito macabro. Dalle carte dell'inchiesta e dalle testimonianze su cosa è accaduto in quelle terribili 12 ore a San Lorenzo, emergono dettagli inquietanti. Uno dei testimoni ascoltati, un bulgaro, ha raccontato di aver visto la ragazzina disperarsi perché nessuno voleva darle una dose di droga. Non aveva soldi per pagarla. A questo punto entra in scena il branco che di fatto si mette in moto per mettere a punto il piano fatale. La ragazzina segue Youssef all'interno del container. Ma la scena è orribile. La ragazzina subisce la prima violenza. Poi dopo un'ora e mezza il bulgaro racconta di aver visto Paco che attendeva il suo turno per poter "consumare", pure lui, un rapporto con la 16enne: un altro stupro. Di fatto secondo quanto raccontato dal bulgaro c'era una vera e propria fila per poter abusare della povera Desy. Secondo i giudici in quel container c'era, come anche sottolinea il Tempo, un vero e proprio via vai per abusare del corpo di quella ragazzina. Dopo il primo stupro dunque, gli altri componenti del branco avrebbero atteso il proprio turno per far scempio del corpo di Desy ormai stordita da un cocktail di droghe e psicofarmaci. Poi è arrivata la morte. Nessuno, ormai dalla ricostruzione della procura è chiaro, ha chiamato i soccorsi. Anzi, ci sarebbero state minacce su chi era pronto a farlo. Questa storia si è chiusa con una frase pronunciata da uno degli aguzzini: "Meglio lei morta che noi in carcere". Il sigillo orribile su un rito osceno e fatale.

"Meglio lei morta che noi in cella". Così hanno lasciato morire Desirée. I tre immigrati le hanno somministrato un mix di droghe: erano consapevoli che l'avrebbero uccisa. Quando è stata male, hanno impedito i presenti di chiamare i soccorsi, scrive Sergio Rame, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Desirée Mariottini avrebbe anche potuto essere salvata ma i senegalesi Brian Minteh, il nigeriano Chima Alinno e il gambiano Yousif Salia, che l'avevano drogata e poi stuprata a turno fino a causarne la morte, non hanno fatto nulla per aiutarla impedendo persino che venisse soccorsa.

Tra le belve che l'hanno uccisa anche il fidanzato. "È meglio lei morta che noi in galera" è la frase choc, che secondo alcuni testimoni dagli inquirenti, avrebbero pronunciato tre dei quattro africani accusati dello stupro e dell'omicidio della ragazzina. Nelle quindici pagine di ordinanza di custodia cautelare in carcere il gip Maria Paola Tomaselli ha spiegato che Mamadou Gara e Brian Minteh e Chima Alinno hanno agito "con pervicacia, crudeltà e disinvoltura", dimostrando "una elevatissima pericolosità non avendo avuto alcuna remora a porre in essere condotte estremamente lesive in danno di un soggetto minore giungendo al sacrificio del bene primario della vita". Secondo la ricostruzione della procura, erano quasi due settimane che Desirée frequentava lo stabile abbandonato del quartiere San Lorenzo, dove si procurava la droga e la consumava. Andava e veniva da quel posto dove la notte tra giovedì e venerdì della scorsa settimana ha trovato la morte. Il pomeriggio del 18 ottobre la 16enne è tornata in via dei Lucani in cerca di droga, ha incontrato il gruppo e ha chiesto qualche stupefacente da consumare lì, come già successo in passato. Nel ricostruire l'intera vicenda, che ha portato alla brutale morte di Desirée, il giudice Tomaselli ha spiegato che "gli indagati hanno dapprima somministrato alla ragazza il mix di droghe e sostanze perfettamente consapevoli del fatto che fossero potenzialmente letali per abusarne". Quindi la hanno stuprata "lungamente e ripetutamente". È successo più volte e lo hanno sempre fatto in gruppo. La ragazzina non si è, ovviamente, opposta in alcun modo. Non poteva farlo perché non era in sé: non si reggeva in piedi mentre loro, senza nessuna pietà le erano addosso. Dopo gli abusi l'hanno abbandonata a terra, tremante, si sono allontanati e l'hanno lasciata morire. Nell'ordinanza di custodia cautelare si legge che le belve "la hanno lasciata abbandonata a se stessa senza adeguati soccorsi, nonostante l'evidente e progressivo peggiorare del suo stato". Il branco avrebbe addirittura "impedito ad alcuni dei presenti di chiamare i soccorsi esterni o la polizia per aiutarla".

Fulvio Fiano e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” del 28 ottobre 2018. Desirée poteva essere salvata. Mentre la giovane era ormai incosciente, stordita da un miscuglio di droghe e psicofarmaci, i suoi aguzzini hanno impedito i soccorsi: «Meglio lei morta che noi in galera», hanno gridato a chi voleva aiutarla. Tra loro anche tre donne, un'italiana e due straniere che frequentavano abitualmente il palazzo occupato di San Lorenzo. Le loro testimonianze, così come quelle degli altri pusher e tossici che trascorrono le giornate in quel luogo infernale, ricostruiscono quanto accaduto tra il 17 e il 19 ottobre. E dimostrano che l'indagine non è affatto chiusa. Ci sono altri tre ricercati. Uno è italiano. Si chiama Marco, riforniva il gruppo di pasticche. Proprio quelle - antiepilettici e antipsicotici - utilizzate per «privare Desirée di capacità di reazione» e dunque ridurla «a un mero oggetto di soddisfazione sessuale», come scrive la giudice nell' ordinanza che lascia in galera i tre extracomunitari fermati a Roma con l'accusa di omicidio volontario e violenza sessuale pluriaggravate. Gli altri due stranieri - tuttora in fuga - potrebbero aver partecipato allo stupro. È stato uno degli arrestati a fare i loro nomi e la polizia sta cercando di rintracciarli. Ma non è finita. Perché tra i testimoni c' è anche una straniera che ha ammesso di aver «rivestito e poi aiutato gli altri a spostare Desirée» quando era ormai in fin di vita o forse già morta.

Dettagli di un orrore che appare senza fine. Si torna dunque al 18 ottobre quando la 16enne, che è arrivata nel palazzo già il giorno prima, è in cerca di droga. Non ha soldi, si rivolge ai tre stranieri che già conosce. I racconti di chi c'era ricostruiscono quanto accade. Narcisa «dice di essere giunta intorno alle 13,10 con due uomini e di aver visto la ragazza insieme a Ibrahim (Brian Minteh, ndr) steso su un giaciglio dove è stato poi rinvenuto il corpo della ragazza, nonché Youssef (Yusif Saila, fermato venerdì a Foggia, ndr) e Sisco (Chima Alinno, ndr). Quest' ultimo era intento a fumare, Desirée gli aveva chiesto eroina perché era in crisi di astinenza, ma lui aveva rifiutato». Poi riferisce quello che le ha detto Muriel, straniera di circa 35 anni. Scrive la gip: «Muriel ha raccontato che a Desirée è stato somministrato un mix di gocce, metadone, tranquillanti e pasticche. Poi è stata violentata da Paco e Youssef, io li ho visti». Racconta ancora Narcisa: «Il giorno dopo ho incontrato Paco e gli ho detto "sei un pezzo di m..., hai dato i farmaci a Desirée per poterla stuprare. Lui ha ammesso che avevano fatto sesso, mi ha detto che le aveva dato solo pasticche». È Muriel ad ammettere di aver rivestito Desirée quando non era più in grado di muoversi, probabilmente morta. Lo fa con una lucidità che lascia agghiacciati. Poi indica un altro componente del gruppo, ancora in fuga. Scrive la gip: «Muriel racconta di essere giunta nel palazzo alle ore 20 del 18 ottobre chiamata da un certo Hyten che le chiedeva di rivestire una ragazza mezza nuda all' interno del container. Aveva trovato Desirée nuda dalla vita in giù e aveva provveduto trovando nei pantaloni una boccetta di Tranquillit mezza vuota. Riferiva di aver ritenuto che fosse stata violentata in quanto aveva pensato che nel caso in cui avesse avuto un rapporto consenziente avrebbe provveduto a rivestirsi da sola e che prima dello stupro le erano stati fatti assumere Tranquillit e Metadone». Muriel racconta anche di aver visto «il Tranquillit qualche giorno prima nella disponibilità di tale Marco, italiano frequentatore del palazzo. Marco le aveva riferito che i medicinali erano psicofarmaci per sua madre, sostitutivi del Seroquel». A confermare le sue dichiarazioni è Giovanna, una ragazza che sta spesso in quel complesso di San Lorenzo «che - come è scritto nell' ordinanza - ha riferito come fosse possibile reperire qualsivoglia sostanza stupefacente o medicinale, precisando come gli psicofarmaci fossero procurati da Marco». È proprio Giovanna, quando si accorge che Desirée è morta, a scagliarsi piangendo contro gli stupratori. Lo racconta Cheick, un altro testimone: «Piangeva e urlava. Diceva "voi l'avete uccisa, l'avete violentata" rivolgendosi ai tre uomini presenti nel locale. Li chiamava per nome, Paco (Mamadou Gara, ndr), Sisco e Ibrahim». Sono gli stessi che impediscono a chiunque di aiutare la 16enne. Scrive la gip: «Sin dal pomeriggio del 18 ottobre, la ragazza manifesta lo stato di stordimento strumentalizzando il quale gli indagati abusano di lei. Ma esso si aggrava così da tramutarsi in una condizione di dormiveglia prima e incoscienza poi che viene immediatamente avvertita dai presenti allorché trasportano il corpo della ragazza dal container al capannone». Spiega ancora il giudice che «è in tale fase che Youssuf, Ibrahim e Sisco, che pure sono presenti, ridimensionano la gravità delle condizioni della ragazza e impediscono che vengano allertati i soccorsi, assumendo lucidamente la decisione di sacrificare la giovane vita per garantirsi l'impunità o comunque qualsivoglia fastidioso controllo delle forze dell'ordine». L' ordinanza cautelare viene così motivata: «La pervicacia, la crudeltà e la disinvoltura con la quale i prevenuti hanno posto in essere le condotte contestate manifestano la sussistenza di un concreto e attuale pericolo di recidiva». Inoltre, trattandosi di «tutti soggetti che hanno dimostrato una elevatissima pericolosità e irregolari sul territorio nazionale, rispetto al quale non presentano alcun tipo di legame familiare e lavorativo, si manifesta un altrettanto inteso pericolo di fuga, eludendo agevolmente qualsivoglia controllo».

Desirée, gip convalida il fermo di 3 arrestati, solo uno parla, scrive l'Ansa il 28 ottobre 2018. Il gip di Roma, Maria Paola Tomaselli, ha convalidato il fermo dei tre indagati per la morte e lo stupro di Desiree Mariottini. Il giudice si è riservato di decidere nelle prossime ore in merito all'emissione della misura cautelare. In base a quanto si apprende l'unico a rispondere alla domande del gip è stato il senegalese Mamadou Gara, mentre il suo connazionale Brian Minteh e il nigeriano Alinno Chima hanno deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Nei loro confronti la Procura contesta i reati di omicidio, violenza sessuale e cessione di stupefacenti. Stesso reati contestati al quarto fermato, Yusif Sali, un cittadino ganese, bloccato ieri a Foggia e trovato anche in possesso di 11 chilogrammi di droga. La sua posizione è al vaglio degli inquirenti per capire il ruolo che ha avuto nella vicenda. I primi tre fermati sono immigrati irregolari accusati di omicidio volontario, violenza sessuale e cessione di stupefacenti. Ascoltate in Questur, fino a tarda sera, alcune persone informate dei fatti. Il cittadino del Gambia sospettato di essere il quarto uomo implicato nella morte di Desiree Mariottini e bloccato a Foggia era in possesso di circa dieci chilogrammi di marijuana. Secondo fonti investigative, lo stupefacente era nella baracca dove è stato trovato l'uomo nella baraccopoli che circonda il Cara - Centro richiedenti Asilo politico di Borgo Mezzanone. L'uomo è stato trovato in possesso anche di una pistola giocattolo, di metadone e di qualche grammo di hascisc. All'arrivo delle forze dell'ordine si è barricato nella baracca ed è stato necessario sfondare la porta per arrestarlo. "La coesione sociale è il mezzo fondamentale per costruire il resto della comunità solidale. Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe ma più amore e partecipazione. Bisogna essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico. "Non servono ronde, ma cose come il controllo di vicinato che stiamo già sperimentando. Un'attività corale che vede come perno i cittadini che forniscono indicazioni a supporto delle forze dell'ordine. Mi oppongo a qualunque tipo di visione che proponga l'uso della forza privata indiscriminata per risolvere questioni ordine pubblico e sociale", ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi, riferendosi all'annunciata manifestazione di Forza Nuova domani a San Lorenzo.

LE INDAGINI SULLA MORTE DI DESIREE - I primi tre fermati sono due senegalesi, irregolari in Italia, Mamadou Gara di 26 anni e Brian Minteh di 43. Il terzo è un nigeriano di 40 anni. Hanno tutti e tre precedenti per spaccio di droga. I capi di imputazione sarebbero gli stessi: omicidio volontario, violenza sessuale di gruppo e cessione di stupefacenti. Mamadou Gara aveva un permesso di soggiorno per richiesta d'asilo scaduto ed aveva ricevuto un provvedimento di espulsione. L'uomo si era reso irreperibile. Era stato poi rintracciato dal personale delle volanti a Roma il 22 luglio 2018 ed era stato richiesto nulla osta dell'autorità giudiziaria per reati pendenti a suo carico. La Sindaca di Roma Virginia Raggi ha deciso di proclamare una giornata di lutto cittadino in concomitanza con i funerali. La giovane è stata drogata e poi abusata sessualmente quando era in uno stato di incoscienza. E spunta un testimone che all'ANSA racconta: "Quella notte ero nel palazzo. Ho visto Desirée stare male. Era per terra e aveva attorno 7-8 persone. Le davano dell'acqua per farla riprendere", racconta, dicendo di essere stato ascoltato in Questura. Il teste racconta anche che quella notte, attorno all'una, "qualcuno chiamò i soccorsi". "Ora voglio giustizia per Desirée, voglio che questa tragedia non accada ad altre", dice Barbara Mariottini, la mamma della ragazza. E in serata a San Lorenzo è stata organizzata una fiaccolata in memoria di Desirée.

Ronde in azione a San Lorenzo. "Stamani ci hanno chiamato da un pub - racconta Valerio, uno delle ronde - dove uno straniero infastidiva le ragazze che stavano andando a scuola. Abbiamo chiamato la polizia ed è stato bloccato". Valerio, corpo palestrato e pieno di tatuaggi, aggiunge: "Siamo una decina di persone. I giustizieri" dice ridendo. "Ma non abbiamo mai contatti, ci limitiamo a chiamare la polizia". La tragedia di Desirée "deve essere l'ultima che accade in Italia e a Roma, una città abbandonata, il degrado è evidente, morale e sociale, servono più controlli in città, servono più uomini e donne delle forze dell'ordine, soprattutto la notte", ha detto il presidente del Pe Antonio Tajani.

«La ragazzina bianca è tornata per la droga». Così scatta la trappola della banda dei pusher, scrivono Fulvio Fiano e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 27 ottobre 2018. Si sono accaniti a turno sul suo corpo. L' hanno prima stordita con droghe e alcol, poi l'hanno violentata fino a farla morire. Erano quattro, o forse di più. Pusher stranieri che non hanno avuto per lei alcuna pietà. Un accanimento brutale, una spirale di orrore che ha inghiottito Desirée Mariottini per due giorni. Cercava stupefacenti questa ragazzina partita da Cisterna, ed era disposta a tutto pur di averli. Nella sua mente ormai perduta non c'era timore di entrare in quel luogo che spacciatori e tossici di varie nazionalità hanno trasformato in un inferno, con vecchi materassi buttati per terra in uno stanzone e il cortile ridotto ormai a una latrina. All' alba di venerdì scorso una telefonata ha segnalato al 118 «una persona che sta molto male». E quando i poliziotti del commissariato San Lorenzo sono entrati, lei era sotto una coperta lurida, vestita e senza alcun segno addosso. Ma nulla poteva essere più fatto, perché era morta almeno da un'ora. Una fine che nessuno ha voluto o potuto evitare, nonostante ci siano più di 12 persone che in quelle 48 ore hanno avuto a che fare con Desirée. Ci sono due ragazze straniere che l'hanno vista, avvicinata, le hanno parlato e in qualche modo hanno cercato di convincerla ad andare via. Ma ci sono anche tre uomini che in più occasioni hanno notato come le sue condizioni siano via via peggiorate. Ed è proprio incrociando i loro ricordi, frammenti di racconti sbiaditi o reticenti, che i poliziotti della squadra mobile - guidati dai capi della sezione violenza di genere Pamela Franconieri e della Omicidi Andrea Di Giannantonio - sono riusciti a ricostruire che cosa è accaduto dal momento della sua scomparsa. Si torna così a mercoledì 17 quando Barbara Mariottini denuncia di non avere più notizie della figlia sedicenne. «Vive con i nonni, è già scappata di casa varie volte», racconta. Non sa che in quel momento Desirée è già a Roma, nel palazzo occupato a San Lorenzo. È arrivata verso l'ora di pranzo per avere una dose di eroina. Non ha soldi e accetta di avere un rapporto con lo spacciatore. La giovane è stata lì altre volte nei giorni precedenti, ma questa volta è diverso, si sparge la voce che «la ragazzina bianca è tornata ed è disponibile». Scatta la trappola. C' è chi dice che Desirée si sia allontanata, chi pensa sia rimasta anche la notte, le testimonianze non sono precise. E invece diventano nitide per scoprire che cosa è accaduto nelle ore successive. Il 18 mattina Desirée è in evidente crisi di astinenza. «Chiedeva droga, ha preso di tutto», racconta una ragazza. Dice di averla esortata ad andarsene. «Che ci fai qui? Sei troppo giovane, devi andare via se vuoi salvarti». Lei non l'ascolta, entra nello stanzone e continua a drogarsi. Il gruppetto di spacciatori «che vengono dall' Africa centrale le sta sempre intorno, si alternano». Lei non si sottrae, non ce la fa. «Le hanno dato del vino con il metadone», ricorda un testimone. Passa ancora qualche ora tra dosi di crack e altra eroina, nel primo pomeriggio Desirée appare come in trance. Si accascia su un materasso, ormai è preda dei suoi aguzzini. Cominciano a violentarla a turno, si accaniscono su di lei. Sono in quattro, ma non è escluso che anche qualcun altro abbia abusato di lei. Saranno gli esami del Dna a rivelare ulteriori dettagli, analisi necessarie a individuare tutti gli stupratori. «L'ho vista, non era cosciente», giura un testimone. Altri confermano, ricordano come «gli africani l'avevano stordita per poi avventarsi su di lei». Una bambola quasi senza vita, ed è questo che rende tutto ancor più agghiacciante. Vanno avanti così per ore, fino alla notte. Verso le due del mattino di venerdì Desirée è ormai incosciente, ma neanche questo basta evidentemente a fermarli. Alle 4 arriva al 118 la telefonata da un numero privato con la richiesta di soccorsi. Quando entra l'ambulanza il palazzo è vuoto. Al cancello è rimasto qualcuno che indica il luogo dove c' è il corpo ma in quel momento non c' è nessuno disposto a dire di più. Si parla di overdose. Vengono prese le impronte digitali e poi via verso l'obitorio. Secondo la prima relazione la morta è Desirée Mariottini di anni 25. In realtà è stata lei a dare una falsa data di nascita quando è stata fermata dai carabinieri qualche settimana prima. E invece basta un controllo più accurato nei terminali per scoprire che si tratta proprio della ragazzina scomparsa da Cisterna. L' autopsia svela la violenza ripetuta, consegna i particolari di una fine orribile. Si apre la caccia agli aguzzini. Si torna nel palazzo e si individuano i testimoni. Si comincia dalle «assenze» dei pusher abituali e basta poco a capire che sono in fuga. Sbandati senza fissa dimora che nessuno è evidentemente disposto a «coprire». Il primo viene rintracciato in un palazzo abbandonato sulla via Tiburtina, l'altro è rimasto in zona e lo trovano in piazzale del Verano. Il terzo ha trovato rifugio in periferia, al Pigneto. La polizia sa che il quarto ha detto di voler andare a Napoli. In realtà le tracce lasciate dal telefonino dicono che già da domenica è a Foggia. Forse è il capo, certamente quello che Desirée conosceva meglio. La definizione usata dai pubblici ministeri nel decreto di fermo li inquadra: «Predatori che si sono accaniti su una giovanissima indifesa, senza alcuna pietà».

Lo strazio della mamma di Desirée: «Non si drogava, ma negli ultimi tempi era cambiata», scrivono il 25 Ottobre 2018 Monica Forlivesi e Claudia Paoletti su "Il Messaggero". Non faceva uso di droghe». Però c’è un episodio avvenuto pochi giorni prima che desta sospetto. «Un paio di settimane fa due ragazze - è la spiegazione che la mamma e l’avvocato forniscono - sono state fermate a Latina dai carabinieri perché trovate in possesso di due pasticche di “Rivotril”, uno psicofarmaco. I militari hanno chiesto loro da chi le avessero preso e loro hanno fatto il nome di Desirée. Era lì anche lei, alle autolinee di Latina, è stata perquisita, non aveva nulla, né addosso, né nello zaino, né pasticche, né soldi». Come si spiega la famiglia il fatto che Desirée fosse nella Capitale? «E’ stata una grande sorpresa per tutti» ammette l’avvocato. La madre assicura che «non c'era mai stata da sola, speriamo che abbiamo acquisito i video delle telecamere delle stazioni di Cisterna e Termini, almeno possiamo capire con chi era. Desy frequentava Cisterna, Latina, a volte Sezze... Quella mattina doveva essere a Latina, iscriversi al liceo Artistico, non si era trovata bene all’Agrario lo scorso anno, e poi era bravissima a dipingere, aveva una buona mano, ha anche vinto un premio». Di quella notte a Roma Barbara Mariottini non sa praticamente nulla, ha rivisto la sua bambina solo il giorno dopo, per il riconoscimento, dove è andata insieme all’avvocato Masci. «Abbiamo visto solo il volto, pulito, sereno, sembrava stesse dormendo. Non aveva tumefazioni e, a quanto pare, nemmeno segni di violenza esterni sul corpo. Era vestita, aveva la borsa ma non il tablet e nemmeno il cellulare». Sono momenti strazianti. La memoria della mamma va indietro, agli ultimi mesi, soprattutto nell’ultimo periodo si era preoccupata, Desirée non era più la stessa, non era più puntuale come prima, non aveva voglia di studiare, tanto che la decisione di iscriversi all’Artistico era stata accolta con enorme sollievo da tutta la famiglia visto che l’anno scolastico è iniziato da oltre un mese. Il padre di Desirée, Gianluca Zuncheddu, ha un passato turbolento, è stato arrestato per droga e attualmente è ai domiciliari. Non si dà pace. Vive nel quartiere San Valentino a poca distanza dalle abitazioni dei Mariottini. La madre e i nonni di Desirée da due giorni sono barricati in casa, non credono alle cose che hanno letto sui giornali. «Non sappiamo niente - conferma l’avvocato - neppure se ci sia stata violenza. Ci dicono che Desirée è stata trovata vestita, non mancava nessun indumento, era rannicchiata su un materassino come se stesse dormendo. Mancavano solo tablet e cellulare. Aspettiamo che venga depositato il referto del medico legale, siamo convinti che la Procura stia lavorando egregiamente e che ci saranno a breve delle novità». L’abitazione dei Mariottini ieri è stata presa d’assalto dai cronisti. La nonna Patrizia, dipendente del Ministero di Giustizia, alla notizia della morte della nipote ha accusato un malore, distrutto anche il nonno, Ottavio Mariottini, una vita spesa nel sindacato. L’unico a parlare, con un filo di voce, è suo fratello Armando, lo zio di Barbara: «Sono così addolorato da non avere più le forze. Se i fatti saranno confermati auguro a quei balordi la galera eterna. E spero che chi ha visto parli, non si può vivere con il rimorso di non aver aiutato la giustizia a far luce sulla morte di una ragazzina, di un angelo. Il mio angelo».

Desirée, Pamela, le vittime anonime degli stupri e l’invasione dei pessimi, scrive Nino Spirlì Venerdì, 26 ottobre 2018 su "Il Giornale". È un giorno sacro, per la mia Famiglia! Oggi festeggiamo, tutti insieme, la nostra Matriarca. Il suo compleanno, per noi, è un appuntamento dal significato potentissimo, profondamente consapevoli, come siamo, che Lei sia la nostra Radice! Mamma, Nonna, Bisnonna, Amica, Sorella, Complice, Guida… E tanto, tanto altro…In questa famiglia, quasi tutta al femminile, le donne sono il Cuore, la Testa, l’Anima. E noi, i miei cognati, i miei nipoti ed io, siamo ben felici di poter contare sulla Loro Presenza. Sulla Loro Essenza! Mamma è moderna, a ottanta anni passati. Comprende, si confronta. Accetta e accoglie. Ci ha educati alla Fede, all’Amicizia, all’Amore, all’Ospitalità. Alla cura dell’Altro. Al Bene… A tante cose, tutte belle. Da Donna, ci ha insegnato a rispettare le Donne e gli Uomini alla stessa maniera. Con la stessa intensità. Con lo stesso rigore. E, proprio nel rigore del rispetto e nel rispetto del rigore della Giustizia, non posso tacere tutto il mio dolore per tutte le vittime degli stupri, di ogni dove e di tutti i tempi. Io stesso l’ho conosciuto, subito, patito. Sembrava amore, era l’inferno. So cosa significhi sentire il calore del sangue in bocca, il furore della violenza nelle carni, la morsa della morte nella mente. So cosa significhi abbandonarsi, in un momento, al destino, qualunque esso possa essere… So. Io so. E per questo maledetta morte dentro che non mi abbandona mai, ad ogni stupro mi sento vittima. E vivo la croce nelle mie carni, che si straziano ogni volta alla stessa maniera. Pamela. Chi potrà mai dimenticarla? Adescata, drogata, violentata, fatta a pezzi, buttata per via come spazzatura. Forse, mangiata. Desirée, adescata, drogata, violentata, abbandonata alle ombre della morte…E mille e mille come loro. Stuprate nelle guerre, nelle invasioni, nelle case, nelle famiglie, nei dispetti, nelle malattie…Bambine, ragazzine, giovinette, donne, perfino anziane. Tutte da rispettare, da proteggere, da accompagnare. E, invece, sventrate come agnelli da sacrificio. Maciullate dai colpi di uomini impregnati di colpe. Inzuppati di colpe. Infangati di colpe! Che dolore! Oggi, qualcuno mi ha chiesto se conosco l’odio. Purtroppo, no! Non lo conosco. Non più. Ho disimparato a conoscerlo, abbracciando Gesù Cristo e accettando le ninnananne della Sua Santa Mamma. Però, so. So che non so perdonare. Questa pletora di maledetti assassini, non so e non voglio perdonarla. Questa canaglia di infami non deve conoscere pace. Non c’è purgatorio, per un peccato così scellerato. E, dunque, che inferno sia! A partire da questa vita terrena. Arrestateli, rinchiudeteli in una cella senza porte e consegnateli alle pene peggiori. Senza pïetas. Senza preghiere. Senza umanità. Ché, tanto, non la riconoscerebbero. Non la saprebbero apprezzare. E sarebbe sprecata. E, se è vero che i demòni non hanno un solo colore, non parlano una sola lingua, non professano una sola fede (se mai ce l’hanno), è vero anche che il nostro Paese stia pagando un prezzo altissimo per aver inscenato un’accoglienza scellerata e incontrollata di chiunque da ovunque. Senza controlli, senza verifiche, senza buonsenso. Italia, Paese aperto, tanto per citare il titolo di un film del nostro ricco patrimonio artistico. Paese per troppo tempo senza regole e senza ritegno, che ha venduto la propria dignità ai signori del denaro e dell’interesse. Alla malapolitica e al malaffare. Alla prostituzione morale. Schiavi della menzogna massomafiopolitica, abbiamo imbarcato tutti i balordi del mondo, liberandoli per tutto lo Stivale. Oggi, le carni delle nostre bambine ne pagano il peccato. Dio ci perdoni. Se può…

In memoria delle Donne uccise, scrive Sabato 4 ottobre 2014 Nino Spirlì su "Il Giornale". Potrei nominarne mille e mille, ma non ne nomino nessuna. Sono Tutte Una. Tutte le vittime di questi ultimi anni che, Donne, pagano la furia dell’Uomo. Muoiono per gelosia, possesso, sesso, “troppa emancipazione”, superficialità, e chissà per quanto altro. Cadono sotto ogni arma. Dalla pistola alla mano, dalla pietra all’acqua del lago, dall’automobile al burrone in montagna. Cadono come piume nell’aria, o come querce abbattute. Si spengono vite, sogni, sorrisi e urla. Restano attoniti, i figli. Le madri. I padri. A volte, i mariti. Sempre, gli amici. Vengono ingoiate, le donne, dal calendario, sempre più spietato verso di loro. Sembra non trovare pace, questo tempo di violenza spietata. Basta una meches, o una gonna più corta, o, a volte, un paio di orecchini più luminosi. Basta un’uscita con gli amici. O una risposta data male. Basta, ormai, solo essere donna per caricare l’arma e farla funzionare. Non sono mai stato “un femminista”: sono sempre dell’idea che non sia necessaria la lotta estrema. Già non la faccio per l’omosessualità…Ma ho sempre guardato con rispetto e devozione verso le donne. Ritengo che quel primo nostro progenitore fosse proprio più femmina che maschio. Altrimenti, non avremmo potuto esserci. Del resto, già nella Bibbia, quella vera e non manipolata da mille mani in malafede, si parla del primo creato, una sorta di essere ermafrodito, dal doppio bagaglio genetico…E molte delle prime divinità, lo erano. E, dunque, è così che mi piace pensare: che la radice di tutto sia stata femmina. Anche la nostra religione, tanto per non essere fraintesi, pone in alto, nei Cieli, a fianco al Padre e al Figlio, la regina degli uomini e degli angeli. Lei, Maria, sposa e madre di Dio, e, dunque, Dio Ella stessa. Ah, se potessero ricordarlo tutti quei folli che, della Donna, stanno facendo scempio ovunque. Vittime da vive e da morte. Puttane sfruttate, operaie maltrattate, madri dimenticate, mogli picchiate, morte umiliate e derise. Spesso, offese anche da cadavere. A fianco alle tante donne amate e rispettate, milioni di altre vengono schiaffeggiate dall’arroganza e dalla violenza di una società non ancora pronta a considerarle pari, se non superiori, agli uomini. A certi uomini, sicuramente. E il guaio è che, per molte donne, le peggiori nemiche siano proprio le altre donne. Schiave di millenni di sopraffazioni, hanno cervelli coi baffi e i testicoli. A danno della loro stessa femminilità. E di questa confusione muoiono. Cadono come frutta matura, che, toccando terra, diventa terra. Senza ricordo di ciò che è stato. Patisco le immagini dei tg, ma, soprattutto, la spietata ed irrispettosa cronaca inutile delle morti e delle sparizioni. Carne per i palinsesti, mai utile per stanare il colpevole. Patisco le mille pagine delle riviste a prezzo popolare, dentro le quali si intrecciano i finti amori dei finti fidanzati da finto scoop ai veri dolori di famiglie devastate dalla perdita di madri, figlie, amiche, compagne. Patisco il mutismo scellerato della Giustizia. Fra me e mia Madre, di cui son parte.

Desirée, Pamela, Sara e le altre: una mattanza senza fine, scrive Adriana De Conto giovedì 25 ottobre 2018 su Il Secolo d’Italia. Il corpo abbandonato su un lettino e una coperta tirata fin sulla testa. E’ stata trovata così Desiree Mariottini, la giovane di 16 anni morta in uno stabile abbandonato nel quartiere di San Lorenzo a Roma, una zona franca lasciata languire nel degrado. Una storia di droga, di spaccio, di fragilità e di immigrazione clandestina fuori controllo. Una vicenda che purtroppo riporta alla mente altre morti altrettanto tristi: le vittime sono tutte giovanissime. Una mattanza. L’ultimo episodio risale a meno di un mese fa. E’ il 3 ottobre quando nei bagni della stazione dei treni di Udine viene trovato il corpo di senza vita di Alice Bros, una sedicenne di Palmanova. E’ morta per overdose. Per la giovane proprio giorni fa la cittadinanza di Udine ha fatto sfilare ua fiaccolata, perché il suo ricordo non venga offuscato. Cinque mesi prima un’altra terribile morte: quella di Sara Bosco, 16 anni. L’8 giugno la ragazza di Santa Severa viene trovata senza vita su un lettino in uno dei padiglioni abbandonati dell’ospedale romano Forlanini. La morte sarebbe da ricondurre anche in questo caso a una dose letale. La giovane era fuggita da una comunità di recupero. Risale al 2 maggio il caso precedente, quello di Amalia Voican, 21 anni. In questo caso il corpo è straziato: divorato da topi e da altri animali. La ragazza, originaria di Civita Castellana, era scomparsa da casa da tempo. Anche lei muore in uno stabile abbandonato della Capitale, questa volta nel quartiere San Giovanni. E il degrado lascia il posto alla ferocia nella storia di Pamela Mastropietro: il 31 gennaio 2018 il corpo di Pamela, brutalmente sezionato da un branco di nigeriani, viene ritrovato in due valige nella zona di Pollenza, in provincia di Macerata. La 18enne romana si era allontanata dalla comunità di recupero per tossicodipendenti dove era in cura: ha trascorso le sue ultime ore nell’appartamento di uno spacciatore che ha abusato di lei prima o dopo la morte.

Desirée Mariottini, vittima due volte: stupro e femminicidio più strumentalizzazione politica, scrive il 25 ottobre 2018 Eretica su "Il Fatto Quotidiano". Desirée come Pamela. Se non ci fossero di mezzo gli immigrati se ne parlerebbe tanto? Se gli stupratori assassini fossero stati bianchi e italiani avrebbero dedicato a queste vittime di violenza di genere le prime pagine sui media? Gli italiani commettono più del 93% di stupri e gli immigrati meno del 7%. La maggior parte degli stupri avviene in casa, per mano di parenti, padri, zii, fratelli, ex fidanzati, ex mariti, conoscenti. Molti tra questi non sono neppure denunciati. Il sommerso è composto da cifre che almeno valgono il triplo degli stupri denunciati. Lo stupro è violenza di genere e non violenza etnica. E’ realizzata contro un genere al quale viene imposto il ruolo di oggetto sessuale ad uso di uomini di qualunque colore, etnia, religione. Quel che serve per prevenire questi crimini è prendere sul serio la cultura dello stupro e combatterla. Quella cultura è visibile ogni volta che una ragazza non viene creduta, quando si dice che dato che aveva bevuto se l’era cercata e se la sarebbe cercata anche se in minigonna, in giro ad ore sconvenienti, assieme a tanti bei fanciulli ciascuno dei quali viene supportato dalle famiglie e da tutti gli abitanti della cittadina, di volta in volta diversa ma esattamente con la stessa quantità di gente che intimidisce e minaccia e insulta la ragazza che ha denunciato. Quante volte abbiamo visto ragazze stuprate essere due volte vittima, la prima durante lo stupro e la seconda quando sono costrette ad essere processate in tribunale da parte di chi indaga sulle sue abitudini sessuali, sulla sua avvenente presenza o sulla sua presunta facilità nelle relazioni. Processi che si estendono ad ogni marciapiedi e ogni casa nei luoghi in cui famiglie arrabbiate stanno lì a proteggere i branchi di stupratori. Quante volte abbiamo visto che attorno a stupri che coinvolgono figli di papà, bianchi, etero, italiani, si realizza un silenzio orribile. Omertà, difesa a oltranza, amici e amiche degli stupratori che perseguitano la vittima sul web, nelle strade, ovunque, per farla demordere e farle attenuare le accuse. E’ successo anche questo, mille e più volte. L’unico momento che ha una ragazza per essere creduta è quando l’ha stuprata un branco di immigrati e, ovviamente, quando muore per mano degli stessi stupratori. A quel punto c’è chi strumentalizza, c’è chi usa i corpi delle vittime per diffondere allarmismo, psicosi, isteria collettiva. Per generalizzare, per fare in modo che si dica che tutti gli immigrati, i rifugiati, i richiedenti asilo, di qualunque età e sesso, farebbero meglio a crepare in mare giacché secondo i razzisti quelle persone sarebbero solo un branco di criminali. Quando un cittadino dice che “da un italiano posso accettarlo, da uno straniero no” nessuno si scompone. Ma l’idea di massima è questa. Gli stranieri – così dicono i fascisti – non devono toccare le “nostre” donne e, il senso della frase, si racchiude tutto in quel “nostre”. Dichiarando l’appartenenza di quelle donne si reitera la campagna di comunicazione che Mussolini & Company divulgava per giustificare la colonizzazione di paesi del Nord Africa. Che importanza può avere il fatto che i fascisti colonizzatori, italiani, da quelle parti, stuprassero delle bambine di dodici anni. La cultura dello stupro è quella contro cui combattiamo ogni giorno perché è così che si previene lo stupro. Quando i razzisti spostano l’attenzione sull’immigrato di fatto delegittimano la lotta contro la violenza di genere. Perché i razzisti negano l’esistenza di quel tipo di violenza e perché negano anche il fatto che lo stupro sia in primo luogo un delitto legittimato dai loro “la violenza di genere non esiste” o “la cultura dello stupro non esiste” o “le vere vittime sono gli uomini”. E quando si esercitano nella negazione di una violenza che le donne subiscono da secoli diventano complici e fanno di tutto affinché sia ripristinato il privilegio maschile. Da chi condanna ogni libera scelta delle donne, sulla gestione del proprio corpo, sulla propria sessualità, come quando i razzisti appoggiano mozioni contro l’aborto, contro la contraccezione e contro le famiglie omogenitoriali, cosa ci si può aspettare di più? Non c’è un vero interesse nei confronti delle donne violentate. Non sanno chiamare per nome un delitto che ha le caratteristiche del femminicidio. Non gliene frega un tubo di quello che ci succede e non si può biasimare chi dunque scorge della malafede nell’improvvisa attenzione dei leghisti e dei fascisti nei confronti di una vittima di stupro e femminicidio. Quello che appare chiaro è che tu, donna, per essere creduta devi essere stuprata da uno straniero, solo così fingono di crederti, solo così sospendono le critiche che in altre occasioni ti avrebbero gettato addosso, sulle tue abitudini, sul fatto che stavi lì, a quell’ora e che avevi assunto stupefacenti. Se lo stupratore fosse stato un italiano pensate a cosa avrebbero detto della vittima. Il victim blaming, la colpevolizzazione della vittima, è uno dei modi per alimentare la cultura dello stupro. Chi oggi sta usando la morte di queste vittime lo fa per legittimare le proprie scelte politiche, i divieti di sbarco, l’arresto del sindaco di Riace, la solidarietà diventata reato, l’assenza di empatia per le tante morti di uomini, donne e bambini nel mar mediterraneo. Perché preferiscono farli annegare che vederseli intorno. E tutto quel che fanno serve a far in modo che tu, tu e anche tu siate d’accordo. Se vi dicono che stanno arrivando gli stupratori voi direte che è un bene che non sbarchino nella penisola. Vi sentite con la coscienza a posto, anche quando i bambini figli di stranieri vengono discriminati e lasciati digiuni nelle mense scolastiche, anche quando viene rimproverato un prete che ospita rifugiati. Con Desirée c’è qualcosa di più: la destra da sempre avrebbe voluto gettare fango su femministe, militanti antirazzisti e antifascisti, e se è vero che “Gli unici neri che Salvini non sgombera sono quelli di Casapound” è anche vero che egli non vede l’ora di far sgomberare quegli spazi in cui la lotta di chi li attraversa, per rendere quel quartiere, quella città, un posto migliore, è prioritaria. D’altronde dissentono con le scelte del governo e non sono di destra. Dunque via anche loro.

Perciò prima Pamela poi Desirée servono a questo. A noi, le femministe, le antirazziste e antifasciste, che ogni giorno lottiamo contro stupratori di qualunque tipo, sapendo che tutti sono stati nutriti da sessismo e misoginia, a prescindere dai luoghi da cui provengono, fa veramente rabbia che non si dedichi davvero attenzione a queste vittime di stupro e femminicidio. Se Desirée fosse stata stuprata e uccisa da italiani avremmo visto Salvini in passerella, ad acchiappare un po’ di consensi elettorali? Io penso di no. E se ne parliamo in questo modo è per precisare che la prevenzione non passa per la cacciata dei “neri” o per gli sgomberi dei centri sociali. Il punto è l’esistenza della violenza di genere e della cultura dello stupro. Se chi ci governa non si impegna a lavorare su questi punti allora non c’è espulsione o sgombero che tenga. Cacciato via l’immigrato lo stupro resta sempre uno dei peggiori crimini realizzati per lo più al chiuso delle proprie case. La militarizzazione dei territori non serve. Vorrà mandare militari anche nelle case delle tante donne e ragazze e bambine stuprate da parenti e conoscenti? Quello che serve è racchiuso tutto in questo slogan: Le strade libere le fanno le donne che le attraversano e non i militari. Il securitarismo e la repressione non servono alle donne ma, soltanto, a chi fa della paura un’arma di controllo della gente. Il punto è che non possiamo permettere che qualcun@ metta le mani sui nostri corpi, chiunque esso sia. Che si tratti di stupratori o di chi strumentalizza quello che ci succede, i corpi sono nostri e guai a chi ci tocca. Perché se tocchi una di noi allora hai toccato tutte.

“E allora Pamela?” è diventato il nuovo “E allora le foibe?” Scrive laglasnost su Abbatto i Muri il 24 ottobre 2018. Lo stupro è stupro, chiunque sia a compierlo. Qualunque sia il colore della tua pelle, la tua cultura, la tua religione. Se stupri sei uno stupratore, punto e basta. La narrazione tossica di questi anni però è fatta di una strumentalizzazione fascista degli stupri commessi da stranieri (meno del 7%) negando ogni stupro commesso da italioti (un po’ più del 93%). Quello che la destra fa è disinnescare la potenza di chi combatte per difendere i propri diritti e metterti di fronte ad un vittimismo che riguarda proprio loro, gli uomini, quelli fascisti. Non mettono in evidenza le sofferenze della donna vittima di stupro ma continuano a difendere l’onore del maschio italico che difenderebbe le “nostre” (cioè le loro) donne. Lo considerano un attacco al pater familias, al marito, al fidanzato o all’estraneo che ti usa per fini ideologici. Giammai parlano delle donne e delle loro sofferenze, perché la loro empatia si ferma fino al punto in cui spicca il loro pene. Gli stessi che dicono “E allora Pamela?” poi ripetono fino all’ossessione frasi del tipo:

avevi la minigonna e te la sei cercata;

eri ubriaca e te la sei cercata;

sei femmina e dunque te la sei cercata;

varie ed eventuali.

Tutto ciò è stato scritto e riscritto, e non è mai abbastanza in fondo, ma ciò che mi fa imbestialire è il fatto che se io fossi Pamela li avrei fulminati da lassù tempo zero. Allora farò finta per un attimo di essere Pamela, chiudo gli occhi e non vedo il colore della pelle di chi mi ha massacrata. Vedo solo uomini, il loro bisogno di esercitare potere su di me, la totale assenza di empatia, il fatto che non mi guardano come persona ma come oggetto, il loro sessismo, la loro violenza. Tutto ciò è diffuso ovunque e riguarda uomini di qualunque nazionalità e colore della pelle. Le caratteristiche sono identiche per ciascuno di loro (non è vero che se stupra un bianco è più accettabile, come disse un leghista) così come il loro sangue è in ogni caso sempre rosso. Non c’è alcuna superiorità morale in un bianco, etero, fascista perché i valori da difendere quando si parla di stupro sono gli stessi di chi combatte la cultura patriarcale di cui il maschio bianco, etero, fascista, si fa portatore. La cultura dello stupro appartiene a molti uomini a prescindere da tutto. Il fatto che la bianchezza sia considerata segno di purezza è parte di una cultura razzista storicamente diffusa da bianchi che hanno colonizzato paesi stranieri per poi deportarne gli abitanti considerati senza anima né umanità perché di pelle scura. Ma la bianchezza non è un valore aggiunto. E’, casomai, solo un segno che contraddistingue chi possiede privilegi da quelli che non ne possiedono, se non per il fatto di essere uomini che pensano di essere superiori alle donne. Essere bianco, etero, occidentale è un privilegio e chi lo possiede ora dice che vuole la licenza di sparare al migrante e di stuprare le donne perché se stuprate da un bianco esse dovrebbero sentirsi felici. Perciò mi spiace davvero per Pamela, per l’uso sconsiderato che si fa della sua orribile storia, senza considerare la pena dei suoi parenti ma usando la vicenda per istigare odio contro gli stranieri, tutti gli stranieri. Sono tutti dei gran piagnoni questi fascisti e razzisti, perché non c’è giorno che non vengano sulla pagina di Abbatto i Muri, ogni qual volta in cui si parla di stupro e di cultura dello stupro, a dire “E allora Pamela?”. E non lo dicono per Pamela, la cui memoria rispettiamo e di cui abbiamo parlato (di lei e di tutte le vittime di stupro), ma lo dicono per fornire un argomento a supporto della loro necessità di ritenersi vittime delle terribili femministe. Quando dicono “E allora Pamela?” stanno dicendo in fondo “E allora noi?”. Ed è abbastanza per capire che il loro bisogno di attenzioni è tanto e tale da dover misurare più volte la distanza che bisogna prendere da loro. Se poi tenti di discutere con costoro alla fine la discussione si avvita su se stessa, perché sono in malafede e ovviamente ti sputano in faccia gli argomenti seri che tu stai mettendo sul piano della discussione dato che non sanno effettivamente cosa rispondere. Il fatto che essi abbiano madri, sorelle, amiche, non importa perché evidentemente non hanno loro chiesto quanto sessismo abbiano dovuto subire. Se abbiano più o meno paura a girare da sole per la città, non dico la notte, ma anche di giorno. Se e quanto faccia loro piacere stirare, pulire, lavare i piatti. Non fosse che credo la questione sia più complessa di così, giacché il razzismo è profondamente radicato in molte persone, non solo quelle ignoranti e quelli imbecilli, mi verrebbe da dire che il popolo tanto difeso dalla destra è pieno di gente frustrata che sfoga la propria frustrazione sugli stranieri. E’ un fatto che quelli che venivano chiamati terroni oggi votano Lega. E’ un fatto che non esista una memoria storica, anche grazie a chi fa del revisionismo alla Wilson Smith (Orwell, 1984) lo scopo della propria esistenza. E’ dai primi anni ’90 che dico che i leghisti e i fascisti non sono roba da riderci su, ma vanno presi sul serio perché pericolosi. Il fatto che si sia arrivati a questo punto è anche responsabilità di chi si sveglia solo quando vede l’emergenza razzismo, cioè oggi. Come se non ci fossero state aggressioni razziste o fasciste prima d’ora. E allora Pamela? Allora niente. Le ronde razziste non c’entrano niente con Pamela ma immaginano solo di poter controllare i corpi e la sessualità delle donne, non per niente sono antiabortisti e misogini convinti. Non parlateci più di Pamela come fosse la vostra arma per disinnescare l’antisessismo e l’antifascismo. E’ offensivo nei confronti di Pamela e di tutte le vittime di stupro. Grazie. Update: certe strumentalizzazioni fasciste toccano oggi purtroppo la sedicenne stuprata e uccisa a Roma. Esistono sciacalli senza pudore che usano la propria posizione politica speculando su tutto, anzi, su tutte.

DESIRÉE OFFESA: FEMMINISTE CON LE MUTANDE IN PIAZZA, scrive il 26 ottobre 2018 voxnews.info. La povera Desirée è vittima due volte. Prima degli stupratori africani col permesso umanitario, ora anche di chi se ne frega di lei se non nell’osceno tentativo di rovesciare la realtà, cercando di pasteggiare sul suo cadavere. Il meglio di questo peggio lo danno le presunte femministarde dell’associazione Non una di meno, che già l’altro giorno hanno difeso chi l’ha stuprata parlando di "discriminazione". Oggi hanno tenuto una piccola manifestazione a San Lorenzo: Con le mutande in mano dove hanno stuprato una ragazzina. Con deliranti tesi sul ‘patriarcato’: se ci fosse il patriarcato, Desirée non sarebbe finita come è finita. E’ proprio il mix esplosivo tra un Occidente decadente e la penetrazione di un’immigrazione patriarcale ad avere ucciso Pamela e Desirée. Non sono gli uomini che stuprano: sono gli immigrati. Lo dicono le statistiche. Tutta l’ideologia radical chic è una malattia mentale. E’ negazione della verità.

Ora gli ultrà dell'accoglienza vogliono imbavagliare Salvini. L'omicidio di Desirée è figlio dell'accoglienza indiscriminata e dei permessi facili. La sinistra, anziché fare mea culpa, se la prende con Salvini: "Sciacallo", scrive Andrea Indini, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". I fan dell'accoglienza si sono attaccati ai megafoni per sbraitare contro Matteo Salvini. Mentre l'Italia piange Desirée Mariottini, la ragazzina ammazzata da un branco di immigrati dopo due giorni di indicibili violenze e stupri, la sinistra se la prende con il vice premier leghista perché si sta spendendo in prima persona per assicurare alla giustizia le bestie che hanno ucciso la 16enne di Cisterna di Latina. Lo tacciano di essere "uno sciacallo" e gli consigliano addirittura di "usare l'amore anziché le ruspe" per riportare la sicurezza in Italia. E così, in un corto circuito senza precedenti, sul banco degli imputati anziché finire stupratori finisce il ministro dell'Interno. Davanti al corpo senza vita di Desirée, chi per anni ha fatto il tifo per l'accoglienza indiscriminata dovrebbe avere il ritegno di tacere. Il branco che la ha seviziata e ammazzata era formato da immigrati, tutti africani, senza permesso di soggiorno o con il foglio di via in tasca. Per un po' sono riusciti a rimanere in Italia grazie a un'invenzione della sinistra: una sorta di lascia passare per motivo umanitari che con il decreto Sicurezza da poco approvato Salvini ha stralciato. Poi hanno iniziato a delinquere a destra e manca e il permesso gli è stato stralciato. Ma loro non hanno lasciato l'Italia e hanno continuato a delinquere come se niente fosse, finché poi non sono stati arrestati per l'omicidio di Desirée. Quelli che per anni hanno predicato le politiche dei porti aperte e hanno regalato passaporti a chiunque, anziché fare mea culpa, se la vanno a prendere con Salvini. In primis Laura Boldrini che sui social network lo accusa di "trasformare il dolore per la povera Desirée in un set cinematografico in diretta Facebook". "Vada a lavorare nel suo ufficio al Viminale - scrive l'ex presidente della Camera - e metta in campo misure concrete per la sicurezza di tutti e tutte. Io sto coi cittadini e le cittadine che non sopportano più degrado, incuria e violenza". La Boldrini non è certo l'unica a ribaltare la frittata. La lista dei detrattori è lunga e, più viene a galla la crudeltà con cui il branco ha infierito sul corpo di Desirée, più questi provano a distrarre l'opinione pubblica attaccando il Viminale. Questa mattina, per esempio, Matteo Orfini ha postato un tweet al vetriolo: "Salvini, smettila di fare lo sciacallo e inizia a fare il ministro, se ne sei capace". E, insieme a lui, tutti i dem il Pd stanno usando la tragedia di Desirée per sostenere che ci vogliono più controlli in città. Sono gli stessi che, quando Salvini aveva lanciato l'operazione "Scuole sicure" per contrastare lo spaccio nei licei, si erano opposti parlando di "militarizzazione dei quartieri". Cecile Kyenge, poi, se la va a prendere con chi "tenta di strumentalizzare a proprio vantaggio, attraverso beceri tentativi di propaganda politica". E ancora: mentre il ministro dell'Interno invoca la castrazione chimica per chi stupra e l'espulsione per gli stranieri, Roberto Fico parla di inclusione sociale. "Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe - spiega il presidente della Camera - ma più amore e fatica nelle idee e nella partecipazione. Essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Le piazze riflettono la stessa ideologia bieca della sinistra. Oggi l'Anpi ha marciato tra le vie del quartiere San Lorenzo non tanto per chiedere giustizia per Desiree, ma contro la "deriva fascista". Lo stesso avevano fatto i centri sociali, la rete studentesca e i movimenti femministi giovedì scorso, quando Salvini si era recato davanti allo stabile abbandonato, dove era stata ammazzata la 16enne, per deporre una rosa. "Sciacallo, sciacallo - hanno urlato gli antagonisti - vattene dall'Italia". Ai lati della strada, invece, i residenti lo avevano applaudito chiedendogli aiuto con un "Salvaci, Matteo! Il quartiere è con te" che sapeva di implorazione. Un'istantanea plastica della cecità della sinistra che, anziché vedere i problemi reali del Paese, se la prende con il suo antagonista politico.

Salvini adesso "spegne" Fico: "Serve amore? Sono bestie". Dopo lo stupro di una ragazza in un centro di accoglienza, interviene il ministro degli Interni: "Carcere ed espulsione", scrive Franco Grilli, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Lo stupro di una ragazza all'interno del centro di accoglienza di Ragusa ha riaperto le polemiche sui casi di violenza legati all'ingresso sul nostro territorio di immigrati. Di fatto dopo il caso di Desirée Mariottini stuprata e uccisa da un branco di immigrati a Roma e la violenza sessuale subita da una ragazza da parte di un mediatore culturale gambiano, arriva la presa di posizione dura del ministro degli Interni, Matteo Salvini: "Ragusa, 'mediatore culturale' del Gambia arrestato per aver violentato un'ospite del centro immigrati e averla picchiata a sangue per non farla parlare. Grazie alla polizia di Stato per l'intervento. Se colpevole, per questa bestia (gli animali sono meglio) carcere duro ed espulsione, altro che risolvere il problema con amore, gessetti, girotondi o sorrisi...". Parole forti quelle del titolare del Viminale che di fatto ha anche risposto tra le righe anche alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico che sul caso di San Lorenzo ha espresso una posizione chiara riferendosi direttamente a Salvini: "La coesione sociale - ha detto Fico - è il mezzo fondamentale per costruire tutto il resto della comunità solidale e un'economia sana e forte. Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe ma più amore e fatica nelle idee e nella partecipazione. Essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Ora è arrivata la risposta di Salvini. E a quanto pare lo scontro tra il ministro e una parte dei Cinque Stelle resta aperto.

L'Anpi in piazza per Desirée? No, contro la "deriva fascista". La Meloni attacca i partigiani: "Sono allibita", scrive Angelo Scarano, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Iniziata la manifestazione organizzata dall'Anpi provinciale di Roma, insieme alle associazioni e ai movimenti territoriali di San Lorenzo. L'evento si sta svolgendo in Piazza dell'Immacolata e, come riportato dai partecipanti, mira ad essere una risposta concreta al clima di odio e violenza che si sta generando nel Paese. "Abbiamo preso questa piazza, assieme al movimento femminista e alle associazioni del quartiere di San Lorenzo, perché non tolleriamo più strumentalizzazioni di chi reagisce ai delitti, come quello della giovane Desirée, solo quando l'aggressore è straniero", dichiara il Presidente Anpi di Roma, Fabrizio De Sanctis. "Esprimiamo solidarietà alla famiglia della giovane ma non accettiamo le strumentalizzazioni dei movimenti di destra, di cui auspichiamo lo scioglimento, e neanche della politica". La discesa in campo dei partigiani non è piaciuta per nulla al presidente dei Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. Che su Twitter ha scritto: "L'Anpi oggi in piazza a San Lorenzo. Per chiedere giustizia per Desirée, ammazzata e stuprata da un gruppo di immigrati? Ma no, contro la "deriva fascista". Sono allibita". Intanto, un gruppo di alcune decine di militanti di Forza Nuova, guidato dal leader nazionale Roberto Fiore, è partito dalla sede della formazione di estrema destra per una camminata in direzione San Lorenzo, per manifestare in memoria di Desirée Mariottini. Al termine della passeggiata si svolgerà un presidio a piazza di Porta Maggiore. Prima di partire ai militanti è stato rivolto un appello dai dirigenti del partito di "attenersi alle indicazioni ed evitare cori ed iniziative personali".

Centri sociali, collettivi e femministe, chi c'è dietro l'odio su Salvini. Attimi di tensione nel quartiere romano di San Lorenzo dove il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è stato bloccato da centinaia di militanti dei centri sociali. E sulla morte di Desirée i collettivi difendono i migranti: "Non è una questione di immigrazione", scrivono Alessandra Benignetti ed Elena Barlozzari, Mercoledì 24/10/2018, su "Il Giornale". “Che schifo quei quattro idioti dei centri sociali che dimostrano di preferire caos a ordine, spacciatori a poliziotti”. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, commenta telegrafico la mattinata odierna e l’accoglienza ricevuta da centri sociali e collettivi universitari. San Lorenzo, d’altronde, è casa loro e non ci hanno messo molto ad organizzarsi. Verso mezzogiorno erano già ammassarsi davanti allo stabile di via dei Lucani, dove sabato scorso è stata trovata senza vita Desirée Mariottini, di appena sedici anni. Hanno aspettato il “fascista” e “dittatore” sotto il sole a picco con un solo obiettivo: “No pasarà”. Soprattutto nel quartiere simbolo della Resistenza. Chissà se Salvini, quando ha annunciato il sopralluogo in un post su Facebook, immaginava che razza di comitato di benvenuto si sarebbe trovato davanti. Probabilmente no, altrimenti non avrebbe portato con sé quel fiore bianco, convinto di riuscire a deporlo di fronte alla palazzina che ha inghiottito Desirée. Un gesto di umana pietà, ma anche un segnale: “Sono venuto qua per impegnarmi con la gente che non vuole lo spaccio e il racket”, ha detto. Ma di fronte alla cancellata degli orrori, il leader del Carroccio, non ci arriverà mai. Una barriera umana lo ha respinto, come un muro di gomma, da dove è venuto. Non lo vogliono. Lo chiamano “sciacallo” e “razzista” perché “è qui solo per raccogliere consensi accanendosi contro i deboli”. Ne è sicura una delle femministe di Non una di meno. Il movimento che, a livello mondiale, si batte contro la violenza sulle donne, non poteva mancare. Peccato che, invece di scagliarsi conto i carnefici di Desirée, la nostra suffragetta se la prende con il numero uno del Viminale. "È qui per soffiare sulle paure della gente - spiega Martina, ventiseienne studentessa di Lettere a La Sapienza - e il colore della pelle non c’entra, non c’entra neppure la cultura, né l’estrazione sociale". Insomma, sarebbe tutta una questione di genere: “La violenza – dice – la fanno gli uomini contro le donne”. Ragiona in maniera simile anche un’altra “compagna”. Per lei, il problema non sono gli immigrati, “poverini”. “Solo che vengono discriminanti dalla società, nessuno li aiuta e sono costretti a vivere allo stato brado: di conseguenza reagiscono come animali chiusi in gabbia”. Salvini, comunque, aveva messo in chiaro che “le bestie assassine, di qualunque nazionalità siano", sarebbero marcite in galera. Evidentemente non è bastato. Anche perché, sennò, l’Anpi (che oggi era in prima fila) contro chi scenderebbe in piazza? Ma c’è da scommettere che la cosa che meno viene perdonata a Salvini è quel piano sgomberi che ha fatto saltare sulla sedia i coordinamenti rossi che controllano la maggior parte delle occupazioni abusive della città. Oggi è tornato sull’argomento, non risparmiando una stilettata ai suoi contestatori, parlando di “100 palazzine in queste condizioni, con delinquenti che difendono le occupazioni abusive e lo spaccio”. L’atmosfera si raffredda solo quando il vicepremier si allontana. Hanno vinto una battaglia, ma la guerra non è finita. È lo stesso Salvini a lanciare il guanto di sfida: “Tornerò a San Lorenzo per incontrare i residenti”, promette. Stavolta però tornerà “con la ruspa”.

Desirée, la mamma di Pamela: «Qui i veri razzisti sono gli immigrati», scrive Venerdì 26 Ottobre 2018 Raffaella Troili su "Il Messaggero". Oggi si parla di Desirée ma il pensiero corre a Pamela. Drogate, stuprate entrambe. Lasciate morire. Era gennaio, la giovane romana era fuggita da una comunità di recupero di Macerata. A lei i carnefici, extracomunitari anche loro, non risparmiarono nemmeno lo scempio del corpo, fatto a pezzi e lasciato in una valigia sul ciglio della strada. Altro orrore da ingoiare, Alessandra Verni ha gli occhi verdi e lucidi. E un'idea da portare a termine. «Voglio parlare con la mamma di Desirée, perché so molto bene quello che sta provando in questo momento, perché so che posso aiutarla».

Dopo sua figlia, un'altra vittima. Anche stavolta hanno approfittato di un momento di fragilità.

«Un'altra ragazzina, speravo non succedesse più, spero che adesso qualcosa si muova davvero».

L'immigrazione spesso fuori controllo secondo lei ha portato a questo?

«Senta, qui si parla ancora di razzismo. Io e Pamela non eravamo razziste, ma quando mai. I razzisti sono loro, gli extracomunitari, che non si integrano. Noi li accogliamo, sono loro che non ci accolgono. In una intercettazione come dicevano? Abbiamo una bianca da stuprare. Una bianca capito».

E un'altra vita è stata spezzata, un'altra famiglia è distrutta. Fuorvianti secondo lei le connotazioni politiche di questa vicenda?

«Sì fanno tante manifestazioni antirazziste, ma piuttosto difendessero i nostri figli».

Come va avanti?

«Mi sta salvando la fede. Io Pamela la sento, mi manda segnali. Ora penso anche a Desirée, ridotta in quel modo. E alla sua mamma. Lo so solo io come sta».

Ridotta in quel modo nel cuore della città.

«Sì, appunto, a San Lorenzo: in un posto, in un contesto di degrado sociale che andava evitato, si poteva evitare. Anche stavolta non mancano gli imbecilli che dicono che se l'è andata a cercare, quasi che la colpa è della vittima e non del carnefice. Basta. Ora basta con lo giustificare questi atti, basta chiudere gli occhi di fronte a dati che sono oggettivi: sono tutti immigrati i protagonisti dei più orribili fatti di cronaca degli ultimi tempi».

Suo fratello, l'avvocato Marco Valerio Verni, parla del risultato di una politica migratoria fatta in modo criminale.

«Io credo che non si può morire nel centro di Macerata, a San Lorenzo a Roma, come a San Giovanni: ci siamo dimenticati della povera Amalia Voican, trovata morta a maggio in una casa demaniale abbandonata, il corpo decomposto, le hanno dormito accanto mentre gli animali le rosicchiavano il viso».

Da San Giovanni a San Lorenzo, una scia di orrore e giovanissime vittime.

«Due quartieri centrali dove esistono sacche di degrado paurose. È vergognoso. Questa non è integrazione. Stavolta è toccato a Desirée».

Tra un mese esatto è fissata l'udienza preliminare a carico di Innocent Oseghale, il pusher nigeriano accusato di aver ucciso sua figlia Pamela Mastropietro. Lei e il suo avvocato avete già espresso molti dubbi sul fatto che solo a lui siano stati contestati i reati di omicidio volontario, vilipendio, occultamento di cadavere e violenza sessuale.

«Ho chiesto più volte che indagassero più a fondo, sopravvivo per dare giustizia a mia figlia e ora me la aspetto davvero. Non mi arrenderò mai. Aspettiamo fiduciosi, anche se il tempo per studiare le carte è poco. E se avremo delle domande da fare in quella sede, siano tutti certi che le faremo».

E se ne rientra nel negozio, veloce, minuta, un sorriso triste e uno sguardo d'intesa. «Ah, stasera c'è la fiaccolata. Per Desirée, a San Lorenzo...».

Desirée, residenti contro centri sociali: "Non si azzardino a venire al funerale". Una settimana dopo la morte di Desirée Mariottini, la piazza simbolo del quartiere romano di San Lorenzo si divide ancora: da una parte gli attivisti dei centri sociali e dall'altra i residenti che stanno organizzando delle ronde per liberare la zona dai pusher, scrivono Elena Barlozzari ed Alessandra Benignetti, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Nel giorno dell’arresto in una baraccopoli di Borgo Mezzanone della quarta belva che ha stordito, stuprato e poi lasciato morire Desirée Mariottini, la piazza simbolo del quartiere romano di San Lorenzo si divide ancora. Da un lato ci sono gli attivisti del Nuovo Cinema Palazzo. Femministe e militanti dei centri sociali che puntano il dito contro il “patriarcato” e contro chi “strumentalizza” la tragedia della sedicenne di Cisterna di Latina. “Se sei dei Parioli o vieni dal Ghana non stuprare una donna”, si legge sui cartelli che sfilano per le vie di San Lorenzo, da piazza dell’Immacolata allo stabile abbandonato di via dei Lucani dove Desirée è stata trovata senza vita la settimana scorsa. Insomma, in questa vicenda “l’immigrazione non c’entra”, torna a ribadire la sinistra antagonista. I protagonisti di questa storia, però, sono tutti migranti. I senegalesi Mamadou Gara e Brian Minteh, il nigeriano Chima Alinno e il ghanese Yusif Salia, secondo gli inquirenti, sapevano che la dose fornita a Desirée sarebbe stata mortale. Quando la ragazza ha iniziato a stare male non l’hanno soccorsa. Anzi, hanno iniziato ad abusare di lei, per poi abbandonare il suo corpo esanime tra le mura squallide e sporche di quel vecchio cantiere. Appoggiati al muretto della chiesa di Santa Maria Immacolata, invece, ci sono i residenti. “Siamo venuti a vedere cosa fanno, ma noi con questi non ci mischiamo”, mettono in chiaro alcune donne. Ci sono anche loro in prima linea per liberare il quartiere dai pusher. Non sono “ronde” precisano. “Scenderemo più spesso in strada e se troveremo qualcosa che non va avviseremo la polizia o, nel peggiore dei casi, interverremo di persona”, spiega un uomo sulla cinquantina. Una delle sue figlie ha la stessa età di Desirée. “Certo che sono preoccupato per lei - ci confessa – qui è diventata terra di nessuno, spaccio e risse sono all’ordine del giorno”. “Nascondono la droga nelle nostre macchine, tra le ruote e i paraurti, conoscono i nostri orari ormai, per quello stanno tranquilli”, racconta una mamma. “Ti fermano per strada, danno fastidio alle ragazzine – continua un diciottenne della zona – a me hanno scippato la catenina d’oro e una volta mi hanno puntato un coltello contro”. Il clima nel quartiere dove la sedicenne di Cisterna è stata violentata e uccisa resta da Far West. E se il presidente della Camera, Roberto Fico, contrappone “l’amore” alle “ruspe”, i sanlorenzini non ci stanno e invocano più controlli da parte delle forze dell’ordine. “La polizia si vede solo di mattina, ma lo spaccio c’è a tutte le ore, soprattutto di sera”, denuncia Patrizia, la proprietaria di un bar all’angolo tra via degli Equi e via dei Volsci. È tra le ultime persone ad aver visto Desirée prima che morisse. “È venuta qui giovedì mattina a fare colazione, era lucida ma un po’ agitata perchè le avevano rubato il cellulare”, ci racconta. “Poi si è seduta qui fuori, sulla panchina, e dopo un po’ è andata via”. “Da donna ho paura”, ammette Patrizia che, tra un caffè e l’altro, ci rivela anche di tenere sempre un bastone a portata di mano sotto il bancone. “Qui resta pieno di balordi”, dice scuotendo la testa. “Ronde o passeggiate per la sicurezza non importa, se le fanno, fanno comunque bene”, è convinta. “Non serve tanto per riportare un po’ di ordine, bastano una ventina di persone robuste per cacciare gli spacciatori”, dice un ragazzo di zona. “Anche se loro sono tanti, noi - è pronto a giurare - non abbiamo paura di nessuno”. Per lui e per gli altri residenti, a speculare sulla tragedia di Desirée non sarebbe il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ma i centri sociali. “Come al solito hanno fatto una figuraccia, vengono qui a fare politica e non hanno nessun rispetto per la memoria di questa ragazza”, accusa la gente del quartiere. E c’è anche chi sostiene che la famiglia della giovane abbia già dato direttive precise. “Collettivi e femministe farebbero bene a non presentarsi al funerale di Desirée perchè – ci dicono – la famiglia non la prenderebbe bene, è già molto arrabbiata”. Ad una settimana dalla morte della sedicenne, l'atmosfera resta tesissima. E lo scontro politico rischia di infiammarsi ulteriormente nella giornata di oggi, con l’Anpi e il presidio “Con i migranti per fermare la barbarie” che si contrapporranno ai militanti di Forza Nuova, che hanno deciso di sfilare proprio a San Lorenzo nonostante polemiche e divieti.

Da Libero Quotidiano del 27 ottobre 2018. Il commento di Gad Lerner sulla tragica morte della 16enne Desirée Mariottiniha scatenato ferocissime polemiche sui social. Il giornalista ha scritto su Twitter: "Dopo Pamela Mastropietro guardiamo attoniti la vita e la morte di Desirée Mariottini: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre quindicenne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dell'odio razziale". Lerner ci ha tenuto a sottolineare che la ragazza fosse figlia di uno spacciatore italiano, come se il dettaglio potesse cambiare la gravità di quanto ha subito la ragazza, e solo a margine si ricorda di citare i "pusher immigrati", che sono i veri carnefici della giovanissima di Cisterna. In tanti lo accusano di aver scritto "una cosa vergognosa", "vomitevole", altri che accusano Lerner di giustificare gli stupratori dando più peso alle vicende familiari di Desirée. Tanto che qualcuno gli scrive: "Ci manca che scriva 'se l'è cercata' o 'alla fine vedete che è colpa sua'". L'ennesimo scivolone.

Boldrini, Lucarelli, Lerner e il grullismo ideologico, scrive Augusto Bassi il 28 ottobre 2018. Il sinistro raglio del catechismo nonpensante è ineluttabilmente arrivato, come annunciato. La patetica goffaggine del rovesciamento ideologico della verità, della realtà, ha il suono somaro della dissonanza cognitiva e guizzo nemertino nei riflessi pavloviani della Boldrini, di Lerner, della Lucarelli, serpeggiando pestilenzialmente fra i nostri avamposti multimediali. «Anzichè trasformare il dolore per la povera Desirée in un set cinematografico in diretta Facebook, il Ministro Salvini lavori nel suo ufficio al Viminale e metta in campo misure concrete per la sicurezza di tutti e tutte. Io sto coi cittadini e le cittadine che non sopportano più degrado, incuria e violenza», scrive Laura. Il gelido ossequio alla vittima – femmina, minorenne, caduta sotto percosse maschili – portato di striscio, di sghimbescio, proprio dalla sposa dello spirito santo femminista, ci ha lasciato sorpresi e contrariati; nessun pensiero carezzevole per quella giovanissima anima sciagurata, nessun flagello verso i ripugnanti usurpatori; solo la foga uterina di chi, con risibile sforzo, cerca un falso colpevole. Per non trovare se stessa. E poi Selvaggia Lucarelli, su Facebook: «Quindi Cucchi che spacciava e si drogava vittima delle forze dell’ordine italiane era un tossico di merda, Desiree che era stata denunciata per spaccio e si drogava vittima di stranieri era un angelo volato in cielo. La doppia morale di tanti italiani». Distillato di grullismo ideologico, che piega la logica all’idea oca, rivelandosi più abbietto di qualunque bullismo. La storia di Stefano Cucchi è narrata in un film: «L’emozionante racconto degli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi e della settimana che ha cambiato per sempre la vita della sua famiglia. Solo su Netflix. Primo mese gratuito». Il suo volto martoriato è già icona, effigie tumefatta di un martirio. Non la fine che si meritava un tossico di merda, Lucarelli, ma il martirio di un ragazzo sventurato, caduto tragicamente innanzi alla iattanza poliziesca. Senza dimenticare Carlo Giuliani, come Stefano vittima degli sbirri, che dà il nome a un’aula del Senato della Repubblica. Non un teppistello, ma un eroe della contestazione, un indomabile drago di fuoco giovanile, che oggi sarebbe civilmente in piazza a manifestare contro i fascismi, contro Salvini. Sulla sua storia si sono girati documentari, uno dei quali di F.Comencini; si sono scritti libri, su Giuliani. Perché nel sinistro pattume culturale post-sessantottino, che ha spalancato finestre di Overton sull’impensabile, ciò era possibile; di più: popolare. Mentre Netflix racconterà la storia di nessuna 16enne drogata, volata in cielo. Nessuna aula del Senato per Pamela o Desirée. Questa è doppia morale. Che scrivere, dunque, della tanto celebrata solidarietà femminile? Quando il senatore Vincenzo D’Anna invitava pubblicamente le ragazzine ad avere più cautela nel mostrare il proprio corpo, per non correre rischi inutili, veniva lapidato come gvetto maschilista, come stegosauvo del pensiero. Perché una donna sarà pur libeva di vestive come vuole senza esseve molestata! Ma quando una ragazzina audace di costumi – non un angelo, ma poco più di una bambina – viene mangiata viva da una clandestinità d’importazione che chiede a noi umanità… non un moto di pietà. Non un’invettiva verso la primigenia ferocia dei maschi. Una qualunque donna vittima di stupro e omicidio di gruppo da parte di cittadini italiani porta a magliette rosse e seminari sui femminicidi; grazie a Dio, aggiungiamo. Se poi è una fanciulla forestiera a essere preda dell’uomo indigeno, il caso diviene nazionale. Immantinente difesa, presidiata, consolata, anche fosse per un uovo in faccia, per una frittata democratica. I seminari di cui sopra, che ho ampiamente elencato nella puntata precedente, stimolano le ragazze a riconoscere un’insistenza patologica, un’avance potenzialmente pericolosa, la cinesica di un possibile pervertito. Eppure, le stesse allertate signore, leste a sporgere denuncia per una carezza sotto la coda o per un complimento inopportuno, così implacabili nei confronti della fallocrazia e dei suoi simboli, sembrano poi inconsapevoli dell’inopportunità di accogliere esemplari di maschio scarsamente avvezzi alla creanza, all’urbanità, alla parità fra i sessi; esotici gentiluomini forse troppo ruspanti, che vedono le femmine come bistecche da battere. E magari spezzettare. Selvaggia Lucarelli, cuore delicato, riguardoso, soccorrevole verso qualsivoglia femmina perseguitata, oppressa, nella vita reale come sul web – spesso più vivido e violento della vita stessa – neppure è riuscita a scrivere compiutamente il nome, di Desirée, tale la cura che le ha riservato. Perché con la furia irriflessa dell’ideologia, cretinamente à la page e sedicente “civile”, si è scaraventa dal Carrefour-gate al biasimo verso la doppia morale di tanti italiani. Cieca com’è di fronte alla sua. Per fortuna Oliviero Toscani ci salva da ogni aporia, intervenendo a Radio Capital. In studio, Vittorio Zucconi e un tragico buffone di cui dimentico sempre il cognome; pertanto non Giannini. Ci si affligge per la deriva pentaleghista, ma si parla soprattuto di ignoranza, sulla quale Toscani è effettivamente apprestato. Dopo aver caracollato nello sproloquio… Oliviero giunge alla stoccata: «Diciamolo una buona volta, chi insulta è un coglione!». E diciamolo. In questa fertile semenza di acutissimi analisti del pensiero urico, concludiamo in bruttezza con un’infiorescenza carnivora, Gad Lerner: «Dopo #PamelaMastropietro guardiamo attoniti la vita e la morte di #DesireeMariottini: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre quindicenne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dall’odio razziale». Oh my Gad, che prurigine! Supero il fastidio epidermico perché non è facile scrivere sotto l’assedio di parassiti ematofagi, arduo digitare mentre ci si gratta. Sì, ci suggeriscono qualcosa di più, Lerner: l’odio profondo, ragionato, coltivato, verso la viltà dei protervi, la stupidità degli adulteratori e l’opportunismo dei #farisei.

Desirée Mariottini, Marcello Veneziani: "Perché Lerner e Serra sperano che gli stupratori siano italiani", scrive Libero Quotidiano" il 29 Ottobre 2018. Marcello Veneziani senza freni contro i radical chic: "L'altro giorno Michele Serra confessava onestamente su La Repubblica che quando sente la notizia di uno stupro si augura vivamente che gli stupratori siano italiani, perché teme l'ondata razzista contro i neri. Altrettanto onestamente ammettiamo che a gran parte degli italiani succede esattamente l'inverso, preferiscono pensare che gli stupratori siano immigrati, come del resto il più delle volte accade. Entrambi brutti vizi, ma se permettete il primo è leggermente peggiore". Il giornalista apprezza l'onestà dello scrittore, ma incolpa Serra di "un vizio tipico dell'uomo di sinistra", il cosiddetto razzismo etico, per il quale "gli italo-razzisti di questa contrapposizione ci campano, mentre gli antirazzisti illuminati ne soffrono". "No, Michele, posso assicurarti che anch'io ne soffro, non mi piace patire di questi pregiudizi e soprattutto di questi odi incrociati - rivela Veneziani -. Però poi ho collegato l'osservazione di Serra a una serie di eventi recenti e ho notato una cosa: gli spacciatori nigeriani che straziano il corpo e la vita di Pamela a Macerata passano nel dimenticatoio rispetto al gesto folle di Traini, che volendo vendicare la ragazza, spara all'impazzata, senza uccidere nessuno, contro un gruppo di neri". A riprova di ciò, lo stesso ex direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha pubblicato un libro interamente dedicato a Macerata e all'invettiva, per il giornalista, contro l'Uomo Bianco. "Secondo episodio, più recente, lo stupro e poi lo strazio di Desi, sul quale Gad Lerner interviene facendo sapere che la droga era di casa nella famiglia italiana di lei. Come a dire, ben gli sta, ecco gli spacciatori made in Italy". Gli esempi di Veneziani non finiscono qua: "Terza storia, infinita, il caso Cucchi. Come voi sapete l'unica etnia nera che suscita livore e disprezzo a sinistra è l'etnia dei Carabinieri, con le loro divise nere e il loro minaccioso ruolo di garantire ordine e sicurezza al paese. Il caso Cucchi, non dello spacciatore Cucchi ma del geometra Cucchi, per carità, diventa l'occasione per processare, discreditare, delegittimare l'Arma dei Carabinieri - prosegue -. In un paese sano si sarebbe portati a circoscrivere la vicenda ai diretti, presunti colpevoli, lasciando che la giustizia faccia il suo corso. Da noi no, non basta cercare coperture dei superiori ma si deve allargare il cerchio nero del discredito anche ai vertici dell'Arma che cercano come è giusto e naturale, difendere l'onorabilità dei Carabinieri e limitare la portata della brutta storia ai soli responsabili". Quest'anno cade il centenario della Vittoria, l'anniversario in cui l'Italia vinse una guerra, fu effettivamente una tragedia, una catastrofe di morti, ma fu anche "un evento glorioso per l'Italia e un evento da ricordare anche per quanti sacrificarono la loro vita sul fronte". "Ma di quell'evento cruciale non si parla affatto, se non per parlare dei generali felloni, delle diserzioni e delle carneficine. Mai nessuno che ricordi quei poveri soldati morti al fronte, quegli eroi, quei militi ignoti, quel momento in cui un popolo si scoprì patria. In compenso, si commemorano da svariati mesi, quasi ogni giorno, su tg, giornali, con le istituzioni, le infami leggi razziali del '38. Sembra che sia la cosa più importante che abbia fatto l'Italia, e non solo il fascismo". 

Desirée Mariottini, Giorgia Meloni lancia l'accusa: "Perché l'ha uccisa il lassismo della sinistra", scrive il 29 Ottobre 2018 Libero Quotidiano". La piccola Desirée è stata stuprata e uccisa. Sarà la magistratura, grazie al lavoro degli investigatori e delle forze di polizia, ad individuare tutti i colpevoli e si spera a dare loro una pena esemplare. Esiste tuttavia, nella triste vicenda di questa ragazzina, un altro livello di responsabilità, quello di chi ha contribuito a creare i presupposti di questa tragedia. Nonostante qualcuno, come mi aspetto, vorrà accusarmi di "sciacallaggio", voglio assumermi la responsabilità di parole chiare e scomode: Desirèe è stata uccisa una volta da un branco di vermi spacciatori, ma anche quattro volte dal lassismo della sinistra. Uccisa da chi promuove la droga, attraverso un martellamento scientifico che tenta di convincerci che drogarsi sia una forma innocente di svago, mentre le cronache, supportate dalle statistiche, ci raccontano sempre più di giovani vittime di overdose. L' eroina gialla, spacciata da bande di nigeriani, ha causato decine di morti negli ultimi dodici mesi, tra i quali Alice, 16 anni come Desirée, spirata nella desolazione di un bagno della stazione di Udine. Giovani uccisi da una sinistra che spaccia la cultura della morte e che in sei anni di governi filo-tossicodipendenze è riuscita a portare l'Italia tra le prime nazioni per il consumo di droghe in Europa. Desirée è stata uccisa da chi difende l'illegalità delle "zone franche", come quello stabile di San Lorenzo a Roma, come tutte le terre di nessuno che esistono in Italia, difese dai centri sociali e dall' ANPI, che scendono in piazza, non contro gli spacciatori che hanno ucciso Desirée Mariottini, ma contro la presenza dello Stato. A questa sinistra piace l'idea di uno spazio in cui lo Stato non possa entrare, perfino quando questo è diventato covo di spaccio e sede di violenza. Una rivendicazione politica e ideologica che spesso nasconde torbidi affari tra centri sociali, spacciatori e delinquenti vari.

IMMIGRAZIONE. Desirée è stata uccisa da chi ha favorito per anni l'immigrazione incontrollata in Italia. L' illegalità questa volta come "resistenza democratica", in nome dell'immigrazione di massa, sostenuta dal sindaco di Riace e da tutte le anime belle della sinistra. Per dirla con le parole del guru Saviano «centomila immigrati (clandestini) non sono un problema, ma un dono». A proposito del sempre loquace Saviano, aspettiamo ancora una parola su Desirée e su Pamela, anche lei drogata, violentata e uccisa da pusher africani, per spiegarci meglio questo dono. Desirée è stata uccisa, infine, da chi nega le evidenze statistiche che mettono in relazione l'immigrazione illegale di massa con l'aumento di un certo tipo di reati in Italia, la violenza sessuale su tutte. I dati del Viminale sono allarmanti: gli stranieri, che sono solo l'8% della popolazione commettono quasi il 42% delle violenze sessuali, con una incidenza sconcertante per determinate nazionalità e in particolare proprio quelle prevalenti di chi è sbarcato sulle nostre coste negli ultimi cinque anni. Una vera e propria emergenze stupri da parte di stranieri che coinvolge ormai tutta l'Europa. Quella stessa sinistra che nega l'allungarsi nella nostra nazione dell'ombra della mafia nigeriana. Un giorno potremmo scoprire che molte delle violenze finite nelle cronache di questi anni, siano ascrivibili a pratiche tribali, stupri e omicidi rituali, tipici di organizzazioni criminali che abbiamo importato con i barconi durante l'ubriacatura dell'accoglienza per tutti. Per questo mi assumo tutta la responsabilità delle mie parole. Stiamo combattendo una autentica guerra per salvare i nostri giovani e sfido tutta la sinistra, compreso il M5S, a dire chiaramente da che parte intende schierarsi. Per la liberalizzazione delle droghe o con chi, come Fratelli d' Italia, sostiene che non esistono droghe leggere e pesanti, ma solo la droga, quella che rende schiavi e che uccide senza pietà? CENTRI SOCIALI A difesa delle zone franche dello spaccio e del degrado care ai dai centri sociali, o dalla parte della legge e dello Stato sgomberando tutti gli edifici occupati e portando la polizia dove oggi non può entrare? A favore dell'immigrazione di massa, come fenomeno ineluttabile e positivo per l'Italia, oppure per un controllo serio delle frontiere stabilendo che in Italia non si entra illegalmente e chi entra deve rispettare le nostre leggi e la nostra civiltà? Continuando a negare il nesso diretto tra immigrazione incontrollata e l'aumento degli stupri o con Fratelli d' Italia che ha il coraggio di dire che va bloccata l'immigrazione proveniente da quelle nazioni che, in base ai dati ufficiali, creano maggiori problemi di sicurezza e di allarme sociale? Fratelli d' Italia non resterà a guardare aspettando un'altra Pamela, un'altra Desirée, un' altra ragazzina sacrificata sull' altare del politicamente corretto della sinistra. Possono chiamarci "sciacalli" se vogliono, siamo disposti ad essere anche iene, squali e belve feroci per difendere i nostri figli. Giorgia Meloni

Differenza Sessuale Nell’accoglienza: Il Dono Che Dobbiamo A Desirée, scrive il 26 ottobre 2018 Marina Terragni. Ieri a Piazza Pulita si è parlato di Desirée. O meglio si è parlato di quasi tutto – degrado urbano, mercato della droga, quartiere San Lorenzo diviso tra salviniani e non salviniani, inerzia delle forze dell’ordine, quantum della manovra economica sul tema sicurezza, probabile imminente campagna elettorale per il sindaco di Roma - tranne che di Desirée. Per “parlare di Desirée” non intendo parlare della sua famiglia disfunzionale, del fatto che venisse bullizzata a scuola per un suo lieve difetto fisico, della sua eventuale tossicodipendenza o che le stesse capitando o meno di prostituirsi in cambio di un po’ di pasticche, fatto eventualmente non sorprendente. “Parlare di Desirée”, così come “parlare di Pamela”, o di Jessica ammazzata a Milano dall’uomo che le dava ospitalità, o di tante altre, significa parlare di ragazze martiri – nel senso etimologico di “testimoni” - della sessualità maschile violenta, dello stupro come dispositivo del dominio. Le vittime di femminicidio sono sempre donne che hanno fatto una mossa di libertà: che si sottraggono a relazioni malate, che disubbidiscono, che non si fanno tutelare da un maschio-padrone, che non si chiudono in casa quando fa buio, o che semplicemente si fidano di uomini e non accettano la parte della preda. Probabilmente Desirée si è fidata dei suoi aguzzini. E gli aguzzini hanno preso questa bambina senza padrone e l’hanno ridotta a cosa morta. Lo stupro è assassinio simbolico, è downgrade di una donna viva verso il non-umano. Qui all’assassinio simbolico è seguito l’assassinio reale, in una sequenza ancora non chiarita. Ma di che cosa si tratti è già chiarissimo: di violenza maschile, funzione del dominio. Su questo non servono ulteriori indagini. Su un’altra cosa va detta la verità (oggi dire la verità contro ogni tentazione di correctness, come insegna il #metoo, è precisamente la cosa che abbiamo da fare): l’immigrazione sregolata comporta dei costi, e uno dei costi che vanno nominati è un carico ulteriore di rischio e di violenza per le donne. Se è vero che il più della violenza avviene nell’ambito delle relazioni familiari, è vero anche che (dati Istat) in Italia il 40 per cento degli stupri viene commesso dall’8 per cento della popolazione, i cosiddetti “stranieri”, e questo è un fatto su cui ragionare. In Svezia – nazione europea con il più alto tasso di violenza maschile - il 95,6 per cento degli stupri commessi tra il 2012 e il 2017 è stato a opera di stranieri, così come il 90 per cento delle violenze di gruppo. Gli autori degli stupri provengono prevalentemente dal Medio Oriente, dai paesi africani e dall’Afghanistan (studio Jonasson-Sanandaji-Springare). Nel dicembre 2017 a Malmö le donne sono scese in piazza protestare contro l’ondata di violenze. Il primo ministro svedese e leader del socialdemocratici Stefan Löfven ha parlato di un “grande problema di democrazia” per il Paese e di un “doppio tradimento” nei confronti delle donne. Uno stupro è uno stupro è uno stupro, certo, chiunque lo commetta. Ma qui ci sono degli stupri in più. Qualunque discorso di accoglienza deve tenerne conto. Indire un corteo che rappresenta la San Lorenzo “solidale” mentre quella bambina attende ancora di essere sepolta non è una grande idea, soprattutto da un punto di vista femminista. Qualcuno potrebbe intendere che quella solidarietà è destinata ai clandestini spacciatori o ai mafiosi nigeriani (in prima linea anche nella tratta delle prostituite), e il malinteso procurerebbe solo altri problemi. Il femminismo non è ancella della destra, ma nemmeno della sinistra, soprattutto di una sinistra confusa e distopica. L’occasione casomai andrebbe colta per una riflessione sulla differenza sessuale nella migrazione e nell’accoglienza. Secondo uno studio della scienziata politica Valerie Hudson l’Unione europea sta accogliendo un numero sempre più alto di giovani maschi: il 73 per cento dei richiedenti asilo è composto da uomini. Circa l’87 per cento degli immigrati arrivati in Italia sono maschi di età compresa tra 18 e 34 anni, e quasi tutti sono arrivati da soli. Trend confermato dagli ultimi dati disponibili (Ministero dell’Interno): nel dicembre 2017 sono sbarcati 2.327 migranti, dei quali solo 255 donne; a gennaio 2018, su un totale di 4189 sbarcati le donne erano 600. In generale l’80-90 per cento dei crimini — con lievi differenze da Paese a Paese — è commesso da uomini giovani adulti. Favorire l’accoglienza delle donne comporterebbe molti vantaggi: per loro, anzitutto, ma anche per le comunità ospitanti, a cominciare dalle donne. Un buon lavoro femminista potrebbe essere proprio questo: lavorare perché le donne migranti - profughe e migranti economiche - godano di una corsia preferenziale. Chiedere che si tenga conto della differenza sessuale nelle politiche di accoglienza e di integrazione.  Quelle donne fuggono da guerre che non hanno dichiarato, da situazioni economiche e politiche che non governano, sono spesso oggetto di violenza sessuale, di sfruttamento e di tratta. In cambio dell’accoglienza portano in dono tutto il loro desiderio intatto di libertà e di un mondo più giusto.  Differenza sessuale nell’accoglienza! Lo dobbiamo anche a Desirée.

"Maometto era pedofilo". Ma la Corte europea: "Non si può dire". Secondo la Corte europea per i diritti dell'uomo non si può dire che Maometto era un pedofilo nonostante avesse sposato una bambina di sei anni, scrive Andrea Riva, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". La figura di Maometto è una delle più complesse della storia delle religioni. Della sua biografia, però, una cosa ha fatto più scandalo di altre, ovvero il suo matrimonio con una bambina di sei anni. Certo, obietta la narrativa musulmana, sei anni sono pochi, ma erano altri tempi. Ma sei anni sono sei anni, anche se, secondo le cronache Aisha, questo il nome della bimba, avrebbe consumato il rapporto a nove. Ovvero quando il profeta aveva 50 anni. E qui entra in gioco la storia di Elisabeth Sabaditsch-Wolff, un'attivista per i diritti umani che aveva definito pedofilo Maometto. L'accusa della donna, come riporta Libero, risulterebbe però infondata secondo una certa narrativa "in quanto i due erano ancora sposati quando lei aveva 18 anni. Pedofilo sarebbe chi sia attratto solo o principalmente da minorenni". Il punto è che la Corte europea per i diritti dell'omo ha detto che è la signora Elisabeth Sabaditsch-Wolff a sbagliare. In particolare - sottolinea Libero - "si stigmatizza tra l'altro la generalizzazione senza basi fattuali in cui è incorsa la donna".

L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.

"Non spegnete la tv, ma accendete la libertà": l'inedito di Umberto Eco sulla televisione. La Tv è maestra, a volte cattiva, ma in modo non prevedibile. Come gli altri media. La lezione del grande semiologo ora diventa un volume, scrive Umberto Eco il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". L'intervento che qui anticipiamo, datato 1978, è integralmente contenuto nel volume "Sulla televisione" in uscita per La nave di Teseo. Otto o nove anni fa, quando mia figlia stava iniziando a guardare il mondo dalla finestra di uno schermo televisivo (schermo che in Italia è stato definito “una finestra aperta su di un mondo chiuso”), una volta la vidi seguire religiosamente una pubblicità che, se non ricordo male, sosteneva che un certo prodotto era il migliore al mondo, capace di soddisfare qualsiasi bisogno. Allarmato sul fronte educativo, cercai di insegnarle che non era vero e, per semplificare i miei argomenti, la informai che le pubblicità di solito mentono. Capì di non doversi fidare della televisione (in quanto, per ragioni edipiche, faceva di tutto per fidarsi di me). Due giorni più tardi stava guardando le notizie, che la informavano del fatto che sarebbe stato imprudente guidare lungo le autostrade del Nord per via della neve (un’informazione che soddisfò i miei più intimi desideri, dato che stavo disperatamente cercando di restare a casa per il fine settimana). Al che mi fulminò con uno sguardo sospettoso, chiedendomi come mai mi fidassi della tv visto che due giorni prima le avevo detto che raccontava bugie. Mi trovai costretto ad avviare una dissertazione molto complessa di logica estensionale, pragmatica dei linguaggi naturali e teoria dei generi allo scopo di convincerla che ogni tanto la televisione mente e ogni tanto dice il vero. Per esempio, un libro che comincia con “C’era una volta una bambina chiamata Cappuccetto Rosso e così via...” non dice il vero quando sulla sua prima pagina attribuisce la storia della bambina a un signore di nome Perrault. Solo lo psichiatra al quale mia figlia probabilmente si rivolgerà una volta arrivata all’età della ragione sarà in grado, direi, di constatare i danni consistenti che il mio intervento pedagogico ha provocato alla sua mente o al suo inconscio. Ma questa è un’altra storia. Il fatto, che ho scoperto proprio in quell’occasione, è che se si vuole usare la televisione per insegnare qualcosa a qualcuno bisogna prima insegnare come si usa la televisione. In questo senso, la televisione non è diversa da un libro. Si possono usare i libri per insegnare, ma per prima cosa bisogna spiegare come funzionano, almeno l’alfabeto e le parole, poi i livelli di credibilità, la sospensione dell’incredulità, la differenza tra un romanzo e un libro di storia e via dicendo. [...] Credo che i problemi legati all’uso educativo della televisione siano gli stessi di quelli legati ai suoi supposti effetti perversi. Può essere che la televisione, così come gli altri media, corrompa gli innocenti, ma lo fa indubbiamente in un modo non previsto da molti educatori (o da molti corruttori). Supponiamo che un marziano cerchi di estrapolare l’impatto della televisione sulla prima generazione cresciuta sotto la sua influenza (persone che hanno cominciato a guardarla all’età, poniamo, di tre anni nei primi anni cinquanta), quindi il nostro marziano potrebbe cominciare analizzando il contenuto dei programmi televisivi degli anni Cinquanta. Nutrita a forza di programmi come The $64,000 Question, soap opera, sceneggiati in stile Mary Walcott, pubblicità della Coca-Cola e film con John Wayne sulla seconda guerra mondiale, è probabile che quella generazione sia arrivata al 1968 con un buon posto di lavoro in banca, taglio militare e colletto bianco, una solida fede nell’ordine costituito e l’intenzione di sposarsi virtuosamente con la ragazza o il ragazzo della porta accanto. E invece, se non ricordo male quell’evento preistorico, nel 1968 è successo che questa “generazione televisiva” non ha cercato di ammazzare i giapponesi bensì i professori universitari, fumava la marijuana invece delle Marlboro, praticava lo yoga, la meditazione trascendentale, mangiava macrobiotico e così via. Lasciatemi aggiungere che quando la televisione propose capelloni che fumavano marijuana e mettevano fiori nelle canne dei fucili come nuovo modello per uno stile di vita “giovane”, la generazione successiva si tagliò i capelli, iniziò a usare le armi e a preparare bombe. Questo ci suggerisce che i giovani leggono la televisione in maniera diversa da chi la fa. Non credo che accada a caso: credo ci siano delle regole che governano lo spazio vuoto tra l’emissione e la ricezione di un programma televisivo. Bisogna conoscerle e bisogna soprattutto cercare di insegnarle, in particolare ai giovani. […] I sociologi che studiarono i mass media negli anni Quaranta e Cinquanta conoscevano già molto bene fenomeni come l’effetto boomerang, l’influenza degli opinion leader e la necessità di rafforzare il messaggio mediante una verifica porta a porta. Sapevano che tra il punto d’invio e quello di ricezione vi sono molti filtri attivati da schermi psicologici e sociali, o culturali. I primi test dopo l’arrivo della televisione nelle aree suburbane e depresse dell’Italia dimostrarono che moltissime persone guardavano i programmi serali come un continuum, senza alcun discrimine tra show, telegiornali o drammi. Tutto veniva preso allo stesso livello di credibilità, un assoluto guazzabuglio di competenza di genere. Per anni e anni, le aziende televisive hanno fatto affidamento su diversi tipi di indici di gradimento e si sono accontentate di sapere quante persone apprezzavano un determinato programma (un’informazione senza dubbio importante da un punto di vista commerciale) seppur ignorando quel che il pubblico realmente capiva del programma stesso. Detto questo, il gap comunicativo descritto poc’anzi è molto più complesso. Dobbiamo considerare non solo le differenze di codice fra mittente e destinatario, ma anche la varietà di codici che distinguono certi gruppi di destinatari da altri, in base al loro status sociale e alle loro propensioni ideologiche. E dovremmo considerare, anche da un punto di vista così flessibile, che il quadro resta incompleto dato che dovremmo anche tener conto del fatto che un dato soggetto appartiene a gruppi diversi a seconda del programma e dell’orario. Intendo dire che la persona X può valere come un lavoratore sensibile alla politica (quindi dotato di competenze economiche e politiche) quando guarda il telegiornale. Però la stessa persona X può sposare le predilezioni di un filisteo borghese quando guarda uno sceneggiato, tenendo in disparte le sue sensibilità in tema di ruoli sessuali, liberazione femminile o lotta di classe, anche se è capace di risvegliarle quando il televisore parla di salari, scioperi o diritti umani. Dovremmo essere consapevoli del fatto che lo stesso fenomeno accade ai bambini. I bambini possono essere estremamente sensibili ai valori ecologici quando la televisione stuzzica la loro competenza spontanea, già acquisita, circa il rispetto per gli animali, mediante una trasmissione sulla fauna selvatica. Ma lo stesso bambino, davanti a un western, parteciperà all’eccitazione del cowboy che parte al galoppo inseguendo i fuorilegge senza soffrire per il tour de force del cavallo, sfruttato senza pietà. Possiamo dire che anche in questo caso stiamo assistendo a una differenza tra codici? Possiamo dire che a seconda della situazione e dell’attivazione di una competenza di genere la stessa persona reagisce in base a codici culturali differenti? Dipende dal nostro accordo sulla nozione di codice culturale. [...]. Ma che succede al bambino che guarda il film western e, una volta accettate, le sue regole di genere non attivano la competenza sullo sfruttamento animale? Non riesco a immaginarmi lo stop del film con un presentatore che appare e dice “Fa’ attenzione al comportamento non etico dell’eroe”. O meglio, posso immaginarmi una situazione simile ma non nei termini di un intervento grammaticale, come nel caso della “metempsicosi”. Si tratterebbe piuttosto di una procedura di decontestualizzazione e decostruzione. [...] La televisione educativa ha avuto molti meriti. Un programma come Sesame Street ha insegnato a milioni di giovani americani che l’inglese della comunità nera è una lingua in tutto e per tutto, capace di esprimere gioia, arguzia, compassione, concetti. Ma mi piacerebbe vedere un programma che spieghi agli insegnanti come usare, ad esempio, il Johnny Carson Show al fine di prevedere cosa dirà a un giovane portoricano, a un giovane nero, a un giovane bianco protestante. Forse ciascuno di essi vede qualcosa di diverso in quel programma. Nessuna di queste interpretazioni è, in sé, un caso “aberrante”. La vera aberrazione è che tutti questi ragazzi non si rendono conto che il programma è lo stesso ma le interpretazioni variano. Ogni interpretazione riflette un diverso mondo culturale con codici differenti. [...]. Fino a che punto una formazione specifica nell’ambito delle arti visive consente di individuare meglio riferimenti visivi che (a loro volta) sono indispensabili per capire determinate situazioni narrative? Prendiamo i sottocodici estetici: ci sono differenti modelli di bellezza per il corpo umano così come in termini di arredamento, case e automobili, a seconda della tradizione nazionale, dell’adesione a una classe, di un’eccessiva esposizione televisiva ad altri modelli e così via. È importante mostrare che un dato programma fa uso di stereotipi, ma è anche importante vedere se questi stereotipi hanno lo stesso effetto su ciascun bambino della classe. […] Un’educazione criticamente orientata deve riconoscere il fatto che la televisione esiste e che è la principale fonte formativa per adulti e ragazzi. Ma un’educazione criticamente orientata deve far sì che gli insegnanti usino la televisione lorda come una fetta di mondo proprio come usano il tempo atmosferico, le stagioni, i fiori, il paesaggio per parlare dei fenomeni naturali. A questo punto la mia proposta per una televisione educativa riguarda, credo, non solo i bambini ma anche la formazione permanente degli adulti. Appena due giorni fa il primo ministro tedesco Schmidt ha scritto un lungo articolo sulla Zeit per manifestare la propria preoccupazione circa la tv, che assorbe gran parte del tempo libero dei suoi connazionali bloccando qualsiasi possibilità d’interazione faccia a faccia, soprattutto nelle famiglie. Schmidt ha quindi proposto che ciascuna famiglia decida di dedicare un giorno al rito di tenere il televisore spento. Un giorno a settimana senza televisione. Forse i tedeschi saranno così obbedienti da accettare la proposta. Spero solo che non lo facciano proprio nel momento in cui il governo sta promulgando una nuova legge! Comunque, se fossi nei panni di Schmidt, la mia proposta sarebbe diversa. Direi così: amici, connazionali, tedeschi (ma la proposta vale anche per gli inglesi), un giorno a settimana incontriamoci con altre persone e guardiamo la televisione in maniera critica tutti assieme, confrontando le nostre reazioni e parlando faccia a faccia di quello che ci ha insegnato o ha fatto finta di insegnarci. Non spegnete la televisione: accendete la vostra libertà critica.

Quella carovana di migranti che entusiasma il politically correct, scrive il 28 ottobre 2018 Michele Crudelini su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. In poche settimane è già diventata il simbolo dell’ala progressista americana e occidentale. L’hanno soprannominata “carovana dei migranti”, volendole così conferire un carattere innocuo e pittoresco. Una semplice carovana, al pari di quelle organizzate in occasione di alcune festività, è un qualcosa di pacifico e non potrebbe dunque rappresentare una minaccia. Come di consueto, la narrativa mainstream, con l’aiuto di una terminologia iperbolica e fotografie tatticamente estrapolate da contesti specifici, è riuscita a creare un “mito” nell’immaginario collettivo che, tuttavia, poco si avvicina a quella che è la realtà dei fatti.

Quanti sono davvero i migranti della carovana? Proviamo ad andare con ordine. All’inizio della scorsa settimana è iniziata a circolare la notizia, con foto annesse, che un nutrito gruppo di persone si sarebbero messe in marcia dall’Honduras con l’obiettivo di oltrepassare le frontiere di Guatemala e Messico per arrivare infine negli Stati Uniti. Il gruppo, beneficiando della possibilità di poter oltrepassare il confine guatemalteco solamente con il proprio passaporto, è arrivato dunque al confine con il Messico è lì si trova tuttora bloccato. Bene, partendo da questa ricostruzione, appositamente stringata e ridotta all’osso proprio perché si tratta degli unici eventi di cui si ha la certezza, proviamo a capire cosa è stato detto a sproposito e quelle che possono essere le interpretazioni di questo fenomeno. Innanzitutto i numeri. Non si riescono a trovare, infatti, due articoli di giornale che riportano lo stesso numero circa i partecipanti alla carovana. Secondo Rai News sarebbero attualmente 2mila, anche se non viene specificato quale fosse il numero iniziale. Stime decisamente più larghe arrivano invece da Askanews, dove si parla di 4mila persone. Molto più ridotta invece la stima del The Post International, secondo cui la carovana sarebbe composta da sole 1.600 persone.

Tutte le contraddizioni dei media sulla carovana. Non sono solo i numeri a creare confusione in questa vicenda. Anche lo stesso evolversi degli eventi non viene descritto in maniera chiara. Per esempio, sempre su Rai News, si può leggere così “migliaia di migranti dell’Honduras, di El Salvador e del Guatemala, componenti la carovana che marcia verso gli Usa, hanno sfondato, provenendo dal Guatemala, i cancelli e le reti di protezione della frontiera del Messico. Sono entrati nel territorio messicano e stanno avanzando verso gli Stati Uniti”, preludendo così ad un’avanzata senza intoppi. Nello stesso articolo viene però scritto che “molti altri sono bloccati sul ponte di confine tra Messico e Guatemala, dove si sono uniti ad altri manifestanti locali”, e nella foto pubblicata sono visibili alcune migliaia di persone proprio sul ponte. Se la maggior parte della carovana è bloccata sul ponte, chi ha sfondato la barriera con il Messico? Alla domanda prova a rispondere il Corriere della Sera, pur lasciando alcuni dubbi. Inizialmente afferma che “migliaia di migranti dell’Honduras hanno sfondato dal Guatemala i cancelli e le reti di divisione alla frontiera con il Messico a Tecun Uman”, per poi, quasi contraddirsi, poche righe più sotto, dove si afferma che in realtà “un primo gruppo di circa 30 persone ha attraversato il confine venerdì mattina e sono stati fermati dagli agenti del confine messicano che studieranno le loro domande di asilo o di visto”.

Chi è il vero organizzatore della carovana di migranti. Nel frattempo, quel che è certo, è che il Messico ha schierato alcune unità del proprio esercito lungo quel confine, proprio per evitare che alcuni impavidi migranti si avventurino attraverso il fiume per oltrepassare la frontiera. Difficile credere che poche migliaia di persone (numeri modesti anche per un corteo cittadino) abbiano vinto la resistenza della nutrita polizia messicana schierata al confine. Passando invece alle interpretazioni del fenomeno c’è, ovviamente, qualcosa di più profondo rispetto alla narrativa dominante che la carovana come un gruppo di persone alla ricerca di una nuova vita, in marcia proprio contro il Presidente dei “muri” e dei “confini”. I primi dubbi iniziano a sorgere quando si legge che dietro alla “carovana” ci sono alcuni organizzatori e tra questi risulta esserci tale Bartolo Fuentes. Si tratta di un ex politico honduregno legato al partito Libertad y Refundación che è attualmente all’opposizione nel Paese. Il governo honduregno sostiene che Bartolo Fuentes abbia “utilizzato le persone con finalità eminentemente politiche e persino criminali”. Inoltre non sarebbe la prima volta che lo stesso Fuentes viene riconosciuto come organizzatore di questi movimenti migratori, ruolo da lui stesso ammesso. Quest’ultimo però si difende sostenendo che queste persone stiano davvero scappando da una situazione di estrema crisi economica che colpisce l’Honduras.

L’Honduras è in una fase di crescita economica. Su questo punto sembrerebbe non esserci nulla da obiettare, sennonché il quadro macroeconomico dell’Honduras ci dà in realtà uno scenario ben diverso. Secondo la piattaforma Focus Economics, leader nella raccolta di statistiche economiche nei Paesi del mondo, “l’economia honduregna ha avuto una accelerazione nel secondo quadrimestre grazie ad una robusta domanda interna e i consumi privati sono molto aumentati”. Inoltre viene riportato come il reddito pro capite sia aumentato progressivamente dal 2013 al 2017 e il tasso di crescita del Pil sia passato dal 2.8% del 2013 fino ad arrivare ad un 4.8% nel 2017. Lo stesso tasso di disoccupazione è sceso dal 6.3% del 2016 al 5.9% del 2017. Certo, rimangono problemi legati alla criminalità organizzata e ad una sperequazione costante tra le campagne e i centri urbani. Tuttavia l’economia del Paese è in una fase di crescita e non sta attraversando una crisi tale da scatenare un esodo, come paventato da Bartolo Fuentes. Molto più probabile è che questa carovana rappresenti un’arma politica dell’opposizione honduregna volta a indebolire il Governo attraverso, in particolare, l’interruzione degli aiuti americani, ipotesi che è stata per l’appunto paventata da Donald Trump. 

Perché la “carovana” umanitaria in Centroamerica fa male alla causa dei migranti. Duemila persone partite dall'Honduras chiedono di entrare negli Stati Uniti. Trump ha trasformato la questione in un tema elettorale potente, scrive Maurizio Stefanini il 18 Ottobre 2018 su "Il Foglio". Negli ultimi giorni, circa 2.000 persone partite dall'Honduras, nell'America centrale, stanno marciando verso nord in una “carovana” con l'obiettivo dichiarato di immigrare negli Stati Uniti. Queste “carovane” sono un fenomeno tipico latinoamericano (ce ne fu una anche a marzo, che si disperse in Messico), e sono più marce di protesta che veri movimenti migratori. Tuttavia, la loro presenza crea un panico sconsiderato tra i media statunitensi: duemila latinos sono pronti all'invasione! Questo panico è spesso strumentalizzato in chiave politica, e in periodo di mid-term questo movimento nato con intenti tutto sommato umanitari sta ottenendo l'effetto contrario: avvantaggia gli impulsi anti immigrati e spesso xenofobi dell'elettorato del presidente Donald Trump, che non a caso negli ultimi giorni ha fatto della “carovana” un tema di politica nazionale. Le duemila persone sono partite da San Pedro Sula, in Honduras, venerdì 12 ottobre: il giorno della scoperta dell'America. Erano all'inizio 160, ma presto le loro fila si sono ingrossate. “In Honduras non c'è lavoro e non c'è sicurezza”, la semplicissima motivazione. “Abbiamo fede che Dio ci aiuterà come quando aiutò il popolo di Israele a uscire dall'Egitto scampando al Faraone”, ha scritto su Facebook un simpatizzante dell'iniziativa. E un altro: “Geova guida e protegge Bartolo Fuentes così come fece con Mosè per liberare il suo popolo”. Bartolo Fuentes è il leader dell'iniziativa. Giornalista, fu da 2013 al 2017 deputato in Honduras con il partito di Manuel Zelaya: il presidente liberale che durante il suo mandato si trasformò in un simpatizzante di Chávez. Come humus ideologico, siamo dalle parti del classico populismo di sinistra latino-americano. Ma un populismo che in centroamerica da una parte si ormai solidamente innervato col linguaggio e l'immaginario delle sette evangeliche. Lunedì 15 ottobre i migranti hanno passato il confine col Guatemala, puntando verso il Messico e il confine con gli Stati Uniti. Martedì 16 Trump ha iniziato a preoccuparsi al punto da minacciare di tagliare gli aiuti all'Honduras se non avesse fermato la fiumana. Il vicepresidente Mike Pence ha fatto sapere di aver chiamato direttamente i presidenti Juan Orlando Hernández dell'Honduras e Jimmy Morales del Guatemala. Il Guatemala ha risposto arrestando Fuentes e rispedendolo in patria. Ma i suoi seguaci hanno continuato la marcia. Secondo quanto aveva spiegato lunedì Fuentes alla Cnn, l'intenzione dei marciatori era quella di chiedere al Messico dei “visti umanitari”. L'ambasciata americana in Honduras ha avvertito sui rischi del viaggio e ha preannunciato che gli Stati Uniti avrebbero fatto valere le proprie leggi sull'immigrazione. Cioè, che i migranti sarebbero stato respinti in blocco al confine. Il governo del Messico ha a sua volta avvertito che fermerà coloro che non hanno i documenti in regola, il che però vuol dire che chi li ha potrà entrare indisturbato: stessa posizione già presa dal governo del Guatemala. Cogliendo al balzo l'occasione, mercoledì 17 Trump è tornato sul tema: “E' difficile credere che, con migliaia di persone che stanno camminando senza ostacoli verso la frontiera sud, organizzati in grandi carovane, i democratici non vogliano approvare una legislazione che permetta leggi per la protezione del nostro paese. Questo è un grande tema di campagna elettorale per i repubblicani!”. Oggi (18 ottobre ndr) il presidente è tornato sulla questione e ha accusato il Partito democratico di “guidare l'assalto al nostro paese dal Guatemala, dall'Honduras e da El Salvador (perché loro vogliono frontiere aperte e vogliono mantenere le deboli leggi in vigore)”, ha detto che tra i migranti ci sono “MOLTI CRIMINALI” e ha aggiunto: “Oltre a bloccare gli aiuti a questi paesi, che sembrano non aver praticamente alcun controllo sulla loro popolazione, devo chiedere con estrema forza al Messico di bloccare questo assalto”, e se il Messico non sarà in grado di farlo Trump chiamerà l'esercito. Infine l'ultima minaccia: difendere i confini americani è più importante dell'accordo di libero scambio con Messico e Canada appena ratificato – come a dire: sono pronto a stralciare tutto. Sono tutte minacce vuote e strumentali, anche perché, come già successo a marzo, con ogni probabilità i migranti hondureñi si disperderanno da qualche parte in territorio messicano – ma non prima di far ottenere a Trump qualche vittoria retorica e perfino elettorale sul tema dell'immigrazione. La marcia dei migranti avrà effetti diametralmente contrari a quelli sperati dai suoi organizzatori.

Sono di sinistra ma non voglio gli africani. Lettera del 28 ottobre 2018 su "L'Espresso". "Cara Rossini, sono una persona di sinistra che ha votato per il Pci, Pds, Ds, Ulivo, Pd e il 4 marzo avrei votato Leu. Ma qualche giorno prima Grasso dice in Tv: "Siamo il partito dell'accoglienza!". Ho cambiato idea. Vorrei chiedere ai sigg. dell'accoglienza quanti ne dobbiamo accogliere: 1 milione, 10 milioni, 20 milioni? Perchè non lo dicono? Penso che se non si fermano non si fermeranno mai. Li salviamo in mare? Ma vanno riportati da dove vengono. Perchè Salvini ha raddoppiato i voti? Leu, invece, che prima del 4 Marzo era dato a molto di più del 6 % é sceso dopo al 3 %. Chissà se molti mi hanno imitato. Posso essere in disaccordo su questo argomento? Si parla di "migranti" quando dovrebbero chiamarsi "pretenziosi fuggitivi" che imbarcano su precari gommoni anche donne incinte e bambini per impietosire chi li salva. Li chiamerei anche sciagurati. Sono quasi tutti giovanotti con le spalle così che alla domanda (ne ho fatte tante sulla via Tiburtina) perchè sei venuto qui? Rispondono: per trovare una casa e un lavoro. Alla faccia! In Italia abbiamo migliaia di giovani laureati e non, senza lavoro e senza casa. Credo che tutti quelli che parlano di accoglienza, umanità, solidarietà, ecc. lo facciano solo per compiacimento personale come a dire: "vedete come sono buono e come sono bravo?". Oppure per interesse personale. Non possiamo fare da balia a un continente. Una riflessione che ritengo realistica è che se non si fermano non si fermeranno più. Fino ad avere un'Italia colorata in nero. Non sono razzista. Il razzismo non c'entra niente. Anzi viene usato a sproposito perchè il razzismo è ritenere una razza o un popolo superiore agli altri (Hitler, Mussolini). Discendiamo tutti da chi lasciò le orme a Laetoli. Mi vien da dire che è razzista ci lo dice agli altri. Si tratta di non volere flussi di altri popoli, che non sono ineluttabili, a casa nostra. La destra, che aborro, semplicemente non accetta, con diritto, pretenziosi fuggitivi. TV e giornali ripetono come litanie: "Gli africani trasportati qui sono doni di Dio, risorse, fuggono da guerre e fame, ci pagheranno le pensioni" et similia. Ha scritto su un noto bimestrale Carlo Lauletta, magistrato a riposo, che per destabilizzare l'Europa e al tempo stesso sottrarre all'Africa fresche energie e frenarne così lo sviluppo si è trovato un metodo infallibile: trasferire in Europa quanta più possibile popolazione africana. Donde: indebolimento delle strutture territoriali, guerra tra poveri, conflittualità permanente, disfunzionamento dei pubblici servizi fino al collasso dello Stato sociale. Questa è la posta in gioco. Ha detto Wolfgang Schaeubler giorni fa: "L'Europa attira persone da tutto il mondo". Che cosa ne vogliamo fare, una scatola di sardine?. Marcello Fagioli - Roma.

Il signor Fagioli ha affidato alla tastiera, e poi a noi, pensieri che da qualche tempo vengono in mente a molte persone di sinistra. E' una riflessione importante e sincera. Coloro che qui la vorranno commentare sono pregati di tenerne conto, evitando faziosità in un senso o nell'altro.

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

ECCO SASSARI MASSONA, LA CITTA' DEI PRESIDENTI E DELLE GRANDI FAMIGLIE.

Berlinguer una vecchia famiglia massonica, il cui capostipite Mario, zio di Luigi e padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari.

"Lui mi chiamava Francè, io lo chiamavo Enrì. Eravamo veri cugini, scrive Alberto Stabile su "La Repubblica". I nostri nonni erano fratelli. Io democristiano, lui comunista. Ad un certo punto io ero capo dell'esecutivo e lui dell'opposizione. Ma per capire i nostri rapporti, anche politici, bisogna sapere cos'è una famiglia sarda, che cos'è il pudore per i nostri sentimenti...". Così, Francesco Cossiga, nel volume "Enrico Berlinguer", pubblicato ad un anno dalla morte del segretario del Pci, ricorda i rapporti che lo legavano con il leader comunista: sassarese come lui, come lui figlio di quella borghesia colta, impegnata, sensibile ai valori dello Stato, che qui porta i cognomi dei Berlinguer e dei Cossiga, dei Segni e dei Siglienti, dei Satta Branca.

Come mai questa città di centotrentamila abitanti distesa sul lato "spagnolo" dell'isola, abbia dato i natali a personaggi che hanno raggiunto livelli così alti nella politica, nelle istituzioni o nell'economia è questione non facile (e forse neanche così rilevante), da risolvere. "Io dico che è il caso", risponde lo scrittore Manlio Brigaglia, "anche se certamente un caso non è che Francesco Cossiga sia il secondo presidente della Repubblica originario di questa città". Chi sono dunque e cosa hanno in comune queste famiglie pur così diverse tra di loro? La risposta che si può dare subito è: una passione civile e politica che vanta ormai una lunga tradizione; un senso quasi sacro delle comuni radici familiari; un intreccio di parentele vicine e lontane che fa sì che, quasi di ognuno di loro, si possa dire: "E' cugino di...".

La storia di questa èlite - chè di questo in fondo si tratta - comincia più o meno a metà dell'800 con la nascita dei primi movimenti che sarebbero poi diventati primi partiti politici. Fu allora - siamo intorno alla prima guerra di indipendenza - che i capi delle grandi famiglie borghesi (che aspiravano ad entrare a far parte della burocrazia sabauda) scesero in campo in prima persona. Non è questa la sede più adatta per ricordare i modi che caratterizzarono quegli anni. Fatto sta che da questi sussulti nacquero i due schieramenti che si sarebbero fronteggiati fino agli inizi del'900: il partito monarchico costituzionale, capeggiato dall'avvocato Salvatore Manca Leoni e il partito mazziniano, repubblicano e intransigente, che faceva riferimento all'avvocato Gavino Soro Pirino. Avversari decisi, in politica, questi due personaggi avevano in comune l'appartenenza alla massoneria; una costante, questa che caratterizzerà alcune delle future generazioni. E', comunque, da una costola del partito mazziniano che, alla fine del secolo, nasce un gruppo di giovani radicali anti-giolittiani, seguaci di Felice Cavallotti, moderati e riformatori, talmente decisi da riuscire ad imporre il loro leader, Filippo Garavetti, nelle elezioni tra il 1890 e il 1904. ("E fu - dice Brigaglia - una rivolta dei giovani turchi ante litteram"). Fra questi giovani troviamo l'avvocato Enrico Berlinguer, nonno del futuro segretario del Pci; l'avvocato Giuseppe Castiglia (professore di Filosofia del Diritto all' Università di Sassari, da cui quasi tutti provengono); l'avvocato Pietro Moro; un industriale di idee nittiane, Salvatore Azzena Mossa che è anche il finanziatore del gruppo; e Antonio Zanfarino, nonno di Francesco Cossiga.

E' questo il nucleo storico di quella borghesia anticlericale, democratica e repubblicana che segnerà, con un'opposizione di fondo, anche gli anni del fascismo. Sensibile ai valori culturali e, in definitiva, all'Europa; curioso del nuovo in una realtà profondamente legata alle tradizioni della terra, questo gruppo diede anche vita ad un giornale "La Nuova Sardegna", concepito da Pietro Satta Branca e da Enrico Berlinguer senior come foglio di contestazione e di agitazione politica.

La parentela tra i Berlinguer e i Cossiga è già nata. La comune matrice è nella bisnonna materna che sposa in prime nozze Giuseppe Zanfarino e in seconde nozze Giuseppe Loriga. Da Zanfarino ha un figlio, Antonio (che abbiamo visto tra i repubblicani più attivi) che sposerà Maria Solinas. Da questo matrimonio nasce Maria che andrà in sposa a Giuseppe Cossiga, il padre del neo presidente della Repubblica. Giuseppe Cossiga, morto alcuni anni fa, è figlio di Francesco Maria, detto "Chiccu", medico di Siligo e viene oggi ricordato come azionista della prima ora, di quelli, per intenderci che si identificarono subito nel messaggio di Lussu. C'è una vena di estro poetico nella famiglia Cossiga, coltivata dal bisnonno Gavino, detto "Su poeta cristianu" (per il tema religioso prevalente nei suoi versi), ma Giuseppe Cossiga preferisce la carriera bancaria. Entra all'Istituto per il credito agrario sardo (oggi Banco di Sardegna) e ne percorre tutto il cursus fino a diventare, ormai sulla soglia della pensione, direttore generale. Dal secondo matrimonio di Maria Russo con Giuseppe Loriga nasce invece Giovanni, la cui figlia, Maria, andrà in sposa a Mario Berlinguer, il senatore aventiniano, prima amendoliano, poi socialista, padre di Enrico.

Ma non è tutto. I Berlinguer sono poi legati alla lontana con i Segni e, tramite un rapporto molto più stretto, con i Siglienti. Stefano Siglienti, l'economista, ex presidente dell' Asso-bancaria e dell'Imi, promotere dell'industrializzazione della Sardegna, ha sposato nel' 26 Ines Berlinguer, sorella di Mario, donna di straordinarie capacità. "Se i padri - dice Aldo Cesaraccio, che per molti anni è stato direttore della "Nuova Sardegna" - hanno cercato di infondere nei figli la passione per l'impegno civile e per la politica, le madri sono state il perno della loro preparazione". Così si vuole che alla formazione cattolica di Francesco Cossiga abbiano concorso in modo decisivo due figure: la madre e don Giovanni Masia, il parroco della chiesa di San Giuseppe nella cui parrocchia sono passati molti dei giovani borghesi di Sassari e che per l' elezione del presidente ha sciolto le campane e fatto intonare il "Te deum". Educazione religiosa per Cossiga e per i Segni; laica per i Berlinguer. Ma entrambe cariche di quel reciproco rispetto, di quella tolleranza che è da queste parti un valore imprenscindibile.

Cossiga ricorda "quella famiglia schietta e severa".

"Mi telefonò, qualche giorno fa, per dirmi che stava leggendo le poesie del mio bisnonno, Gavino Cossiga...". Il libretto, dalla copertina chiara, è sul tavolo, scrive Miriam Mafai su "La Repubblica". Il titolo, in sardo, è "Su Poeta Christianu" e anche il nome dell'autore è scritto alla maniera sarda: Bainzu. Francesco Cossiga si abbandona ai ricordi, alla tenerezza e all' orgoglio di questa parentela apparentemente anomala. Da una parte il segretario del più grande partito comunista dell'Occidente, dall'altra uno dei leader della Dc, oggi presidente del Senato. I rami lunghi dei rispettivi alberi genealogici si intrecciano con quelli dei Segni, dei Siglienti, dei Satta Branca, degli Zanfarino, dei Soro Polino, grandi famiglie di Sassari, nobiltà di toga e di armi, avvocati, magistrati, massari e commercianti, sullo sfondo di una città di tradizione repubblicana e democratica, orgogliosa dei suoi intellettuali, della sua Università e della sua vita politica vivace.

In questa città don Enrico Berlinguer, nonno del segretario del Pci, aveva fondato sul finire del secolo "La Nuova Sardegna" di orientamento radicale. "La mia famiglia veniva dall' interno e noi eravamo di origine più modesta. I Berlinguer invece appartenevano alla piccola aristocrazia sarda non titolata, cavalieri ereditari di patrizi, con titolo di don ma senza feudi nè decime. Nè marchesi nè ricchi i Berlinguer, ma aristocratici sì, arrivati in Sardegna dalla Spagna sul finire del 500. Ma l'origine catalana non esclude sangue tedesco; il circuito Spagna-Fiandre-Austria fu vivace per tutto il 700". Lo studio del presidente della Repubblica è tappezzato di damasco color oro, dello stesso colore sono le poltrone e il divano. Sul muro, vicino alla bandiera tricolore, c'è un crocefisso d'avorio, alle pareti quadri di scuola fiamminga e del Pinturicchio. Nella penombra, Cossiga appare pallido, un po' gonfio e stanco. E' stato a Padova a vedere il cugino Enrico morente. A uno squillo del telefono sobbalza: "Forse chiamano dall'ospedale". Non è l'ospedale. Torna a sedersi sulla poltrona e a raccontare. Spiega: "Quando si dice nobiltà sarda, si dice qualcosa di abbastanza diverso da ciò che si immagina altrove. La nostra nobiltà è collegata col popolo, legata alla storia civile dell'isola, a una funzione pubblica: sono magistrati, militari... E infatti un bisnonno di Enrico fu uomo d'armi. Si chiamava Gerolamo e aveva sposato, agli inizi dell' 800, donna Giovannina Segni che, come il mio bisnonno, scriveva poesie. Don Gerolamo era ufficiale dei carabinieri e venne insignito di una seconda medaglia d'oro per aver sconfitto, a metà del secolo scorso, una feroce banda di briganti del Sassarese. A lui è intestata la caserma dei carabinieri di Sassari. E quando Enrico, nel 1944, fu arrestato per aver organizzato, sotto il regime militare alleato, una sommossa del pane, venne condotto proprio lì, nella caserma che porta il nome di un suo antenato. Curioso, no?". Un bisnonno ufficiale dei carabinieri, un nonno fondatore di giornali radicali, un padre deputato del blocco costituzionale, aventiniano, poi aderente a Giustizia e Libertà e al Psi; un altro nonno medico famoso; cugine cattoliche; zii democristiani o massoni...

Come si cresce in una famiglia così? Tengono le fila di questa educazione familiare non solo gli uomini ma anche le donne, che nel racconto di Cossiga compaiono e scompaiono, affettuose ed eleganti, rapite dalle malattie o inghiottite dalla vecchiaia. Sono le bisnonne le nonne le zie le madri che reggono con mano ferma e grande parsimonia le famiglie, nobili e numerose, in cui si parla molto di politica e in cui i bambini vengono portati regolarmente in chiesa e comunicati anche quando i padri sono massoni o fanno professione di anticlericalismo.

"La moglie di nonno Enrico, così piccolina, dipinta che camminava svelta...". "Zia Mariuccia, bellissima, morta in modo così terribile...". "Zia Ines, che sposò Stefano Siglienti, sì quello che fu il presidente dell'Imi ma prima era stato ministro delle Finanze del governo Bonomi...". Altre donne appaiono fuggevolmente in questo quadro sassarese: "Le sorelle Sant'Elia, che erano molto amiche delle principesse Savoia, tanto che quando il principe Umberto arrivò a Sassari chiese di conoscere Mario Berlinguer, il padre di Enrico, perchè era loro amico e andavano tutti assieme a fare i bagni...". Dolcezze di una vita di provincia di cinquanta anni fa, dove erano possibili singolari alleanze familiari e innesti culturali, tra deputati antifascisti, personaggi della Curia, figli di nobili e alti funzionari dello Stato.

In questo ambiente, severo senza bigotteria, benestante senza sprechi, cordiale senza volgarità, i due ragazzi, Enrico e Giovanni rimasti presto orfani, crescono imparando le virtù che sono comuni a certa nobiltà e alla classe operaia: la serietà, il riserbo, l'impegno nello studio e nel lavoro, la parsimonia. Nella famiglia Berlinguer, come nelle famiglie dei Segni, dei Cossiga e dei Siglienti c'è sempre stato il gusto (oltre che la necessità) della modestia nel vestire, nell'abitare, nel vivere. Il rammendo era di casa, e gli abiti passavano dai fratelli più grandi a quelli più piccoli senza proteste e senza vergogna. Un certo ascetismo di Enrico ha origine in questa educazione prima di incontrarsi con il rigore tipico del rivoluzionario professionale. "Enrico era più chiuso di noi, più taciturno", racconta Cossiga. "Leggeva molto. In casa c' erano i libri del padre Mario e del nonno Enrico, anche lui avvocato, di idee radicali, amico di Garibaldi e di Mazzini. Nella biblioteca di famiglia ha certamente incontrato Amendola, Gobetti e Dorso, ma anche Bakunin, Croce e il Manifesto di Marx".

Croce il giovane Berlinguer lo conoscerà di persona quando nel 1944 va a Salerno a trovare il padre, Mario, già in corsa per un ministero (e difatti sarà nominato commissario aggiunto all'epurazione). In casa di Croce quel giorno ci sono i sardi che contano: Antonio Segni, naturalmente, e Stefano Siglienti, che sono ben felici di presentare al filosofo il nipote, così giovane, così studioso, così magro, appena uscito da cento giorni di detenzione nel carcere di Sassari. Ma in casa Croce quel giorno c'è anche un altro signore che a Sassari ha fatto il liceo e che alla Sardegna è molto legato: è Palmiro Togliatti, appena rientrato in Italia da un ventennale esilio, che al giovane Enrico chiede notizie dettagliate su questi "moti del pane" di cui l'Unità aveva già dato notizia. Qualche mese dopo Enrico si trasferisce a Roma per lavorare al centro dell' organizzazione giovanile del Pci.

"Mio cugino", dice Cossiga, "non è timido. E' sardo. Ha sempre avuto un grande pudore dei suoi sentimenti. Può dire di conoscerlo solo chi lo ha visto in barca o nell'intimità della sua casa... I nostri rapporti politici? Le dirò solo questo: se parlavo con lui, da sardo e da cugino, non gli mentivo. E so che la stessa cosa valeva per lui. Un giudizio? In questo momento è difficile: è certo che era profondamente comunista e insieme profondamente democratico. Come riuscisse a conciliare le due cose non so. Ma ci riusciva".

Segni ricorda Cossiga: "Quand'ero bambino facevamo le vacanze insieme, era un pezzo del mio mondo".

“Cossiga, per me e la mi famiglia, rappresenta un pezzo del nostro mondo”. Mario Segni, l’ex parlamentare sardo leader del movimento referendario, che caratterizzò un momento importante della politica nazionale, figlio dell’ex Presidente della Repubblica Antonio Segni ricorda così l’ex Presidente della Repubblica scomparso. I suoi sono ricordi di prima mano, quelli di uno che Cossiga l’ha conosciuto fin da quando portava i calzoni corti. “Me lo ricordo sempre di casa, da quando ho memoria. Era coetaneo dei miei fratelli, affezionato di un affetto quasi filiale a mio padre, che verso di lui nutriva un affetto altrettanto grande. Le nostre famiglie insomma erano molto amiche e con Francesco trascorrevamo spesso le vacanze insieme”. Sardo l’uno e sardo l’altro, sassaresi ambedue ed entrambi espressione di quel cattolicesimo che nell'Isola produsse figure istituzionali di primo piano, Mariotto Segni è cresciuto in pratica insieme all'ex Presidente. Descrive il "Picconatore" come personaggio unico, spassoso, geniale e scomodo, complesso, certamente originale e legato a doppio filo alle sue origini.

LE CARICHE PUBBLICHE E LA MASSONERIA. FATTI AMICO UN MASSONE DI SINISTRA.

Ottoemezzo del 7 aprile 2014 su La7. Le cariche pubbliche e la massoneria. Parte il punto di Paolo Pagliaro, nel quale si sostiene che la massoneria è molto radicata negli incarichi pubblici e che conti molto più di quanto si immagini. Bisi sostiene che «non mi risulta che ci siano massoni nel governo Renzi» e che in caso contrario «non ci sarebbe nulla di male». Per D’agostino vi sono dei movimenti che operano al di là di quello che vediamo. Bisi invece dice che alla base delle preoccupazioni vi siano il rispetto della persona, della cultura, della scuola pubblica. Nega che il Grande Oriente si occupi minimamente delle nomine pubbliche. Sostiene che durante le riunioni massoniche uno parla e gli altri ascoltano, cosa che non succede nei partiti. Bisi conclude invitando di conoscere meglio la massoneria, anche visitando il loro Bisi per essere Gran Maestro guadagna 129 mila euro lordi all’anno e ogni anno ogi fratello deve versare circa 400 euro. Bisi pensa che un’esperienza come la P2 non si possa ripetere perché i controlli da parte del Grande Oriente si sono infittiti. D’Agostino sostiene che Gelli «uno che vende materassi a Frosinone» fosse una testa di legno e che non potesse essere davvero lui a «comandare l’Italia» Bisi sostiene che se dovesse scegliere tra due giornalisti e uno dei due è massone, sceglierebbe quello più bravo, anche se l’altro è massone. Sostiene che non vi sono donne nella massoneria per motivi storici «siamo radicati alle tradizioni». Crede che per cambiare una tradizione ci sono dei percorsi da intraprendere, in questo caso molto lunghi. Bisi sostiene che tra massoni ci si sostiene «nei limiti del lecito», raccontando di aver fatto 30 chilometri per anni per accompagnare un fratello cieco per cui la massoneria era una ragione di vita. Bisi racconta che nel 77 decise di aderire perché un giornale pubblicò i nomi dei maestri venerabili. Si incuriosì e dopo aver incontrato un massonE chiedendo di entrare. Dopo quattro anni venne ammesso. La Gruber chiede come deve chiamare il gran Maestro, che chiede di essere chiamato “Stefano”, D’Agostino fa dell’umorismo e interviene con «bellicapelli». Bisi spiega che gli affiliati della massoneria sono segreti come quelli di altre associazioni. Dice che i responsabili sono noti, così coem le sedi. Ha detto che Rimini avrebbero potuto partecipare all’incontro con tutti i fratelli associati alla massoneria. D’Agostino ha detto che intorno al 2000 aveva deciso di diventare massone, ma la sua domanda non venne presa in considerazione. Crede che a parte lo scandalo della P2, la massoneria ha portato all’unità d’Italia. Bisi sostiene che la massoneria non distribuisce poltrone «il potere della massoneria è quello di far emozionare». Norberto Bobbio disse che la democrazia non è compatibile con un potere come la massoneria. Per Bisi la massoneria è una palestra per la laicità che serve a «migliorare noi stessi e migliorando noi stessi possiamo migliorare l’umanità». Per D’Agostino la massoneria è qualcosa di più concreto, ma non deve essere criminalizzata, anche se poi fa un parallelismo con la mafia. D’Agostino sostiene che al governo si sono susseguite massonerie di destra e sinistra, mentre per Bisi sta semplificando. Oltre alle grandi riforme Renzi deve risolvere la nomina dei nuovi vertici della aziende pubbliche. Si dice sempre che i poteri forti in questi casi si mettono in azione. La Gruber si chiede se in questo caso «la massoneria è in azione?». La presentatrice ne parlerà insieme al Gran Maestro del Grande Oriente Stefano Bisi e Roberto D’Agostino, che si è autodefinito “Gran Bidello”.

Massoneria non significa affarismo e nepotismo, scrive Alessandro Calabrese su “Italians-Corriere della Sera”. Caro Severgnini, l’eccezione conferma la regola, dice un vecchio adagio. Quindi devo sperare che la tua concessione allo scontato luogo comune massoneria = affarismo e nepotismo sia, appunto, un’eccezione che conferma la tua originalità nei giudizi, mai banali. Pensi davvero che la libera muratoria italiana (quella che ha contribuito in maniera decisiva a realizzare quel poco di stato laico che c’è nel nostro paese, solo per citarne il merito più evidente) possa essere ridotta solo a sinonimo di affarismo e di ileciti intrallazzi? La massoneria mi ha insegnato, tra tante altre cose, a non essere né ingenuo né partigiano. Sarei quindi uno sciocco se negassi che anche in massoneria, come in ogni aggregazione umana (partiti, aziende, associazioni, chiese, ordini e caste professionali, club, bocconiani e chi più ne ha, ne metta) ci sono persone che cercano di trarre benefici dalle relazioni attivate. Tuttavia sono convinto che, specialmente oggi, la massoneria non sia affatto caratterizzata da queste attività e sicuramente lo sia infinitamente meno della maggior parte delle altre forme associative, fermo restando che, purtroppo, è umanamente impossibile impedire alle persone di cercare vantaggi ingiusti o illegittimi. Quello vissuto dalla massoneria italiana negli ultimi decenni, specie dopo lo scandalo P2,la vera antitesi della massoneria, è un percorso di trasparenza e responsabilità, che ne ha evidenziato il ruolo di agenzia di valori e principi. Ma è più comodo continuare ad agitare il luogo comune. In fondo siamo anche scomunicati. Con immutata stima, Alessandro Calabrese.

Massoneria:il dopo P2, scrive Gian Giacomo William Faillace. Gli anni successivi al falso scandalo che ha coinvolto la Rispettabile Loggia Propaganda 2, hanno segnato profondamente la Massoneria italiana: azioni diffamatorie, creazione, da parte di alcuni giornalisti di pseudo logge definite P3 e P4 che con la Massoneria nulla avevano o hanno a che fare, azioni antimassoniche clericali o di stampo comunista volte al tentativo di distruggere l’istituzione massonica, hanno colpito nel segno ferendo la Massoneria ma il tentativo di cancellarla è mal riuscito. Tanto concentrati  in questo vano tentativo, queste due forze (Chiesa e Comunismo), che da sempre hanno rappresentato il totalitarismo, il dogmatismo, la demagogia, hanno perso di vista i problemi, nonché le lotte interne, che le attanagliavano perdendo talvolta fedeli talvolta “compagni”. Successivamente, mentre la Chiesa ha avuto timidi atteggiamenti di apertura, la sinistra italiana ha cercato, talvolta con successo, di infiltrare all’interno delle obbedienze, persone ad essa vicine seguendo così la regola che se non si può abbattere un nemico dall’esterno allora si deve colpire dall’interno. Il pregio, ed al contempo il difetto, della Massoneria è che tutti possono “bussare” ed essere iniziati, a prescindere dal credo politico o religioso, e proprio questa regola, alla base della tolleranza, rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Purtroppo, le infiltrazioni della sinistra italiana, hanno contribuito a trasformare alcune logge in vere e proprie sezioni di partito. La Massoneria, però, non è politica, non è un club in cui discorrere di  affari, ideologie e tantomeno un luogo in cui “educare” i neofiti all’avversione verso una dottrina politica o religiosa, eppure, in alcune logge, seppur isolate, avviene. Ecco il motivo che ha spinto molti massoni ad entrare in sonno, ossia ad uscire dalle logge volontariamente e scegliere quindi di non partecipare a tempo indeterminato ai lavori rituali. Ora, la Massoneria italiana, dovrà impegnarsi e riuscire ad epurare le sue logge da tutti coloro che hanno intenzione di sostituire la squadra ed il compasso con la falce ed il martello. Non solo apertura e trasparenza verso il mondo profano, ma anche scelte coraggiose che vedranno la perdita di numerosi iscritti, spettano ai Gran Maestri delle Obbedienze massoniche italiane. Solo seguendo la “Vera Luce” i Gran Maestri potranno riportare la Massoneria in quel “solco naturale” che vuole che essa sia una strada per un perfezionamento etico personale: il massone deve imparare, essere sgrossato come una pietra grezza per divenire una pietra angolare e quindi “esportare” al mondo esterno il suo perfezionamento etico al fine di rendere migliore tutto ciò che lo circonda. Guai se avvenisse il contrario! Ma si sa, la Massoneria è composta da uomini, e gli uomini sono imperfetti, quindi è ovvio che in seno all’Arte Reale si verifichino”importazioni profane” ma è compito dei Venerabili Maestri vigilare con perseveranza  affinchè fattori esterni non inquinino i lavori delle logge. Quindi, solo con scelte coraggiose e non dettate da inquinamenti esterni, la Massoneria italiana potrà essere guida verso la libertà, la laicità e tornare ad essere quella radiosa luce in fondo al tunnel della superstizione, del totalitarismo e dei dogmatismi demagogici e tornare ad essere portatrice di quella modernità che la società tutta richiede. C’era una volta una sinistra seria. Inattaccabile. Affidabile. “Comunista, ma perbene.” Il paradigma è saltato ed è ora di guardare in faccia la realtà per quella che è veramente. Anche la sinistra ruba, inquina, specula, anche la sinistra fa affari sporchi e attacca la magistratura. Banche, sanità, cooperative, fondazioni, amministrazioni locali e regionali: scandali e inchieste hanno travolto la classe dirigente che avrebbe dovuto trasformare l’Italia in un paese “normale”, persino roccaforti rosse come l’Emilia sono crollate, investite da accuse di connivenza con mafia e ’ndrangheta. Al posto dell’ideologia il denaro, l’interesse individuale, il puro potere. Ecco gli scandali del Monte dei Paschi, la scalata alla Bnl, la Bicamerale, la legge del comunista Sposetti che ha arricchito i partiti, la metamorfosi di Violante, i soldi dell’Ilva, le accuse di tangenti a Penati, le convergenze con la destra in materia di giustizia... Non serve vincere le elezioni se la gestione del potere e le ricette economiche rimangono uguali a quelle degli avversari berlusconiani. Fatti, non solo parole, dal Nord al Sud, città per città, regione per regione. Il quadro è inquietante, più che sufficiente a fotografare una malattia per la quale non sembra esserci una terapia efficace. E che come un virus inarrestabile non risparmia nemmeno il nostro capo dello Stato, ultimo difensore di questo sistema, del quale qui si svela per la prima volta la complessa storia politica, ricca di retroscena inediti.

Ferruccio Pinotti è autore di molti libri-inchiesta che hanno smascherato le trame e gli interessi dei poteri forti. Lavora al “Corriere della Sera” e ha scritto per “MicroMega”, “l’Espresso”, “Il Sole 24 Ore”, “la Repubblica”, “Il Fatto Quotidiano”. Tra i suoi libri più importanti vanno ricordati POTERI FORTI (Bur 2005), OPUS DEI SEGRETA (Bur 2006), FRATELLI D’ITALIA (Bur 2007), COLLETTI SPORCHI (Con Luca Tescaroli, Bur 2008), L’UNTO DEL SIGNORE (con Udo Gümpel, Bur 2009), FINANZA CATTOLICA (Ponte alle Grazie 2011), VATICANO MASSONE (con Giacomo Galeazzi, Piemme, 2013). Con Chiarelettere ha pubblicato LA LOBBY DI DIO (2010) e WOJTYLA SEGRETO (con Giacomo Galeazzi, 2011). Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta, dal 2009 è corrispondente de “il Fatto Quotidiano”, dalle cui colonne ha svelato il primo caso accertato di rapporti tra ’ndrangheta e Pd al Nord, nel comune appenninico di Serramazzoni, una vicenda poi ripresa da REPORT.

Dalle amicizie pericolose di Bersani a quelle di D'Alema, dalle innovazioni ambigue di Renzi alle ombre dell'Ilva su Vendola. Fino al "nuovo compromesso storico" di Enrico Letta e ai segreti di Giorgio Napolitano, scrive Lorenzo Lamperti su “Affari Italiani”. Non risparmia nessuno "I panni sporchi della sinistra", il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da Chiarelettere") che mette a nudo le magagne del centrosinistra. Un lavoro importante e "lungo due anni", come ha spiegato Santachiara intervistato da Affaritaliani.it, nel quale i due autori raccolgono e analizzano una serie di inchieste giudiziarie che riguardano, a vario titolo, il mondo della sinistra. Dalla galassia Bersani di Penati, Pronzato e Veronesi alla vicenda di Flavio Fasano, referente di D'Alema invischiato in una storia di mafia. Dallo scandalo Ilva al caso Unipol, passando per i trasferimenti di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo, che avevano indagato sulle responsabilità di importanti esponenti politici di sinistra. Pinotti e Santachiara ricostruiscono con dovizia di particolari tutta una serie di vicende, grandi e piccole, note e sconosciute, che offrono un ritratto impietoso di una sinistra che ha subìto "una mutazione genetica". Il libro si apre con un esplosivo capitolo su Giorgio Napolitano, del quale vengono indicati i rapporti (o presunti tali) con Berlusconi, la massoneria, la Cia e i poteri atlantici. Un capitolo del quale Affari pubblica un estratto e che certamente farà molto discutere.

Stefano Santachiara, com’è nato il libro “I panni sporchi della sinistra”?

«Mi sono occupato a lungo di cronaca giudiziaria per L’Informazione, un giornale emiliano, e tuttora come corrispondente del Fatto Quotidiano. E' così che mi sono imbattuto in casi di malaffare, speculazioni edilizie, tangenti mascherate da reti di favori incrociati, rapporti con la criminalità organizzata. Spesso in queste vicende era coinvolto il centrosinistra. A Serramazzoni, in provincia di Modena, ho raccontato le prime contiguità acclarate tra ‘ndrangheta e Pd al nord, proprio nell’Emilia “rossa”. Quando L’Informazione ha chiuso i battenti nel febbraio 2012 ho sentito Ferruccio Pinotti e insieme abbiamo deciso di realizzare un libro-inchiesta: oltre ai casi giudiziari che riteniamo cruciali, abbiamo scavato sui centri nevralgici del “Potere democratico”, studiato documenti impolverati e inediti, raccolto nuove testimonianze. Man mano che si componeva il mosaico abbiamo effettuato collegamenti che ci consentono di analizzare la mutazione antropologica, etica e culturale, del partito erede del Pci di Berlinguer.»

Il libro si apre con una serie di frasi di leader del Pd. Frasi che fino ad alcuni anni fa sembravano possibili da attribuire solo a politici del centrodestra. In che modo si è venuta a creare questa mutazione da voi definita “genetica”?

«Questa mutazione è evidente, la si evince da molti aspetti a partire dalle politiche economiche. Ormai il Pd, sia nella classe dirigente che si perpetua da un ventennio sia nel nuovismo di Renzi, ha la stella polare più vicino al mondo della finanza che non a quello dei lavoratori. La sinistra moderna, non soltanto per la fusione con gli ex democristiani, ha cambiato visione di società mettendo in soffitta le prospettive del socialismo europeo e anche quelle keynesiane: per sommi capi possiamo ricordare che ha privatizzato reti strategiche nazionali, aperto al precariato con la legge Treu, ha appoggiato guerre della Nato, non si è prodigata per estendere i diritti civili, ha finanziato le scuole private invece di rilanciare l'istruzione pubblica e riportare la cultura (senza scomodare l'egemonia di gramsciana memoria) al centro dell'azione politica, infine si è allineata alla “dottrina” dell' austerity imposta dall'Europa dei tecnocrati. In questo contesto ha sdoganato comportamenti come i conflitti d'interesse – anche propri, non soltanto quello noto di Berlusconi - e le opache relazioni con il potere economico e bancario tradendo i principi morali e di giustizia sociale che avevano animato la sinistra del passato.»

La cosiddetta superiorità morale della sinistra non esiste più?

«Sulla base delle inchieste giornalistiche condotte in questi anni e del quadro organico che abbiamo assemblato ci siamo persuasi che, nei fatti, questa diversità non esiste più.»

La struttura del vostro libro sembra suggerire che il padre di questa mutazione della sinistra sia Giorgio Napolitano. È così?

«Napolitano è un garante dei poteri forti. È il comunista borghese collaterale al Psi di Craxi e favorevole, già negli anni Ottanta, ai rapporti con Berlusconi. Trovo significativa una sua frase, pronunciata quando si insediò al ministro degli Interni nel primo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, nel 1996. “Non sono venuto qui per aprire gli armadi del Viminale”, disse Napolitano facendo intendere di non voler indagare sui tanti segreti italiani irrisolti. Una dichiarazione che è tutta un programma.»

Nel libro viene citata tra l’altro una fonte anonima che sostiene l’appartenenza di Napolitano alla massoneria…

«L’appartenenza di Napolitano alla massoneria non è provata. E’ l’opinione della nostra fonte, noto avvocato figlio di un esponente del Pci, il quale riconduce le famiglie Amendola e Napolitano, interpreti della corrente di pensiero partenopea “comunista e liberale”, alla massoneria atlantica. Anche l'ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, ipotizza per il presidente della Repubblica l'affiliazione ad ambienti massonici atlantici. Ma siamo nell’ambito delle opinioni. E' invece emerso da un documento datato 1974, l'Executive Intelligence Review, che Giorgio Amendola, il mentore di Napolitano, era legato alla Cia. Napolitano fu il primo dirigente comunista ad essere invitato negli Stati Uniti. Andò in visita negli Usa al posto di Berlinguer, a tenere conferenze nelle università più prestigiose: proprio nei giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Un episodio che chiarisce quanto Napolitano fosse, sino da allora, il più affidabile per i poteri atlantici e che spiega almeno in parte la sua ascesa.»

Insomma, Napolitano grimaldello degli Usa per portare il Pci a posizioni più allineate al potere atlantico?

«Napolitano ha saputo muoversi perfettamente. A livello pubblico e ufficiale è sempre stato fedele al partito, sostenendo la causa di Togliatti persino nella difesa dell'invasione sovietica di Budapest nel 1956, poi come “ministro degli Esteri” del Pci. In maniera sommersa ha coltivato relazioni dall'altra parte della barricata, accreditandosi a più livelli di potere, italiani e internazionali.»

Alla luce di quello che scrivete nel libro sui rapporti tra Napolitano e Berlusconi ritieni credibile che tra i due ci fosse stato un accordo su un qualche tipo di salvacondotto giudiziario per il leader del centrodestra?

«I rapporti tra Berlusconi e Napolitano vengono da lontano,dai tempi della Milano da bere, quando la corrente migliorista del Pci spingeva per lo spostamento del baricentro dalle posizioni di Berlinguer a quelle di Craxi. Il rampante Berlusconi finanziava il settimanale della corrente migliorista, Il Moderno. Negli anni Napolitano si è confermato uomo del dialogo nei confronti di Berlusconi, contro il quale non ha mai espresso posizioni fortemente critiche. Ha promulgato senza rinvio lodi e leggi ad personam che sono stati poi bocciati dalla Corte Costituzionale, in queste settimane ha parlato di amnistia proprio dopo la condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset.»

Nel libro parlate anche delle magagne di tutti gli altri attuali leader della sinistra. In particolare delle amicizie sbagliate, o quantomeno pericolose, di Bersani e D’Alema. Per quanto riguarda i rapporti di forza sembra venir fuori che D’Alema è la serie A e Bersani è la serie B. E' così?

«La frase su serie A e serie B è riferita a una fase del Penati gate. A un certo punto Di Caterina, prima finanziatore del partito e poi teste d’accusa nel processo a Penati, fa riferimento a un affare immobiliare senza rilievo penale. Un affare che vorrebbe Di Caterina ma che si sblocca solo quando palesa il proprio interessamento la società Milano Pace del salentino Roberto De Santis, imprenditore che si autodefinisce “fratello minore di D’Alema”. La galassia dei dalemiani è molto composita e ben presente anche nel campo degli affari. Nel libro parliamo anche della vicenda di Flavio Fasano, dimenticata dai quotidiani nazionali. Fasano era il referente di D’Alema nel quartier generale di Gallipoli: da sindaco gli ha organizzato regate e incontri decisivi come il pranzo con l'allora segretario del Ppi Rocco Buttiglione che nel 1994 creò le condizioni per il ribaltone del governo Berlusconi poi affossato dalla Lega di Bossi. Un uomo di fiducia, insomma. Ecco, nel 2008 si è scoperto che Fasano aveva rapporti con Rosario Padovano, un boss della Sacra Corona Unita di cui era stato avvocato anni addietro. Da una telefonata intercettata emerge che Fasano gli dispensava consigli pochi giorni dopo che Padovano aveva fatto uccidere il fratello. Non bisogna esagerare definendo Fasano come il “Dell'Utri di D’Alema” però la vicinanza di un suo fedelissimo ad un capomafia è un fatto poco noto...»

Nel libro raccontate le vicende di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo. Entrambe, dopo aver lambito D’Alema e Vendola con le loro inchieste su Unipol e sulla Sanitopoli pugliese, sono state trasferite per “incompatibilità ambientale”. Questo significa che in alcune procure chi indaga su leader politici di sinistra viene isolato e punito?

«Di certo vi è stata una degenerazione, mi riferisco al peso improprio che le correnti della magistratura hanno assunto in seno ad Anm e Csm, che in alcuni casi hanno trasferito, punito e isolato i magistrati non allineati. Se da un lato si è manifestato un atteggiamento demeritocratico e doppiopesista dall'altro però non si può affermare come fa Berlusconi che siano tutte toghe rosse o che la magistratura sia eterodiretta dalla politica. Preferisco restare ai due casi specifici. Quando il Tar ha annullato il provvedimento di trasferimento della Forleo a Cremona deciso dal Csm, l’Anm ha criticato la sentenza. Eppure il sindacato delle toghe, ogni volta che Berlusconi attacca i giudici, ribadisce giustamente che le sentenze vanno rispettate. Nel procedimento sulla scalata di Unipol a Bnl D’Alema e Latorre potevano essere indagati per concorso in aggiotaggio, ma nonostante le indicazioni del gip Forleo sulla base delle loro scottanti telefonate con Consorte i pm di Milano non lo hanno fatto... Quanto al secondo caso, il sostituto procuratore di Bari Digeronimo – che ha scoperto il marcio di un sistema sanitario regionale piegato a interessi partitici e affaristici - è stata attaccata da Vendola pubblicamente, in stile berlusconiano, senza ricevere appoggio alcuno. Pochi mesi fa è finita nel mirino del Csm per aver segnalato insieme al collega Francesco Bretone i rapporti di amicizia tra la sorella di Vendola e Susanna De Felice, cioè il gup che ha assolto il governatore della Puglia nel processo relativo alla nomina di un direttore sanitario grazie alla riapertura dei termini del concorso. Il Csm ha ottenuto il trasferimento della Digeronimo accusandola di conflittualità con i colleghi, la stessa accusa mossa a suo tempo alla Forleo: condizioni fisiologiche in ogni ufficio e slegate dall'attività giurisdizionale.»

Al di là del caso di Serramazzoni, sembra che l’interesse del Pd riguardo i temi dell’antimafia sia piuttosto basso. È così?

«È così e la prova la si è avuta nella scelta dei candidati per le elezioni del 2013. In Calabria sono state escluse sindache antimafia come Caterina Girasole, Elisabetta Tripodi e Maria Carmela Lanzetta. In Emilia è stato dimenticato Roberto Adani, ripetutamente minacciato per aver denunciato presenze mafiose e colletti sporchi. Nando Dalla Chiesa non è stato più ricandidato dal 2006. Malgrado i proclami elettorali c’è scarsa attenzione su questi temi. In questi giorni si parla tanto dei “signori delle tessere” e sembra quasi che ci sia una guerra tra loro e i maggiorenti del Pd. Ma non è così: i “signori delle tessere” sono stati candidati dai leader nei listini bloccati per una precisa strategia che ha invece escluso chi ha rischiato la pelle combattendo le cosche.»

Una volta si pensava che le mafie fossero politicamente orientate a destra. Oggi guardano anche a sinistra?

«Anche se la maggioranza di casi riguarda ancora il centrodestra, come abbiamo visto si registrano le prime collusioni mafiose dei democratici.»

Sinistra e massoni, i parenti segreti. Un percorso comune da Garibaldi ad Arturo Labriola. Poi la grande rimozione, scrive Dario Fertilio su “Il Corriere della Sera”. Un grembiale di «compagno», il secondo grado gerarchico della massoneria, e una bandiera operaia della «lega tessile»: stessa cazzuola e uguale compasso, analoga la pala con l'immancabile livella. E poi due donne guerriere che marciano insieme verso il bel sol dell'avvenire: la prima, a impersonare i liberi muratori del Grande Oriente, l'altra nei panni della Comune parigina. Modi diversi, all'italiana o in stile francese, per dire la stessa cosa: la sinistra, compresa quella di oggi, è figlia della massoneria. O almeno nipote, benché abbia preferito potare i rami più antichi dell'albero genealogico, rimuovere le memorie di famiglia e in qualche caso demonizzare l'appartenenza stessa dei suoi membri alla mitica associazione vincolata dal segreto. Ma oggi quella legittima discendenza viene riportata alla luce in uno studio imponente curato per la Einaudi dal filosofo Gian Mario Cazzaniga: il ventunesimo volume degli Annali della Storia d'Italia è dedicato interamente al mondo - sconosciuto ai più - delle logge e dei grembiulini, dei cappucci e dei grandi orienti. Sono quasi novecento le pagine in cui una trentina di studiosi ritraggono il pianeta oscuro dalle più svariate angolazioni: riti e musica, religione e giardinaggio, politica e letteratura, mitologia e antiquariato. La stessa classificazione del soggetto di studio - la massoneria appunto - non è definibile una volta per tutte: ci sono buone ragioni per inserirla tra le «scienze occulte» ma anche per considerarla una «religione», senza dimenticare la definizione anglosassone di «associazione fraterna» né respingere del tutto la collocazione nello scaffale della spiritualità teosofica, imparentata con la New Age. Poliedrici, dunque, i saggi contenuti nell'Annale, quanto sfuggente si conferma la materia. Ma certo la sorpresa viene soprattutto dalla discendenza, individuata e dichiarata, fra ordine massonico e sinistra politica. Lo riconosce il curatore Gian Mario Cazzaniga, anche se precisa che «l'affermazione di per sé è parziale. Possiamo dire che le logge massoniche del Settecento costituirono il laboratorio in cui si formarono le grandi correnti del pensiero politico contemporaneo: liberalismo, repubblicanesimo, democrazia cristiana e socialismo». Anche il partito cattolico? «Certo, perché il momento forse più importante, quello dei vescovi che presero parte alla Rivoluzione francese, li vide formarsi durante gli anni precedenti all'interno delle logge massoniche». Ma per quanto riguarda la sinistra... «Bisogna distinguere i suoi due filoni anarco-repubblicano e socialista-marxista. Il primo, nel secondo Ottocento, vide la maggior parte dei suoi esponenti affiliati alle logge; nel secondo ci fu una presenza massonica importante, a cominciare dai due generi di Marx: Lafargue e Longuet». Gli esempi italiani non si contano: da Garibaldi ad Arturo Labriola, passando per Andrea Costa - accostatosi poi al filone socialista di Turati - ma non si possono trascurare i celebri esponenti anarco-repubblicani Bakunin e Proudhon. «Nel campo socialista-marxista - osserva Cazzaniga - il settore riformista e la direzione del movimento sindacale rimasero massonici fino alla prima guerra mondiale, e anche oggi lo sono molti dirigenti dell'Internazionale socialista, soprattutto belgi e francesi». Resta da spiegare il perché della grande rimozione, quasi un ripudio delle radici. «C'è una spiegazione culturale: la sinistra, nella sua fase più anticlericale, interpretò l'aspetto spirituale del rito massonico come un vero e proprio cedimento alla religione. Ma ne esiste anche una politica: la massoneria è sempre stata un momento associativo della classe dirigente, in tutto l'arco politico. L'accusa del movimento operaio ai socialisti massoni si concentrò dunque sulla "collusione con il nemico sociale". Sarà proprio questo l'oggetto della battaglia di Mussolini al congresso socialista di Ancona del 1914». La parola d' ordine della sinistra, dunque, fu «nascondere» il proprio passato? O addirittura «reciderlo?». «Nel mondo socialista sarà soprattutto la parte radicale a prendere le distanze; in quello comunista a partire dal 1922 ci sarà la dichiarazione di incompatibilità, il veto alla doppia appartenenza, per le ragioni politiche già dette. Ma anche per una considerazione di fondo: l'idea totalizzante di un'organizzazione che non ammette nient'altro al proprio interno». In parte deve avere influito anche l'alone misterioso dell'associazione segreta, il sospetto verso altre obbedienze... «Questo è un punto ambiguo. Nel testo della nostra Costituzione, e nel dibattito che lo precedette, il divieto di associazione segreta è stato mantenuto volutamente nel vago. Si vollero colpire naturalmente le finalità militari eversive, ma non si chiarì fino a che punto il diritto associativo potesse comportare la tutela della privacy degli iscritti. Negli statuti dei partiti della sinistra, compresi quelli attuali, ci si attiene in maniera analoga alla lettera della Costituzione, senza precisare a quali associazioni si applichi il divieto di appartenenza (benché il suo significato implicito sia antimassonico)». Un problema, riconosce Cazzaniga, che si ripercuote nella stessa politica culturale della sinistra di oggi: «Il recupero voluto e attuato di filoni repubblicani e socialisti all'interno del nuovo partito, i Ds, complica alquanto le cose, dal momento che si tratta di filoni ricchi di apporti massonici». Insomma, questa sinistra ha ripudiato la madre... «O almeno una delle sue madri, dal momento che esiste anche quella del socialismo cristiano». E se dovesse «riabilitare» qualcuno dei «dimenticati», la sinistra di oggi a chi potrebbe pensare? «C'è una figura emblematica, quella di Sylvain Maréchal. Fu il comunista utopista e massone che nella congiura di Babeuf del 1796 scrisse il primo manifesto del comunismo mondiale, come ricordò lo stesso Marx». È l'Italia, dunque, il Paese in cui la sinistra ha messo in atto la «rimozione» più pesante? «Certo l' accusa non vale per la Gran Bretagna o il Nord America. Da noi invece si basa su aspetti molteplici. Il fascismo, obbedendo al suo totalitarismo organizzativo, perseguitò le logge e impose ai suoi dirigenti di scegliere fra partito e massoneria. Tra l'altro, un terzo dei membri del Gran Consiglio era di origini massoniche. Ma anche nel dopoguerra le due grandi chiese, Dc e Pci, avevano ragioni comuni per diffidare della massoneria e non volersi misurare con essa. Né i dirigenti delle logge sono riusciti a trovare una identità culturale adeguata alla società di massa, anche se mi sembra che il gruppo dirigente attuale si comporti correttamente. Lo testimonia il fatto che, negli studi umanistici degli ultimi due secoli, il fenomeno sia stato poco studiato, quasi per un tacito accordo di esclusione. Non parliamo poi della P2: fu molto peggio che un incidente di percorso, perché un'organizzazione segreta con finalità politiche è contraria ai principi della massoneria, che sono di rispetto per le leggi e di non interferenza. E perché un'organizzazione interna alla massoneria si è imposta ai suoi organi di governo legittimi». Quanto ai legami internazionali della P2, non sono stati studiati abbastanza e Gian Mario Cazzaniga ha una sua teoria: «Credo che le chiavi di spiegazione non si trovino a Washington, ma in gruppi economici latino-americani figli della rete Odessa (l'organizzazione neonazista che favoriva l'espatrio dei gerarchi). E questo spiegherebbe certi strani rapporti con reti arabe e tedesche». Nell'Annale si toccano altri filoni di pensiero, legati all' idea della politica come «religione moderna». È giusto definire la massoneria del Settecento «madre delle idee politiche?». E ci fu la Carboneria ottocentesca all' origine dei partiti di massa? «Certo, e la prima uscita pubblica di questa religione - conferma Cazzaniga - è stata la rivoluzione americana, diretta da massoni come Washington e Franklin». Oltre Atlantico nessuno ha mai considerato il segreto incompatibile con la democrazia... «La massoneria americana è tuttora la più grande del mondo. In generale, non esistono società in cui il segreto non venga praticato come legame sociale, cominciando da quelle cattoliche. Anche i club privé, dopotutto, non possono essere considerati luoghi semi-segreti? E che dire delle riunioni degli organi dirigenti di partito o dei consigli di amministrazione delle imprese?». Il curatore Filosofo e militante Gian Mario Cazzaniga, docente di Filosofia morale all' Università di Pisa e curatore dell'Annale della «Storia d'Italia» Einaudi su «La massoneria» (pagine XXXII-850, 85), ha una lunga storia di militanza a sinistra Dirigente studentesco e poi della Cgil-Scuola, ha fatto parte della sinistra extraparlamentare tra gli anni Sessanta e Settanta. Iscrittosi al Pci nel 1975, è passato poi al Pds, della cui direzione nazionale è stato membro fino al 1997, anno in cui si è ritirato dalla politica attiva. Con il Papa Il difficile confronto Il curatore dell' Annale Einaudi afferma sui rapporti tra Chiesa e massoneria: «Dopo il Concilio Vaticano II il dialogo ha avuto applicazioni diverse all' interno dei vari cleri nazionali: più aperto in Italia e Francia, meno in Germania. La posizione attuale dipende dal fatto che l'episcopato tedesco attribuisce alla massoneria una coerenza filosofica che non ha». E sulla posizione di Joseph Ratzinger: «Non cerca uno scontro, ma la riaffermazione di una identità teologica che ritiene incompatibile con il pluralismo filosofico della massoneria».

SILVIO E GIORGIO: AFFINITA’ E FRATELLANZA.

Silvio e Giorgio, affinità e "fratellanza"? Estratto dal libro "I panni sporchi della sinistra" di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (pubblicato per gentile concessione di Chiarelettere). Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico. Di Berlusconi è nota l’appartenenza massonica, che non si manifesta solo nella documentata affiliazione alla loggia P2 di Licio Gelli, ma anche nel sistema di simboli che costellano il cosiddetto mausoleo di Arcore, la tomba che il Cavaliere ha fatto realizzare per sé e per i propri cari dallo scultore Pietro Cascella. Ma c’è dell’altro. Il discusso leader del Grande Oriente democratico Gioele Magaldi, noto per le sue dichiarazioni forti, ha affermato in un’intervista: «Il fratello Silvio Berlusconi, iniziato apprendista “libero muratore” nel 1978 presso la loggia P2, e diventato successivamente “maestro” in questa stessa officina, ha proseguito il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990. Successivamente, ha ritenuto di farsi una loggia segreta e sopranazionale autonoma. Uno dei nomi utilizzati per questa officina era “loggia del Drago”». Magaldi rivela: «L’attività massonica di Berlusconi e Marcello Dell’Utri è stata essenziale per costruire il consenso sociale e politico che ha condotto alla vittoria elettorale del 1994. Dell’Utri e altri fratelli della cerchia massonica di Villa San Martino hanno girato la penisola in lungo e in largo, come proconsoli massonici di Berlusconi, intessendo accordi con la maggioranza delle logge del Belpaese in favore della neonata Forza Italia. In anni successivi, le relazioni massoniche dell’autoproclamatosi Maestro venerabile di Arcore gli hanno consentito di risollevarsi in momenti di particolare difficoltà». Dalla conversazione con Magaldi emergono altri dettagli degni di nota: «Più in generale, Berlusconi coltiva interessi esoterico-iniziatici da molti decenni. La qual cosa da un lato ha spinto lui e la sua seconda moglie Veronica Lario a iscrivere i propri figli a scuole di orientamento pedagogico antroposofico (cioè ispirate agli insegnamenti spirituali esoterizzanti di Rudolf Steiner), dall’altro ha determinato la sua ferma volontà di percorrere un sentiero massonico, ancorché riservato e dissimulato pubblicamente. Ma riservato fino a un certo punto: nella cerchia intima del padrone di Mediaset sono in molti ad aver praticato e a praticare officine liberomuratorie o a frequentare circuiti di spiritualità esoterica». Tra questi, secondo Licio Gelli, l’ex governatore del Veneto ed ex ministro Giancarlo Galan, ex dipendente di Publitalia e poi tra i fondatori di Forza Italia, che il capo della P2 ha qualificato come massone. Sul «fratello» Berlusconi, Magaldi ha aggiunto: «Certamente, la sociabilità massonica è servita – a lui come ad altri – anche a facilitare obiettivi di potere e lucrosi affari, ma esiste nel “fratello Silvio” una vocazione autentica e genuina verso discipline esoteriche come l’astrologia, l’ermetismo egizianeggiante e la magia sessuale». Un’indicazione, quest’ultima, che richiama alcuni «rituali» delle notti del bunga bunga. È la massoneria che orienta Berlusconi o Berlusconi che orienta la massoneria? Secondo Magaldi, «nessuna delle due ipotesi. Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che Magaldi non ha avuto timore di fare assumendosene la responsabilità. Torniamo a Berlusconi, che ha rinnegato l’esperienza della P2: una volta affiliati si rimane massoni per tutta la vita? O essere in sonno significa interrompere ogni rapporto con l’Obbedienza? Secondo Magaldi, «l’iniziazione massonica è indelebile come quella sacerdotale: essa presuppone, secondo la Weltanschauung massonica, una trasmutazione esistenziale e spirituale non reversibile. Mettersi in sonno non significa cessare di far parte della catena iniziatica libero-muratoria, la quale va persino oltre le singole “comunioni” o “obbedienze” territoriali, afferendo a una dimensione planetaria e universale. Spesso, il cosiddetto “assonnamento” equivale soprattutto a una presa di distanza da una determinata obbedienza, ma può significare l’avvicinamento ad altri cenacoli massonici più o meno ufficiali». Molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano. È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un «fratello». Dichiarazioni certamente insufficienti. Abbiamo perciò voluto approfondire questa pista. E abbiamo incontrato un’autorevole fonte, che ha chiesto di rimanere anonima: un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd. La prima indicazione che ci offre è interessante: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la «fratellanza». A rafforzare la connotazione «muratoria» dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica. Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste. Il fatto indiscutibile, però, è che il legame massonico rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce e che è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale. La nostra fonte ha conosciuto bene e conosce Napolitano, cui si considera molto vicino. «Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell’alveo di quella francese. Per molti aspetti Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone. Si può stabilire un parallelismo tra i due: la visione della république è la stessa, laica ma anche simbolica. L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi. Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto.» La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso il presidente della Repubblica. Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza. Il 10 maggio 2006, dopo l’elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Giorgio Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese. A nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia e mio personale desidero manifestare pubblicamente le nostre vivissime felicitazioni». Nel marzo del 2010 Raffi esprimeva nuovamente a Napolitano «gratitudine per la sua diuturna, appassionata e tenace difesa dei valori fondanti la nostra Nazione». E il 13 giugno 2010 si spingeva sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata, nella sua trasmissione Rai In mezz’ora: «Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?» chiedeva Annunziata. Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’unità d’Italia si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa.

La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali.

Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum.

Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale.

Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione.

Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro.

Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto. Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità. Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere. Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto. Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose.

Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo: L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo”.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori.

A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”, brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille;

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

E’ il dio denaro e le ricchezze che da sempre fanno muovere il mondo e le montagne religiose ed ideologico.

Le masse si smuovono dalla loro apatia solo se indotti dai loro bisogni primari, non conoscendo altri virtù.

Già i romani indicavano in “Panem et Circenses” le aspirazioni della plebe. Gli illuminati, pochi ricchi e potenti, sin dall’antichità usano i bisogni della plebe per disegnare il loro Ordine Mondiale. Gli strumenti per attuare le loro mire di destabilizzazione: religioni ed ideologie, prime tra tutte il comunismo.

Marxismo e immigrazione proletaria (da «il comunista»; N° 113; Luglio 2009). Il fenomeno dell'immigrazione dei proletari non ha nulla di nuovo e i marxisti hanno spessissimo trattato questo tema, a cominciare da Engels nel 1845 nel suo libro su «La situazione della classe operaia in Inghilterra». Marx ne parla nel Capitale, fra gli altri nel passaggio seguente: «Il progresso industriale che segue la marcia dell'accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l'operaio individuale deve fornire. nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l'intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l'uomo con la donna, l'adulto con l'adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l'offerta sovrabbondante, in un parola per fabbricare una sovrapopolazione. «L'eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25). Riassumendo, la borghesia utilizza l'importazione di lavoratori stranieri allo scopo di ingrossare l'esercito industriale di riserva e aumentare la concorrenza, questa «guerra di tutti contro tutti», fra proletari. Marx dettaglia questo fenomeno della concorrenza fra operai «nazionali» e immigrati con i casi degli operai irlandesi in Inghilterra e le sue osservazioni sono estremamente ricche di insegnamento: «A causa della concentrazione crescente della proprietà della terra, l'Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese. «E il più importante di tutto: Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di luiè molto simile a quella dei poveri bianchi" verso i "negri" degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America. L'Irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell'operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull'Irlanda. «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E' il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870). Anche oggi la classe capitalista è perfettamente cosciente che la divisione fra proletari immigrati e italiani è un fattore chiave della paralisi della classe operaia, e naturalmente fa di tutto per mantenere e rafforzare questa divisione, questa ostilità, questo razzismo, questo sentimento di superiorità nazionale. Anche nel caso in cui, come succede ora in Italia col governo Berlusconi, in cui ha una certo peso la Lega Nord, il governo borghese si prenda il gusto di tormentare la popolazione proletaria immigrata con leggi vessatorie sulle loro condizioni di esistenza. Mai era successo che la situazione fisica di esistenza, come sbarcare in territorio italiano alla ricerca di una sopravvivenza meno precaria, fosse trasformata in reato penale (mentre sono stati depennati dal penale i falsi in bilancio, bancarotta ecc.!). Un altro punto, il ruolo potenzialmente molto importante per la lotta proletaria e per il suo internazionalismo che gioca l'immigrazione, è sottolineato da Lenin: «Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei paesi. «Centinaia di migliaia di operai si spostano in questo modo per centinaia e migliaia di verste. Il capitalismo avanzato li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali. «Non c'è dubbio che solo l'estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall'oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l'arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell'America, della Germania, ecc.» E vi aggiunge: «La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un'altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l'inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati» (Lenin, Il capitalismo e l'immigrazione operaia, 1913). Ecco quale deve essere l'attitudine costante dei proletari e delle loro organizzazioni di classe, ecco qual è la nostra prospettiva!

Il rapporto Chilcot, bufera sull’invasione dell’Iraq. Una paese in guerra e un paese fuori controllo: questi i risultati della decisione presa da Blair e Bush nel 2003, scrive il 7 luglio 2016 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". Quella di ieri, mercoledì 6 luglio 2016, è stata una giornata difficile per la politica britannica e, in buona parte, anche per quella americana. Mentre Londra faceva la conta del numero di politici dimissionari dopo lo tsunami della Brexit, e mentre a Washington l’FBI scagionava dalle accuse sull’emailgate Hillary Clinton, sulla scena internazionale irrompevano le conclusioni del rapporto Chilcot, ovvero la commissione d'inchiesta britannica sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003.  “Abbiamo concluso che la scelta del Regno Unito di partecipare all’invasione in Iraq è stata compiuta prima che fossero esaurite tutte le altre opzioni pacifiche per il disarmo. Abbiamo altresì concluso che la minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, rappresentata come una certezza, non era giustificata. Nonostante gli avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate e la preparazione del dopo Saddam è stata del tutto inadeguata”. Sono queste in sostanza le osservazioni di John Chilcot, l’uomo che presiede l’inchiesta sul ruolo britannico nell’invasione. Parole che verosimilmente scateneranno una serie di polemiche destinate ad ampliare il terremoto in corso nel mondo politico inglese e che hanno già fatto breccia nella campagna elettorale americana. Anche se il rapporto Chilcot - dopo sette anni di lavori, centinaia di testimonianze raccolte e 150mila documenti vagliati - ci racconta delle ovvietà, poiché evidentemente tutti hanno sotto gli occhi i risultati di cosa ha comportato, non può sfuggire l’importanza simbolica delle sue conclusioni. L’ufficialità del rapporto pone, infatti, una questione politica non da poco sia per il Regno Unito sia per la comunità internazionale, soprattutto per il verdetto schiacciante che condanna in toto l’attività dell’allora premier britannico Tony Blair, il quale “era stato avvertito” dell’inopportunità di entrare in guerra e nonostante ciò ha perseverato nel disastro, ma anche la decisione degli americani. Secondo gli storici, Blair agì in questo modo per non rovinare il buon rapporto tra il Regno Unito e gli Stati Uniti che si era cementato durante la presidenza Clinton e che rischiava di sgretolarsi con l’arrivo del nuovo presidente repubblicano. In questo senso, la commissione suggerisce che Blair avrebbe promesso a George W. Bush che lo avrebbe affiancato nell'impresa bellica “a ogni costo”, convinto di poter gestire il rapporto con l’inquilino della Casa Bianca. Mentre secondo il diretto interessato, che non ha perso tempo e ha risposto immediatamente alle accuse, il rapporto Chilcot per quanto lo riguarda afferma che non vi è stata “nessuna falsificazione o uso improprio dell’intelligence” e neanche “alcun inganno nei confronti del governo”, così come non è stato siglato “nessun patto segreto” tra lui e il presidente George W. Bush per l’entrata in guerra britannica. Nonostante la difesa di Tony Blair, però, il risultato non cambia. La parabola politica dell’ex premier inglese si conclude con una bocciatura storica non da poco da parte di un’inchiesta ufficiale. E non va meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il candidato repubblicano Donald Trump non ha perso tempo nel commentare alla sua maniera il caso: “Saddam Hussein era un cattivo ragazzo. Davvero cattivo. Ma sapete cosa? Ha fatto qualcosa di buono. Ha ucciso i terroristi”. E ha poi aggiunto: “Guardate cos’è diventato oggi l’Iraq, è l’Harvard del terrorismo”. Insomma, se a Londra ci si domanda come gestire il rapporto Chilcot e come assorbire l’impatto di questa inchiesta, in America la questione è già spostata in avanti. Il New York Times in un cupo editoriale si è sentito in dovere di citare le parole pronunciate poche settimane fa dal capo della CIA John Brennan il quale, commentando la forza dello Stato Islamico, si è spinto a dire: “Abbiamo ancora molta strada da fare prima di poter affermare che abbiamo fatto dei progressi significativi contro di loro”. Dunque, seguendo le osservazioni di Londra e Washington: la guerra per deporre Saddam Hussein fu un errore; la gestione del dopo-invasione ha generato il terrorismo; il terrorismo a sua volta ha prodotto il Califfato; il Califfato è vivo e vegeto e gli Stati Uniti non hanno idea di come fermarlo. Ma la cosa che più spaventa è l’ammissione che l’Occidente da quindici anni a questa parte ha sbagliato tutto sul Medio Oriente e ancora oggi non ha idea di come gestire il genio (del male) fuoriuscito dalla lampada. E, come insegna la fiaba de Le mille e una notte, una volta fuori è difficile ricacciarlo dentro. Il rapporto Chilcot incide sulla pietra il fatto che l’invasione dell’Iraq fu un vero fallimento e che le conseguenze negative di quella scelta sciagurata si stanno protraendo fino a oggi. Questo significa anche ufficializzare il de profundis per la politica occidentale nel Medio Oriente, e in Iraq in misura ancora maggiore, proprio mentre Baghdad è ostaggio del tritolo dello Stato Islamico. Infatti il Califfo Al Baghdadi, che con il Ramadan 2016 ha inaugurato una nuova strategia del terrore, ha deciso di incrementare le azioni suicide sulla capitale per costringere il governo sciita di Haider Al Abadi a far rientrare in città le truppe che oggi combattono l’ISIS a nord e che minacciano Mosul (ancora in mano allo Stato Islamico), per difendere dalle azioni dei kamikaze una capitale quasi fuori controllo. La sicurezza a Baghdad, infatti, non esiste più e anche se il Califfato non è arrivato mai a minacciare militarmente la città, ciò non significa che tenerla in ostaggio con le bombe non produca lo stesso risultato: quello di danneggiare il governo Al Abadi fino al punto da provocare una sua caduta. In questo, il Califfato potrebbe trovare un alleato inconsapevole nello sceicco Moqtad Al Sadr, il leader che a Baghdad comanda il gigantesco quartiere sciita di Sadr City (impenetrabile anche alle autorità irachene e già protagonista della resistenza all’invasione americana), che osteggia tanto i sunniti di Al Baghdadi quanto il governo sciita in carica, accusandolo di corruzione e di complicità con il terrorismo. Non più di due giorni fa, infatti, Al Sadr ha affermato: “Questi attentati non avranno fine, perché molti politici stanno capitalizzando sulle bombe” e ha poi aggiunto una frase che suona come una minaccia diretta all’attuale governo: “solo il popolo iracheno potrà mettere fine a questa corruzione”. Come a dire che, se Al Abadi non è in grado di proteggere la popolazione, qualcun altro presto dovrà farlo. In ogni caso, metaforicamente Baghdad è davvero la nuova Babilonia.

Così la guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Lo scenario. Dal rapporto della commissione chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l'invasione spezzò i fragili equilibri regionali, scrive Bernardo Valli il 7 luglio 2016 su “La Repubblica”. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l'invasione dell'Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per "crimine di guerra" a carico dell'inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l'autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per "l'aggressione militare basata su un falso pretesto". E ha parlato di "violazione della legge internazionale", da parte di un primo ministro laburista, quel era all'epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l'inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l'obbediente Tony Blair fosse il "barboncino". Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell'Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l'invasione di allora. La situazione era pronta per un'esplosione. È vero. La guerra nell'Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l'Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l'Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l'Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l'Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell'Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c'era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall'iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c'erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L'uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l'altro, quando era in guerra con l'Iran, un alleato obiettivo. L'irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L'ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c'erano gli americani, sia a Bassora dove c'erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L'esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un'amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L'impatto dell'intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l'Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L'intervento americano con l'appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d'accusa sul piano politico e morale, ma l'analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l'amico Blair hanno ignorato la Storia.

«Sarò con te, sempre». Scrive il 6 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. Tra le carte, fino ad oggi top secret, analizzate e rese pubbliche nel rapporto di Sir John Chilcot sulle responsabilità britanniche nella guerra in Iraq, ci sono anche alcune note che l’allora premier Tony Blair scrisse a George W. Bush. In una di queste, datata 28 luglio 2002 (otto mesi prima che il 20 marzo 2003 prendesse il via la guerra) Blair già promette appoggio incondizionato all’allora presidente Usa per l’invasione dell’Iraq. Il dossier Chilcot contiene vari messaggi tra Blair e Bush prima, durante e dopo il conflitto. In questa lettera, scritta a mano, l’ex premier si complimenta con il presidente Usa per un suo «brillante discorso» in merito alla necessità dell’intervento in Iraq. In tutto sono 29 le lettere inviate dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair all’ex presidente Usa George W. Bush e sono centinaia i documenti desecretati e pubblicati nel Rapporto Chilcot. Il rapporto tra i due leader è considerato cruciale nella decisione dell’invasione. Il rapporto Chilcot è un’inchiesta britannica portata avanti dalla commissione parlamentare presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot sulla guerra in Iraq. Istituita da Gordon Brown nel 2009, ha lo scopo di far chiarezza sulle circostanze che portarono il governo di Tony Blair a entrare in guerra assieme agli Stati Uniti contro Saddam Hussein Durante i lavori della commissione sono stati analizzati oltre 150.000 documenti e sono stati sentiti più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier Tony Blair. È suddiviso in 12 volumi e contiene 2,6 milioni di parole.

Iraq, come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse caduto? Dopo tredici anni e un’infinita serie di attentati e violenze, cinque domande provano a creare una realtà alternativa in cui il raìs sarebbe ancora al potere, scrive Michele Farina il 6 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. E se non avessero invaso l’Iraq? O se almeno avessero preparato meglio il dopo guerra? Per il rapporto Chilcot fu un intervento «sbagliato» e «le sue conseguenze perdurano ancora oggi». Tony Blair dice che senza quell’intervento il mondo sarebbe peggiore, meno sicuro. E che almeno adesso gli iracheni hanno una chance di libertà che sotto Saddam Hussein non avevano. La libertà di morire a centinaia, una sera d’estate del 2016, per l’esplosione di un camion bomba dell’Isis tra i negozi e i ristoranti di Bagdad affollati di famiglie e bambini? Khaddim al-Jaburi dice che, se incontrasse Blair oggi, «gli sputerebbe in faccia». Al Jaburi è l’uomo che buttò già la prima statua di Saddam alla caduta di Bagdad. Faceva il meccanico, riparava le moto del dittatore. Cadde in disgrazia, gli uccisero 15 familiari. Eppure oggi intervistato a Bagdad dalla Bbc dice che se potesse tornare indietro, sapendo quanto è successo in questi tredici anni, lui quella statua «la rimetterebbe in piedi». I curdi del nord e gli sciiti del Sud, per decenni vittime dichiarate del regime, hanno una prospettiva differente. Senza l’invasione del 2003 Saddam o chi per lui (Qusay, il figlio più astuto) gaserebbe ancora bambini e avversari? Avrebbe fatto un’altra guerra con l’Iran? E se la primavera araba nel 2011 avesse attecchito anche sulla riva al Tigri oggi l’Iraq sarebbe comunque preda — come lascia intendere Blair — di una sanguinosa guerra civile modello siriano? E il mondo sarebbe comunque alle prese con l’Isis e il suo terrorismo in franchising? Tornare indietro. Immaginare la storia provando a rimettere insieme i tasselli secondo un’altra combinazione, seguendo il cartello del «what if», cosa sarebbe successo se. Lo fa l’ex premier Blair e il meccanico al-Jaburi. E’ una tentazione che ognuno di noi sperimenta nel proprio piccolo, a ogni angolo. E se Pellè non avesse provocato Neuer? Più seriamente, pensando in grande: e se non avessero invaso l’Iraq? Un gioco distopico per romanzieri, un esercizio per provare a non sbagliare direzione in futuro.

1 Se avessero trovato le armi di distruzione di massa? Tutto a posteriori sarebbe stato giustificato. Bush e Blair candidati al Nobel per la pace?

2 Se Blair non si fosse legato al carro armato di Bush? L’America sarebbe andata da sola all’invasione. La Gran Bretagna non sarebbe stata meno sicura. Vedi Francia: nel 2003 con Chirac all’Eliseo disse no all’intervento armato in Iraq. Ma questo non le ha risparmiato le ferite degli attentati di Parigi.

3 Se la guerra fosse stata preparata meglio? Il rapporto Chilcot accusa Londra (e di riflesso Washington) di impreparazione e sottovalutazione. Anche da un punto di vista militare. Fin da subito gli stessi comandi alleati dissero (inascoltati) che servivano più soldati e più mezzi. Gli Usa rimasero con gli Humvees colabrodo che saltavano in aria sulle bombe improvvisate, gli inglesi al Sud giravano con i gipponi che i soldati chiamavano «bare mobili». Pensare che la Cia arrivò a Bagdad con casse di bandierine a stelle e strisce: da distribuire alla popolazione che si immaginava festante. Altro che resistenza. Gli Usa prospettavano un rapido «mordi e fuggi», o in alternativa qualcosa di simile alla serena occupazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale.

4 Se non avessero sciolto l’esercito iracheno? Una questione spinosa e complicata. Ma certo quella decisione presa dal governatore Usa Paul Bremer non favorì la riconciliazione nazionale. Anzi.

5 Se avessero aspettato l’Onu? Francia e Russia erano contro l’intervento armato. Di fronte alla paralisi diplomatica non c’era un attimo da perdere, sostiene Blair. Ma le prove di intelligence contro Saddam Hussein, come riafferma oggi la commissione Chilcot dovevano apparire gravemente insufficienti anche 13 anni fa. E allora, prendere tempo sarebbe stato saggio e non avrebbe necessariamente rafforzato Saddam. Questa era anche la posizione tedesca. Una linea di prudenza che, con scenario tutto diverso, Angela Merkel va applicando anche alla questione Brexit. La politica del «Schweigen»: calma e silenzio. Meglio che «shock and awe», colpisci e terrorizza (la tattica adottata nel primo giorno di attacco all’Iraq nel 2003). Il rapporto Chilcot (volendolo guardare attraverso il filtro della diplomazia comunitaria) per certi versi prova e allarga il solco tra Gran Bretagna ed Europa continentale. Un solco a geometrie variabili, considerando per esempio l’impazienza francese nell’attaccare la Libia di Gheddafi. Anche se i tedeschi mai l’ammetterebbero, l’attendismo di Berlino sulla Brexit (aspettiamo l’estate) può ricordare il nostro adda passà ‘a nuttata. Molto italiano, e anche molto iracheno: il sentimento di un popolo che, 13 anni dopo la sua liberazione, si ritrova a rimpiangere l’orco Saddam.

Massoneria. Rivoluzioni e conquiste.

La Brexit come disegno ordito dalla massoneria.

L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

«Non voglio passare per un complottista, ma la saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per avere il primato d’imperio sulla civiltà e sui popoli e per debellare questa forza internazionale, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti contro le dinastie regnanti cristiane. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremistici e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della cristianità.

La sinistra nel mondo è soggiogata e manipolata da questo disegno di continua destabilizzazione dell’ordine mondiale, di fatto favorendo l’invasione dell’Europa, incitando il diritto ad emigrare.

“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.

Il monopoli o domino massonico destabilizzante continua il 23 giugno 2016. Il Regno Unito ha votato la sua uscita dall'Unione Europea. Ma la domanda è: Il Regno Unito ci è mai entrato nell'Unione Europea? E se lo ha fatto con quali intenzioni? Sia l’entrata che l’uscita dall’Unione Europea dell’Union Jack non è forse un tentativo di destabilizzare la normalizzazione dei rapporti tra gli Stati europei ed impedire la loro unificazione politica, economia e monetaria, oltre che ostacolare l’espandersi dei rapporti amichevoli con la Russia che è vista come antagonista degli Usa nell’egemonizzazione del mondo?

Dominato dall'orgoglio francese, ma anche perché non li considerava "europeizzabili", Charles de Gaulle non voleva gli inglesi nella comunità. Li sospettava di essere una quinta colonna degli Stati Uniti massoni.

"Leggo dello sconforto di Jacques Delors, ex presidente della Commissione: «Avremmo fatto meglio a lasciare fuori gli inglesi». Ero a Parigi nel 1966, quando si discuteva già se permettere o no l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. De Gaulle era contrarissimo, mentre la maggior parte degli altri partner europei erano favorevoli. In uno dei tanti discorsi che soleva tenere alla tv, De Gaulle fece questa profezia: «Fate entrare l’Inghilterra e l’Europa non sarà mai fatta». Può dirmi, alla luce di quanto sta accadendo, se «l’Europa delle Patrie» dallo stesso De Gaulle tanto auspicata, avrebbe intrapreso forse un cammino più rapido verso una vera Unione europea simile a quella degli Usa?" Domanda di Rocco Caiazza a Sergio Romano del 5 dicembre 2012 su “Il Corriere della Sera”. “Caro Caiazza, Non ricordo la frase da lei citata, ma sul problema dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità europea la posizione di De Gaulle fu sempre chiara ed esplicita. Era convinto che Londra sarebbe stata il «cavallo di Troia» dell’America nell’organizzazione europea e non esitò a boicottare i negoziati con una clamorosa conferenza stampa il 14 gennaio 1963.” Fu la risposta di Romano. In effetti, dal 1975, da quando cioè il Regno Unito attraverso un altro referendum convocato sulla permanenza nell'Ue ad appena tre anni dal suo ingresso ufficiale ha optato per il «sì» a Bruxelles, le relazioni tra Londra e il blocco comunitario non sono mai state idilliache, scrive Arianna Sgammotta su “L’Inkiesta” il 22 giugno 2016. Non soltanto. Oltremanica l'Unione europea è sempre stata o ignorata o accusata di tutto quello che non funzionava in patria. Non stupisce quindi che fino al 2008, agli anni precedenti la crisi economica e finanziaria, l'etichetta euroscettico fosse a uso e consumo dei britannici, quasi a porsi come un sinonimo del carattere nazionale. In trent'anni di convivenza difficile il Regno Unito ha ottenuto una serie di deroghe all'implementazione di vari regolamenti validi invece per tutti gli altri Stati membri. Questo grazie alla cosiddetta clausola dell'opt-out. Ma non basta, grazie alla leader di ferro, Margaret Tatcher, Londra gode di un deciso sconto sul contributo annuale al bilancio comunitario. All'origine della diatriba tra Regno Unito e resto delle capitali Ue, la visione stessa del progetto comunitario. Per Londra una mera area di libero scambio solo se per sé vantaggiosa, per i Paesi fondatori - tra cui l'Italia - le basi di un'unione politica, economica e monetaria. Tant’è che il Regno Unito non è nell’area Euro né nello spazio Schenghen.

Allora, anziché rammaricarci del risultato, perchè non brindiamo per la vittoria che gli europeisti continentali hanno ottenuto ed analizziamo le notizie ed i dati offerteci dai media con maggior approfondimento e distacco ideologico? Come chiederci: gli antieuropeisti come gli europeisti fallimentisti, che con il formalismo e la burocrazia minano le basi dell’Unione, sono mica massoni?»

Massoneria come entità sopranazionale e trasversale, comunque vincente, checchè ne dicano i soliti idioti che stanno sempre lì a commentare le ovvie verità nei miei scritti. Ecco perché a Strasburgo vediamo che il Parlamento Europeo vota per l’uscita immediata dalla UE del Regno Unito ed a votare contro troviamo il leader inglese che ha fomentato la Brexit e con lui hanno votato il Movimento 5 Stelle, ed i movimenti di Le Pen e Salvini.

Ed i precedenti italiani di destabilizzazione?

Per scaricare Renzi i poteri forti rispolverano la massoneria, scrive il 20 febbraio 2016 Stefano Sansonetti su “La Notizia Giornale”. Ormai non c’è giorno senza che arrivi un pessimo segnale per la tenuta del Governo guidato da Matteo Renzi. Se poi questi segnali arrivano direttamente dall’estero, o sono comunque veicolati da profili legati a centri di potere internazionali, per il premier l’effetto non può che essere allarmante. Soprattutto quando tra le accuse viene ritirata in ballo la “massoneria”. Tra quelli che stanno lanciando missili c’è senza dubbio Mario Monti, ex commissario europeo, molto stimato da alcune cancellerie nonché membro dei comitati esecutivi delle più influenti e chiacchierate lobby mondiali, dalla Trilateral all’Aspen. Ebbene, qualche giorno fa Monti aveva dato un antipasto a Montecitorio criticando il presidente del consiglio per la strategia assunta in Europa. “Presidente Renzi, lei non manca occasione per denigrare le modalità concrete di esistenza della Unione Europea, con la distruzione sistematica a colpi di clava e scalpello di tutto quello che la Ue ha significato finora”, aveva detto Monti in quell’occasione, aggiungendo che “questo sta introducendo negli italiani, soprattutto in quelli che la seguono, una pericolosissima alienazione nei confronti della Ue. Con il rischio di un benaltrismo su scala continentale molto pericoloso”. Ieri, in un colloquio con il Corriere della sera, Monti è stato ancora più affilato, evocando addirittura la massoneria. Senza mai citare direttamente Renzi, l’ex premier ha spiegato che “molti politici nazionali, che sovente si professano europeisti – e magari perfino credono di esserlo – sono diventati maestri muratori della decostruzione europea”. E’ appena il caso di far notare che in termini storici la massoneria viene fatta risalire proprio alle corporazioni dei muratori del Medioevo. Lo stesso termine “massoneria” deriva dal francese “maçon”, che significa appunto muratore. Senza contare che in genere il “gran maestro” rappresenta il ruolo di vertice all’interno della gerarchia massonica. Insomma, ci sono sin troppi indizi che fanno capire come non sia stato certo casuale il riferimento di Monti ai “maestri muratori”. Questa durissima insinuazione, seppur indiretta, ha peraltro trovato spazio sulle colonne del Corriere della sera, non nuovo a lanciare accuse di questo tipo. Nel settembre del 2014, in un editoriale dell’allora direttore Ferruccio de Bortoli, il patto del Nazareno tra Renzi e gli emissari di Silvio Berlusconi venne accostato allo “stantio odore della massoneria”. Ma non è finita qui. Se nei giorni scorsi il Financial Times aveva scritto che “la fortuna di Renzi si sta esaurendo”, ieri in un’intervista a Qn è stato il politologo americano neocon, Edward Luttwak, a dare al premier italiano l’avviso di sfratto: “Renzi ha fallito perché doveva fare riforme importanti e non le ha fatte. Non ha fatto la spending review e non ha messo mano alla burocrazia della pubblica amministrazione”. Quanto al possibile complotto Ue contro Renzi, per Luttwak “non esiste, c’è stato sicuramente per Berlusconi, ma non nei confronti di Renzi”. Infine la superstoccata finale, quella che può aiutare a capire cosa si agiti nella mente di alcuni osservatori internazionali. Basti leggere il modo in cui, secondo Luttwak, Renzi dovrebbe andare avanti: “Innanzitutto lasciando a casa le ragazzine e i dilettanti e circondandosi di personaggi qualificati”. Riferimento neanche troppo velato a Maria Elena Boschi e a Marianna Madia. E chi dovrebbe essere recuperato da Renzi? “Pierluigi Bersani per le liberalizzazioni, poi Romano Prodi ed Enrico Letta. E anche Giorgio Napolitano, che potrebbe avere un ruolo nella riforma della giustizia italiana”. Ora, da che pulpito vengano queste richieste è domanda più che legittima. Ma è il contesto generale di pressione a dover far riflettere. Una spia di come certi poteri stiano scaricando il premier può essere ravvisata anche dal trattamento riservatogli da alcuni giornali. Per carità, il presidente del consiglio può ancora “consolarsi” con il sostegno mediatico fornitogli da La Repubblica del gruppo De Benedetti, da La Stampa della famiglia Agnelli, e da Il Messaggero dell’immobiliarista Francesco Gaetano Caltagirone. Ma certo un bel po’ di preoccupazione sarà indotta nel premier dagli strali lanciati dal Corriere della sera nelle ultime 48 ore. E non è solo per via di Mario Monti. Due giorni fa un editoriale di Antonio Polito era eloquentemente titolato “la spinta smarrita di Renzi”. Ieri un commento economico del vicedirettore, Federico Fubini, ha accusato Renzi si sbagliare completamente strategia quando minaccia di opporsi alla proposta tedesca di mettere un tetto al possesso dei titoli di Stato da parte delle banche. L’assunto è che Berlino “non sosterrà mai un sistema europeo di garanzie sui depositi bancari”, a cui l’Italia dice di tenere molto, “finché le banche stesse saranno così esposte sul debito dei rispettivi governi”. La sintesi, allora, è che “quando Renzi respinge la richiesta tedesca, di fatto rinuncia proprio a ciò che fino a ieri lui stesso chiedeva con urgenza”. Per carità, da tutto questo dedurre un avviso si fratto al premier sarà esagerato. Ma siamo molto vicini a una messa in mora.

L'ultimo tassello che dimostra il complotto di Napolitano & C. Le carte pubblicate da Repubblica sono solo la conferma dello scenario sul golpe del 2011. Prima l'attacco speculativo sui mercati, poi le manovre per far cadere il governo Berlusconi, scrive Renato Brunetta, Mercoledì 24/02/2016 su “Il Giornale”. Un fatto di gravità inaudita è stato rivelato ieri da Repubblica, che ha attinto da Wikileaks la notizia provata delle intercettazioni che uno Stato amico e alleato ha compiuto ai danni del nostro Paese e della sua legittima autorità di governo, rubando le telefonate del nostro presidente del Consiglio e dei suoi più stretti collaboratori. Questo Stato si chiama Stati Uniti d'America, negli anni di Barack Obama, e il presidente del Consiglio italiano è Silvio Berlusconi. Si tratta di una violazione che si configura come attacco alla nostra sovranità nazionale. Ma a questo credo che saprà (o no?) rispondere da par suo (ahinoi!) Matteo Renzi. Il quale, visto che chiama gli oppositori interni gufi, come minimo dovrà dare della iena a Obama. Figuriamoci. Qui restringiamo il campo a chi ha fornito le prove di questo scempio: Repubblica. E Repubblica, se possibile, è peggio degli spioni. Infatti la chiave di lettura che essa dà di questo crimine è di compiacimento, poiché vuol convincere il mondo che questa infamia fornisce nuovi proiettili contro il nemico storico, Silvio Berlusconi e il suo governo. In particolare nell'editoriale di Claudio Tito usa le telefonate carpite per negare l'esistenza di qualsivoglia complotto contro l'ultimo premier legittimato dal voto e di conseguenza contro il nostro Paese. Lo scopo è chiaro: volgarmente si direbbe, mettere le mani avanti. Più raffinatamente, trattasi della classica operazione di disinformacija. Tito, e Calabresi-De Benedetti, vogliono creare il mainstream, il pensiero unico su questa vicenda, obbligando tutti i commenti a instradarsi su questi binari, ad accettare l'agenda proprio di coloro che ordirono il complotto, i quali stavano e stanno non solo all'estero, ma in Italia, e proprio molto vicino all'area politico-culturale di Repubblica-Espresso. Perché queste intercettazioni sono solo nelle loro mani? Hanno per caso pagato per averle? Perché non le hanno anche gli altri giornali? Si fa per caso un uso selettivo di WikiLeaks? L'asino però casca sull'ignoranza, voluta o determinata dal pregiudizio proprio e della casa madre, qui non importa. Il diavolo sta nei dettagli. E i dettagli dicono topiche clamorose nell'impostazione delle fondamenta di una tesi smentita dalla realtà. Ma è proprio questa miseria morale e deontologica a essere la caratteristica espressiva non solo del giornalismo del gruppo editoriale di De Benedetti, ma della sinistra intellettuale e politica in quanto tale. Uno spirito di diserzione rispetto agli interessi nazionali, abbandonando quel minimo di patriottismo che sarebbe naturale riscontrare in chiunque ami il proprio Paese e lo veda ferito con strumenti di scasso che mettono in pericolo la sicurezza di tutti. Il Giornale ha, nel maggio del 2014, pubblicato e diffuso un libro che porta la mia firma e si intitola Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto. Le rivelazioni odierne forniscono in realtà totale conferma della mia narrazione di quegli eventi che videro l'Italia, soprattutto nel secondo semestre del 2011, sotto attacco speculativo. Prima partì l'aggressione finanziaria ai titoli di Stato, mentre i fondamentali della nostra economia erano stati ben valutati dalla Commissione europea. Dal complotto finanziario si passò senza soluzione di continuità al complotto politico, bene assecondato in Italia dal Quirinale (e da Repubblica). Dalle telefonate intercettate in particolare al consigliere politico e deputato Valentino Valentini, che partecipò ai colloqui riservati di Berlusconi con i leader franco-tedeschi, si evince che Sarkozy e Merkel misero sotto pressione fortissima Berlusconi anche in privato. Contemporaneamente ordirono nei corridoi e in incontri riservati al vertice del G20 di Cannes quello che il segretario del Tesoro americano Tim Geithner ha definito nelle sue memorie the scheme, il complotto. A cui si sottrasse, non volendosi «macchiare le mani del sangue» di Berlusconi. Ps. Ecco a uso della scuola di giornalismo e magari alla attenzione dell'Ordine dei giornalisti per la diffusione di notizie false. Prima il testo di Tito, poi la confutazione delle topiche. «Il governo venne umiliato in Parlamento: incapace di approvare la legge di Stabilità... La paura di essere travolti dal buco nero italiano diventava il vero incubo dell'Unione europea e di tutti gli alleati internazionali. Non è un caso che in quei giorni (autunno 2011, ndr) la Deutsche Bank - allora ancora solida - si liberava in un colpo solo dell'88% dei titoli di Stato italiani che aveva in cassaforte. Quasi in contemporanea, dal vertice europeo di Nizza di ottobre arrivava un altro schiaffo. La Cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy ironizzavano con un sorriso eloquente sulla capacità dell'esecutivo berlusconiano di mettere al riparo i conti dello Stato». Il governo non era «incapace di approvare la legge di Stabilità». La legge di Stabilità non era allora in questione. Si trattava, invece, del voto sul rendiconto generale dello Stato, un atto dovuto, e peraltro approvato dalla Camera. La Deutsche Bank non vende «per paura di essere travolti dal buco nero italiano» dopo l'estate, ma sono le decisioni dei suoi vertici a causare ad arte questa paura innescando la tempesta perfetta sui mercati. La Deutsche Bank cedette i titoli di Stato italiani tra marzo e giugno 2011. La Bundesbank impose lo stesso comportamento a tutti gli istituti presenti sul suolo tedesco ai primi di luglio. Fu questa vendita preordinata e in blocco a causare la crescita artificiosa dello spread. I sorrisetti di Merkel e Sarkozy non furono «durante il vertice europeo di Nizza», ma durante una conferenza stampa a Bruxelles il 23 ottobre 2011. Il vertice europeo di Nizza si svolse un po' prima, esattamente tra il 7 e il 9 dicembre 2000, e c'erano Giuliano Amato, Jacques Chirac e Gerhard Schröder. In effetti lì non ci fu nessun complotto. Lo spread non ha mai «sfiorato» 600 punti base, ma al massimo 529 il 15 novembre 2011, quando Berlusconi, tra l'altro, si era già dimesso. Ciò detto, a chi giova oggi questa divulgazione di informazioni? Chi è il vero obiettivo di questa campagna? È l'operazione verità rispetto al passato, per cui noi abbiamo già chiesto l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta, oppure l'obiettivo è l'attuale governo? È un avvertimento a Renzi? Domande inquietanti, che chiedono risposte immediate. Ha niente da dire il solitamente ciarliero presidente del Consiglio italiano?

Napolitano e tutto il PD hanno approvato un piano massonico sequestrato nel 1981. Il senatore del Movimento 5 Stelle Sergio Puglia, con un video pubblicato su “Libero Quotidiano Tv” il 13 ottobre 2015, accusa l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di aver portato avanti il programma della P2. Il senatore del Movimento registra un video nel transatlantico di Palazzo Madama, dopo che il suo gruppo è uscito dall’aula, quando l’ex presidente della Repubblica ha preso la parola. Puglia dice: “Napolitano ha preso il programma della loggia massonica P2 e lo ha imposto ai presidenti del Consiglio. Lui è l’autore di tutto questo macello istituzionale”.

La sinistra massone lo sa che con i suoi apparati politici, mediatici e culturali, influenza le masse ignoranti. E la massa vota con la pancia, non con la testa.

Ed allora parliamo del Gruppo Bilderberg.

I massoni e la sinistra italiana, scrive Andrea Cinquegrani, tratto da "La Voce della Campania". Il Gruppo Bilderberg nasce nel 1952, ma viene ufficializzato due anni più tardi, a giugno del 1954, quando un ristretto gruppo di vip dell’epoca si riunisce all’hotel Bilderberg di Oosterbeek, in Olanda. Da quel momento le riunioni si sono svolte una o due volte all’anno, nel più totale riserbo. In occasione di una delle ultime, nella splendida e appartata resort di Sintra, in Portogallo, il settimanale locale News riportò una notizia secondo cui il Governo avrebbe ricevuto migliaia di dollari dal Gruppo per organizzare «un servizio militare compreso di elicotteri che si occupasse di garantire la privacy e la sicurezza dei partecipanti». Ma torniamo agli esordi. I primi incontri si sono svolti esclusivamente nei paesi europei, ma dall’inizio degli anni ’60 anche negli Usa. Tra i promotori - precisano alcuni studiosi della semi sconosciuta materia - occorre ricordare due nomi in particolare: sua maestà il principe Bernardo de Lippe, olandese, ex ufficiale delle SS, che ha guidato il gruppo per oltre un ventennio, fino a quando, nel 1976, è stato travolto dallo scandalo Lockheed; e Joseph Retinger, un faccendiere polacco al centro di una fittissima trama di rapporti con uomini che per anni hanno contato sullo scacchiere internazionale della politica e dell’economia. «La loro ambizione - viene descritto - era quella di costruire un’Europa Unita per arrivare a una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali. Fin dalla prima riunione vennero invitati banchieri, politici, universitari, funzionari internazionali degli Usa e dell’Europa occidentale, per un totale di un centinaio di personaggi circa». Ecco cosa hanno scritto alcuni giornalisti investigativi inglesi nel magazine on line di Bbc News a pochi giorni dal meeting di Stresa. «Si tratta di una delle associazioni più controverse dei nostri tempi, da alcuni accusata di decidere i destini del mondo a porte chiuse. Nessuna parola di quanto viene detto nel corso degli incontri è mai trapelata. I giornalisti non vengono invitati e quando in qualche occasione vengono concessi alcuni minuti a qualche reporter, c’è l’obbligo di non far cenno ad alcun nome. I luoghi d’incontro sono tenuti segreti e il gruppo non ha un suo sito web. Secondo esperti di affari internazionali, il gruppo Bilderberg avrebbe ispirato alcuni tra i più clamorosi fatti degli ultimi anni, come ad esempio le azioni terroristiche di Osama bin Laden, la strage di Oklaoma City, e perfino la guerra nella ex Jugoslavia per far cadere Milosevic. Il più grosso problema è quello della segretezza. Quando tante e tali personalità del mondo si riuniscono, sarebbe più che normale avere informazioni su quanto sta succedendo». Invece, tutto top secret. Scrive un giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol: «Secondo alcune indiscrezioni che ho raccolto, il primo luogo nel quale si è parlato di invasione dell’Iraq da parte degli Usa, ben prima che ciò accadesse, è stato nel meeting 2002 dei Bilderberg». Di parere opposto un redattore del Financial Times, Martin Wolf, più volte invitato ai meeting: «L’idea che questi incontri non possano essere coperti dalla privacy è fondamentalmente totalitaria; non si tratta di un organismo esecutivo, nessuna decisione viene presa lì». Fa eco uno dei fondatori, anche lui inglese, lord Denis Healey: «Non c’è assolutamente niente sotto. E’ solo un posto per la discussione, non abbiamo mai cercato di raggiungere un consenso sui grandi temi. E’ il migliore gruppo internazionale che io abbia mai frequentato. Il livello confidenziale, senza alcun clamore all’esterno, consente alle persone di parlare in modo chiaro». Ed ecco cosa scrive un altro studioso di ordini paralleli e di gruppi e associazioni che agiscono sotto traccia, Giorgio Bongiovanni. «Bilderberg rappresenta uno dei più potenti gruppi di facciata degli Illuminati (una sorta di super Cupola mondiale, ndr). Malgrado le apparenti buone intenzioni, il vero obiettivo è stato quello di formare un’altra organizzazione di facciata che potesse attivamente contribuire al disegno degli Illuminati: la costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale e di un Governo Mondiale entro il 2012. Sembra che le decisioni più importanti a livello politico, sociale, economico-finanziario per il mondo occidentale vengano in qualche modo ratificate dai Bilderberg». «Il Gruppo - scrive ancora Bongiovanni - recluta politici, ministri, finanzieri, presidenti di multinazionali, magnate dell’informazione, reali, professori universitari, uomini di vari campi che con le loro decisioni possono influenzare il mondo. Tutti i membri aderiscono alle idee precedenti, ma non tutti sono al corrente della profonda verità ideologica di alcuni membri principali». I veri “conducator”- secondo questa analisi - i quali a loro volta fanno anche parte di altri segmenti strategici nell’organigramma degli Illuminati. Due in particolare: la Trilateral e la Commission of Foreign Relationship, nata nel 1921, la quale riunisce a sua volta tutti i personaggi che hanno fra le loro mani le leve del comando negli Usa. «Questi membri particolari - prosegue Bongiovanni - sono i più potenti e fanno parte di quello che viene definito il ‘cerchio interiore’. Quello “esteriore”, invece, è l’insieme degli uomini della finanza, della politica, e altro, che sono sedotti dalle idee di instaurare un governo mondiale che regolerà tutto a livello politico e economico: insomma, le ‘marionette’ utilizzate dal cerchio interiore perché i loro membri sanno che non possono cambiare il mondo da soli e hanno bisogno di collaboratori motivati e mossi anche dal desiderio di danaro e potere». Passiamo, per finire, alla Trilateral, vero e proprio luogo cult del Potere nascosto, in grado comunque di condizionare i destini del mondo. Ovviamente ‘sponsorizzato’ della star dell’imprenditoria multinazionale, come Coca Cola, Ibm, Pan American, Hewlett Packard, Fiat, Sony, Toyota, Mobil, Exxon, Dunlop, Texas Instruments, Mutsubishi, per citare solo le più importanti. L’associazione nasce nel 1973, sotto la presidenza “democratica” di Jimmy Carter e del suo consigliere speciale per la sicurezza, Zbigniew Brzezinsky, il vero deux ex machina. A ispirare il progetto, le famiglie Rothschield e Rockfeller, i Paperoni d’America. Un progetto che ha irresistibilmente attratto i potenti del mondo, a cominciare proprio dai presidenti Usa, con un Bill Clinton in prima fila. Così descriveva Giovanni Agnelli la Trilateral: «Un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (Usa, Europa e Giappone, ndr) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse». Il solito ritornello. Di diverso avviso il giornalista Richard Falk, che già nel 1978 - quindi a pochissimi anni dalla nascita - scrive sulle colonne della Monthly Review di New York: «Le idee della Commissione Trilaterale possono essere sintetizzate come l’orientamento ideologico che incarna il punto di vista sopranazionale delle società multinazionali, che cercano di subordinare le politiche territoriali a fini economici non territoriali». E’ la filosofia delle grandi corporation, che stanno privatizzando le risorse di tutto il pianeta, a cominciare dai beni primari, come ad esempio l’acqua: non solo riescono a ricavare profitti stratosferici ma anche ad esercitare un controllo politico su tutti i Sud - e non solo - del mondo. La logica della globalizzazione. E i bracci operativi di questo turbocapitalismo sono proprio due strutture che dovrebbero invece garantire il contrario: ovvero la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. «Entrambi - scrive uno studioso, Mario Di Giovanni - sotto lo stretto controllo del ‘Sistema’ liberal della costa orientale americana. Agiscono a tutto campo nell’emisfero meridionale del pianeta, impegnate nella conduzione e ‘assistenza’ economica ai paesi in via di sviluppo». E proprio sull’acqua, la Banca Mondiale sta dando il meglio di sé: con la sua collegata IFC (Internazionale Finance Corporation) infatti sta mettendo le mani sulla gran parte delle privatizzazioni dei sistemi idrici di mezzo mondo, soprattutto quello africano e asiatico, condizionando la concessione dei fondi all’accettazione della privatizzazione, parziale o più spesso totale, del servizio. Del resto, è la stessa Banca a calcolare il business in almeno 1000 miliardi di dollari… Scrive ancora Di Giovanni: «Le decisioni assunte dai vertici della Trilateral riguarderanno sempre di più quanti uomini far morire, attraverso l’eutanasia o gli aborti, e quanti farne vivere, attraverso un’oculata distribuzione delle risorse alimentari. Decisioni che riguarderanno l’ingegneria genetica, per intervenire nella nuova ‘umanità’. In una parola, tutto ciò che definitivamente distrugga il ‘vecchio’ ordine sociale, cristiano, per la creazione di un nuovo ordine. Ma tutto questo senza particolari scossoni. Non vi sarà bisogno di dittature, visto che le democrazie laiche e progressiste, condotte da governi di ‘centrosinistra’, servono già così efficacemente allo scopo. Governi che riproducono - conclude - una formula già sperimentata lungo l’intero corso del ventesimo secolo e plasticamente rappresentata dal passato governo Prodi-D’Alema: l’alleanza fra la borghesia massonica e la sinistra, rivoluzionaria o meno».

LE 13 FAMIGLIE CHE COMANDANO IL MONDO, scrive “Informare per resistere” l'8 agosto 2012. “Illuminati” o “portatori di luce”. Appartengono a tredici delle più ricche famiglie del mondo e sono i personaggi che veramente controllano e comandano il mondo da dietro le quinte. Vengono, da molti, anche definiti la “Nobiltà Nera”. La loro caratteristica principale è quella di essere nascosti agli occhi della popolazione mondiale. Il loro albero genealogico va indietro migliaia di anni, alcuni dicono che risale alla civiltà sumera/babilonese o addirittura che siano ibridi, figli di una razza extraterrestre, i rettiliani. Sono molto attenti a mantenere il loro legame di sangue di generazione in generazione senza interromperla. Il loro potere risiede nel controllo specie quello economico (gruppo Bilderberg ecc…), “il denaro crea potere” è la loro filosofia. Il loro controllo punta a possedere tutte le banche internazionali, il settore petrolifero e tutti i più potenti settori industriali e commerciali. Sono infiltrati nella politica e nella maggior parte dei governi e degli organi statali e parastatali. Inoltre negli organi internazionali primo fra tutti l’ONU e poi il Fondo Monetario Internazionale. Ma qual è l’obiettivo degli Illuminati? Creare un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) con un governo mondiale, una banca centrale mondiale, un esercito globale e tutta una rete di controllo totale sulle masse. A capo ovviamente loro stessi, per sottomettere il mondo ad una nuova schiavitù, non fisica, ma “spirituale” ed affermare il loro credo, quello di Lucifero. Questo progetto va avanti, secondo alcuni, da millenni ma ebbe un incremento nella prima metà del 1700 con l’incontro tra il “Gruppo dei Savi di Sion” e Mayer Amschel Rothschild, l’abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale. L’incontro portò alla creazione di un manifesto: “I Protocolli dei Savi di Sion”. Suddiviso in 24 paragrafi, viene descritto come soggiogare e dominare il mondo con l’aiuto del sistema economico. Rothschild successivamente aiutò e finanziò l’ebreo Adam Weishaupt, un ex prete gesuita, che a Francoforte creò il famigerato gruppo segreto dal nome “Gli Illuminati di Baviera”. Weishaupt prendendo spunto dai “Protocolli dei Savi di Sion” elaborò verso il 1770 “Il Nuovo Testamento di Satana” un piano che porterà una piccola minoranza di persone al controllo globale. La sua strategia si basava sulla soppressione dei governi nazionali e alla concentrazione di tutti i poteri sotto unici organi da loro controllati. Loro hanno un piano ben preciso che portano avanti a piccoli passi, proprio per non destare alcun sospetto. Creare la divisione delle masse, è un passo fondamentale, in politica, nell’economia, negli aspetti sociali, con la religione, l’invenzione di razze ed etnie ecc… Scatenare conflitti tra stati, così da destabilizzare l’opinione pubblica sui governi, l’economia e incutere timore e mancanza di sicurezza nella popolazione.  Corrompere con denaro facile, vantaggi e sesso, quindi rendere ricattabili i politici o chi ha una posizione di spicco all’interno di uno stato o di un organo statale. Scegliere il futuro capo di stato tra quelli che sono servili e sottomessi incondizionatamente. Avere il controllo delle scuole: dalla scuola infantile all’Università per fare in modo che i giovani talenti siano indirizzati ad una cultura internazionale e diventino inconsciamente parte del complotto. Indottrinando la popolazione su come si può o non può vivere, su quali sono le regole da rispettare, gli usi e i costumi ecc… Infiltrarsi in ogni decisione importante (meglio a lungo termine) dei governi degli stati più potenti del mondo. Facendo coincidere queste decisioni con il progetto finale. Controllare la stampa e l’informazione in generale, creando false notizie, false emozioni, paura ed instabilità. Abituare le masse a vivere sulle apparenze ed a soddisfare solo il loro piacere ed il materialismo così da portare la società alla depravazione, stadio in cui l’uomo non ha più fede in nulla. Arrivare a creare un tale stato di degrado, di confusione e quindi di spossatezza, che le masse avrebbero dovuto reagire cercando un protettore o un benefattore al quale sottomettersi spontaneamente. Uno dei loro obbiettivi è scippare la popolazione così da manipolare il loro pensiero ed il loro comportamento, oltre che rendere molto facile la loro identificazione e localizzazione. Tutto questo con la scusante della sicurezza personale. Nel 1871 il piano di Weishaupt viene ulteriormente confermato e completato da un suo seguace americano, il gran maestro, Albert Pike che elaborò un documento per l’istituzione di un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) attraverso tre Guerre Mondiali. Lui sosteneva che attraverso questi tre conflitti la popolazione mondiale, stanca della violenza e della sofferenza, avrebbe richiesto spontaneamente protezione e pace e la creazione di organi mondiali che controllassero ciò. Dopo la Seconda Guerra Mondiale venne fatto il primo passo in questa direzione con la formazione dell’ONU. Per Pike, la Prima Guerra Mondiale doveva portare gli Illuminati, che già avevano il controllo di alcuni Stati Europei e stavano conquistando attraverso le loro trame gli Stati Uniti di America, ad avere anche la guida della Russia. Quest’ultima sarebbe poi servita alla divisione del mondo in due blocchi. La Seconda Guerra Mondiale sarebbe dovuta partire dalla Germania (cosa che accadde), manipolando le diverse opinioni tra i nazionalisti tedeschi e i sionisti politicamente impegnati. Inoltre avrebbe portato la Russia ad estendere la sua zona di influenza e reso possibile la costituzione dello Stato di Israele in Palestina. La Terza Guerra Mondiale sarà basata sulle divergenze di opinioni che gli Illuminati avranno creato tra i Sionisti e gli Arabi (occidente cristiano contro l’Islam cosa che si sta avverando e anche velocemente), programmando l’estensione del conflitto a livello mondiale. Ovviamente non potevano pensare di conseguire i loro obiettivi da soli, avevano ed hanno bisogno di una “struttura operativa”, composta da organizzazioni o persone che esercitando del potere ed operino più o meno consapevolmente nella stessa direzione. La loro strategia ha fatto leva su 2 capisaldi: la forza del denaro, loro hanno costituito e controllano il sistema bancario internazionale; la disponibilità di persone fidate, ottenuta attraverso il controllo delle società segrete (logge massoniche). Gli Illuminati e chi con loro controlla queste società, sono pressoché Satanisti e praticano la magia nera e sacrifici umani. Il loro Dio è Lucifero e attraverso pratiche e riti occulti manipolano e influenzano le masse. Molti asseriscono che è anche da questa scienza di tipo occulto che gli Illuminati hanno sviluppato la teoria sul controllo mentale delle masse. Poco tempo fa sono emersi anche i nomi delle suddette famiglie: ASTOR, BUNDY, COLLINS, DUPONT, FREEMAN, KENNEDY, LI, ONASSIS, ROCKFELLER, ROTHSCHILD, RUSSELL, VAN DUYN, MEROVINGI.

Famoso discorso, fatto da John Fritzgerald Kennedy, il 27 aprile 1961, sulla reale minaccia, che le società segrete, costituiscono per tutto il mondo, e per la libertà, di ogni essere umano. Kennedy denunciò apertamente i poteri occulti che nell’ombra governano il mondo, poi quando decise di stampare una banconota di stato svincolata dalla FED fu fatto fuori. Casualità???

L’INGHILTERRA E’ CONTROLLATA DAI ROTHSCHILD, scrive “I Complottisti” il 30/06/2016. L’Inghilterra è un’oligarchia finanziaria gestita dalla corona che si riferisce alla City of London e non alla Regina. La City of London è gestita dalla Banca d’Inghilterra, una società privata. La City è uno stato sovrano, come il Vaticano del mondo finanziario, e non è soggetta alla legge britannica, al contrario i banchieri danno gli ordini al Parlamento Britannico. Nel 1886 Andrew Carnegie scrisse che "6 o 7 uomini possono spingere il paese in una guerra senza consultare il Parlamento”. Vincenzo Vickers direttore della Banca d’Inghilterra dal 1910 al 1919 ha accusato la City per le guerre nel mondo. L’impero britannico era un’estensione degli interessi finanziari dei banchieri. In effetti, tutte le colonie non bianche (India, Hong Komg, Gibilterra) erano corone colonie. Appartenevano alla City e non erano soggetti alla legge inglese. La Banca d’Inghilterra ha assunto il controllo degli USA durante l’amministrazione Roosevelt (1901-1909) quando il suo agente J.P. Morgan acquisì oltre il 25% del business americano. Secondo l’American Almanac i banchieri fanno parte di una rete chiamata club of Isles che è un’associazione informale di famiglie reali prevalentemente europee tra cui la Regina. Il club of Isles gestisce una cifra stimata di 10 miliardi di dollari in assets come la Royal Dutch Shell, Imperial Chemical Industries, Lloyds of London, Unilever, Lonrho, Rio Tinto Zinc, e anglo americana De Beers. Domina la fornitura mondiale di petrolio, oro, diamanti, e molte altre materie prime vitali ed impiega questi assets a disposizione della propria agenda geopolitica. Il loro obiettivo è ridurre la popolazione mondiale ad 1 miliardo di persone entro le prossime 2/3 generazioni, per mantenere il proprio potere globale e feudale. La storia Jeffrey Steinberg scrisse: “Inghilterra, Scozia, Galles ed in particolare l’Irlanda del Nord sono oggi poco più di piantagioni di schiavi e laboratori di ingegneria sociale per soddisfare le esigenze della City of London”. Queste famiglie costituiscono un’oligarchia finanziaria e sono il potere dietro il trono Windsor. Considerano se stessi come eredi dell’oligarchia veneziana che si sono infiltrati ed hanno sovvertito l’Inghilterra dal periodo 1509-1715 ed ha stabilito un nuovo più virulento ceppo anglo-olandese svizzero del sistema oligarchico dell’impero di Babilonia, Persia, Roma e Bisanzio…La City of London domina i mercati speculativi del mondo. Un gruppo strettamente interdipendente di imprese, materie prime coinvolte nell’estrazione, finanza, assicurazioni, trasporti e produzioni di cibo, fa la parte del leone nel controllo del mercato mondiale. Sembra che molti membri di questa oligarchia erano ebrei. Cecil Roth scrisse “il commercio di Venezia è stato il nodo schiacciante concentrato nelle mano degli ebrei, i più ricchi della classe mercantile (La storia degli ebrei a Venezia 1930). William Guy Carr nel libro Pawns in the game spiega che sia Oliver Cromwell che Gugliemo d’Orange sono stati finanziati da banchieri ebrei. La Rivoluzione Inglese (1649) è stata la prima di una serie di rivoluzioni progettate per dare loro egemonia mondiale. L’Inghilterra è stato uno stato ebraico per oltre 300 anni.

I 25 PUNTI SCRITTI DAI ROTHSCHILD PER LA CONQUISTA DEL MONDO, scrive “I Complottisti” il 22/03/2016. PREMESSA: I ROTHSCHILD, SONO UNA DELLE POCHE FAMIGLIE A CONTROLLARE SIN DAGLI ALBORI LE BANCHE, QUINDI LE ECONOMIE E QUINDI I GOVERNI MONDIALI. Anno 1773. Poco prima di presentare il suo piano, in 25 punti, per “dominare le ricchezze, le risorse naturali e la forza lavoro di tutto il mondo”, Amschel Mayer Rothschild, ai suoi dodici ascoltatori, svelò «come la Rivoluzione Inglese (1640-60) fosse stata organizzata e mise in risalto gli errori che erano stati commessi: il periodo rivoluzionario era stato troppo lungo, l’eliminazione dei reazionari non era stata eseguita con sufficiente rapidità e spietatezza e il programmato “regno del terrore”, col quale si doveva ottenere la rapida sottomissione delle masse, non era stato messo in pratica in modo efficace. Malgrado questi errori, i banchieri, che avevano istigato la rivoluzione, avevano stabilito il loro controllo sull’economia e sul debito pubblico inglese». Rothschild mostrò che questi risultati finanziari non erano da paragonare a quelli che si potevano ottenere con la Rivoluzione francese, a condizione che i presenti si unissero per mettere in pratica il Piano rivoluzionario che egli aveva studiato e aggiornato con grande cura. Questi 25 punti sono:

1. Usare la violenza e il terrorismo, piuttosto che le discussioni accademiche.

2. Predicare il “Liberalismo” per usurpare il potere politico.

3. Avviare la lotta di classe.

4. I politici devono essere astuti e ingannevoli – qualsiasi codice morale lascia un politico vulnerabile.

5. Smantellare “le esistenti forze dell’ordine e i regolamenti. Ricostruzione di tutte le istituzioni esistenti.”

6. Rimanere invisibili fino al momento in cui si è acquisita una forza tale che nessun’altra forza o astuzia può più minarla.

7. Usare la Psicologia di massa per controllare le folle. “Senza il dispotismo assoluto non si può governare in modo efficiente.”

8. Sostenere l’uso di liquori, droga, corruzione morale e ogni forma di vizio, utilizzati sistematicamente da “agenti” per corrompere la gioventù.

9. Impadronirsi delle proprietà con ogni mezzo per assicurarsi sottomissione e sovranità.

10. Fomentare le guerre e controllare le conferenze di pace in modo che nessuno dei combattenti guadagni territorio, mettendo loro in uno stato di debito ulteriore e quindi in nostro potere.

11. Scegliere i candidati alle cariche pubbliche tra chi sarà “servile e obbediente ai nostri comandi, in modo da poter essere facilmente utilizzabile come pedina nel nostro gioco”.

12. Utilizzare la stampa per la propaganda al fine di controllare tutti i punti di uscita d’ informazioni al pubblico, pur rimanendo nell’ombra, liberi da colpa.

13. Far sì che le masse credano di essere state preda di criminali. Quindi ripristinare l’ordine e apparire come salvatori.

14. Creare panico finanziario. La fame viene usata per controllare e soggiogare le masse.

15. Infiltrare la massoneria per sfruttare le logge del Grande Oriente come mantello alla vera natura del loro lavoro nella filantropia. Diffondere la loro ideologia ateo-materialista tra i “goyim” (gentili).

16. Quando batte l’ora dell’incoronamento per il nostro signore sovrano del Mondo intero, la loro influenza bandirà tutto ciò che potrebbe ostacolare la sua strada.

17. Uso sistematico di inganno, frasi altisonanti e slogan popolari. “Il contrario di quanto è stato promesso si può fare sempre dopo. Questo è senza conseguenze”.

18. Un Regno del Terrore è il modo più economico per portare rapidamente sottomissione.

19. Mascherarsi da politici, consulenti finanziari ed economici per svolgere il nostro mandato con la diplomazia e senza timore di esporre “il potere segreto dietro gli affari nazionali e internazionali.”

20. L’obiettivo è il supremo governo mondiale. Sarà necessario stabilire grandi monopoli, quindi, anche la più grande fortuna dei Goyim dipenderà da noi a tal punto che essi andranno a fondo insieme al credito dei dei loro governi il giorno dopo la grande bancarotta politica.

21. Usa la guerra economica. Deruba i “Goyim” delle loro proprietà terriere e delle industrie con una combinazione di alte tasse e concorrenza sleale.

22. Fai si che il “Goyim” distrugga ognuno degli altri; così nel mondo sarà lasciato solo il proletariato, con pochi milionari devoti alla nostra causa e polizia e soldati sufficienti per proteggere i loro interessi.

23. Chiamatelo il Nuovo Ordine. Nominate un Dittatore.

24. Istupidire, confondere e corrompere e membri più giovani della società, insegnando loro teorie e principi che sappiamo essere falsi.

25. Piegare le leggi nazionali e internazionali all’interno di una contraddizione che innanzi tutto maschera la legge e dopo la nasconde del tutto. Sostituire l’arbitrato alla legge.

 “COME (NON) FUNZIONA LA DEMOCRAZIA DELL’UNIONE EUROPEA. INDAGINE SUI TRATTATI EUROPEI” – SPECIALE COMPLETO in TRE PARTI (a cura dell’avvocato Giuseppe PALMA del 3 luglio 2016).

PREMESSA. Dopo il voto britannico sulla Brexit (cioè sulla volontà del popolo del Regno Unito di restare o meno all’interno dell’Unione Europea), giornalai di regime e professoroni universitari, visto l’esito, hanno scatenato il putiferio! Il referendum in Gran Bretagna di giovedì 23 giugno si è concluso con una inequivocabile vittoria del LEAVE (fatta eccezione per Londra, il resto dell’Inghilterra e del Galles hanno votato per uscire dall’UE, mentre Scozia e Irlanda del Nord per rimanere). Ciò ha determinato, come ci si aspettava, un terremoto sui mercati. Ed ecco che il “vero potere” ha scatenato un’offensiva senza precedenti contro la democrazia. C’è addirittura chi, dall’alto del proprio ruolo di docente universitario ordinario, ha follemente ipotizzato la necessità di sostituire il voto eguale (cioè una testa un voto) con il voto ponderato (cioè che alcuni voti valgano più di altri a seconda dell’età e/o del titolo di studio). A questo punto, c’è da chiedersi: ma se è vero (e non lo è) che l’Unione Europea si fonda sui principi di democrazia, pace e benessere, per quale motivo una semplice consultazione elettorale (per di più di natura consultiva e non vincolante) ha determinato il crollo dei mercati e la reazione scomposta dell’establishment? Sarà mica l’Unione Europea ad essere INCOMPATIBILE con la democrazia? Giudicate Voi.

PARTE PRIMA. PERCHE’ LE NORME GIURIDICHE DELL’UNIONE EUROPEA PREVALGONO SU QUELLE NAZIONALI?

Il rapporto gerarchico nel sistema delle Fonti del diritto: gravi problematiche. Fatta salva – nei termini che si esporranno di seguito – la supremazia gerarchica della Costituzione nei confronti delle norme europee di qualunque fonte (supremazia meramente formale visto che le norme costituzionali sono state sostanzialmente superate dal contenuto dei Trattati), la produzione legislativa nazionale di rango ordinario (le leggi e gli atti aventi forza di legge) si colloca su un livello inferiore (rapporto gerarchico) rispetto alla produzione legislativa dell’UE, tant’è che, qualora una norma nazionale non fosse conforme ad una norma europea, il giudice nazionale (al quale i cittadini si rivolgono per ottenere giustizia) deve disapplicare la norma nazionale e applicare quella europea, anche se questa è antecedente alla norma interna. Ma andiamo per gradi. Cosa vuol dire rapporto gerarchico? Vuol dire che un atto giuridico deve essere conforme ad un altro atto giuridico posto su un livello superiore nella scala gerarchica delle Fonti del diritto, cioè – ad esempio – un regolamento del Governo deve essere conforme alla legge ordinaria, questa deve essere conforme al Regolamento dell’UE (che è un atto giuridico che fa parte del diritto derivato dell’Unione) e quest’ultimo non deve essere in contrasto con i Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, con la Parte Prima della Costituzione e con la forma repubblicana (intesa nel suo significato più ampio). La conformità alla Costituzione è richiesta anche al diritto europeo originario (rappresentato dai Trattati dell’UE), e a tal riguardo va evidenziato che gli atti legislativi dell’Unione sono adottati attraverso le procedure stabilite dai Trattati che nulla hanno a che fare con le procedure democratiche dettagliatamente stabilite dalla Parte Seconda della nostra Costituzione, la quale attribuisce la funzione legislativa esclusivamente ad un Parlamento eletto direttamente dal popolo (fatta eccezione per i casi del decreto legge e del decreto legislativo che sono invece di competenza del Governo, la cui funzione legislativa è comunque limitata al verificarsi di specifiche condizioni). Ciò detto, i cittadini italiani sono soggetti a norme europee (che superano quelle nazionali) adottate attraverso procedure legislative meno garantiste e meno democratiche di quelle stabilite dalla Costituzione, le quali sono costate milioni di morti. Capito adesso perché la Costituzione è stata – di fatto – esautorata sin dalle sue viscere? Come si fa a dire di essere europeisti di fronte a tali verità? Come si può accettare che la Commissione europea e il Consiglio dell’UE (quindi funzione esecutiva, iniziativa legislativa e funzione legislativa), deputati rispettivamente a proporre e ad emanare atti legislativi direttamente vincolanti e superiori alle leggi nazionali, siano composti da soggetti nominati (e quindi non eletti) che non ricevono neppure un vero e proprio voto di fiducia da parte del Parlamento, unico organismo europeo eletto direttamente dal popolo? In pratica, se la Rivoluzione francese aveva strappato la funzione legislativa dalle mani del re (e del suo “Consilium Principis”) per attribuirla ad un’assemblea elettiva che rappresentasse ed esercitasse la sovranità popolare, l’UE ha annullato le conquiste rivoluzionarie attribuendo sostanzialmente la potestà legislativa dell’Unione (il cui frutto supera la produzione legislativa nazionale) ad un organismo – il Consiglio dell’UE – i cui componenti (al pari dei componenti della Commissione), non essendo eletti dai cittadini, rispondono unicamente a logiche di potere e di interesse del tutto contrapposte alle “naturali” esigenze dei popoli. I Trattati europei (da ultimo quello di Lisbona) prevedono che la funzione legislativa dell’UE sia esercitata congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio dell’UE, ma la potestà legislativa del Parlamento europeo è circoscritta al mero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”. Nella sostanza, gli atti giuridici dell’Unione sono adottati dal Consiglio e dalla Commissione, due organi non eletti dal popolo e che non rispondono a criteri democratici! La funzione legislativa dell’Unione mira esclusivamente alla tutela del capitale internazionale (anche attraverso l’euro), al perseguimento degli scopi delle multinazionali e alla salvaguardia degli interessi dei mercati. Il rispetto della sovranità popolare e la tutela dei diritti fondamentali non fanno parte dell’agenda politica e legislativa dell’UE! Ma entriamo nello specifico. Ferma restando la palese manipolazione interpretativa dell’art. 11 Cost. La nostra Corte Costituzionale, già nel 1964, affermava che le norme comunitarie sono da porre sul medesimo piano delle leggi ordinarie, e che un eventuale conflitto tra norma interna e norma comunitaria si sarebbe dovuto risolvere attraverso il criterio della successione delle leggi nel tempo (il c.d. principio lex posterior derogat priori), ossia che la norma successiva deroga (sostituisce) quella precedente (Sent. n. 14 del 7 marzo 1964 – Costa c. Enel). Successivamente, nel 1973, la Consulta si spinge addirittura oltre riconoscendo sia il primato del diritto comunitario sul diritto interno che l’efficacia diretta dei Regolamenti (Sent. n. 183 del 1973 – conosciuta come Sentenza Frontini). Forse toccata da un sussulto di indipendenza, nel 1975 sempre la nostra Corte Costituzionale (con Sentenza n. 232/1975) enuncia il principio che, affinché potesse essere disapplicata, la norma nazionale doveva essere abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima dall’organo costituzionale competente, lasciando in tal modo allo Stato (attraverso se stessa) un minimo di controllo sull’efficacia della normativa comunitaria nell’ordinamento giuridico nazionale. Ma nel 1978 interviene un’importante Sentenza della Corte di Giustizia europea (causa Simmenthal – Sent. 9 marzo 1978) che risolve ogni empasse in favore della legislazione comunitaria: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere od ottenere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. Trascorrono circa sei anni durante i quali la Consulta mantiene sostanzialmente le proprie posizioni, ma nel 1984 il conflitto tra la giurisprudenza della Corte di Giustizia e quella della Corte Costituzionale viene definitivamente risolto da quest’ultima con l’emanazione della Sentenza n. 170 dell’8 giugno 1984 (causa Granital c. Ministero delle Finanze), con la quale la nostra Consulta si è allineata totalmente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, stabilendo che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare addirittura anche la normativa nazionale posteriore confliggente con le disposizioni europee, superando in tal modo l’obbligo previsto nel 1975 di un preventivo giudizio di legittimità costituzionale. Successivamente, nel 1985 (Sent. del 23 aprile 1985 n. 113 – causa BECA S.p.A. e altri c. Amministrazione finanziaria dello Stato), la Consulta – oltre a ribadire quanto già affermato con Sentenza n. 170/1984 – chiarisce che la normativa europea entra e permane in vigore in Italia senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato, ogni qualvolta la normativa europea soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità, quindi i Regolamenti UE e – per espressa previsione – le statuizioni risultanti dalle Sentenze interpretative della Corte di Giustizia. Tuttavia, l’applicazione e l’efficacia diretta delle norme del diritto europeo incontrano un limite invalicabile (quanto meno da un punto di vista formale) rappresentato dai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona, infatti la stessa Corte Costituzionale – con Sentenza del 13 luglio 2007 n. 284 – afferma: “Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione (del diritto interno – nda) deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona”. A tal proposito, Luciano Barra Caracciolo sostiene che tra i limiti che incontra la prevalenza del diritto europeo rispetto al diritto interno, anche in relazione all’interpretazione dell’art. 11 Cost., non vi sono solo quelli di parità con gli altri Stati o di promozione della pace e della giustizia fra le Nazioni, ma anche quello sancito dall’art. 139 Cost. (La forma repubblicana, intesa nella sua accezione più vasta) e quello – come stabilito anche dalla Consulta – del rispetto dei Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona. Il novero di questi limiti (cosiddetti CONTROLIMITI), inoltre, non si ferma ai diritti inalienabili della persona, ma si estende – come si è visto –, oltre che ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, anche alle disposizioni di cui alla Parte Prima della Costituzione che rappresentano la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali. Sempre in merito ai rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e prevalenza del diritto comunitario, Barra Caracciolo riporta un’illuminante argomentazione di uno dei Padri Costituenti, il calabrese Costantino Mortati, tra i più importanti giuristi italiani del XX Secolo: “Passando all’esame dei limiti, è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della Costituzione: sicché la sottrazione dell’esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al Parlamento, al Governo, alla giurisdizione,…dev’essere tale da non indurre alterazioni del nostro Stato come Stato di diritto democratico e sociale”; il che renderebbe fortemente dubbia – scrive Barra Caracciolo – la stessa ratificabilità del Trattato di Maastricht e poi di Lisbona. Tutto ciò premesso, chiarita la subordinazione gerarchica del diritto europeo ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, alla Parte Prima della Costituzione e alla forma repubblicana (dove per “forma repubblicana” non si intende solo la forma di Stato opposta alla monarchia, ma anche quell’ampio spazio creativo del concetto di Repubblica necessariamente assunto come inscindibile da quello di democrazia e di uguaglianza sostanziale), “non mi spiego” come sia stato possibile che si siano poste le basi per il superamento della legislazione nazionale a vantaggio di una legislazione sovranazionale adottata (secondo quanto previsto dai Trattati, quindi dal diritto europeo originario) attraverso meccanismi meno democratici e meno garantisti di quelli dettati dalla nostra Carta Costituzionale, cioè quelli sanciti nella Parte Seconda. La nostra Costituzione, tutta, rappresenta la madre delle Fonti del diritto dell’ordinamento giuridico italiano, quindi è la Carta fondamentale dello Stato alla cui difesa deve provvedere (da un punto di vista giuridico) la Corte Costituzionale. Pertanto, considerato che la Consulta ha la funzione di sindacare sulla conformità delle leggi alla Costituzione, si può affermare che essa non è stata sufficientemente “vigile” nei confronti del diritto europeo originario (e, nello specifico, nei confronti delle leggi nazionali di autorizzazione alla ratifica dei Trattati), il quale, nonostante sia anch’esso posto nella scala gerarchica delle Fonti del diritto su un livello inferiore rispetto alla Costituzione, ha sostanzialmente sostituito le norme costituzionali che disciplinano la funzione legislativa e il procedimento di adozione delle leggi (contenute nella Parte Seconda della nostra Costituzione) con norme meno garantiste che, anche da un punto di vista formale, tradiscono addirittura tutte quelle conquiste democratiche (costate milioni di morti) che sono l’essenza stessa dello Stato di Diritto[5]. Una su tutte quella dell’attribuzione della funzione legislativa unicamente ad un’assemblea eletta direttamente dal popolo, pilastro di civiltà costituzionale che l’Unione Europea (insieme ai Parlamenti nazionali che hanno approvato con larghe maggioranze le leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati) ha palesemente tradito attribuendo la predetta funzione ad organismi sovranazionali non eletti e sostanzialmente immuni dai processi elettorali.

PARTE SECONDA: L’ASSETTO ISTITUZIONALE DELL’UE E LA MANCANZA DI DEMOCRAZIA NELLE PROCEDURE DI ADOZIONE DEGLI ATTI GIURIDICI DELL’UNIONE.

La FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione Europea. Secondo quanto previsto dai Trattati dell’Unione Europea (TUE e TFUE) la FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione (vale a dire il potere legislativo, cioè quello di fare e leggi) è esercitata – nella sostanza – dal duo Commissione europea/Consiglio dell’Unione Europea (quest’ultimo detto anche Consiglio dei Ministri o semplicemente Consiglio). In pratica la Commissione – che esercita il potere esecutivo – ha anche la titolarità dell’iniziativa legislativa, cioè sottopone sia al Consiglio dell’UE (da non confondere con il Consiglio europeo) che al Parlamento europeo le proprie proposte degli atti giuridici da adottare e, nella sostanza, il Consiglio adotta l’atto uniformando quasi sempre la sua posizione alla proposta della Commissione. Nella realtà, infatti, benché sia formalmente prevista una procedura legislativa consistente nell’adozione congiunta dell’atto da parte di Consiglio e Parlamento (che in passato era chiamata “procedura di codecisione”), quest’ultimo è di fatto esautorato da quella che dovrebbe essere la sua “funzione naturale”, cioè l’esercizio esclusivo della potestà legislativa (fare le leggi). L’aspetto drammatico, tra tutti i gravissimi aspetti di criticità evidenziabili, è quello che sono morte milioni di persone perché si giungesse alla conquista del sacrosanto principio che a fare le leggi fosse esclusivamente un’assemblea eletta direttamente dal popolo ed esercitante la sovranità popolare, ma, con l’avvento dell’Unione Europea, tale principio è stato quasi del tutto calpestato e tradito. La conquista democratica del binomio inscindibile “Parlamento eletto – Legge” ha quindi avuto attuazione attraverso le disposizioni contenute in ciascuna delle Costituzioni nazionali degli Stati membri dell’Unione, ma i Trattati dell’UE (per ultimo il Trattato di Lisbona) ne hanno – non solo sostanzialmente – evirato l’essenza! Il Consiglio dell’UE, infatti, è composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro, a livello ministeriale, di volta in volta competente per la materia trattata, il quale é abilitato ad impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto, ma trattasi di soggetti non eletti che il popolo il più delle volte neppure conosce; e stesso discorso dicasi anche per la Commissione, un organismo potentissimo composto da soggetti non eletti da nessuno (fatta eccezione per quanto si dirà più avanti). Riassumendo questi concetti, è bene che il lettore ricordi che la Commissione europea (esercitante sia il potere esecutivo che l’iniziativa legislativa) e il Consiglio dell’UE (esercitante la funzione legislativa), essendo entrambi composti da membri non eletti dai cittadini, sono totalmente immuni dagli eventuali “scossoni” scaturenti dai processi elettorali. E il Parlamento? Pur essendo l’unica Istituzione europea eletta direttamente dal popolo, e quindi alla quale sarebbe dovuta legittimamente spettare – come ci insegnano le conquiste democratiche costate milioni di morti –l’esercizio esclusivo della funzione legislativa, svolge sostanzialmente il ruolo di “assistente” alle decisioni del duo Commissione – Consiglio! Per di più, considerato che i due grandi partiti europei sono il PSE (Partito del Socialismo Europeo) e il PPE (Partito Popolare Europeo), in Parlamento v’è e vi sarà sempre la maggioranza assoluta per non bloccare le decisioni di Commissione e Consiglio! Ma non è finita qui: mentre la nostra Costituzione prevede che il Governo (al quale è affidato sia l’esercizio della funzione esecutiva che l’iniziativa legislativa) debba godere necessariamente della fiducia del Parlamento (altrimenti non può esercitare a pieno le sue funzioni ed è addirittura obbligato a dimettersi), in Europa non è così! Il Parlamento europeo, nella sostanza, non vota e non revoca alcuna fiducia alla Commissione (e neppure al Consiglio), la quale esercita la funzione esecutiva e l’iniziativa legislativa unicamente per volere di coloro che hanno scritto i Trattati e senza alcun controllo – neppure indiretto – da parte dei rappresentanti del popolo (in merito all’argomento fiducia/sfiducia Parlamento/Commissione, leggasi l’approfondimento tecnico a seguire). Il Parlamento europeo, per la prima volta a partire dal 2014, ha solo il diritto di eleggere (a maggioranza dei suoi membri) il Presidente della Commissione europea: considerato che alle ultime elezioni del maggio 2014 nessuno tra PSE e PPE ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, questi hanno “pensato bene” di mettere insieme i propri numeri in Parlamento esprimendo un voto corale in favore del candidato del PPE Jean-Claude Juncker (sulla base del fatto che il PPE ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi). Quindi a nulla – o quasi – sono valse le vittorie elettorali di Marine Le Pen in Francia e di Nigel Farage in Inghilterra: nel suo complesso, il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento europeo è stato concepito e realizzato proprio perché siano sempre il PSE e/o il PPE a farla da padrona!

APPROFONDIMENTO TECNICO. I Trattati dell’UE, oltre a prevedere che il Presidente della Commissione europea sia eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono e tenuto conto dei risultati elettorali per l’elezione del Parlamento medesimo (circostanza sopra evidenziata), prevedono anche che quest’ultimo (cioè il Parlamento) esprima un VOTO DI APPROVAZIONE nei confronti della Commissione (e più precisamente nei confronti del Presidente, dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati), il quale non equivale assolutamente ad un voto di fiducia come quello che – ad esempio – il Parlamento italiano esprime nei confronti del Governo; si tratta infatti di una cosa ben diversa che, nella sostanza, si traduce in un mero “giudizio di gradimento” del tutto ovvio e scontato in quanto il voto di approvazione del Parlamento è preceduto dal voto con cui questo ha già eletto il Presidente della Commissione. Per di più, dopo che il Parlamento europeo ha espresso il voto di approvazione nei confronti della Commissione, è necessario un ulteriore passaggio consistente nella nomina ufficiale della Commissione da parte del Consiglio europeo (da non confondere con il Consiglio dell’UE), e ciò dimostra come il voto di approvazione espresso dal Parlamento nei confronti della Commissione non possa considerarsi tecnicamente come un vero e proprio voto di fiducia.  Per quanto riguarda, invece, un eventuale “voto di sfiducia” del Parlamento nei confronti della Commissione (che obbligherebbe quest’ultima alle dimissioni), è opportuno anzitutto evidenziare che è del tutto azzardato parlare di “sfiducia” perché è quasi impossibile che ciò possa verificarsi nella realtà: la cosiddetta MOZIONE DI CENSURA prevista dai Trattati è una mera previsione formale del tutto irrealizzabile nella sostanza, infatti perché il Parlamento europeo possa “sfiduciare” la Commissione occorre che l’eventuale mozione di censura venga approvata con una maggioranza di addirittura i 2/3 dei voti espressi dall’aula parlamentare, sempre che il predetto risultato non sia inferiore alla maggioranza dei membri che compongono il Parlamento. Una vera e propria “truffa” che rende la forma palesemente soccombente al cospetto della sostanza. E in democrazia, si sa, la forma è elemento fondamentale e irrinunciabile. E’ pur vero che – nella forma – il Trattato di Lisbona prevede l’esercizio congiunto della funzione legislativa da parte del Consiglio dell’UE e del Parlamento europeo (posti formalmente sullo stesso piano quanto meno nella procedura legislativa ordinaria), ma è altrettanto vero che – nella sostanza – il Parlamento non esercita a pieno la funzione legislativa come invece avviene per tutte le assemblee legislative di ciascuno degli Stati membri. Il Parlamento europeo ha – di fatto – un misero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”.

Le procedure legislative dell’UE per l’adozione degli atti giuridici dell’Unione. Le procedure legislative di adozione degli atti giuridici dell’Unione Europea si distinguono in ordinaria e speciali.

LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA (che rappresenta la regola nella formazione degli atti giuridici dell’UE) è composta di quattro fasi:

Iª FASE (fase della prima lettura) – La Commissione europea presenta una proposta congiuntamente sia al Consiglio dell’UE che al Parlamento europeo, e su di essa quest’ultimo formula la sua posizione (cioè il Parlamento può presentare o meno una serie di emendamenti) e la invia al Consiglio. Qualora quest’ultimo non elabori proposte di emendamento, ovvero accetti gli emendamenti (la posizione) proposti dal Parlamento, l’atto viene adottato senza ulteriori adempimenti. Se invece il Consiglio non approva la posizione del Parlamento, adotta una propria posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento;

IIª FASE (fase della seconda lettura) – Se entro un termine di tre mesi da tale comunicazione il Parlamento: a) approva la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura oppure non si pronuncia, l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio; b) respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, l’atto proposto si considera non adottato; c) propone, sempre a maggioranza dei membri che lo compongono, emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, il testo così emendato è inviato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti. A questo punto (cioè in quest’ultima ipotesi), entro un termine di tre mesi dal testo così emendato, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può: 1) approvare tutti gli emendamenti e quindi l’atto in questione si considera adottato; 2) non approvare tutti gli emendamenti e il suo Presidente, d’intesa con il Presidente del Parlamento, convoca entro sei settimane un organo denominato Comitato di conciliazione;

IIIª FASE (fase della Conciliazione) – Il Comitato di conciliazione (composto da membri o rappresentanti del Consiglio e del Parlamento) ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune (“testo di compromesso”) sulla base delle posizioni del Parlamento e del Consiglio in seconda lettura. Se entro un termine di sei settimane dalla sua convocazione il Comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato;

IVª FASE (fase della terza lettura) – Qualora entro il termine di sei settimane il Comitato di conciliazione riesce invece ad approvare un progetto comune, il Parlamento e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane (a decorrere dall’approvazione del progetto comune da parte del Comitato di conciliazione) per adottare l’atto in questione in base al progetto comune. Il Parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi mentre il Consiglio a maggioranza qualificata. Se entrambe le Istituzioni deliberano l’adozione dell’atto in questione, questo si intende adottato e la procedura si conclude; in mancanza invece di una decisione, ovvero qualora l’atto non venga adottato con le maggioranze predette, lo stesso si considera non adottato e la procedura si conclude.

LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI, invece, non godono di una descrizione analitica da parte dei Trattati quindi, in mancanza di specifiche indicazioni e in attesa che si consolidi una prassi nel merito, si ritiene che si possa parlare di procedure legislative speciali tutte le volte che i Trattati prevedono procedure legislative differenti da quella ordinaria. Nell’ambito delle procedure speciali, ritengo sia necessario soffermarsi sull’ipotesi in cui è il Consiglio ad adottare l’atto con la partecipazione del Parlamento. In questo caso si hanno due tipi di procedure: la “procedura di consultazione” e la “procedura di approvazione”:

La procedura di consultazione: prima che il Consiglio adotti un atto, è necessaria la consultazione del Parlamento (in tal caso la consultazione può essere obbligatoria o facoltativa, a seconda di quanto prevedono i Trattati). Il parere espresso dal Parlamento non è vincolante né per la Commissione (che non è obbligata ad uniformare la sua proposta alle osservazioni ivi contenute), né per il Consiglio, che può disattenderlo;

La procedura di approvazione: il Consiglio non può validamente legiferare in talune materie se il Parlamento non concorda pienamente, a maggioranza assoluta dei suoi membri, con il contenuto dell’atto. In mancanza di tale approvazione l’atto non può essere adottato. In pratica si tratta di un diritto di veto da parte del Parlamento nei confronti del Consiglio.

Concentrando l’analisi sulla PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, uno dei suoi aspetti di maggiore criticità è quello che nella fase della seconda lettura il Parlamento può respingere la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura solo a maggioranza dei suoi membri (cioè a maggioranza assoluta), quindi occorre un voto del 50% più uno dei componenti l’assemblea, una maggioranza che – come abbiamo visto – è possibile raggiungere solo se si sommano i deputati di PSE e PPE. Considerato che si tratta di partiti (entrambi) sui quali si fonda l’intero apparato eurocratico, è praticamente impossibile per le opposizioni parlamentari trovare la forza numerica (che ricordo è della metà più uno dei membri del Parlamento) per respingere una posizione espressa dal Consiglio. Inoltre, come il lettore ha avuto modo di rendersi conto, in seconda lettura l’atto si intende adottato nel testo corrispondente alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura se il Parlamento, entro il termine di tre mesi, non si pronuncia sulla predetta posizione. Oppure, rimanendo sempre nell’esempio della fase della seconda lettura, il Parlamento può, sì, proporre emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, ma solo e sempre a maggioranza dei suoi membri. Appare dunque evidente che, rispetto ad esempio alla normale procedura di adozione delle leggi prevista dalla nostra Costituzione (artt. 70 e segg. Cost.), le procedure dettate dai Trattati europei presentano un pericoloso deficit di democrazia, tanto più che non è previsto neppure un controllo come quello che la nostra Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, il quale ha la facoltà di rinviare la legge alle Camere per chiederne una nuova deliberazione (art. 74 Cost.)! Il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica del Trattato di Lisbona con un voto all’unanimità nel luglio 2008, senza alcun adeguato dibattito né parlamentare né mediatico. Tutto quanto sinora premesso prova che la DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE è stata ormai superata dai Trattati dell’UE, nati non per fare gli interessi dei popoli ma per esautorarne – nella sostanza – la sovranità e l’autodeterminazione!

TERZA ed ULTIMA PARTE: MONETA UNICA E PAREGGIO DI BILANCIO: LA MORTE DELL’UE.

I principali aspetti di criticità della moneta unica. Rapporto €uro/lavoro. Abraham Lincoln, Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1861 al 1865, ebbe modo di affermare che: “Il Governo non ha necessità né deve prendere a prestito capitale pagando interessi come mezzo per finanziare lavori governativi ed imprese pubbliche. Il Governo deve creare, emettere e far circolare tutta la valuta ed il credito necessari per soddisfare il potere di spesa del Governo ed il potere d’acquisto dei consumatori. Il privilegio di creare ed emettere moneta non è solamente una prerogativa suprema del Governo, ma rappresenta anche la maggiore opportunità creativa del Governo stesso. La moneta cesserà di essere la padrona e diventerà la serva dell’umanità. La democrazia diventerà superiore al potere dei soldi”. Era il 1865. Quello stesso anno Lincoln venne assassinato. Tra i maggiori aspetti di criticità di questo euro, oltre a quello che trattasi di moneta da prendere in prestito dai mercati dei capitali privati (es. banche private) ai quali va restituita con gli interessi (costringendo i Governi ad aumentare le tasse, inasprire gli strumenti di accertamento fiscale, porre limiti troppo bassi all’utilizzo del denaro contante e tagliare selvaggiamente lo stato sociale), v’è quello che è un accordo di cambi fissi, per cui, nei periodi di crisi economica, gli Stati sono costretti – non potendo far leva sulla svalutazione monetaria – a SVALUTARE IL LAVORO, quindi a contrarre le garanzie contrattuali e di legge, a ridurre i salari e a rendere eccessivamente flessibile il rapporto di lavoro (vedesi Riforma Fornero e  Jobs Act). Il tutto a scapito dei diritti fondamentali e del principio supremo del lavoro sul quale la Costituzione stessa fonda la Repubblica. L’euro è una moneta costruita non per la realizzazione concreta dei principi supremi sanciti dalla Costituzione (uno su tutti il lavoro), bensì per la tutela del capitale internazionale, e ciò comporta la necessità – addirittura ammessa esplicitamente – di mantenere tendenzialmente alto il tasso di disoccupazione (o comunque di non ridurlo sotto una certa soglia), ovvero di conseguire un più alto livello occupazionale ma mantenendo salari bassi e comprimendo le garanzie contrattuali e di legge in favore del lavoratore: se non si comprende questo concetto è impossibile rendersi conto di quanto è accaduto. L’UE nasce, come espressamente scritto nei Trattati, su principi del tutto in contrasto con quelli sui quali trovano fondamento le Costituzioni degli Stati membri: l’art. 3, comma 3, del TUE stabilisce infatti – tra gli obiettivi dell’Unione –la stabilità dei prezzi in un’economia di mercato fortemente competitiva, e ciò lede palesemente l’obiettivo della piena occupazione sul quale la Repubblica italiana trova fondamento (art. 1 co. I e art. 4 Cost.) e verso il quale tendono (ipocritamente) addirittura anche gli stessi Trattati europei, i quali prevedono il perseguimento della piena occupazione e del progresso sociale ma all’interno della cornice (davvero assurdo!) della stabilità dei prezzi e della competitività selvaggia: in pratica, per dirla con parole povere, l’UE persegue principalmente due obiettivi: da un lato la piena occupazione e il progresso sociale, dall’altro la stabilità dei prezzi e l’economia di mercato competitiva, i quali non possono coesistere senza che l’uno non divori l’altro! Inoltre, a completamento dell’orribile quadro sin qui delineato, va sottolineato che la BCE (Banca Centrale Europea) – come previsto dal suo stesso Statuto (quindi chi ha costruito l’UE e l’euro sapeva benissimo cosa stava facendo) – NON FUNGE DA PRESTATRICE DI ULTIMA ISTANZA, cioè non può garantire – come invece hanno sempre fatto tutte le Banche Centrali prima dell’introduzione dell’euro – i debiti pubblici di ciascuno degli Stati dell’Eurozona, i quali, trovandosi espropriati di una delle funzioni fondamentali di politica monetaria ed economica, sono continuamente assoggettati al terrore del famigerato debito pubblico! Negli Stati che invece conservano la sovranità monetaria, il debito pubblico non costituisce affatto un problema perché, potendo la Banca Centrale (o il Tesoro) fungere da prestatrice di ultima istanza, essa sarà sempre in grado di “acquistare” (e quindi di garantire) l’intero ammontare del debito pubblico senza che il Governo scarichi il relativo peso su cittadini, imprese e stato sociale. Ed è proprio da questa argomentazione che nasce l’esigenza di spiegare, seppur brevemente, la funzione delle “tasse”: se negli Stati privi di sovranità monetaria l’imposizione fiscale serve principalmente per far fronte alla spesa pubblica (le cui voci più sensibili quali la sanità, gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni sono ovviamente soggetti a tagli selvaggi) e per “ripagare” – con gli interessi – i mercati dei capitali privati che hanno dato in prestito la moneta, negli Stati che godono di sovranità monetaria le tasse servono invece per non creare altro debito pubblico (ovvero per tenerlo “sotto controllo”) e a controllare la massa monetaria in circolazione, quindi il Governo può benissimo evitare di scaricare il peso del debito su popolo e welfare. Ciò premesso, la domanda sorge spontanea: chi svolge la funzione di prestatrice di ultima istanza negli Stati che hanno adottato l’euro? Ovviamente il popolo, attraverso l’aumento della tassazione, l’inasprimento dei sistemi di accertamento fiscale, l’abbassamento della soglia massima per l’utilizzo del denaro contate e soprattutto i tagli selvaggi alle voci di spesa pubblica più delicate (istruzione, pensioni, stipendi, sicurezza, sanità, giustizia etc…). Tutto ciò premesso, i 19 Stati dell’Eurozona – non potendo più creare moneta dal nulla – devono pertanto andarsi a cercare la moneta. In che modo? Prendendola in prestito dai mercati dei capitali privati (ai quali va restituita con gli interessi) e/o andando a prenderla da cittadini e imprese attraverso le tasse, la lotta selvaggia all’evasione fiscale di sopravvivenza e i tagli allo stato sociale. Inoltre, tanto per intenderci, l’euro è una moneta fiat, cioè creata dal nulla dalla BCE (nello specifico da ciascuna Banca Centrale dei Paesi dell’Eurozona ma su decisione della BCE), quindi il crimine è doppio, infatti ciascuno Stato è costretto – nonostante l’euro sia creato dal nulla – a farsi prestare la moneta dalle banche private che, prima di prestarla, valutano con la lente di ingrandimento la capacità finanziaria dello Stato richiedente a poterla restituire. Ecco perché c’è il terrore della spesa e del debito pubblico; ecco perché l’evasione fiscale costituisce un problema… tutto questo perché si è deciso di adottare l’euro, una moneta completamente sbagliata! Ma torniamo al rapporto euro/lavoro/diritti fondamentali. Ecco un esempio pratico di come questa moneta unica – per sopravvivere – imponga ai Paesi che l’hanno adottata la SVALUTAZIONE DEL LAVORO: se la Riforma Fornero (Legge n. 92/2012) – in merito ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo – rendeva il reintegro nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato un’ipotesi residuale circoscritta a sole tre circostanze (licenziamenti orali, discriminatori e nei casi di carente motivazione o manifesta infondatezza del motivo addotto), il Jobs Act (Legge delega n. 183/2014 e successivi decreti attuativi del 2015) cancella del tutto la tutela del reintegro (sia per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che per quelli per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa), fatte salve le ipotesi meramente residuali dei licenziamenti orali, discriminatori e – solo per i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa – nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, lasciando fuori dal perimetro della tutela reale (reintegro) la sproporzionalità tra fatto contestato al lavoratore e provvedimento di licenziamento. Il Jobs Act riduce anche la forbice della tutela obbligatoria (economica), infatti, per entrambe le tipologie di licenziamento sopra indicate, la predetta tutela passa dalle 12-24 mensilità previste dalla Fornero alle 4-24 mensilità del Jobs Act! Per dirla con parole più semplici, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato quasi interamente smantellato in risposta alle criminali esigenze di sopravvivenza di questa moneta unica sbagliata. E a farlo è stata una politica di centro-sinistra che ha trovato asilo in un Parlamento di nominati, “eletto” con meccanismi elettorali dichiarati incostituzionali (Corte Costituzionale, Sent. n. 1/2014), oltre che per volontà di un Governo presieduto dal terzo Presidente del Consiglio dei ministri consecutivo privo di qualsivoglia legittimazione democratica. La folle costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio. Possibili rimedi giuridici. In ordine a tutto quanto predetto nel precedente paragrafo, si precisa altresì che se i “principi supremi” sui quali trova fondamento il nostro ordinamento costituzionale (in parte coincidenti con i Principi Fondamentali rubricati dall’art. 1 all’art. 12 della Costituzione) non possono essere soggetti a procedura di revisione costituzionale(limite implicito al quale va aggiunto quello esplicito della forma repubblicana di cui all’art. 139 Cost.), la Parte Prima della Costituzione – rappresentando la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali – è anch’essa sottratta da eventuale procedura di revisione, se non in melius! A tal riguardo mi preme portare all’attenzione del lettore quanto accaduto con la Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”), attraverso la quale il Parlamento italiano (pur rispettando la procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) ha inserito in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio (art. 81 Cost., quindi Parte Seconda della Costituzione e pertanto soggetta a revisione), ledendo – se non addirittura esautorando – uno dei “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale che è il lavoro (artt. 1 co. I, 4 e 35 e seguenti della Costituzione). In pratica, pur rispettando la forma (COSTITUZIONE FORMALE), il Legislatore ha palesemente violato e tradito la sostanza (COSTITUZIONE MATERIALE). Partiamo da un presupposto inconfutabile: l’art. 1, primo comma, della Carta costituzionale (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) rappresenta la norma più importante della nostra Costituzione, il faro dell’intera legislazione, il limite supremo ad ogni sopruso, la rotta maestra che tutte le Istituzioni della Repubblica devono necessariamente percorrere sia nell’esercizio del potere legislativo ed esecutivo, sia nell’esercizio della funzione giurisdizionale! Se i Padri Costituenti decisero di fondare la Repubblica sul lavoro (avrebbero potuto fondarla benissimo, ad esempio, sulla democrazia rappresentativa o sulla lotta ai totalitarismi) vuol dire che ammettevano senz’ombra di dubbio che lo Stato possa spendere a deficit al fine di creare piena occupazione e tutelare il diritto al lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Se così non fosse, per quale motivo i Padri Costituenti avrebbero fondato la Repubblica “sul lavoro”? Per quale motivo avrebbero scritto la parola “lavoro” addirittura al primo comma del primo articolo? E’ ovvio che l’intenzione dell’Assemblea Costituente era quella di creare uno Stato democratico che garantisse a tutti la possibilità di vivere liberi dal bisogno, garantendo a chiunque un medio benessere non scaturente dalla rendita o dalla proprietà, bensì dal lavoro (sia manuale che intellettuale)! Ma la Costituente, indomita, si spinse addirittura oltre e scrisse anche sia l’art. 4 co. I e II (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), sia gli artt. 35 e seguenti (sulla tutela del lavoro, della libertà sindacale e del diritto di sciopero). Il “principio supremo” del lavoro, rubricato sia nei Principi Fondamentali (artt. 1 co. I e 4 Cost.) che nella Parte Prima della Costituzione (artt. 35-40 Cost.), e quindi non soggetto a revisione costituzionale (se non in melius per quel che concerne la rubricazione che va dall’art. 35 all’art. 40 Cost.), di fronte alla costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (avvenuta – come si è già evidenziato – nel rispetto formale della procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) perde di efficacia sostanziale! Ciò detto, il nostro Parlamento ha volutamente calpestato i principi inderogabili della Costituzione (Costituzione primigenia) rendendo la Repubblica non più fondata sul lavoro bensì sulla stabilità (si fa per dire!) dei conti pubblici, mutandone completamente – con un atto di forza formalmente corretto ma sostanzialmente illegittimo – sia l’anima che l’impianto! Ciò premesso, la costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio è del tutto incompatibile con i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale. L’obbligo del pareggio di bilancio, introdotto in Costituzione nel 2012, sarebbe dovuto entrare in vigore a partire dal 2014, tuttavia il Governo Renzi – in cambio delle cosiddette riforme strutturali [soprattutto della riforma del mercato del lavoro (Jobs Act) e dell’avvio a ritmi serrati della revisione della Parte Seconda della Costituzione] – ha ottenuto da Bruxelles prima un rinvio al 2018, poi al 2019. In pratica lo “schiavo”, dopo essersi flagellato da solo convincendosi che flagellarsi fa bene, e dopo aver spontaneamente rinunciato alla libertà che gli è stata donata dai suo Padri, attende consapevole e felice la data della sua “morte” ch’egli già conosce. Tutto ciò premesso, i rimedi che offre il nostro ordinamento giuridico al fine di risolvere le gravi problematiche sinora esposte sono due: a) che il Parlamento, attraverso la procedura aggravata di cui all’art. 138 Cost., provveda all’abrogazione dell’art. 81 della Costituzione con la quale esso stesso ha introdotto il vincolo del pareggio di bilancio; b)che la Corte costituzionale, chiamata secondo le norme vigenti ad esprimersi sulla legittimità costituzionale della Legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, dichiari l’incostituzionalità della nuova formulazione dell’art. 81 Cost. per palese violazione dei principi inderogabili della Costituzione primigenia. Alla luce di tutto quanto sinora argomentato, appare quindi sufficientemente dimostrato come la moneta unica e il pareggio di bilancio incidano negativamente (se non di peggio!) non solo nei confronti del principio fondamentale del lavoro, ma anche nei confronti della DEMOCRAZIA di tutti gli Stati dell’Eurozona. Provi uno Stato che ha adottato l’euro ad indire un referendum (anche solo consultivo) sull’abbandono della moneta unica: la democrazia sarebbe soggetta ad un attacco spietato sia da parte dei mercati e della finanza, sia da parte dell’establishment eurocratico (Istituzioni europee, media, giornalisti, politici e professoroni… quelli a libro paga del sistema). Avvocato Giuseppe PALMA

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO: SIAMO SCHIAVI DAL 1302 D. C. LO SAPEVATE?

Il quaderno di Giorgio da Batiorco su Veja del 5 aprile 2013…Vivi libero…e fai le domande che non hanno risposta. Il Sistema delle Bolle Papali costituisce storicamente il fondamento giuridico della nostra attuale schiavitù finanziaria. Perché ha senso parlarne espressamente in questo momento, in cui un papa ha appena annunciato le proprie dimissioni? Perché il precedente storico dell’evento attuale, rappresentato di Celestino V, Papa che fu costretto a dimettersi nel 1294, rappresenta l’inizio della storia che ci ha condotto fino alla critica situazione che stiamo vivendo oggi. Facciamo un passo indietro e vediamo come. Celestino V, che le note della ormai notoriamente “addomesticatissima” Wikipedia ci fanno passare per uno sprovveduto ignorante, era invece un papa che intendeva rivoluzionare la Chiesa basandola nuovamente su un cristianesimo profondo. Per passare da un cristianesimo corrotto e di potere – la “ecclesia carnalis” – ad un cristianesimo aperto, pieno di veri valori spirituali sul modello del Cristo: l’ “ecclesia spiritualis”. Tuttavia la chiesa di potere operò su più livelli per difendersi e bloccare l’opera di Celestino Quinto. E il manovratore cardinal Caetani (stranamente via Caetani è la via in cui fu trovato il corpo esanime di Aldo Moro, statista italiano che aveva osato uscire dalle righe del controllo finanziario internazionale n.d.r.) lo indusse alle dimissioni nel dicembre del 1296. Caetani poi, diventato Papa con il nome di Bonifacio VIII, lo fece imprigionare ed infine uccidere con un chiodo piantato nel cranio. La fine di Celestino Quinto e la conseguente fine dei Templari qualche anno dopo, mutarono profondamente la chiesa, facendola diventare solamente chiesa di potere e cancellando la gran parte delle correnti autenticamente spirituali. A Bonifacio VIII, uno dei papi più oscuri e controversi della storia, che Dante nell’inferno pone nella bolgia dei Simoniaci, ossia i corrotti che fanno commercio di cose spirituali, si deve la redazione della famosa bolla “Unam Sanctam Ecclesiam” che istituì il primo fondamento giuridico dell’infame sistema che ora ci ha ridotto nella schiavitù finanziaria di cui ognuno di noi, ogni santo giorno della nostra vita, si trova a patire le vessazioni. Le tre Bolle e l’istituzione dei Trust. Le informazioni che di qui in poi leggerete sono particolarmente dense e, dato che hanno il potere di trasformare letteralmente la visione della realtà che viviamo, è bene affrontarne la lettura con calma ed attenzione. Noi siamo qui essenzialmente in veste di compilatori, altri prima di noi hanno fatto un egregio lavoro di ricerca, sintesi e divulgazione. Il nostro compito nel momento attuale, è quello di distribuire questi materiali in modo che quante più persone possibile abbiano l’opportunità di comprendere che sotto l’apparenza più o meno rassicurante della realtà che conosciamo c’è qualcosa di diverso, che difficilmente potremmo immaginare.

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO. La lettura di questo articolo è impegnativa ma ha un’importanza vitale nella comprensione del mondo occidentale moderno e dei fatti storici che lo hanno portato allo status quo. Parla di come la legge universale del Libero Arbitrio nel corso della storia sia stata sfruttata e distorta dalla forze del Male per imprigionare ed asservire gli esseri umani. Se oggi le cose non vanno come vorremmo, è perchè noi abbiamo dato il nostro consenso affinchè accadessero, anche se non ne siamo consapevoli perchè questo ci è stato estorto in malafede con l’inganno. Tutto ha avuto inizio il 18 novembre del 1302, la data della pubblicazione della Bolla Papale di Papa Bonifacio VIII intitolata “Unam Sanctam Ecclesiam” le cui ripercussioni storiche fanno ancora oggi in modo che noi alla nascita diamo il nostro consenso per essere di fatto sfruttati come schiavi per tutta la vita. Armatevi di pazienza e scoprirete come…Perché stiamo diventando sempre più poveri? Perché siamo governati da un individuo non eletto o nominato da altri (non eletti di nuovo), per tassarci e versare il nostro denaro o valore equivalente direttamente nelle casse dei banchieri internazionali privati? Perché anche l’Italia ha ceduto ogni sovranità nazionale ad un gruppo di potere europeo privato? Perché questa bancarotta di tutte le economie occidentali pianificata a tavolino dai primissimi anni ’30, viene fatta col nostro consenso, di cui apparentemente non sappiamo nulla? La prima cosa da fare è capire come ottengono o come hanno ottenuto il nostro consenso e perciò, una volta compreso, saremo in grado di attuare una strategia per ritirarlo e per spezzare definitivamente questo gioco al massacro. Cos’è questo consenso? Se non partiamo da qui, prima di parlare di recupero della sovranità monetaria, di elezioni democratiche e di riforme, siamo disarmati e non ne usciremo mai. Qualsiasi cosa vorremmo o potremmo fare sarà inutile, inefficace, avremo già perso in partenza. Perciò la seconda cosa su cui ragionare è: perché per il potere mondiale chiamato anche Cabala nera è fondamentale il nostro consenso? Perché costoro sanno benissimo che esiste una legge universale, una legge suprema, che regola e domina tutto l’Universo, che va al di sopra di tutte le possibili leggi umane, che è la legge del Libero Arbitrio.

LA STORIA DEL CONSENSO E LA LEGGE UNIVERSALE DEL LIBERO ARBITRIO. Prima di parlare della storia dell’applicazione della legge del Libero Arbitrio, facciamo qualche esempio di applicazione di questa legge Universale, partendo da casi semplici, per arrivare a quelli che riguardano più da vicino ognuno di noi quotidianamente. Se tu hai firmato un contratto di mutuo con la banca, che poi ti porta via la casa in caso d’insolvenza, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quel contratto. Nessuno ti ha mai costretto. Se poi ti rechi in tribunale per la causa di pignoramento e riconosci quegli organi legislativi e quindi quei tribunali e così facendo li legittimi, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quelle legittimazioni.  Quindi, in parole povere, siamo noi a rinnovare il contratto con questo “sistema” ogni giorno, utilizzando quei mezzi “impropri e fraudolenti” che loro ci hanno fatto credere, con un ingegnoso mezzo-inganno, indispensabili. La prima reazione spontanea a queste affermazioni è la seguente: tutta la nostra società funziona così e nessuno di noi per vivere, lavorare, comprarsi la casa, la macchina, andare in vacanza, sposarsi, fare dei figli, educarli e farli studiare potrebbe fare altrimenti. Ma dunque è giusto, immediatamente dopo, chiedersi: “Perché funziona così?” (Domanda che ci facciamo troppo poco, quando invece è la DOMANDA fondamentale da farsi, ma siamo programmati per benino proprio per non farcela mai). Per rispondere torniamo indietro di parecchi anni, secoli, millenni…Vi esorto a leggere i libri e a guardare i video di Mauro Biglino, che ha tradotto letteralmente dall’ebraico antico, con tanto di testo originale a fronte, tutto l’Antico Testamento della Bibbia. Le sue traduzioni sono convalidate dagli anziani delle comunità ebraiche e sono divenute incontrovertibili, perché letterali e non interpretate.  Con rivelazioni davvero, davvero, davvero, davvero per menti… “aperte”.  Nel nostro caso lo studio di ciò che viene rivelato nella vera Bibbia, ci serve per capire l’importanza del “libero arbitro” nei giochi di potere e del legame indissolubile che esiste tra diritto, denaro, RELIGIONE E POLITICA. Questa incredibile scoperta, con la traduzione letterale del testi, rivela la vera natura della Bibbia, che in realtà è un Codice di Diritto Mercantile Marittimo, VALIDO, APPLICATO ANCORA OGGI, pressoché inoppugnabile in qualsiasi tribunale del mondo. Si racconta, nelle “cronache” dell’Antico testamento che il “dio” Jahvè (che si trova riportato in altri testi come Jahwe, Yahweh, Yahveh… poi vedremo chi sia questo “dio” perché non lo è affatto, ma nella traduzione “manipolata” diffusa dalla Chiesa è stato tradotto come Dio) non può obbligare Mosè a seguirlo nel cammino per la Terra Promessa (una conquista quindi, con la necessità di un piccolo esercito?). Jahvé infatti non è “Dio”, ma è precisamente descritto come un ALTO E POTENTE “Eloah” (da cui poi deriva il termine Allah).  È quindi UNO DEI TANTI Elohìm (plurale di Eloah), la stirpe che governava quei territori, forse discendente da un altro pianeta (molto probabile, da verificare, ma non è essenziale per noi adesso…). Una civiltà rappresentata da una gerarchia di individui di cui la Bibbia ci dà conto quando distingue Elohìm, Malachìm, Nefilìm, Anakìm, Refaìm, Emìm, Zamzummìm… Individui che si sono divisi il controllo del pianeta, come ci narrano il Libro della Genesi ed il Deuteronomio, combattendo tra di loro per affermare ed incrementare il loro potere utilizzando i popoli sottomessi. Sta di fatto che di questi Elohìm ce n’erano tantissimi, appunto, sparpagliati sulla Terra e organizzati in accampamenti (formati da due settori in genere, uno per l’autorità, l’Eloah, e l’altro per le “truppe”…angeli fiammeggianti e dotati di spada?). N.d.r – Conferma esatta di queste cronache si trovano anche nei testi sumerici antecedenti alla Bibbia stessa. Questo Jahvè, anche se dotato di un arma potentissima, che dalla dettagliatissima descrizione biblica sembrerebbe un’arma al plasma (Arca dell’Alleanza?), capace d’incenerire ogni cosa, non poteva comunque obbligare Mosè a seguirlo. Fu costretto perciò a stipulare “un’alleanza” con il popolo ebraico, con delle regole e delle clausole precise reciproche (io ti dò tanto, tu mi ridai tanto), tra le quali il sacrificio del primogenito di ogni coppia ecc… di cui ormai sappiamo bene la “versione” che è arrivata fino ai nostri giorni. Sempre nella Bibbia si racconta che quando decisero quindi di seguire Jahvè e furono condotti alle porte della Terra Promessa, si riunirono in assemblea per decidere se continuare a seguirlo o meno, o se ritornare sotto i vecchi Elohìm, o se affidarsi ai nuovi Elohìm che comandavano in questa nuova terra in cui erano arrivati. Questo era l’o.d.g dell’assemblea. Così, ancora una volta col loro libero arbitrio decidono di seguire Jahvè, che con la sua potentissima arma scatena la carneficina e distrugge tutte le città che incontrano nel loro cammino, uccidendo uomini, donne, vecchi e bambini (tra le quali Sodoma e Gomorra… e ci sono aneddoti significativi sulla “scelta dei giusti” da salvare dalla distruzione da parte di Jahvè e l’origine della circoncisione, oltre al mito negativo della sodomizzazione praticata in quelle regioni). Tutta questa lunga premessa, apparentemente divagatoria, oltre a segnalare una lettura diversa della Bibbia e quindi delle nostre origini e della storia dell’Umanità, serve per definire meglio la necessità del Potere di avere il consenso, perché possa perdurare e agire. Ma serve soprattutto per porre le basi del primo legame indissolubile, come dicevo, tra la legge del Libero Arbitrio, la religione, la politica, il Codice di Diritto Mercantile Marittimo, il denaro e quel che viviamo oggi. Ovviamente, come ogni regola e legge ha le proprie eccezioni, che in questo caso sono i massimi livelli di “disonore” che l’umanità ha raggiunto nel disattendere la legge del Libero Arbitrio:

– la riduzione in schiavitù degli africani, in secoli abbastanza recenti, perché non hanno ricevuto il beneficio di essere avvisati e quindi di scegliere che reazione avere (che è alla base di questa legge, come abbiamo detto);

– senza andare troppo lontano, la strategia della tensione, qui in Italia, negli anni di piombo, perché le stragi sono state fatte in modo totalmente disonorevole.

Ma questo è il comportamento più autodistruttivo e meno sostenibile che il potere possa compiere e l’élite lo sa benissimo. Perché perfino il peggiore dei satanisti massoni, che si appresta ad effettuare un sacrificio umano – la cosa più aberrante a cui noi umani comuni possiamo pensare – è obbligato a seguire queste regole e quindi a scegliere la prima vittima che si offre volontariamente, spinta da un’inspiegabile attrazione. Oppure, un esercito che sta per invadere una nazione straniera è obbligato a dare un avvertimento allo Stato che sta per mettere a ferro e fuoco, spiegando tutte le proprie richieste. Il governo dello Stato assediato ha il libero arbitrio di rispondere sì o no. Orribile o meno, c’è stato comunque un preavviso, quindi l’onore è stato mantenuto. Abbiate pazienza, non stiamo divagando, tutto serve per arrivare al punto focale, perché comprendere l’universalità della legge del consenso, è alla base di ciò che viviamo oggi, e andando avanti sarà dimostrato che l’élite mondiale dominante sta seguendo questa legge fin dall’inizio e la mette in pratica in ogni momento e in ogni aspetto della nostra vita. Se non la conoscessero così dettagliatamente e se non la seguissero così scrupolosamente, il loro potere non sarebbe durato fino ad oggi. Ecco perché Jahvè aveva bisogno del consenso per agire, ecco perché, i governanti oggi, ci fanno votare. Poiché hanno quindi bisogno assoluto del nostro consenso, come fanno ad aggirare il sistema (rendendolo però meno chiaro e decifrabile possibile) e a preservarlo nei secoli? Hanno ideato un sistema perfetto che funziona secondo i principi descritti precedentemente: “avvertimento” e “silenzio assenso”; se non mi rispondi vuol dire che sei d’accordo e quindi peggio per te. Facciamo un esempio banale che capita a tutti noi: quando la banca cambia le condizioni e lo fa spessissimo, è obbligata a mandarti un documento di trasparenza bancaria – avvertimento – che credo pochissimi di noi leggano (purtroppo!). Se tu non rispondi è silenzio assenso. Tutta la storia del nostro mondo da millenni funziona secondo questo principio.

LE LEGGI CANONICHE E LE BOLLE PAPALI. Per capire come funziona questo principio, che regola la nostra intera vita abbiamo bisogno di fare ulteriori premesse. Cosa sono le leggi? Tutte le leggi derivano da Canoni, ovvero dal Diritto Canonico, perché tutte le leggi, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con la Legge Divina ed Ecclesiastica. Ma i Canoni in particolare sono norme o principi che traggono valore dal fatto di non essere mai stati contestati (tacito assenso). Ecco alcuni canoni, norme o principi, universalmente riconosciuti, perché nessuno ha mai detto che non lo debbano essere (molti sono per altro condivisibili perché sono alla base della civile convivenza).

1) tutti debiti devono essere pagati;

2) tutti i contratti devono essere onorati;

3) tutte le controversie portate di fronte alla legge, devono essere risolte di fronte alla legge (ovvero, se tu ricevi un’accusa, per quanto infondata, per quanto ingiusta, per quanto immorale, per quanto illegale non puoi ignorarla. E tuo l’onere di dimostrare l’infondatezza di quella accusa davanti alla legge di fronte alla quale è stata portata);

4) qualsiasi affermazione, se non viene contestata diventa valida. (Importantissimo punto! Ricevi una multa, una sanzione ingiusta, viene fissata un’udienza e tu non ti presenti, cavoli tuoi, sarà chi di dovere a decidere per te e senza di te).

• Nota al punto 4): il 99% delle procedure giudiziarie si basa sulla presupposizione di qualcosa, ma il 99% degli esseri umani non si preoccupa di comprendere quali siano queste presupposizioni, o non si preoccupa di rifiutarle. In altre parole il Sistema è ancora adesso basato sul sacramento della confessione, proprio come ai tempi dell’Inquisizione, cioè è indispensabile che tu accusi te stesso. In mancanza di questo atto di auto accusa non si può procedere. Il Diritto è gerarchico, discende sempre e comunque dal Diritto Divino: sopra a tutto c’è il Diritto Divino che, come tale, discende dal Divino Creatore, poi c’è il Diritto Naturale e poi il Diritto Positivo (leggi nazionali, internazionali, amministrative, private ecc…), il Diritto Positivo appartiene al gradino più basso nella scala gerarchica.

• Nota al punto 5): ogni proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, cioè ad un sistema fiduciario. I potenti, l’élite mondiale, sanno da sempre che la proprietà è un concetto fittizio. Infatti come puoi possedere un pezzo di terra?

La terra, i fiumi, i laghi, i mari appartengono al Pianeta. Ma anche una casa; come puoi fisicamente possedere una casa o un’automobile? Sono tutte cose per cui esistono “titoli di proprietà” e sono titoli fittizi, costituiscono cioè diritto d’uso della casa, dell’automobile e della terra finché sei vivo. Quando sarai morto, cosa succederà a quella casa, a quell’automobile o a quel pezzo di terra, se non esistono disposizioni testamentarie, non dipende più da te. Così la casa, intesa come muri, mattoni e intonaco e la casa intesa come titolo e cioè come trust, o come sistema fiduciario, sono quindi DUE COSE BEN DIVERSE. Il sistema fiduciario, il titolo, prevede tre parti in gioco: un esecutore, un amministratore e un beneficiario. L’esecutore è sempre quello che “concede il titolo” e in questo caso è sempre lo Stato, l’amministratore è quello che amministra il titolo (catasto o Comune), il beneficiario, in questo caso sei tu, cioè il cosiddetto “proprietario” di quel bene. Fin qui tutto più o meno normale, è tutto chiaro e non c’è nulla di strano; rimane da capire se e come, questo sistema, venga usato contro di noi. Facciamo un enorme passo indietro nel tempo. L’attuale sistema, che è basato sul concetto di proprietà, è stato creato dagli antichi romani, i quali hanno disseminato il loro “diritto” in giro per il mondo e sappiamo come (è un karma pesantissimo che noi “italici” dobbiamo espiare nei confronti di tutto il mondo). Ogni terra conquistata e distrutta veniva iscritta in un “registro” conservato a Roma e ogni nuova terra dell’Impero poteva essere di proprietà solo di un cittadino romano.  Ancora oggi quindi noi viviamo in un sistema che si tramanda dall’esistenza dell’Impero Romano che di fatto, non è mai finito.  Con le invasioni longobarde, Papa Leone III, incorona Pipino il Breve come Re dei Franchi e poi Carlo Magno come Imperatore del Sacro Romano Impero. Quindi il sistema che abbiamo oggi nell’organizzazione della proprietà e del diritto e quindi del denaro e quindi della politica, nasce nel 1302 (il 18 novembre), che è la data della pubblicazione della Bolla Papale scritta da Papa Bonifacio VIII, che aveva come titolo “UNAM SANCTAM ECCLESIAM”. Bonifacio VIII è considerato uno degli uomini più corrotti, malvagi e potenti della storia della Chiesa e del mondo, tanto che lo stesso Dante lo mette nei gironi più bassi dell’Inferno. Questa Bolla Papale determina il primo sistema fiduciario ancora valido oggi. Bonifacio VIII, in questa Bolla, afferma che Dio aveva affidato tutti i titoli e le proprietà della Terra al Vaticano. Questa affermazione non venne mai contestata e quindi, in base al punto 4) del Canone di Diritto (vedi sopra) divenne valida. Il Vaticano perciò, nomina l’esecutore, l’amministratore e il beneficiario di questo sistema fiduciario. L’Esecutore è l’Ordine Minore dei Francescani unito con L’Ordine dei Gesuiti (braccio armato?) ed è ben visibile nello stemma sulla pubblicazione dell’enciclica. L’amministratore è il Papa e i beneficiari di questo trust sono tutti gli uomini del mondo. In pratica e tradotto in altri termini, la Bolla Papale del 1302 usa la metafora del Diritto Marittimo e dell’Ammiragliato (Bibbia) affermando che l’Unam Sanctam Ecclesiam e quindi la Prima e Unica Santa Chiesa è l’Arca di Noè, perché mentre tutto il mondo era sommerso dalle acque, l’unica cosa che si elevava al di sopra era l’Arca. Quindi tutti gli esseri umani, a partire da quel giorno, certificato dalla Bibbia come Codice di Diritto Nautico, sono dispersi in mare. E il Papa dunque reclama tutta l’autorità, tutta la proprietà, sia spirituale che temporale, fino a quando i “dispersi” torneranno a reclamare i loro diritti. Cosa che finora, dal 1302, non è mai avvenuta, perché tutte le Nazioni si basano su quel sistema giuridico. Questo Diritto proclamato da Papa Bonifacio VIII si basa per Diritto Divino, ecco perché non possiamo parlare di politica senza parlare di religione o di economia e finanza senza parlare di religione. Il secondo trust, creato sempre in Vaticano, risale al 1455, cioè circa 150 dopo la Bolla di Bonifacio VIII (quindi ancora mai contestata dopo 150 anni). Questa seconda Bolla è di natura testamentaria, cioè il Papa dispone, al momento della sua morte e della morte dei futuri Papi, come deve funzionare il diritto d’uso di tutti i privilegi e di tutte le proprietà derivanti dalla Bolla precedente di Bonifacio VIII. Testamento di cui l’esecutore è la Curia Romana, l’amministratore è il Collegio dei Cardinali e il Beneficiario, questa volta è il Re, sulla terra di proprietà del Papa. Quindi in due parole Dio ha dato tutto il mondo al Papa e il Papa concede pezzi di questo mondo ai Re. Per cui da quel momento i Re del mondo hanno un mandato divino. Questa enciclica del 1455 (l’8 gennaio) si chiama “ROMANUS PONTIFEX” e fu emanata da Papa Niccolò V. Cito un breve estratto significativo: “Poiché abbiamo concesso precedentemente, con altre lettere nostre, fra le altre cose, piena e completa facoltà al Re Alfonso V di invadere, ricercare, catturare, conquistare, soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo, ovunque essi vivano, insieme ai loro regni e ducati, principati, signorie, possedimenti e qualsiasi bene, mobile e immobile, che sia di loro proprietà e di gettarli in schiavitù perpetua e di occupare, appropriarsi e volgere ad uso e profitto proprio, signorie, possedimenti e beni, in conseguenza della garanzia data dalla suddetta concessione, il Re Alfonso V (di Portogallo n.d.r), o il detto infante a suo nome, hanno legittimamente e legalmente occupato isole, terre, porti , acque e le hanno possedute e le posseggono e ad essi appartengono e sono di proprietà “de jure” del medesimo Re Alfonso V e dei suoi successori, possono compiere e compiano questa pia e bellissima opera, degna di essere ricordata in ogni tempo, che noi essendo da essa favoriti per la salvezza delle anime e il diffondersi della fede e la sconfitta dei suoi nemici, consideriamo un compito che concerne Dio stesso, la sua fede, la Chiesa Universale, con tanta maggiore perfezione, in quanto rimosso ogni ostacolo, diverranno consapevoli di essere fortificati dai più grandi favori e privilegi concessi da noi e dalla Sede Apostolica.” Appena 30 anni dopo circa, nel 1481 (il 21 giugno), viene emanata la terza Bolla, il terzo trust, o diritto fiduciario da Papa Sisto IV, chiamata “AETERNIS REGIS CLEMENTIA”, che si diversifica dalla Bolla precedente di poco, in quanto il “bene” concesso ai Re non è più la terra, ma sono gli esseri umani che abitano quella terra, che da quel momento vengono considerati incompetenti, incapaci e dunque soggetti ad amministrazione coatta. In realtà questa Bolla di Sisto IV realizza la visione illuminata di Bonifacio VIII per cui gli esseri umani sono dispersi in mare e quindi nulla ci appartiene, siamo in bancarotta, perché non siamo mai tornati a reclamare i nostri averi e diritti e quindi è lo Stato che si deve prendere cura di noi per il nostro bene. Questo è il sistema in vigore ancora oggi. [piccola postilla: gli originali delle Bolle del 1302, del 1455 e del 1481, non sono visibili, questo perché fino al XVIII secolo, il Vaticano scriveva le proprie Bolle non su carta, considerata un mezzo privo di vita e quindi privo di valore: a quei tempi (solo due secoli fa!) un documento per essere valido doveva essere scritto su un materiale vivente. Era perciò firmato con il sangue ed era scritto su una pergamena di pelle umana. Parentesi nella parentesi: la recentissima firma della Regina Elisabetta del – criminale! – trattato di Lisbona, è stata fatto su una pergamena di capretto, poiché la Regina, come beneficiaria di un diritto divino, non può firmare un documento “morto”. Non è tutto, la storia notifica, che le Bolle Papali erano scritte su pergamene di pelle di bambini, questo spiegherebbe perché sarebbe imbarazzante per il Vaticano mostrare gli originali.] Approfitto di questa piccola interruzione del racconto per sottolineare che non c’è nessun riferimento negativo a tutte le persone di Buon Cuore (con la B e C maiuscole!) che seguono e vivono secondo l’etica giusta e generosa della Chiesa Cattolica. Il riferimento semmai è solo rivolto a quella “setta” che gestisce il mondo all’interno della Città del Vaticano. E sarebbe importante invitare i Veri Cristiani che si riconoscono in un Dio giusto e misericordioso, a pretendere, indagare e far luce su quello che avviene all’interno di quelle mura. Altrimenti, davvero, non ne usciremo mai!

COSA SIAMO NOI E COSA È LA REPUBBLICA ITALIANA. Nel  1933 c’è stata la peggiore bancarotta concordata, ormai famigerata: furono azzerati i debiti e fu anche proibito il possesso dell’oro da parte dei privati (vi ricordate “l’oro alla patria”?) e gli Stati hanno conferito tutto il proprio oro, insieme a quello confiscato e raccolto, in un unico fondo globale, per custodire il quale è stata fondata la BIS, Bank for International Settlements (Banca per le Transazioni Internazionali) — che darà il via ad un’altra sconcertante storia, come il Sukarno Trust e le denunce attualissime tuttora in corso alla Federal Reserve, (ma ora non è il caso di parlarne, altrimenti rischiamo di mettere troppa carne al fuoco) — che ha sede a Basilea, in Svizzera e fu fondata e controllata dai Gesuiti e dai Cavalieri di Malta. Come per tutto il resto, è facilmente verificabile e certificato, sempre per la legge del Libero Arbitrio. Vi esorto a fare tutte le verifiche possibili e se vi va anche a fare ricerche su quel che sta succedendo con il fondo di oro globale e le richieste di risarcimento alla Federal Reserve. Ma, sempre nel 1933 (udite, udite!) le Nazioni diventano Società di Diritto Privato, registrate presso la SEC (Security Exchange Commission) con sede a Washington D.C., che è l’equivalente della nostra CONSOB (organismo che controlla la Borsa). Queste Società di Diritto Privato chiamate Nazioni, apparentemente pubbliche e repubbliche, ma in realtà privatissime, in base alle tre Bolle Papali, possiedono oggi il DIRITTO DI PROPRIETÁ sulle persone nate in quello stato. La prima istintiva reazione è: non l’Italia! Che è una Repubblica fondata sul lavoro e che ha la sua meravigliosa Costituzione! Purtroppo invece è vero. Andate a controllare voi stessi (cliccate qui → www.sec.gov): c’è la registrazione e il numero di registrazione di “ITALY REPUBLIC OF” – Company Registration Number 0000052782, con tanto di documenti di quotazioni di borsa, cessioni di quote ecc…Il “Business Address è: “Ministero dell’Economia e delle Finanze – Via XX Settembre, 97 – Roma” e il mailing Address è: “C/O Studio Legale Bisconti, Via A. Salandra, 18 – Roma”. Quindi l’Italia NON è una Repubblica libera e pubblica, ma una Private Company e lo Stato possiede il diritto di proprietà delle persone (noi tutti) nate sul suo territorio. Ma abbiamo detto che la proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, un atto fiduciario. Perché i potenti sanno che la proprietà è un concetto fittizio e quindi anche le persone puoi possederle solo con un titolo di proprietà che conferisca il diritto d’uso. Al momento della tua nascita, senza avvisarti, è stato creato un trust, cioè un sistema fiduciario, che ha per oggetto la tua esistenza in vita. E i tuoi genitori hanno avvallato e firmato questo trust (io ho tre figli e mi sento morire per averlo fatto tre volte!) senza essere stati avvisati. Infatti è proprio negli anni ’30 che diventa obbligatorio, guarda caso, registrare le nascite, appropriandosi così del consenso, anche se in questo caso senza essere stati doverosamente “avvisati”. Ecco perché questo sistema è, in parte, fraudolento. In realtà il Certificato di Nascita è un avvertimento, perché è la costituzione di una personalità fittizia, che non appartiene a te, ma a loro. Infatti se erroneamente si potesse pensare che il Certificato di Nascita appartenga a noi, basterebbe provare ad andare in una qualsiasi anagrafe di competenza a chiederne l’originale: possiamo averne una copia, un estratto, ma MAI l’originale. Come a dire che dal momento della creazione del Certificato di Nascita esistono due entità (ricordate la casa di mattoni e il titolo di proprietà su quella casa che ha bisogno di un esecutore, di un amministratore e di un beneficiario?), che sono l’essere umano in carne ed ossa e la persona, cioè un intermediario fittizio o una finzione giuridica, quindi un trust. Questo trust è creato secondo le Leggi Marittime e dell’Ammiragliato (Bibbia) che trascendono sempre le leggi delle varie nazioni e che è la giurisprudenza segreta dei potenti e dell’élite. Di questo trust che viene creato al momento della nascita, sulla tua esistenza in vita, l’esecutore è sempre un organo dello Stato, ma chi è il beneficiario di questo certificato di nascita?  È la Società di Diritto Privato chiamata Repubblica Italiana (un’azienda quindi). Ma beneficiario di cosa? È beneficiario di un bond, di un titolo di possesso, o di una quota societaria che attualmente viene stimato approssimativamente intorno ai 2 milioni di dollari. In pratica lo Stato Italiano crea alla tua nascita due milioni di dollari a mezzo di un bond o titolo e il collaterale di questo bond è la tua esistenza in vita, che significa: produttività, forza lavoro (sempre meno pagata e tutelata così ci guadagnano di più), valore reale! L’equivalenza perversa è: nascita = creazione di un bond e di denaro fittizio = collaterale la tua esistenza in vita e quindi il tuo futuro lavoro (pagato pochissimo se possibile e come stanno evidentemente facendo) = schiavitù! Il “tuo bond” è depositato alla S.E.C, come security, o titolo fiduciario ed entra a far parte del patrimonio di quella Private Company registrata in modo ingannevole come Repubblica Italiana. Per favore verificate tutto ciò che vi è stato detto, bastano pochi secondi su Google. Ma manca ancora la terza parte per dar vita a questa finzione giuridica: l’amministratore, quello che per contratto (trust o certificato di nascita in questo caso) si accolla l’obbligo di prendersi cura del “bene”. Chi è che ha questo ruolo? Ogni qual volta, qualsiasi autorità (dal vigile urbano, al giudice della Corte Costituzionale) ti domanda “è lei Pinco Pallino?” e tu rispondi “sì”, in quel preciso momento ti sei autonominato amministratore di quel trust.  Sei quindi caduto nel tranello in cui ti hanno messo fin dalla nascita, perché nella finzione hanno bisogno che tu ti creda l’amministratore di quella “esistenza in vita”, nella realtà invece, tu e quel trust che porta il tuo nome siete due entità completamente distinte e separate.  L’essere umano in carne ed ossa si scrive con le iniziali maiuscole e le altre lettere minuscole (come ci hanno sempre insegnato anche a scuola), la persona giuridica invece, fittizia, si scrive con tutte le LETTERE MAIUSCOLE. Controllate tutti i vostri documenti d’identità, le comunicazioni bancarie, le notifiche erariali, il tesserino sanitario ecc…Se provaste ad andare per esempio in banca e chiedeste all’impiegato di scrivere il vostro nome con le iniziali maiuscole e il resto minuscolo, se è un ignorantone ci proverà, ma sarà costretto a rispondervi che è impossibile perché il “sistema” non lo permette.  Quindi, ricapitolando: se il 99% del diritto è basato sulla presupposizione, si presuppone che qualcosa sia vero e nessuno mette in discussione quella presupposizione perché il sistema è ancora basato sul meccanismo della “confessione”, esattamente come ai tempi dell’Inquisizione; per funzionare il sistema ha bisogno che tu accusi te stesso e quindi tutto è basato sul tuo consenso, sul tuo libero arbitrio! È necessario infatti che tu accusi te stesso, ma di cosa? Del “peccato originale”. E che cos’è? La frode! L’utilizzo del nome che non ti appartiene, quel nome che da quando sei nato è stato scritto a lettere maiuscole e che è una proprietà intellettuale dello Stato, che ti ha messo in condizioni di usare fraudolentemente. Nel momento in cui lo usi dichiari: che sei nato privo di diritti, che sei in bancarotta, perché la tua vita, il tuo nome e la tua esistenza sono gestiti da altri che non sei tu; sei, perciò, da quando sei nato, in un regime di amministrazione controllata, dove il tuo nome non appartiene a te ma ad altri. Ma è ancora peggio di così! Secondo il Codice dell’Ammiragliato, o Codice Marittimo (Bibbia), sei nato disperso in mare, perché questo dicono le Bolle Papali, sulle quali si basa tutto il sistema; tu, al momento della nascita e attraverso il canale uterino, sei caduto in acqua e sei disperso in mare e non sei mai riuscito a raggiungere la terra ferma, in modo da poterti alzare in piedi e affermare “io sono un essere umano libero davanti a Dio”. Poiché le Bolle Papali si giustificano secondo mandato divino. Perché sono loro che usano la parola Dio, sono loro che hanno chiamato in causa Dio, sono loro che hanno tradotto la Bibbia con il termine Dio, che originariamente non viene mai citato (a proposito la Bibbia diventa Codice di Diritto Nautico sostituendo la parola “peccato” con “debito” n.d.r).  Il diritto quindi è sempre di provenienza divina, noi siamo perciò creature “divine” (vedi. vera traduzione della Bibbia) e loro lo sanno benissimo; non possono quindi creare un diritto fittizio, hanno assoluto bisogno di far discendere il loro diritto da Dio. Quindi loro usano questo Dio (diritto) e se tu usi il loro stesso Dio, ti sei autodefinito incapace, disperso, senza diritti. Pensate la perversione, se tu utilizzi quello che loro ti hanno detto, imposto di utilizzare, dichiari e confermi di essere incapace di prenderti cura di te stesso. Quindi, ricapitoliamo: usano una Società di Diritto Privato, quotata, fingono che sia uno Stato, un ente pubblico, in realtà è privatissimo, e lo usano per fare business (quattrini, denaro, profitto! E ci chiedono anche di pagare le tasse per mantenere una Società di Diritto Privato che non è nostra!) attraverso la tua esistenza, oggetto di quell’entità fittizia scritta tutta a lettere maiuscole, quotata alla S.E.C. di Washington D.C. Il concetto è, quindi, che se tu accetti questo presupposto, ti autodefinisci incapace, bisognoso di essere amministrato in modo coatto, perché oltre ad essere disperso in mare, quindi senza diritti e in bancarotta (non hai mai reclamato ciò che è tuo), non sai neanche chi sei! Per assurdo, ogni autorità, infatti, deve chiederti chi sei, altrimenti non ti può toccare nemmeno con un dito. Non avrebbe la giurisdizione per farlo (si parla di diritto amministrativo, tributario, civile ecc… se uccidi qualcuno, quindi codice penale, è un po’ diverso, ma non troppo…). I nostri tribunali infatti sono tribunali di diritto privato, quindi tribunali aziendali! Stessa cosa vale per il denaro, le banconote “euro”: siamo stati avvertiti, sopra c’è scritto “proprietà della Banca Centrale Europea”, non è nostro è della BCE, ma se noi accettiamo di usarlo, come per il nome fittizio, ci autoproclamiamo incapaci e incompetenti ai loro occhi (disperso in mare, ecc…). Hanno creato quindi un sistema di governo chiamato Cosa Pubblica, che invece è privatissima, che include partiti, Parlamento, Governo, elezioni e se tu accetti di partecipare a questo gioco ti autodefinisci di nuovo incapace e incompetente (disperso in mare, ecc…), bisognoso di amministrazione coatta.  A fronte di questo lungo e, immagino sconvolgente racconto per molti di voi, la prima riflessione è: Come facciamo a cambiare in meglio una cosa che non ci appartiene affatto? Ma del resto il nostro inconscio ce lo dice, nelle ultime amministrative ha votato il 50% degli aventi diritto; una persona su due considera offensivo per la propria intelligenza andare a votare. Quindi a questo punto, se è tutto chiaro, gli interrogativi sono solo due:

1. Cosa possiamo fare per sottrarre il nostro consenso a questa frode che ci vede protagonisti “involontari” fin da quando siamo nati? “Cosa possiamo fare” comprende il salvare il salvabile, dai pignoramenti per esempio, da Equitalia, perché non siamo noi, persona fisica in carne ed ossa a dover pagare le tasse, ma è l’entità fittizia che noi legittimiamo nel momento che la usiamo fraudolentemente (lettere maiuscole). Quindi, in modo individuale possiamo utilizzare noi le loro stesse leggi, Codice Nautico e dell’Ammiragliato (Bibbia) in maniera tale che siano loro a cadere in disonore? Conoscendo la legge possiamo fare qualcosa?

2. Cosa possiamo fare invece collettivamente per creare un’alternativa a questo sistema marcio, fraudolento che è stato creato a loro favore a nostro totale sfavore? Come possiamo modificarlo se non ci appartiene? Intanto, mentre ci pensiamo, possiamo soltanto smettere di partecipare. Concludendo, i nodi cruciali sono due: il denaro e come si prendono le decisioni, che è sinonimo di politica. Ma c’è un punto in più che è diventato chiarissimo: non si possono trattare separatamente denaro (economia, finanza, crisi ecc…), la politica, cioè il modo in cui si prendono le decisioni, la religione e il diritto, perché per i potenti, l’élite, sono la stessa identica cosa.

INDIANI D’AMERICA: “NOI NON DERIVIAMO DALLE SCIMMIE, MA DALLE PLEIADI…” Articolo di Bisonte Che Corre (Enzo Braschi) su “Il Mondo alla rovescia” del 31 maggio, 2016. Gli Indiani e la Conoscenza perduta sulle origini dell’uomo a causa dei colonizzatori criminali europei. I Cherokee (Ani Yonwiyah) ovvero “Il popolo capo” è antico come le pietre. “Ne ho conosciuti alcuni – biondi e con gli occhi azzurri – durante la "Danza del Sole" del 1998, nella Riserva dei Lakota Sicangu di Rosebud, in Sud Dakota. Erano un padre e due figli”. “Sembrate inglesi, scozzesi, non so… ” dissi, “ma non Cherokee”. I tre risero: “Veniamo da Atlantide, e prima ancora dalle Pleiadi.” “Raccontami” dissi. Il ragazzo spiegò: “La nostra lingua, la sua radice originaria, oggi parlata da un’esigua minoranza di ultra ottantenni, si chiama Elati. Io non la so parlare, qualcuno ancora la ricorda, ma contiamo quel qualcuno sulla punta delle dita. Si tratta di suoni crescenti e decrescenti che vengono pronunciati senza quasi muovere la bocca. Ciò che ne scaturisce possiede una bellezza e una musicalità del tutto particolari, considerato che si tratta di una lingua gutturale”. “Più che di parole si deve parlare di suoni di potere che racchiudono una forte energia spirituale. Per i Cherokee parlare significa infatti essere più che comunicare. Questa lingua, Elati, è detto "il linguaggio degli Antenati" o "il linguaggio delle Stelle", un modo di esprimersi che i vecchi uomini sacri della nostra gente consideravano provenire da lassù, dall’alto. La tradizione orale della tribù puntualizza infatti che i Cherokee arrivarono sulla Terra 250.000 anni fa dalle Pleiadi, che nella nostra antica lingua vuole dire per l’appunto Antenati.” “A tal proposito vorrei precisare che l’uomo non discende affatto dalla scimmia ma dal Popolo delle Stelle. Nella cosmologia cherokee, la Terra è detta il Pianeta dei Bambini, ovvero il Pianeta dei Figli delle Stelle.” “Il sapere della nostra antica Società dei Capelli Intrecciati ha inizio al tempo in cui esistevano dodici pianeti abitati da esseri umani, i cui progenitori si riunivano su un pianeta chiamato Osiriaconwiya, vale a dire il quarto pianeta della costellazione del Cane Maggiore, cioè Sirio. Su quel pianeta grandi sapienti si trovarono un giorno a discutere delle sorti dell’Ava Terra, la nostra terra, detta in lingua cherokee Eheytoma, il pianeta dei figli, ovvero il tredicesimo pianeta”. “Poiché il nostro mondo era il meno evoluto rispetto agli altri, quei dotti stabilirono di trasferire tutta la loro conoscenza all’interno di dodici teschi di cristallo, che chiamarono Arca di Osiriaconwiya, che portarono sulla nostra Terra, affinché un giorno potessimo consultarli e sapere tutto delle nostre vere origini”. “I nostri avi fecero di più: aiutarono infatti i loro figli a fondare quattro civiltà: Lemuria, Mu, Mieyhun e Atlantide, servendosi della conoscenza dei teschi, per dare avvio alle grandi scuole del mistero, veri centri di sapienza arcana, e alle segrete società di medicina.” “Queste informazioni giunsero circa 750.000 anni fa e cominciarono a diffondersi sul nostro pianeta tra i 250 e i 300.000 anni fa. I dodici teschi corrispondenti ai dodici pianeti, venivano sistemati in cerchio attorno a un tredicesimo teschio di ametista di dimensioni più grandi, che raccoglieva la consapevolezza collettiva di tutti quei mondi”. Ma poi…arrivarono Cortès e i suoi assassini (i nostri antenati europei) che interruppero lo sviluppo della conoscenza. “Coloro che furono incaricati di compiere il viaggio sulla Terra per farci dono dei teschi di cristallo furono detti Olmechi. Questi passarono quella conoscenza ai Maya, quindi agli Aztechi e infine ai Cheorkee e a tutti gli altri indiani del Nord America. Pare che l’Arca si trovasse ancora a Teotihuacan, allorché arrivarono Cortès e i suoi assassini che interruppero lo sviluppo della conoscenza” concluse il Cherokee. La cosa non sembra essere priva di fondamento: risulta infatti che Cortès venne a conoscenza di qualcosa di potentemente misterioso e che arrivò quasi a impossessarsi dell’Arca, grazie all’aiuto di un traditore; ma i sacerdoti giaguaro e i guerrieri aquila riuscirono a trarla in salvo. Alcuni teschi di cristallo vennero nascosti in America Meridionale, altri andarono dispersi nel mondo. La Terra attenderebbe che la conoscenza sia finalmente svelata al genere umano attraverso la riunione dei tredici teschi di cristallo. Secondo i Lakota Sioux, la Prima Sacra Pipa fu portata loro in tempo remoto da Ptesan Win, “Donna Bisonte Bianco”, una donna proveniente dal cielo, probabilmente dalle Pleaidi. Tayamni è il nome che i Lakota danno a una costellazione che equivale a un bisonte bianco nel cielo. Tayamni è infatti formato dalle Pleiadi come testa, le tre stelle della cintura di Orione come spina dorsale, le stelle Betelgeuse e Rigel come costole, e Sirio come coda. Unendo tutti questi punti, in cielo si forma l’immagine di un bianco bisonte…Miti, favole. Miti e favole come sempre, vero? Ma certo. A proposito di “fantascienza”… perché non vi riguardate l’ultimo film di Indiana Jones relativo ai tredici teschi di cristallo? Fantasia, miti e favole come sempre. Ma la NASA e il potere occulto amano la fantascienza, vi pare?

Un Mondo Impossibile ..."“Contra factum non valet argumentum”. Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. In questo blog si vuole commentare ed analizzare l'attualità e la storia ma sopratutto scoprire ed evidenziare le ipocrisie, le falsità ed i soprusi di questo mondo appunto ormai impossibile da vivere, scrive martedì 19 gennaio 2016 Arturo Navone su  “Un Mondo Impossibile”. “La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi”. Honorè de Balzac. Propaganda, Stereotipi e Lavaggio del Cervello, l'Allontanamento dalla Soluzione e come Ritrovarla. Carl Gustav Jung e gli Indiani d'america ... Il delirante percorso della civiltà occidentale e dell'uomo bianco come è noto ha causato danni incalcolabili, dove sempre per interessi reconditi ma sempre più chiari ci viene raccontato che siamo vicini al punto di non ritorno che nulla si può fare. E' un chiaro esempio di propaganda e lavaggio del cervello, che ho già evidenziato in altri articoli, studiato a tavolino che aggiunto a degli stereotipi fa il gioco di chi ora lasciamo comandare. Un esempio ne sono proprio i pellerossa che ci han voluto far credere essere dei demoni quando invece lo eravamo noi, è il nostro mondo, quello che è nero lo dipingono per bianco e viceversa, con l'uso poi dei vari sistemi ormai fin troppo conosciuti, cinema, televisione, media, opinionisti, influencer, pubblicità e messaggi subliminali ti incatenano la menzogna alla coscienza, ne viene poi difficile venirne fuori, ci sono degli esempi incredibili, filmati dove le vittime sono poi finite ad essere i carnefici, le montagne di morti non hanno la targa di circolazione, poi l'ha detto "la televisione", le immagini dei cadaveri del popolo X uccisi da Y li han rappresentati come morti di Z et voilà X erano i criminali e Y e Z santi e martiri, poi un X si vede in un documentario rieducativo in un posto che nemmeno sapeva esistesse perchè in effetti così come era stato rappresentato non esisteva, non stò nemmeno a dire i protagonisti è fin troppo evidente per chi ha occhi, orecchie e soprattutto cervello .... pochi ma così è la vita. Questo scritto era iniziato con un altro intento poi cammin facendo si è evoluto, andremo a vedere come quelli che crediamo "barbari" non lo siano affatto e che la soluzione l'hanno sempre culturalmente avuta, abbiamo cercato di distruggerli ma ora gioco forza cerchiamo di recuperare ciò che è l'unica salvezza ...Il noto psicologo Carl Gustav Jung, nel suo scritto Ricordi, sogni, riflessioni racconta di un suo incontro con un capo pellerossa Taos Pueblos mentre era alla ricerca della propria ombra. La conversazione che ne seguì è significativa per comprendere i nostri condizionamenti culturali. «Vedi - diceva il capo indiano - i bianchi vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti, irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non riusciamo a capirli. Pensiamo che sono pazzi». Jung chiese a questo capo perché mai pensasse che l’uomo bianco fosse pazzo. E l’indiano gli rispose, mostrando tutta la sua meraviglia: «Dicono di pensare con la testa!». «Ma certamente pensano con la testa! – disse Jung - E tu, con cosa pensi?». E lui: «Noi pensiamo qui!», disse, indicando con la mano il cuore. E Jung conclude: «Mi immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco. Era come se, fino a quel momento, non avessi visto altro che stampe colorate, abbellite dal sentimento. Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole. Aveva svelato una verità, alla quale siamo ciechi»."il mondo dell'Uomo bianco è Koyaanisqatsi, un Mondo Disarmonico, privo di equilibrio, un Mondo malato al quale la saggezza degli Indiani d'America può arrecare giovamento, affinchè l'Uomo Bianco possa vivere le stagioni.....nel cuore della vita...in armonia con sè stesso e la Natura!!!!!" Nella cultura indiana il percorso di risanamento dell’anima ha delle tappe ben precise che devono essere rispettate: innanzitutto le quattro direzioni dei punti cardinali e, poi, il rapporto con la terra come madre dell’universo e con il cielo come dimora degli spiriti. Il processo si completa nel cerchio sacro, una forma che diventa il simbolo dell’armonia tra gli uomini e ciò che li circonda. Questo viaggio senza fine, perché il miglioramento fisico, emotivo, mentale e spirituale non può mai essere completato, è lo scopo dell’esistenza di ogni Indiano, qualunque sia il gruppo tribale d’appartenenza. Le quattrocento nazioni originarie del continente nordamericano erano caratterizzate da differenze marcatissime a livello geografico, sociale, linguistico e culturale. I Lakota-Sioux si muovevano liberamente nel grande oceano d’erba, le praterie e pianure sconfinate che si estendevano dalla Valle del Mississippi alle Montagne Rocciose. Erano nomadi che, spostando le proprie tende (tepee), seguivano le migrazioni del bisonte in cerca di nuovi pascoli. Gli Zuni e gli Hopi, stanziati nell’arida terra del sud-ovest americano, ricavarono le loro case dal deserto. I Cherokee praticavano l’agricoltura. Avevano un sistema sociale preciso basato su principi democratici e si organizzarono in insediamenti piuttosto ampi. Gli Tsimshian vivevano sulle coste nordoccidentali del Canada. I Chippewa e i Wintu appartenevano al gruppo degli Indiani dei boschi. Ma un filo comune emerge dalle loro parole, dal ricchissimo patrimonio orale di canti, miti, leggende, narrazioni sacre e profane: la consapevolezza che la Terra è madre e deve essere rispettata. La meta di questa avventura spirituale è la comprensione che l’uomo è parte integrante di un cerchio che comprende le piante, gli animali, i minerali, la Terra, il Cielo, l’acqua, le stelle, la notte e il giorno, la Luna e il Sole. Il corpo umano è tutt’uno con la terra che lo nutre e lo sostiene: «Noi siamo la terra. Noi le apparteniamo. Noi siamo una parte della terra e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli. Le coste rocciose, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia». Non c’è separazione tra mondo naturale e mondo umano. L’uomo non è il Signore del Creato e il mondo non è a suo beneficio. Ogni creatura ha un eguale diritto all’esistenza e merita rispetto semplicemente perché è viva. Il ritmo della natura porta la salute, l’equilibrio, l’armonia la bellezza. Il ciclo annuale delle stagioni è garanzia di ordine e di benessere: il tepore primaverile verrà sempre a riscattare il gelo invernale. Non bisogna spezzare il fluire del cielo naturale, altrimenti ne deriveranno malattia, paura, incubi e insicurezza. La natura batte il tempo, il suo orologio regola la vita del pianeta e dell’uomo. L’uomo non stabilisce quindi solamente un rapporto equilibrato con la natura ma arriva a conoscere se stesso grazie a questa armonia. Joseph Bruhac ci racconta una storia che riassume questo viaggio interiore: «Dopo che Wakan Tanka, il Grande Spirito, ebbe messo in ordine le altre sei direzioni, l’est, il sud, l’ovest, il nord, il cielo e la terra, restava sempre una direzione senza destinazione. Ma poiché la settima direzione era la più potente di tutte, in quanto racchiudeva la saggezza e la forza più grandi, Wakan Tanka, il Grande Spirito, desiderò metterla in un luogo dove non sarebbe stato facile trovarla. Ecco perché la nascose nell’ultimo posto dove gli uomini generalmente pensano di guardare: nel loro cuore». Nonostante siano stati privati della propria terra, della propria cultura e della propria identità, gli Indiani d’America sono riusciti a trasmettere la loro fede in questo modo di vivere. Hanno parlato con il cuore, di padre in figlio, per indicare il sentiero che porta alla rigenerazione e la loro voce è rimasta. Anche con queste parole: Accanto alla montagna, spianato dai nostri passi, il terreno del campo risuona. Ti dice: la terra è un tamburo, pensaci. Noi, per seguirne il ritmo, dobbiamo fare attenzione ai nostri passi.

I DIECI COMANDAMENTI INDIANI:

La Terra è la nostra Madre, abbi cura di Lei.

Onora (rispetta) tutti i tuoi parenti.

Apri il tuo cuore ed il tuo Spirito al Grande Spirito.

Tutta la vita è sacra, tratta tutti gli esseri con rispetto.

Prendi dalla Terra solo ciò che è necessario e niente di più.

Fai ciò che bisogna fare per il bene di tutti.

Ringrazia costantemente il Grande Spirito per ogni giorno nuovo.

Devi dire sempre la verità, ma soltanto per il bene degli altri.

Segui i ritmi della natura, alzati e ritirati con il sole.

Gioisci nel viaggio della vita senza lasciare orme.

Trovo delle straordinarie similitudini con la fisica quantistica e le filosofie orientali, se una cosa la trovi in più culture e studi è inequivocabilmente segno che è la strada giusta, personalmente credo che la grandezza di Jung sia anche provata dalla capacità di aprirsi allo studio delle altre culture, prova ne è che la coscienza collettiva, la sincronicità quindi, è trattata anche nella Bhagavad gītā, testo millenario, sacro indù. L’amore è un concetto estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito.

Incontro Occidente-Oriente di Mario Thanavaro. Tratto da “Spiritualità Olistica” (Venexia Editore). “E’ giunto il momento in cui dobbiamo lasciar cadere questa divisione tra esterno e interno, tra ciò che è inferiore e ciò che è superiore, tra la mano destra e la mano sinistra. Dobbiamo lasciar perdere questa divisione fra l’uomo e la donna, fra l’Oriente e l’Occidente. Dobbiamo creare un essere umano integro, abile in entrambe le dimensioni”. Osho Rajneesh. Il principio dei vasi comunicanti afferma che quando in un’area si crea il vuoto e in un’altra c’è il pieno, il travaso dal pieno verso il vuoto si produce inevitabilmente. Viviamo oggi in un’epoca straordinaria, il grande progresso tecnologico ci ha dato i mezzi e gli strumenti per spostarci da una parte all’altra del pianeta, permettendoci di entrare in contatto con altre etnie, tradizioni e culture. Tutto il mondo ci entra in casa via satellite grazie al piccolo e al grande schermo e questo ci consente di analizzare la grande diversità tra le varie culture, la diversità della loro organizzazione socio-politica ed economica. Con la scienza e la tecnologia abbiamo assistito al prevalere della secolarizzazione e del modernismo sulle antiche istituzioni religiose, ma lo sviluppo tecnologico ha preso la direzione di uno sconsiderato utilitarismo senza riguardo ai valori e ai diritti umani, accentuando la disparità tra nazioni, popoli e culture. Per quanto la tecnologia ci dia l’impressione di essere vicini l’uno, le leggi di mercato ci impongono il Super Dollaro come sola unità di misura valida nel quantificare il valore di un individuo o di un popolo. La grande famiglia umana è stata inesorabilmente divisa in ricchi e poveri, e i grandi flussi migratori, oggi come in passato, sono la risposta spontanea della natura che tende al riequilibrio. Il problema demografico ed economico spinge i Paesi più poveri verso l’Occidente, il quale, da sempre in contatto con altre civiltà, prima con i grandi viaggi e scoperte poi con il colonialismo, ha fatto delle fortune degli altri Paesi la sua fonte di ricchezza. Il primo contatto con l’Oriente risale al principio dell’800 e avviene sul piano ideologico dell’intellettualismo filosofico e religioso. A quel periodo risalgono le prime traduzioni degli antichi testi sacri dell’India, i Veda, le Upanishad e il canone buddhista. Già da quei primi approcci risultò evidente la grandezza del messaggio spirituale dell’Oriente, per molti versi incomprensibile agli occidentali, tanto che gli Inglesi, dopo un secolo di dominazione coloniale, dovettero ammettere di non aver capito il modo di pensare degli indiani. L’Inghilterra spinse le sue colonizzazioni fino in Cina, in Birmania e nel lontano Tibet. Il Museo Britannico di Londra conserva molti dei tesori letterari e artistici presi durante quella dominazione. Gli studiosi autentici di quei cimeli ci hanno insegnato a guardare all’Oriente con rispetto e forse in modo un po’ onirico. Il fascino che ancora oggi l’Oriente esercita sulla mente degli occidentali risponde forse a un’esigenza di libertà, sempre più difficile da esperire per l’uomo del XXI secolo, chiuso in una società tecno-virtuale, afflitto da un senso di solitudine e alienazione senza pari. L’avvicinamento delle varie culture presenta degli aspetti molto positivi, ci può indirizzare verso un’apertura di mente e cuore, un dialogo e una comunicazione veramente nuovi se vissuti come scelta consapevole, fino a un cambiamento radicale delle secolari impalcature e strutture concettuali, fino allo movimento di pensieri coscienti e non coscienti secondo il principio dei vasi comunicanti. Tutti possono beneficiare dell’apporto di altre culture e tradizioni. Ci può arricchire in tutti i sensi e contribuire al risveglio di una Nuova Civiltà. Il messaggio dei saggi del Medio ed Estremo Oriente così pure delle antichissime tradizioni sciamaniche (le origini dello sciamanesimo si possono far risalire a circa 30.000 anni fa) può offrire una nuova visione, permettendo di riprendere contatto con le radici spirituali e finalmente uscire dal vicolo cieco. Il riemergere oggi della cultura e filosofia degli indiani d’America sotto la spinta dell’Occidente è indicativo dell’estremo tentativo da parte dell’uomo bianco di ritrovare un collegamento diretto con la Natura. È proprio a causa della separazione dell’uomo bianco dal principio del rispetto della Terra e di ogni essere vivente che ci troviamo di fronte a problemi ecologici enormi, effetto del suo agire sconsiderato. Secondo diversi ricercatori e scienziati, a causa della pressione ambientale, nel 2050 le condizioni di vita sul pianeta saranno pessime. È per questo motivo che in diverse culture spirituali è stata profetizzata una grande Purificazione Planetaria. In un antico testo del buddhismo tibetano, le preghiere rivolte a una divinità protettrice sono precedute dal seguente testo: «In quest’epoca degenerata la contraddizione tra le intenzioni e gli atti degli esseri e le perturbazioni degli elementi esterni e interni provocano epidemie e malattie finora sconosciute che colpiscono uomini e animali, sofferenze causate da pianeti, naga (una categoria di esseri intelligenti con volto umano e lunga coda di serpente, n.d.t.),demoni ed esseri elementari cattivi. I raccolti sono colpiti da malattie, gelo e grandine, sono annate dure nelle quali scoppiano dispute, lotte e guerre. Le piogge sono irregolari, la neve cade troppo abbondante e appaiono calamità causate dai roditori. Vi sono terremoti, incendi e disastri dovuti ai quattro elementi». Oggi come in passato la confusione e la sofferenza che proviamo è imputabile prima di tutto a una situazione di disequilibrio. Mentre la saggezza millenaria dell’Oriente ci insegna a guardare dentro per le risposte ai problemi dell’uomo, l’Occidente guarda fuori. In cerca di soluzioni e risposte, l’uomo moderno occidentale ha cercato la verità assoluta nella razionalità. È convinto di garantirsi una vita comoda, sul piano sociale e politico semplicemente rafforzando l’economia e, sicuro del suo modello di sviluppo, lo ha promosso e molto spesso imposto in tutti i Paesi del mondo. Dominato dal delirio della scienza, pensa di occultare ancora per molto la sua paura della morte affidando le sue speranze di immortalità all’ingegneria genetica. Il suo agire imprudente sull’ambiente non lo ha messo al riparo dagli elementi, anzi ha accentuato la precarietà della sua esistenza, esponendolo a disastri naturali di ogni tipo che lo colgono fragile e psicologicamente impreparato ad affrontare il dolore della tragedia. Nel campo religioso, la ferrea convinzione di essere il detentore dell’unica verità assoluta, ha accentuato la sua distanza dal prossimo e da Dio al quale si affida in modo fideistico per allontanarsene ogni qualvolta non trova risposta ai suoi mille ‘perché’. Il suo smarrimento è grande e ha bisogno dell’aiuto dell’intuito della antica saggezza dell’Oriente per tornare alla riflessione, alla meditazione, alla contemplazione della bellezza del creato, per ritrovare pace e armonia con se stesso, i suoi simili, la terra e il cosmo. Ho scritto questo articolo per evidenziare come con dei mezzi banali, se vogliamo, si può far credere tutto ed il contrario di tutto e che la soluzione ai "nostri problemi" non sia poi chissà cosa, è semplicemente dentro di noi, quello è il difficile, è ovviamente più facile dare la colpa ad altri e far finta di nulla. Parecchi anni fa, tanti, dopo la lettura di quanto segue avevo intuito che quella era la soluzione ed ora me la ritrovo confermata anche da Jung tra gli altri, chiaramente c'era arrivato prima ma non ne ero a conoscenza ... "Non vi potrà mai essere una rivoluzione socio-politica, finché non avrà luogo una rivoluzione individuale, perché la rivoluzione deve nascere dall’interno di ciascun singolo essere umano perché poi può diventare collettiva, del resto, si può privare l’essere umano della libertà politica, senza fargli alcun male, ma se lo si priva della sua libertà di essere o sentire, lo si distrugge. La nostra cultura occidentale disprezza le culture primitive ma quei popoli vivono in armonia con la terra, le foreste e gli animali. Occorre una rivoluzione interiore radicale, occorre varcare le proprie porte interiori, per poter essere davvero liberi, liberi di essere e sentire, occorre spazzare via dal proprio intimo tutta l’immondizia che ci è stata inserita dentro nel corso degli anni, fin dal momento in cui siamo nati. Ma la stragrande maggioranza della gente, questo non lo vuole fare, non è disposta a cambiare nulla". !!!!!!!!!! Jim Morrison.

La Storia Segreta Dell’Unione Europea: Il Piano Kalergi, scrive “No Censura” il 7 novembre 2013. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Esistono due storie che raccontano la nascita dell’Unione Europea. Una ufficiale, di facciata, sponsorizzata dall’intero apparato accademico che narra di un gruppo eterogeneo di persone, i cosiddetti padri fondatori della “nuova Europa”, il quale successivamente al conflitto mondiale iniziò a progettare la pace, l’unità e la prosperità nel Vecchio continente per poi dare vita ad una comunità di Stati in cooperazione tra di loro. E poi c’è una storia reale ma oscurata, che rivela il progetto di un uomo, l’aristocratico Richard Koudenove-Kalergi (giapponese di madre e austriaco di padre), il quale non fu mai protagonista degli eventi ma che fu, nel retroscena, artefice allo steso modo dei vari De Gasperi, Shuman, Monnet e Adenauer, probabilmente ancor più influente poiché a differenza di questi ultimi, aveva una visione planetaria e non europea. Nel 1922, Koudenove-Kalergi fonda la Paneuropa (o Unione Paneuropea) con lo scopo apparente di impedire un nuovo conflitto continentale, tuttavia nel 1925 in una relazione presentata alla Società delle Nazioni i fini dell’austro-giapponese si manifestano chiaramente. Il suo obiettivo primario era quello di unificare l’Europa, al fine di integrarla all’interno di un’organizzazione mondiale politicamente unificata, in poche parole un governo mondiale, che a sua volta federasse nuove federazione continentali (“continenti politici”, proprio come la “Paneuropa”). Inoltre nel suo libro «Praktischer Idealismus» pubblicato nel 1925, Kalergi espone una visione multiculturalista e multi-etnicista dell’Europa, dichiarando che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una sorta di subumanità resa bestiale dalla mescolanza razziale”, e affermando senza mezzi termini che “è necessario incrociare i popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’elite al potere. L’uomo del futuro sarà di sangue misto. La razza futura eurasiatica-negroide, estremamente simile agli antichi egiziani, sostituirà la molteplicità dei popoli, con una molteplicità di personalità”. Nel 1926 Koudenove-Kalergi organizzò la prima conferenza paneuropea di Vienna, sotto gli auspici del suo presidente onorario, il presidente Aristide Briand (1862-1932) e fu proprio in questo convegno che si decise di scegliere l’inno europeo, l’Inno alla gioia di Beethoven, che in seguito diventerà l’inno ufficiale dell’Unione Europea. Ma è durante questo primo congresso che sono esposti in modo chiaro, lucido, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine di questo contenitore di idee: “l’Unione Pan-europea ribadisce il suo impegno al patriottismo europeo, a coronamento dell’identità nazionale di tutti gli europei. Nel momento dell’interdipendenza e delle sfide globali, solo una forte Europa unita politicamente è in grado di garantire il futuro dei suoi popoli ed entità etniche. L’Unione Paneuropea riconosce il diritto all’autodeterminazione dei gruppi etnici allo sviluppo (…) culturale, economico e politico”. Negli anni Trenta, Koudenove-Kalergi condanna fermamente il modello nazional-socialista di Adolph Hitler e quello sovietico di Stalin, tanto che l’industria tedesca revoca definitivamente i finanziamenti all’Unione paneuropea, mentre gli intellettuali filo-sovietici lasciano l’associazione. Durante la Seconda Guerra Mondiale il fondatore della Paneuropa si rifugia negli Stati Uniti, nei quali insegnò in un seminario presso la New York University – “La ricerca per una federazione europea del dopoguerra” – a favore del federalismo europeo. Nel 1946, Koudenove-Kalergi torna in Europa e la sua personalità gioca un ruolo di estrema rilevanza. La Paneuropa riprende le forze e si creano in tutti Paesi europei delle delegazioni (Paneurope France, Paneuropa Italia, ecc.) che in pochi mesi diffusero gli ideali paneuropeisti a quelli che poi furono considerati i “padri fondatori della nuova Europa”. Queste delegazioni contribuirono alla realizzazione dell’Unione parlamentare europea, che successivamente consentì la creazione nel 1949, del Consiglio d’Europa. Il suo “impegno” intellettuale e politico gli permisero di aggiudicarsi nel 1950 il prestigioso premio prettamente continentale “Carlo Magno” e, persino in suo onore fu stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo “ideale” confederativo e mondialista. Tra questi troviamo nomi come Angela Merkel e Herman Van Rompuy. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Da qui vediamo lo stretto legame tra Wall Street, quindi gli Stati Uniti d’America e la volontà già negli Venti di federare l’Europa sotto una sola guida politica, probabilmente per dominarla meglio. Richard Coudenhove-Kalergi non fu un visionario del suo tempo proprio perché egli fu un manovratore della partita. Non a caso l’Europa sognata dall’aristocratico austro-giapponese è la stessa di oggi, quella del terzo millennio.

Ecco la condanna a morte che ci attende. Pubblicato il testo del TPP. Pubblicato il 6 novembre 2015 da Claudio Messora su “Byo Blu”. “Peggiore di qualunque cosa avessimo mai immaginato”. “Un atto di guerra al clima”. “Un omaggio all’agricoltura intensiva”. “Una condanna a morte per la libertà della rete”. “Il peggior incubo”. “Un disastro”. Questo è il tenore dei commenti di chi ha letto e studiato il testo del TPP, il fratello gemello del TTIP, l’accordo di libero scambio commerciale tra Usa e Ue, negoziato in segreto, di cui vi ho parlato mercoledì sera a La Gabbia. Il TTIP fa parte di una gigantesca strategia globale degli Usa, le cosiddette “Tre T”, che comprendono anche il TTP e il TISA. Il TTIP è l’accordo di liberalizzazione commerciale che stanno negoziando (in segreto) Usa e UE. Il Tisa (Trade in Services Agreement) è l’accordo, anche peggiore, sulla liberalizzazione dei servizi e il TPP (Trans Pacific Partnership), è l’omologo del TTIP sul fronte pacifico, che includerà 12 paesi, tra cui Singapore, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti, l’Australia, il Messico, il Giappone e il Canada. Caso vuole che in nessuno dei tre accordi siano presenti i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Caso vuole? No, in effetti non è un caso, ma esattamente lo scopo per cui le Tre T sono state create: aggirare il peso che i paesi emergenti hanno assunto nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), isolare la Cina (con la strategia militare e commerciale definita “Pivot to Asia”) e assicurare il dominio delle grandi corporation USA nell’economia mondiale. Questi trattati sono negoziati in segreto (perché se no non glieli lasceremmo fare): per la UE ci pensa quella simpaticona indefessa adoratrice dei più stringenti principi democratici che si chiama Cecilia Malmström (la signora io-non-rispondo-ai-cittadini). Solo le lobby hanno libero accesso al testo del negoziato. Se gli europarlamentari vogliono visionarlo, devono chiamare l’ambasciata americana, farsi dare un appuntamento che è disponibile solo due volte a settimana, in una fascia oraria di sole due ore, solo due alla volta, all’ingresso devono consegnare ogni dispositivo elettronico, firmare un impegno di riservatezza e finalmente possono avere davanti agli occhi intere sezioni di codici e codicilli legali, per due ore, senza poter prendere appunti e guardati a vista da due guardie americane. Se questo lo chiamate democrazia, fatevi visitare da uno bravo! Lato Usa invece usano la Fast Track Negotiating Authority for Trade Agreement, che è uno strumento che consente al Presidente degli Stati Uniti d’America di negoziare trattati commerciali per i fatti suoi, e poi presentare un pacchetto fatto e finito al Congresso, che può solo approvarlo o respingerlo in toto, a maggioranza semplice, (un po’ come la nostra fiducia): i deputati USA non possono in alcun modo proporre emendamenti o fare ostruzionismo. E’ nato per consentire l’approvazione di trattati commerciali che altrimenti non avrebbero mai visto la luce, e per consentire ai deputati di votare a favore senza perdere la poltrona (negli Usa c’è il recall), dato che chi li ha eletti ne sarebbe probabilmente scontento. Figuratevi quanta democrazia ci sia anche da quelle parti: hanno creato uno strumento per fare in modo di poter votare quello che democraticamente non potrebbero! Chapeau! (E questa è la più grande democrazia del pianeta, figuriamoci le altre!). Dunque cosa succede? Succede che il testo del TPP finalmente è stato rilasciato, dopo essere stato finalizzato dalle ultime negoziazioni di Atlanta, in Georgia. La pubblicazione dei contenuti del trattato ha così avviato il periodo di tre mesi che precede il suo atterraggio al Congresso, chiamato ad approvarlo. Ecco il testo ufficiale: TPP FINAL TABLE OF CONTENTS. La reazione di chi ha avuto lo stomaco di leggerselo è stata questa: “Dai leaks, avevamo saputo qualcosa sull’accordo, ma capitolo dopo capitolo la lettura del testo finale è peggiore di quello che ci aspettavamo: le richieste di 500 lobbisti che rappresentano gli interessi delle corporation sono state soddisfatte a svantaggio dell’interesse pubblico. Questo accade quando le lobby possono negoziare in privato, nell’oscurità, e i cittadini vengono tagliati fuori”. “Il TTP è un disastro per il lavoro, per l’ambiente e per la democrazia. E’ l’ultimo passo verso la resa della nostra società alle corporation. L’enorme accordo tra 12 nazioni sulle coste del Pacifico ha meno a che fare con la vendita delle merci di quanto, piuttosto, abbia a che fare con la riscrittura delle regole dell’economia globale in favore del grande business. Esattamente come il North American Free Trade Agreement (il NAFTA), 20 anni fa, sarà una cosa ottima per i più ricchi e un disastro per chiunque altro. Il NAFTA ha radicato le disuguaglianze e causato la perdita di un milione di posti di lavoro negli USA. E il TPP non è altro che una versione del NAFTA iperpotenziata”. “Ora che abbiamo visto il testo definitivo, viene fuori che il TTP, vero e proprio assassino dell’occupazione, è peggiore di qualunque altra cosa che sia mai stata immaginata. Questo accordo abbatterà i salari, inonderà il nostro Paese di alimenti importati e non sicuri, innalzerà i prezzi delle medicine salva-vita, e tutto questo mentre si faranno affari con paesi dove gli omosessuali e le mamme single possono essere lapidate”. “Il testo è pieno di sussidi per le società che fanno affari sui combustibili fossili e di incredibili possibilità per queste compagnie di fare causa ai singoli governi che cercano di diminuire l’uso dei combustibili fossili. Se una provincia mette una moratoria sul fracking, le corporation possono perseguirla legalmente; se una comunità cerca di fermare una miniera di carbone, le corporation possono prevalere in punta di diritto. In breve, queste leggi minano la capacità dei singoli stati di attuare quello che gli scienziati dicono che sia la sola cosa più importante da fare per combattere la crisi climatica: abbattere i consumi di carburanti fossili”. “E’ un accordo disegnato per proteggere il commercio libero di prodotti energeticamente sporchi come i depositi non convenzionali di catrame e bitume, depositi di carbone e gas naturale liquefatto spedito dai porti della costa occidentale. Il risultato sarà un’accelerazione dei cambiamenti climatici derivante delle emissioni di CO2 in tutto il Pacifico. Il presidente Obama ha venduto agli americani false promesse: il TTP tradisce la promessa di Obama di fare dell’accordo un trattato amico dell’ambiente”. “Il capitolo ambientale conferma molti dei peggiori incubi dei gruppi ambientalisti e degli attivisti contro il cambiamento climatico”. “Con le sue disposizioni che tagliano le mani agli ispettori alimentari sulle frontiere e danno più potere alle compagnie che operano nella biotecnologia, il TPP è un regalo alle grandi multinazionali del settore dell’agricoltura intensiva e del cibo biotech. Questo genere di società useranno gli accordi come il TPP per attaccare le misure di sicurezza sugli alimenti sensibili, per indebolire le possibilità di ispezionare il cibo importato e per bloccare ogni sforzo di rafforzare gli standard di sicurezza alimentare degli Stati Uniti. Innanzitutto quelli per etichettare correttamente gli alimenti OGM. Inoltre, qualunque criterio di sicurezza alimentare sull’etichettatura dei pesticidi o degli additivi che sia più elevato rispetto agli standard internazionali, potrà essere additato come una barriera commerciale illegittima. Sotto al regime del TTP, il business dell’agricoltura intensiva e le multinazionali biotech delle sementi hanno adesso un modo più semplice per sfidare a quei paesi che vietano l’importazione di alimenti geneticamente modificati, che controllano la contaminazione OGM, che non approvano prontamente nuovi prodotti OGM o anche solo richiedono un’etichettatura adeguata”. “Se il Congresso degli Stati Uniti firmerà questo accordo malgrado la sua sfacciata pericolosità, firmerà la condanna a morte per la rete internet aperta e metterà il futuro della libertà di opinione a repentaglio. Tra le molte sezioni del documento che destano gravi preoccupazioni, ci sono quelli relative ai marchi commerciali, ai brevetti delle case farmaceutiche, alla protezione del copyright e ai segreti commerciali. La sezione J, che riguarda gli internet service providers, è una delle sezioni peggiori che impatta sulla libertà della rete. Richiede ai fornitori di servizi internet di comportarsi come poliziotti della rete e collaborare con le richieste di oscuramento, ma non obbliga i paesi a dotarsi di un sistema di contestazione. Così, una società potrebbe ordinare a un sito web di essere oscurato in un altro paese e non ci sarebbe nessuno strumento per il proprietario del sito di confutare la legittimità della richiesta nel caso, per esempio, dei blog di critica politica che usano materiale protetto da copyright sotto il regime del fair use. La sezione J è scritta in maniera tale che gli internet service provider non saranno perseguibili per nessuno degli errori che dovessero commettere sull’oscuramento dei contenuti, incentivandoli così a “sbagliare” a favore dei detentori di copyright invece che a favore di chi esercita la libertà di opinione”. “Anche una parte dell’opinione pubblica canadese è molto preoccupata sulle conseguenze dell’accordo commerciale sui diritti umani, sulla salute, sull’occupazione e sulla democrazia. Il Consiglio dei canadesi, un’organizzazione alla testa di un largo network impegnata nella difesa dell’equità sociale, ha chiesto formalmente al nuovo primo ministro Trudeau di organizzare una consultazione pubblica che includa un ampia analisi indipendente del testo, dal punto di vista dei diritti umani, delle conseguenze economiche e di quelle ambientali, prima di procedere oltre nella ratifica. Trudeau è sottoposto a enormi pressioni per adottare l’accordo il più presto possibile, con numerose insistenti telefonate da Barack Obama e dal presidente giapponese Shinto Abe, ma una approfondita revisione pubblica dell’accordo è necessaria prima di poter stabilire se il TPP è nell’interesse del Canada”.

State molto attenti, perché quello che c’è nel TPP è con grandissima probabilità quello che troveremo nel TTIP, quando la nostra Malmströmavrà finito di farsi i cazzi suoi in privato con le lobby e deciderà finalmente di pubblicare un testo che poi il Parlamento Europeo sarà chiamato ad approvare. Per quella data, dobbiamo essere pronti a fargli un culo così.

Ecco perché hanno ammazzato Gheddafi. Le email Usa che non vi dicono, scrive Claudio Messora il 9 gennaio 2016 su "Byo Blu". Il 31 dicembre scorso, su ordine di un tribunale, sono state pubblicate 3000 email tratte dalla corrispondenza personale di Hillary Clinton, transitate sui suoi server di posta privati anziché quelli istituzionali, mentre era Segretario di Stato. Un problema che rischia di minare seriamente la sua corsa alla Casa Bianca. I giornali parlano di questo caso in maniera generale, senza entrare nel dettaglio, ma alcune di queste email delineano con chiarezza il quadro geopolitico ed economico che portò la Francia e il Regno Unito alla decisione di rovesciare un regime stabile e tutto sommato amico dell’Italia, come la Libia di Gheddafi. Ovviamente non saranno i media mainstream generalisti a raccontarvelo, né quelli italiani né quelli di questa Europa che in quanto a propaganda non è seconda a nessuno, tantomeno a quel Putin spesso preso a modello negativo. A raccontarvelo non poteva essere che un blog, questa volta Scenari Economici di Antonio Rinaldi e del suo team, a cui vanno i complimenti. “Due terzi delle concessioni petrolifere nel 2011 erano dell’ENI, che aveva investito somme considerevoli in infrastrutture e impianti di estrazione, trattamento e stoccaggio. Ricordiamo che la Libia è il maggior paese produttore africano, e che l’Italia era la principale destinazione del gas e del petrolio libici. La email UNCLASSIFIED U.S. Department of State Case No. F-2014-20439 Doc No. C05779612 Date: 12/31/2015 inviata il 2 aprile 2011 dal funzionario Sidney Blumenthal (stretto collaboratore prima di Bill Clinton e poi di Hillary) a Hillary Clinton, dall’eloquente titolo “France’s client & Qaddafi’s gold”, racconta i retroscena dell’intervento franco-inglese. Li sintetizziamo qui. La Francia ha chiari interessi economici in gioco nell’attacco alla Libia. Il governo francese ha organizzato le fazioni anti-Gheddafi alimentando inizialmente i capi golpisti con armi, denaro, addestratori delle milizie (anche sospettate di legami con Al-Qaeda), intelligence e forze speciali al suolo. Le motivazioni dell’azione di Sarkozy sono soprattutto economiche e geopolitiche, che il funzionario USA  riassume in 5 punti: Il desiderio di Sarkozy di ottenere una quota maggiore della produzione di petrolio della Libia (a danno dell’Italia, NdR); Aumentare l’influenza della Francia in Nord Africa; Migliorare la posizione politica interna di Sarkozy; Dare ai militari francesi un’opportunità per riasserire la sua posizione di potenza mondiale; Rispondere alla preoccupazione dei suoi consiglieri circa i piani di Gheddafi per soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa Francofona. Ma la stessa mail illustra un altro pezzo dello scenario dietro all’attacco franco-inglese, se possibile ancora più stupefacente, anche se alcune notizie in merito circolarono già all’epoca. La motivazione principale dell’attacco militare francese fu il progetto di Gheddafi di soppiantare il Franco francese africano (CFA) con una nuova valuta pan africana. In sintesi Blumenthal dice: Le grosse riserve d’oro e argento di Gheddafi, stimate in 143 tonnellate d’oro e una quantità simile di argento, pongono una seria minaccia al Franco francese CFA, la principale valuta africana. L’oro accumulato dalla Libia doveva essere usato per stabilire una valuta pan-africana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano doveva dare ai paesi dell’Africa Francofona un’alternativa al franco francese CFA. La preoccupazione principale da parte francese è che la Libia porti il Nord Africa all’indipendenza economica con la nuova valuta pan-africana. L’intelligence francese scoprì un piano libico per competere col franco CFA subito dopo l’inizio della ribellione, spingendo Sarkozy a entrare in guerra direttamente e bloccare Gheddafi con l’azione militare.

Libia, le carte di Hillary Clinton: "La Francia distrusse l'Italia". La guerra che portò il caos in Libia venne scatenata dai francesi con l'avallo degli americani. L'obiettivo era uno solo: affermare la potenza transalpina ed eliminare ogni influenza italiana nel Maghreb, scrive Ivan Francese, Mercoledì 03/08/2016, su "Il Giornale". La guerra di Libia - un'altra - cent'anni dopo. Correva l'anno 2011, i dodici mesi che cambiarono il mondo ma soprattutto la storia d'Italia. Eravamo ormai abituati a ricordarlo come l'anno della caduta del governo Berlusconi IV e dell'arrivo dell'ultra-europeista Mario Monti a Palazzo Chigi dopo mesi di attacchi politici e finanziari (non senza speculazioni assai poco trasparenti). Tutti ricordiamo gli insopportabili risolini di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy al Consiglio Europeo del 23 ottobre 2011. Ebbene, ora su quei giorni cruciali potremmo apprendere qualcos'altro. Se possibile, qualcosa di ancora più inquietante. Come ha rilevato Scenarieconomici, spulciando fra le mail dell'allora Segretario di Stato UsaHillary Clinton si scopre che l'attacco internazionale che portò alla caduta del regime di Muhammar Gheddafi e all'uccisione del Colonnello venne lanciato solo ed esclusivamente per rispondere a precisi interessi geostrategici francesi, con l'avallo statunitense. A tutto detrimento degli interessi italiani. Certo, sapevamo già che la guerra voluta da Sarkozy era un mezzo per estromettere il nostro Paese dal controllo del petrolio libico, ma vederlo scritto nero su bianco resta comunque impressionante. E allora vediamo cosa contengono, quelle mail famigerate. Il 2 aprile del 2011 l'attuale candidata democratica alla Casa Bianca riceveva un messaggio dal suo consigliere per il Medio Oriente Sidney Bluementhal dai toni assai espliciti. Da quelle righe emerge infatti che il presidente francese dell'epoca, Sarkozy, ha finanziato e aiutato in ogni modo le fazioni anti gheddafiane con denaro, armi e addestratori, allo scopo di strappare più quote di produzione del petrolio in Libia e rafforzare la propria posizione tanto sul fronte politico esterno quanto su quello geostrategico globale. Di più. A motivare definitivamente la decisione dell'Eliseo di entrare nel conflitto sarebbe stato il progetto del raìs di soppiantare il franco francese africano con una nuova divisa pan-africana, nell'ottica di un'ascesa della Libia come potenza regionale in grado di raccogliere intorno a sè un'alleanza regionale di Stati. Sostituendo così proprio la Francia, a suon di oro e di argento (Gheddafi ne avrebbe conservate poco meno di trecento tonnellate). Le conseguenze dell'intervento sono storia nota, con la Libia precipitata in un'atroce guerra civile, l'Isis che spadroneggia sulle coste meridionali del Mediterraneo e un'ondata di migranti senza precedenti che si riversa sulle nostre coste. All'epoca l'Italia, all'oscuro di tutto, prese addirittura parte alla guerra contro Gheddafi, sia pure a malincuore. Ora però è chiaro che quella manovra, insieme all'attacco speculativo portatoci dalla Germania, aveva un solo obiettivo: l'Italia. Che ancora oggi ne sconta le terribili conseguenze.

Le mail segrete di Hillary smascherano Sarkò: da Gheddafi per un furto all'Italia, scrive Marco Gorra su "Libero Quotidiano” il 18 Gennaio 2016. Il sospetto che la storia della Francia che muove guerra a Gheddafi perché unicamente interessata ad «assumere il proprio ruolo di fronte alla storia» ed a «difendere i libici che vogliono liberarsi dalla schiavitù» (parola dell'allora presidente Nicolas Sarkozy) fosse una solenne presa in giro era venuto.  Adesso arrivano le conferme. E viene fuori che no, dietro la decisione di Parigi di rovesciare con le cattive il Colonnello di idealismo ce n' era ben poco. In compenso, c' erano altre considerazioni di carattere assai più venale: petrolio e quattrini. Due fondamentali interessi francesi in nome dei quali ci si è armati e si è partiti. E non solo chi, come i transalpini, aveva da guadagnarci. Ma anche chi, come l'Italia, dell'operazione ostile ordita a Parigi era la prima vittima designata.  A fare luce su quegli eventi del 2011 soccorrono oggi le famose mail di Hillary Clinton, recentemente desecretate in seguito alle polemiche divampate intorno ai famigerati server privati dell'ex Segretario di Stato. Nella mole di documenti declassificati, spiccano i messaggi inviati alla Clinton da Sidney Blumenthal, consigliere privato della signora e suo principale esperto sul campo di questioni libiche. Dal carteggio emergono le reali preoccupazioni dei francesi in ordine alla crisi libica. La prima è quella relativa al petrolio, business faraonico da cui le aziende transalpine erano tagliate fuori ad opera - anche - di quelle italiane (prima dell'inizio della guerra due terzi della concessioni erano dell'Eni). Tramite il riconoscimento preventivo del Cnt e la di esso successiva installazione al potere, Parigi contava di riequilibrare la situazione a proprio vantaggio: l'accordo coi ribelli era di trasferire in mano ai francesi, a titolo di ringraziamento per il supporto fornito, il 35% del crude oil del Paese. A questo scopo, elementi dell'intelligence francese avevano iniziato fin dalla primavera del 2011 a fornire supporto di ogni tipo agli anti-Gheddafi. La seconda preoccupazione dei francesi era di ordine monetario. Si trattava di impedire che il Colonnello desse seguito al proprio vecchio pallino di creare una valuta panafricana. All' uopo, Gheddafi era pronto ad impiegare le proprie riserve (143 tonnellate d' oro e quasi altrettante d' argento, per un valore complessivo di circa sette miliardi di dollari). Scenario da incubo per la Francia, dacché la nuova moneta avrebbe pensionato il franco Cfa, valuta creata nel '45 ed utilizzata da 14 ex colonie con svariati e benefici ricaschi per il Tesoro francese.  A completare il quadro dei veri motivi dietro all' attacco, secondo il carteggio, ci sono poi due grandi classici di queste situazioni: i sondaggi, con l'esigenza per Sarkozy di riguadagnare popolarità in vista delle incombenti elezioni presidenziali, e i militari, cui premeva avere un'occasione per riaffermare la propria posizione di potenza di livello mondiale. Come è andata a finire è cosa nota: l'azzardo di francesi e britannici funziona, Casa Bianca e Palazzo di Vetro danno l'ok e la guerra a Gheddafi si fa. Guerra in cui, pur avendo intuito che non sarebbe stato esattamente un affarone, partecipa anche l'Italia. Questione di qualche mese e il gioco è fatto: Gheddafi è rovesciato e al suo posto ci sono gli ormai ex ribelli del Cnt. I risultati non tardano ad arrivare: la moneta panafricana finisce in archivio prima ancora di essere nata e si procede alla grande redistribuzione del petrolio (in cui, ironia della sorte, i francesi porteranno a casa meno di quanto sperato a vantaggio di russi e cinesi). Soprattutto, l'influenza italiana nell' area si riduce drasticamente. Proprio come auspicato dall' inquilino dell'Eliseo. Marco Gorra 

I megaprogetti nei Balcani spianano la via alla Grande Eurasia. Hillary Clinton e l'orientamento del potere: è lei la vera candidata guerrafondaia alla Casa Bianca, scrive Andrea Spinelli Barrile su “ibtimes” l'1.03.2016 . Hillary Rodham Clinton è il candidato democratico che in questo momento sembra avere più chance non solo per la vittoria del Super Tuesday e delle primarie dell'asinello a stelle e strisce ma soprattutto per tornare ad essere inquilina alla Casa Bianca, dove ha già trascorso 8 anni come first lady. La candidata democratica, non è un mistero, piace ai colletti bianchi di Wall Street, piace ai neoconservatori - un editoriale di Robert Kagan sul Washington Post del 25 febbraio è qualcosa di più di un endorsement – e alla medio-alta borghesia americana, mentre meno gradita sembra essere sia alla base del partito democratico che ai “poorly educated” (questi ultimi vanno pazzi per Donald Trump). Questo fa di Hillary Clinton una sorta di Matteo Renzi, con qualche anno e diversi chilometri in più sul curriculum, dell'era post-ideologica americana? Non esattamente. In realtà la signora Clinton è quanto di più vicino ci sia all'establishment americano e alle lobby, almeno tra i vari candidati alla Casa Bianca. Compreso Donald Trump. Un interessante profilo della signora Clinton lo ha pubblicato l'Huffington Post americano. Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute presso la Columbia University, descrive così il background della candidata democratica: “Gli stretti rapporti di Hillary e Bill Clinton con Wall Street contribuirono ad alimentare due bolle finanziarie (1999-2000 e 2005-2008) e la Grande Recessione che seguì il tracollo di Lehman. […] Anche i legami di Hillary con il complesso militare-industriale sono inquietanti”. Nel nostro immaginario i democratici sono quelli che cercano di fare da contrappeso alla sete guerrafondaia repubblicana nel Congresso ma anche in questo Hillary si dimostra essere una democratica piuttosto atipica. È stato evidente nel dibattito televisivo di sabato sera tra i candidati dem: la Clinton ha sempre difeso la scelta della missione NATO in Libia nel 2011, che ha eliminato Gheddafi e fatto sprofondare il Paese nordafricano nel caos assoluto, ma nell'ultimo dibattito è andata leggermente oltre. Alla domanda su quali fossero le responsabilità dell'allora Segretario di Stato Hillary Clinton sulla realtà libica di oggi ha risposto così: “Non mi arrendo sulla Libia, penso che nessuno debba farlo. […] C'è sempre una retrospettiva, uno spazio per dire 'quali errori sono stati fatti' ma io so che abbiamo offerto molto aiuto e so che è stato difficile per i libici accettarlo”. In quella frase c'è tutta l'esperienza in politica estera della signora Clinton: da first lady, da senatrice e da Segretario di Stato Hillary Clinton ha appoggiato sempre e incondizionatamente qualsiasi guerra gli Stati Uniti abbiano intrapreso da quando lei è sulla scena politica. Secondo Sachs tutto ebbe inizio il 31 ottobre 1998: l'allora Presidente Bill Clinton firmava il Decreto per la Liberazione dell'Iraq rendendo ufficiale la strategia atta al “cambiamento di regime” nel paese mediorientale, la base legislativa sulla quale è stato costruito l'intervento armato dal suo successore George W. Bush. Nel 2003, quando il Congresso fu chiamato a decidere se bombardare o meno l'Iraq sulla base delle prove - risultate fasulle - fornite dalla CIA Hillary Clinton, allora senatrice, non esitò a sostenere quell'intervento armato, costato uno sproposito in termini economici per gli USA e geopolitici per la stabilità del Medio Oriente. L'anno successivo al decreto sull'Iraq ci fu la guerra in Kosovo. Il 24 marzo 1999 la signora Clinton si trovava in viaggio in Africa quando telefonò al marito: “Lo esortai a bombardare” disse alla giornalista Lucinda Franks qualche anno dopo. Quel frangente e la schiena dritta tenuta durante lo scandalo sexgate alla fine del secondo mandato del marito connotano il carattere di Hillary Clinton, determinato e power-oriented: la ragion di Stato (o di famiglia) su tutto. Dopo 8 anni di Bush jr un Premio Nobel per la Pace, il democratico Barack Obama, diventò il primo presidente nero degli Stati Uniti. E con lui Hillary Clinton divenne la prima ex-first lady a diventare Segretario di Stato, che in America è il vero numero due del Presidente: nel periodo in cui la signora Clinton è stata Segretario di Stato gli Stati Uniti hanno inanellato una serie di insuccessi e di scelte militariste sbagliate che non hanno precedenti nella storia moderna americana. Il 21 aprile 2009 Hillary Clinton riceveva alla Segreteria di Stato Mutassim Gheddafi, figlio del Colonnello, all'epoca a capo della sicurezza nazionale libica: “Sono onorata di dare il benvenuto al ministro Gheddafi […] apprezziamo il valore profondo delle nostre relazioni e avremo molte occasioni di approfondire e ampliare la nostra collaborazione”. Mutassim, tra i figli di Gheddafi quello più simile al padre, sfoggiò un sorriso magnetico mentre stringeva la mano alla Clinton. Il 20 ottobre 2011 la stessa Hillary Clinton, preparandosi a un'intervista con la CBS, riceveva durante un fuori onda – ripreso ugualmente dall'operatore - l'inattesa notizia della cattura di Gheddafi sul BlackBerry di una sua collaboratrice: “Wow” esclamò con l'aria sinceramente sorpresa “ci sono notizie non confermate sulla cattura di Gheddafi”. Pochi minuti dopo, prima di cominciare a girare, sistemandosi la giacca e con un sorriso estatico sul volto, rivolgendosi alla giornalista, la signora Clinton declinò addirittura Giulio Cesare: “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto!”. Era il periodo nel quale gli Stati Uniti, e la signora Clinton, si esprimevano con dichiarazioni infuocate anche verso il Presidente siriano Bashar al-Assad: nel mese di agosto la Clinton suggeriva ad Assad di “togliersi di torno”, sposando in toto la teoria della CIA e dell'Arabia Saudita che la rimozione del dittatore siriano sarebbe stata rapida, priva di costi e sicuramente un successo. Il risultato di quelle scelte lo osserviamo oggi, ma ci serve un mappamondo per guardarlo tutto: la crisi è diffusa in un'area che va dal Mali fino all'Afghanistan – e si allarga verso est – e nel cuore di questo grande spazio ci sono due scenari apocalittici: Libia e Siria. Durante il periodo da Segretario di Stato Hillary Clinton ha avuto un'influenza enorme sul Presidente Barack Obama, determinante per alcune scelte determinanti in politica estera, e spesso è stato proprio il parere della signora Clinton a far prendere a Obama una decisione piuttosto che un'altra. Nella vita reale, le scelte dell'amministrazione americana durante il periodo di Hillary Clinton alla Segreteria di Stato possono essere rappresentate tramite un numero: 10 milioni di profughi siriani, che quando non muoiono sotto le bombe, di fame durante il viaggio, di malattie nei campi profughi o annegati nel Mediterraneo, si ritrovano in Europa alimentando una crisi politica senza precedenti, indebolendo paesi già in difficoltà come Grecia e Italia e creando una realtà che sta minando alla base i valori fondanti della stessa Unione Europea. Ma l'operato della signora Clinton non riguarda soltanto il Medio Oriente e il nord Africa: da senatrice Hillary ha approvato, votandola, la Risoluzione 439 del Senato che permise l'inclusione di Ucraina e Georgia nella NATO, un atto che fu l'embrione di quella che oggi la Russia definisce “nuova Guerra Fredda”. Gli americani negano, ma le operazioni di rafforzamento dei contingenti americani in Europa sono un dato di fatto che racconta una storia diversa da quella ufficiale. Il suo successore come Segretario di Stato John Kerry è ancora al lavoro per riparare i buchi immensi provocati dalla sete di bombe della signora Clinton: lo scenario libico, raccontato in questo articolo di grande giornalismo del New York Times, è oggi la conseguenza di numerose scelte scellerate fatte da Hillary Clinton ed oggi un Paese con una popolazione inferiore a quella dello stato del Tennessee preoccupa due colossi mondiali come gli Stati Uniti e l'Unione Europea: “Abbiamo avuto un'occasione d'oro per ridare vita a questo paese. Purtroppo quel sogno si è infranto” ha detto Mahmoud Jibril, che fu primo ministro ad interim del governo provvisorio nato durante la rivoluzione libica. Era stato il principale interlocutore di Hillary Clinton prima che morisse Gheddafi. 

Email di Hillary, dinari d’oro e Primavera araba, scrive F. William Engdahl, New Eastern Outlook il 17 marzo 2016. Sepolto tra decine di migliaia di pagine e-mail segrete dell’ex-segretaria di Stato Hillary Clinton, ora rese pubbliche dal governo degli Stati Uniti, c’è un devastante scambio di e-mail tra Clinton e il suo confidente Sid Blumenthal su Gheddafi e l’intervento degli Stati Uniti coordinato nel 2011 per rovesciare il governante libico. Si tratta dell’oro quale futura minaccia esistenziale al dollaro come valuta di riserva mondiale. Si trattava dei piani di Gheddafi per il dinaro-oro per l’Africa e il mondo arabo. Due paragrafi in una e-mail di recente declassificate dal server privato illegalmente utilizzato dall’allora segretaria di Stato Hillary Clinton durante la guerra orchestrata dagli Stati Uniti per distruggere la Libia di Gheddafi nel 2011, rivelano l’ordine del giorno strettamente segreto della guerra di Obama contro Gheddafi, cinicamente chiamata “Responsabilità di proteggere”. Barack Obama, presidente indeciso e debole, delegò tutte le responsabilità presidenziali della guerra in Libia alla segretaria di Stato Hillary Clinton, prima sostenitrice del “cambio di regime” arabo utilizzando in segreto i Fratelli musulmani ed invocando il nuovo bizzarro principio della “responsabilità di proteggere” (R2P) per giustificare la guerra libica, divenuta rapidamente una guerra della NATO. Con l’R2P, concetto sciocco promosso dalle reti dell’Open Society Foundations di George Soros, Clinton affermava, senza alcuna prova, che Gheddafi bombardasse i civili libici a Bengasi. Secondo il New York Times, citando fonti di alto livello dell’amministrazione Obama, fu Hillary Clinton, sostenuta da Samantha Power, collaboratrice di primo piano al Consiglio di Sicurezza Nazionale e oggi ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e Susan Rice, allora ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e ora consigliere per la Sicurezza Nazionale, che spinse Obama all’azione militare contro la Libia di Gheddafi. Clinton, affiancata da Powers e Rice, era così potente che riuscì a prevalere sul segretario alla Difesa Robert Gates, Tom Donilon, il consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, e John Brennan, capo antiterrorismo di Obama ed oggi capo della CIA. La segretaria di Stato Clinton guidò la cospirazione per scatenare ciò che venne soprannominata “primavera araba”, l’ondata di cambi di regime finanziati dagli USA nel Medio Oriente arabo, nell’ambito del progetto del Grande Medio Oriente presentato nel 2003 dall’amministrazione Bush dopo l’occupazione dell’Iraq. I primi tre Paesi colpiti dalla “primavera araba” degli USA nel 2011, in cui Washington usò le sue ONG per i “diritti umani” come Freedom House e National Endowment for Democracy, in combutta come al solito con le Open Society Foundations dello speculatore miliardario George Soros, insieme al dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ad agenti della CIA, furono la Tunisia di Ben Ali, l’Egitto di Mubaraq e la Libia di Gheddafi. Ora tempi e obiettivi di Washington della destabilizzazione via “primavera araba” del 2011 di certi Stati in Medio Oriente assumono nuova luce in relazione alle email declassificate sulla Libia di Clinton con il suo “consulente” e amico Sid Blumenthal. Blumenthal è l’untuoso avvocato che difese l’allora presidente Bill Clinton nello scandalo sessuale di Monika Lewinsky quando era Presidente e affrontava l’impeachment. Per molti rimane un mistero perché Washington abbia deciso che Gheddafi dovesse essere ucciso, e non solo esiliato come Mubaraq. Clinton, quando fu informata del brutale assassinio di Gheddafi da parte dei terroristi di al-Qaida dell' “opposizione democratica” finanziata dagli USA, pronunciò alla CBS News una perversa parafrasi di Giulio Cesare, “Siamo venuti, l’abbiamo visto, è morto” con una fragorosa risata macabra. Poco si sa in occidente di ciò che Muammar Gheddafi fece in Libia o anche in Africa e nel mondo arabo. Ora, la divulgazione di altre e-mail di Hillary Clinton da segretaria di Stato, al momento della guerra di Obama a Gheddafi, getta nuova drammatica luce. Non fu una decisione personale di Hillary Clinton eliminare Gheddafi e distruggerne lo Stato. La decisione, è ormai chiaro, proveniva da ambienti molto potenti dell’oligarchia monetaria degli Stati Uniti. Era un altro strumento a Washington del mandato politico di tali oligarchi. L’intervento era distruggere i piani ben definiti di Gheddafi per creare una moneta africana e araba basata sull’oro per sostituire il dollaro nei traffici di petrolio. Da quando il dollaro USA ha abbandonato il cambio in oro nel 1971, il dollaro rispetto all’oro ha perso drammaticamente valore. Gli Stati petroliferi dell’OPEC hanno a lungo contestato il potere d’acquisto evanescente delle loro vendite di petrolio, che dal 1970 Washington impone esclusivamente in dollari, mentre l’inflazione del dollaro arrivava ad oltre il 2000% nel 2001. In una recentemente declassificata email di Sid Blumenthal alla segretaria di Stato Hillary Clinton, del 2 aprile 2011, Blumenthal rivela la ragione per cui Gheddafi andava eliminato. Utilizzando il pretesto citato da una non identificata “alta fonte”, Blumenthal scrive a Clinton, “Secondo le informazioni sensibili disponibili a questa fonte, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento… l’oro fu accumulato prima della ribellione ed era destinato a creare una valuta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano era volto a fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (CFA)“. Tale aspetto francese era solo la punta dell’iceberg del dinaro d’oro di Gheddafi. Nel primo decennio di questo secolo, i Paesi OPEC del Golfo persico, tra cui Arabia Saudita, Qatar e altri, iniziarono seriamente a deviare una parte significativa dei ricavi delle vendite di petrolio e gas sui fondi sovrani, basandosi sul successo dei fondi petroliferi norvegesi. Il crescente malcontento verso la guerra al terrorismo degli Stati Uniti, con le guerre in Iraq e Afghanistan e la loro politica in Medio Oriente dal settembre 2001, portò la maggior parte degli Stati arabi dell’OPEC a deviare una quota crescente delle entrate petrolifere su fondi controllati dallo Stato, piuttosto che fidarsi delle dita appiccicose dei banchieri di New York e Londra, come era solito dagli anni ’70, quando i prezzi del petrolio schizzarono alle stelle creando ciò che Henry Kissinger affettuosamente chiamò “petrodollaro” per sostituire il dollaro-oro che Washington mollò il 15 agosto 1971. L’attuale guerra tra sunniti e sciiti o lo scontro di civiltà sono infatti il risultato delle manipolazioni degli Stati Uniti nella regione dal 2003, il “divide et impera”. Nel 2008 la prospettiva del controllo sovrano in un numero crescente di Stati petroliferi africani ed arabi dei loro proventi su petrolio e gas causava gravi preoccupazioni a Wall Street e alla City di Londra. Un’enorme liquidità, migliaia di miliardi, che potenzialmente non potevano più controllare. La primavera araba, in retrospettiva, appare sempre più sembra legata agli sforzi di Washington e Wall Street per controllare non solo gli enormi flussi di petrolio dal Medio Oriente arabo, ma ugualmente lo scopo era controllarne il denaro, migliaia di miliardi di dollari che si accumulavano nei nuovi fondi sovrani. Tuttavia, come confermato dall’ultimo scambio di email Clinton-Blumenthal del 2 aprile 2011, dal mondo petrolifero africano e arabo emergeva una nuova minaccia per gli “dei del denaro” di Wall Street e City di Londra. La Libia di Gheddafi, la Tunisia di Ben Ali e l’Egitto di Mubaraq stavano per lanciare la moneta islamica indipendente dal dollaro USA e basata sull’oro. Mi fu detto di questo piano nei primi mesi del 2012, in una conferenza finanziaria e geopolitica svizzera, da un algerino che sapeva del progetto. La documentazione era scarsa al momento e la storia mi passò di mente. Ora un quadro molto più interessante emerge indicando la ferocia della primavera araba di Washington e l’urgenza del caso della Libia. Nel 2009 Gheddafi, allora Presidente dell’Unione africana, propose che il continente economicamente depresso adottasse il “dinaro d’oro”. Nei mesi precedenti la decisione degli Stati Uniti, col sostegno inglese e francese, di aver una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per aver la foglia di fico del diritto alla NATO di distruggere il regime di Gheddafi, Muammar Gheddafi organizzò la creazione del dinaro-oro che sarebbe stato utilizzato dagli Stati africani petroliferi e dai Paesi arabi dell’OPEC per vendere petrolio sul mercato mondiale. Al momento Wall Street e City di Londra erano sprofondati nella crisi finanziaria del 2007-2008, e la sfida al dollaro quale valuta di riserva l’avrebbe aggravata. Sarebbe stata la campana a morto per l’egemonia finanziaria statunitense e il sistema del dollaro. L’Africa è uno dei continenti più ricchi del mondo, con vaste inesplorate ricchezze in minerali ed oro, volutamente mantenuto per secoli sottosviluppato o preda di guerre per impedirne lo sviluppo. Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale negli ultimi decenni furono gli strumenti di Washington per sopprimere un vero sviluppo africano. Gheddafi invitò i Paesi produttori di petrolio africani dell’Unione africana e musulmani ad entrare nell’alleanza che avrebbe fatto del dinaro d’oro la loro valuta. Avrebbero venduto petrolio e altre risorse a Stati Uniti e resto del mondo solo in dinari d’oro. In qualità di Presidente dell’Unione africana, nel 2009 Gheddafi presentò all’Unione Africana la proposta di usare il dinaro libico e il dirham d’argento come unico denaro con cui il resto del mondo poteva comprare il petrolio africano. Insieme ai fondi sovrani arabi dell’OPEC, le altre nazioni petrolifere africane, in particolare Angola e Nigeria, creavano i propri fondi nazionali petroliferi quando nel 2011 la NATO bombardava la Libia. Quei fondi nazionali sovrani, legati al concetto del dinaro d’oro di Gheddafi, avrebbe realizzato il vecchio dell’Africa indipendente dal controllo monetario coloniale, che fosse sterlina, franco francese, euro o dollaro statunitense. Gheddafi attuava, come capo dell’Unione africana, al momento dell’assassinio, il piano per unificare gli Stati sovrani dell’Africa con una moneta d’oro negli Stati Uniti d’Africa. Nel 2004, il Parlamento panafricano di 53 nazioni aveva piani per la Comunità economica africana, con una moneta d’oro unica entro il 2023. Le nazioni africane produttrici di petrolio progettavano l’abbandono del petrodollaro e di chiedere pagamenti in oro per petrolio e gas; erano Egitto, Sudan, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Congo, Repubblica democratica del Congo, Tunisia, Gabon, Sud Africa, Uganda, Ciad, Suriname, Camerun, Mauritania, Marocco, Zambia, Somalia, Ghana, Etiopia, Kenya, Tanzania, Mozambico, Costa d’Avorio, oltre allo Yemen che aveva appena scoperto nuovi significativi giacimenti di petrolio. I quattro Stati africani nell’OPEC, Algeria, Angola, Nigeria, gigantesco produttore di petrolio e primo produttore di gas naturale in Africa dagli enormi giacimenti di gas, e la Libia dalle maggiori riserve, avrebbero aderito al nuovo sistema del dinaro d’oro. Non c’è da stupirsi che il presidente francese Nicolas Sarkozy, che da Washington ricevette il proscenio della guerra contro Gheddafi, arrivò a definire la Libia una “minaccia” alla sicurezza finanziaria del mondo. Una delle caratteristiche più bizzarre della guerra di Hillary Clinton per distruggere Gheddafi fu che i “ribelli” filo-USA di Bengasi, nella parte petrolifera della Libia, nel pieno della guerra, ben prima che fosse del tutto chiaro che avrebbero rovesciato il regime di Gheddafi, dichiararono di aver creato una banca centrale di tipo occidentale “in esilio”. Nelle prime settimane della ribellione, i capi dichiararono di aver creato una banca centrale per sostituire l’autorità monetaria dello Stato di Gheddafi. Il consiglio dei ribelli, oltre a creare la propria compagnia petrolifera per vendere il petrolio rubato, annunciò: “la nomina della Banca Centrale di Bengasi come autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia, e la nomina del governatore della Banca centrale della Libia, con sede provvisoria a Bengasi”. Commentando la strana decisione, prima che l’esito della battaglia fosse anche deciso, di creare una banca centrale per sostituire la banca nazionale sovrana di Gheddafi che emetteva dinari d’oro, Robert Wenzel del Economic Policy Journal, osservò, “non ho mai sentito parlare di una banca centrale creata poche settimane dopo una rivolta popolare. Ciò suggerisce che c’è qualcos’altro che non una banda di straccioni ribelli e che ci sono certe piuttosto sofisticate influenze”. È chiaro ora, alla luce dei messaggi di posta elettronica Clinton-Blumenthal, che tali “influenze abbastanza sofisticate” erano legate a Wall Street e City di Londra. La persona inviata da Washington a guidare i ribelli nel marzo 2011, Qalifa Haftar, aveva trascorso i precedenti venti anni in Virginia, non lontano dal quartier generale della CIA, dopo aver lasciato la Libia quando era uno dei principali comandante militari di Gheddafi. Il rischio per il futuro del dollaro come valuta di riserva mondiale, se Gheddafi avesse potuto procedere insieme a Egitto, Tunisia e altri Stati arabi di OPEC e Unione Africana, introducendo le vendite di petrolio in oro e non dollari, sarebbe stato chiaramente l’equivalente finanziario di uno tsunami. Il sogno di Gheddafi di un sistema basato sull’oro arabo e africano indipendente dal dollaro, purtroppo è morto con lui. La Libia, dopo la cinica “responsabilità di proteggere” di Hillary Clinton che ha distrutto il Paese, oggi è lacerata da guerre tribali, caos economico, terroristi di al-Qaida e SIIL. La sovranità monetaria detenuta dal 100% dalle agenzie monetarie nazionali statali di Gheddafi e la loro emissione di dinari d’oro, è finita sostituita da una banca centrale “indipendente” legata al dollaro. Nonostante ciò, va notato che ora un nuovo gruppo di nazioni si unisce per costruire un sistema monetario basato sull’oro. Questo è il gruppo guidato da Russia e Cina, terzo e primo Paesi produttori di oro nel mondo. Questo gruppo è legato alla costruzione del grande progetto infrastrutturale eurasiatico della Nuova Via della Seta della Cina, comprendente 16 miliardi di fondi in oro per lo sviluppo della Cina, decisa a sostituire City di Londra e New York come centri del commercio mondiale dell’oro. L’emergente sistema d’oro eurasiatico pone ora una serie completamente nuova di sfide all’egemonia finanziaria statunitense. Questa sfida eurasiatica, riuscendo o fallendo, deciderà se la nostra civiltà potrà sopravvivere e prosperare in condizioni completamente diverse, o affondare con il fallimentare sistema del dollaro. F. William Engdahl è consulente di rischio strategico e docente, laureato in politica alla Princeton University, è autore di best-seller su petrolio e geopolitica, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook”. Traduzione del 12 luglio 2016 di Alessandro Lattanzio – SitoAurora.

Modesto contributo alla chiacchiera su guerra di religione. In forma di catechismo, scrive Maurizio Blondet il 29 luglio 2016. Un caro lettore, travolto come tutti dallo stato d’animo collettivo indotto, mi ha scritto: “Stamani tutti i media riportano queste parole di Bergoglio che quella in essere non è una guerra di religione. Ovviamente il senso della gente comune sa che questa è una menzogna. Non riesco a capire la logica di questo messaggio subito ripreso, ad esempio, dal presidente della repubblica. Spero possa accennare una risposta in un suo prossimo articolo. La ringrazio. Prego per Lei e la sua famiglia.” Mi sono quindi risolto a riportare qualche argomento di cui il nostro amico - e chiunque vorrà interloquire nella chiacchiera frenetica sulla guerra di religione in corso -  potrà fare riferimento.   Sul terrorismo islamico, riporto fatti incontrovertibili. Sotto forma di catechismo, così spero sia più semplice. Il terrorismo islamico non esisteva “prima”. Esisteva il terrorismo islamico, “prima”? Ossia quando l’Afghanistan era sotto un governo comunista, l’Irak sotto Saddam Hussein, l’Egitto governato da Mubarak, la Siria dalla famiglia Assad e la Libia da Gheddafi? No. Quelli erano regimi laici, modernizzanti, nazionalisti –   ossia promotori attivi dell’unità nazionale, al disopra delle plurime entità etniche e religiose che governavano. Per questo erano ostili ad ogni islamismo settario.  Lo tenevano a freno, se si manifestava nel loro stati.   In Irak e in Siria, le minoranze cristiane erano rispettate e spesso, anzi, erano la spina dorsale di quei regimi. Chi ha fatto cadere quei regimi con forze militari imponenti, destabilizzandone i paesi, gettandoli nel caos e nella guerra intestina? Gli Stati Uniti: alla testa di coalizioni occidentali, a cui hanno partecipato Gran Bretagna, Francia, stati membri della NATO oppure no, come Australia o Polonia (nella prima guerra del Golfo); la NATO ha preso il controllo dell’Afghanistan (missione ISAF). Per quale motivo l’Occidente a guida americana ha messo a ferro e fuoco quei paesi, massacrato i loro governanti anti-islamisti, e li ha gettati nel caos in mano a forze settarie? In esecuzione del piano israeliano (detto Piano Kivunim) che dal 1982 propugnava   la spaccatura di questi Stati “secondo le loro linee di   frattura etniche e religiose”. Nella rivista ebraica Kivunim, si leggeva al proposito: “l’Iraq, ricco di petrolio e lacerato internamente, è sicuramente un candidato degli obiettivi d’Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L’Iraq è più forte della Siria. … Ogni confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada all’obiettivo più importante, spezzare l’Iraq in domini come Siria e Libano. In Iraq, la divisione in province lungo linee etno-religiose, come in Siria durante il periodo ottomano, è possibile. Così esisteranno almeno tre Stati attorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul, e le aree sciite del sud si separeranno dal nord sunnita e curdo. … L’intera penisola arabica è un candidato naturale della dissoluzione su pressioni interne ed esterne, e la questione è inevitabile soprattutto per l’Arabia Saudita”.   Israele non poteva sentirsi sicura senza creare il caos attorno a sé. Ma perché il governo Usa avrebbe aderito a questo piano? Perché vi conversero gli interessi petroliferi (esemplificati da Dick Cheney, presidente della Halliburton) e il sistema militare-industriale.    Si aggiunga il regno dei Saud, che vide il proprio interesse in questo progetto per ragioni settarie: portatore della versione più reetriva del Sunnismo (il wahabismo) voleva distruggere gli Sciit, e segnatamente l’Iran.  Quando Bush figlio prese la presidenza, attorno a lui tutto era pronto per questo progetto. Quando si è sentito parlare per la prima volta di “terrorismo islamico”? L’11 Settembre 2001, quando gli Stati Uniti sono stati proditoriamente aggrediti da un gruppo di terroristi islamici che hanno dirottato dei Boeing e li hanno lanciati contro le Twin Tower e il Pentagono, facendo oltre 3 mila morti.  I terroristi erano guidati da Osama Bin Laden. Chi era Osama Bin Laden? Era un   miliardario saudita la cui famiglia è amica, e socia in affari, della famiglia Bush. Aiutò gli americani a rovesciare il regime comunista in Afghanistan negli anni ’80; per loro arruolò migliaia di combattenti in tutto il Medio Oriente per mandarli a debellare i sovietici: con armamenti americani, e instaurare un regime religioso’, composto dai Talebani (studenti islamici preparati in Pakistan).  Questa organizzazione agli ordini americani si chiamava Al Qaeda (database – l’elenco degli arruolati). Quando Bin Laden è diventato nemico degli Usa? Improvvisamente. Ancora il 9 settembre 2001, due sue uomini (fingendosi giornalisti) uccisero il generale Massoud, il Leone del Panshir, inviso agli americani perché sarebbe stato in grado – come eroe nazionale – di unificare e stabilizzare l’Afghanistan.   L’intelligence francese sostenne che il capostazione della Cia andò a far visita a Bin Laden all’ospedale americano di Dubai a luglio, dove era ricoverato per dialisi. Lo scrisse il Figaro, senza essere smentito.  Dunque il 9 settembre era ancora amico, e il 21 era divenuto nemico degli Usa. Ma queste   sono ipotesi complottiste, che non si possono dimostrare! Lo disse il generale Wesley Clark, che era stato capo della NATO durante l’intervento in Kossovo: il giorno dopo l’11 Settembre, andò al Pentagono e un ufficiale suo amico, che aveva appena parlato col ministro (Donald Rumsfeld), lo chiamò nell’ufficio, chiuse la porta e gli sussurrò, incredulo: “Andiamo ad attaccare 7 paesi in 5 anni.  Adesso cominciamo con l’Irak, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, e per finire, Iran”.  D’accordo, però nella religione islamica è insita la violenza, il jihad, la conversione forzata. Sì, certo.  Però era un aspetto dormiente, e tenuto a freno dai governi laici di Irak, Siria, Libia.  Quell’aspetto atroce dell’Islam fu risvegliato e istigato volontariamente. Gruppi fanatici furono armati ed addestrati apposta. Anche questa è una teoria complottista senza alcuna prova! Sempre il generale Wesley Clark – ricordo, l’ex comandante supremo NATO in Europa – disse alla CNN kil 21 febbraio 2015: “Abbiamo reclutato Zeloti e estremisti takfiri”, creato “un Frankenstein”; in quell’intervista spiegò anche: “L’ISIS è stato creato dai nostri alleati per battere fino alla morte Hezbollah”. Intendeva: creato dalla monarchia Saudita per debellare la componente sciita che vive in Libano, Hezbollah. Dunque gli Usa avrebbero creato, o lasciato creare, i movimenti   terroristico-jihadisti, per poi combatterli? Ma è assurdo! A che scopo? Secondo Samuel Huntington, che è il principale scienziato politico americano, la cosa è utile al potere americano. Egli scrisse nel 1996 un saggio, “Scontro di Civiltà e Nuovo Ordine Mondiale”, in cui profetizzò che “la principale fonte di conflitti nel mondo post-Guerra fredda diverranno le identità culturali e religiose”; non ci saranno più guerre fra Stati fra “civiltà”.  Di fatto, ragionava Huntington, dopo la caduta dell’Urss dove trovare un nemico comune che tenga unito l’Occidente sotto la guida americana? Lo scontro di civiltà era la risposta; e la lotta all’Islam, una   popolosa cultura “aliena” e poco solubile nel nuovo ordine mondiale, era la soluzione. Che piaceva anche a Israele e alla lobby giudaica a Washington. E questa strategia ha avuto successo? Sì, il piano Kivunim ha avuto successo. Tutti i paesi islamici circostanti Israele, e quasi tutti quelli più lontani, sono sconvolti da lotte intestine etnico-religiose: sciiti contro sunniti, curdi contro turchi, cirenaici contro tripolitani, alawiti contro sunniti….   Nessuno di questo tornerà più ad essere uno Stato ordinato, quindi che possa rappresentare un pericolo politico o militare per Israele.   Il progetto però è incompiuto in due casi: l’Iran non è stato ancora destabilizzato (troppo grosso e lontano), e i tentativi di Israele di indurre Washington a bombardarne le centrali nucleari è andato finora a vuoto; e la Siria. Qui la caduta del regime laico di Assad è stata sventata dalla Russia, che l’aiuta militarmente; ed anche dal fatto che le minoranze siriane non si battono contro il regime in numero sufficiente, né aderiscono al jihadismo di ISI e Al Qaeda, preferendo di fuggire come profughi. Al punto che oggi a combattere in Siria contro Assad non sono le opposizioni siriane, ma jihadisti ceceni, azeri, europei reclutati in Francia, Belgio Gran Bretagna, e spesso   attratti dalle paghe: reclutati come mercenari coi soldi Sauditi e l’addestramento della Cia. Però adesso l’ISIS manda i suoi terroristi in Europa. L’ISIS? Abbiamo visto che si tratta di una creazione americano-saudita. Gli israeliani li sostengono nella lotta in Siria, silenziosamente, curano i feriti del Califfato nei loro ospedali (esiste ampia documentazione). Gli americani stanno ostacolando le azioni militari russe; hanno intimato a Putin di non colpire Al Nusra (nome nuovo di Al Qaeda) perché quelli sono “l’opposizione democratica” che intendono mettere al potere in Siria, dopo detronizzato Assad.   Comunque l’ISIS ha il suo daffare a difendersi, altro che spedire jihadisti in Europa. Però rivendica tutti gli attentati islamici che avvengono sempre più spesso in Europa. Le rivendicazioni sono opportuniste. E   lei è proprio sicuro che sia l’ISIS a farle? Dopotutto, le rivendicazioni dell’ISI vengono diffuse dal SITE, un’azienda della israeliano-americana Rita Katz. Sono tutte probabilmente false, create dalla propaganda israeliana. Ma   i jihadisti ammazzano davvero! A Nizza, a Rouen hanno ammazzato il prete! Non è questa guerra di religione? E’ scontro di civiltà come voleva Huntington.  È strategia della tensione: qualcuno vuole tenere gli europei nella paura. Diversi esponenti israeliani   hanno detto: “è bene che gli europei provino quello che proviamo noi, che quando andiamo al ristorante non siamo sicuri di tornare a casa”, perché un palestinese può accoltellarli.  Anche certi governi europei possono trovare conveniente tenere i loro cittadini nella tensione e nella paura, nel clima della lotta perpetua al Nemico Islamico, che è fra noi e colpisce quando vuole. Il Piano Kivunim, tradotto in inglese dall’ebraico dal compianto amico Israel Shahak. Come scrisse Orwell nel suo “1984”, dove immagina uno stato totalitario futuro: “C’erano   attentati continui e ingiustificati. Fatti a caso.  Servivano allo Stato per limitare le libertà dei cittadini.   Ad ogni attentato, si facevano leggi restrittive della libertà!” Ma qui siamo in democrazia! Sì, certo. Hollande però ha approfittato degli attentati per prolungare lo stato di emergenza, ossia leggi restrittive della libertà dei cittadini. Ma non dirà che   sono gli stessi governi a indurre due diciannovenni islamici a sgozzare il povero prete a Rouen. Quelli hanno agito spontaneamente, a nome dell’ISIS. Certamente. E’ un meccanismo che noi italiani conosciamo bene. Negli anni di piombo, di strategia della tensione, le Brigate Rosse commettevano omicidi; ebbene, più ne commettevano, più trovavano favore nelle fabbriche e nelle scuole, fra frange notevoli di studenti e di operai “di sinistra”. E anche molti intellettuali simpatizzavano: “Né con lo stato né con le BR”, scrissero in molti. I più giovani e suggestionabili, sognavano di arruolarsi nelle Brigate Rosse, cercavano contatti, volevano andare in clandestinità – era uno stato d’animo collettivo, ed era anche una moda travolgente.  Oggi sappiamo che strategia della tensione e BR erano “gestite” da servizi esteri e da Gladio, organizzazione clandestina della NATO. Ma i giovani di allora erano sedotti da quello stato d’animo, sparavano “spontaneamente”. Come i marginali di oggi in Europa, col nome e cognome islamico, sono sedotti da un ISIS – che è una creazione americana. Non mi ha convinto…Lo so. So che lei è sotto influsso psico-emotivo dello stato d’animo collettivo che ci vuole spaventati: l’Islam ci attacca! E’ una guerra di religione! Sì, è una guerra di religione. Indotta, però, da centrali che hanno fatto di tutto per provocarla.  Le centrali di cui sopra vogliono che la civiltà europea venga devastata – come hanno voluto la devastazione di Palmyra in Siria – e scompaia. Ma perché? Perché la cultura e civiltà europea, greco-romana e cristiana, formava uomini liberi, e il potere globale non vuole liberi, ma consumatori. Perché odiano Cristo e la sua civiltà.  Perché quelle centrali – diciamo, gli usurai (per usare un termine poundiano) mai hanno avuto la capacità di edificare un Partenone, un Pantheon; mai hanno prodotto nulla che ricordi anche lontanamente Fidia o Caravaggio, né tra di loro è mai nato un Dostojewski, o uno Shakespeare o un Dante. I loro scrittori sono dei pornografi.  La loro “arte” è quella del MOMA di New York, una bruttezza che si vendono e comprano tra loro a prezzi stratosferici; bruttezza che si accompagna necessariamente alla menzogna e all’odio per il Vero: Vero e Bello sono la stessa cosa, diceva Tommaso d’Aquino. Vogliono renderci come loro. Spaventati e pieni d’odio e d’invidia per il genere umano.

Perché DAESH vuole Killary presidente. Proprio come tutti i Katz, scrive Maurizio Blondet il 2 agosto 2016. Come si diceva, Daesh minaccia Putin il giorno dopo che Hillary ha accusato Putin, coi suoi hackers, di aver diffuso le mail più discutibili su di lei e il suo partito democratico.  “Daesh per Hillary!”, era il nostro titolo.  Meno paradossale di quel che sembra: per forza Daesh aiuta la Clinton   a   entrare nella Casa Bianca – dopo tutto quello che lei ha fatto per lui. La cosa è saltata fuori, ma subito sepolta, dopo l’11 settembre 2012, il giorno in cui l’ambasciatore americano Chris Stevens fu trucidato a Bengasi insieme ai Marines che gli facevano da guardie del corpo, in un oscuro combattimento.  Reso più oscuro dal fatto che i commandos pronti a partire da Sigonella per soccorrere l’ambasciatore – sarebbero arrivati in meno di mezz’ora – ricevettero da Obama l’ordine di stand-down, ossia di non muoversi: dal che si sospetta che Stevens sia stato deliberatamente sacrificato, per seppellire con lui una storia sporca   i cui liquami   sarebbero schizzati fino alla Clinton. Hillary, Panetta a desta e Dempsey mentono durante l’audizione al senato nel 2013. Questa vicenda sporca consisteva nel fatto che Stevens era stato mandato a Bengazi per comprare armamenti dai ribelli islamisti che avevano svuotato gli arsenali di Gheddafi, onde inviarli ai jihadisti che combattevano contro il regime di Assad: lo   Stato Islamico, guarda caso, che per i media nasce proprio nel 2012, distaccandosi da Al Qaeda con tanto di comunicato ufficiale. In una udienza al Senato del maggio 2012, Hillary Clinton – affiancata da Leon Panetta allora segretario alla Difesa, e all’ammiraglio Dempsey (capo degli stati maggiori) – negarono l’esistenza del piano per armare occultamente i terroristi in Siria. O meglio: raccontarono che sì, avevano avuto l’idea, ne parlarono ad Obama, ma lui la bocciò – sicché non se ne fece nulla.   Lo stesso Bill Clinton ha raccontato in un’intervista alla CNN che il piano esisteva e che lui l’aveva raccomandato, ma niente. Menzogne su menzogne. Come ha dimostrato una approfondita ed esplosiva inchiesta condotta da Aaron Klein.  Il quale non è solo ebreo, ma è anche un noto columnist del New York Times, ed oggi è capo della redazione di Gerusalemme per il Breitbart News Network.   E il suo libro-accusa, “The REAL Benghazi story: what the White House and Hillary don’t want you to know” è stato un best seller nel 2014, quando è uscito. Che cosa ha scoperto Klein? Che contrariamente alla versione ufficiale, Obama aveva autorizzato l’operazione segreta (e illegale) di acquistare dai tagliagole libici le armi per mandarle ai tagliagole siriani. Come l’ha scoperto?   Nel modo più facile: un lancio della Reuters che ai primi del 2012 rendeva noto quanto segue: il presidente Obama ha firmato un ordine esecutivo “che permette alla Cia ed altre agenzie di fornire sostegno ai ribelli per cacciare Assad”: mandato “broadly”, ossia ampio e generico. Da attuarsi, aggiungeva l’agenzia, attraverso un “centro di comando segreto operato dalla Turchia e i suoi alleati” (sic).  Sempre la Reuters, citando una “fonte Usa”, avvertiva però che la Casa Bianca non aveva autorizzato l’invio di armi letali, “anche se certi alleati Usa lo fanno” (sic). Che Chris Stevens fu mandato in Libia senza lo status di ambasciatore, “a bordo di un cargo battente bandiera greca che portava forniture e automezzi”, già durante la rivoluzione che eliminò Gheddafi. Il suo compito?  Diventare “il primo interlocutore fra l’amministrazione Obama e i ribelli basati a Bengasi” – e fare il mercante d’armi.   Era affiancato in questo compito da un professionista: come rivelò lo steso New York Times nel dicembre 2012, da un tale Marc Turi, definito dallo stesso medium mainstream “un mercante d’armi americano che voleva fornire armamenti in Libia”, e per il quale Stevens chiese al Dipartimento di Stato una autorizzazione – che è agli atti.  Anche dopo essere stato nominato ambasciatore, Stevens continuò – dice Klein – a trattare armi coi tagliagole. Che membri armati della “Brigata Martiri 17 Febbraio” (tagliagole libici collegati alla Ansar al Sharia, definita organizzazione terroristica dagli Usa) furono assunti dal Dipartimento di Stato – ossia da Hillary – per fornire la “security interna a una missione speciale” –   ossia par di capire a far da guardie del corpo a Stevens, visto che non essendo ancora ambasciatore non gli si potevano assegnare del Marines. Secondo Klein, i capi della Brigata Martiri 17 Febbraio furono anche usati   come agevolatori, diciamo, della compravendita ai arsenali da mandare ai tagliagole siriani. Nell’autorizzazione concessa ufficialmente dal Dipartimento di Stato a Marc Turi, e risalente al maggio 2011, si legge che il Turi aveva “il progetto di spedire armamenti del valore di 200 milioni di dollari al Katar” – uno dei massimi nemici di Assad. Facile capire   in che mani sarebbero finite quelle armi. Una “grossa spedizione di armi da Bengasi ai ribelli siriani partì nell’agosto 2012 (poche settimane prima la tragica fine di Stevens, 11 settembre) su una nave, e arrivò al porto turco di Iskenderum, a 35 chilometri dalla frontiera con la Siria.  Ufficialmente, portava aiuti umanitari.  Altri trasporti avvennero per via aerea in quel periodo. Il New York Times stesso raccontò in uno dei suoi articoli che “da uffici in località segrete”, membri dell’intelligence Usa “aiutavano i governi arabi a comprare armi – e “hanno selezionato accuratamente (sic) i   comandanti e i gruppi ribelli per determinare chi di loro avrebbe ricevuto le armi all’arrivo”. La Reuters ha intervistato il 18 giungo 2013 Abdul Basit Haroun, un ex capo della Brigata Martiri 17 Febbraio, che ammise di essere il facilitatore di uno dei più grossi invii di materiale bellico da Bengazi ai ribelli siriani; precisando che le armi erano spedite in Turchia, da cui venivano contrabbandate ai terroristi siriani. Secondo la testimonianza di un altro capo della Brigata, Ismail Salabi, questo Haroun s’era messo in proprio costituendo una sua milizia, poco dopo.   Aveva i mezzi, visti i milioni di dollari che entrarono nell’affare, per mezzo di Marc Turi. Naturalmente, quando poi Stevens fu attaccato e morì, si raccontò che era a Bengasi per recuperare i MANPaD (missili anti-aerei a spalla) che si sapeva erano negli arsenali saccheggiati da Gheddafi, e che i ribelli non volevano dare. Un’operazione. Ma se era meritoria, perché Chris Stevens fu lasciato trucidare e non salvato dalle Forze Speciali, che ascoltarono in diretta le disperate richieste di aiuto che gli rivolgevano, mentre sparavano assediati nella “casa sicura della Cia”, i Marines a Bengasi, quell’11 settembre 2012? Perché ricevettero l’ordine di stand down? Se non per coprire il porcilaio condotto dagli americani e dai loro terroristi preferiti? Probabilmente Stevens fu ucciso, diciamo, nel corso di un litigio per soldi fra i “ribelli” e l’americano; forse persino da elementi della Brigata che lo “proteggeva”. Si doveva proteggere Hillary. La candidata che l’intero Establishment ha scelto, e che sta cercando di imporre con tutti i mezzi contro il candidato Trump, l’inaffidabile, o l’oggetto degli odii più frenetici, “il complice di Putin” (come ha detto Leon Panetta alla convention democratica), la cui moglie “ha posato nuda”, quello che sputa sui soldati medaglie d’oro solo perché islamici.  Ho paura che le elezioni saranno truccate, ha detto Trump. E perché tutto questo? Perché, ha detto la stessa Hillary in una mail spifferata da Wikileaks, “il modo migliore di aiutare Israele contro l’Iran e la sua crescente capacità nucleare è aiutare il popolo di Siria a rovesciare il regime di Bashar Assad”. Obama non ha mai ricevuto il capo della DIA. Eppure ci sono notizie succose. Il generale Michael Flynn, già capo della DIA, ha fatto   una rivelazione più significativa delle nudità dell’ex modella moglie di Trump. Ha raccontato che Obama, pur avendo nominato lui – generale Flynn –   due volte come responsabile dell’intelligence militare, non l’ha mai voluto incontrare di persona. Mai l’ha convocato, in quattro anni.  Come ha avuto modo di spiegare   in un’altra esplosiva intervista a Seymour Hersh, Flynn avrebbe messo in guardia dalle losche operazioni che il Dipartimento di Stato, con la Cia, stava conducendo per armare i tagliagole dell’IS.  I quella stessa intervista, Flynn ha raccontato come e qualmente lui, e l’ammiraglio Dempsey allora capo degli SM Riuniti, mandarono a monte spedizioni di armi della Cia, collaborando con Putin e con Assad. Roba da corte marziale.   Se, s’intende, Obama avesse mai convocato Flynn e chiesto spiegazioni. Non l’ha mai fatto.  Non voleva sapere cosa facevano le erinni del Dipartimento di Stato, armando e finanziando i terroristi islamici che fingeva di combattere? O lo sapeva fin troppo bene? In ogni caso, giriamo la notizia alla valorosa corrispondente RAI da New York, che per 200 mila euro annui – da noi contribuenti pagati – copre quella sede prestigiosa e adora Obama, e ovviamente sostiene la Clinton contro Trump. Magari un servizietto sul generale Flynn e su come mai Obama non l’abbia mai voluto ascoltare né abbia mai letto un suo rapporto in quattro anni?  Gli diamo anche la fonte, pubblica. E gli diamo lo scoop gratis, non deve spendere nessuno dei 200 mila euro annui che riceve da noi. (Una lettura che farebbe bene anche ai giornalisti, commentatori, cattoliconi che strillano sugli “islamisti che ci sgozzano in chiesa”. Sì, quegli islamisti sono una creatura   di queste operazioni sopra descritte.   Perché non lo dite mai?). Mentre finisco di scrivere, i giornali e tg italiani sono tutti eccitati perché Obama “ha dato direttamente ordine” di bombardare “i terroristi islamici dell’IS in Libia”. Certo, bisogna ripulire i segni, gli indizi e i testimoni scomodi   di quel che fece Hillary coi ribelli, oggi IS, prima Al Qaeda, sempre un asset americano.

Ed altra condanna a morte ci attende. 

Mario Giordano su Libero Quotidiano del 1 agosto 2016 vs islamici: "Andate pure a messa, ma la verità su Maometto è questa qua" (devastante). Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla della differenza tra Gesù e Maometto.

Caro Giordano, nella sua “posta prioritaria” lei, oltre ad apprezzare giustamente quanto scritto dalla lettrice Marina Pacini, le risponde evidenziando due differenze fondamentali tra cristianesimo e islam: il cristianesimo ha avuto un Nuovo Testamento che ha superato il Vecchio Testamento e ha un Papa che ne dà l’interpretazione valida per tutti i cristiani. È quello che tutte le persone colte sostengono ma, a parer mio, sono due cose ineludibili per i teologi ma superflue per i fedeli. Il Cristianesimo è nato quando Cristo è sceso in terra e ha detto «Ama il prossimo tuo come te stesso» e «Non fare ad altri ciò che non vuoi venga fatto a te»: con queste semplici ed inequivocabili parole ha cancellato, emarginato tutta la violenza contenuta nei precedenti testi sacri indicando, da quel momento in poi, la strada per separare il bene dal male. Tutto il resto è teologia, importantissima, ma teologia: quello che conta è Cristo con la sua parola che non può essere fraintesa. Confrontare cristianesimo e islam sulla base di disquisizioni interpretative è deviante e può divenire, grazie alla cultura dei “contendenti”, tanto cavilloso da perdere di vista la realtà: Cristo ha predicato la pace, Maometto no. Punto. Nessuno può uccidere in nome di Cristo (anche se è stato fatto, bestemmiando le sue parole), chiunque può uccidere in nome di Maometto citando le sue parole. Punto. Roberto Bellia, Vermezzo.

Grazie Roberto per la sua precisazione. È davvero chiara, molto più chiara di come sono stato io in quelle poche righe che mi erano rimaste alla fine dell'elenco delle sure improntate alla violenza del Corano. Lei ha ragione da vendere, in effetti: è vero che in passato sono stati commessi crimini orrendi in nome del cristianesimo, ma il cristianesimo è e resta una religione di pace, così come è una religione di pace il buddismo. Ci potrà pur essere qualche svitato nel mondo che uccide proclamandosi buddista, ma la religione buddista resta in ogni modo una religione di pace. Allo stesso modo ci sono stati troppi cristiani che hanno ucciso in nome di Cristo, ma il messaggio di Cristo è «Ama il prossimo tuo come te stesso». Quello di Maometto no. Quello di Maometto è un messaggio di violenza e di morte. E non rendersene conto, o illudersi soltanto perché un gruppetto di musulmani fa finta di andare a messa alla domenica, non è soltanto molto sbagliato. È soprattutto, come ripetiamo da tempo, temo inutilmente, molto pericoloso...Mario Giordano.

"Corano, leggetevi questa roba...": Mario Giordano il 30 luglio 2016, furia contro il libro sacro. Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla di islam e delle più agghiaccianti sure del Corano, dove si predica morte e conquista.

Caro Giordano, il Papa dicendo che le vere religioni sono di pace, ha dimostrato di non conoscere il Corano e neppure il Vecchio Testamento che è pieno di violenza. O forse lo sa ma continua a tenerci calmi come quelli che suonavano sul Titanic. Continuiamo dunque a inneggiare i nostri valori, che sono quelli che ci fanno accogliere amorosamente questi invasati. Le mando qualche sura del Corano...Marina Pacini, Lucca.

La ringrazio, cara Marina, e riporto una parte del suo agghiacciante elenco.

* Circa gli infedeli (coloro che non si sottomettono all'Islam), costoro sono «gli inveterati nemici» dei musulmani [Sura 4:101]. I musulmani devono «arrestarli, assediarli e preparare imboscate in ogni dove» [Sura 9:95]. I musulmani devono anche «circondarli e metterli a morte ovunque li troviate, uccideteli ogni dove li troviate, cercate i nemici dell'Islam senza sosta» [Sura 4:90]. «Combatteteli finché l'Islam non regni sovrano» [Sura 2:193].

«Tagliate loro le mani e la punta delle loro dita» [Sura 8:12]

* Se un musulmano non si unisce alla guerra, Allah lo ucciderà [Sura 9:93]. 

* I musulmani devono far guerra agli infedeli che vivono intorno a loro [Sura 9:123]

* I musulmani devono essere «brutali con gli infedeli» [Sura 48:29]

* Un musulmano può uccidere ogni persona che desidera se è per «giusta causa» [Sura 6:152]

* Allah ama coloro che «combattono per la Sua causa» [Sura 6:13]. Chiunque combatta contro Allah o rinunci all'Islam per abbracciare un'altra religione deve essere «messo a morte o crocifisso o mani e piedi siano amputati da parti opposte» [Sura 5:34]

* «Chiunque abiuri la sua religione islamica, uccidetelo». [Sahih Al-Bukhari 9:57]

* «Assassinate gli idolatri ogni dove li troviate, prendeteli prigionieri e assediateli e attendeteli in ogni imboscata» [Sura 9:5]

* «Prendetelo (l'infedele n.d.t.) ed incatenatelo ed esponetelo al fuoco dell'inferno» [Sura 69:30]

* «Instillerò il terrore nel cuore dei non credenti, colpite sopra il loro collo e tagliate loro la punta di tutte le dita» [Sura 8:12]

* «Essi (gli infedeli ndr) devono essere uccisi o crocefissi e le loro mani ed i loro piedi tagliati dalla parte opposta» [Sura 5:33]

(Qualcuno osa ancora dire che l’Islam è una religione di pace? Aggiungo solo un dettaglio non irrilevante: anche nell’Antico Testamento ci sono frasi ispirate alla violenza. Ma poi c’è il Nuovo Testamento che lo reinterpreta e la Chiesa cattolica che ne dà la lettura ufficiale, valida per ogni cristiano. Nell’Islam, come è noto, invece…)

"...allora creperemo tutti". Islam, c'è solo una possibilità: la cupa profezia di Mario Giordano su “Libero Quotidiano del 28 luglio 2016. Un altro mattacchione? Un altro pazzo isolato? Un altro depresso? E adesso come reagirà l'Europa di fronte a un prete sgozzato in chiesa, mentre dice messa, da due islamici che gridavano Allah Akbar? Organizzerà un convegno di psichiatri? Si affiderà agli antidepressivi? Più Prozac per tutti? Continueranno a raccontarci la favoletta dei malati di mente che in quest' estate 2016, anziché mettersi in testa il cappello di Napoleone, vanno in giro a massacrare cristiani? Insisteranno con le bugie, le minimizzazioni, «per favore», «non generalizziamo», «i profughi non c' entrano nulla», «l'Islam? Figuriamoci», «la nostra risposta sono le porte aperte» e già che ci siamo «inauguriamo una mezza dozzina di moschee»? Davvero faranno così? Ce lo dicano, perché nel caso prepariamo il collo: se non ci difenderemo, infatti, finiremo presto tutti sgozzati. Proprio come quell' anziano sacerdote sull' altare di Saint-Etienne-du-Rouveray. Il tempo è scaduto, ne abbiamo perso fin troppo in chiacchiere e dibattiti da salotto. Adesso siamo arrivati all'ora della scelta: o si combatte o si muore. O si capisce che c' è una guerra di religione in corso o siamo già stati sconfitti. L'abbiamo già scritto tante volte, ma adesso il nemico ha alzato il tiro: l'attacco a una chiesa, durante una messa, con i fedeli e le suore prese in ostaggio, il prete scuoiato come un agnello sacrificale sotto il crocifisso, nel pieno dell'Europa cristiana, ebbene: un atto del genere dovrebbe aprire gli occhi anche ai più ottusi. Che aspettiamo ancora? Che ci vengano a sgozzare nel Duomo di Milano? Nella basilica di Assisi? O magari sotto il Cupolone di San Pietro? Il messaggio è già chiaro. Vi ricordate la bandiera nera che sventolava sul Vaticano? Vi ricordate i cristiani copti uccisi sul bagnasciuga della Libia per insanguinare il nostro mare? Vi ricordare le minacce del Califfo, che ripeteva «arriveremo a Roma per uccidere tutti gli infedeli»? Sembravano esagerazioni, paradossi, boutade. Invece l'attacco è in corso. Houellebecq ha sbagliato tutto: la sottomissione non avverrà in maniera pacifica, ma con le armi in pugno, non ci conquisteranno con democratiche elezioni ma con il coltello per le decapitazioni. Di che cosa abbiamo ancora bisogno per convincercene? Finora, fateci caso, hanno mantenuto tutte le promesse. Anche nelle ultime settimane. Avevano annunciato attacchi in Francia, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in Germania, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in riva al mare, e c' è stata la strage sulla passeggiata di Nizza. Avevano annunciato che sarebbe stata un'estate di sangue, e così purtroppo è. Sono assassini, questi islamici, ma non cialtroni. A modo loro, sono persone di parola: dicono che vogliono tagliare le teste, e zac, lo fanno. Dicono che vogliono distruggere i cristiani, e zac, rispettano l'impegno. Non mancano mai l'appuntamento con la morte, che per loro, per altro, significa vergini in fiore e fiumi di latte. A noi lo sgozzamento, a loro il paradiso. E di fronte a questo attacco frontale, davanti a questa offensiva violenta e spregiudicata, l'Europa dei tremebondi che fa? L' avete sentita in questi giorni: discute di pazzia, follia, gesti isolati, minimizza, specifica, precisa, si perde nei distinguo, organizza sessioni plenarie sulle teorie dei discendenti di Freud, si autoflagella, si colpevolizza, esulta se trova che un assassino (iraniano) ha in casa una foto di Breivik («lo vedete: i cattivi siamo noi»), erige processi sulla diffusione delle armi, come se le armi sparassero da sole, «ah signora mia non sa com' è facile procurarsi una pistola» (in effetti, in Europa non tanto: ma per un coltello basta entrare in cucina), si comporta come se la colpa delle sparatorie fosse delle fabbriche di pistole e la colpa degli sgozzamenti delle coltellerie. Alcuni giornali hanno persino messo sotto processo i videogiochi (lo giuro: i videogiochi). Tutto pur di non dire la piatta e brutale verità: il Corano ordina, i musulmani sgozzano. È la guerra santa dell'Islam. Questa verità sta lì da tempo, sotto i nostri occhi, oggi è rossa come il sangue di quel sacerdote. Ma noi non vogliamo ammetterla. Preferiamo raccontarci balle, nascondere la verità, come hanno fatto ripetutamente in questi giorni il governo francese, e forse anche quello tedesco. Preferiamo non dire quello che sappiamo, e cioè che è in atto un attacco coordinato e organizzato contro di noi. Preferiamo chiudere gli occhi, liberare dalle carceri soggetti pericolosi, come uno di due assalitori della Normandia, come i terroristi appena usciti a Bari, come tanti altri, preferiamo esporci al rischio della morte piuttosto che al rischio della verità. È pazzesco: sembra quasi che la civiltà occidentale, oggi, scelga di farsi ammazzare piuttosto che ammettere di dover fare i conti con la religione islamica. Sceglie di soccombere piuttosto che ammettere che i sacri principi della tolleranza e del dialogo non possono funzionare sempre, perché se qualcuno ti vuole uccidere non basta sventolargli in faccia la bandiera della pace. È così duro prenderne atto che andiamo diritti verso la macellazione avvolti dal nostro morbido involucro di bugie. Anche ieri, le prime dichiarazioni dopo lo sgozzamento del prete, sono andate in questa direzione. Il premier francese ha parlato di «barbaro attacco», il Papa ha «condannato l'odio». Come vedete, manca una parola, sempre la stessa. Non sono stati i marziani ad attaccare ma gli islamici, l'odio non nasce sotto il cavolo ma dentro le moschee. Noi continuiamo a tacerlo. E perciò finiremo tutti come padre Jacques, 58 anni di sacerdozio, lacerati con una lama al collo, mentre celebrava la messa del mattino nella sua chiesa in Normandia. Se il Papa avesse le palle, lo dovrebbe proclamare santo subito. San Jacques Martire, ucciso per difendere la nostra fede dall' aggressione dei seguaci di Allah. Suona anche bene. Suona ormai un po' inutile, però. Mario Giordano 

L'altro volto della storia: l'attacco della massoneria alla civiltà cristiana, scrive Francesco Pio Meola. La nota di Giorgio Vitali. "L'articolo qui sotto, pur provenendo da ambienti del conservatorismo cattolico, è esemplare e assolutamente degno di essere preso in considerazione per le sue implicazioni storiche e politiche. In effetti, per chi vuole fare politica, queste conoscenze sono essenziali, nella misura in cui si riesce con facilità ad individuare le linee di condotta che motivano certi personaggi della politica e quanto di una qualsiasi iniziativa in campo politico nazionale o comunitario la componente "ideologica" primaria sia quella maggiormente determinante nei confronti di una quasi sempre poco probabile, necessità "contingente". Che a motivare i singoli "uomini politici" ad iniziative di grande respiro pubblico siano l'appartenenza a gruppi iniziatici con le loro credenze e le loro pratiche, è ampiamente dimostrato l'appartenenza di questi "politici" a particolari organizzazioni più o meno occulte. Ma il fatto che queste associazioni siano "occulte" non significa nulla, perchè anche gli Organismi, specie quelli internazionali e/o comunitari sono composti da individui selezionati sulla base dell'appartenenza a queste organizzazioni. Non solo, in un libro che consiglio vivamente, ("L'altra Europa", di Giorgio Galli e Paolo Rumor, ed. Hobby & Work, 2010, euro 16,50) si dimostra con documenti attendibili l'appartenenza a gruppi esoterici di varia natura dei cosiddetti "creatori dell'UE". In particolare il "cattolico" Maurice Schumann. Un altro particolare importante è costituito da Giorgio Galli, famoso politologo, anzi il primo vero politologo italiano, che per decenni ha fatto della politologia un elemento di analisi della realtà nazionale e geopolitica. Questo illustre professore universitario, già di area socialcomunista, giunto alla fine della carriera, ha maturato l'esigenza di approfondire gli aspetti "esoterici" dei rapporti politici sia nazionali che comunitari o internazionali. Ciò significa che, partendo con intelligenza dall'analisi di superficie degli avvenimenti, alla fine ha dovuto confrontarsi con una realtà ben più profonda di quanto la sua cultura d'impostazione materialiste e razionalista gli permettesse di "vedere". Nel suo intervento pubblicato nel libro sopra citato, trovandosi a trattare della "Storia", che è una componente essenziale della base culturale su cui si costruisce il comportamento delle èlites, egli scrive: «... La storia, come teoria del comportamento umano, comprende non solo la "decostruzione", ma anche la "costruzione" del mito». In altre parole, è la storia che costruisce il mito, perchè gli storici sono persone per lo più motivate dalla necessità di diffondere specifici "miti", come possiamo ben vedere in questi decenni post- secondo conflitto mondiale, caratterizzati dalla costruzione di miti dal nulla documentale. Infine è necessario ricordare che in un'opera recente, dedicata al movimento teosofico d'inizio novecento, scritta da Marco Pasi dell'Università di Amsterdam, ("Teosofia ed Antroposofia nell'Italia del primo novecento", in Annale 25 della Storia d'ItaliaEinaudi, dedicata all'Esoterismo) si dimostra quanto un movimento come quello citato, poco conosciuto e valutato fino ad oggi, ad esclusione dei seguaci dell'Antroposofia, che aumentano sempre a livello mondiale a fronte delle constatate conferme scientifiche e tecniche legate a quell'impostazione culturale, o dei lettori di "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo " di J. Evola (prima ed. Bocca, 1931), abbia invece permeato tutti gli aspetti della cultura italiana, dal Futurismo al Fiumanesimo, fino all'elaborazione della pedagogia montessoriana ed all'istituzione del corso universitario di Storia delle Religioni e dello Studio comparato di Storia delle Religioni voluto da Raffaele Pettazzoni che scrisse anche "Teosofia e Storia delle Religioni", per finire col noto Balbino Giuliano, ministro nel 1929, autore del famoso decreto sul "giuramento dei professori". Su questa capacità di una specifica cultura nell'influenzare il corso dei pensieri di una o più generazioni, creando anche èlites capaci di imporre la loro ideologia, sarà utile riprendere il dibattito." Giorgio Vitali.

La massoneria è una setta segreta le cui origini risalgono alle corporazioni medievali inglesi e tedesche dei liberi muratori (operativa). La Massoneria moderna (speculativa) s'ispira agli ideali razionalisti e illuministi di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Fu fondata a Londra il 24 giugno 1717 dal rifugiato ugonotto Thèophile Desaguliers e dal pastore anglicano James Anderson, i quali riassunsero i suoi principi nelle cosiddette Costituzioni. Essa trae origine anche e soprattutto da un patrimonio di scienze occulte che vanno dalla magia egizia e rinascimentale all'ebraismo cabalistico-talmudico, dal platonismo al Manicheismo, dalla tradizione Rosa Croce al vecchio paganesimo naturalista, dall'astrologia alla teosofia, dall'alchimia ad altre fisime minori. Contiene elementi delle vecchie eresie cristiane e si basa sulla fisica newtoniana. E'chiaro come questo concentrato di dottrine esoteriche non poteva che provocare la scomunica della Chiesa, che l'ha condannata per quasi ben 580 volte, detenendo il primato assoluto. L'insieme di tutte queste tradizioni trova unità nella Gnosi. Essa è una speciale conoscenza religiosa dalla quale per rivelazione, indipendentemente dalla fede e dalle opere, deriva la salvezza, ossia da una sorta di "illuminazione", riservata solo a pochi iniziati. Si noti come questa idea sia radicalmente contraria alla fede cattolica, la quale invece proclama che la salvezza è accessibile a tutti. La Gnosi pretende di concepire il reale come qualcosa di totalmente negativo, per cui viene, di conseguenza, la necessità di aspirare a una sorta di palingenesi, di trasformazione totale, da cui potrà realizzarsi un mondo completamente nuovo, e in cui potrà vivere un uomo completamente nuovo, contrassegnato da una perfetta autosufficienza (C. Gnerre). Il fenomeno gnostico è come un fiume carsico, ritornando improvvisamente in auge nelle varie epoche storiche. Pensiamo alle vecchie eresie cristiane, a quella catara soprattutto, la più pericolosa, al modernismo e a tutte le religioni diverse dalla cattolica o ortodossa, Islam e Giudaismo compresi. Lo gnosticismo sostiene l'opposizione tra lo spirito (il bene) e la materia (il male). Gli gnostici sostengono che un Dio buono non può aver creato un mondo così malvagio, quindi la sua creazione è da disprezzare, mentre il principio del male, Satana, sarebbe il dio buono, il serpente che sedusse Eva e che indusse al peccato Adamo. Da qui la leggenda massonica di Adamo come "primo iniziato", e come lui sono considerati Gesù, S. Giovanni Battista (la Massoneria è nata il 24 giugno), Mosè, Maometto, Buddha, S. Francesco, Lutero, ecc . Per quanto riguarda Cristo e il Battista basta pensare alle folli elucubrazioni gnostiche del "Codice da Vinci" del seguace New Age Dan Brown, mentre S. Francesco oggi è considerato un profeta pacifista ed ecologista. Furono invece influenzati dalla gnosi Lutero, Buddha e Maometto. Mons. Leone Meurin, un sacerdote francese del XIX sec, per tutti questi motivi nella sua opera "La Frammassoneria sinagoga di Satana", considerava la Gnosi il culto di Lucifero, l'angelo decaduto portatore di luce, l'illuminato, il più grande iniziato. In molti testi esoterici Lucifero è accostato a Prometeo, la figura mitologica ribelle a Zeus che voleva donare il fuoco agli uomini, a Dioniso, dio dell'orgia e del divertimento sfrenato, al buddha, inteso come l'individuo iniziato ("buddha" significa appunto "l'illuminato"). I massoni usano chiamarsi tra loro "fratelli"; si distinguono in vari gradi, tra i quali gli apprendisti, i compagni, i maestri, i sublimi cavalieri eletti, i grandi maestri architetti, ecc. Si raccolgono in logge presiedute da un venerabile; più logge associate costituiscono una gran loggia, presieduta da un gran maestro, mentre nell'ambito di uno Stato tutte le logge dipendono da un grande oriente. La Massoneria venera un dio impersonale (il "Dio orologiaio" degli illuministi) chiamato Grande Architetto dell'Universo o Essere Supremo. Essa ha vari riti e obbedienze. Tra i riti più importanti ricordiamo quello scozzese, inglese, nazionale spagnolo, egizio (detto anche di Menfi e Misraim), simbolico italiano, swedemborghiano, noachita, ecc. Il più importante è quello scozzese, che si rifà all'esoterismo templare e ha 33°, tra cui i più alti sono quelli dal 18° in poi. Quando si parla di templarismo in massoneria in realtà viene ripresa una tradizione in parte errata, scorretta e diffamatoria. L'obbedienza più importante al mondo è quella che fa capo alla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, detta anche "Sancti Quatuor Coronati", che ha per gran maestro il duca di Kent (attualmente è il principe Edoardo Windsor). Per le sue posizioni deiste, non riconosce la maggiore obbedienza francese, il Grande Oriente di Francia, che è violentemente antireligiosa e ammette anche gli atei. Le massonerie scandinave hanno una particolarità: riconoscono come gran maestro il re dei loro rispettivi stati; ad esempio in Svezia è l'attuale re Carlo Gustavo XVI. Esistono anche massonerie esclusive come la Prince Hall negli USA che ammette solo personalità afroamericane, di cui ne fa parte il presidente americano Barack Obama, oppure la B'nai B'rith, riservata ai soli ebrei. Caratteristiche fondamentali delle logge sono la segretezza e l'esclusione delle donne, anche se ci sono obbedienze rigorosamente femminili o addirittura miste come la Gran Loggia d'Italia di piazza del Gesù. L'Inghilterra di inizio '700 era vista dalla nobiltà liberale europea un faro di civiltà, soprattutto per il suo ordinamento monarchico-costituzionale. Le caste aristocratiche illuminate anglofile erano ambiziose e gelose delle prerogative tradizionali dei re e volevano limitarle. Si studiavano i principi costituzionali britannici con l'ansia di esportare gli ideali illuministi. La nobiltà europea era affascinata dal costituzionalismo, dal deismo, dalla tolleranza religiosa e dal liberismo economico. Insieme a tutte queste suggestioni provenienti da oltre Manica, cominciò a diffondersi la massoneria, dapprima in Olanda, Francia, Germania (Hannover) e poi negli altri paesi europei, tra cui l'Italia; il primo libero muratore italiano fu il medico beneventano Antonio Cocchi, iniziato a Firenze nel 1732 alla loggia detta "degli Inglesi". In Francia uno degli esponenti dell'aristocrazia anglofila fu il barone Charles de Montesquieu, grande teorico del liberalismo e del costituzionalismo, uno dei padri riconosciuti dell'Illuminismo. La Massoneria francese cominciò quasi subito a rivendicare una certa autonomia, ispirandosi all'esoterismo templare e dandosi un'impostazione di tipo cavalleresca; raccoglieva gli esponenti nobili e alto-borghesi riformatori che si fecero portavoce di quel clima culturale che portò alla stagione dell'enciclopedismo illuminista che ha avuto per protagonisti Diderot, D'Alembert e Voltaire. La critica enciclopedista attaccava la società di Ancièn Règime, la Chiesa Cattolica, vista come fonte di oscurantismo, pregiudizi e superstizione, i privilegi nobiliari che causavano diseguaglianze, la storia passata, considerata inutile e piena di errori; esaltava invece il pensiero scientista, la libertà in tutte le sue forme, l'uguaglianza sociale, il progresso in tutti i campi, la fratellanza tra gli esseri umani e il potere illimitato della ragione, identificata come strumento infallibile di indagine della realtà. Lo spirito corrosivo dei liberi pensatori, impregnato di razionalismo e di scetticismo antireligioso, provocò nel 1738 la scomunica da parte della Chiesa, con la bolla di papa Benedetto XIV. In quegli anni la Massoneria prendeva sempre più, soprattutto in Francia, una piega politica radicale e antidispotica; in Inghilterra si tenne invece favorevole al mantenimento dell'ordine costituzionale, appoggiando il partito liberale whig. Intanto però le logge si diffusero anche nelle colonie americane. Nel 1751 fu pubblicato quel feroce manifesto anticristiano che fu l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert, diretta emanazione delle logge che preparò una forte ostilità nei confronti della tradizione e del cattolicesimo. Un altro illuminista franco-svizzero, Rousseau, teorizzò la "democrazia totalitaria", ossia il rovesciamento violento dell'ordine costituito in favore di un governo popolare, in cui la moltitudine avrebbe delegato il potere a propri rappresentanti in grado di interpretare "la volontà generale", in pratica la prefigurazione del Terrore giacobino della Rivoluzione francese. Nel periodo pre-rivoluzionario furono pubblicati migliaia di libri, pamphlet, riviste, giornali, tutti tesi a screditare e a diffamare la Corona di Francia e la Chiesa cattolica. Il 1776 fu l'anno dell'indipendenza delle 13 colonie americane dalla madrepatria inglese; i capi del movimento anticoloniale da George Washington a Thomas Jefferson, da Benjamin Franklin a John Adams, erano tutti massoni. Il marchese francese di La Fayette, che era un "fratello" e aveva combattuto a loro fianco, sperava che un giorno anche in Francia si potesse lottare per gli ideali rivoluzionari. La Massoneria francese nel frattempo infiltrava suoi uomini nelle istituzioni ecclesiastiche e a corte: il banchiere ginevrino Jacques Necker, ministro delle finanze di Luigi XVI, il cugino del re, il duca Filippo d'Orléans, detto in seguito anche Philippe Egalitè, per il suo acceso fervore rivoluzionario, Jacques Roux , soprannominato il "curato rosso", e l'abate Sieyès. Obiettivo principale era disintegrare il sistema dal di dentro. L'anno stesso della Rivoluzione americana, il 1° maggio 1776 fu fondata a Ingolstadt, grazie all'appoggio finanziario dei banchieri Rothschild, la società segreta cospiratoria degli "Illuminati di Baviera". Il capo di questa potente e pericolosa organizzazione era un ex gesuita discendente da una ricca famiglia di ebrei convertiti, Adam Weisshaupt. Feroce anticattolico, era seguace dell'Illuminismo ateo e materialista ma allo stesso tempo coinvolto nell'occulto, in particolare della tradizione rosacrociana e templare. L'obiettivo della setta era distruggere le monarchie cattoliche o comunque cristiane e il papato, al fine di instaurare una "repubblica universale". Il disegno dei Rothschild era conquistare tutte le nazioni e assoggettarle al potere delle banche e della finanza, nonché stampare privatamente le monete nazionali (signoraggio). Il loro patrimonio era stimabile di gran lunga superiore alla ricchezza dello stesso re di Francia; erano la famiglia più potente dell'epoca. I congiurati di Weisshaupt entrarono nella massoneria ufficiale. Lo storico Alan Stang attesta che nel 1788 tutte le 266 logge del Grande Oriente di Francia erano sotto il controllo degli Illuminati; il gran maestro era diventato Filippo di Orleans. L'ossessione degli Illuminati era vendicare la condanna a morte dell'ultimo gran maestro templare Jacques De Molay (di cui si dicevano continuatori), fatto giustiziare da re Filippo IV il Bello di Francia il 13 ottobre 1314; il loro progetto era sterminare la "razza dei Capeti", i Capetingi. Prima e durante la Rivoluzione, i massoni si riunivano intorno alla tomba di De Molay per celebrare rituali esoterici e giuramenti di vendetta. Il boia che giustiziò materialmente il 21 gennaio 1793 Luigi XVI era un discendente dell'ultimo gran maestro dell'Ordine del Tempio. Con questo orrendo delitto i giacobini dell'Illuminato di Baviera Maximilien Robespierre scatenarono una feroce persecuzione contro i loro nemici, i controrivoluzionari, accanendosi in particolar modo proprio contro quel popolo di cui tanto si facevano paladini, che invece voleva rimanere fedele ai Borbone e alla Chiesa. La persecuzione antireligiosa era cominciata in maniera più blanda già dopo il 14 luglio 1789, ma con il Terrore giacobino raggiunse vette molto più alte. Beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli "immortali" principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè. Da non dimenticare l'orribile genocidio della Vandea (130.000 morti), che disgustò perfino Babeuf e Napoleone, ma di cui nessuno parla. Questa regione doveva diventare, nelle parole del generale giacobino Westerman, un "cimitero nazionale". Il furore spietato e distruttivo contro la Vandea si spiegava perché era la regione più religiosa e lealista della Francia. P. Augustine Barruel scrisse chiaramente in una sua opera che gli Illuminati avevano complottato contro il Trono e l'Altare. Erano membri della setta Robespierre, il duca di Orléans, Necker, La Fayette, Barnave, il duca di Rouchefoucault, Mirabeau, Fauchet, Clootz e Talleyrand, e appartenevano al Grande Oriente di Francia tutti i principali capi rivoluzionari: Sieyès, Saint-Just, Marat, Danton, Desmoulins, Hèbert (l'ideatore della "scristianizzazione") e Brissot. La scristianizzazione portata avanti da Hèbert, accanitamente antireligiosa, non trovò l'appoggio di Robespierre, che sostenne e impose il culto dell'Essere Supremo e della Dea Ragione. Il capo giacobino sperava in tal modo di rendere "popolari" i principi massonici. All'Ente Supremo, equivalente del Gadu, fu conferito come simbolo un grande e robusto albero, una quercia, che alla fine rappresenta la Natura; notiamo bene che questo simbolo pagano era lo stesso che campeggiava sullo stemma del Pds di Achille Occhetto, che nel 1991 aveva appena abbandonato il vecchio nome di Pci. Alla Dea Ragione fu data l'immagine di una donna con il petto scoperto dove spunta l'occhio onniveggente, altro simbolo cabalistico ed esoterico. Che la Rivoluzione francese fosse influenzata dalla massoneria è dimostrato da più parti: basta controllare il frontespizio dell'Enciclopedia e le fedeli riproduzioni della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, dove le allegorie massoniche sono evidentissime. La reazione del 9 Termidoro che portò alla ghigliottina Robespierre e i suoi seguaci il 27 luglio 1794, segnò l'ascesa al potere dei gruppi borghesi liberal-moderati. Intanto le frange più estremiste si organizzavano, e un triumvirato ultragiacobino composto da Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Silvain Marèchal, tutti e tre massoni, diede vita alla Congiura degli Eguali del marzo-maggio 1797. La cospirazione fu soffocata nel sangue e Babeuf condannato a morte. Buonarroti e Marèchal continuarono nel segreto la loro attività rivoluzionaria, fornendo insieme a Jakob Kats, un patrimonio politico di rilevante importanza, perché questi gruppi proto comunistici furono gli antesignani diretti del socialismo marxista. L'ascesa di Napoleone Bonaparte segnò l'inizio della conquista massonica dell'Europa. L'esercito francese disseminava logge in tutti i territori occupati, Italia compresa. Il 20 giugno 1805 nacque a Milano il Grande Oriente d'Italia, la più grande obbedienza della penisola, però non riconosciuta dalla Loggia Madre di Londra. In quel periodo nacque anche la Carboneria, una metamorfosi rurale della Massoneria, che ebbe come gran protettore il cugino di Napoleone, Gioacchino Murat, "re" di Napoli e delle Due Sicilie. Scopo delle società segrete italiane era "liberare" l'Italia dai vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. Possiamo scorgere l'azione della Massoneria dietro tutte le rivoluzioni in Europa e in America del 1820-21, 1825, 1830-31 e del 1848. Il Risorgimento italiano, guidato dal massone Cavour e aiutato dai "fratelli" Mazzini, Garibaldi, Manin, D'Azeglio e tanti altri, portò alla "indipendenza" italiana nel 1861. Lo Stato Pontificio fu conquistato solo il 20 settembre 1870 con la breccia di Porta Pia per opera dei bersaglieri dell'esercito sabaudo, nonostante l'eroica resistenza di papa Pio IX, spesso ingiustamente accusato dalla storiografia progressista come un anti-italiano. Anzi, esisteva un progetto dello stesso pontefice volto ad unificare in maniera federativa gli Stati italiani, onde evitare il pericolo di una rivoluzione laicista e anticlericale. Fatto sta che dal 1870 al 1929 il papa è stato prigioniero in Vaticano e che dal 1861 al 1922 il Regno d'Italia è stato governato da un regime oligarchico e liberal-massonico, nonostante il patto Gentiloni-Giolitti del 1913. Dalle società segrete socialiste francesi che avevano dato vita alla congiura di Babeuf emigrate in Germania, nacque nel 1834 la Lega dei Proscritti. Questi gruppi cospiratori discendevano in linea diretta dagli Illuminati di Weisshaupt. Nel 1836 ci fu una scissione all'interno dei Proscritti; nasceva così la Lega degli Uomini Giusti. Nel 1840 circa, entrarono a far parte di questo gruppo Kiessel Mordechai Levi, alias Karl Marx e Friederich Engels, i padri del comunismo. Marx, secondo la notizia riportata sulla rivista massonica italiana "Hiram" il 1° maggio 1990, fu iniziato alla loggia "Apollo" di Colonia. Nel 1847 gli Illuminati inglesi affidarono ai due filosofi il compito di rielaborare i principi di Weisshaupt e Babeuf in forma nuova e scientifica, mentre i fondi necessari per la pubblicazione del "Manifesto Comunista" del 1848 provennero da Clinton Roosevelt e Horace Greely (avo di Hjalmar Schact, ministro dell'economia del Terzo Reich), entrambi membri della loggia "Columbia", fondata a New York dagli Illuminati bavaresi. Le agitazioni rivoluzionarie fomentate da comunisti, socialisti, anarchici e radical-democratici sfociarono nella Comune di Parigi del 1871, un violento rivolgimento politico indirizzato contro il governo del conservatore Adolphe Thiers. La rivolta fu domata in poche settimane. A cavallo tra l' '800 e il '900 i principali governi europei e americani erano anticlericali, soprattutto la Francia e l'Italia, egemonizzati da partiti liberal-moderati, progressisti e radical-socialisti. Durante la cosiddetta "belle èpoque" (1900-1914) le logge studiavano come disfarsi dei governi autocratici che ancora resistevano dopo le ondate rivoluzionarie ottocentesche; gli obiettivi da abbattere erano l'Impero Austro-Ungarico, la Germania del Kaiser, la Russia zarista (sconvolta da attentati e moti fino a prima del 1914), ma anche la Turchia Ottomana. L'odio di grembiulini e rivoluzionari era concentrato soprattutto contro gli Asburgo d'Austria, visti come eredi dei Carolingi e del Sacro Romano Impero Germanico, fondatore dell'Europa cristiana. L'Impero asburgico era multietnico e si volevano strumentalizzare le rivendicazioni per l'indipendenza di alcune nazionalità: i serbi ortodossi alleati della Russia, i cechi, gli slovacchi, ma anche l'élite ebraica che mal sopportava essere governata da una dinastia cattolica. Gli ebrei sostenevano il Partito Socialdemocratico, guidato dal loro correligionario Viktor Adler, il cui figlio Friederich uccise il primo ministro Stürgkh. La Massoneria internazionale voleva un grande scontro sul continente che avrebbe dovuto portare alla federazione repubblicana degli Stati europei. Il 28 giugno 1914 il terrorista ebreo serbo Gavrilo Princip appartenente alla società segreta della "Mano Nera" e alla setta democratica "Giovane Serbia", uccise l'erede al trono d'Austria il granduca Francesco Ferdinando e la moglie a Sarajevo, provocando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Gli schieramenti erano questi: da una parte gli Imperi centrali, Austria - Ungheria, Germania e Turchia Ottomana, dall'altra la Triplice Intesa che comprendeva Inghilterra, Francia, Russia (poi costretta ad abbandonare per lo scoppio della Rivoluzione bolscevica) e più tardi Italia e Stati Uniti. La Grande Guerra si concluse con la vittoria delle potenze massoniche e la distruzione dei vecchi imperi europei. L'Austria – Ungheria fu smembrata e la Germania umiliata. Ottennero l'indipendenza la Cecoslovacchia, guidata dai "fratelli" Beneš e Masaryk, la Polonia, l'Ungheria e il Regno di Jugoslavia. L'Impero Ottomano fu lentamente logorato all'interno con la presa del potere dei "Giovani Turchi" nel 1908, una setta democratica modernizzante i cui membri risultavano affiliati alla loggia "Macedonia Resurrecta" di Salonicco. Il governo massonico turco pianificò il genocidio armeno nel 1915; furono trucidati 1.500.000 di armeni. Con la fine del conflitto l'Impero si sfaldò. Nel 1923 il generale massone Kemal Atatürk abolì definitivamente il sultanato; nasceva così la Repubblica di Turchia, profondamente occidentalizzata e proiettata verso l'Europa. La Russia fu sconvolta dalla Rivoluzione di febbraio che spodestò lo zar Nicola II, guidata dai massoni L'vov e Kerenskij, affiliati alla Gran Loggia di Russia. La rivolta di febbraio ebbe un carattere liberale e socialdemocratico. Ma il 25 ottobre successivo il potere fu preso dai comunisti bolscevichi, capitanati dagli altrettanti "fratelli" Lenin, Trotzkij, Zinov'ev, Parvus, Litvinov, Bucharin, Sverdlov, Lunačarskij, Radek, Rakowskij, Krasin, tutti iniziati al Grande Oriente di Francia; è forse da escludere l'appartenenza di Stalin, il quale non risulta affiliato. Lenin fu iniziato a Parigi nel 1908 alla loggia "Union de Bellevillle" e ottenne il 31° grado. Il governo sovietico del 1920 era molto particolare: su 21 Commissari del Popolo 17 erano di origine ebraica; su 545 funzionari di Stato, 447 erano ebrei. In effetti la comunità israelitica vedeva di buon occhio la Rivoluzione nel paese degli zar. Non è un mistero che essa fu finanziata da ambienti ebraici anglosassoni nordamericani ed europei contigui alla B'nai B'rith tramite Parvus (Rockefeller, Morgan, Kuhn & Loeb, Rothschild, Schiff, Warburg). Molti correligionari però, appartenenti alla piccola borghesia, furono ferocemente perseguitati e spogliati dei beni perché conservatori e fedeli al vecchio regime. La "Civiltà Cattolica", autorevole rivista dei gesuiti, parlò di un complotto giudaico-massonico-bolscevico. Il governo comunista di Russia è stato il primo a legalizzare la pratica genocida dell'aborto, voluto dal Commissario del Popolo agli Affari Familiari Goichberg su pressione di Lenin, ispirato a sua volta dal "miliardario rosso" americano Armand Hammer, uomo dei Rockefeller (i più grandi pianificatori del controllo delle nascite a livello globale), maestro dell'ecologista radicale Al Gore. Un grande storico magiaro-francese, François Fejtö, ha ammesso nella sua opera più conosciuta "Requiem per un Impero defunto", il ruolo determinante delle società segrete nello scoppio della Prima guerra mondiale. Gli stessi capi politici delle potenze vincitrici, il democratico Wilson (USA), il liberale Lloyd George (Gb), il radical-socialista Clemenceau (Fra) e il liberaldemocratico Orlando (Ita) erano tutti massoni. Woodrow Wilson fu l'ideatore della Società delle Nazioni, un organismo sovranazionale, antenato dell'ONU, che avrebbe dovuto portare secondo lui alla pace universale e ad un unico governo mondiale; essa avrebbe dovuto riuscire dove il Cristianesimo aveva fallito. Clemenceau era un anticlericale incallito; apparteneva ad una loggia i cui membri si facevano tumulare da morti ritti in piedi, in segno di odio e di sfida contro Dio. Nel '900 particolarmente travagliata è stata la storia del Messico. Scosso da rivoluzioni e da vari rivolgimenti politici (1910-1914), la lotta anticristiana fu molto virulenta. Presidenti massoni come Madero, Carranza, Obregòn, Cardenas e soprattutto Calles furono i protagonisti in negativo di un'epoca. Quest'ultimo scatenò una ferocissima persecuzione, che provocò come reazione la guerra cristera del 1927-1929. Il regime era controllato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale, che ideologicamente professava un socialismo di tipo ottocentesco con venature democratico-giacobine; per essere più pratici lo si potrebbe paragonare al Psoe di Zapatero. È unanimemente riconosciuto che la Massoneria messicana, secondo anche la testimonianza di P. Carlos Blanco, è la più anticlericale che esiste. Manovrata dagli USA o da ambienti sinarchici europei vicini alla Spagna e alla Francia, si sforza di dare al Messico un'identità laica e protestante in grado di cancellare le radici cattoliche del paese, viste come il maggiore ostacolo alla fusione di tutte le nazioni americane. Il rapporto tra la Libera Muratoria e i grandi nazionalismi europei è stato piuttosto complesso. In Italia Benito Mussolini nel 1922 mise fine a 61 anni di regime oligarchico - liberale, ma inizialmente già dal 1919, il fascismo godette del sostegno della Massoneria italiana, poiché lo credeva un movimento socialista e nazional-giacobino. Il massone anticlericale Arturo Reghini fu, insieme all'esoterista Julius Evola, il principale assertore del "fascismo pagano". Personalmente il Duce detestava i poteri occulti, e nel 1925 li mise fuori legge, suscitando le ire di Antonio Gramsci. Nonostante ciò, molti gerarchi fascisti erano "fratelli" come Grandi, Balbo, Badoglio, Bottai, Costanzo Ciano, Farinacci, Starace, Sante Ceccherini, Acerbo, ma anche due tecnici del governo come Giuseppe Volpi di Misurata e Alberto Beneduce. La cosa a quanto pare fu sottovalutata da Mussolini che se ne rese conto troppo tardi quando il 25 luglio 1943 fu sfiduciato dal Gran Consiglio da un gruppo di fascisti dissidenti capeggiati da Dino Grandi. Quest'ultimo ha scritto nelle sue memorie che voleva far pagare al Duce e al regime le scelte fatte dal 1936 in poi, anno dell'inizio della guerra civile di Spagna, che vide l'Italia fiancheggiare senza riserve i nazionalisti di Franco, impegnati in una dura lotta al bolscevismo e alla massoneria internazionale. Lo stesso Badoglio si oppose all'entrata in guerra dell'Italia. La massoneria negli anni '30 accentuò la propaganda antifascista, e in molte carte segrete, oggi recuperate, si esprimeva la necessità di abbattere il Duce con una grande alleanza internazionale, che si concretizzò con la Seconda guerra mondiale. In realtà la Massoneria non perdonava al regime anche la stipula dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, che mettevano fine al decennale contenzioso tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Il nazismo di Hitler era profondamente avverso alla massoneria, perché la considerava una pedina degli ebrei. Nonostante ciò, ministro dell'Economia del Reich e presidente della Deutsche Bank era il protestante frammassone Hjalmar Schact, "miracolosamente" sfuggito al processo di Norimberga, evidentemente salvato dai "fratelli" americani, inglesi, francesi e sovietici. Bisogna dire che il nazionalsocialismo fu in parte emanazione di circoli iniziatici pangermanisti e neopagani facenti capo alla loggia "Thule". Molti esponenti nazisti facevano parte di questo gruppo esoterico: Adolf Hitler, Alfred Rosenberg, Otto Rahn, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; quest'ultimo apparteneva anche all'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, società d'ispirazione rosacrociana. Secondo alcuni storici, si recò in Inghilterra nel 1941 per negoziare una pace separata con gli inglesi proprio a causa della sua affiliazione a questa setta segreta la cui sede e i cui vertici risiedevano in Gran Bretagna. Il Falangismo spagnolo di Francisco Franco fu autenticamente cattolico e rigorosamente antimassonico. La Repubblica, egemonizzata dalle sinistre anticlericali (socialisti, repubblicani, comunisti), e sostenuta dall'esterno dagli anarchici e all'estero dal Messico di Cardenas, dalla Francia del Fronte Popolare del marxista Lèon Blum e in maniera più decisa e diretta dall'URSS di Stalin, cominciò ad innescare un clima di odio e di violenza tale che soprattutto dal 1936 al 1939 raggiunse l'apice massimo. A proposito del dittatore georgiano, urge una precisazione: la volta scorsa ho scritto che non risulta affiliato; ebbene, un massone mi ha riferito invece che Stalin era "fratello". La Massoneria lo ha screditato dopo la morte a causa delle molte epurazioni da lui effettuate all'interno del Pcus. Il presidente repubblicano Manuel Azaña, un massone fanatico, era deciso a portare la Spagna sotto l'orbita sovietica, provocando e alimentando la violenza inaudita dei rivoluzionari contro la Chiesa e tutti coloro che non si piegavano al terrore rosso. Le persecuzioni furono terribili; gli orrori dei comunisti spagnoli superavano in molti casi quelli dei giacobini durante la Rivoluzione francese. Con la risoluta reazione dei nazionalisti di Franco, aiutati in maniera decisiva dalla Germania ma soprattutto dall'Italia, la Repubblica filosovietica fu abbattuta. Franco giunto al potere emanò il 1° marzo 1940 la legge per la repressione della massoneria e del comunismo. Va aggiunto che molti massoni di tutte le tendenze politiche antifasciste si arruolarono nelle Brigate Internazionali, per andare in soccorso dei "fratelli" in pericolo. La vittoria degli Alleati nella II guerra mondiale e la sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, implicò la divisione del mondo in due blocchi, voluto a Yalta nel 1945 dai "fratelli" Roosevelt, Churchill e Stalin: a occidente il predominio americano e a oriente quello sovietico. I due mondialismi materialisti si spartivano il pianeta: da una parte il capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante, dall'altro il comunismo ateo e totalitario. Il nazionalismo doveva essere distrutto per far posto al mondialismo, che avrebbe dovuto portare al compimento della Grande Opera, al sogno della massoneria: la Repubblica Universale. I popoli dovevano scegliere. L'Italia decideva il suo destino il 18 aprile 1948: dopo l'unità durante la Resistenza, una parte della Massoneria sostenne i partiti laici minori, il PDA, il PRI e il PLI, apertamente filoamericani, mentre l'altra il Fronte Popolare, costituito da PCI e PSI, che invece erano filosovietici. Simbolo del FP era un'immagine di Garibaldi. La grande vittoria della DC confermò l'Italia nel campo americano, insieme agli altri paesi occidentali. In tutta l'Europa orientale, la Massoneria spianò la strada ai socialcomunisti. La studiosa Angela Pellicciari, tra le migliori esperte di storia del Risorgimento italiano, ha giustamente notato che sull'emblema della DDR (la Germania Orientale comunista) figurava un compasso; ricordiamo che il compasso, con la stella a 5 punte e la squadra sono i principali simboli della massoneria. Un caso oscuro ed emblematico di come i "fratelli" si vogliano bene tra loro riguarda la Cecoslovacchia. Con il colpo di Stato del 1948, il radicale Jan Masaryk, già Gran Maestro della Massoneria ceca al pari di suo padre Tomas e di Edvard Beneš, persecutori e carnefici degli slovacchi cattolici, fu "suicidato" dagli stessi "fratelli" comunisti che lui aveva favorito come alleati al governo (era l'unico non marxista). La famiglia Masaryk fu protagonista di un vero e proprio dramma: Tomas fece di tutto per "liberare" la Cecoslovacchia dall'Impero Asburgico, mentre suo figlio Jan aveva consegnato il suo paese (rimettendoci la vita!) negli artigli del bolscevismo internazionale. Lo stesso anno, il 14 maggio 1948 Ben Gurion fondava lo Stato d'Israele, dando vita al "Risorgimento ebraico" che ha per base ideologica il Sionismo di Teodoro Herzl. Il sionismo predica il ritorno in patria del popolo d'Israele, in base ad un messianismo laico e terreno. Con l'arrivo dei coloni ebrei è iniziato un capitolo triste per la sorte del popolo arabo-palestinese. Nel 1945 a S. Francisco era nata l'ONU, per iniziativa delle potenze vincitrici, al posto della screditata Società delle Nazioni. La sua sede è a New York, edificata in uno spazio donato dai Rockefeller. Le stanze dell'ONU sono piene di simbologie massoniche. Le Nazioni Unite sono una prefigurazione del futuro governo mondiale, controllate da burocrati mediocri ma potenti, influenzati da un tipo di socialismo fabiano e tecnocratico. Esse hanno silenziosamente e subdolamente incoraggiato la decolonizzazione negli anni '40, '50 e '60 delle dipendenze oltre continente di Inghilterra, Francia, Belgio, Portogallo e Olanda. Rozzi e violenti capipopolo di sinistra come Sukarno in Indonesia, Lumumba nel Congo belga, Ho Chi Minh in Vietnam, solo per fare qualche nome, ottennero l'indipendenza delle loro nazioni per poi fare lucrosi affari sottobanco con i grandi capitalisti occidentali, loro che avevano predicato la guerra rivoluzionaria ai bianchi "schiavisti" e "sfruttatori". Lo stesso può dirsi per le rivoluzioni marxiste nei Paesi poveri, la Cina di Mao (istigata dall'agente sovietico del Comintern, il rivoluzionario massone Michail Borodin, detto Gurov) e la Cambogia dei khmer rossi, dove il macellaio comunista Pol Pot ha eliminato 1 milione di persone nel giro di una settimana, ma soprattutto nell'America Latina , guidate dai "fratelli" Castro e Che Guevara a Cuba (entrambi 33° grado del Rsaa della Gran Loggia Cubana), Romulo Betancourt in Venezuela, Jacobo Arbenz Guzmàn in Guatemala e Salvador Allende in Cile (Venerabile della Loggia "Hiram n° 66 di Santiago). Una breve digressione merita il "mitico 68". Esso fu preparato mediante un'efficace suggestione culturale dalla Scuola di Francoforte, un gruppo di filosofi marxisti "eretici", tra cui Theodor Adorno, Herbert Marcuse e Max Horkehimer. Fondata dalla Fabian Society, la società semi-segreta inglese nata nel 1904, fautrice dell'espansione del socialismo nel mondo, da cui sono usciti molti politici laburisti come i premier Tony Blair e Gordon Brown, essa aveva lo scopo di inquinare i costumi dell'Occidente con la mentalità libertaria e nichilista, al fine di facilitare l'avvento della socialdemocrazia universale. Un altro organismo mondialista che ci riguarda molto da vicino è l'Unione Europea (ex Ceca-Euratom, Cee). Nonostante sia stata voluta anche da 3 cattolici ferventi come De Gasperi, Schuman e Adenauer, l'Ue ha preso una piega sempre più tecnocratica, centralista, socialista e laicista. Padri "spirituali" di questa Europa debole e corrotta sono i massoni Blum, Spaak, Monnet, Spinelli, Brandt, Giscard d'Estaing, Felipe Gonzalez, Cohn Bendhit, Mitterrand (che in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese ha riempito Parigi di simboli esoterici) e Delors. Qualcuno non contento, vuole perfino far entrare la Turchia, vista come l'ariete che potrà finalmente distruggere la nostra Civiltà. Del resto è sotto gli occhi di tutti la politica anticristiana praticata dalle istituzioni comunitarie. L'azione della massoneria in Italia nel dopoguerra si è concentrata soprattutto sulla corruzione dei costumi e della famiglia. Forze politiche anticlericali come il Pri, il Psi, il Pci, il Psdi, il Pli, guidate dal Partito Radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino, riuscirono a far introdurre il divorzio nel 1970 e l'aborto nel 1978. Esso era stato legalizzato prima nell'URSS e poi nel restante campo comunista, poi diveniva legge negli USA il 22 gennaio 1973, quando la Corte Suprema, controllata dai Rockefeller, si pronunciò a favore di tale provvedimento. Che l'applicazione dell'aborto su scala mondiale sia frutto di una pianificazione a tavolino dei poteri massonici, non c'è dubbio; diceva la femminista francese Edwige Prud'homme, Gran Maestra della Loggia femminile di Francia, intervistata da Le Monde il 26 aprile 1975: «È nelle nostre logge che furono prese, 15 anni fa le prime iniziative che condussero alla legislazione sulla contraccezione, il familial planning e l'aborto». Lo storico François Fejtö su "il Giornale" del 14 dicembre 1982: «Sotto Giscard, il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Pierre Simon, svolse un ruolo preponderante nella preparazione delle leggi sulla contraccezione e l'aborto». Perfino Giovanni Paolo II diceva che «sono grandi e potenti le forze che oggi, apertamente od occultamente, dispiegano nel mondo la cultura della morte». Molte agenzie dell'ONU e dell'Ue promuovono l'aborto su scala planetaria, soprattutto nel Terzo mondo. L'aborto per i massoni, ha un significato esoterico profondo: è il sacrificio cruento di sangue innocente offerto al Principe di questo mondo, Satana, il vero dio della Massoneria, qualificato come Gadu o Ente Supremo, per nascondere ai profani le vere finalità della setta, come ebbe a sottolineare il grande giurista cattolico e controrivoluzionario francese vissuto tra il '700 e l'800, il conte di Anthenaire, e come confermano molti documenti riservati agli alti gradi, tra cui quelli di Albert Pike, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rssa della Giurisdizione del Sud degli Stati Uniti d'America, vissuto nell'800. Gli anni '80 furono l'inizio del collasso sovietico: l'elezione al vertice del PCUS dello pseudo innovatore Michail Gorbačev, tanto acclamato in Occidente, portò alla fine del comunismo nell'Europa orientale nel 1989 e alla dissoluzione dell'URSS nel 1991. La sua politica riformatrice e allo stesso tempo fallimentare, era dettata dai poteri forti mondialisti, decisi a far crollare il socialismo di Stato per proiettare l'economia russa verso il mercato globale; gli stessi gruppi di potere che furono i burattinai dell'ottobre 1917, i Rockefeller in testa. Non stupirà sapere che Gorbačev è massone e membro del Lucis Trust, un club fondato dalla teosofa ed esoterista Alice Bailey, che si batte per l'unificazione delle religioni; la congrega usa riunirsi spesso nella cappella newyorkese presbiteriana di S.Giovanni il Divino. Esso è inoltre uno degli sponsor più attivi per i meeting sul dialogo interreligioso promossi dall'ONU. Prima del novembre 1989, Gorbačev tenne un incontro molto riservato a Mosca con il Gran Maestro della Massoneria romena, Marcel Shapira, il quale gli confidò con mesi d'anticipo che i capi comunisti di allora, i vari Ceausescu, Husak, Honecker, ecc, sarebbero stati presto sostituiti con altri leaders. Ciò la dice lunga sui profondi legami tra apparato comunista e massoneria internazionale mondialista. Oggi l'ex dittatore sovietico è a capo della Green Cross International, una grande associazione ecologista, ed è tra i firmatari della Carta della Terra, che a suo avviso dovrebbe sostituire i 10 Comandamenti, nonché sostenitore delle bizzarre previsioni sul clima di Al Gore. Nell' '89 il comunismo, la peggiore forma di sfruttamento e di oppressione della storia, crollava con un terrificante bilancio incalcolabile di morti e di danni materiali e spirituali, con il solo risultato di aver devastato i popoli e di aver paradossalmente lasciato al loro posto tutti grossi gruppi del grande capitale internazionale. La fine del sistema comunista in Europa ha portato al superamento dei blocchi e all'indiscussa supremazia USA. L'11 settembre 1991 il presidente americano George Bush (33° grado Rsaa) annunciò dal suo studio ovale di Washington che si era giunti all'alba di un "nuovo ordine mondiale". Cosa intendeva? Quella che oggi è sotto gli occhi di tutti: la società multietnica e multiculturale, che ci porterà alla Repubblica Universale massonica, che annullerà tutte le culture e le fedi. Proprio a partire da quegli anni, l'Europa, culla di Civiltà, è stata interessata dall'invasione di immigrati provenienti dall'Est, dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia. La maggior parte di questi nuovi arrivati è di fede musulmana. La religione di Maometto è incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali, crea incomprensioni e problemi di convivenza, ma ai progressisti, custodi del politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione, la cosa sembra non importare, anzi auspicano uno "scontro creativo" tra civiltà, per cui nascerà un nuovo ordine dal caos, come disse Edgar Morin, sociologo di sinistra ed ex consigliere di Mitterrand. L'obiettivo dei grembiulini è devastare la radice e il tessuto culturale e sociale con l'ausilio della religione islamica, che è in grande espansione, contro un'Europa disarmata e in crisi d'identità. Ma la globalizzazione era già stata preparata nei piani alti delle logge massoniche. In piena Seconda guerra mondiale, John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller, così vedeva la "pace universale", sul "Times" del 16 marzo 1942: «Un Governo mondiale, la limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà di immigrazione nel mondo intero». Oggi si parla tanto di pace, quanto è abusato questo termine! La "pax mondana" è cosa ben diversa da quella "christiana", lo dice perfino Gesù nel Vangelo, checché ne dica qualche parroco o vescovo progressista. Tutti noi ricordiamo quando durante la guerra in Iraq, molti italiani esposero la bandiera arcobaleno; ebbene quel vessillo è simbolo della Società Teosofica, fondata nel 1875 a New York da Anne Beasant, Helena Petrovna Blavatsky , Alice Bailey e altri famosi occultisti, che indica la pace come sforzo umano e non come dono di Dio. L'arcobaleno così inteso era presente già nella simbologia delle logge massoniche del'700, figura sulla bandiera del Nicaragua (tuttora patria e rifugio di comunisti, massoni, rivoluzionari, guerriglieri, narcotrafficanti e terroristi di tutto il mondo) e nello stemma dell'Antico Rito Noachita. Inutile dire quanto sia usato durante le manifestazioni omosessuali. Quindi l'arcobaleno è il simbolo principale della Nuova Era dell'Acquario, che sarà pacifista, multietnica, multiculturale, multisessuale, sincretista e politicamente corretta. La moderna secolarizzazione ha colpito duramente anche la Chiesa. Una crisi che è stata preparata da tempo dalle logge massoniche. Documenti riservati dell'Alta massoneria risalenti a fine '800 – inizio '900 dichiaravano che occorreva distruggere la Chiesa cattolica dal di dentro, puntando sulla corruzione morale dei sacerdoti e dei credenti, al fine di screditarla. Il periodico francese "Vers Demain" pubblicò un estratto del piano studiato dal massone spretato Paul Roca: «Soppressione della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l'Eucarestia ridotta a un semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell'avvenire». Da qui l'irrompere dell'eresia modernista, duramente condannata da S. Pio X con il decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi del 1907. Ovunque la Massoneria è giunta al potere, ha sempre provveduto ad infiltrare agenti e a sottomettere la Chiesa allo Stato, come è avvenuto in Francia durante la Rivoluzione con la Costituzione Civile del Clero, così come in Messico, in Russia, ecc, e come voleva fare in Italia contro papa Pio IX, che non voleva «diventare il cappellano di Casa Savoia». Un grande santo come Padre Pio da Pietrelcina definiva la massoneria «l'infame setta». Non esagerava, aveva perfettamente ragione. Francesco Pio Meola

La massoneria cattiva che minaccia il mondo, scrive Claudio Messora il 9 dicembre 2015. Gioele Magaldi vi racconta i disegni della massoneria neo-aristrocratica e la battaglia in corso con quella progressista per il dominio sul mondo (la prima) e per il ripristino delle libertà fondamentali dell’uomo (la seconda), mostrando le connessioni con gli ultimi avvenimenti del contesto geopolitico.

Ho letto alcune tue interviste, in cui analizzi i fatti di Parigi, e li leghi all’intreccio massonico. Confermi?

Fatti come quelli del 7 gennaio e del 13 novembre sono già adombrati nel libro, specialmente nell’ultimo capitolo di “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere. L’ISIS è una creatura non “occidentale”, così come spesso si dice in una banalizzazione delle dinamiche del potere: è semmai una creazione sovranazionale, apolide. Ci sono forze sovranazionali che operano. E lo fanno con uno spirito cosmopolita. C’era per esempio, nell’Ottocento, una internazionale massonica progressista che andava a fare le rivoluzioni ovunque vi fosse una tirannide. La patria era ogni luogo ove si trattasse di aiutare delle persone ad auto-determinarsi, a darsi Costituzioni, liberali e democratiche. Garibaldi è uno che ha combattuto ovunque, insieme ai patrioti ungheresi, statunitensi, francesi. Sono venuti a fare il Risorgimento in Italia e sono andati a farlo in Ungheria, e sono andati in Francia, sono andati negli Stati Uniti. Ecco, invece oggi, da settant’anni a questa parte, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, per la prima volta nella storia nell’ambito della Massoneria sono arrivati all’egemonia dei gruppi massonici, non più progressisti, ma io li definisco neo-aristocratici e reazionari, con un’idea non più cosmopolita del loro potere e delle loro battaglie, ma apolide, cioè indifferente, cinicamente indifferente al benessere dei singoli popoli, e anche sopraelevati rispetto a qualunque controllo di tipo territoriale, con la capacità di incidere, quindi, globali. Ecco! Nell’ambito di questi circuiti c’è una super-loggia, la Hathor Pentalpha, che è a monte anche degli eventi tragici dell’11 settembre. A un certo punto prorompe in un ambito di altre super-logge neo-aristocratiche e, quasi come una super-loggia eretica in negativo, immagina un mondo dove anche il terrorismo, su scala globale, abbia un ruolo politico importante.

Un ruolo destabilizzatore?

Sì. Noi abbiamo già questa esperienza, per averla vissuta in Italia ma anche in singole altre nazioni. L’esperienza di un terrorismo degli anni Settanta e Ottanta che, molto spesso, è stato ambiguo ed opaco, nel senso che è un terrorismo dove ci sono state infiltrazioni di manine varie, cioè non c’era soltanto l’istanza, come dire, spontanea, autonoma e autentica ancorché terribile, di gruppi coerenti con quell’aberrante idea di trasformazione della società in modo violento, armato. No! C’era chi ha accompagnato, infiltrato, eterodiretto. Immaginiamo allora che a un certo punto qualcuno decide, in un mondo più globalizzato rispetto agli anni Settanta e Ottanta (ricordiamoci che la globalizzazione in senso stretto arriva dopo l’unificazione europea, la caduta del muro di Berlino e la caduta dell’Unione Sovietica), in un nuovo contesto che è quello che si va a configurare all’inizio del XXI° Secolo, che il terrorismo globale possa avere un ruolo importante per ridefinire i rapporti sociali e politici. Non ci scordiamo che, dopo il 2001, negli Stati Uniti e quindi nella prima democrazia al mondo, tutte le norme legislative del Papework Act sono all’insegna di una violazione patente di quei principi di democrazia e libertà su cui gli Stati Uniti e tutte le democrazie moderne sono stati edificati. E oggi, in Italia, in Francia, in Europa, dopo gli eventi francesi si inizia a pensare a misure legislative illiberali come il Papework Actamericano.

Quando tu dici che c’è una super-loggia che avrebbe interesse ad immaginare un ruolo politico per il terrorismo”, nella sostanza, a chi ti riferisci?

La caratteristica delle super-logge massoniche è quella di inglobare personaggi che provengono dall’establishment politico, finanziario, militare, diplomatico, dall’intelligence… Cioè: la trasversalità delle presenze è funzionale, perché c’è bisogno di una copertura mediatica. C’è bisogno di omissioni mediatiche. C’è bisogno di connivenza industriale, connivenza militare, connivenza politica.  I personaggi sono i protagonisti negativi dei primi anni duemila. Anche lì, attenzione! Certamente c’è dentro il clan Bush, ma il clan Bush è soltanto la punta di un iceberg. Il Governo degli Stati Uniti, gestito malamente nei due mandati di George W. Bush, in realtà è stato uno strumento. Quando alimentiamo polemiche antiamericane, non ci rendiamo conto che non esiste l’America in quanto tale. Gli Stati Uniti, come ogni grande paese, sono attraversati da gruppi di potere che spesso sono in feroce lotta tra di loro. Questi poteri apolidi di cui parlavo prima si servono anche del governo degli Stati Uniti, quando possono, perché è un governo importante, che muove risorse militari ed economiche importanti. Ma si tratta di un utilizzo fatto dall’esterno, attraverso persone che, contingentemente, occupano dei posti. Mi chiedono se no ho paura di morire. Intanto ci tengo a precisare che non sto “sputtanando” la Massoneria: io sono un massone fiero di essere tale, e lo rivendico con orgoglio. L’opinione pubblica italiana è paurosamente ignorante su questo tema, a partire dai libri di scuola dove l’argomento massoneria viene omesso. Nessuno ne parla, né nel bene né nel male. La massoneria è stata centrale, a partire dal settecento e fino agli anni sessanta con la New Frontiers, che è stata l’ultima istanza veramente progressista del novecento. Kennedy non era massone, ma il suo ideologo di riferimento, Artur Meier Schelesinger, era massone ed era anche Maestro Venerabile di una loggia progressista molto importante: la Thomas Paine, alla quale ho avuto il privilegio di essere iniziato. E poi va ricordato l’evento epocale che ha mandato, per la prima volta, il primo Presidente cattolico alla guida degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, e il primo Papa massone al Soglio Pontificio, che fece il Concilio Vaticano II° e riconciliò la Chiesa con la modernità. Una sorta di connubio, quindi, grazie a un’operazione voluta da alcune logge di ambiente cattolicheggiante e non. Da questo partì anche, grazie ad una serie di reti massoniche, la risoluzione della crisi missilistica di Cuba. C’è questo tentativo che vedrà poi degli epigoni anche in una serie di persone che verranno uccise, da Robert Kennedy a Martin Luther King. Robert Kennedy stava per essere iniziato: non fece a tempo. Martin Luther King invece era massone. E c’è un laboratorio, in quel momento, che tenta di proporre un ampliamento dei diritti sociali ed economici: era la New Frontiers kennedyana, che venne bloccato attraverso degli omicidi. Questi omicidi segnano anche l’arrivo di una nuova egemonia, non più della massoneria progressista, che appunto io rivendico con orgoglio e che dal settecento in avanti ha trasformato il mondo portando la sovranità del popolo, la democrazia, la libertà, lo stato di diritto, i diritti inalienabili degli uomini e dei cittadini – e questa cosa avrebbe potuto proseguire, e forse oggi ci troveremmo in un mondo diversamente globalizzato -, ma di una massoneria neo-aristocratica, che immagina un’involuzione oligarchica e tecnocratica nella governance mondiale.

E ci riesce, fino ad adesso!

E ci riesce fino ad adesso! Naturalmente con delle accelerazioni pericolose da apprendisti stregoni, che offrono il fianco ad una reazione. Io, insieme ad altre persone in Italia e nel mondo, stiamo cercando di “riavviare”, la forza comunque silente, intatta, dei circuiti massonici progressisti che hanno sonnecchiato.

Per tornare alla domanda precedente, come influiscono queste super logge nei fatti, nei flussi degli avvenimenti terroristici?

Facciamo un esempio: il famoso Califfo al-Baghdadi. Siamo al limite del paradosso: coloro che lo detengono come pericoloso terrorista si vedono recapitare un ordine di scarceramento! Questo signore è stato iniziato massone, è un uomo del tutto integrato nel sistema di vita occidentale il quale, insieme agli altri suoi compari, da mesi fa una sceneggiata hollywoodiana, perché tutte le decapitazioni in mondovisione, tutto il sistema comunicativo dell’ISIS, è un sistema ben studiato.

Compresa Rita Katz che è l’unica…

Tutto quanto è ben studiato. Ci sono alcuni che sono iniziati a queste logge “controiniziatiche”, che io definirei una “massoneria maligna“, una pianta maligna che è fiorita dentro un corpo non solo sano, ma benemerito. E poi ci sono naturalmente gli ignari. L’ISIS fa un salto di qualità. Prima avevamo il terrorismo di al-Qaeda che era un terrorismo a macchia di leopardo: non c’era uno Stato: c’era una base in Afganistan. Qui invece c’è un catalizzatore potente anche ideologico, cioè l’ISIS, che è un punto di richiamo per cellule sparse ovunque, ma ha che ha anche una sua forza finanziaria, una capacità di espansione e di attrazione, antitetica anche alla modernità. Diciamo la verità: sono state introdotte leggi liberticide con il Patriot Actnegli Stati Uniti e anche altrove in Occidente, ma poi si era spenta l’emergenza al terrorismo, perché era un’emergenza fasulla, farlocca, così come è farlocco il pericolo dell’ISIS. Proseguendo nella direzione che stiamo prendendo, ad un certo momento ci sarà un intervento militare del solito tipo, cioè di tipo distruttivo. Ci andranno di mezzo popolazioni inermi, civili, senza nessuna costruzione di infrastrutture materiali e immateriali della democrazia e della libertà. A questo si arriverà titillando la paura, l’orrore. Invece, diciamoci la verità, quello che bisognerebbe fare oggi è sì raderli al suolo (io sono per l’intervento di terra, di aria, di tutto), ma la potenza delle democrazie è talmente spropositata che, se volessero intervenire, in poco tempo l’ISIS verrebbe raso al suolo. Ma poi occorrerebbe fare una cosa che non è stata fatta in tutti questi decenni: cioè invece di proporre forme diverse e sempre uguali di neocolonialismo, di sfruttamento del caos altrui per i propri interessi, si tratterebbe di costruire, in quei Paesi, infrastrutture materiali e immateriali di democrazia. Questo è lo spirito della Dichiarazione Universali dei Diritti Umani che noi abbiamo approvato all’ONU, ma che è lettera morta! Cioè pensare che fatte salve le specificità culturali, però ci voglia il rispetto delle donne, il rispetto dei diversi, il rispetto dei dissenzienti, il rispetto del fatto che gli esseri umani sono cittadini e non sudditi. Tutte cose che io rivendico come portate dalla massoneria, la massoneria ha inventato il concetto di esseri umani latori pro quota di sovranità e non sudditi. Guardate che la consuetudine dei millenni di storia umana è quella di avere avuto oligarchie, aristocrazie religiose o profane a governare su masse di straccioni tenuti nell’ignoranza e nell’abbrutimento. La massoneria, gli avanguardisti massoni, dal settecento in avanti hanno cambiato questo stato di cose. Adesso, degli avanguardisti in negativo stanno cercando di introdurre un governo mondiale di aristocratici dello spirito, sedicenti “illuminati”. Illuminati è un aggettivo, non un sostantivo come alimenta un certo fiume carsico complottista. Non esiste nessuna continuità storica tra illuminati di Baviera e presunti illuminati che governerebbero il mondo, cosa che non significa nulla. ‘Illuminati’ è un aggettivo che può attribuirsi ad alcuni massoni aristocratici. Ecco, costoro immaginano un mondo neo-feudale, (ndr: cfr. “Diego Fusaro: il medioevo era meglio”) dove la democrazia – attenzione! -, non è affrontata in termini perentori, come invce accadde in certi esperimenti liberticidi e tirannici negli anni settanta. Cioè non si la si sostituisce con un regime tirannico, in occidente. Pensiamo a quello che accadde in Grecia, con la dittatura dei Colonnelli, a quello che accadde in Portogallo, a quello che accadde in America Latina con l’operazione Condor, al Cile, all’Argentina, a quello chesi tentò di fare in Italia con la P2 che doveva essere la base per gestire in modo autoritario, stile Argentina, un paese nel cuore dell’occidente. Oggi non si pensa più a questo perché il cittadino ormai è abituato ai riti della democrazia, alla retorica della democrazia. Oggi piuttosto si pensa di svuotarla di sostanza. Si abitua il cittadino a non eleggere più il Senato o le province (ad esempio, per parlare dell’Italia). In Europa ci si è abituati a una costruzione economicistica e tecnocratica: il Parlamento Europeo non è il luogo della sovranità del popolo: non ha il potere di sfiduciare un esecutivo europeo. Non abbiamo un dipartimento economico, quindi un primato della politica, sovra-ordinato alla Banca Centrale. Il più grosso potere è un potere non elettivo, tecnocratico. La Banca Centrale? Sì, c’è un diritto pubblico che la regola, ma la proprietà e l’indirizzo sono di natura privatistica. Ecco: questa Europa è figlia delle idee del comitato disposto da Coudenhove-Kalergi e Jean Monnet, ex massone progressista (ndr: cfr. “Il piano Kalergi” e “La verità su Kalergi e il suo piano”), passato poi ai circuiti neo-aristocratici. Sento spesso dire: “Bisogna tornare allo spirito del discorso di Schuman dei padri fondatori”, ma proprio quello spirito ha costruito questa Europa! Il discorso di Robert Schuman del 1950 fu scritto da Jean Monnet!

La UE è una creatura massonica?

È una creatura massonica! io ne parlo nel secondo capitolo nel libro “Massoni”. Io davvero rinvio il tuo pubblico alla lettura di quel libro, perché gli ultimi settant’anni di storia vengono passati ai raggi-x con nomi, cognomi e circostanze in termini estremamente minuziosi.

Cosa vuole dire UR-lodges?

La massoneria storicamente si articola in Grandi Orienti o Gran Logge, cioè federazioni di logge su base nazionale, con una certa difformità di rituali. La massoneria è un network internazionale, tanto che c’è perfino unpassaporto massonico che consente di avere – diciamo – rapporti diplomatici. Tuttavia, questa articolazione viene superata, nella seconda metà dell’ottocento, dalla costruzione di super-logge sovra-nazionali, che bypassano gli insediamenti nazionali e quindi la sovranità territoriale di una giunta, di un Grande Oriente o di una Gran Loggia e si pongono in termini globalizzanti. Spesso cooptano tra le proprie file sia profani, cioè persone mai passate per iniziazione massonica ma eccellenti in vari ambiti, sia eminenze della massoneria tradizionale. Quindi può capitare che un personaggio importante, della United Lodges of England o della Gran loggia dello stato di New York o del grande Oriente di Francia o del Grande Oriente d’Italia, poi stia con un piede lì e un piede in una super-loggia, beneficiando di una maggiore capacità di movimento. Le UR-Lodegesdanno anche vita a quei soggetti che spesso sono immaginati illusoriamente come i protagonisti di certi eventi contemporanei. Parlo del Bildelberg Group, della Trilateral Commission, del Council on Foreign Relation, del Royal Institute of International Affairs, del Bohemian Club. Tutta questa pletora di entità, che non hanno alcuna vera soggettività importante o capacità di incidere, sono associazioni paramassoniche, dove si incontrano massoni e non massoni ma dove di solito sono in pochi quelli appartenenti alle UR-Lodges, le super logge che le hanno generate, ad avere il controllo. Per esempio Enrico Letta, che pure ha fatto e fa parte di varie entità paramassoniche, non è mai stato iniziato in una qualche UR-Lodges.

Mario Monti sì, però?

Mario Monti sì! E io ne ho parlato: sono stato forse il primo a spiegare qual era il background di Mario Monti.

Monti, Napolitano, Draghi… non c’è bisogno che te lo chieda. Ma la domanda era questa: le UR-Lodges hanno questo obiettivo di neo-feudalizzare la società globale. Ma se è vero che ogni cosa che si fa deve avere un obiettivo, un tornaconto, un interesse, qual è lo scopo finale? Forse pensano che il mondo sarebbe meglio organizzato in un altro modo, oppure hanno interessi economico-finanziari da difendere, o magari pensano di poter amministrare meglio la loro attività. Cosa vorrebbero?

“I veri mandanti dell’Isis e la Superloggia massonica Hathor-Pentalpha”, scrive Carlo Tarallo il 20 novembre 2015 su “Italia Ora”. Intervista esclusiva a Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com) e Presidente del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), autore del best-seller “MASSONI. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges” (Chiarelettere, Milano 2014) primo volume di una trilogia, che sta anche per essere pubblicato in lingua spagnola, francese e inglese.

D. Magaldi, lei afferma nel suo libro “Massoni” che il nome “Isis” ha un significato legato a una superloggia massonica…

R. Come ho spiegato nel primo volume della serie di Massoni. Società a responsabilità, Chiarelettere Editore, l’Isis e il progetto politico-terroristico connesso sono una precisa e meditata creazione ad opera della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, una superloggia sovranazionale malignamente “eretica ed estremista” nei suoi fini e nei suoi mezzi, persino rispetto agli ordinari circuiti massonici neoaristocratici e reazionari. Del resto, Isis o Iside è la stessa divinità egizia che, in determinati contesti mitologico-rituali, assume il nome di “Hathor… Tutto questo, comunque, viene spiegato minuziosamente nel libro Massoni, cosi come vi vengono profetizzati- con mesi e mesi di anticipo (il libro è uscito nel novembre 2014) - eventi quali i tremendi attentati terroristici di Parigi del 7 gennaio (episodio di “Charlie Hebdo”) e del 13 novembre 2015.  Le superlogge “Hathor-Pentalpha”, “Amun”, “Geburah”, “Der Ring” (alla guida di altre, loro satelliti) lucrarono enormi profitti geopolitici ed economici dalle guerre “preventive” al terrorismo dei primi anni ‘2000. Guerre che avrebbero avuto un senso solo se davvero fossero state volte ad “esportare” democrazia, libertà, laicità, diritti universali e infrastrutture materiali e immateriali in grado di garantire in Medio Oriente e altrove non solo istituzioni fondate sulla sovranità popolare e il pluralismo liberale, ma anche giustizia sociale e prosperità per tutti e per ciascuno. Cosi non fu. Quelle guerre, scatenate con il pretesto di abbattere “regimi canaglia” fiancheggiatori del terrorismo islamico, in realtà sono servite a scopi di ampliamento del potere e della ricchezza di un ristretto numero di gruppi massonici reazionari e neoaristocratici.

Cosa sono le superlogge massoniche?

Anzitutto occorre rammentare che il termine tecnico per denominarle è “Ur-Lodges”. Si tratta di logge molto potenti e speciali, di respiro e composizione sovranazionale, che cooptano tra i propri membri eminenti personaggi (sia uomini che donne) appartenenti alle Comunioni massoniche tradizionali (Gran Logge e Grandi Orienti) e anche profani e profane di particolare spessore e prestigio politico-sociale, economico-finanziario, mediatico, militare e culturale. E si tratta di contesti dove non ci si occupa soltanto di gestire il potere ai suoi massimi livelli globali, ma anche di cenacoli dove teorie e pratiche rituali ed esoteriche vengono coltivate con grande assiduità e scrupolosità. In effetti, a partire da fine Ottocento (momento di nascita delle prime, tra queste superlogge) e poi soprattutto nel corso del Novecento e nel primo quarto del XXI secolo, l’egemonia massonica e l’egemonia tout-court a livello planetario passa dalle tradizionali comunità massoniche organizzate su base nazionale a queste superlogge sovranazionali.

Perché una superloggia dovrebbe scatenare il terrore in Europa?

Da mesi, con la sceneggiata hollywoodiana sull’Isis e i suoi tagliatori di teste trasmessa worldwide, si è dapprima preparato il terreno. Poi è giunto il primo assaggio cruento nel cuore del Vecchio continente (vedi attentato alla sede della rivista “Charlie Hebdo”), quindi c’è stata una ulteriore escalation con l’episodio di venerdì 13 novembre 2015 e la strage di Parigi. Pur dissentendo da qualsivoglia paranoia complottista sulle numerologie di certi eventi, occorre rammentare che da quando, il venerdì 13 ottobre del 1307, il re di Francia Filippo il Bello diede l’ordine di arresto dei Cavalieri Templari, “venerdì 13” è divenuto un significante importante e famigerato negli ambienti esoterici e massonici e poi anche nell’immaginario collettivo “profano”, tanto da dar vita, in tempi recenti, ad alcune serie filmografiche sul tema. E’ in corso una lotta fratricida tra ambienti massonici neoaristocratici, egemoni da mezzo secolo, e la ripresa di attività dei circuiti latomistici progressisti, decisi ora ad invertire il corso antidemocratico e tecnocratico tanto della globalizzazione che della governance europea. Colpendo in un giorno molto preciso e particolare, le manovalanze terroristiche eterodirette dagli ambienti della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, intendevano conseguire due precisi obiettivi. 

Uno: dare un segnale infra-massonico ai circuiti liberomuratori progressisti e in particolare a una superloggia precisa, legata alla tradizione dei Templari e operante con particolare attenzione in Francia, in questi mesi… Dirò poi di che Ur-Lodge si tratti e che cosa stia cercando di fare sul territorio francese. 

Due: grazie allo shock provocato e allo spauracchio della presunta impossibilità di garantire la sicurezza senza misure emergenziali, determinare sia in Francia che altrove un maggiore controllo politico, sociale e mediatico “autoritario”, mediante l’introduzione di eventuali modifiche costituzionali (vedi gli annunci di Hollande in tal senso) e di una sorta di “Patriot Act” europeo. In sostanza, dopo aver determinato una cinesizzazione del popolo europeo sul piano dei rapporti sociali ed economici (smantellamento del welfare, disoccupazione galoppante, crollo della domanda aggregata e dei consumi e conseguente aumento di manodopera a buon prezzo e con bassi salari) e dopo aver costruito una UE matrigna e antidemocratica (il Parlamento europeo, luogo di rappresentanza della sovranità del Popolo europeo non ha il potere di fiduciare e sfiduciare un esecutivo politico continentale che sia sovraordinato alle strutture burocratiche comunitarie, invece di essere, come effettivamente è, subordinato alla dittatura tecnocratica della Bce, vero “dominus” non elettivo dell’attuale Europa), adesso si cerca di mortificare ulteriormente la vita democratica del Vecchio continente, introducendo, per mezzo della paura del terrorismo, leggi liberticide e autoritarie.

Il Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha detto che “forse dobbiamo essere pronti a rinunciare ad alcune delle nostre libertà personali, in particolare dal punto di vista della comunicazione” a causa della necessità di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Cosa ne pensa?

Proprio il 14 novembre, sul sito ufficiale del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), poi rilanciato anche sul sito di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), è apparso un importante intervento intitolato “Strage a Parigi del 13 novembre 2015: il tragico avverarsi delle profezie di MASSONI e di Gioele Magaldi (risalenti al 2014) e un necessario impegno di tutti e di ciascuno per difendere democrazia e libertà, contro qualsivoglia deriva autoritaria e illiberale in stile Patriot Act sul suolo europeo e contro altre conseguenze strumentali e scellerate auspicate dai mandanti degli attentati di ieri (13 novembre) e del 7 gennaio 2015 in Francia”, articolo pubblicato il 14 novembre 2015 sul sito MR, di cui consiglio un’attenta lettura. Dopo qualche polemica iniziale, “a caldo”, rispetto a quanto da lui affermato, ho avuto modo di informarmi meglio sulla figura di Franco Roberti, procuratore antimafia e antiterrorismo, e in molti me ne hanno parlato come di persona seria, competente e amante della libertà e della democrazia. Credo, quindi, che quelle parole (anch’ esse dette “a caldo”, sull’onda dei fatti terribili che ci hanno tutti indignato e scosso) sul fatto di rinunciare alla libertà, specie di comunicazione, in favore della sicurezza, siano state pronunciate in un momento di comprensibile e preponderante preoccupazione di assicurare al popolo italiano il massimo di tutela da minacce terroristiche.  Ma sono altrettanto convinto che Franco Roberti e i suoi collaboratori saranno in grado di lavorare alacremente sul lato della prevenzione e del controllo sapiente del territorio e dei luoghi più esposti a rischio, senza minimamente attentare alle libertà fondamentali dei cittadini. Del resto, il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al Mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”.  A proposito dei fatti di Parigi di venerdì scorso, vorrei aggiungere quello che mi hanno suggerito diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia, e in particolare a Parigi. E sa cosa mi hanno detto? Che senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere. 

Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il Presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza?

Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile. Ecco, dunque ci si prodighi per evitare, in Italia, le falle clamorose e inescusabili relative alla prevenzione degli attentati e al presidio capillare dei luoghi più esposti a rischi. E da questo punto di vista, in molti che lo conoscono bene, mi assicurano che Franco Roberti rappresenti una garanzia- per competenza, intelligenza e desiderio sincero di proteggere la popolazione esposta a minacce terroristiche- di prim’ordine.

Quando e come finirà, se finirà, questa tragedia? 

La tragedia non finirà da sola. La sua fine dipende insieme dalle iniziative dei massoni progressisti nel contrastare i progetti di involuzione neo-feudale su scala europea, occidentale e globale e dal risveglio dell’orgoglio di tutti i cittadini comuni, latori pro-quota di sovranità. In questa prospettiva è stato fondato il Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), per unire in una alleanza comune élites progressiste e popolo sovrano desideroso di difendere con le unghie e con i denti tre secoli di conquiste democratiche e liberali.

Le sue verità sono sconvolgenti, lei vende tantissimi libri e gira l’Italia a spiegarle a tutti. Ha mai avuto una querela?

Ho ricevuto querele (stralunate) per diffamazione, in relazione alle attività del sito ufficiale di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), Movimento massonico d’opinione di cui mi onoro di essere Gran Maestro. Ma non ho ricevuto alcuna querela per questioni attinenti alla pubblicazione del libro Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges.

Nella massoneria, adesso, pensa di avere più amici o più nemici?

Ho sicuramente sia molti amici che molti nemici, all’esterno del network specifico di GOD, parte del più ampio campo di azione della Libera Muratoria progressista, di cui sono parte integrante. Tuttavia, da qualche tempo a questa parte accadono cose un po’ strane… L’altro giorno, ad esempio, qualcuno mi ha iscritto ad un Gruppo “Massoneria” su facebook e poi, su quello stesso Gruppo, ieri, mercoledì 18 novembre, sono stato oggetto di minacce di esplicita violenza fisica e anche di morte, da alcuni massoni italiani, peraltro riconoscibili con nome e cognome. Sarà naturalmente mia cura, nelle prossime ore, allertare della cosa in modo adeguato sia le autorità giudiziarie competenti che l’opinione pubblica. 

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

Il testo di “Bella Ciao”.

Una mattina mi son svegliato,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

Una mattina mi son svegliato

e ho trovato l'invasor.

O partigiano, portami via,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

O partigiano, portami via,

ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E se io muoio da partigiano,

tu mi devi seppellir.

E seppellire lassù in montagna,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E seppellire lassù in montagna

sotto l'ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E le genti che passeranno

Mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano»,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

«È questo il fiore del partigiano

morto per la libertà!»

I testi di Faccetta nera e Giovinezza che mai faranno cantare a scuola.

FACCETTA NERA

Se tu dall'altopiano guardi il mare,

moretta che sei schiava tra gli schiavi,

vedrai come in un sogno tante navi

e un tricolore sventolar per te.

Faccetta nera, bell'abissina

aspetta e spera che già l'ora s'avvicina

quando saremo vicino a te

noi ti daremo un'altra legge e un altro Re.

La legge nostra è schiavitù d'amore

il nostro motto è libertà e dovere

vendicheremo noi camice nere

gli eroi caduti liberando te.

Faccetta nera, bell'abissina...

Faccetta nera, piccola abissina,

ti porteremo a Roma liberata

dal sole nostro tu sarai baciata

sarai in camicia nera pure tu.

Faccetta nera sarai romana,

la tua bandiera sarà sol quella italiana,

noi marceremo insieme a te

e sfileremo avanti al Duce, avanti al Re.

GIOVINEZZA testo del 1922

Su, compagni in forti schiere,

marciam verso l'avvenire

Siam falangi audaci e fiere,

pronte a osare, pronte a ardire.

Trionfi alfine l'ideale

per cui tanto combattemmo:

Fratellanza nazionale

d'italiana civiltà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Non più ignava nè avvilita

resti ancor la nostra gente,

si ridesti a nuova vita

di splendore più possente

Su, leviamo alta la faccia

che c'illumini il cammino,

nel lavoro e nella pace

sia la vera libertà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Nelle veglie di trincea

cupo vento di mitraglia

ci ravvolse alla bandiera

che agitammo alla battaglia.

Vittoriosa al nuovo sole

stretti a lei dobbiam lottare,

è l'Italia che lo vuole,

per l'Italia vincerem.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Sorgi alfin lavoratore

giunto è il dì della riscossa

ti frodarono il sudore

con l'appello alla sommossa

Giù le bende ai traditori

che ti strinsero a catena;

Alla gogna gl'impostori

delle asiatiche virtù.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà 

GIOVINEZZA testo successivo

Salve o popolo di eroi,

salve o Patria immortale,

son rinati i figli tuoi

con la fe' nell'ideale.

Il valor dei tuoi guerrieri

la virtù dei pionieri

la vision dell'Alighieri

oggi brilla in tutti i cuor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

del Fascismo è la salvezza per la nostra libertà.

Dell'Italia nei confini

son rifatti gli Italiani,

li ha rifatti Mussolini

per la guerra di domani

Per la gloria del lavoro

per la pace e per l'alloro

per la gogna di coloro

che la Patria rinnegar.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

I poeti e gli artigiani

i signori e i contadini,

con orgoglio di Italiani

giuran fede a Mussolini.

Non v'è povero quartiere

che non mandi le sue schiere,

che non spieghi le bandiere

del fascismo redentor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Bella Ciao. A 4 anni. Stamattina sono andato alla festa di fine anno dell’asilo di mio figlio qui a Milano, scrive Nicola Porro. Ha quattro anni e come i suoi coetanei ha indossato una maglietta colorata. Mi siedo e ascolto i cori che fanno le diverse classi: canzonette regionali rappresentative dell’unità d’Italia. Il tema generale erano i 150 anni dell’Italia e i bambini erano vestiti con magliette che formavano il tricolore. La recita va avanti con un repertorio di classici: Va pensiero, il Piave. E finalmente, si fa per dire, arriva Bella ciao. Si finisce poco dopo con l’inno d’Italia. Vi devo dire che non è mi è piaciuta. Che razza di scuola insegna ad un bambino di 4 anni, Bella Ciao?

Polemiche alle elementari di Porta Nuova sulla decisione di far cantare agli alunni un ritornello ispirato all' inno partigiano. Bella ciao a scuola. «E noi disertiamo la festa». Alcuni genitori minacciano di boicottare la recita di fine anno. Il preside: non è un canto sovversivo, scrive Sacchi Annachiara su “Il Corriere della Sera”. Canteranno in coro « Scuola ciao » . Per salutare i bambini di quinta elementare e dare l' arrivederci a compagni e insegnanti. Si metteranno in ordine per classe, come hanno imparato durante le prove. Il ritornello farà così: « Scuola ciao, scuola ciao, scuola c i a o c i a o ciao » , sulle note della canzone partigiana Bella ciao . E, a quel punto, un gruppetto di genitori minaccerà di andarsene. Portandosi via anche i figli. Festa di fine anno con polemica, quella di oggi alle elementari dei Bastioni di Porta Nuova. L' inno della Resistenza, scelto come « base » per il commiato dei bambini, ha incontrato prima qualche perplessità tra alcuni docenti e genitori per scatenare, poi, una vera e propria ostilità. « Le maestre sono state povere di idee: potevano scegliere qualsiasi altro motivo » . A parlare è la mamma d i uno dei 260 bambini iscritti. « Sono di origini friulane, per me quella canzone ha un significato forte. Certo, qui a Milano non ci sono ricordi drammatici come i nostri, ma è stato comun que un errore clamoroso, una grave leggerezza. E la cosa peggiore è che questa vicenda sarà strumentalizzata politicamente » . Polemiche o no, i bambini canteranno comunque. La festa seguirà fedelmente il programma: giochi all' aperto, mostra di manufatti e il grande coro finale. Lo ha deciso il preside dell' istituto, Alberto De Donno: « Bella ciao non è un canto sovversivo o anticostituzionale, fa parte della tradizione popolare. Certo, forse si poteva scegliere Ciao Mare , ma in ogni caso il nostro è un messaggio di auguri. Lo ripeto: non c' è nessuna volontà di dividere o di colorare politicamente la festa dei bambini. Il brano è stato scelto perché è molto orecchiabile » . Parole ribadite in una lettera scritta dal preside a insegnanti e famiglie: « È un canto innocente » . E per una nuova polemica ne riaffiora un' altra passata, quella sul presepe. « Sotto Natale, all' ultimo minuto - è la replica di alcune mamme - ci è stato spiegato che il presepe poteva offendere i bambini di religione non cristiana . Risultato: non si è fatto. Ma se siamo noi quelli offesi, allora non succede niente » . Sospira i l preside: « L' anno prossimo cercheremo di rendere più unita la scuola: questi, evidentemente, sono segnali di sofferenza. Sono dispiaciuto perché la festa voleva unire, non dividere. Speriamo solo che i genitori non ritirino i bambini al momento del canto » .

Il caso segnalato da “La Gazzetta di Modena”. “A scuola no ai canti di natale ma via libera a Bella Ciao?”. Barcaiuolo (Fratelli d’Italia) incredulo: «"Bella Ciao" insegnata ai bambini delle elementari dove invece è vietato insegnare canti natalizi o pasquali di matrice religiosa. Siamo in Italia o in Corea del Nord?». È quanto si chiede incredulo Michele Barcaiuolo capogruppo Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale che intende così denunciare pubblicamente qualcosa che non condivide. «In questi giorni sono stato contattato da molti genitori che scandalizzati, mi hanno segnalato l'atteggiamento che ormai in molte scuole modenesi gli insegnanti hanno assunto nei confronti delle svariate festività civili o religiose. - spiega - E' ormai noto a molti che sono moltissime le scuole modenesi , che per non urtare "altre sensibilità" scelgono, in occasione di festività come il S. Natale e la S. Pasqua di non insegnare ai bambini nessun canto, nessuna poesia che abbia qualsiasi riferimento alla matrice religiosa delle festività. Trovo questo atteggiamento e queste scelte incomprensibili, sopratutto in Italia dove perfino un ultrà laico come Benedetto Croce sosteneva "non possiamo non dirci cristiani per l'enorme influenza che la cultura, l'arte e l'architettura cristiana hanno in una Nazione come l'Italia". Ma se possibile , in questi giorni si sta facendo di peggio : in diverse scuole elementari di Modena ci sono insegnati che stanno insegnando ai bambini a cantare "Bella Ciao" come canzone prodromica a giustificare tutto ciò che e' stato fatto dai partigiani. Non sono certo bambini di 7, 8 o 9 anni a dover approfondire le pagine buie e le ombre della resistenza (cit. Giorgio Napolitano) ;ma certo indottrinare dei bambini con la vulgata storica voluta da chi in questa città da 70 anni continua a fare il bello e il cattivo tempo non e' il modo migliore per consegnare il domani alle nuove generazioni, sembra invece che a Modena ci siano aspetti educativi che più che a guardare alla formazione dei bambini guardino alla Corea del Nord». Voi che ne pensate?

“Bella Ciao. Controstoria della Resistenza”. Autore Giampaolo Pansa. Il 25 aprile chi va in piazza a cantare "Bella ciao" è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell'Italia. È un'immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell'Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. "Bella ciao" ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall'agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile. La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati.

Dalla piazza greca di Tsipras alla Francia di Charlie Ebdo, dalle manifestazioni antigovernative in Turchia a quelle contro Yanukovich in Ucrainia, fino ai cortei di Occupy Hong Kong. Bella Ciao viene cantata in tutto il mondo. Ma come è nata? Quando? Perché è diventata globale?

Tutto il mondo (Italia esclusa) canta in piazza Bella ciao. La storia Da Atene a Parigi, da Istanbul a Hong Kong, la canzone della Resistenza diventa inno di libertà. Mentre nel nostro Paese è ritenuta a torto solo un manifesto comunista, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica” A Parigi l'emozione di Bella Ciao è la resistenza della libertà d'espressione alla barbarie dei kalashnikov, ad Atene accompagna l'utopia populista di Tsipras, a Hong Kong scandisce l'opposizione alla Cina comunista, a Istanbul canta la rivolta contro l'Islam autoritario di Erdogan. Solo in Italia Bella Ciao è all'indice, confusa con Bandiera rossa e L'Internazionale , e mai cantata, come si dovrebbe, con l'alzabandiera del 25 aprile, ma trattata come un inno comunista, degradata da canto laico della liberazione e della concordia repubblicana a ballata dei trinariciuti, a manifesto del Soviet italiano. E invece, nel mondo, la canzone della Resistenza ha fatto la sua resistenza, e ha vinto, anche contro se stessa. È infatti evasa dalla gabbia del braccio armato e del pugno chiuso con la forza della melodia tradizionale, con quelle due parole "ciao" e "bella" che sono le password della nostra identità, con i timbri e i toni che sono il meglio della leggerezza di Sanremo, con la dolce malinconia del bel fiore sulla tomba, e ovviamente con il partigiano morto per la libertà e non per "la rossa primavera" della falce e martello e neppure per il sol dell'avvenire della filosofia classica tedesca. Insomma Bella ciao ce l'ha fatta a riaccendere le emozioni originarie che la resero colonna sonora della guerra partigiana al nazifascismo, quando fu preferita a Fischia il vento , proprio perché, "era più ecumenica ". E la sua storia e la sua memoria "la accreditano come la canzone che unifica le speranze e le attese della democrazia" ha scritto Stefano Pivato in Bella ciao. Canto e politica nella storia d'Italia ( Laterza, 2005). Fu insomma la canzone delle forze politiche costituenti, tutte laburiste antifasciste e repubblicane, anche se in modi diversi e tra loro conflittuali, ma tutte Bella ciao: un fiore di montagna come educazione civica. E per capire che è tornata ad essere un inno internazionale di libertà basta rivedere su Repubblica. it tutte quelle labbra che a Parigi scandiscono "Una mattina / mi son svegliato / e ho trovato l'invasor". Nessun professore comunista li dirige, nessun libro marxista li ispira quando fondono Bella ciao e La Marsigliese dondolando e mixando "sotto l'ombra di un bel fior" con gli evviva alla memoria degli artisti di Charlie Hebdo, e senza mai andare né fuori tempo né fuori moda. Ed è emozionante la compostezza del coro un po' stonato di Istanbul con tutti quei turchi che battono il tempo con le mani: "E se io muoio / da partigiano / tu mi devi seppellir " diventa resistenza al martirio di Kobane, agli arresti dei giornalisti, all'oscurantismo religioso. È un contagio che arriva sino ad Atene, si diffonde senza radio e senza Ipod, ricorda l'epoca euforica degli anni Sessanta: Bella ciao come i Beatles, il vecchio canto della libertà italiana come la musica dei progetti, delle illusioni e degli azzardi, il nostro fiore di montagna contro il terrorismo in Europa, contro la mortificazione delle donne in Turchia. E sorprende e diverte a Hong Kong la voce di un italiano contro la violenza di quel terribile mondo arcaico che è la Cina. Certo, la storia di Bella ciao era già una specie di leggenda. Agli inizi del Novecento fu il canto delle mondine nelle umide risaie attossicate: "Oh mamma che tormento / io mi sento di morir". E ci sarebbe persino una versione Yiddish incisa a New York nel 1919. Mille ricerche sono state fatte sul giro del mondo di questa canzone che è stata folk, ebrea, swing e tradotta anche in giapponese Ma, come accade talvolta in filologia, le ricerche riportano sempre al punto di partenza: Reggio Emilia, 1940. Nella geografia della memoria Bella ciao è infatti il luogo della Resistenza condivisa, il ritmo della lotta antifascista che fu comunista, cattolica e azionista, come la Costituzione. Ed è, Bella ciao, come "la ballatetta" di Guido Cavalcanti, che "va leggera e piana" e "porterà novelle di sospiri ... quando uscirà dal core ". Il dolce stil novo sapeva già, prima del pop, che la canzonetta è una febbre musicale, e come l'acqua fresca sembra niente ma è tutto, e se c'è nebbia fa vedere il sole, e dà coraggio a chi ha paura. E, infatti, fischiettata o cantata in coro, Bella ciao ha sconfitto quell'altra Bella Ciao , spacciata per eversione e per rivoluzione. Insomma il fiore del partigiano fu, a torto, classificato, non come uno dei pochi canti della democrazia , ma come politica cantata, accanto agli inni del movimento operaio, "Su fratelli su compagni / su venite in fitta schiera", e alle canzoni dolenti degli anarchici, "Addio Lugano bella / o dolce terra mia", e all'orrendo inno che la Dc fece suo: "O bianco fiore / simbolo d'amore / con te la pace / che sospira il core". I comunisti risposero: "Il 25 aprile / è nata una puttana / e le hanno messo nome / Democrazia cristiana ". Ecco, Bella ciao è un'altra storia, e sembrava che lo avessero capito tutti. La cantarono infatti Claudio Villa e Yves Montand, Gigliola Cinquetti, Francesco De Gregori e Giorgio Gaber, canzone impegnata e canzone scanzonata. Finché i leghisti al governo di alcune città del Nord (Treviso, Pordenone ...) proibirono di suonarla il 25 aprile. E Berlusconi, più potente, tentò di abolire la festa della liberazione dal nazifascismo sostituendola con la festa della liberazione da tutte le dittature. E gli pareva che "Forza Italia/ perché siamo tantissimi " fosse più nazionalpopolare di "È questo il fiore / del partigiano / morto per la libertà". Le ha proprio viste tutte, la nostra Bella ciao . È stata persino stonata in tv da Michele Santoro dopo l'editto bulgaro che lo cacciava dalla Rai con Biagi e Luttazzi. In quell'Italia pazza la solita serva Rai arrivò persino al tentativo di festeggiare i 150 anni dell'Unità suonando a Sanremo sia Bella ciao sia Giovinezza, e di nuovo la canzone della Repubblica fu spacciata per inno comunista attraverso il gioco della somiglianza- contrapposizione con l'apologia del fascismo, suonata per par condicio... Ebbene Bella ciao ha superato anche quell'oltraggio. E adesso che ha conquistato il mondo, forse riconquisterà anche l'Italia.

Il fenomeno. "Bella ciao", da canto partigiano a inno globalizzato. Dalla campagna elettorale di Tsipras alla solidarietà a Charlie Hebdo, la canzone folk più nota della Resistenza varca i confini e si fa sempre più attuale, scrive “la Gazzetta di Reggio”. "Bella ciao" eterna, anzi sempre più attuale. La canzone folklorica cantata dai simpatizzanti del movimento partigiano italiano durante e dopo la seconda guerra mondiale, che combattevano contro le truppe fasciste e naziste, si è trasformata negli ultimi anni in un inno alla libertà, risuonato un po' ovunque: dalle piazze in rivolta ai funerali, dalle manifestazioni di piazza agli studi televisivi. Solo in Italia, scrive Repubblica in articolo di Francesco Merlo, il canto è ancora oggi etichettato come un "manifesto comunista". La circolazione di Bella ciao, durante la Resistenza è documentata e sembra circoscritta soprattutto in Emilia. Dopo la Liberazione la versione partigiana di Bella Ciao venne poi cantata e tradotta e diffusa in tutto il mondo grazie alle numerose delegazioni partecipanti al Primo festival mondiale della gioventù democratica che si tenne a Praga nell’estate 1947, dove andarono giovani partigiani emiliani che parteciparono alla rassegna canora “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”, dove inventarono il tipico ritmico battimano.

Giovanna Marini ricorda che tutto nacque a Reggio Emilia, dalla mondina Giovanna Daffini. Nelle scorse ore, "Bella ciao" ha chiuso ad Atene la campagna elettorale per le elezioni politiche di Alexis Tsipras, nella versione dei Modena City Ramblers. «Siamo sempre molto colpiti dall'entusiasmo che suscita Bella Ciao anche fuori dall'Italia. È la canzone che porta con sé valori molto forti e sinceri». E se Tsipras dovesse vincere, la folk band modenese annuncia che «canteremo Bella Ciao in greco». La famosissima versione dei MCR era stata suonata anche all'ultima edizione di Festareggio al Campovolo. Come inno alla libertà, "bella ciao" è stata rispolverata anche all'indomani degli attentati terroristici di Parigi, ecco christophe Aleveque che la canta in una trasmissione tivu di solidarietà a Charlie Hebdo e alle sue vittime. A Istanbul, "Bella ciao" è risuonata in piazza nell'ottobre 2013, adottata da Occupy Gezi: cantata in turco, ma con il ritornello in italiano. E sempre nella capitale turca, ecco la band rivoluzionario-socialista Yorum che la suona dal vivo con decine di artisti sul palco. Persino a Hong Kong, il canto è stato rispolverato dalla Rivoluzione degli ombrelli, cantato dal prete italiano Franco Mella.

Bella Ciao? Oggi la potrebbe cantare anche Marine Le Pen, scrive Stefano Baldolini su L'Huffington Post. Cantata in piazza Omonia dai sostenitori del divo Tsipras, a Parigi dai cittadini colpiti a morte dalla strage di Charlie, "Bella Ciao" è tornata. O meglio (fortunatamente?) non se n'è mai andata. Protagonista anche in passato, in luoghi e situazioni improbabili e molto lontane tra loro, ma oggi la coincidenza è evidente. È un destino dei classici esser rivisitati e non perdere colpi, assumere connotati e senso diverso in funzione del contesto e del tempo. È stato così anche per il nostro inno di Mameli, tabù della sinistra negli anni in cui i nazionalismi erano tutti di destra e oggi intonato nei comizi e nelle direzioni del Pd. Vittima del frullatore post ideologico, "Bella Ciao" può essere cantata e strattonata da tutti, è talmente intensa e diretta da non finire sgualcita. Ma cosa reclama "Bella Ciao" oggi? Certo, non può prescindere da un afflato di libertà che è sempre preceduta da forme vitali di resistenza e protesta ("È questo il fiore del partigiano Morto per la libertà"). Solo, che oggi, da piazza Taksim a Occupy Wall Street, da Charlie a piazza Omonia, l'inno partigiano è rivendicazione - in primis - di sovranità. Di rivendicazione della propria sovranità di cittadini e popoli contro scelte imposte da altri, potenti con nome e cognome o istituzioni senza volto. Erdogan o i lupi di Wall Street, i terroristi integralisti che vogliono occupare lo spazio libero delle idee, la Bce. Chiunque attenti all'occupazione - percepita come abusiva - dello spazio individuale e collettivo, mentale o fisico, è considerato invasore. Da cacciare, da respingere. Ecco perché non dovrebbe sorprenderci se un giorno, vicino o lontano, un'esponente come Marine Le Pen, potrebbe cantarla. Non suoni come mera provocazione, ma solo come una logica conseguenza. Non foss'altro per semplice proprietà transitiva: se Marine Le Pen simpatizza per Tsipras e i sostenitori di Tsipras cantano Bella Ciao, il passo successivo è nelle cose. Perché l'obiettivo è lo stesso: quello di recuperare la sovranità del popolo contro "l'invasore" sovra-nazionale. L'ha cantata, per scherno e impropriamente, Matteo Salvini, contro "l'invasione degli immigrati", ma lo potrebbe fare - persino con maggiore legittimità - la sua amica leader del Front National.

Bella ciao, breve storia della canzone di tutti noi, scrive Donatella Coccoli il 25 aprile 2016 su “Left”. Cantata in Francia ai funerali per le vittime di Charlie Hebdo come per la vittoria di Tsipras in Grecia, ma anche in Cina, in Ucraina, Bella ciao è un canto universale. «Assorbe tutte le libertà negate e per questo non ha confini”, racconta Carlo Pestelli, cantautore torinese con studi linguistici alle spalle e una passione per la cultura popolare. Ha scorrazzato per mesi tra Emilia Romagna e Toscana, ha conosciuto vecchie contadine dai nomi che dicono tutto – Comunarda, Antizarina -, ha sentito versioni varie della canzone e ascoltato storie e testimonianze della Resistenza. E poi ha cercato in Francia e in tanti altri Paesi. Alla fine ha scritto il libro Bella ciao, la canzone della libertà (add editore), pubblicato da pochi giorni. Non un saggio paludato ma, dice Pestelli, “la sociologia, la gestione delle tante traduzioni, nelle lingue principali, ma anche in quelle etnominoritarie dal dialetto cabilo delle popolazioni berbere al sinti torinese».

Cosa ha scoperto?

«Ho scoperto che interessa tutti. Bella ciao non è una canzone datata nel tempo, non è relegabile a qualcosa di ormai passato, come la televisione in bianco e nero, o le mondine o anche l’esperienza dei partigiani nella Resistenza. E’ una canzone – passami il termine – “rifunzionalizzabile”. E’ come se avesse lasciato i contorni storici alle spalle venendo continuamente “rifunzionalizzata”: dai bambini, dagli studenti, dalle femministe, fino ai lavoratori in sciopero alla fine degli anni 60 che avevano voglia di nuove parole d’ordine e hanno riciclato la melodia di Bella ciao. Poi è stata rifunzionalizzata negli anni 90 dai Modena City Ramblers, e fu clamoroso».

Qual è l’attualità di questa canzone?

«Quando vado a presentare il libro imparo sempre qualcosa. C’è sempre qualcuno che si alza e racconta. L’altro giorno una signora nata nel 1933, mi ha detto che nel 1944 abitava ad Alba, quando là c’era quella libera repubblica di partigiani immortalata da Beppe Fenoglio. Ecco, lei racconta di una canzone per un partigiano morto, una specie di ballata epica, che finiva con queste parole: “morto per la libertà”. La canzone, quasi silenziosamente è andata per gemmazione a costituirsi tra il 1943 e il 1944 in Emilia, in Piemonte, ma anche in Veneto e qualcuno ritiene anche in Abruzzo, visti i partigiani della brigata Maiella che liberarono Bologna insieme agli alleati. La guerra finisce e tutti si misero a cantarla. Storici come Cesare Bermani, Roberto Leydi, Franco Castelli, Franco Coggiola, hanno indagato per decenni su Bella ciao, anche alla ricerca di un autore. Però si sono arresi, perché Bella ciao è la “carta assorbente” di diverse versioni di canto popolare che poi sono confluite in questa canzone».

Quali sono le sue caratteristiche?

«Ha una forte ritmicità tanto che colpisce anche i bambini piccoli, poi ha delle parole fondamentali della nostra cultura: “bella” che è l’aggettivo petrarchesco per antonomasia e “ciao”. E inoltre riesce a tracciare una storia ideale di partecipazione popolare a una causa, quella della libertà, la più amata da tutti in un modo, per così dire, circolare. Inizia come in una fiaba, “stamattina mi son svegliato”, che già ti pone all’ascolto con una certa facilità. E poi, è vero, nel finale c’è uno che muore, ma muore per la libertà, non muore per la rossa bandiera o per il sol dell’avvenire, anche in questo riesce a slegarsi dall’utopia resistenziale».

Quindi è un patrimonio comune?

«Sì, è stata la canzone un po’ di tutti. Lo è stata dell’antifascismo, che negli anni 50 era un concetto che sonnecchiava, e che poi è stato risvegliato negli anni 60 ma da una generazione diversa. Ma non dimentichiamo che negli anni 70 Benigno Zaccagnini concludeva le assisi dei lavori della Dc con Bella ciao».

La canzone ha avuto molta fortuna all’estero, quante traduzioni esistono?

«Una quarantina, ma se ne producono continuamente. Per esempio una poetessa bretone ne ha scritta una versione di recente. Io distinguo tra le traduzioni nelle lingue principali: tedesco, francese, inglese, spagnolo e quelle delle lingue minoritarie, come il galiziano, il catalano e il ladino romanzo. C’è addirittura una versione in latino. Quando si tratta delle lingue principali vi possono essere più traduzioni. Facciamo l’esempio del tedesco: c’è quella formale ma c’è anche la reinterpretazione, come è accaduto negli anni 70 con Dieter Dehm, diventato poi un parlamentare, il quale ha ritenuto che i tedeschi non si meritassero Bella ciao perché non hanno fatto nulla per sconfiggere il nazismo da dentro, non hanno avuto un’epopea della resistenza paragonabile a quella italiana o yugoslava. E quindi lui trasforma il concetto di Bella ciao, lasciando inalterata la musica, nella storia di una lei e di un lui, entrambi guerriglieri: lei deve allontanarsi da lui perché deve andare a combattere e il finale è “mai più fascismo mai più guerra”».

In Grecia l’hanno cantata anche per la vittoria di Tispras.

«Sì e non solo. In Turchia la cantano in chiave anti Erdogan, nel Sud est asiatico ci sono i russi putiniani che stanno nel Sud est ucraino che la cantano in chiave anti ucraino. Allo stesso tempo i nazionalisti ucraini la cantano in chiave anti russa. E’ buona per tutte le cause. Tra le minoranze berbere viene cantata in chiave antialgerina o antitunisina».

Bella ciao è quindi una creazione collettiva?

«Un autore non c’è. Qualcuno come Ivan Della Mea – ma non è proprio lui la fonte diretta – sosteneva che l’autore forse era un medico ligure che viveva a Montefiorino nel Modenese, ma di fatto la canzone comincia a diffondersi a Bologna, a Montefiorino. Intanto nel 1944 a Torino una donna racconta che sentiva cantare una canzone sull’aria di Bella ciao con parole leggermente diverse nelle Carceri nuove. C’è poi chi nell’immediato dopoguerra racconta che con i festival della gioventù, di Berlino di Nizza, Praga, nel 1946 la cantavano tutti. C’erano delegazioni di giovani comunisti, tra cui anche Enrico Berlinguer che la insegnavano agli altri compagni. E la cantavano davvero tutti. Ad un certo punto c’era chi diceva che l’autore fosse Enzo Biagi che è stato partigiano e che era proprio della zona dove sarebbe nata. Anch’io dopo un po’ mi sono arreso. Invece ho scoperto che il Paese che più di tutti ha contribuito alla diffusione della canzone è stato la Francia grazie a un cantante di origine italiana, Yves Montand».

E per quanto riguarda la musica, ci sono influenze e tradizioni popolari?

«Anche in questo caso si potrebbe dire che è una bella insalata russa (ride). Principalmente si ritrova qualcosa in “Bevanda sonnifera”, un canto epico lirico diffuso in pianura padana, ma anche in alcune villotte diffuse in Trentino che contenevano quell’iterazione di “ciao ciao” scandito con le mani che serviva a dare il ritmo al gioco dei bambini. Per quanto riguarda il testo, ci sono dei progenitori. Un canto in particolare intitolato “Fior di tomba”, che diceva “mi son svegliato e ho trovato il mio amor”, risale al XIX secolo, molto noto in Piemonte e in Veneto. Il finale è drammatico perché è l’amore non corrisposto. Bella ciao insomma assorbe tutte quelle libertà negate che fanno parte del canto popolare: il condannato, l’amore non ripagato, la famiglia come prigione… Il fiore lasciato sulla tomba è il simbolo del ricordo. Un po’ come l’albero della libertà. Dove c’è una minoranza che rivendica dei diritti si può essere sicuri che c’è anche Bella ciao».

Classe Balilla, ecco gli allievi del Ventennio. A Segrate (Milano) in mostra circolari diari e quaderni dei bambini della scuola primaria, scrive Antonio Ruzzo, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Tutti in piedi entra la maestra... Quando salutare era un imperativo come credere, obbedire, combattere. Quando ai professori non si dava del «tu» e note e bocciature non erano materia per i giudici del Tar. Quando gli insegnanti erano definiti «apostoli» e «sacerdoti» e avevano la missione di educare la gioventù italiana a «comprendere e rinnovarsi nel Fascismo». Quando di libertà e diritti non si discuteva. Quando a scuola c'era lui insomma. Anni fa. Tanti anni fa che rivivono nella mostra «A scuola col Duce. L'istruzione primaria durante il Ventennio fascista», ideata e realizzata già nel 2003 dall'Istituto di Storia Contemporanea «Pier Antonio Perretta» di Como. Da ieri, e fino alla fine del mese, è allestita a Segrate (Milano) nel Centro Giuseppe Verdi proprio nella piazza dove l'architetto Aldo Rossi realizzò il monumento al partigiano. Nessuna nostalgia. Anzi. A volerla è stata la sezione cittadina dell'Anpi e a ospitarla è una giunta di centrosinistra. «L'idea ci è venuta per celebrare il 25 aprile - spiega Gianluca Poldi, assessore alla cultura di Segrate - e per approfondire un periodo della storia che deve essere affrontato come tale, senza preconcetti. E mi ha fatto piacere che a proporci questa mostra sia stata proprio l'associazione dei partigiani. Poi alla base di tutto c'è lo straordinario lavoro storico dell'Istituto di Storia Contemporanea Pier Antonio Perretta che è un garanzia». In esposizione oltre sessanta pannelli che riproducono per la maggior parte illustrazioni a colori, fotografie e testi ripresi dai manuali scolastici, dai quaderni degli scolari di allora e che, insieme a una serie di quadri riassuntivi, ripercorrono le tappe e i momenti più significativi della scuola di regime. L'Istituto comasco possiede una cospicua raccolta denominata Fondo scuola che comprende anche pagelle, certificati di studio, saggi pedagogici, periodici, libri di narrativa, fotografie. «La maggior parte della nostra raccolta - spiegano i responsabili - proviene dai mercatini dell'antiquariato e da donazioni di privati, ma una ricchissima documentazione la si può trovare negli archivi di molte scuole, soprattutto per quanto riguarda i registri scolastici e i giornali di classe stilati dall'insegnante. Chi ha ideato e fortemente voluto questa mostra è stato Ricciotti Lazzero, giornalista e storico di fama, presidente dell'Istituto Perretta, purtroppo scomparso nel dicembre del 2002, un mese prima dell'inaugurazione della mostra». La scelta di proporre la mostra in occasione della ricorrenza del 25 Aprile, Festa della Liberazione, non è casuale. «Assolutamente no - spiega l'assessore Poldi -. La speranza è che diventi un momento di riflessione per tutti. Mi aspetto che a vistarla vengano i nonni con i loro nipoti, mi aspetto che vengano anche molti studenti, anche se devo ammettere che vedo un po' di pigrizia negli insegnanti. Ma soprattutto mi aspetto che venga visitata e apprezzata senza pregiudizi. Anche perché il materiale raccolto è importante. La grafica di allora a esempio era straordinaria e aveva una grande capacità di sintesi. Si prenda la locandina che apre la mostra, quella dello studente col pennino che ha nella sua ombra la proiezione dell'uomo soldato. C'è tutto il regime, in quell'immagine...». Quella sotto il duce fu una scuola in cui il bambino era un adulto in miniatura, da istruire e mantenere sano nella mente e nel corpo, un potenziale militare. E centrale fu il ruolo dell'Opera Nazionale Balilla, ben presente nelle istituzioni scolastiche: presidi e insegnanti erano tenuti ad aprire le porte alle sue iniziative, a essa era affidato l'insegnamento dell'educazione fisica ai ragazzi. Conoscere «l'istruzione primaria durante il ventennio fascista», come recita il sottotitolo della mostra, significa capirne non solo la struttura e l'evoluzione, ma anche le motivazioni e le finalità: «Voi siete l'aurora della vita, voi siete la speranza della Patria, voi siete soprattutto l'esercito di domani...» diceva Mussolini ai ragazzi. «La mostra commenta la curatrice Elena D'Ambrosio - vuole contribuire a esaltare quella libertà dell'uomo che comincia difendendo i diritti del fanciullo in formazione. Poiché la libertà nasce nelle aule delle scuole elementari, dove per la prima volta al bambino viene consegnato un libro. Quel libro deve essere corretto e leale, senza dottrine, aperto all'ottimismo, chiaro, semplice». Un messaggio che passa dalla storia e arriva ai giorni nostri: «Sì un po' è così - conclude l'assessore Poldi -. Uno sguardo nel passato per capire che l'educazione dei bambini alla libertà è un valore da cui non si deve mai prescindere».

L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’. DAL ’68 AL ’77.

L'Italia ha sempre nostalgia delle sue rivoluzioni a metà. Dal Risorgimento fino agli "Anni di piombo"» si è coltivato il mito. Danneggiando presente e futuro, scrive Francesco Perfetti, Sabato 18/02/2017, su "Il Giornale". Alle origini, almeno in Italia, ci fu Alfredo Oriani. Proprio lui, il «solitario del Cardello» com'era chiamato, gettò le premesse per una lettura critica della storia italiana che ne sottolineava il carattere di rivoluzione «incompiuta» o «tradita». Nelle sue due opere più famose, La lotta politica in Italia e La rivolta ideale, questo burbero, scontroso, solipsistico intellettuale romagnolo tradusse la propria insoddisfazione per l'esito, a suo parere deludente se non fallimentare, del processo risorgimentale in un sogno profetico: il completamento di quella rivoluzione a opera di una «aristocrazia nuova». Così, senza neppure rendersene conto, Oriani divenne il padre di una «ideologia italiana» che, attraverso manifestazioni diverse, avrebbe attraversato come un mutante tutta la storia italiana del Novecento. A Oriani guardarono, infatti, personaggi di ogni estrazione culturale e politica, di destra e di sinistra, esponenti di una sorta di «sovversivismo intellettuale» germogliato all'insegna del «ribellismo» e dell'illusione nella possibilità di trasformare, grazie all'opera di una «aristocrazia nuova», il mondo reale. Una «cultura politica della rivoluzione», insomma, destinata a diventare il tratto dominante, sia pure sottotraccia, della storia nazionale e che ha finito per bloccare la possibilità di affermarsi di una «cultura politica riformista». Nel suo ultimo e importante saggio dal titolo Ribelli d'Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate rosse (Marsilio, pagg. 418, euro 19,50) lo storico Paolo Buchignani segue un lungo itinerario, tipicamente italiano, che dal Risorgimento giunge fino ai cosiddetti «anni di piombo» e che si sviluppa, appunto, all'insegna di un progetto culturale e politico rivoluzionario. Osserva Buchignani: «Questa cultura politica si manifesta sia come rivoluzione nazionale che come rivoluzione sociale, si declina a destra e a sinistra, nel fascismo e nell'antifascismo, si colora di rosso o di nero, si evolve in sintonia con i tempi e le circostanze, s'inabissa e riemerge, cambia pelle, accentua un elemento o l'altro a seconda dei casi, delle forze politiche, delle situazioni nelle quali si esprime, ma non si snatura». Questa cultura politica della rivoluzione cui fa riferimento Buchignani è camaleontica e tale suo camaleontismo discende dalla necessità di surrogare, in qualche modo con altre prospettive, i fallimenti ricorrenti dell'illusione rivoluzionaria. Ecco, allora, che entra in gioco la categoria del «tradimento della rivoluzione», anch'essa declinata in varie specificazioni, come terreno di coltura della «ideologia italiana». Ed ecco, ancora, che l'intera vicenda storica dell'Italia unita può essere letta all'insegna di questa categoria interpretativa: il Risorgimento, per esempio, ma anche i governi della Destra storica e della Sinistra storica, per non dire del fascismo, della Resistenza e, nel secondo dopoguerra, dei disegni eversivi della destra extraparlamentare, delle pulsioni operaistiche, della contestazione studentesca, del terrorismo brigatista. Il saggio di Buchignani è un contributo importante e maturo della più recente storiografia contemporaneistica italiana poiché mette bene in luce, con un approccio di tipo culturale, il denominatore comune, rappresentato dal «mito rivoluzionario», di esperienze politiche in apparenza profondamente diverse e contrastanti. Un esempio emblematico: il caso di Benito Mussolini e di Piero Gobetti. Buchignani muovendosi lungo la direttrice già individuata da Augusto Del Noce che ne aveva sottolineato la comune matrice culturale idealistica e in particolare gentiliana spiega il rapporto fra i due, e simbolicamente tra fascismo e antifascismo, ricorrendo sia al «mito rivoluzionario» sia alla categoria del «tradimento della rivoluzione». Entrambi erano convinti che la guerra fosse destinata a sfociare in una rivoluzione e in un rinnovamento radicale, ma poi Mussolini divenne, per Gobetti, il rivoluzionario «traditore», colui che, per giungere al potere e per consolidarvisi, sarebbe stato disposto a scendere a compromesso con le forze tradizionali, a cominciare dal giolittismo. Tuttavia, al di là degli esiti storici, fascismo e antifascismo risultano accomunati da una medesima sostanza intellettuale, l'idealismo di stampo gentiliano, e da una medesima categoria culturale e sociologica, il «mito della rivoluzione» cioè, incrinato dalla pratica del «tradimento» politico. Altri esempi, oltre al «Risorgimento tradito», sono quelli del «fascismo tradito», che diventò un Leitmotiv del fascismo movimento contrapposto al fascismo regime, e della «resistenza tradita». Al «fascismo tradito», in fondo, si collega non soltanto la lotta interna, durante gli anni del regime, tra rivoluzionari e conservatori, ma anche la trasmigrazione, nell'immediato secondo dopoguerra, di molti significativi esponenti della sinistra fascista nelle file comuniste, i cosiddetti «fascisti rossi», in nome del recupero delle genuine istanze rivoluzionarie del primo fascismo. Il mito della «resistenza tradita» fu coltivato, invece, per diversi decenni da quelle forze politiche (e dai loro eredi) che, in qualche misura, muovendosi all'insegna dell'idea dell'«unità della resistenza a guida comunista», avevano sempre sostenuto che la resistenza dovesse essere vista come il fatto rivoluzionario per eccellenza della storia dell'Italia unita e che avrebbe dovuto, quindi, produrre un tipo di società e di sistema politico diverso da quello effettivamente realizzato. Furono alfieri e portabandiera di questo mito della «resistenza tradita» gli azionisti di derivazione gobettiana e rosselliana, i socialisti massimalisti del Nenni frontista, certe frange di un liberalismo progressista, tutti in posizione subordinata ai comunisti, egemoni non soltanto di questo vasto schieramento, ma anche dello scenario politico-culturale del Paese grazie al controllo di molti centri nevralgici di produzione della cultura come giornali, case editrici, università e via dicendo. Questo stesso mito venne poi ripreso largamente dal movimento studentesco, dai gruppi extraparlamentari sessantottini e post-sessantottini e utilizzato proprio, in un singolare contrappasso, contro il partito comunista, accusato di aver tradito la resistenza e lo stesso antifascismo con la rinuncia all'idea della rivoluzione antiborghese e anticapitalista. E non è privo di significato che, sulla linea di una contrapposizione al «mondo moderno», abbia potuto maturare persino l'incontro con gruppi della destra radicale ed eversiva. La verità, come si desume dal bel libro di Buchignani, è che, a destra come a sinistra, il cuore pulsante di quella che è stata definita l'«ideologia italiana» è quella che si potrebbe chiamare la visione giacobina della storia con le sue implicite pulsioni di rinnovamento catartico della società e i suoi sogni di creazione di impossibili paradisi in Terra. Questa visione costituisce l'essenza del «mito rivoluzionario»: un mito che la categoria del «tradimento» rende proteiforme e sempre cangiante. E, purtroppo, pericoloso.

Sessantotto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Sessantotto (o movimento del Sessantotto) è il fenomeno socio-culturale avvenuto nel 1968 nel quale grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (operai, studenti e gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, attraversarono quasi tutti i Paesi del mondo con la loro forte carica di contestazione sui pregiudizi socio-politici. La portata della partecipazione popolare e la sua notorietà, oltre allo svolgersi degli eventi in un tempo relativamente ristretto e intenso, contribuirono a identificare il movimento col nome dell'anno in cui esso si manifestò (o fu più attivo). Il Sessantotto è stato un movimento sociale e politico che ha profondamente diviso l'opinione pubblica e i critici, tra chi sostiene sia stato uno straordinario momento di crescita civile (che abbia portato ad un mondo «utopicamente» migliore) e chi sostiene invece sia stato il trionfo dell'asineria, che rovinò la società italiana, e del conformismo di massa in cui i figli della borghesia avrebbero voluto abbattere il sistema borghese.

Il movimento nacque originariamente a metà degli anni sessanta negli Stati Uniti e raggiunse la sua massima espansione nel 1968 nell'Europa occidentale col suo apice nel Maggio francese. A Berkeley, nel 1964, l'università californiana, i cui aspetti elitari più avanzati sono uno dei simboli della società statunitense, scoppiò una rivolta senza precedenti. Il contagio fu immediato. Nei campus americani la protesta giovanile mise insieme classi, ceti, gruppi, investì la morale e i rapporti umani. Gli studenti si schierarono contro la Guerra del Vietnam, a favore delle battaglie per i diritti civili e alle filosofie che esprimevano il rifiuto radicale verso un certo stile di vita. Al contempo, alcune popolazioni del blocco orientale si sollevarono per denunciare la mancanza di libertà e l'invadenza della burocrazia di partito, gravissimo problema sia dell'Unione Sovietica che dei Paesi legati ad essa. Diffusa in buona parte del mondo, dall'Occidente all'Est comunista, la «contestazione generale» ebbe come nemico comune il principio di autorità come giustificativo del potere nella società. Nelle scuole gli studenti contestavano i pregiudizi dei professori e del sistema scolastico scarso e obsoleto. Nelle fabbriche gli operai rifiutavano l'organizzazione del lavoro. Facevano il loro esordio nuovi movimenti che mettevano in discussione le discriminazioni all'etnia. Gli obiettivi comuni ai diversi movimenti erano il miglioramento della società sulla base del principio di uguaglianza, l'anti corruzione della politica in nome della partecipazione di tutti alle decisioni, l'eliminazione di ogni forma di oppressione sociale e di discriminazione razziale.

Il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti. Il movimento americano per i diritti civili aveva costituito, fin dall'inizio degli anni sessanta, il prototipo di questa dinamica. Nato nelle Università del Nord degli Stati Uniti, il movimento studentesco si era dato come obiettivo essenziale la piena attuazione di quella democrazia promessa alla fine del conflitto mondiale garantito dalla Costituzione americana ma non attuata come promesso, in quanto piena di corruzione che tollerava la persistenza della segregazione razziale negli Stati del Sud, reprimeva le forme di opposizione al sistema corrotto e dittatoriale (come evidenziato dal recente fenomeno del maccartismo contro i comunisti e, più in generale, dall'avversione talvolta violenta nei confronti degli stili di vita alternativi) e favoriva il militarismo. Negli Stati del Sud, negli anni cinquanta era venuto maturando un movimento nero per l'eguaglianza, promosso dalle comunità di colore. Uno degli atti più significativi fu il boicottaggio degli autobus di Montgomery, Alabama, lanciato nel 1955 per protesta contro la segregazione delle razze. Nel 1959 la Corte Suprema americana ordinò la fine della segregazione nelle scuole: si trattò di uno dei più importanti risultati conseguiti dal movimento. A questo punto si temeva che lo sviluppo del movimento nero portasse alla fine dell'esclusione di fatto della popolazione di colore dal voto, praticata in tutto il Sud, con l'aiuto dell'organizzazione violenta e razzista del Ku Klux Klan. In appoggio al movimento nero del Sud, gli studenti di molte università del Nord degli Stati Uniti diedero inizio alle «marce al Sud», massicce campagne d'invio di militanti – la maggior parte dei quali bianchi – durante l'estate, con il compito di proteggere il diritto di voto della popolazione nera. Come risposta vi furono numerosi assassinii e linciaggi, mentre i tradizionali leader politici assumevano posizioni di aperto sostegno alla violenza. Nonostante tutto, il movimento ottenne significativi successi politici, contribuendo al superamento della segregazione. A partire dal 1963-1964 le agitazioni dei neri si svilupparono rapidamente anche nelle grandi città del Nord degli Stati Uniti. Qui però il problema non era la segregazione istituzionale: la rivendicazione della piena uguaglianza coi bianchi infatti, non si accompagnava (come nel movimento per i diritti civili del Sud) con la volontà di un'integrazione sociale totale nella «comunità dei bianchi», ma al contrario voleva preservare la diversità e la specificità, culturale e sociale. Eguaglianza e diversità, soppressione dei privilegi bianchi ma autogoverno dei neri nella loro comunità.

La nascita della «Nuova Sinistra». L'espressione «Nuova Sinistra» (New Left) nacque nel 1960 dal sociologo americano Charles Wright Mills, uno degli intellettuali che più influenzarono i movimenti giovanili. Gli elementi di novità nei movimenti giovanili erano vari e molteplici. Innanzitutto era ritenuto estremamente importante il riferimento alle lotte dei popoli del Terzo mondo, alle rivoluzioni del mondo arabo, dell'Asia e di Cuba. Mentre l'Unione Sovietica era ritenuta, insieme con gli Stati Uniti, un ordine da abbattere. La nuova sinistra rifiutava la convinzione, comune alla sinistra politica tradizionale, secondo cui l'evoluzione storica lavorava necessariamente in favore dell'emancipazione del proletario (idea simile a quella ottocentesca di progresso) e dei popoli oppressi. Il timore di una razionalizzazione capitalistica che integrasse i ceti proletari dei paesi avanzati nello sfruttamento dei popoli del Terzo mondo, sopprimendo ogni spazio reale di dissenso e di libertà personale, rendeva la ribellione una necessità morale oltre che un compito politico. Infine la nuova sinistra era assai diffidente nei confronti dell'organizzazione di tipo leninista e stalinista e proponeva forme di agitazione e di aggregazione che valorizzassero la partecipazione di massa ai processi decisionali. Nel corso degli anni sessanta, mentre negli Stati Uniti il movimento per i diritti civili prima e l'opposizione studentesca alla guerra del Vietnam poi facevano delle organizzazioni come la Students for a Democratic Society (SDS), una forza politica di grande peso, o il Peace and Freedom Party (PFP), in Europa il movimento della «Nuova Sinistra» toccava un'area minoritaria ma crescente. Le agitazioni promosse dai movimenti giovanili si diffusero in vaste aree del pianeta tra la fine del 1967 e l'autunno del 1968. Francia, Cecoslovacchia e Germania Ovest furono attraversate da crisi politiche di vasta portata: in Polonia questo periodo segnò l'inizio di movimenti destinati a svilupparsi ulteriormente in seguito.

La morte di Che Guevara. Nell'ottobre 1967 i militari boliviani annunciarono la morte di Che Guevara. Leader della rivoluzione guerrigliera assieme a Fidel Castro a Cuba e poi, dopo la vittoria della rivoluzione, Ministro dell'Economia del nuovo regime socialista, si era allontanato dall'isola l'anno precedente per iniziare una nuova rivoluzione nelle montagne della Bolivia. Nella primavera del 1967 era stato reso noto un suo appello ai rivoluzionari del mondo, dal titolo Creare due, tre, molti Vietnam. Compito dei rivoluzionari, secondo Che Guevara, era affiancare il Vietnam con numerosi altri movimenti insurrezionali in tutte le aree del mondo, che vanificassero l'azione «di polizia» della superpotenza americana, garantendo la vittoria del Fronte nazionale di liberazione in Vietnam e la sconfitta dell'imperialismo statunitense. La morte da guerrigliero in territorio boliviano nel 1967 contribuì a fare di Che Guevara un simbolo della lotta contro ogni forma di oppressione. La sua tensione ideale divenne un esempio di utopia rivoluzionaria che contraddistinse la protesta studentesca europea alla fine degli anni sessanta. A partire dal novembre 1967, in diversi Paesi europei si diffusero agitazioni studentesche: dapprima concentrate nelle Università, che vennero occupate e dove il movimento tentò di dar vita a forme di «controeducazione alternativa» a quella ufficiale attraverso volantini ciclostilati, l'opposizione «extraparlamentare», come all'epoca veniva definita, progettava di investire progressivamente l'intera società a partire dalla base stessa.

Il movimento negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti le lotte si polarizzarono contro la Guerra del Vietnam; ad essa si combinarono le battaglie dei neri per il riconoscimento dei loro diritti civili e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. In questo contesto negli Stati Uniti nacque il movimento dei cosiddetti hippy, parola di gergo che voleva dire «uno che ha mangiato la foglia», in seguito ribattezzati «figli dei fiori», poiché la loro unica arma erano appunto i fiori. Si distinsero per costumi molto liberali e ampio uso di sostanze stupefacenti, soprattutto LSD, un allucinogeno che proprio in quegli anni fu immesso sul mercato con rapida diffusione e di cui si teorizzavano le doti di espansione della mente. Gli hippy si battevano contro la guerra nel Vietnam. Si trattava di un sanguinoso conflitto che dal 1962 vedeva impegnati gli Stati Uniti, che combattevano l'unificazione tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud, poiché al Nord vi era un governo comunista, mentre al Sud vi era un governo filoamericano. Il timore americano era l'unificazione del Vietnam sotto un regime comunista, che si sarebbe potuto diffondere anche ad altri Stati asiatici. Nel Sud filoamericano, inoltre, vi era un nutrito gruppo di comunisti (i Viet Cong) che si battevano per l'unificazione del Vietnam e perciò, con l'appoggio del governo del Vietnam del Nord e della Cina, diedero vita ad atti di guerriglia. Gli Stati Uniti si ritirarono dal conflitto solo nel 1973, con gli accordi di pace di Parigi, a causa della sopraggiunta impossibilità di vincere la guerra, ma anche sull'onda delle proteste dell'opinione pubblica mondiale, oramai largamente contraria al conflitto. La guerra, tuttavia, si concluse il 30 aprile 1975 con la caduta di Saigon. In America questo movimento si unì alle battaglie dei neri per la conquista dei più elementari diritti civili. Le battaglie per il riconoscimento dei diritti civili ai neri si dividevano sostanzialmente in due filoni. Il primo era quello pacifista che auspicava la progressiva integrazione delle masse di colore nella società bianca; era guidato da Martin Luther King, un pastore battista apostolo della nonviolenza, che fin da giovane si era dedicato alla lotta contro la discriminazione razziale. Il suo celebre discorso, in cui auspicava l'uguaglianza tra i popoli (I have a dream) scatenò un'ondata di proteste e di violenze, culminate nel suo assassinio nel 1968. Il secondo filone, più intransigente, fu quello delle Pantere Nere, che chiedeva la formazione di un potere nero (Black Power), contrapposto a quello dei bianchi. Il movimento era di orientamento marxista e chiedeva inoltre libertà e occupazione, case e istruzione per tutti, la fine delle oppressioni anche verso le minoranze etniche. Era guidato da personalità del calibro di Angela Davis, e Malcolm X. Quest'ultimo era un avvocato allevato da una coppia di bianchi che gli avevano dato il cognome «Little»: divenuto adulto preferì cancellarlo con una X. Egli era propenso ad un'alleanza tra tutti i popoli neri e lottava per la superiorità razziale del suo popolo. Secondo lui la divisione razziale era inevitabile ma accusava i bianchi, da lui reputati persone intelligenti ma responsabili della condizione dei neri, di non fare abbastanza o il necessario per risolvere questi problemi. Morì in circostanze poco chiare nel 1965, assassinato da tre membri della Nation of Islam, organizzazione che aveva lasciato da poco. Mesi prima della sua morte dopo un viaggio in Egitto e Arabia Saudita rinnegò le sue teorie sul potere nero, dicendo che esistevano dei bianchi sinceri e che era amico di buddisti, cristiani, indu, agnostici, atei, bianchi, neri, gialli, marroni, capitalisti, comunisti, socialisti, estremisti moderati.

Il movimento in Francia. In Francia la protesta assunse toni molto violenti nel maggio del 1968 e parve trasformarsi in una rivolta contro lo Stato. Essa ebbe origine da un progetto governativo di razionalizzazione delle strutture scolastiche mirante a renderle più rispondenti alle esigenze dell'industria: cosa che significava favorire i settori tecnologicamente più avanzati, facendo pesare l'incremento della produttività sulla classe operaia. Il piano di riforma scolastica prevedeva, al termine degli studi secondari, una severa selezione da effettuarsi attraverso un esame supplementare che avrebbe ridotto considerevolmente il numero degli studenti universitari e consentito l'accesso agli studenti più dotati. In questo modo l'Università avrebbe corrisposto meglio alle esigenze di alta qualificazione e specializzazione tecnica previste per i quadri dirigenziali. L'approvazione di questo piano, chiamato piano Fouchet, provocò un'immediata risposta da parte delle masse studentesche. Contro lo spirito tecnocratico del piano Fouchet, gli studenti e i professori progressisti dell'università di Nanterre decisero di scioperare. La protesta si allargò rapidamente e il 22 marzo prese il via il movimento più noto tra quelli sorti nella primavera del 1968. Questo movimento era capeggiato da un giovane anarchico, Daniel Cohn-Bendit, e denunciava l'esistenza di un'unica condizione di oppressione che accomunava studenti e operai. L'agitazione studentesca diventò acuta, a inizio maggio, alla Sorbona e a Nanterre. I motivi di fondo erano anche l'inadeguatezza delle istituzioni, la richiesta di una maggior partecipazione studentesca alla gestione degli atenei, la ribellione alla dittatura «baronale». Ben presto le motivazioni politiche e ideologiche presero il sopravvento[4]. L'occupazione alla Sorbona da parte degli studenti (2 maggio) rappresentò il momento di rottura, contrassegnato da scontri con la polizia. Inizialmente la sinistra francese prese le distanze dalle proteste studentesche, con Georges Marchais che espresse un giudizio sprezzante dicendo: «I gruppuscoli gauchisti, unificati in quello che chiamano il movimento del 22 marzo diretto dall'anarchico tedesco Cohn-Bendit, potrebbero solo far ridere. Tanto più che in generale sono figli di grandi borghesi che metteranno presto a riposo la loro fiamma rivoluzionaria per andare a dirigere l'impresa di papà e sfruttare i lavoratori». Il 6 maggio manifestarono a Parigi 15.000 persone e il giorno dopo 50.000. I loro propositi erano «l'immaginazione al potere», «siamo tutti indesiderabili», «proibito proibire», «siate ragionevoli, chiedete l'impossibile». Era una continua improvvisazione che rifiutava la logica in quanto borghese. Da quel momento iniziarono a scendere in piazza anche gli operai: i sindacati erano incerti, la sinistra «legale» era contemporaneamente affascinata e impaurita dalla deflagrazione improvvisa e largamente spontanea, che era anche una dichiarazione di guerra al generale Charles de Gaulle e al suo Primo Ministro Georges Pompidou. In seguito a una manifestazione del 13 maggio, ci furono scontri tra operai e studenti, che avevano sfilato insieme, poiché questi ultimi rifiutarono di sciogliere i loro assembramenti occupando la Sorbona e, di conseguenza, entrarono in sciopero le maestranze della Renault, mentre i teatri di Stato e l'Académie française finirono in mano agli estremisti. Nel Paese si scatenò l'anarchia, con il blocco delle scuole, delle fabbriche, delle ferrovie, delle miniere e dei porti: ci furono devastazioni, tumulti, le prime code di gente presa da panico davanti ai negozi di alimentari. Il segretario del Partito Comunista, Waldeck Rochet, propose la costituzione di un governo «popolare», ma il capo della Confédération générale du travail (il sindacato comunista) Georges Séguy, che per lo spontaneismo studentesco aveva un'avversione profonda, non volle lo sciopero insurrezionale. Charles de Gaulle, in quel momento in Romania per una visita istituzionale, rientrò a Parigi in anticipo e il 24 maggio pronunciò un discorso televisivo di sette minuti in cui promise d'indire, entro giugno, un referendum: «Se doveste rispondere no, non c'è bisogno di dire che non continuerei ad assumere per molto le mie funzioni. Ma se, con un massiccio sì, esprimerete la vostra fiducia in me, comincerò con i pubblici poteri e, spero, con tutti coloro che vogliono servire l'interesse comune, a cambiare ovunque sia necessario le vecchie, scadute e inadatte strutture e ad aprire una via più ampia per il sangue giovane di Francia». Nonostante il videomessaggio continuarono i disordini in città, e nel teatro dell'Odéon gli studenti proclamarono il proprio attacco alla «cultura dei consumi»: dichiararono che i teatri nazionali cessavano di essere tali diventando «centri permanenti di scambi culturali, di contatti tra lavoratori e studenti, di assemblee continue. Quando l'Assemblea nazionale diventa un teatro borghese, tutti i teatri borghesi devono diventare assemblee nazionali». Jean-Paul Sartre tenne discorsi alla Sorbona, ricevendo acclamazioni ma anche grida ostili, mentre il Ministro dell'Educazione Alain Peyrefitte rassegnò le dimissioni e i sindacati approvavano una bozza di accordo con miglioramenti salariali e normativi, facendo un passo indietro rispetto alle richieste iniziali. Dopo un incontro con il generale Jacques Massu, che comandava le forze francesi in Germania Ovest, de Gaulle parlò nuovamente in televisione, annunciando lo scioglimento dell'Assemblea nazionale, indicendo le elezioni politiche il 23 e 30 giugno, revocando il referendum per motivi di ordine pubblico e scagliandosi contro gruppi «da tempo organizzati» che esercitavano «l'intossicazione, l'intimidazione e la tirannia». Nelle votazioni di fine giugno la destra gollista ottenne 358 seggi su 485 a disposizione, mentre la coalizione di sinistra ne perse 61 (Pierre Mendès France non fu rieletto). Il 16 giugno, una settimana prima delle votazioni, la Sorbona era stata evacuata dai duecento della «Comune studentesca» che ancora la occupavano; il 17 finirono i residui scioperi mentre il 27 giugno fu sgomberata l'École des beaux-arts. Il generale de Gaulle aveva vinto, e dopo la vittoria elettorale sostituì il Primo Ministro Pompidou con Maurice Couve de Murville. Il movimento sessantottino francese fu liquidato grazie alla «maggioranza silenziosa», che aveva affermato il suo diritto e dovere di governare contro le frange estremiste, radunando agli Champs-Élysées tra le 600.000 e 1.000.000 di persone[5] che manifestarono contro gli estremisti e riportarono la stabilità nel Paese.

Il movimento in Germania Ovest. Il movimento del Sessantotto ebbe anche in Germania Ovest un certo peso. Leader più significativo fu Rudi Dutschke, l'esponente dell'SDS (organizzazione degli studenti socialdemocratici tedeschi), che venne gravemente ferito da colpi di pistola l'11 aprile 1968.

La Primavera di Praga. Situazione ben diversa si aveva nei Paesi del Patto di Varsavia, dove le manifestazioni chiedevano più libertà di espressione e una maggiore considerazione delle opinioni e della volontà della popolazione sulle scelte politiche. La più alta delle manifestazioni di protesta fu la rivolta studentesca in Cecoslovacchia, che condusse alla svolta politica chiamata «Primavera di Praga». L'avvento al potere di Leonid Il'ič Brežnev significò per la società sovietica la fine di ogni spinta riformatrice. Questa politica di conservazione riguardò anche tutti i Paesi del Patto di Varsavia, ma in Cecoslovacchia si era realizzato un originale tentativo di rendere democratico il sistema stalinista. Il progetto riformatore prevedeva l'allargamento della partecipazione politica dei cittadini e la ristrutturazione dell'economia, con la rinuncia del potere assoluto da parte dello Stato. A sostenere questo tentativo ci fu proprio il movimento politico e culturale della Primavera di Praga. Tuttavia, nel timore che questo processo di democratizzazione contagiasse anche gli altri Paesi del blocco sovietico, l'URSS decise di soffocare con la forza il movimento di riforma. Con questa scelta così violentemente autoritaria molti partiti nazional-comunisti sparsi nel resto del mondo si dichiararono in totale disaccordo.

La rivoluzione culturale in Cina. Nella Repubblica Popolare Cinese il Sessantotto rappresentò il momento più acuto della rivoluzione culturale avviata nel 1966. Tutto il sistema di potere di questo Paese venne completamente trasformato. Partito dai gruppi di studenti universitari che protestavano contro i privilegi culturali ancora presenti nella società cinese, il conflitto fu subito appoggiato da Mao Zedong e dai suoi sostenitori, che lo radicalizzarono come strumento di pressione contro l'opposizione interna. Nell'estate del 1967 e agli inizi del 1968 lo scontro sembrò raggiungere un tale livello di acutezza da far temere una guerra civile. Successivamente però la tensione si allentò, numerosi dirigenti giovanili furono allontanati dalle città e inviati nelle zone rurali. Si imposero ovunque i «Comitati rivoluzionari» che recuperarono i vecchi dirigenti. Infine gli avversari di Mao vennero emarginati.

Il movimento in Polonia. In Polonia, l'8 marzo, una massiccia agitazione studentesca portò ad una manifestazione all'Università di Varsavia, dove gli studenti protestavano contro l'espulsione dei compagni Adam Michnik ed Henryk Szlajfer. La manifestazione fu duramente repressa dalla polizia in borghese e molti dimostranti furono arrestati. I dipartimenti vennero chiusi e si vietò agli studenti di proseguire gli studi. La situazione si risolse politicamente con una violenta campagna antisemita che portò una ondata di emigrazioni. Furono tra venti e trentamila i cittadini polacchi di origine ebraica che emigrarono, rifiutando la propria cittadinanza polacca per ottenere in cambio un biglietto di sola andata Varsavia-Tel Aviv, via Vienna. Gli intellettuali protagonisti del marzo che rimasero in Polonia avranno una funzione di rilievo in relazione alle successive agitazioni operaie del 1970 e, più tardi, degli anni ottanta.

Il movimento in Jugoslavia. In Jugoslavia, la rivolta degli studenti di Belgrado del giugno 1968, si concluse con l'accoglimento di alcune richieste e con una presa di posizione del maresciallo Titoin favore della critica e della mobilitazione di massa anche in regime socialista.

Il movimento in Giappone. In Giappone l'organizzazione giovanile di sinistra Zengakuren raccoglieva il forte sentimento anti-americano e promuoveva scontri furibondi con la polizia.

Il movimento in Messico. Un'altra importante manifestazione sessantottina fu quella messicana. Anche questa fu repressa nel sangue: un numero impressionante di studenti manifestava contro le drammatiche contraddizioni sociali del Paese e per la democratizzazione del sistema politico, che vedeva al potere dal 1929 il Partito Rivoluzionario Istituzionale. Il 2 ottobre una grande manifestazione a Città del Messico si concluse con lo sterminio di più di cento studenti (massacro di Tlatelolco).

Il movimento in Italia. Il 24 gennaio 1966 avvenne a Trento la prima occupazione di un'Università italiana ad opera degli studenti che occuparono la facoltà di Sociologia. L'occupazione sarà ripetuta lo stesso anno in ottobre, protestando contro il piano di studi e lo statuto (entrambi erano in fase di elaborazione) e proponendone stesure alternative. Questa occupazione si concluse a causa dell'alluvione di Firenze che interessò gran parte dell'Italia Settentrionale e Centrale. Molti studenti si mossero come volontari per portare aiuto nelle aree più colpite, e questo primo movimento ed incontro spontaneo di giovani, provenienti da tutta Italia e anche dall'estero, contribuì a far sorgere in molti di essi lo spirito di appartenenza ad una classe studentesca prima sconosciuta. Il Sessantotto italiano ebbe inizio nel 1966: quell'anno, infatti, il giornale studentesco del Liceo Parini La zanzara pubblicò un'inchiesta-sondaggio su tematiche sessuali intitolata Un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso, a firma di Marco De Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano. Nell'articolo c'era scritto: «Vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità.» e «Sarebbe necessario introdurre una educazione sessuale anche nelle scuole medie in modo che il problema sessuale non sia un tabù ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza. La religione in campo sessuale è apportatrice di complessi di colpa». I redattori della Zanzara e il preside dell'Istituto, Daniele Mattalia, furono incriminati e processati. Luigi Bianchi D'Espinosa, presidente del Tribunale di Milano, assolse tutti dicendo: «Non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete». L'Università necessitava di una ventata rinnovatrice: nel 1956-1957 gli iscritti ai corsi di laurea erano circa 212.000, mentre dieci anni dopo erano saliti a quota 425.000, per cui quella che era l'Università d'elite diventò Università di massa. L'insegnamento era in mano ai «baroni», i docenti dei corsi importanti si rivolgevano a una calca di allievi che a stento ne percepivano la voce, era sottovalutata o ignorata l'esigenza di laboratori e seminari che preparassero gli studenti all'attività professionale, e molti professori erano «ferroviari» (comparivano solo per le lezioni e con i ragazzi non avevano nessun rapporto umano). Per la soluzione di questi problemi gli studenti si sarebbero dovuti battere e il governo avrebbe dovuto provvedere (con Università serie in cui gli studenti poveri e bravi fossero stipendiati ed esentati da ogni tassa, con laboratori, biblioteche e aule decenti, con collegi ordinati, e con una meritocrazia equa a vantaggio dei più meritevoli). Invece i governi che si alternarono scelsero la strada più facile e meno utile: quella del «facilismo». Le Università aprivano i battenti, per l'iscrizione, a tutti i diplomati delle scuole medie superiori (l'esame di maturità veniva svuotato di contenuti a tal punto che la quasi totalità dei candidati era promossa) – aggravando i problemi organizzativi – e un'esigua ma ben organizzata minoranza degli studenti che promuoveva la contestazione, non aveva a cuore né l'Università né le riforme efficienti (come la legge 2314, proposta dal Ministro Luigi Gui e respinta dai contestatori), bensì la demagogia e l'opportunismo, ispirandosi al «gran rifiuto» di Herbert Marcuse, mentre tra coloro che contestavano i «baroni» ce n'erano parecchi che aspiravano soltanto a diventare «baroncini», e che lo divennero. Nel 1967 furono occupate, sgomberate e rioccupate la Statale di Pisa (dove si elaboravano le «Tesi della Sapienza»), Palazzo Campana a Torino, la Cattolica di Milano, e poi Architettura a Milano, Roma, Napoli. Nella facoltà di Sociologia di Trento praticamente non si riuscì a tenere nessun corso, perché i suoi locali erano permanentemente occupati. Il movimento di contestazione creò i suoi miti e i suoi leader. Tra i più noti ci furono: Mario Capanna, Salvatore Toscano e Luca Cafiero a Milano, Luigi Bobbio e Guido Viale a Torino; Massimo Cacciari, Toni Negri ed Emilio Vesce a Padova; Franco Piperno e Oreste Scalzone a Roma; Gian Mario Cazzaniga e Adriano Sofri a Pisa. La scintilla fu determinata da due situazioni di disagio per gli studenti universitari dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano e della facoltà di Architettura a Torino. Nel primo caso l'università decise di raddoppiare le tasse universitarie mentre a Torino venne deciso il trasferimento alla Mandria, una sede periferica molto disagiata. Il 15 novembre 1967 entrambe le università vennero occupate e subito sgombrate dalla polizia. I leader iniziali erano Mario Capanna e Luciano Pero in Cattolica, e Guido Viale a Torino. Dopo tre giorni 30.000 studenti sfilavano per Milano fino all'arcivescovado e la rivolta si allargò a macchia d'olio. La presenza della polizia, con il battaglione Padova della Celere pronto a intervenire sugli studenti, finì con il costituire il propellente per la diffusione della protesta. L'Università di Trento nacque nel 1962 come Istituto universitario superiore di Scienze Sociali, ad opera di Bruno Kessler: i democristiani avevano chiesto e ottenuto la creazione di questo ateneo, pensando di creare una fabbrica di manager. Invece i professori, pur essendo di livello, si dimostrarono tolleranti alle utopie di un giovanilismo spensierato e di un rivoluzionarismo «da salotto». Tra gli studenti ci furono Marco Boato, Margherita Cagol, Renato Curcio e Mauro Rostagno. A Palazzo Campana Guido Viale ricordò che «la commissione delle facoltà scientifiche compiva l'estremo atto liberatorio nei confronti del Dio libro: lo squartamento dei libri in lettura per distribuirne un quinterno a ognuno dei membri», mentre i miti della contestazione italiana erano Mao Zedong (il Libretto Rosso fu diffuso in milioni di copie nelle università occidentali) Ho Chi Minh, il generale Võ Nguyên Giáp, Yasser Arafat, Che Guevara[3], Karl Marx, Jean-Paul Sartre, Herbert Marcuse, Rudi Dutschke e Sigmund Freud. Ai professori veniva negato il diritto di valutare gli studenti: l'esame doveva essere un tu per tu alla pari, anche se lo studente era impreparato (a volte capitava che il docente fosse un «barone» con poca pazienza, che non aveva mai speso un po' del suo tempo per capire i dubbi e le problematiche degli alunni). La cultura veniva disprezzata, scrivendo Kultura con la «K». A Roma il rettore Pietro Agostino D'Avack, disperato e impotente contro il dilagare del disordine, si risolse infine a mettere tutto «nelle mani del potere democratico dello Stato», ossia a invocare la forza pubblica. A Roma, si erano avute già ad inizio d'anno «azioni spettacolari come l'occupazione di più giorni della cupola di Sant'Ivo alla Sapienza, manifestazioni e la creazione di gruppi di studio caratterizzavano la mobilitazione romana». Il 1º marzo 1968, nei giardini di Valle Giulia a Roma, ci fu uno scontro tra studenti e forze dell'ordine senza precedenti, con centinaia di feriti, 228 fermi e 10 arresti. L'Unità scrisse che «la polizia è stata scatenata contro gli studenti romani», ma poi la cronaca del quotidiano comunista riferiva che «davanti alle gradinate bruciavano roghi di jeep e di pullman» senza peraltro spiegare chi avesse appiccato il fuoco. In soccorso ai dimostranti era intervenuta La Sinistra, una rivista che aveva pubblicato un manuale per la fabbricazione di bottiglie Molotov, con tanto di illustrazioni. Commentando la battaglia di Valle Giulia Pier Paolo Pasolini scrisse: «Avete facce di figli di papà. Vi odio, come odio i vostri papà: buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo, siete pavidi, incerti, disperati. Benissimo; ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte con i poliziotti io simpatizzavo con i poliziotti, perché i poliziotti sono figli di poveri, hanno vent'anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia, ma prendetevela con la magistratura e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi, per sacro teppismo, di eletta tradizione risorgimentale di figli di papà, avete bastonato, appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe e voi, cari, benché dalla parte della ragione, eravate i ricchi; mentre i poliziotti, che erano dalla parte del torto, erano i poveri.» I docenti universitari, in particolare quelli della facoltà di Architettura, subivano le intimidazioni studentesche: al Politecnico di Milano il preside di Architettura Paolo Portoghesi acconsentì gli esami di gruppo, l'autovalutazione e il 27 sempre garantito (gli studenti usciti da Architettura durante la sua gestione hanno dovuto ricominciare da capo, oppure si sono accontentati di lavori occasionali). Sempre a Milano, il 12 aprile 1968, il Corriere della Sera fu assalito da un gruppo di giovani che alzarono le barricate e si scontrarono contro la polizia. Nove giorni dopo Eugenio Scalfari prese posizione su L'Espresso: «Questi giovani insegnano qualcosa anche in termini operativi. L'assedio alle tipografie di Springer per bloccare l'uscita dei suoi giornali è un mezzo nuovo di lotta molto più sofisticato ed efficace delle barricate ottocentesche o degli scioperi generali. Ad un sistema "raffinato" si risponde con rappresaglie "raffinate". L'esempio è contagioso. Venerdì sera a Milano un corteo di studenti in marcia per dimostrare sotto il consolato tedesco si fermò a lungo e tumultuando sotto il palazzo del Corriere della Sera. Può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate ormai da lunghissimo tempo a nascondere le informazioni e a manipolare l'opinione pubblica. Ammesso che sia mai esistita, la società ad una dimensione sta dunque facendo naufragio. Chi ama la libertà ricca e piena non può che rallegrarsene e trarne felici presagi per l'avvenire». Il Movimento Studentesco milanese era il gruppo più organizzato e incontrastato: aveva come leader Mario Capanna, che si era iscritto alla Statale dopo essere stato espulso dalla Cattolica, e instaurò una dittatura esercitata attraverso un «servizio d'ordine» i cui membri, chiamati «katanghesi», erano armati di chiave inglese. Nel maggio 1968 tutte le Università, esclusa la Bocconi, erano occupate: nello stesso mese la contestazione si estese, uscendo dall'ambito universitario, un centinaio di artisti, fra cui Giò Pomodoro, Arnaldo Pomodoro, Ernesto Treccani e Gianni Dova occupano per 15 giorni il Palazzo della Triennale, ove era stata appena inaugurata l'esposizione triennale, chiedendo «la gestione democratica diretta delle istituzioni culturali e dei pubblici luoghi di cultura».

Il movimento operaio. Nel 1969 ci fu l'esplosione degli scioperi degli operai in fabbrica, che si saldò con il movimento degli studenti che contestavano i contenuti arretrati e parziali dell'istruzione, e rivendicavano l'estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione economica disagiata. Dalla contestazione studentesca che fu inizialmente sottovalutata dai politici e dalla stampa, si passò repentinamente alle rivendicazioni operaie. La presenza di giovani operai a fianco degli studenti fu la caratteristica anche del Sessantotto italiano. In Italia la contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato negli anni sessanta, dovuto al fatto che il «miracolo economico» non era stato accompagnato – né a livello governativo, né a livello imprenditoriale – da una visione lungimirante dei problemi che ne derivavano: dalle migrazioni interne all'inquinamento. Le tasse venivano pagate prevalentemente dai lavoratori dipendenti, e l'evasione era molto alta. Era necessaria una spinta riformistica vigorosa. Alla fine di novembre del 1968 ad Avola, 3.000 braccianti scesero in piazza a scioperare contro gli agrari, chiedendo il rinnovo del contratto di lavoro. Due giorni dopo ci furono gravi incidenti, con le forze dell'ordine che aprirono il fuoco contro un blocco stradale: due braccianti, Giuseppe Sibilia e Angelo Sigona, persero la vita, mentre ci furono molti feriti tra la polizia. Quattro mesi dopo, a Battipaglia, la popolazione scese in piazza per chiedere posti di lavoro, e mentre a Roma era andata una delegazione per discutere con il Ministro dell'Industria, in paese si scatenarono scontri con le forze dell'ordine in cui morirono il tipografo Carmine Citro e l'insegnante Teresa Ricciardi. Le agitazioni presero origine per il rinnovo di 32 contratti collettivi di lavoro chiedendo, tra l'altro, l'aumento dei salari uguale per tutti, la diminuzione dell'orario. Per la prima volta il mondo dei lavoratori e quello studentesco erano uniti fin dalle prime agitazioni su molte questioni del mondo del lavoro, provocando nel Paese tensioni sempre più radicali, sfiorando in alcuni casi l'insurrezione, visti i proclami, e i fatti che accadevano in Italia. I sindacati ufficiali furono condizionati dai Comitati unitari di base (CUB), che esigevano salari uguali per tutti gli operai in base al principio che «tutti gli stomachi sono uguali», senza differenze di merito e di compenso, concependo il profitto come una truffa, la produttività un servaggio e l'efficienza un complotto, sostenendo invece che la negligenza diventava un merito e il sabotaggio era un giusto colpo inferto alla logica capitalistica. Nel numero del luglio 1969 dei Quaderni piacentini compariva un lungo documento che affermava: «Cosa vogliamo? Tutto. Oggi in Italia è in moto un processo rivoluzionario aperto che va al di là dello stesso grande significato del maggio francese... Per questo la battaglia contrattuale è una battaglia tutta politica». Gli imprenditori italiani furono colti da un sentimento di paura che confinava con il panico: a Valdagno, durante una dimostrazione operaia, fu abbattuto il monumento a Gaetano Marzotto (creatore del complesso industriale), nelle fabbriche l'atmosfera diventò invivibile per dirigenti, i «capi» e «capetti», che si sentirono intimiditi e minacciati. Aumentavano il fenomeno dell'assenteismo e gli episodi di sabotaggio, intimidazione e violenza. Uno degli episodi più significativi avvenne alla FIAT, il 29 ottobre 1969, in concomitanza all'apertura del Salone dell'Automobile, nel corso degli scioperi articolati per il nuovo contratto di lavoro. Un folto gruppo di scioperanti, armati di sbarre e bastoni, prese d'assalto lo stabilimento di Mirafiori, devastando le linee di montaggio dei modelli «600» e «850», il reparto carrozzeria e le strutture della mensa. Quando la FIAT individuò e denunciò 122 operai responsabili delle devastazioni, si contrapposero mobilitazioni politiche e sindacali, con il Ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin che costrinse l'azienda a ritirare le denunce. La discussione dei contratti si svolse in un clima di forte tensione, con l'autunno caldo che provocò, o concorse a provocare, la fuga dei capitali, l'impennata dell'inflazione, e più in generale un decennio di recessione. Ciò fu dovuto all'aggressività eversiva in contrasto con le scelte passate di molti «padroni» che si accontentarono di mettere in salvo oltre frontiera le ricchezze accumulate negli anni precedenti. Il 21 dicembre, con una mediazione, furono accolte quasi tutte le richieste dei sindacati e ritornò una calma apparente. Ma gli operai ottennero alcuni risultati: aumenti salariali, interventi nel sociale, pensioni, diminuzione delle ore lavorative, diritti di assemblea, consigli di fabbrica[3]. E gettarono le basi dello Statuto dei lavoratori (siglato poi nel 1970).

La destra e la contestazione studentesca. Nei primi momenti della contestazione studentesca gli universitari di destra sono tra i capofila del movimento. La battaglia di Valle Giulia all'Università di Roma del 1º marzo 1968 sarà l'ultima azione in cui studenti di sinistra e di destra saranno insieme, perché il 16 marzo successivo con l'assalto alla facoltà di Lettere dell'Università La Sapienza, voluta dai vertici del MSI timorosi di perdere quella definizione di «partito dell'ordine» ci sarà la frattura tra «movimentisti» e «reazionari». Nel momento in cui il Movimento Studentesco divenne così dominato dalla sinistra, nacque da parte degli studenti di destra che non volevano seguire la linea anti-contestazione degli universitari missini del FUAN, il Movimento studentesco europeo, particolarmente attivo a Roma e Messina, lanciando il Manifesto degli studenti europei. Nel marzo 1969 a Messina, guidati di Giovanbattista Davoli, occuparono insieme ai colleghi reggini il rettorato[14]. Nello stesso anno, il 15 aprile, scoppiò verso le 23:00 una carica esplosiva nello studio di Guido Opocher, rettore dell'Università di Padova. Per questo attentato, cinque anni dopo, il magistrato Gerardo D'Ambrosio manderà a processo Franco Freda, Giovanni Ventura e Marco Pozzan. Il 25 aprile esplose un'altra bomba, alla Fiera di Milano, distruggendo lo stand della FIAT – rimasero ferite una ventina di persone, ma il vero obiettivo era una strage – e tre ore dopo, alla Stazione Centrale, un altro ordigno danneggiò l'ufficio della Banca Nazionale delle Comunicazioni[3]. Altre otto bombe collocate sui treni esplosero nella notte tra l'8 e il 9 agosto, provocando 12 feriti. Nello stesso mese furono compiuti altri attentati dinamitardi nell'Ufficio Istruzione del Tribunale a Milano e Torino: dieci anni dopo, per queste azioni eversive, verranno condannati i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, militanti di Ordine Nuovo. Nel 1970 gli studenti di destra saranno tra le barricate nella rivolta di Reggio Calabria. A innescare la rivolta fu la scelta di Catanzaro come sede dell'Assemblea regionale, ma i moti avevano origini in mali antichi e in nuove contraddizioni, come la disoccupazione, la precarietà e l'esodo verso il Nord industrializzato[3]. Inizialmente la destra missina definì i dimostranti teppisti e cialtroni, ma quando il comitato di azione locale finì sotto il controllo di Ciccio Franco, segretario provinciale della CISNAL, iniziò a sostenere la rivolta. Nacque lo slogan «Boia chi molla». Ordine Nuovo attribuì alla rivolta un ruolo storico: «È il primo passo della rivoluzione nazionale in cui si brucia questa oscena democrazia».

La politicizzazione degli anni settanta. La natura controculturale e anticonformista del movimento sessantottino gli attribuiva un carattere creativo e «rivoluzionario» che avrebbe accomunato nel conflitto i partiti che istituzionalmente rappresentavano la sinistra. La lotta iniziale contro ingiustizie, corruzioni e inefficienze tenderà, con il trascorrere del tempo, a trasformarsi in forme di opposizione sempre più estreme. Il Partito Comunista Italiano (PCI) registrò la scissione del gruppo del Manifesto – Lucio Magri, Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda – che aveva fondato una rivista di ricerca politica e di contestazione a sinistra della linea ufficiale del partito[3], mentre il PSI subì una scissione che portò la nascita del PSIUP. Vi è poi chi ha ritenuto di leggervi anche una valenza contestatrice nei gruppi di destra verso il MSI. La rivolta generazionale era un movimento nel quale si riconosceva una intera classe giovanile, che non aveva avuto né «credo di provenienza» né «appartenenza politica» e rivolgeva domande alla società, tra le quali il diritto allo studio. Del resto i cambiamenti maggiori che esso produsse, se si eccettua il mutamento radicale nella presa di coscienza generalizzata del ruolo paritario della donna, furono a livello di costume. Nel Movimento Studentesco inizialmente ci fu molta goliardia: il giorno di Sant'Ambrogio del 1968 furono lanciati pomodori e uova contro gli spettatori che s'avviavano alla rappresentazione inaugurale della Scala. Successivamente si passò a una seconda fase che, col tempo, generò il fenomeno del terrorismo: il professor Pietro Trimarchi, figlio del primo presidente della Corte d'appello di Milano, fu «sequestrato», insultato, sputacchiato perché non intendeva piegarsi alle imposizioni dei contestatori, rifiutando gli esami di gruppo, la promozione obbligatoria e la rinuncia alla meritocrazia. Si ribellavano anche i detenuti, che chiedevano «diritto di assemblea, di commissioni di controllo su tutta l'attività che si svolge nel carcere, apertura all'esterno con possibilità di colloqui senza limitazioni, abolizione della censura, diritto ai rapporti sessuali... possibilità di commissioni esterne d'indagine sulla funzione di funzionari, magistrati e direttori fascisti». I contestatori – per la maggior parte provenienti da famiglie borghesi – giravano per le strade urlando «Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi», «Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero» e «Uccidere un fascista non è reato», spaccando vetrine e a volte anche crani, mentre Lotta Continua pubblicava le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi e le abitudini dei «nemici del popolo» o presunti tali, alcuni dei quali aggrediti sotto casa finirono in sedia a rotelle. Apparve anche, per la prima volta, una bottiglia incendiaria di facile confezione, utilizzata dai partigiani sovietici contro i carri armati tedeschi e chiamata «Molotov». Si creò una nuova forma di conformismo: se prima era obbligatorio frequentare l'Università in giacca e cravatta, con la contestazione (e negli anni successivi) era obbligatorio l'eskimo. Inoltre c'era il vizio di picchiare chi la pensasse in maniera diversa, spesso in dieci, venti, trenta, contro uno. Nel febbraio 1972 i «katangesi» picchiarono selvaggiamente uno studente israeliano, accusato a capocchia di essere un infiltrato della CIA: questo pestaggio era stato preceduto da un altro, contro il sindacalista Giovanni Conti, accusato di nefandezze politiche e di amare la vita notturna. Dando una sua interpretazione al termine «spranga», il manifesto scrisse: «Il Movimento studentesco della Statale di Milano, organizzato nonostante il nome come un gruppo a sé, inquadra i suoi militanti in uno dei più efficienti servizi d'ordine paramilitari e lo battezza Katanga, riprendendo la denominazione parigina del maggio. I manici di piccone vengono ribattezzati Stalin. I Katanga si incaricano di gestire gli scontri con la polizia ma anche di garantire l'egemonia del Movimento studentesco nella Statale vietando praticamente l'entrata agli appartenenti agli altri gruppi della sinistra extraparlamentare. Più che ai periodici scontri con la polizia, l'importanza crescente che la spranga assume nella sinistra extraparlamentare è legata al confronto quotidiano con i fascisti». Sul piano politico, durante gli anni settanta la classe dirigente del PCI riuscì a recuperare (soprattutto grazie alla sua presenza nelle fabbriche) un ascendente sulla massa giovanile, e lo fece sottraendola al «brodo di coltura» del terrorismo delle Brigate Rosse e dei gruppi satelliti (lo snodo fondamentale fu, in proposito, la denuncia di esponenti genovesi del terrorismo rosso da parte di Guido Rossa, delegato di fabbrica del PCI, e la reazione che portò al suo assassinio nel 1979). Analoghi comportamenti furono tenuti dal Partito Radicale (grazie soprattutto a Marco Pannella) e dal MSI che rinnegò e scomunicò la destra extraparlamentare violenta, mentre la DC assunse un atteggiamento passivo (almeno fino al delitto Moro), sperando che il fenomeno si esaurisse da solo. Al di là del tormentato rapporto con la «sinistra ufficiale», vi è però una diffusa opinione secondo cui la distinzione assoluta tra momento di creazione alternativa – in cui tutti i giovani erano in fondo d'accordo nel voler cambiare la società – e la sua degenerazione politica successiva, se è accettabile nel senso generale, è però praticamente inapplicabile ogniqualvolta si analizzi nello specifico un momento o un luogo preciso. In Italia quel momento «apolitico», se ci fu, fu rapidissimo, e la politicizzazione esplicita del movimento fu pressoché immediata).

La fine del movimento. Il Sessantotto non si verificò in tutto l'Occidente: nel Nord Europa ognuno era libero di fare ciò che voleva, rispettando la legge e senza pregiudizi da parte dell'opinione pubblica. Le mete preferite dai ragazzi erano Amsterdam e Londra, oltre a Ibiza in cui si radunavano i giovani olandesi, inglesi e scandinavi (c'era libertà sessuale e di fumare marijuana). Nel resto d'Europa (in particolare in Francia e in Germania Ovest) e negli Stati Uniti la protesta si spense all'inizio degli anni settanta, senza aver riportato apparentemente risultati significativi: la libertà sessuale e il femminismo esistevano già al tempo dei Beatles e di Mary Quant. Le principali resistenze al Sessantotto vanno ricercate nei ceti neoconservatori (che idealizzavano i valori tipici della società tradizionale come la famiglia, il potere economico e politico, l'amore per la Patria e la sua storia), oltre che nell'incapacità di tradurre le aspirazioni in programmi concreti e in strutture organizzative in grado di realizzarli. In Italia il movimento non si spense, ma si trasformò aumentando d'intensità e continuò per tutto il decennio successivo. A partire dal 1973, quando il PCI iniziò a elaborare un progetto di incontro con le forze socialiste e cattoliche, la sinistra extraparlamentare vide la nuova strategia come un tradimento nei confronti della classe operaia e una resa nei confronti della DC. Di giorno in giorno si sviluppò una minoranza esigua, ma ben risoluta, che scelse la strada della lotta armata, e l'estremismo politico diventò violenza quotidiana[3], con Milano capitale dell'eversione[4]. Alla fine di giugno del 1976 si tenne al Parco Lambro di Milano l'ultima edizione del Festival del proletariato giovanile, organizzato dalla rivista Re Nudo a cui parteciparono più di 400.000 persone. Il festival fu segnato da gravi problemi di ordine pubblico (aggressioni e saccheggi) e segnò l'inizio del Movimento del '77. Il Movimento teorizzava un paradossale rifiuto al lavoro (utilizzando i termini «esproprio», «autoriduzione», «ronda», «occupazione» e «spesa proletaria»), e aveva come nemici principali il PCI e i sindacati: per questi motivi il TIME lo descrisse come «il rasoio che ha separato per sempre il passato dal presente».

Effetti socio-culturali. A partire dagli anni cinquanta si sviluppò in Europa la «società industriale nella fase del capitalismo avanzato» o di quella «civiltà di massa» o «civiltà dei consumi» della quale i sociologi hanno esaminato tutte le caratteristiche: dal consumismo ai persuasori occulti (che attraverso una serie di canali di comunicazione trasformano l'uomo in consumatore diretto), dall'omogeneizzazione del gusto collettivo alla mercificazione di qualsiasi tipo di valori. Questo aspetto si identificò col discorso dell'industria culturale. Quest'ultima è causa ed effetto assieme di una situazione tipica della società odierna: il mercato dell'arte si allarga a dismisura, la richiesta dei beni culturali non si diversifica più da quella dei prodotti industriali, poiché anch'essi sono simboli di promozione sociale, prima ancora che di promozione culturale. Ciò comporta la riduzione del prodotto artistico a merce che segue le leggi del mercato; è la domanda a determinare l'offerta, e quindi la produzione, ed è il sistema a provocare la domanda. In ultima analisi, il prodotto artistico per essere fruibile ed accetto al mercato deve essere gradevole, aproblematico, cioè omologo al sistema. Di conseguenza il raggiungimento di questo obiettivo pone una pesante ipoteca sull'attività dell'artista che, condizionato dalle leggi del mercato, si può ridurre a docile produttore di asettici beni di consumo. A questo proposito scrisse Theodor W. Adorno: «La cultura che, conforme al suo senso, non solo obbediva agli uomini ma continuava anche a protestare contro la condizione di sclerosi nella quale essi vivono e, in tal modo per la sua assimilazione totale agli uomini, faceva ad essi onore, oggi si trova invece integrata alla condizione di sclerosi; così contribuisce ad avvilire gli uomini ancora di più. Le produzioni dello spirito nello stile dell'industria culturale non sono, ormai anche delle merci, ma lo sono integralmente». In questa situazione è abbastanza agevole capire come mai, a partire dalla fine degli anni cinquanta, si sia avuto nel mondo letterario, e soprattutto in quello delle arti figurative, un pullulare di ricerche, sperimentazioni, «neoavanguardie». Di fronte alla negatività di certi fenomeni prodotti dall'industria culturale, scrittori e artisti hanno tentato, isolatamente o legandosi in «scuole» o «gruppi», la contestazione della prassi e dei valori della società di massa, con una varietà di atteggiamenti e di soluzioni che nelle arti figurative sembra avere assunto una volontà eversiva più marcata che nella letteratura. È però indispensabile sottolineare che quel sistema che si vuole contestare ha ormai talmente perfezionato le sue tecniche di penetrazione e di condizionamento, e ha un tale potere di mercificare ogni prodotto culturale, che riesce a strumentalizzare anche quest'arte di contestazione a fini commerciali, presentandola con l'attrattiva della novità. E così, a livello di costume, il sistema commercializza la contestazione giovanile e ne canonizza un abbigliamento rituale, realizzando così grossi affari: ad un diverso livello, mercifica e banalizza i moduli dell'arte informale, riducendo il recupero dell'arte popolare a mode naïf, a recupero del rustico, del primitivo.

I cambiamenti nell'arte. Sebbene vi siano una bibliografia e/o dei collegamenti esterni, manca la contestualizzazione delle fonti con note a piè di pagina o altri riferimenti precisi che indichino puntualmente la provenienza delle informazioni. Puoi migliorare questa voce citando le fonti più precisamente. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Questi cambiamenti ben presto porteranno a una nuova espressione dell'arte, del tutto originale, che si adatterà alle nuove esigenze del mondo culturale: l'arte di tutti, la pop art. In precedenza, i pittori erano diventati un tutt'uno col mondo fisico esterno, tanto che era impossibile capire quanto fosse dovuto all'autore e quanto lo influenzasse il mondo esterno. L'immaginazione di tutti, e in particolare dei pittori, era stata fortemente impressionata dalle esplosioni nucleari, le quali non hanno confini, fondono tutto ciò che incontrano alla loro elevatissima temperatura. Da ciò derivò una pittura di tipo espressionistico, in cui nulla era distinguibile, tutto si consumava in un unico fuoco. All'inizio degli anni sessanta tutto cambiò: allontanato il terrore di una guerra atomica e cresciuta l'approvazione per la tecnologia, vista come dispensiera d'abbondanza e ricchezza, s'innescò il fenomeno del boom industriale e del connesso consumismo. A questo punto, diveniva inutile l'aggressione alle cose da parte degli artisti: era meglio ritirarsi e lasciarsi penetrare dalla forza del progresso, rappresentata dagli oggetti prodotti in gran numero dall'industria ed esaltati dalla pubblicità. Colui che riuscì a rappresentare, nel migliore dei modi, questo mutamento repentino fu Roy Lichtenstein: con lui gli oggetti penetrano, si stampano da protagonisti nelle tele dell'artista. Ma ad essere rappresentati non sono le cose appartenenti a uno stato di natura, ma gli oggetti usciti dal ciclo produttivo dell'uomo, definiti oggetti-cultura, oggetti «non trovati» o «raccolti», ma volutamente fabbricati per soddisfare fabbisogni di massa. Proprio da qui giunse il connotato «popolare» di quest'arte, dalla cui abbreviazione in inglese derivò il termine pop. «Arte popolare» intesa non in senso di degradazione, ma perché si serviva di oggetti-merce: suo obiettivo era quello di esaltare l'oggetto industriale (trascurato dall'arte), estraniandolo dal proprio ambito al fine di farci notare la sua esistenza, concentrando l'attenzione su di esso. La tecnica usata era quella dello straniamento, ottenuta attraverso il ricorso a diverse tecniche, tutte atte a decontestualizzare gli oggetti all'interno di una composizione artistica, in modo da giungere, mediante la loro libera associazione, a un significato inedito. All'interno della pop art ebbe successo anche il combine painting, cioè ricombinazioni di cose vere con la pittura. I principali rappresentanti della pop art sono stati Claes Oldenburg, Andy Warhol e Roy Lichtenstein: il primo prendeva le forme della vita, le isolava, le ingrandiva e ne studiava i dettagli; il secondo puntava sulla riproducibilità dell'opera d'arte, da considerare anch'essa bene di consumo, rappresentando divi e politici del tempo come Marilyn Monroe o Mao Zedong, ma anche i barattoli della zuppa Campbell,s o le bottiglie della Coca-Cola, in multiplo, e con una produzione seriale grazie all'utilizzo della serigrafia. Lichtenstein affrontò l'intero mondo della mercificazione; difatti, una sua prima affermazione si compì attraverso la riproduzione dei prodotti alimentari, come le carni nei supermercati, impacchettate nella plastica al pari di qualsiasi altro prodotto confezionato, e di tutti gli altri prodotti esposti negli stessi supermercati – materiale elettrico, bombolette spray, articoli sportivi. Alla fine, quando la scena era già stata preparata ed addobbata, si dedicò al protagonista: l'essere umano. Anche per l'uomo entrava in scena la pubblicità, tuttavia lo riguardava anche un'altra forma di consumo, la narrazione di storie sentimentali: infatti, in quegli anni si consumava tanta stampa rosa, pagine e pagine di immagini tracciate con linee larghe, flessuose e sintetiche rotte dal levarsi dei fumetti, nuvolette che scandivano frasi stereotipate, che scorrevano in sequenza. Intervenendo su un materiale del genere, Liechtenstein si fece forte di un nuovo strumento di «straniamento»: ingigantiva su tele di ampio formato una singola casella di una «striscia», arrestandone il flusso, determinando l'effetto del blocco. Lichtenstein utilizzò nella sua pittura il puntinato Ben-Day, che diventerà una sua cifra stilistica inconfondibile, esasperando una tecnica tipica della stampa tipografica, con l'uso di retini di grandi dimensioni per dare l'idea di una realtà mediata dalla mole di immagini che nella realtà contemporanea vengono stampate e trasmesse. Anche in Europa si diffuse rapidamente questo fenomeno, tuttavia andò trasformandosi in varie tendenze che sconfinavano in altre (Nouveau Réalisme). Tra gli italiani coinvolti ci furono Mimmo Rotella, Valerio Adami ed Enrico Baj.

I cambiamenti nella musica. La contestazione non si esauriva a quei modelli culturali che investivano le forme d'arte, quelle letterarie e morali, giacché riuscì a trovare nella musica un ulteriore canale di diffusione, sicuramente più incisivo. Il modello musicale che si sviluppava in contemporanea alla beat generation fu il rock and roll, un tipo di musica in uso fra la popolazione bianca, che interpretava il senso di inquietudine, di protesta e di ribellismo dell'epoca. Esso si proponeva come un veicolo anti-tradizionalista e anticonformista, che voleva mettere al bando la musica melodica e sentimentalista e produrre un nuovo sound provocatorio. Con questo genere quindi si arrivava ad un punto in cui libertà in musica, nei costumi e libertà sessuale si fondevano prepotentemente, fra i maggiori interpreti ricordiamo i Rolling Stones, Bill Haley, Jim Morrison, Jimi Hendrix, i Beatles ed Elvis Presley. Al movimento della beat faceva seguito quello degli hippy, «figli dei fiori», particolarmente presente durante gli anni della guerra del Vietnam. I maggiori interpreti del pacifismo e della solidarietà tra i popoli furono Joan Baez, John Lennon e Bob Dylan, di quest'ultimo bisogna necessariamente citare la sua Blowin' in the Wind. In Italia, in realtà, il Sessantotto si visse qualche anno più tardi, ma, dal punto di vista musicale, le prime tracce della ribellione appaiono come fenomeno di massa già nel 1966, quando Franco Migliacci e Mauro Lusini scrissero il testo di C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones. La canzone fu cantata da un Gianni Morandi inedito. Il cantante bolognese era il classico interprete di testi facili e sentimentali come La fisarmonica e Se non avessi più te, per cui la sua avventura folkbeat fu scoraggiata da più parti. L'ostacolo più grande venne dalla Rai, la cui censura si scagliò contro il testo eccessivamente esplicito, che citava la guerra in Vietnam, che proprio in quegli anni stava scrivendo alcune fra le pagine più sanguinose della storia contemporanea. Le idee e le atmosfere evocate, tipiche della gioventù dell'epoca, contribuirono a un successo senza precedenti per una canzone di questo tipo e soprattutto senza confini, dato che fu ripresa da Joan Baez che la consacrò quale inno alla pace. Da citare anche Lucio Battisti con Uno in più e la «Linea Verde» di Mogol. Molte canzoni furono scritte sugli avvenimenti di quegli anni, le più significative della musica italiana furono quelle composte da Fabrizio De André raccolte nell'album Storia di un impiegato. Anche Francesco Guccini, cantautore dichiaratamente anarchico, dedicò agli avvenimenti in Cecoslovacchia un pezzo naturalmente intitolato Primavera di Praga, dall'album Due anni dopo del 1970, e citò il periodo anche nella canzone Eskimo («Infatti i fori della prima volta, non c'erano già più nel Sessantotto»), nell'album Amerigo del 1978. Di grande importanza è anche la canzone Come potete giudicar dei Nomadi, vero e proprio inno alla libertà che con le sue parole toccò i problemi di quegli anni. In rapporto alla guerra nel Vietnam e alla musica in voga in quel 1968 significativa è stata, sia sotto l'aspetto professionale che umano, l'esperienza vissuta dal gruppo musicale de Le Stars raccontata nel volume Ciòiòi '68 - In Vietnam con l'orchestrina.

Lo sport e la politica. Le grandi manifestazioni sportive mondiali, negli anni sessanta, si rivelarono un utile e importante strumento di pressione politica o una ideale cassa di risonanza per atti e manifestazioni che con lo sport non avevano nulla a che fare. Il fenomeno ebbe molto risalto, ad esempio, ai Giochi olimpici del 1968 a Città del Messico con la protesta antirazzista degli atleti di colore statunitensi Tommie Smith e John Carlos, sprinter di colore, oro e bronzo nei 200 metri, che, sul podio della premiazione, alzarono il pugno chiuso in un guanto nero, simbolo del movimento Black Power (Potere Nero), e chinarono la testa quando venne suonato l'inno nazionale statunitense. Smith, disceso dal podio disse: «Se io vinco sono un americano, non un nero americano. Ma se faccio qualcosa di sbagliato, allora diranno che sono un negro. Noi siamo neri e siamo orgogliosi di essere neri. L'America nera comprenderà ciò che abbiamo fatto stanotte». Il comitato olimpico americano li bandì dai giochi olimpici.

MAI NULLA CAMBIA. 1968: TRAGICA ILLUSIONE.

16 giugno 1968. La poesia dell'autore da "Le ceneri di Gramsci.

Il Pci ai giovani. Di Pier Paolo Pasolini.

I versi sugli scontri di Valle Giulia che hanno scatenato dure repliche fra gli studenti.

Mi dispiace. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, cari. 

Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati: peggio per voi.

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio goliardico) il culo. Io no, cari.

Avete facce di figli di papà. 

Vi odio come odio i vostri papà. 

Buona razza non mente. 

Avete lo stesso occhio cattivo. 

Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. 

Perché i poliziotti sono figli di poveri. 

Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano. 

Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità.

La madre incallita come un facchino, o tenera per qualche malattia, come un uccellino; 

i tanti fratelli;

la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati);

i bassi sulle cloache;

o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc.

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);

umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. 

Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. 

Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! 

I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. 

A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde vi leccano il culo.

Siete i loro figli, la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano non si preparano certo a una lotta di classe contro di voi!

Se mai, si tratta di una lotta intestina.

Per chi, intellettuale o operaio, è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea che un giovane borghese riempia di botte un vecchio borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera un giovane borghese.

Blandamente i tempi di Hitler ritornano: la borghesia ama punirsi con le sue proprie mani. 

Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma, ma devo dire: il movimento studentesco (?) non frequenta i vangeli la cui lettura i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici; 

una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, il teppismo conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre), l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine anche se già lontane.

Questo, cari figli, sapete. 

E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione al potere.

Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre sulla presa di potere. 

Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti, nei vostri pallori snobismi disperati, nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia infima, o da qualche famiglia operaia questi difetti hanno qualche nobiltà: conosci te stesso e la scuola di Barbiana!) 

Riformisti! Reificatori! 

Occupate le università ma dite che la stessa idea venga a dei giovani operai.

E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde avranno tanta sollecitudine nel cercar di comprendere i loro problemi? 

La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata? 

Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi un giovane operaio di occupare una fabbrica senza morire di fame dopo tre giorni? 

e andate a occupare le università, cari figli, ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi a dei giovani operai perché possano occupare, insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.

È un suggerimento banale; 

e ricattatorio. Ma soprattutto inutile: perché voi siete borghesi e quindi anticomunisti.

Gli operai, loro, sono rimasti al 1950 e più indietro. 

Un’idea archeologica come quella della Resistenza (che andava contestata venti anni fa, e peggio per voi se non eravate ancora nati) alligna ancora nei petti popolari, in periferia. 

Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese, e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula, si è dato da fare per imparare un po’ di russo. 

Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere.

Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, a bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l’idea del potere. 

Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud): quindi, i Maestri - che sapranno sempre di essere Maestri - non saranno mai Maestri: né Gui né voi riuscirete mai a fare dei Maestri.

I Maestri si fanno occupando le Fabbriche non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti) non vi dicono la banale verità: che siete una nuova specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri, come i vostri padri, ancora, cari! Ecco, gli Americani, vostri odorabili coetanei, coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando, loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario! 

Se lo inventano giorno per giorno! 

Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno: potreste ignorarlo? 

Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione del Times e del Tempo). 

Lo ignorate andando, con moralismo provinciale, “più a sinistra”.

Strano, abbandonando il linguaggio rivoluzionario del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale Partito Comunista, ne avete adottato una variante ereticale ma sulla base del più basso idioma referenziale dei sociologi senza ideologia.

Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi): una serie di improrogabili riforme l’applicazione di nuovi metodi pedagogici e il rinnovamento di un organismo statale.

I Bravi! Santi sentimenti! 

Che la buona stella della borghesia vi assista! 

Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti della polizia costretti dalla povertà a essere servi, e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica borghese (con cui voi vi comportate come donne non innamorate, che ignorano e maltrattano lo spasimante ricco) mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i vostri padri: ossia il comunismo.

Spero che l’abbiate capito che fare del puritanesimo è un modo per impedirsi la noia di un’azione rivoluzionaria vera. 

Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni! 

Andate a invadere Cellule! 

andate ad occupare gli usci del Comitato Centrale: Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure! 

Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere di un Partito che è tuttavia all’opposizione (anche se malconcio, per la presenza di signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote, borghesi coetanei dei vostri schifosi papà) ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere. 

Che esso si decide a distruggere, intanto, ciò che un borghese ha in sé, dubito molto, anche col vostro apporto, se, come dicevo, buona razza non mente...

Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!

Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto consigliando? A cosa vi sto sospingendo? 

Mi pento, mi pento! 

Ho perso la strada che porta al minor male, che Dio mi maledica. Non ascoltatemi. 

Ahi, ahi, ahi, ricattato ricattatore, davo fiato alle trombe del buon senso. 

Ma, mi son fermato in tempo, salvando insieme, il dualismo fanatico e l’ambiguità... 

Ma son giunto sull’orlo della vergogna.

Oh Dio! che debba prendere in considerazione l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?

Il 1968 visto da chi non è di sinistra. Fu comunque un'iniezione di freschezza in un corpo economico e politico vecchio, scrive Stenio Solinas il 19 aprile 2018 su "Panorama". Si può parlare bene del '68 senza essere e/o essere stato di sinistra? E se ne può parlare bene senza nascondersi dietro l'alibi di un ipotetico quanto tradito "Sessantotto di destra"?

Il 1968 come cortocircuito generazionale. Facciamo un passo indietro. Nel primo decennale della Contestazione stavo lavorando al pamphlet Macondo e P38 che uscì di lì a poco. Di quel libretto, queste righe mi sembrano ancora significative: "Pure qualche cosa significò, molte speranze sollevò, alcuni processi distruttivi innescò. Fra tanti cascami letterari e no, fra tanti moduli scontati e déjà-vu, prospettò realtà nuove, a livello di rapporti umani, e politici, e sociali. Non fu una rivoluzione; così come non fu un fuoco di paglia. Fu una via di mezzo, tipicamente italiana, e come tale destinata a non pagare chi seriamente la percorse, ma sempre pronta a essere presentata, dagli alti, come una specie di cambiale allo sconto". Proviamo a riassumere: il '68 è il primo cortocircuito di una modernizzazione fine a sé stessa, priva cioè di quei correttivi che dovrebbero regolarla: istituzioni, corpi intermedi, senso dello Stato, programmazione, selezione della classe dirigente. È un cortocircuito generazionale, di figli contro padri, la sua forza, ma anche la sua debolezza. Il secondo cortocircuito sarà la lunga stagione del terrorismo. Il terzo, l'implosione del sistema dei partiti e la successiva incapacità di riformarlo ovvero rifondarlo. Quel cortocircuito era nella logica delle cose, ma anche necessario quanto salutare. C'era un Paese ormai industriale con pratiche ancora rurali, ridottesi a pure forme senza contenuto.

L'Italia nel solco francese. Il '68 insomma svelò che il re era nudo. Nel campo sessuale e nel rapporto uomo-donna, dove aleggiava ancora il cattivo odore del "delitto d'onore"; in quello familiare, dove la famiglia numerosa e monoreddito non riusciva più a stare al passo con il tempo e con il consumo legato al tempo stesso; nell'istruzione, un Paese alfabetizzato e però con scuole ancora elitarie, e nelle professioni, mondo asfittico e uso a una gerarchia di pura e semplice anzianità, non più in grado di regolare l'accesso al mondo del lavoro. Se si guarda alla genesi dell'Italia come nazione, si vedrà che essa nasce nel solco della Rivoluzione francese: di sinistra, non di destra, progressista, non conservatrice. Schematizzando, per fare l'Italia era stato necessario fare tabula rasa di ciò che c'era prima. La nuova dicotomia, a unità raggiunta, non fu tra conservatori e rivoluzionari, ma nella divisione propria al secondo campo tra riformisti e progressisti. Il "conservatorismo impossibile" nasce dal non capire che da noi i moderati non si identificano con i conservatori, ma fanno anch'essi parte del mito della modernizzazione del Paese. In questa ottica, il '68 fu un'iniezione di freschezza in un corpo sociale, politico, economico vecchio e ipocrita, una salutare spallata generazionale, se si vuole, che merita l'onore delle armi. (Articolo pubblicato sul n° 17 di Panorama in edicola dal 12 aprile 2018 con il titolo "1968 come lo giudica chi non è di sinistra")

1968, come lo giudica chi non è di sinistra. Voleva essere una rivoluzione, invece fu un fallimento. Da lì nacquero le fake news, scrive Marcello Veneziani il 18 aprile 2018 su "Panorama". Nel diluvio di celebrazioni che si sono aperte sul '68 in occasione del cinquantenario, è possibile una lettura irriverente?

Il '68 regno del fake. Viviamo tra le rovine del '68. Tante e confuse furono le sue eredità, pesanti quanto ineffabili, ma tra tutte prevale una: si persero i confini tra il vero e il falso, tra il fatto e la diceria, tra il ragionamento e l'emozione, tra i diritti e i desideri. Il '68 scoprì che dietro ogni verità, dietro ogni fatto, dietro ogni ordine, ogni storia e ogni legge, anche di natura, c'è un abuso di potere, un sopruso e un falso ideologico. Il regno del fake. Niente è come appare, tutto è come mi sembra. Non c'è la Realtà vera, e non c'è fedeltà, autorità, natura, merito; ma tutto è soggettivo e soggetto ai modi di vedere, di pensare, di sentire. Tutto è figlio del clima sociale, è frutto d'interpretazione e stato d'animo.

In cosa fallì e in cosa trionfò il '68. Nel '68 si persero i confini anche tra lecito e illecito, tra naturale e volontario, tra realtà e sogno, tra alto e basso. E tra sessi, tra stati, tra popoli. Nacque il nostro mondo sconfinato, in tutti i sensi. E nacque la post-verità, cioè la verità a modo mio. Il '68 fallì come rivoluzione politica ed economica, gli assetti di potere restarono invariati e il capitalismo, anziché crollare, si fece globale. Ma trionfò come rivoluzione di costume, come mutazione culturale, intaccò i linguaggi, il sesso, il privato e attaccò la scuola e l'università, la famiglia e il rapporto tra le generazioni. In quei campi lasciò soprattutto macerie. Il '68 nacque collettivista e si fece single, individualista, egocentrico e narcisista. Nacque giovanilista e restò puerile. Avversò la tolleranza repressiva e produsse l'intolleranza permissiva, tutto è permesso, guai a chi dissente.

Una rivoluzione contro la tradizione. Il '68 non lasciò capolavori, eroi, eventi, imprese. Certo, fu una scossa, svecchiò, produsse pure qualche salutare cambiamento, si pensi alle donne. Sfociò in rivoli contrastanti, che finirono nell'estremismo politico o nel radicalismo civile, nell'ecopacifismo o nella violenza degli anni 70 e nella droga. Negli anni 80, sulle orme del '68 sorsero i filoni libertari, libertini e liberisti che spinsero verso la modernizzazione. Non a caso qualcuno ritiene persino il berlusconismo un frutto del '68. Ma l'orma prevalente che lasciò fu la rottura: il '68 ruppe il legame necessario tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, tra meriti e risultati, tra giovani e anziani. E alla fine quella rivoluzione contro il potere diventò una rivoluzione contro la tradizione, al servizio di un potere più cinico e globale, che si voleva liberare dei confini religiosi, nazionalie famigliari per crescere più sfrenato e mutare i credenti in consumatori. E trovò nel '68 i suoi gendarmi, poii suoi agenti, infine i suoi creativi. La trasgressione si fece canone, il parricidio diventò conformismo e political correctness. In Rovesciare il '68 (il saggio che Marcello Veneziani scrisse per Mondadori dieci anni fa, ndr) sostenni che oggi la vera trasgressione è la tradizione. Urge una ribellione omeopatica al dominio del '68 parruccone. 

Paolo Pietrangeli ricorda la battaglia di 50 anni fa: «Valle Giulia, i sogni, le mattonate». Cantautore-regista, il 1° marzo del ‘68 era lì a fare a botte. I suoi ricordi, il suo bilancio amaro. Giuliano Ferrara era nel Pci e nel Movimento. Scalzone in Svezia per rimorchiare, scrive Fabrizio Paladini l'1 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera".

«Il primo marzo/ sì me lo rammento/ saremo stati/ mille e cinquecento». 

Chi se lo rammenta è Paolo Pietrangeli, 73 anni, storico regista televisivo del Maurizio Costanzo Show, di Amici, di C’è posta per te. Oggi è anche candidato alle elezioni con Potere al popolo. Suo papà Antonio fu acclamato sceneggiatore e regista di film come Lo scapolo, Io la conoscevo bene. Ma soprattutto Paolo Pietrangeli è conosciuto per le sue canzoni di lotta e di protesta. Contessa, Il vestito di Rossini, Valle Giulia sono pezzi che tra il 1968 e il 1977 hanno cantato tutti quelli che volevano cambiare il mondo. Valle Giulia prende spunto proprio dalla battaglia tra studenti e polizia che esattamente 50 anni fa si scatenò a Villa Borghese, sotto la facoltà di Architettura. «Noi studenti dei licei ci radunammo a piazza di Spagna. L’idea era quella di raggiungere gli universitari per poi occupare Architettura. Feci tutto quel pezzo del corteo con Luciana, che allora era la moglie di Bruno Trentin. Arrivati a Valle Giulia lei sentenziò: Ma cosa vuoi che succeda, sarà tutto tranquillo, ci sono i socialisti al governo. Appena pronunciata quella frase, iniziarono i disordini. C’erano poliziotti e carabinieri dappertutto. Ma all’inizio le cariche erano abbastanza blande».

E poi? 

«È accaduto che per la prima volta gli studenti, i figli di papà, non hanno avuto paura e non sono fuggiti. Anzi, hanno reagito». 

Eravate armati? 

«Sassi presi nelle aiuole e rami spezzati per fare bastoni. Questa fu una cosa nuova che alla Polizia non piacque per nulla. Ci diedero insomma un sacco di botte e moltissimi dei fermati vennero portati nella caserma di via Guido Reni e in Questura dove arrivò la seconda razione». 

Lei venne picchiato? 

«Io no ma, adesso lo posso confessare tanto dopo 50 anni sarà prescritto: tirai un mattone dall’alto e colpii in testa un agente, uno dei pochi che non aveva l’elmetto. Si sparse la voce che alcuni poliziotti erano gravemente feriti e io mi sentivo un po’ in colpa, mi chiedevo: vuoi vedere che ho fatto male a qualcuno? Pensa un po’ che rivoluzionario irriducibile ero». 

E dopo la mattonata che ha fatto? 

«Ero lì con la mia fidanzata Grazia, che poi sarebbe diventata la mia prima moglie e madre di mio figlio, che si slogò la caviglia alla prima carica. Non poteva camminare e quindi la misi sulle spalle come un sacco di patate e giù a scappare verso Villa Borghese. Arrivai a casa mezzo morto. Aprii l’acqua bollente e mi feci un bagno caldo». 

Al calduccio come i figli di papà che Pier Paolo Pasolini attaccò difendendo i poliziotti figli del popolo? 

«Quella poesia mi fece incazzare. Conoscevo Pasolini perché veniva spesso a casa nostra, al quartiere Trieste, per parlare con mio padre di progetti comuni. Ma a differenza di tanti attori e registi che mi salutavano per educazione, affetto o convenienza, lui niente, non diceva nemmeno Ciao. Io aprivo la porta e lui: Dov’è tuo padre? Allora andai da mia madre e le dissi: Mamma, ma chi è quel frocio? Lei mi assestò un salutare sganassone e io imparai la lezione». 

Lei già cantava? 

«La prima chitarra me la regalò mio padre, alla fine degli anni Cinquanta. Fu Dario Fo che veniva sempre ospite da noi a dire a papà: Paolo ha una bella voce, compragli una chitarra. Iniziai con le filastrocche. In verità non ho mai scritto canzoni, ma solo raccontato fatti con un po’ di musica». 

I leader del movimento studentesco li conosceva? 

«Con Giuliano Ferrara stavamo tutti e due nel Pci e, un po’ di nascosto, nel Movimento che il partito non vedeva di buon occhio. Oreste Scalzone era da poco tornato dalla Svezia dove - secondo me - era andato per rimorchiare. Franco Piperno era più grande e faceva il capetto. Poi c’erano gli Uccelli e io li detestavo. Una volta andarono a casa dello sceneggiatore Franco Solinas e gli riempirono la casa di escrementi perché lui era ricco e comunista». 

Fantasia al potere? 

«Durante le occupazioni si organizzavano corsi alternativi. Io proponevo cose tipo Studiare meglio il latino o I nuovi percorsi di filologia romanza e non partecipava nessuno, mentre c’erano quelli sul sesso libero che erano sempre pieni. Del resto, questo è il mio destino: ogni volta che mi piace qualcosa state sicuri che sarà un clamoroso insuccesso». 

Di questo ‘68 che è rimasto? 

«Eravamo sicuri, che fosse l’alba, che poi sarebbe tutto cambiato. Invece non era l’alba ma il tramonto. Lo spiraglio che avevamo visto non si stava aprendo ma chiudendo. L’industria culturale, per prima, sigillò tutto. Il peso fu opprimente, poi arrivò la violenza degli anni 70». 

Il sogno ha lasciato qualche segno? 

«Qualche segno e molte sconfitte. Non si è realizzato nessun sogno né personalmente né collettivamente. Ma ha lasciato molte amicizie e un modo di sentire comune. Ma se ancora oggi, 50 anni dopo, stiamo a discutere di colore della pelle, mi viene da piangere». 

 1968, Valle Giulia non è che il debutto, scrive Paolo Delgado l'1 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Ogni movimento ha bisogno di una sua mitologia. Nel movimento che spazzò l’Italia per dieci anni il capitolo eroico di quella ricostruzione non priva di verità ma neppure di agiografia fu il primo marzo 1968: “la battaglia di valle Giulia”. Ogni movimento ha bisogno di una sua mitologia, deve attrezzare il suo proprio calendario, celebrare ricorrenze, allestire liturgie. Nel movimento che spazzò l’Italia per dieci anni e passa mezzo secolo fa il capitolo eroico di quella ricostruzione non priva di verità ma neppure di agiografia fu il primo marzo 1968, il battesimo del fuoco fu “la battaglia di valle Giulia”. La chiamarono così i giornali del Pci, L’Unità, uscito in edizione straordinaria quando per le strade di Roma ancora risuonavano le sirene della polizia e le celle di San Vitale erano ancora piene di studenti fermato negli scontro della mattinata, di fronte alla facoltà di Architettura, e Paese Sera, che usciva di norma tre volte al giorno e non ebbe quindi bisogno di forzare le rotative con un’edizione speciale. Anni dopo, ripercorrendo i fatti, Oreste Scalzone, all’epoca uno dei principali leader del movimento studentesco nella capitale, avrebbe adoperati toni dissacranti, segnalando che in fondo la battaglia era stata poca cosa, soprattutto se paragonata a quel che sarebbe poi esploso nelle strade di tutta Italia: «Un’ora scarsa di lanci di sassi e qualche carica contro la polizia. Cosa anche questa modesta ma che ebbe grande impatto». La narrazione epica in voga negli anni ‘ 70, costruita sulle note della celebre canzone dedicata alla “battaglia” da Paolo Pietrangeli era probabilmente esagerata. La minimizzazione di Scalzone lo è altrettanto. In quella assolata mattina di tardo inverno romano si produsse davvero una lacerazione, quegli scontri durati un paio d’ore nei prati intorno a Valle Giulia segnarono davvero uno scarto, un passaggio d fase, un salto di qualità. In un certo senso non è esagerato dire che il ‘ 68 cominciò quel giorno. Nell’università di Roma, la più grande d’Italia, la mobilitazione studentesca iniziata nel novembre 1967 a Torino, nella sede delle facoltà umanistiche di Palazzo Campana, e poi dilagata quasi ovunque era arrivata tardi. Mentre le cronache degli sgombri delle facoltà occupate da parte della polizia e delle nuove occupazioni diventavano quotidiane alla Sapienza e nelle facoltà aldi fuori della città universitaria, tra le quali Architettura, non si muoveva una foglia. L’onda d’urto arrivò solo il 2 febbraio ‘ 68, con l’occupazione di Lettere e poi, una via l’altra di tutte le altre facoltà. L’occupazione si prolungò per un mese esatto, poi il rettore D’Avack si decise a chiedere l’intervento della polizia, o meglio a consentirlo perché una circolare ministeriale diramata dopo le prime occupazioni aveva chiarito che a decidere sarebbe stata la forza pubblica salvo esplicito parere contrario dei rettori. Anno bisestile: l’università fu sgombrata il 29 febbraio. Una manifestazione di protesta organizzata dagli ormai ex occupanti fu caricata nel pomeriggio. Gli studenti si riunirono in serata nella sede della Federazione del Pci, in via dei Frentani, e convocarono una nuova manifestazione per la mattina seguente, con partenza da piazza di Spagna. Non era la prima volta che i manganelli della celere si abbattevano sulla testa degli studenti. Ai tempi erano corti e tozzi e gli agenti non disponevano dell’armamentario che gli sarebbe stato assegnato in dotazione l’anno seguente, insieme ai nuovi manganelli lunghi: gli scudi in plexiglas, le visiere, l’incentivo ad adoperare senza parsimonia i candelotti lacrimogeni. Pur peggio armati, si erano dati da fare più volte. A Palazzo Campana lo sgombro seguito da immediata rioccupazione e nuova irruzione degli agenti, in una catena infinita, era diventato quasi un rituale. La carica sui cortei di protesta degli sloggiati era altrettanto puntuale, prevedibile, prevista. A Valle Giulia successe però l’imprevedibile. Gli studenti reagirono, contrattaccarono, scoprirono che strade e parati erano pieni di “armi improprie” e le usarono. Aveva cominciato Massimiliano Fuksas, un passato da giovane neofascista spostatosi a sinistra alle spalle, un futuro da archistar di fronte, ancora avvolto nelle Nuvole. Ben piazzato, provò a forzare il blocco della polizia sulla porta della facoltà da solo poco prima che il corteo in arrivo da piazza di Spagna, qualche migliaio di studenti tra cui molti medi, raggiungesse la scalinata della facoltà. A riguardare oggi le istantanee di quella non oceanica manifestazione sembra di assistere a un inedito reality: il corteo dei famosi. Immortalato Giuliano Ferrara, che si prese la sua dose di botte, poi sparsi qua e là per il grande piazzale di Valle Giulia, Enrica Bonaccorti, Paolo Liguori, o come si chiamava ai tempi “Straccio”, con i capelli lunghissimi, un paolo Mieli appena meno compassato, Ernesto Galli della Loggia, sì sì proprio il futuro editorialista del Corrierone, un Antonello Venditti in anticipo sui primi accordi, Renato Nicolini, già leader di un’associazione goliardica vicina al Pci, Paolo Flores d’Arcais. Già innervositi gli agenti ordinarono la carica quasi subito, al primo lancio di sassi e uova. Per quanto negato in seguito per anni, a reggere il primo l’urto furono i fascisti. Caravella, l’associazione studentesca di estrema destra a stretta egemonia Avanguardia nazionale c’era tutta: Stefano Delle Chiaie, Guido Paglia, Adriano Tilgher, Mario Merlino. Quanto a scontri frontali erano più addestrati dei rossi: tennero la linea. La loro presenza fu cancellata peggio che nelle fotografie sovietiche dei funerali di Lenin per decenni. Riconoscere che a valle Giulia i fascisti non solo c’erano, ma erano pure in prima fila nella battaglia sarebbe stato poco conciliabile con la liturgia del caso. Ma anche il Movimento, la sera prima, aveva deciso di non limitarsi alla fuga e alla resistenza passiva. Arretrati in un primo momento rispetto ai fascisti, si lanciarono poi in una carica contro i caricanti che lasciò davvero tutti sbigottiti. Quando mai si erano visti gli studenti, mica portuali come quelli del ‘ 60 a Genova, oppure operaiacci come quelli di piazza Statuto a Torino nel ‘ 62, caricare gli agenti, usare rami e bastoni contro i gipponi, tenere botta di fronte alle cariche? Ancora quella mattina gli striscioni del corteo in marcia verso valle Giulia esaltavano il “Potere studentesco”. Il Movimento bersagliava l’università, le baronie, l’autoritarismo accademico e poi, di conseguenza, la struttura complessiva del sistema. Da Valle Giulia in poi dall’altra parte della barricata ci fu direttamente lo Stato.

Il 68 ci ha rubato il futuro, scrive il 27 febbraio 2018 Francesco Giubilei su "Il Giornale". Il 1 marzo ricorrono i cinquant’anni dagli scontri di Valle Giulia a Roma, un evento che ha segnato simbolicamente l’avvento del Sessantotto nel nostro paese. Le proteste sessantottine demoliscono i valori su cui si è fondata l’Italia fino a quel momento compiendo un attacco ai due elementi cardine della società: la famiglia e la scuola. Come scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale” di domenica: “la rivolta del ’68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre […] ogni autorità perse autorevolezza e credibilità”. La delegittimazione del ruolo del padre si accompagna a un attacco tout court alla famiglia attraverso temi considerati un tabù (l’aborto, il divorzio, la liberazione sessuale). Le conseguenze più funeste del Sessantotto avvengono nel mondo della scuola e dell’università dove il concetto del sei politico diventa una prassi che si è tramandata fino ai nostri giorni con l’abbassamento complessivo sia della preparazione del corpo docenti che degli studenti. Il Sessantotto si fonda infatti sul grande equivoco dell’egualitarismo: tutti dobbiamo avere le stesse opportunità di partenza ma se una persona è più meritevole di un’altra va premiata. Più in generale è stata tutta la società ad essere sovvertita: il Sessantotto ci ha fatto scoprire i diritti ma dimenticare i doveri. Le regole vengono concepite come un qualcosa di cui si può fare a meno, una mentalità sintetizzata dallo slogan “vietato vietare”. Anche sul piano culturale le conseguenze del Sessantotto sono nefaste perché si crea un clima di conformismo dilagante: chi non la pensa come la maggioranza e non si omologa al pensiero dominante viene emarginato, escluso e ghettizzato suscitando un odio che sfocerà nei terribili anni di piombo. Un pensiero caratterizzato dal predominio del politicamente corretto di cui, non a caso, la nostra società è figlia ed è proprio negli anni successivi al Sessantotto che il concetto gramsciano di egemonia culturale si realizza a pieno titolo nel mondo della scuola, dell’università e della cultura portando l’ideologia nei libri di testo e orientando i programmi scolastici in senso progressista, in particolare nella filosofia, nella storia e letteratura. Ma soprattutto, e mi rivolgo in particolare ai miei coetanei, ai giovani nati e cresciuti nell’Italia postsessantottina, il Sessantotto ci ha rubato il futuro. La società in cui viviamo è figlia delle proteste studentesche, la classe dirigente che ci ha governato negli ultimi anni con risultati fallimentari si è formata nella scuola sessantottina. Nell’illusione di volere sempre più diritti ci siamo ritrovati a non averne più. Così, nell’Italia del 2018, il vero rivoluzionario è chi si oppone ai principi sessantottini e lotta per una società fondata sul merito, il rispetto delle regole e dell’autorità.

La battaglia di Valle Giulia 50 anni dopo, scrive Edoardo Frittoli il 28 febbraio 2018 su "Panorama". Tutto cominciò a causa dell'altissima tensione seguita allo sgombero della Facoltà di Architettura dell'Università di Roma, a Valle Giulia. Il palazzo era rimasto occupato per quasi un mese dagli studenti in lotta e il 29 febbraio 1968 il Rettore Pietro Agostino D'Avack aveva deciso di richiedere l'intervento della forza pubblica per procedere allo sgombero. La decisione era giunta mentre le occupazioni degli Atenei italiani si erano moltiplicate, così come era cresciuta l'ostilità tra gli studenti in agitazione e quelli contrari all'occupazione. Durante quei giorni di massima tensione, il quadro della protesta universitaria aveva raggiunto l'apice di ben 25 Università occupate, da Trento a Palermo. Iniziamo dalle ore immediatamente precedenti la battaglia più famosa della storia della contestazione studentesca.

Università degli Studi di Milano, mattina del 29 febbraio 1968. Botte, sassi, vetri infranti, idranti antincendio in azione in Via Festa del Perdono di fronte ai portoni d'ingresso delle Facoltà di Lettere e Giurisprudenza. Niente polizia questa volta: lo scontro si consuma tra occupanti di Lettere e Filosofia e rappresentanti di destra giunti dalla Facoltà di Giurisprudenza contrari all'occupazione decisa il giorno prima nell'Aula Magna della Statale. Gli studenti di legge si presentano di fronte ai picchetti d'ingresso e comincia lo scontro fisico, dilagato anche nelle vie adiacenti l'Università tanto da indurre i negozianti ad abbassare le saracinesche. La guerriglia prosegue con gli occupanti che usano gli idranti antincendio per respingere i "fascisti", che inizialmente arretrano ma alla fine riescono a sfondare con blocchi di cemento un ingresso secondario. Si teme il peggio, ma in realtà il contatto non avviene e gli studenti di destra si rinchiudono in un'aula separati dai loro avversari.

Città Universitaria di Roma, 29 febbraio 1968. Molto diversa e sicuramente più drammatica la situazione a Roma: lo sgombero si era consumato come richiesto dal Rettore, ed aveva coinvolto un ingentissimo numero di agenti tra Polizia e Carabinieri in assetto da guerriglia. Guidati da ben 30 funzionari si presentarono 1.500 uomini alle porte delle Facoltà occupate, procedendo allo sgombero forzato delle Facoltà di Scienze Politiche, Lettere e Giurisprudenza, con il Vicequestore Prudenza che, a bordo di una camionetta, intimava con il megafono la resa agli occupanti. Assieme alle forze dell'ordine, quella mattina di 50 anni fa, erano presenti anche gli studenti di destra di "Primula Goliardica" e "La Caravella", armati di bastoni e catene. Verso la fine della giornata sono sgomberate anche le Facoltà di Lettere e Architettura, dove vengono posti in stato di fermo oltre 80 studenti. Con i portoni chiusi dai catenacci messi dalle forze dell'ordine, un corteo di studenti si dirige verso il centro della Capitale. Imboccata via Nazionale vengono a contatto con gli agenti che caricano e lanciano le jeep della Celere nei consueti caroselli. Uno studente rimane ferito dopo essere stato investito e alla fine della giornata si conteranno 10 persone in ospedale tra studenti, passanti e forze dell'ordine.

La battaglia di Valle Giulia: Facoltà di Architettura dell'Università degli Studi di Roma: 1 marzo 1968. Il giorno dopo gli sgomberi voluti dal Rettore D'Avack, sulle scalinate di Architettura a Valle Giulia stazionano 150 agenti a protezione del portone d'ingresso. Come ricordato sopra, gli studenti (circa 3.000) arrivarono in corteo provenienti da Piazza di Spagna, dividendosi in due. Una parte dei manifestanti piegò verso la Città universitaria mentre il grosso del corteo si diresse dritto verso Architettura a Valle Giulia, la Facoltà più isolata. Con gli studenti di sinistra sfilarono quel giorno anche i rappresentanti dei movimenti di estrema destra Avanguardia Nazionale e La Caravella, in virtù di un accordo di non-provocazione tra le due fazioni studentesche. Tra i neofascisti decisi a combattere per cambiare l'Università "dei borghesi" nomi di primissimo piano della galassia nera come Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher, Mario Merlino, Giulio Caradonna. Tra i rappresentanti del movimento studentesco che diventeranno personaggi preminenti nella storia futura d'Italia Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Liguori, Aldo Brandirali, Oreste Scalzone. Davanti alle gradinate di Architettura la scintilla dello scontro alimentata dal lancio di uova, dagli slogan e dalle provocazione tra le due parti, scocca quasi subito. Partono le prime cariche della Polizia, ma gli studenti questa volta fanno sul serio. Inizia la fitta sassaiola sul piazzale antistante la Facoltà; due auto e un pullman della Celere vengono dati alle fiamme per impedire lo sfondamento da parte delle forze dell'ordine. Cadono i primi feriti e la superiorità numerica dagli studenti provoca l'arretramento dei cordoni di Polizia. Alcuni manifestanti riescono ad impadronirsi di 5 pistole sottratte ai funzionari, la situazione degenera. La Polizia carica anche con i cavalli cercando di rispondere alla forza degli studenti che dopo oltre 2 ore di violenti scontri riescono a penetrare all'interno di Architettura, proprio mentre arrivano i rinforzi di Polizia con gli idranti a schiuma e i lacrimogeni. Gli studenti di estrema destra riusciranno ad entrare nelle aule di Giurisprudenza. Sono rimasti sul campo 197 feriti, un bilancio da guerriglia urbana. Di questi ben 150 fanno parte delle forze dell'ordine, tra i quali figura anche il Vicequestore Provenza, colpito da una pietra scagliata dagli studenti.

Dalle fratture traumatiche alla frattura politica. Pasolini, Il PCI e il MSI dopo la battaglia. La Polizia riuscirà a riprendere il controllo della piazza solo con l'intervento degli idranti e con un fitto lancio di lacrimogeni, procedendo al fermo ed all'arresto dei manifestanti fino a tarda notte. La scarpata erbosa di fronte al palazzo rossiccio della Facoltà di Giurisprudenza mostrava i segni della lunga battaglia tra gli universitari e i poliziotti, che Pasolini difenderà all'indomani degli scontri identificando i figli di quei "contadini del mezzogiorno" come veri rappresentanti del proletariato, assaliti con violenza dai figli privilegiati dei borghesi. Valle Giulia rappresenterà una cesura definitiva tra gli studenti e i partiti politici di riferimento, sia a destra che a sinistra. Il Partito Comunista non intendeva assecondare lo spontaneismo e i miti stranieri (Mao e Che Guevara) fuori dai canoni interni e ai diktat della dirigenza, procedendo nei mesi seguenti a numerose espulsioni dalle proprie organizzazioni giovanili. Dall'altra parte la frattura è netta anche tra il Movimento Sociale Italiano e l'azione rivoluzionaria di giovani neofascisti dei primi movimenti extraparlamentari che caratterizzeranno il decennio successivo. Arturo Michelini, allora segretario missino, prese immediatamente le distanze di chi aveva combattuto a fianco dei "rossi", anche per il pericolo che queste azioni "di squadra" potessero influenzare negativamente il tentativo da parte della dirigenza del partito di rientrare gradualmente nell'arco costituzionale. Questa frattura sarà così profonda da spingere Michelini all'organizzazione di una "forza a difesa dell'ordine" che due settimane dopo gli scontri di Valle Giulia intervenne con la forza contro gli studenti che avevano di nuovo occupato, guidata da Giorgio Almirante.

L'impatto di Valle Giulia in Parlamento. Poco dopo la fine degli scontri parlò il Ministro dell'Interno, il democristiano Paolo Emilio Taviani. Rivolgendosi alla Camera dei Deputati il ministro difende a spada tratta l'operato della Polizia in difesa delle istituzioni dell'Italia democratica in senso ampio. Nel suo discorso rievoca la debolezza della forza pubblica ricordando la debolezza mostrata in occasione della Marcia su Roma e dall'opportunità lasciata al fascismo in quell'occasione. Fu interrotto dal deputato comunista Bronzuto, che apostrofò i membri del Governo come una "manica di fascisti" per la brutalità dell'intervento della forza pubblica. I missini si univano alle proteste in aula ed a riportare la calma toccherà ad uno dei protagonisti storici dell'antifascismo italiano, l'allora Vicepresidente della Camera Sandro Pertini. Chiamato in causa, il Ministro dell'Istruzione Luigi Gui metteva le mani avanti affermando che la riforma dell'Università (ancora da discutere e approvare) avrebbe certamente incluso una rappresentanza dei collettivi degli studenti. Mentre le urla e le accuse dei rappresentanti in Parlamento si spegnevano a fatica, i comitati studenteschi si davano appuntamento per una nuova manifestazione a Piazza del Popolo, che si svolgerà il giorno seguente gli scontri di Valle Giulia senza registrare particolari incidenti. Anche a Milano, al di là di qualche tafferuglio alla Statale tra studenti di destra e sinistra, sembrò tornare la calma alimentata dalla pausa del Carnevale ambrosiano. Tregua che naturalmente non durerà a lungo.

I dieci danni che ci lasciò il '68. Mezzo secolo fa l'arroganza del (presunto) contropotere generò la dittatura chiamata "politicamente corretto", scrive Marcello Veneziani, Domenica 25/02/2018, su "Il Giornale".  Sono passati cinquant'anni dal '68 ma gli effetti di quella nube tossica così mitizzata si vedono ancora. Li riassumo in dieci eredità che sono poi il referto del nostro oggi.

SFASCISTA. Per cominciare, il '68 lasciò una formidabile carica distruttiva: l'ebbrezza di demolire o cupio dissolvi, il pensiero negativo, il desiderio di decostruire, il Gran Rifiuto. Basta, No, fuori, via, anti, rabbia, contro, furono le parole chiave, esclamative dell'epoca. Il potere destituente. Non a caso si chiamò Contestazione globale perché fu la globalizzazione destruens, l'affermazione di sé tramite la negazione del contesto, del sistema, delle istituzioni, dell'arte e della storia. Lo sfascismo diventò poi il nuovo collante sociale in forma di protesta, imprecazione, invettiva, e infine di antipolitica. Viviamo tra le macerie dello sfascismo.

PARRICIDA. La rivolta del '68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre. Inteso come pater familias, come patriarcato, come patria, come Santo Padre, come Padrone, come docente, come autorità. Il '68 fu il movimento del parricidio gioioso, la festa per l'uccisione simbolica del padre e di chi ne fa le veci. Ogni autorità perse autorevolezza e credibilità, l'educazione fu rigettata come costrizione, la tradizione fu respinta come mistificazione, la vecchiaia fu ridicolizzata come rancida e retrò, il vecchio perse aura e rispetto e si fece ingombro, intralcio, ramo secco. Grottesca eredità se si considera che oggi viviamo in una società di vecchi. Il giovanilismo di allora era comprensibile, il giovanilismo in una società anziana è ridicolo e penoso nel suo autolesionismo e nei suoi camuffamenti.

INFANTILE. Di contro, il '68 scatenò la sindrome del Bambino Perenne, giocoso e irresponsabile. Che nel nome della sua creatività e del suo genio, decretato per autoacclamazione, rifiuta le responsabilità del futuro, oltre che quelle del passato. La società senza padre diventò società senza figli; ecco la generazione dei figli permanenti, autocreati e autogestiti che non abdicano alla loro adolescenza per far spazio ai bambini veri. Peter Pan si fa egocentrico e narcisista. Il collettivismo originario del '68 diventò soggettivismo puerile, emozionale con relativo culto dell'Io. La denatalità, l'aborto e l'oltraggio alla vecchiaia trovano qui il loro alibi.

ARROGANTE. Che fa rima con ignorante. Ognuno in virtù della sua età e del suo ruolo di Contestatore si sentiva in diritto di giudicare il mondo e il sapere, nel nome di un'ignoranza costituente, rivoluzionaria. Il '68 sciolse il nesso tra diritti e doveri, tra desideri e sacrifici, tra libertà e limiti, tra meriti e risultati, tra responsabilità e potere, oltre che tra giovani e vecchi, tra sesso e procreazione, tra storia e natura, tra l'ebbrezza effimera della rottura e la gioia delle cose durevoli.

ESTREMISTA. Dopo il '68 vennero gli anni di piombo, le violenze, il terrorismo. Non fu uno sbocco automatico e globale del '68 ma uno dei suoi esiti più significativi. L'arroganza di quel clima si cristallizzò in prevaricazione e aggressione verso chi non si conformava al nuovo conformismo radicale. Dal '68 derivò l'onda estremista che si abbeverò di modelli esotici: la Cina di Mao, il Vietnam di Ho-Chi-Minh, la Cuba di Castro e Che Guevara, l'Africa e il Black power. Il '68 fu la scuola dell'obbligo della rivolta; poi i più decisi scelsero i licei della violenza, fino al master in terrorismo. Il '68 non lasciò eventi memorabili ma avvelenò il clima, non produsse rivoluzioni politiche o economiche ma mutazioni di costume e di mentalità.

TOSSICO. Un altro versante del '68 preferì alle canne fumanti delle P38 le canne fumate e anche peggio. Ai carnivori della violenza politica si affiancarono così gli erbivori della droga. Il filone hippy e la cultura radical, preesistenti al '68, si incontrarono con l'onda permissiva e trasgressiva del Movimento e prese fuoco con l'hashish, l'lsd e altri allucinogeni. Lasciò una lunga scia di disadattati, dipendenti, disperati. L'ideologia notturna del '68 fu dionisiaca, fondata sulla libertà sfrenata, sulla trasgressione illimitata, sul bere, fumare, bucarsi, far notte e sesso libero. Anche questo non fu l'esito principale del '68 ma una diramazione minore o uscita laterale.

CONFORMISTA. L'esito principale del '68, la sua eredità maggiore, fu l'affermazione dello spirito radical, cinico e neoborghese. Il '68 si era presentato come rivoluzione antiborghese e anticapitalista ma alla fine lavorò al servizio della nuova borghesia, non più familista, cristiana e patriottica, e del nuovo capitale globale, finanziario. Attaccarono la tradizione che non era alleata del potere capitalistico ma era l'ultimo argine al suo dilagare. Così i credenti, i connazionali, i cittadini furono ridotti a consumatori, gaudenti e single. Il '68 spostò la rivoluzione sul privato, nella sfera sessuale e famigliare, nei rapporti tra le generazioni, nel lessico e nei costumi.

RIDUTTIVO. Il '68 trascinò ogni storia, religione, scienza e pensiero nel tribunale del presente. Tutto venne ridotto all'attualità, perfino i classici venivano rigettati o accettati se attualizzabili, se parlavano al presente in modo adeguato. Era l'unico criterio di valore. Questa gigantesca riduzione all'attualità, alterata dalle lenti ideologiche, ha generato il presentismo, la rimozione della storia, la dimenticanza del passato; e poi la perdita del futuro, nel culto immediato dell'odierno, tribunale supremo per giudicare ogni tempo, ogni evento e ogni storia.

NEOBIGOTTO. Conseguenza diretta fu la nascita e lo sviluppo del Politically correct, il bigottismo radical e progressista a tutela dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati. Il '68 era nato come rivolta contro l'ipocrisia parruccona dei benpensanti per un linguaggio franco e sboccato; ma col lessico politicamente corretto trionfò la nuova ipocrisia. Fallita la rivoluzione sociale, il '68 ripiegò sulla rivoluzione lessicale: non potendo cambiare la realtà e la natura ne cambiò i nomi, occultò la realtà o la vide sotto un altro punto di vista. Fallita l'etica si rivalsero sull'etichetta. Il p.c. è il rococò del '68.

SMISURATO. Cosa lascia infine il '68? L'apologia dello sconfinamento in ogni campo. Sconfinano i popoli, i sessi, i luoghi. Si rompono gli argini, si perdono i limiti e le frontiere, il senso della misura e della norma, unica garanzia che la libertà non sconfini nel caos, la mia sfera invade la tua. Lo sconfinamento, che i greci temevano come hybris, la passione per l'illimitato, per la mutazione incessante; la natura soggiace ai desideri, la realtà stuprata dall'utopia, il sogno e la fantasia che pretendono di cancellare la vita vera e le sue imperfezioni... Questi sono i danni (e altri ce ne sarebbero), ma non ci sono pregi, eredità positive del '68? Certo, le conquiste femminili, i diritti civili e del lavoro, la sensibilità ambientale, l'effervescenza del clima e altro... Ma i pregi ve li diranno in tanti. Io vi ho raccontato l'altra faccia in ombra del '68. Noi, per dirla con un autore che piaceva ai sessantottini, Bertolt Brecht, ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati. Alla fine, i trasgressivi siamo noi.

Marcello Veneziani Editorialista del Tempo, sul '68 ha scritto Rovesciare il '68 (Mondadori, anche in Oscar, 2008)

«Così noi Uccelli occupammo la cupola del Borromini e iniziò il sessantotto», scrive Simona Musco il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Paolo Ramundo era il leader degli “Uccelli”, che organizzarono il blitz a Sant’Ivo alla Sapienza. Diciannove febbraio 1968: tre studenti di architettura occupano il campanile di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma. Sono gli “Uccelli” Paolo Ramundo, Gianfranco Moltedo e Martino Branca, all’epoca 26enni, coloro che portano gli studenti fuori dalle aule, liberandoli dalle discussioni fini a se stesse e dando di fatto via al ‘ 68. «Volevamo prenderci i luoghi guardando al presente. La nostra fu una rivoluzione culturale», racconta al Dubbio Ramundo.

Come nascono gli “Uccelli”?

«C’eravamo incontrati a capodanno, a una festa sulla Flaminia. Abbiamo continuato a frequentarci, vedendoci spesso in facoltà. Allora c’erano già delle presenze assembleari e la cosa ci coinvolgeva, ma avevamo una notevole autonomia rispetto a come venivano presentati nelle assemblee il movimento e la lotta degli studenti. Sentivamo che era un tema importante, però non ci piaceva che gli studenti stessero lì seduti ad ascoltare sempre le stesse persone, che facevano le loro riflessioni e rimandavano alla prossima assemblea. Era una cosa legata a un futuro ideologico e lontano. A noi interessava che questa agitazione spingesse gli studenti a prendersi i luoghi che in quel momento avevano vissuto in modo convenzionale e a saperli usare. Per noi si doveva fare già subito. Così, quando si parlava troppo, noi protestavamo fischiando e salendo sugli alberi. Così ci hanno dato questo soprannome. Ci chiamavano hippie: avevamo i capelli lunghissimi, mentre gli altri erano tutti più convenzionali, legati al ceto medio-alto».

Come nasce l’occupazione del campanile?

«Avevo seguito molto Paolo Portoghesi, grande studioso del Barocco, di Borromini e dell’architettura innovativa del 600. Conoscevamo quindi bene Sant’Ivo, prima sede universitaria della città. Quando ci fu un dissenso con alcuni leader del movimento, che ci fecero cacciare dalla facoltà, pensammo: siamo cacciati fuori, facciamo uscire anche gli altri studenti. Così andammo da Portoghesi, che in quel periodo faceva dei sopralluoghi con gli studenti a Sant’Ivo e accettò di portarci a visitare il luogo».

Senza sapere quale fosse la vostra intenzione.

«Esatto. Volevamo essere rilevanti, non semplicemente vederlo. Volevamo suscitasse attenzione da parte degli studenti e dei cittadini. Portoghesi ci fece salire fino alla guglia: il posto era straordinario. Appena arrivati disse: “allora, scendiamo?”. Ma noi dicemmo no, vogliamo che questo luogo, che era stato archiviato, venga completamente valorizzato, conosciuto e vissuto. Lui rimase sbalordito»

Come passaste quella notte?

«Faceva freddissimo. Rimanemmo fino al pomeriggio del 20. Gli studenti di tutte le facoltà vennero lì, in piazza Sant’Eustachio e corso Rinascimento, e si misero a cantare e ballare con le fiaccole. Era un momento di grande soddisfazione: per la prima volta giovani studenti fecero un’iniziativa nella città».

Quindi si può dire che avete dato inizio al ‘ 68?

«Sì. Iniziò così, con questa tensione verso l’importanza di essere presenti all’interno della società e conoscere le nostre aspettative, le condizioni che criticavamo e volevamo cambiare. Che poi sono tutte cambiate, perché il ‘ 68 ha generato un grande movimento di cambiamento. Noi dicevamo: non dobbiamo parlare di un futuro lontano, dobbiamo parlare subito di tutte le situazioni di cui ci vogliamo occupare, per far sì che ci sia subito un processo di cambiamento democratico dal basso».

Quali erano le questioni che vi stavano più a cuore?

«I processi relativi all’urbanistica, l’architettura, l’arte: dovevano essere super partecipati e democraticamente collegati alla società in cui ci trovavamo. Bisogna- va smettere di pensare alla divisione del lavoro e alle tendenze autoritarie. Tutto doveva diventare fortemente democratico. C’erano tanti temi sulle procedure con cui fare delle scelte, l’importanza della relazione tra le persone. L’architetto, ad esempio, non poteva stare da solo in dipendenza di un costruttore, ma doveva essere prima di tutto in relazione con le finalità di quello che veniva programmato. Se si doveva fare una scuola si doveva coinvolgere direttamente i cittadini su come farla, dove collocarla. Prima tutto veniva imposto dall’alto, quindi i processi democratici erano assolutamente da sviluppare. Le donne, ad esempio, che in università avevano un ruolo subalterno ai maschi, dovevano rivendicare la loro autonomia, tant’è vero che da quelle tensioni nacque il movimento femminista per affrontare i diritti che erano scritti sulle nostre normative costituzionali, ma non erano messi in pratica».

Qualche giorno dopo ci fu Valle Giulia. Quale fu il vostro contributo?

«Sicuramente abbiamo generato quella iniziativa. Siccome la facoltà di architettura era stata chiusa dal governo autoritario accademico, con la polizia a controllare l’accesso, gli studenti ti avevano organizzato un corteo da piazza di Spagna fino a via Gramsci, dove c’era la sede della facoltà. Non avevano programmato di fare guerriglia, si erano semplicemente dati appuntamento per marciare e reclamarne l’apertura. Ma all’interno del movimento c’erano dei provocatori. Qualcuno andò a bruciare una macchina della polizia e si creò uno stato di tensione che portò a corse lungo le discese di villa Valle Giulia, inseguimenti, spinte, botte, calci. Ma fu una cosa generata dall’autoritarismo del rettore».

E gli “Uccelli” cosa fecero?

«Stavamo in facoltà, avevamo delle pecore con noi, comprate con il contributo di alcuni intellettuali con lo scopo di sottolineare l’importanza del verde, degli spazi non costruiti, la cosiddetta agropoli. Quando cominciarono queste corse ci allontanammo e i carabinieri ci fecero passare. Il giorno dopo sacrificammo una pecora sull’altare della pace, un gesto simbolico per purificare da quella violenza, che era nata dall’autoritarismo. La strada, però, non era quella della violenza, ma era legata alla partecipazione, al coinvolgimento, alla relazione con le forze politiche, per fare sì che ci fossero dei cambiamenti, non per limitarci a fare qualche scazzottata».

Cosa accadde dopo?

«Abbiamo continuato ad essere presenti: facemmo un disegno sulla facoltà con Guttuso perché volevamo appropriarci dei luoghi in cui studiavamo. Non potevamo essere marginali e passivi, dovevamo metterci in relazione col mondo culturale e interessarlo al movimento dei giovani. Era la prima volta che a fare qualcosa non erano le categorie sociali ma i giovani. E questa è stata la nostra grande conquista».

Quando il Sessantotto finì nelle ideologie, risponde Aldo Cazzullo il 7 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Caro Aldo, già cominciano le rievocazioni. Ma ha ancora senso processare il ‘68? Filiberto Piccini, Pisa.

Caro Filiberto, La discussione sul ‘68 l’hanno sempre fatta i sessantottini: spesso celebrandosi, talora abiurando. Avrebbero diritto di parola anche le generazioni precedenti e successive. In Italia com’è noto il ‘68 è durato dieci anni, sino al caso Moro. I miei ricordi di bambino sono scanditi dagli scontri di piazza e dagli omicidi di terroristi rossi e neri. Certo la rivolta non è stata solo questo; ma negare che ci sia un nesso tra il ‘68 e gli anni di piombo mi pare arduo. Più tardi ho cercato, intervistando centinaia di protagonisti, in fabbrica e in questura, ai vertici Fininvest e in galera, di trovare un senso a quel che era accaduto. Mi sono fatto questa idea. A un’esplosione libertaria, che ha portato a un sano cambiamento dei costumi, dei rapporti tra le persone, del ruolo della donna, è seguito un irrigidimento dogmatico in una parte non trascurabile del movimento. Lo slancio dei giovani finì ingabbiato nelle due ideologie del Novecento, il comunismo e il fascismo, destinate a estinguersi da lì a pochi anni. I giovani di sinistra consideravano il Pci compromesso con la democrazia borghese, e si proponevano di proseguire il compito cui Togliatti e Berlinguer avevano rinunciato: la rivoluzione, come in Cina più che come in Russia. Qualche ex di Lotta continua ha il vezzo di dire di non essere mai stato comunista. Farebbe meglio a dire di essere sempre stato contro il Pci; ma i militanti di Lotta continua erano convinti di essere loro i veri comunisti. Qualcosa del genere, su scala più ridotta, accadde a destra nei confronti del Msi di Almirante, considerato filoatlantico, filoisraeliano, mercatista. Il risultato fu una mimesi della guerra civile, che lasciò sul terreno troppo odio e troppi morti. Di quella generazione salvo una cosa: l’idea, coltivata da molti, che si potesse essere felici soltanto tutti assieme, affidando la vita alla politica. La sconfitta è stata dura: qualcuno è finito nel terrorismo, qualcuno nella droga, qualcuno è rimasto in fabbrica negli anni della restaurazione. La generazione successiva, quella del riflusso (che è poi la mia), ha creduto che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto; e anche noi siamo andati incontro alla disillusione, con questo senso di solitudine esistenziale che ci portiamo dentro.

Il Sessantotto non è ancora finito. È stato un processo, non una serie circoscritta di eventi. Solo con la riflessione storica si esce dalla morsa tra nostalgia e rimozione, scrive Umberto Gentiloni il 7 febbraio 2018 su "L'Espresso". Il Sessantotto tra i tanti anniversari a cifra tonda del 2018 sembra mantenere il suo carattere divisivo a partire dalle declinazioni semantiche che lo qualificano: fedeltà o rimozione, modernità o conservazione, soggettività o distanza. Difficile uscire da una morsa che ha accompagnato il corso del mezzo secolo che abbiamo alle spalle, riconducibile al paradigma opprimente del «passato che non passa» ripresentandosi sotto mentite spoglie di memorie contrapposte o in forme apertamente conflittuali. Da un lato la nostalgia del come eravamo, la cifra di una generazione che segnata dagli appuntamenti con la storia in un anno così ricco di novità cerca di mantenere saldi legami con un tempo che le appartiene. Un’ancora di certezze e rimpianti che mostra lo straordinario fascino di poter riavvolgere il nastro di un itinerario fatto di storie, biografie, luoghi e situazioni. Dall’altro la critica che punta a ridimensionare, rimuovere, demolire un patrimonio di memorie e riferimenti comuni che ha attraversato un tratto di storia dell’Occidente. In mezzo lo spazio stretto e difficile della storicizzazione: giudizi, interpretazioni, confronti a partire dalla complessità di un passaggio del dopoguerra che più che un evento isolabile o circoscrivibile prende le sembianze di un processo dal passo lungo che si manifesta con modalità e tempi diversi in tanti angoli del pianeta. Uno spazio di analisi e riflessioni ricco di fonti plurali qualificato da interrogativi che vanno ben al di là del perimetro degli eventi del 1968. Decisivo non smarrire i punti di partenza nella società di allora. Ne ha scritto Guido Crainz  nell’ultima puntata di questo confronto a più voci: cosa erano la scuola e l’università italiana? Da dove prende corpo l’anno delle rivolte? Quali contraddizioni si scaricano sul sistema formativo incapace di reggere l’urto della scolarizzazione di massa? Il ’68 degli studenti si lega all’autunno caldo dell’anno successivo, all’emergere di una conflittualità operaia che ha un’identità politica (salari e contratti) e generazionale (una nuova classe operaia entrata in fabbrica). Una specificità italiana il nesso e l’incontro tra studenti e operai, tra l’università e la fabbrica, tra il 1968 e il 1969.

La discontinuità più incisiva e duratura chiama in causa l’aspetto qualitativo dell’innovazione: consumi diffusi, benessere individuale, ricerca di nuove aperture verso mondi emergenti, scoperta di un tempo libero dal lavoro, cura di sé e del proprio corpo. Il conflitto da latente diventa manifesto, esplicito. Un crinale tra due mondi, al tramonto del vecchio non corrisponde una coerente e sinergica opera di rinnovamento. Molto rimane in vita, resiste e si conserva, altro muta parzialmente per poi trovare nuovi spazi, altro ancora viene travolto dal protagonismo di soggettività inedite. La frattura è trasversale, tra opportunità e chiusure, tra generazioni diverse, tra chi riesce a beneficiare delle trasformazioni e chi invece rimane emarginato, escluso e mortificato. Speranze e illusioni muovono uomini e donne verso la ricerca di nuove possibilità in grado di rompere gabbie e condizionamenti della stratificazione sociale di partenza. La disperata ricerca di una mobilità possibile. Una tensione costante che non si riassorbe trovando con il tempo nuovi interpreti non riconducibili alla indiscussa (fino ad allora) centralità del binomio amico - nemico imposta dal riflesso condizionato dell’ordine della guerra fredda. Il rapporto tra individuo e collettività entra in fibrillazione, le strutture tradizionali non soddisfano le aspirazioni di tanti: ha inizio una parabola discendente per partiti, organizzazioni collettive, sindacati o associazioni. Difficile trovare un punto di equilibrio tra la sfera della soggettività individuale che chiede sempre di più e meglio e le forme di espressione e organizzazione della collettività. Più si afferma la prima e più sembra irragionevole e irrealistico proporre l’articolazione di una società per gruppi o identità omogenee, figlie di un tempo che volge alla conclusione.

Per almeno due decenni sono mancate ricostruzioni storiche basate su documentazione non episodica o limitata. Uno studioso attento come Peppino Ortoleva si domandava - nel 1988 in occasione del ventennale - quali fossero i motivi dell’assenza di un quadro di riferimento in grado di rompere la morsa tra condanna senza appelli e revival nostalgici di chi voleva tornare alla meglio gioventù di allora (“I movimenti del ’68 in Europa e in America”, Editori Riuniti). Il Sessantotto nella sua lunga durata non può che coinvolgere direttamente una riflessione più generale sul dopoguerra italiano, sul ruolo dei movimenti, sul peso di una stagione segnata dal protagonismo di soggettività e culture inedite. Una riflessione pienamente inserita nelle dinamiche del sistema internazionale. Se sfumano i ricordi, se si affievolisce il rimpianto per un tempo lontano allora prendono corpo gli interrogativi e le ipotesi interpretative sulle grandi questioni che il Sessantotto solleva e proietta sull’Italia e, in un’ottica più ampia, sulle trasformazioni di un mondo inquieto. Il terremoto nel mondo comunista, la repressione violenta del riformismo cecoslovacco segna la fine di Mosca come guida indiscussa del movimento comunista internazionale. E sull’altro versante la sporca guerra in Vietnam indebolisce i presupposti del mito americano rendendolo vulnerabile e incerto. I modelli di riferimento perdono terreno, mostrano il volto contraddittorio del confronto bipolare. L’inizio della fine dei partiti si sovrappone e si accompagna ai primi i sintomi diffusi sulla inadeguatezza del confronto Est-Ovest.

La controversa questione dei lasciti di una stagione non è riconducibile alle dinamiche di un singolo contesto nazionale. Prevalgono i caratteri distintivi di un fenomeno globale quali «l’ampiezza geografica e la simultaneità temporale» (Marcello Flores, Alberto De Bernardi, “Il Sessantotto”, Mulino 1998.) In Italia il Sessantotto si lega a una crisi più generale del sistema politico, all’indebolimento inesorabile della capacità dei partiti di essere tramite e filtro tra cittadini e istituzioni. La fine della centralità di formazioni politiche che avevano percorso i decenni del dopoguerra con la consapevolezza di essere i soggetti principali di una dialettica capace di includere e coinvolgere settori diversi della società italiana. Gli stessi partiti di massa non sono in grado di comprendere la portata del fenomeno: alcuni ne raccoglieranno l’eredità altri, soprattutto nella sinistra storica, avranno i benefici dell’ingresso di nuovi quadri dirigenti, ma il movimento rimane ostile alla cultura e all’organizzazione dei partiti.

Aldo Moro aveva colto il segno di un tempo nuovo, scrive del Sessantotto più volte fino ai suoi ultimi giorni. Verso la fine dell’anno in un Consiglio nazionale della Dc (21 Novembre 1968) aveva pronunciato parole impegnative e per molti versi inascoltate: «Siamo davvero ad una svolta della storia e sappiamo che le cose sono irreversibilmente cambiate, non saranno ormai più le stesse».

Non date la colpa al ’68. Nella contestazione si confusero differenti umori e pulsioni. Ma non c’è alcun rapporto con gli anni Ottanta e con i disastri dell’oggi, scrive Guido Crainz l'1 febbraio 2018 su "L'Espresso". Dimensione nazionale e internazionale si intrecciano ma forse è bene prendere avvio da realtà concrete, evitando il rischio (sessantottino?) dell’ideologia. E per discutere realmente del nostro ’68, per comprenderne coralità e impatto, non dovremmo dimenticare mai come era la scuola italiana alla sua vigilia, nel vivo di una scolarizzazione di massa tumultuosa: gli studenti delle superiori erano il 10 per cento di quella fascia di età nel 1951, quasi il 40 per cento nel 1967; gli universitari erano 230 mila nel 1958, 550 mila dieci anni dopo. Una scolarizzazione di massa che avveniva in una fase di intensa circolazione internazionale di idee e suggestioni, in contrasto stridente con una arretrata “cultura docente” molto diffusa: si vedano le testimonianze di insegnanti raccolte allora da Marzio Barbagli e Marcello Dei (“Le vestali della classe media”, da leggere assieme alla “Lettera” di don Milani). «Lo studente è un sacco vuoto da riempire, dall’alto di una cattedra, di nozioni già confezionate»: lo scriveva nel 1966 il giornale dei giovani di Azione cattolica, mentre provocava bufere e processi il giornalino del liceo Parini di Milano per un’inchiesta su «quel che pensano le ragazze d’oggi». E il giudice inquirente chiedeva di sottoporre i suoi autori a una umiliante visita medica in base ad una disposizione fascista sui reati dei minori. In quello stesso periodo iniziavano ad estendersi le occupazioni delle Facoltà, a partire da Architettura, e Camilla Cederna ne dava conto proprio su “L’Espresso”. «Sono stanchi di copiare il Partenone», titolava nel febbraio del 1965, e non era solo una coloritura giornalistica: gli studenti chiedevano l’introduzione di materie ancora ignorate dai piani di studio come Storia dell’architettura moderna e Urbanistica (in un’Italia ormai invasa dalla speculazione edilizia). In un manifesto-simbolo del ’68, quello degli studenti torinesi, vi è l’elenco dei “controcorsi” avviati nell’Università occupata, dedicati a temi ancora esclusi dall’insegnamento: Filosofia delle scienze, Scuola e società, Pedagogia del dissenso, Psicoanalisi e repressione sociale, Imperialismo e sviluppo sociale in America latina...La critica del ’68 all’Università fu certo impietosa ma non era molto diversa l’analisi di un commentatore come Alberto Ronchey, che pur chiedeva di «Offrire un’alternativa agli errori degli studenti». Ed enumerava le ragioni di una crisi partendo da Roma: «60.000 studenti, 300 professori» (si riferisce ai professori ordinari, detentori esclusivi di ogni potere: non era improprio definirli “baroni”). E poi: «La seconda crisi riguarda gli uomini. Prima il professore era il re, adesso il re è nudo. La terza crisi discende dall’insegnamento dispotico, elusivo o muto sui temi che interessano gli studenti»; e poi ancora «le comunicazioni di massa, che rendono vicino ogni evento del mondo», «la rottura di linguaggio tra le generazioni», la crisi dei «partiti, i rapporti fra Stato e società e civile (...). L’ultima generazione non vede un disegno del tipo di società verso cui vogliamo andare» (“La Stampa”, 18 febbraio 1968). Poco dopo Giorgio Bocca annotava: in pochi mesi «si è scoperto in modo clamoroso che la didattica di quasi tutte le facoltà umanistiche e di molte facoltà scientifiche è inadeguata», e che dall’Università «escono dei giovani incapaci di esercitare una professione». Nel rapido dilagare del movimento studentesco differenti umori e pulsioni convissero e parvero quasi fondersi (ha ragione Roberto Esposito): anticonformismo e impegno politico, laicizzazione e solidarismo sociale, insofferenza per arretratezze anacronistiche e aspirazioni a profondi rivolgimenti, mentre la realtà del Paese dava molti argomenti a chi vedeva in ogni ingiustizia una “ingiustizia di classe”. E bisognerebbe ricordare la realtà delle fabbriche di allora, nell’intrecciarsi di forme di sfruttamento talora brutali, discriminazioni inique, illibertà (solo nel 1970 lo Statuto dei lavoratori vi introdurrà la Costituzione, come si disse): vedere “imborghesimento” in quegli operai è una licenza filosofica che non condivido. Certo, la coralità dei primi mesi iniziò progressivamente ad incrinarsi e la radicalizzazione ideologica rapidamente prevalse. Ad essa contribuirono anche la balbettante ottusità del potere accademico, il succedersi di interventi repressivi sproporzionati e l’assenza di un’azione riformatrice (fu la politica a mancare in Italia, non il ’68 a distruggerla: in Francia fu varata in pochi mesi la riforma Faure, che avviò la modernizzazione degli atenei e pose rapidamente fine alle proteste studentesche). E vi contribuì poi una radicalizzazione più generale: il 1969 sarà segnato dall’ “autunno caldo” sindacale e dalla strage di Piazza Fontana, con l’avvio di una drammatica “strategia della tensione”. In quel clima declinò - colpevolmente - l’impegno del movimento a rinnovare l’Università, considerata sempre più area di reclutamento per i gruppi extraparlamentari in formazione. Con l’infittirsi degli interventi in fabbriche e quartieri, e con il dilagare di una vecchissima (e disastrosa) ideologia: abbandonata la fase innovativa degli inizi, ha scritto Vittorio Foa, «straordinarie energie giovanili furono disperse nel riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero». Fu lasciata così cadere la suggestiva idea, pur avanzata, di dar corpo a una “Università critica”: base d’avvio di una «lunga marcia attraverso le istituzioni» volta a innovare saperi e professioni; e a «ridefinire la politica», per usare l’espressione di Carlo Donolo. Non mancarono neppure disincanti e ripiegamenti ma non è riducibile a questi estremi la spallata data allora ad un’Italia arcaica: da quei fermenti venne un più generale impulso alla modernizzazione civile, ad una più ampia concezione dei diritti, ad una maggiore sensibilità sociale. Si incrinò anche così il tradizionale profilo del ceto medio italiano, profondamente segnato sin lì da apatie e conservatorismi. Naturalmente il passaggio dalla prima fase a quella successiva non può essere rimosso (e costringe a interrogare criticamente anche i mesi “aurorali”) ma non mi sembra fondato schiacciare gli anni Sessanta sugli anni Ottanta, e neppure sugli anni Settanta (la contrapposizione del “movimento del ’77” agli operai, sprezzati come “garantiti”, è l’esatto opposto del sessantottesco “operai e studenti uniti nella lotta”). Né mi sembra fondato il «rapporto stretto» che Orsina intravede fra il ’68 e tutti i disastri dell’oggi, in uno scenario nazionale e internazionale squassato da allora in ogni sua parte. E nella nostra lettura complessiva è possibile continuare a ignorare gli studenti della Cecoslovacchia e della Polonia (o della Jugoslavia, con le divaricanti tensioni che vi comparvero), giustamente ed efficacemente evocati su queste pagine da Wlodek Goldkorn e da Gigi Riva? Nel ’68 di Praga e di Varsavia si ebbe la conferma definitiva che il “socialismo realizzato” non era riformabile e presero avvio anche da lì alcuni degli esili ma straordinari fili che porteranno all’89. Continueremo a considerarla “un’altra storia”?

1968: tragica illusione o vera rivoluzione? E' stato l'anno della catastrofe o quello che ha fatto saltare per sempre tutti gli equilibri? Mezzo secolo dopo, le posizioni restano inconciliabili. Da Hoellebeq al Papa, tra critica e nostalgia, scrive Federico Marconi il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". Che cos’è stato il Sessantotto? Mezzo secolo dopo non si contano i giudizi su uno degli anni che più hanno influito sulla nostra storia. Libertà e creatività, immaginazione e fantasia, contestazione e ribellione sono gli elementi di una “rivoluzione” che ha trasformato la politica, la società e il costume. Ma quali risultati hanno raggiunto quei ragazzi coi capelli lunghi che occupavano le università e volevano farla finita con l’autorità, i valori tradizionali, il sapere borghese?

In molti si sono chiesti se il ’68 abbia avuto successo. E c’è chi è convinto di sì. Mario Perniola, il filosofo appena scomparso, ha visto gli ideali del ’68 realizzati da uno che sessantottino non è mai stato: Silvio Berlusconi. L’idea l’ha espressa nel 2011 in un pamphlet paradossale e provocatorio: “Berlusconi o il ’68 realizzato”: il berlusconismo avrebbe fatto propri gli ideali della cultura libertaria esplosa con il maggio francese, e il suo sfacciato neoliberismo non sarebbe altro che l’esito della rottura rappresentata da quell’anno. Una realizzazione del ’68 postuma che dà tutto il potere non all’immaginazione, ma all’intrattenimento. Rivincita di quell’allegria e di quella spinta creativa che, per Edmondo Berselli in “Adulti con riserva”, sono state sacrificate sull’altare della seriosità sessantottina. Ma c’è anche chi considera la contestazione studentesca non una svolta progressista ma reazionaria, con la riproposizione di modelli autoritari.

Lo storico tedesco Götz Aly in “Unser Kampf” ha scritto che la generazione del ’68 condivide moltissimi elementi con quella che nel 1933 ha portò al potere Hitler. La contestazione di fine anni ’60, secondo Aly, è stata solo un epifenomeno del totalitarismo, che non avrebbe nemmeno portato alla tanto decantata liberazione della morale e dei costumi, visto che quel processo era già cominciato negli anni ’50.

Sulla stessa linea Alessandro Bertante, che in “Contro il ’68” definisce quella ribellione come «una clamorosa e tragica illusione», spezzata dalla repressione poliziesca e dalle bombe fasciste. Alcuni ragazzi hanno preso poi la strada dell’eversione armata. Altri sono tornati nell’ambito sociale di provenienza, la tanto odiata borghesia, dando ragione a Eugène Ionesco, che gridava agli studenti del maggio francese: «Tornate a casa! Tanto diventerete tutti notai!».

“Notai” ignoranti, secondo Indro Montanelli: «Vidi nascere dal Sessantotto una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita italiana portando ovunque i segni della propria ignoranza». Ma, come tutti i “notai”, ricchi: i sessantottini hanno un reddito più alto delle altre generazioni, confermano gli studi della Banca d’Italia sul bilancio delle famiglie. L’economista Riccardo Puglisi lo ha evidenziato in un articolo nel 2013, che si chiudeva con la proposta di «rottamarli tutti». E tra coloro che gli hanno dato ragione c’è stato anche uno che nel 1968 era un maoista che finanziava il movimento smerciando libri rubati, e che oggi invece è conosciuto come il sondaggista di Porta a Porta. «Sì, rottamateci tutti» ha risposto Renato Mannheimer, pur difendendo le «innovazioni che il Sessantotto ha portato in Italia».

Uno che si sente ancora un sessantottino è Toni Negri, intellettuale, militante e ideologo della sinistra extra-parlamentare tra gli anni ’60 e ’80. In una recente intervista ha detto che «il Sessantotto ha fatto saltare tutti gli equilibri», e per questo gli si è risposto con una cultura reazionaria che ancora oggi lo odia e rifiuta. Ma non ci sono solo i nostalgici.

Critici e detrattori si rincorrono non solo in Italia, ma anche Oltralpe. Come Michel Houellebecq che, nel romanzo “Le particelle elementari”, descrive il ’68 come l’anno della catastrofe, che ha lasciato solo miseria, individualismo e violenza: un’uscita che non gli è ancora stata perdonata. E assai critica è stata anche la recente rilettura dell’anno da parte di Papa Francesco: parlando agli ambasciatori i cui Paesi hanno rappresentanza presso la Santa Sede, il pontefice ha detto che «in seguito ai sommovimenti sociali del Sessantotto, l’interpretazione di alcuni diritti è andata progressivamente modificandosi, così da includere una molteplicità di nuovi diritti, non di rado in contrapposizione tra loro». Col rischio di una «colonizzazione ideologica dei più forti e dei più ricchi a danno dei più poveri e dei più deboli».

La provocazione: il 1968 è stato l'anno in cui è nato il rancore. La contestazione chiedeva più politica. Invece ha prodotto la crisi, più egoismo, la rabbia di oggi. Uno storico apre il dibattito, scrive Giovanni Orsina il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". Il Sessantotto compie mezzo secolo in un periodo nel quale la politica è in grande difficoltà. I segnali sono numerosi, e si presentano in quasi tutte le democrazie avanzate: dalla presidenza Trump alla Brexit, dalla scarsa partecipazione alle elezioni francesi al successo elettorale di Alternative für Deutschland e allo stallo politico in Germania, per arrivare all’infelice condizione della vita pubblica nostrana. Questi sono – appunto – segnali: non cause, ma sintomi d’una crisi storica. Il cinquantenario del Sessantotto ci dà l’occasione per chiederci quale sia il rapporto fra gli eventi di mezzo secolo fa e il travaglio politico dei nostri tempi. La risposta è che un rapporto non soltanto c’è, ma è stretto: il Sessantotto è uno snodo cruciale d’una vicenda pluridecennale che pare esser arrivata oggi alla sua piena maturazione. Ma come - si obietterà -, un anno stracolmo di politica come il 1968 diviene parte d’una storia che si conclude, sia pure cinque decenni dopo, con una crisi della politica? In effetti, nelle democrazie occidentali la contestazione sessantottina nasce anche dal desiderio di ribellarsi contro i limiti ch’erano stati imposti alla politica dopo il 1945. Il desiderio di ribellarsi contro il principio secondo cui alcuni àmbiti - a partire dalla vita famigliare - dovevano esser tenuti il più possibile separati dai conflitti pubblici. Al contrario: «il privato è politico!». Il desiderio di ribellarsi contro i limiti che le tecnocrazie e l’“oggettività” scientifica imponevano al pieno dispiegarsi della volontà umana di cambiamento. Al contrario: «vogliamo tutto!»; «siate realisti, chiedete l’impossibile!». Il Sessantotto, insomma, vuole più politica: la produzione d’uno sforzo di trasformazione collettiva profondo, radicale, impaziente d’ogni limite in estensione o intensità. Questo desiderio di azione collettiva, tuttavia, monta in un momento nel quale le grandi ideologie che avrebbero potuto orientare quell’azione sono ormai o del tutto defunte, o in profonda crisi. A cominciare dalla più rilevante fra di esse. Il marxismo, in una forma o nell’altra, è l’ideologia portante della contestazione sessantottina. Ma in quegli anni è già irrimediabilmente colpito dalla degenerazione del socialismo reale, e forse ancor di più dal successo delle economie capitalistiche occidentali, che ne falsifica una delle profezie cruciali: la proletarizzazione universale. Alla crisi dei grandi progetti di emancipazione collettiva fa da controcanto l’affermazione crescente del desiderio di emancipazione individuale: se non possiamo essere liberi insieme, almeno che lo sia io! Non per caso, uno dei pensatori più influenti del Sessantotto è Herbert Marcuse, intento a superare lo stallo del marxismo immaginando che il desiderio individuale possa fungere da leva rivoluzionaria. Se non che, il desiderio di liberazione individuale è destinato a entrare in conflitto col desiderio di liberazione collettiva - ossia con la politica. L’azione collettiva richiede organizzazione e disciplina: subordinazione delle aspirazioni personali agli scopi comuni. E tanto più ne richiede, quanto più ambiziosi sono i suoi obiettivi. Lo mette in evidenza già all’epoca uno dei critici più acuti del Sessantotto, Augusto Del Noce, parlando proprio di Marcuse: «una rivoluzione antipuritana è quel che egli sa proporre: un vero ferro di legno, per una ragione storica intrinseca … che il motivo puritano è essenziale a ogni posizione rivoluzionaria seria … Marcuse può perciò essere definito come il filosofo della decomposizione della rivoluzione». Là dove per “puritanesimo” bisogna intendere appunto la negazione di se stessi, dei propri desideri individuali, in vista d’un obiettivo rivoluzionario da raggiungere tutti insieme. Questa contraddizione è una delle ragioni, e non la minore, per le quali la contestazione sessantottina non riesce a dar vita a un movimento politico ampio e robusto, ma si disperde in mille rivoli ideologici l’un contro l’altro armati; o si riduce a perseguire l’azione per l’azione, magari violenta; oppure finisce riassorbita nei partiti della sinistra tradizionale. La contraddizione del resto era ben presente già ai protagonisti dell’epoca – a Rudi Dutschke, ad esempio, a Daniel Cohn-Bendit. Una delle organizzazioni più importanti del Sessantotto tedesco, la Lega degli studenti socialisti, si scioglie nel 1970 perché «se la liberazione della società non è possibile qui e ora», la Lega «dovrebbe almeno garantire democrazia ed emancipazione nel proprio ambito». Deve insomma emanciparsi da se stessa. Fra le due anime del movimento studentesco, quella marcusiana e quella stalinista, nel breve giro di qualche anno finisce così per prevalere largamente la prima, notava nel 1980 Nello Ajello in un libro dal titolo assai indicativo: “Il trionfo del privato”. È un Marcuse depoliticizzato, però: non la soddisfazione del desiderio individuale come strumento di rivoluzione politica - ma la soddisfazione del desiderio individuale punto e basta. La vicenda di «Lotta Continua», che Ajello analizza nelle pagine citate, mostra bene questo passaggio: intorno alla metà degli anni Settanta il giornale diventa «l’organo più rappresentativo di una mentalità giovanile di sinistra nella quale il conflitto fra “privato” e “politico” si sta concludendo con una larga vittoria del primo». Così scrive in quegli anni un lettore al giornale: «Siate realisti, domandate l’impossibile, dicevano i compagni del maggio francese. Bene, noi vogliamo essere felici». Nello stesso torno di tempo, secondo la studiosa americana Kristin Ross, si modifica la memoria del Sessantotto francese: del suo contenuto politico si perde il ricordo, mentre le sue componenti esistenziali e culturali si dilatano fino a occupare tutta la scena. La politicità del Sessantotto si scioglie quindi nel giro di pochi anni nell’affermarsi dell’individualismo? Piano: magari fosse così semplice. La spinta alla liberazione personale che cresce a partire dai tardi anni Sessanta - in forma come s’è detto prima politica e poi impolitica - ha comunque degli effetti politici di rilievo. Vediamo quali.

La politica “ufficiale” affronta quella spinta con «moderazione ragionevole» (l’espressione è dello storico britannico Arthur Marwick): ossia, dove possibile, cede alla pressione. Sia sul piano retorico: il socialdemocratico Willy Brandt, Cancelliere tedesco dal 1969, promette un «nuovo inizio», e di «osare più democrazia»; il liberale Valéry Giscard d’Estaing, Presidente francese dal 1974, dichiara di volere una «democrazia liberale avanzata». Sia - e soprattutto - sul piano pratico: gli anni Settanta, com’è ben noto, sono caratterizzati da un processo imponente di ampliamento dei diritti individuali, sia civili sia sociali, in tutte le democrazie avanzate.

Il desiderio diffuso di liberazione individuale e la scelta della politica “ufficiale” di soddisfarlo generano però dei contraccolpi. Tanto più che i diritti sociali costano, e che negli anni Settanta giunge al termine la straordinaria crescita economica postbellica. Politologi come Michel Crozier, Daniel Bell, Samuel Huntington cominciano a chiedersi quanto a lungo possa sostenersi una democrazia se l’elettorato chiede troppo. Al di là e al di qua dell’Atlantico studiosi e intellettuali come Christopher Lasch, Richard Sennett, Gilles Lipovetsky denunciano l’involuzione dell’“individuo desiderante” in un “narcisista” incapace di distinguere fra se stesso e la realtà; disconnesso da un passato e incapace d’immaginare un futuro; sovreccitato, autoreferenziale, e in definitiva profondamente infelice. Da grande scrittore e giornalista, nel 1976 Tom Wolfe fornisce un ritratto straordinario di questo narcisista in “The “Me” Decade”, Il decennio dell’Io. In Italia Augusto Del Noce, Nicola Matteucci, Gianni Baget Bozzo, fra gli altri, evidenziano i limiti e le contraddizioni della società «permissiva» o «radicale».

Di fronte al montare della “democrazia del narcisismo”, quella stessa politica “ufficiale” che ha ceduto alla pressione individualistica deve cominciare a tirare il freno. Non può però, o non vuole, affrontare direttamente gli elettori, prendendosi la responsabilità di dir loro con chiarezza che la festa è finita, e correndo magari il rischio di dover pagare il prezzo della propria sincerità. Fa allora in modo che i cittadini si trovino di fronte dei muri di altra natura, tecnica e non politica: le banche centrali, le autorità indipendenti, le istituzioni economiche internazionali, il sistema monetario europeo. E naturalmente - soprattutto a partire dal 1979-80, con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher e Ronald Reagan - il mercato. Che è un Giano bifronte straordinario: da un lato, col moltiplicarsi dei consumi, soddisfa il narcisismo; dall’altro gli impone la dura disciplina della concorrenza. Reagan guarderà soprattutto alla faccia della gratificazione; Thatcher a quella del rigore: «l’economia è il metodo», dirà, «l’obiettivo è cambiare l’anima della nazione».

Sia quando cede alla richiesta di maggiore emancipazione individuale, sia quando demanda alle tecnocrazie o al mercato il compito di arginarla, tuttavia, la politica sega il ramo sul quale sta seduta. La politica infatti è azione collettiva: ma come potrà mai ricomporre la società individualistica che essa stessa contribuisce continuamente a frammentare? E la politica è esercizio del potere: ma quale potere potrà mai esercitare, se ha contribuito a trasferirne una buona parte a organismi non politici, nazionali e internazionali? A partire dai tardi anni Ottanta, poi, nelle democrazie avanzate la destra e la sinistra convergono in una sorta di “grande centro” ideologico fatto di diritti (il contributo della sinistra) e di mercato (il contributo della destra) - ma incardinato in tutti i casi sull’individuo. Anche il conflitto politico, così, deperisce. E gli elettori cominciano a chiedersi quali siano le loro reali possibilità di scelta.

Alcuni studiosi - Ronald Inglehart, Ulrich Beck, Anthony Giddens - già dalla metà degli anni Settanta hanno cominciato a immaginare la ricomposizione politica del caleidoscopio individualistico: individui “riflessivi”, ossia capaci di generare da se stessi la propria identità, avrebbero costruito liberamente e creativamente delle nuove aggregazioni collettive. Ora, è vero che da ultimo, nella nostra epoca, la politica si sta ricomponendo. Solo, lo sta facendo in una maniera ben diversa da come immaginavano quegli autori. Altro che individui riflessivi: cittadini convinti che la politica della liberazione individuale non li protegga più da un mondo sempre più complesso e incontrollabile si rifugiano nell’ultima ridotta identitaria possibile - l’identità del luogo di nascita -, aderendo a partiti sovranisti o localisti. Oppure costruiscono un’identità collettiva nuova, ma negativa, mescolando finalità e provenienze assai diverse in un calderone comune: il rancore contro quelli che a loro avviso dovrebbero proteggerli, e non lo fanno.

Il conflitto politico rinasce così fra Clinton - figlia del Sessantotto, per tanti versi - e Trump. Fra l’establishment politico che ha gradualmente preso forma negli ultimi cinquant’anni, il “grande centro” individualistico dei diritti e del mercato, e che non riesce a mantenere la promessa universale di emancipazione individuale dalla quale trae la propria legittimità. E quelli che, per ragioni economiche o culturali, denunciano il fallimento di quel grande centro e lo combattono.

Per parte loro, questi ultimi non sanno davvero quali alternative proporre - e quando ne propongono, sono o assai poco desiderabili o del tutto irrealistiche. Siamo sicuri però che questa mancanza di realismo sia un ostacolo sulla via del successo politico? Uno che delle contraddizioni della modernità qualcosa aveva pur capito, Fëdor Dostoevskij, già un secolo e mezzo fa scriveva: «“Abbiate pazienza, - vi grideranno, - rivoltarsi è impossibile; è come due per due fa quattro! La natura non vi consulta; non gliene importa nulla dei vostri desideri e se vi piacciano o non vi piacciano le sue leggi …”. Signore Iddio, ma che me ne importa delle leggi naturali e dell’aritmetica, quando per qualche ragione queste leggi e il due per due non mi piacciono? S’intende che questa muraglia non la sfonderò col capo, se davvero non avrò la forza di sfondarla, ma nemmeno l’accetterò, solamente perché ho una muraglia davanti e le forze non mi sono bastate». In fondo, è un altro modo per chiedere l’impossibile.

Sorpresa: il ’68 è stato liberale. Al di là degli slogan marxisti, le proteste giovanili hanno cambiato la società soprattutto nella cultura e nei costumi, scrive il 19 novembre 2017 Bernardo Valli su "L'Espresso”. Il 1968 è stato ricco di avvenimenti e nel 2018, ormai alle porte, le rievocazioni per il cinquantenario non mancheranno. Comincio in anticipo. L’occasione mi è offerta dalla discussione aperta a Parigi sull’opportunità di celebrare, come movimento liberale (non libertario) l’esecrato o mitico Maggio ’68 e dal trovarmi in questi giorni a Praga, dove mezzo secolo fa fui testimone dell’effimera “Primavera”. L’anno debuttò con la grande speranza emersa sulle rive della Moldava. Era il 5 gennaio, giorno della nomina a segretario del partito di Alexander Dubcek. In agosto arrivarono i carri armati sovietici. Il tentativo di introdurre la democrazia nel comunismo reale fallì, finì in tragedia, ma annunciò il funerale del repressore - vincitore del momento. Il funerale ufficiale avvenne soltanto una ventina d’anni dopo, con l’implosione dell’Urss, ma l’agonia senza ritorno iniziò nella meravigliosa cornice di questa città che riscopro invasa dai turisti e dalle pizzerie. Come nel ’38 la Cecoslovacchia era stata lasciata ai tedeschi di Hitler, trent’anni dopo fu lasciata ai sovietici. Un piccolo prezioso paese è una facile preda. L’America era impegnata altrove, in Estremo Oriente, dove subiva l’offensiva del Têt. I suoi soldati, mezzo milione di uomini del più potente esercito della Storia, scoprirono di avere i viet cong sotto il letto. Fu la sorpresa di fine gennaio ’68, in occasione del capodanno vietnamita. Gli americani riuscirono a neutralizzare l’attacco dei guerriglieri infiltratisi negli alti comandi e nelle caserme, ma capirono che dovevano andarsene. È quello che fecero quattro anni dopo. Il tempo per fare i bagagli. La grande armata, vittoriosa nella Seconda guerra mondiale, non sarebbe stata sconfitta militarmente, ma avrebbe dovuto presidiare per un tempo indeterminato il Sud Viet Nam con cinquecentomila uomini. Oltre ai guerriglieri sotto il letto a Saigon e a Hué, c’erano migliaia di manifestanti contro la guerra ogni giorno a Washington e a New York. Tutto questo equivaleva a una sconfitta. Nel marzo dello stesso anno, all’altra estremità del pianeta, nella Cuba di Fidel Castro, veniva promossa un’“offensiva rivoluzionaria”, vale a dire una più ampia collettivizzazione, tesa a colpire le attività della piccola borghesia urbana. Il comunismo caraibico accentuava l’impronta sovietica. Sempre nel ’68 erano ancora in piena attività le “guardie rosse” di Mao. La rivoluzione culturale, cominciata due anni prima, fu una lotta interna per il potere, ma allora appariva a molti giovani europei un fermento sociale che avrebbe condotto alla nascita di un “uomo nuovo”. Tutti questi avvenimenti suscitavano entusiasmi, illusioni, distorte visioni della realtà, e comunque alimentavano gli slogan scanditi sui boulevard parigini. Le sponde della Senna erano il teatro di una rivolta giovanile, poi seguita da scioperi operai, contro il potere, e in favore di tutti i movimenti, dai maoisti ai viet cong, ai cubani, visti come esempi di contropotere. Erano immagini lontane, quindi potevano essere idealizzate, in contraddizione con il carattere libertario del maggio ’68. Libertario e al tempo stesso liberale. Facevo allora la spola tra il Ponte Carlo sulla Moldava e il Quartiere Latino in riva alla Senna. Erano le due facce dell’Europa. I giovani cecoslovacchi non capivano l’opposizione a un regime democratico che era il loro obiettivo; i giovani francesi non capivano l’opposizione a un regime che si era liberato del capitalismo. Eppure gli uni e gli altri avevano in sostanza obiettivi liberali. Ed è proprio questo aspetto che potrebbe essere ricordato cinquant’ anni dopo. Lo slogan dominante sui boulevard era “proibito proibire”. Lo stesso poteva essere scandito sulla piazza Venceslav. Ma là arrivarono i carri armati. In vista del cinquantenario, a Parigi si discute appunto sull’opportunità di celebrare il Maggio ’68, visto, al di là della rivolta con tinte marxiste, come un movimento che ha favorito una nuova società più liberale, una trasformazione culturale e politica. Insomma allora il vecchio mondo fu ripulito da molte tradizioni e restrizioni. Rinnovò i costumi. Il carattere libertario è svanito mentre quello liberale, nel senso autentico della parola, ha lasciato le sue tracce.

SESSANTOTTO: quando invece del populismo dilagò la rivolta, scrive Piero Sansonetti il 7 gennaio 2018 su "Il Dubbio". È l’anno cruciale del secondo 900. Una forma di populismo ma che niente ha a che vedere con quello di oggi. Il 1968 è stato l’anno di svolta nella storia del dopoguerra, in tutto l’Occidente, ma anche ad Est. In questi giorni sono usciti diversi articoli su vari giornali (soprattutto sui giornali di destra) nei quali si chiede di rinunciare alle commemorazioni. Benissimo, rinunciamo alle commemorazioni, ma non vedo proprio perché non dovremmo cogliere l’occasione del cinquantesimo anniversario per tornare a ragionare su quell’anno cruciale, che con la sua intensità sociale e politica ha modificato il percorso della storia. È un anno che non ha eguali nella seconda metà del novecento. Non ho mai capito perché, almeno da un po’ di tempo, l’idea di parlare di storia, e soprattutto del nostro recente passato, viene vista come una noiosa strampalatezza di un pugno di nostalgici. Penso che sia esattamente il contrario: la voglia di dimenticare i fatti che hanno influito sulle nostre vite – che hanno cambiato cultura, abitudini, modo di pensare e di agire – è un desiderio un po’ da cretini. Ed è forse una delle ragioni di un certo decadimento della nostra intellettualità, che chiunque avverte. Il 1968 è stato un anno specialissimo per tre ragioni.

La prima è l’ampiezza della rivolta che si è sviluppata in quell’anno contro le classi dirigenti e il sistema. Il ‘ 68 travolse gli Stati Uniti d’America, squassò l’Europa occidentale democratica, ma ebbe delle ripercussioni eccezionali anche nel mondo comunista e persino nei paesi autoritari di destra, come la Spagna, il Portogallo e alcuni paesi dell’America Latina.

La seconda ragione è il carattere generazionale della rivolta, che non solo non fu un limite ma, al contrario, moltiplicò la potenza del fenomeno, proiettandolo nel futuro.

La terza ragione è lo “spirito” originario del ’68, che poi negli anni seguenti si frantumò, in parte si ribaltò, comunque si spezzettò in mille rivoli, che portarono su sponde anche molto lontane. Lo “spirito” originario del ’68 è stato la contestazione delle gerarchie, e dunque del meccanismo essenziale che aveva governato il mondo fino a quel momento, e che regolava il potere, la distribuzione della ricchezza, i rapporti tra uomini e donne, la religione, la famiglia, la scuola, il sapere. La forza del ‘68 non risiedeva tanto nella improvvisa violenza della sua azione, e della sua contestazione, ma nella potenza rivoluzionaria di quel messaggio, che era qualcosa di molto più complesso delle vecchie rivendicazioni anarchiche. Ci sono migliaia di slogan del ’68. Molto diversi tra loro. Alcuni truculenti. (Ne ricordo uno che gridavamo spesso ai cortei: “È ora di giocare col sangue dei borghesi…”). Ma il vero slogan che riassume l’anima di quella rivolta è lo slogan più famoso del maggio francese: «E vietato vietare». Il ‘68 inizia come grandioso fenomeno libertario. Poi si piega su se stesso, si aggroviglia, e in moltissime sue espressioni ha un rinculo stalinista e autoritario. Se però immaginiamo il ‘68 solo come fenomeno di violenza politica e come anticamera della lotta armata, capiamo pochissimo di quello che è successo e di perché il ‘68 ha dilagato in territori molto lontani dal gruppetto di studenti e di intellettuali che lo innescò. Fino a coinvolgere, ad appassionare, e talvolta a travolgere pezzi molto vasti di classe operaia ma anche di borghesia moderata. Gli effetti più clamorosi del ’68 furono lo spostamento molto sensibile del senso comune conservatore, che ruppe gli argini, perse i punti di riferimento e le paure.

Fu un fenomeno populista? Certamente lo fu, ma quello sessantottino è un tipo di populismo di segno opposto a quello che conosciamo oggi. Oggi il populismo è una declinazione del qualunquismo, dell’antipolitica, della paura, anche dell’ignoranza. Non possiede nessuno spessore ideale, è chiuso in se stesso è rancoroso. Allora fu un fenomeno opposto: impegnato, molto politico, colto, con una componente fortissima – qui in Italia – di tipo cattolico, influenzata dalle grandi novità del Concilio. In comune con il populismo di oggi ha solo la domanda di rottura. Le risposte a questa domanda, però, sono opposte. Così come, in politica, sono opposte le spinte rivoluzionarie e quelle reazionarie. Il 1968 nasce sicuramente in America. Dove la rivolta dei neri e degli hippy era iniziata diversi anni prima. Aveva incendiato le città, i ghetti, i campus universi- tari. Aveva spinto possentemente a sinistra il kennedismo, che era nato come proposta di leggero e moderatissimo cambiamento e invece, con Bob Kennedy, aveva finito per avvicinarsi moltissimo al punto della rivolta. E però, curiosamente, se andiamo a controllare le cronologie, ci accorgiamo che il primo atto storico del sessantotto avviene all’Est. Precisamente il 5 gennaio (giusto ieri era il cinquantenario) con l’elezione di Alexander Dubcek alla segreteria del partito comunista cecoslovacco. Dubcek, 46 anni, intellettuale raffinato ma con un lungo passato di funzionario di partito, aveva riunito intorno a sé un gruppo di giovani intellettuali quarantenni ed era riuscito a scalzare dal potere il vecchio Antonio Novotny, uomo legatissimo a Mosca. Iniziò così, in pieno inverno, la Primavera di Praga, e cioè un periodo di riforme e di grande mobilitazione politica, con un vastissimo sostegno popolare, che fu il più robusto e organico tentativo di ristrutturazione del socialismo. Dubcek, spinto dal vento libertario del sessantotto, introdusse il concetto di libertà come valore fondante del progetto socialista. E questa non era una modifica, o un aggiustamento: era il ribaltamento del castello ideologico costruito da Lenin in poi. Dubcek si convinse che i valori di libertà ed eguaglianza non sono valori in competizione ma possono integrarsi perfettamente. E’ impossibile immaginare oggi cosa sarebbe successo se il tentativo di Dubcek non fosse stato represso in modo brutale, e in parte inaspettato, dalle forze armate sovietiche. Cosa avrebbe portato, all’umanità, una competizione equilibrata tra capitalismo rooseveltiano e socialismo democratico. Non lo sapremo mai.

Il tentativo durò meno di otto mesi. La notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe del patto di Varsavia entrarono a Praga. Dubcek, insieme a Ludvick Svoboda, che era il presidente della Repubblica, fu portato a Mosca per chiarimenti, e poi deposto. Lo mandarono a fare l’impiegato in un ufficio, e riemerse solo dopo la caduta del Muro di Berlino. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, nel 1990. Era in visita in Italia e volle venire a cena con noi giornalisti dell’Unità, che lo avevamo intervistato un paio d’anni prima, quando era ancora in semi- clandestinità. Serio, timido, ma anche molto spiritoso e persino autoironico. Mi ricordo che ci raccontò una barzelletta forse non spiritosissima in assoluto, ma devastante perché raccontata da lui. La sintetizzo molto, perché era lunghissima: C’è una coppia che dorme a Praga la notte del 20 agosto. A un certo punto lei si sveglia e chiama il marito. Gli dice: “Ehi, cos’è questo sferragliare di camionette qui sotto casa?”. “Niente”, risponde lui, “sarà il mercato, ora dormi!”. Dopo mezz’ora lei lo sveglia ancora: “Ehi, sento dei colpi di cannone…”. Lui di nuovo la tranquillizza: “Sono tuoni, amore, dormi…”. Alle quattro del mattino la signora si affaccia alla finestra e grida: “Ci sono i carrarmati qui sotto, ci hanno invaso! ”. Lui resta tranquillo: “non aver paura, poi verranno i sovietici e ci libererano…”. E già, l’invasione fu una sorpresa. Non solo Dubceck era convinto che nel nuovo clima del ’68 i sovietici non avrebbero osato. Anche perché, nonostante tutto, Dubceck considerava i sovietici degli amici. Invece l’invasione ci fu e gelò il mondo. E’ vero che il ’68 fu un fenomeno essenzialmente occidentale. Ma se dovessimo mettere due date al suo inizio e alla sua fine, e cioè alla parabola del sogno sessantottino, prima che il ’68 si trasformasse, si incattivisse e in parte degenerasse, le date sono quelle lì di Dubcek: 5 gennaio e 20 agosto. E’ lì, quella notte, che finisce il sogno. Non solo dei cecoslovacchi, ma di tutti. Cioè di tutti quelli – americani, russi, polacchi, europei…- che avevano sperato nella riformabilità del potere. L’impermeabilità del socialismo alle riforme era lì a dimostrare questo: il potere non accetta di essere messo in discussione, tantomeno di mettersi in discussione da solo.

In Italia il ’68 inizia invece con un fatto tragico e che non ha molto a vedere, almeno all’inizio, con la politica: il terremoto del Belice. Avvenne nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, provocò circa 300 morti e rase al suolo decine di paesi della provincia di Trapani e di Agrigento. Gibellina scomparve. Ma adesso procediamo con la cadenza della cronologia. In ordine sparso 31 gennaio. In Vietnam inizia l’offensiva del Tet. Il Tet è il capodanno vietnamita. I vietcong e l’esercito del Nord, guidato dal mitico generale Nguyen Giap (che 15 anni prima aveva sbaragliato i francesi a Dien Bien Phu) attaccano tutte le principali città del Sud Vietnam. Muovono 800 mila uomini armati. E’ un successo militare clamoroso. Americani e Sudvietnamiti, sgomenti, reagiscono con ferocia. Il primo marzo, a Saigon, un generale sudvietnamita giustizia per strada, davanti al fotografo, un guerrigliero vietcong. La foto diventa famosissima.

1 marzo. E’ la vera e propria data d’inizio del 68 italiano. La battaglia di valle Giulia. Gli studenti attaccano la polizia che presidia la facoltà di Architettura, a Roma. Inizia un pomeriggio di fuoco. La polizia non si aspetta l’iniziativa spregiudicata e per molte ore non riesce a contenere la furia degli studenti. Guidati da Oreste Scalzone, da Sergio Petruccioli, da Massimiliano Fuksas, da Franco Russo. E con tanti ragazzini che non hanno nemmeno 18 anni, tra i quali i fotografi immortalano Giuliano Ferrara, figlio di Maurizio, direttore dell’Unità.

16 marzo. Una pattuglia di militanti del Msi, guidati da Giorgio Almirante, tentano di attaccare la facoltà di lettere, occupata dai “rossi”. Vengono messi in fuga, si rifugiano a Giurisprudenza, si barricano e tirano dal quarto piano un banco sui ragazzi che assediano la facoltà. Il banco prende in pieno il leader degli studenti, Oreste Scalzone, che è ridotto in fin di vita (si salverà ma porterà i postumi della botta per tutta la vita). Lo stesso giorno gli americani compiono in Vietnam l’azione più orrenda di tutta la guerra. Un gruppetto di marines, guidati da un certo tenente Calley, rade al suolo un piccolo paese (My Lai) e inizia a torturare e ad uccidere, uno ad uno, tutti gli abitanti. Ne manda al creatore 450, poi, all’improvviso, irrompe sulla scena un elicottero guidato da un giovane sottufficiale americano molto coraggioso. Si chiama Hugh Thompson. Atterra, imbraccia un bazooka e si frappone tra i marines e i vietnamiti. Punta il tenente Calley e gli dice: o vi ritirate o ti ammazzo. La spunta. Salva un centinaio di superstiti. La strage però viene nascosta per due anni, poi la scopre un giornalista dell’Associated Press. C’è un processo. Calley si prende l’ergastolo ma Nixon lo grazia.

4 aprile. A Memphis, in Tennessee, dove era andato per tenere un comizio, viene abbattuto con una fucilata Martin Luther King, il capo della rivolta pacifica nera. Tre anni prima era stato ucciso, a New York, Malcolm X, il capo della rivolta nera violenta. La morte di King scatena un’ondata di violenza nei ghetti. Molte decine di morti.

11 aprile. Dopo King è un altro leader del ‘ 68 a prendersi una revolverata: Rudy Ducke. E’ il capo degli studenti tedeschi. E’ un agitatore, un combattente, ma anche un intellettuale molto sofisticato. Gli sparano alla testa. Si salva, ma resta molte settimane tra la vita e la morte. Non si riprenderà mai del tutto, e morirà dopo dieci anni, per i postumi delle ferite.

Il 10 maggio parte la Francia. E il sessantotto raggiunge l’apice. Occupata la Sorbona. Scontri fino a notte nel quartiere latino.

13 maggio: un corteo immenso di studenti invade Parigi. Ci sono pure gli operai. Il movimento è guidato da un ragazzetto franco- tedesco, di appena 20 anni, che si chiama Daniel Cohn Bendit. Il ragazzo, Dany il rosso, fa tremare De Gaulle, il gigantesco De Gaulle, e fa temere che la rivoluzione sia davvero alle porte.

Il 5 giugno a Los Angeles viene ucciso Bob Kennedy. Stava per festeggiare il successo alle primarie della California. Era difficile che ottenesse la nomination, perché era partito troppo tardi, ma qualche speranza c’era. Kennedy ormai era diventato uno dei leader mondiali del 68, se avesse vinto, e avesse poi battuto Nixon, chissà come sarebbe andata la storia del mondo. Invece fu ucciso da un ragazzetto arabo di 24 anni. Che sta ancora in galera. Si chiama Shiran Shiran.

Del 20 agosto abbiamo già parlato, con la mazzata di Breznev e la fine della primavera di Praga.

Il 2 ottobre a città del Messico ancora gli studenti in piazza. La polizia spara in piazza delle Tre Culture, ne uccide cento. Un massacro che scuote il mondo, che ha gli occhi puntati sul Messico perché lì stanno per iniziare le Olimpiadi. Negli scontri resta ferita gravemente la giornalista italiana Oriana Fallaci.

13 ottobre. A Città del Messico iniziano le Olimpiadi. In un clima cupo e di conflitto.

17 ottobre. Tommie Smith, atleta nero americano, vince la medaglia d’oro sui 200 metri piani. Terzo arriva John Carlos, anche lui afroamericano. I due salgono sul podio della premiazione e alzano al cielo il pugno con un guanto nero. E’ il saluto dei Black Panther. Tutte le televisioni del mondo trasmettono questa scena. Nei quartieri neri americani è il delirio di entusiasmo.

Il 5 Novembre Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti. Ha sconfitto Hubert Humphrey, vicepresidente uscente e rappresentate molto moderato del partito democratico. La Casa Bianca, dopo 8 anni, torna ai repubblicani. Simbolicamente è una vittoria della restaurazione. In realtà negli Usa non cambia molto. Nixon è un falco in politica estera e una colomba in politica interna. Come Lyndon Johnson, il suo predecessore che ha lasciato le penne in Vietnam. La vera svolta conservatrice, in America, avverrà solo 12 anni dopo, con Ronald Reagan.

2 dicembre. Ancora sangue in Italia, Stavolta ad Avola, Sicilia. La polizia spara sui contadini che occupano le campagne. Due morti, molti feriti, molta rabbia, molti arresti. Manifestazioni di protesta in tutt’Italia.

31 dicembre. Il ‘68 se ne va con un’altra sparatoria. Alla Bussola, night club di Viareggio, gli studenti attaccano lanciando uova e pomodori sulle pellicce di quelli che festeggiano (come era successo tre settimane prima alla Scala di Milano). La polizia interviene. Si scatena la guerriglia. Tra gli studenti c’è il leader di Lotta Continua, Adriano Sofri, e c’è anche uno studentello diciottenne della Normale di Pisa, che si chiama Massimo D’Alema. La polizia spara di nuovo. Un ragazzo di 17 anni, Soriano Ceccanti, è colpito alla schiena. Ancora oggi, Soriano sta in carrozzella, è rimasto paralizzato.

Che c’entra il ‘68 con i prof che chattano con gli studenti? Scrive Luciano Lanna il 20 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Delle due l’una: o ci si rapporta criticamente con gli insegnanti e i genitori oppure si fanno saltare i confini generazionali. Nel 1968 s’era diffusa una massima che venne spontaneamente assunta a slogan dello spirito di quell’anno di trasformazioni: «Non fidarti di nessuno che abbia più di trent’anni». Era un monito ironicamente offerto come consiglio da Charlton Heston ai giovani e ribelli scimpanzé nel grande successo hollywoodiano di quell’anno, Il pianeta delle scimmie. Uno slogan che si trasformò via via in una modalità esistenziale e in un rapporto nuovo rapporto, dialettico e critico, nelle relazioni tra generazioni. Anche per questo non capiamo come si possa sostenere – l’abbiamo letto sul Messaggero a firma Marina Valensise, una giornalista e studiosa peraltro documentata e sofisticata – l’esistenza di un nesso tra alcune recenti denunce di molestie e abusi a scuola, in particolare relativi a casi riguardanti sconfinamenti in questa direzione tra professori e allievi, e la cultura del ’ 68. La quale, filologicamente, si muoveva semmai verso un altro orizzonte: quello della diffidenza o della messa in discussione critica rispetto alla presunta autorevolezza delle generazioni precedenti. Cosa c’entra, insomma, il non fidarsi più a scatola chiusa e il cominciare a verificare criticamente i rapporti con gli adulti, fossero essi genitori, professori, politici, che è uno dei portati storicamente più importanti del ’ 68, con quella «deriva erotico- sentimentale che abolisce ogni barriera tra docenti e discenti, confonde i confini tra un professore e l’allievo, travolge ogni limite di sicurezza, scardinando gli argini del rispetto umano e professionale»? Delle due l’una: o ci si rapporta criticamente con gli insegnanti e i genitori oppure, è il caso opposto, si fanno saltare i confini generazionali e si ipotizza come normale che con un docente si possa chattare come se si trattasse di un coetaneo.

Come tanti altri, sia ben chiaro, Marina Valensise mostra di non avere dubbi: «Abolire – scrive – la cortina del rispetto, squarciare il velo un tempo invalicabile che dovrebbe separare maestri e allievi è l’ennesimo frutto marcio prodotto dal ’ 68 e dalla cultura del ’ 68». Mostrando così di seguire la vulgata ormai egemone, e diffusa da anni a destra, a sinistra e al centro, secondo cui il Sessantotto – anno che viene trasformato in un feticcio, in una entità ideologica – da anno cronologico si trasforma nell’origine di tutti i mali, sociali, antropologiche, culturali. Nient’altro che in un’utopia, «inservibile e obsoleta – leggiamo ancora sul Messaggero – che in nome dell’uguaglianza, del ripudio delle forme, della guerra alla gerarchia e alle differenze ha finito per logorare la vita pubblica, privando il corpo sociale dei suoi anticorpi e delle valvole di sicurezza necessarie al suo funzionamento».

Niente di nuovo, in realtà. È la solita e trita litania sulla rovina della scuola, sul tramonto del principio di autorità, sulla fine della famiglia borghese, sull’eclisse della meritocrazia. Quando invece, e la storia stessa lo attesa, il ’ 68 fu più che altro la messa in discussione e lo scoperchiamento di tutta l’ipocrisia che aleggiava nella percezione vissuta di queste dimensioni sociali.

Non ci stupiamo comunque del fatto che la pubblicistica sia ricaduta nella ripetizione di questa lettura. Sin dal primo decennale, nel 1978, e a proseguire nei tre seguenti anniversari tondi, non è mancato il profluvio di lamentazioni postume all’insegna della massima “da allora tutto non fu più come prima”. Con il sospetto che davanti alle solite esortazioni del tipo “finiamola col sessantottismo”, “è tempo di archiviare la cultura del ’ 68”, sia più che legittimo il dubbio che in realtà si voglia parlar d’altro senza averne il coraggio e senza lo sforza dell’elaborazione di nuove categorie adeguate a interpretare la complessità dei fenomeni a noi contemporanei. È la scorciatoia del pensiero pigro: è facile trovare una causa generale per tutto ciò che non comprendiamo e di fronte a cui ci troviamo spiazzati. È come il personaggio di Alberto Sordi che di fronte ai suoi fallimenti diceva “io c’ho avuto la malattia” o “io ho passato la guerra”. Sarebbe invece il caso, ora che siamo al cinquantenario, di “storicizzare” finalmente il ’ 68, di raccontare cioè quell’anno, con tutte le sue “rotture”, per quel che è stato veramente. E di smetterla di presentarlo come un feticcio ideologico da utilizzare come causa di tutti i nostri mali.

Oltretutto, da allora è passato mezzo secolo, un periodo così lungo e complesso, attraversato da altre faglie e altri sommovimenti globali, che è davvero impossibile quando non fuorviante individuare – come nel caso da cui siamo partiti – nei fatti del ’ 68 l’origine di fenomeni del tutto inediti e spiegabili solo con processi davvero molto lontani da quell’anno. Cosa avrebbe a che fare, insomma, il chattare in rete in una dimensione orizzonte e privata tra docenti e studenti e le eventuali conseguenze con le intuizioni dell’anno vissuto all’insegna dell’immaginazione al potere? Un anno denso di eventi rivoluzionari come il Vietnam e le proteste contro la guerra, gli studenti contro la polizia a Valle Giulia, il Maggio francese, la Primavera di Praga, gli assassini di Martin Luther King e Robert Kennedy, le convenzioni per le elezioni americane che videro la vittoria di Nixon, la nascita del femminismo… «Con stupore ed entusiasmo – annota Mark Kurlansky nel fondamentale ’ 68. L’anno che ha fatto saltare il mondo (Mondadori) – si scoprì che a Praga, a Parigi, a Roma, in Messico, a New York, si stavano facendo le stesse cose. Grazie a nuovi strumenti quali i satelliti per le telecomunicazioni e i videotape, la televisione stava rendendo ognuno consapevole di quanto stavano gli altri. E questo era elettrizzante perché, per la prima volta nell’esperienza umana, eventi importanti e remoti erano vissuti in diretta». Questo, non altro, fu il ’ 68. Il professore che non solo dà ai suoi allievi del tu, ma pretende che glielo diano anche a lui, insieme con l’e-mail, al numero di cellulare e all’amicizia su Facebook per poterli chiamare a tutte le ore del giorno e della notte non capiamo cosa avrebbe dello “spirito del ’ 68”. Uno spirito che, semmai, muovendoci sul piano dell’immaginario andrebbe storicamente visto nella presenza e nel ruolo di un premio Nobel come Bob Dylan e di un intellettuale come Francesco Guccini nello scenario odierno. Queste sì, due vere “lezioni” viventi del Sessantotto.

Mughini: «A Parigi nel ‘68 tiravo pavé sulla polizia, poi mi innamorai di Craxi». Il 76enne ex direttore di Lotta Continua, poi personaggio televisivo: «Gli intellettuali e la politica? Pagliacci, compreso Pasolini. Anch’io ho vissuto la depressione». Intervista di Aldo Cazzullo del 24 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera".

Mughini, cosa ci faceva a Parigi nel Maggio ‘68?

«Avevo vinto una borsa di studio per specializzarmi in francese, lingua da me venerata. Facevo il lettore di italiano al liceo Hoche di Versailles: per me che venivo dalla provincia, era come passare dal Viterbo al Real Madrid».

Era nell’aria la grande rivolta?

«Non sarebbe venuto in mente a nessuno che stava per scatenarsi un tale pandemonio. “La Francia si annoia” titolò un giornale. Altrove il casino era già cominciato; anche se le cose italiane facevano ridere al confronto».

Perché?

«Ricordo una foto della mitica battaglia di Valle Giulia: un poliziotto panciuto non riusciva ad afferrare un giovane Giuliano Ferrara, che pesava già almeno 120 chili. Noi a Parigi avevamo di fronte i reduci della guerra d’Algeria».

Truppe addestrate alla guerra coloniale.

«Addestrate talmente bene che non hanno ammazzato nessuno».

Lei partecipò alla prima notte di battaglia.

«E ho tirato i pavé contro i poliziotti; ma non dall’alto delle case, come altri».

Nel libro «Era di maggio. Cronache di uno psicodramma» racconta di essersi nascosto al sesto piano, mentre dal quinto salivano i colpi dei flic e le urla degli studenti.

«I poliziotti avevano avuto 271 feriti gravi in una sola notte. Avevano visto i compagni con il cranio sfondato: cento di loro non tornarono mai in servizio, uno morì. È un miracolo che si siano limitati alle manganellate».

Fu una guerra?

«No; uno psicodramma. Fosse stata una vera guerra, loro avrebbero spazzato via tutte le barricate del Quartiere Latino in dieci minuti. Ma noi non eravamo insorti algerini; eravamo la più fortunata generazione del dopoguerra, quella che stava godendo della ripresa economica. Per una volta non eravamo al cinema o a teatro; il film, la rappresentazione teatrale eravamo noi. Uomini e donne pari erano».

Lei racconta la vera storia della Marianne fotografata con la bandiera nordvietnamita.

«Era una modella di famiglia aristocratica. Stanca di marciare, salì sulle spalle di un compagno. Quando vide un reporter, fece il suo mestiere: si mise in posa. Il nonno la riconobbe e la diseredò».

Anche sua nonna materna era un’aristocratica.

«Sì, ma decaduta. Conosco la situazione degli ultimi, perché da lì vengo. I miei genitori erano separati. L’unico lusso del nonno era un fiasco di vino la domenica. A casa non c’era nulla, né libri né quadri; avevamo una radio, si guastò, non avevamo i soldi per farla aggiustare. Andavo dagli amici a vedere in tv i Mondiali del 1958 e Mike Bongiorno. Non avevamo di che comprare un frigorifero, uno zio ci portava il ghiaccio. Avevo un unico paio di scarpe, per giocare a pallone e per passeggiare. Non sapevo cosa fossero le vacanze».

Quando comincia la politica?

«Ricordo il luglio 1960: uccisero un operaio edile vicino a casa, Salvatore Novembre. Tenni un comizio per il 25 aprile, in cui devo aver detto delle fesserie da vergognarmi. Ebbi un applauso come mai in vita mia».

Suo padre era fascista.

«Sì, a Catania era il numero 2 dopo il podestà. Ma non aveva nulla della retorica del regime, non diceva una parola più del necessario. Teneva una bellissima foto di Mussolini giovane dietro la scrivania. Combatté in Albania, poi raggiunse la famiglia a Firenze. Quando i partigiani entrarono in città si nascose. Tornammo a Catania, il viaggio in autobus durò un mese».

E la politica di oggi?

«Non mi appassiona».

I 5 Stelle?

«Li considero il nulla, sotto forma di declamazione populistica. In Sicilia il reddito di cittadinanza c’è già: i forestali, le pensioni di invalidità, l’Assemblea regionale…».

Lei è siciliano.

«Non mi sento siciliano; mi sento italiano. Lo accetto perché erano siciliani Verga, Pirandello, Sciascia. Inutile fingere che esista l’Italia unica del sogno risorgimentale. C’è l’Italia del talento, della creatività, dei conti a posto; e poi c’è il Comune di Roma».

Salvini?

«Non ci meritavamo un risultato elettorale che premiasse un personaggio di questa fatta. È triste stilisticamente e antropologicamente che sia lui a rappresentare la Lombardia, il cuore produttivo del Paese».

Berlusconi?

«Mi sta immensamente simpatico. È uno che ha creato un impero. Sono anni che lavoro a Mediaset e con la Rai non c’è confronto: vedi ragazzi assunti non dai partiti, ma perché hanno voglia di lavorare».

È andata così male il 4 marzo?

«Abbiamo vissuto due catastrofi nello stesso tempo: la sconfitta di Berlusconi e quella di Renzi. Io speravo al contrario che avrebbero governato insieme: centrosinistra, l’unica formula che in Italia abbia mai funzionato».

Renzi è finito?

«Niente affatto. La storia della politica è piena di resurrezioni: de Gaulle, Churchill, Fanfani…».

Sono accostamenti molto generosi.

«Perché, il Pd chi ha? Martina? Franceschini? Renzi non è finito, anche se è difficile immaginare una sequela di passi falsi come quella in cui è incappato».

Lei perché ha diretto il giornale di Lotta continua?

«Per un motivo liberale. Lo avevano fatto Pannella, Pasolini, Piergiorgio Bellocchio. Venne Sofri a casa mia, mi chiese di fare il direttore responsabile. Pensavo che quel giornale dovesse uscire. Di più, pensavo che quelli di Lotta continua fossero i migliori della nostra generazione. Mi sono costati 28 processi e tre condanne».

Lo pensa ancora?

«Sofri per caratura personale e intellettuale lo è senza alcun dubbio. Vuol mettere con quel che scrivono Gad Lerner o Mario Capanna?».

Sofri è condannato come mandante dell’omicidio Calabresi.

«Non ne sono convinto. La mia personale idea è che il delitto sia stato organizzato dai servizi d’ordine di Milano e Massa; Sofri allora stava a Napoli. Sapeva quel che stavano combinando, ma non credo sia il mandante. La prova non c’è. E comunque quando ha ricevuto l’ordine di carcerazione si è presentato la mattina presto e si è fatto sei anni. Non ha mai voluto dire che lo sparatore fosse Bompressi, anzi ha detto che quelli che uccisero Calabresi sono i migliori della nostra generazione».

Frase che lei non condivide, vero?

«Certo che no. È una frase però che lui ha pagato. Come non mi è piaciuto il libro patetico di Sofri su Pinelli: ci ha messo trent’anni a realizzare che Calabresi non era in stanza quando l’anarchico cadde».

Come sono andate le cose secondo lei?

«Come stabilì D’Ambrosio, che in quattro anni di indagini non trovò nulla contro Calabresi; a cui 800 intellettuali avevano dato del torturatore. Una vergogna nazionale».

Non stima gli intellettuali italiani?

«Quando parlano di politica sono dei pagliacci, tranne rarissimi casi; tra cui purtroppo non c’è Pasolini. “Io so tutti i nomi ma non ho le prove…”: sciocchezze micidiali. Ricordo un documentario in cui si confrontavano Guareschi e Pasolini: Guareschi lo dominava, se lo mangiava a colazione. Ucciso per il libro Petrolio? Pazzesco».

Com’è morto Pasolini, secondo lei?

«I ragazzi di vita che lui aveva celebrato gli tesero un agguato. In tre o quattro l’hanno ridotto in quel modo; e Pelosi non ha mai fatto i nomi».

Però lei stimava Craxi.

«Moltissimo. Nel 1974 lo invitai a presentare il mio primo libro con Cicchitto e due comunisti, Reichlin e Chiaromonte. Loro arrivarono in anticipo, con un pacco così di appunti. Craxi ci raggiunse con tre quarti d’ora di ritardo. Il libro non l’aveva neanche aperto. Disse solo: “Di cosa stiamo parlando, finché è in piedi il Muro di Berlino? Finché i comunisti opprimono mezza Europa?”. Me ne innamorai perdutamente».

Non è finito bene.

«Mani Pulite fu un regolamento di conti mafioso. Uccise il Psi, la Dc e gli altri partiti che avevano costruito la democrazia italiana; così vennero fuori l’Msi, la Lega e un partito costruito dagli impiegati di Publitalia. Il crollo culturale è evidente».

Lei fu anche tra i fondatori del Manifesto.

«Sì. Volevano uno diverso da loro, che non fosse un fuoriuscito dal Pci. Dopo tre mesi me ne andai».

Non li stimava?

«Tutt’altro. Erano un gruppo di fuoriclasse, Pintor su tutti; ma facevano un giornaletto a sinistra del Partito comunista. Non si poteva sentire Luciana Castellina dire stupidaggini tipo che la scelta di Ingrao di restare nel Pci era segno di decadimento morale. Raccolsi una serie di pareri critici sul Manifesto e li pubblicai. Lucio Magri mi disse che avevo sbagliato. Presi la mia borsa e uscii. Solo la sua morte ha cancellato la mia ira; adesso lo considero un fratello».

Perché?

«Perché anch’io l’anno scorso ho vissuto la depressione. Quattro mesi in cui la vita non mi parlava più. In cui non riuscivo a leggere un libro: come restare senz’aria. Lucio Magri è andato in Svizzera una prima volta, ed è tornato indietro. È andato una seconda volta, e di nuovo è ritornato. La terza volta è stata l’ultima».

Le manca non aver avuto figli?

«Non sarei stato all’altezza di fare il padre. E non ho mai pensato di sposarmi. La storia con Michela è una scelta che si rinnova ogni giorno. Sono sensibile a tutto ciò che negli uomini è tenebra, solitudine, dolore. Montanelli mi raccontò di aver vissuto sette depressioni. Momenti in cui il cielo gli appariva nero».

Come conobbe Montanelli?

«Gli scrissi una lettera aperta su Pagina, la rivista che facevo con Galli della Loggia, Mieli e Massimo Fini. Mi chiamò e mi propose una rubrica sul Giornale, L’Invitato. Offrì 250 mila lire. Risposi: meglio 300. Discutere sul prezzo è sempre stato un punto della mia religione laica».

Cosa c’è nell’aldilà?

«Nulla. Rispetto chi ci crede; ma la sopravvivenza dell’anima è una favoletta consolatoria. Com’è l’anima di Brigitte Bardot?».

Giampiero Mughini, il mio '68. "Diritti, sesso e libertà. Poi venne il terrore". Intervista al giornalista e intellettuale. Il Sessantotto cominciò all'inizio degli anni '60 con gli scioperi alla Fiat e finì con l'omicidio di Moro nel1978. Divenne una guerra civile tra giovani. Intervista di Davide Nitrosi del 21 gennaio 2018 su Quotidiano.net. Il maggio francese, Valle Giulia, Praga, Ian Palach. Lotta continua, Potop, il movimento. E le ragazze con le minigonne e il sesso libero, il corpo è mio. Poi vent’anni fra terrore rosso, antilopi e giaguari, la democrazia. 

Il Sessantotto compie 50 anni. Giampiero Mughini, è giusto celebrarlo?

«Celebrare non è la parola pertinente. Diciamo comprenderlo».

Non l’abbiamo ancora compreso?

«Comprenderlo significa innanzitutto sapere che il Sessantotto è durato 20 anni. È cominciato all’alba degli anni Sessanta con gli scioperi furibondi alla Fiat di Torino, quando la Fiat dettava tempi e umori della sinistra, ed è morto con Aldo Moro, il 9 maggio 1978, quando il corpo di Moro assassinato a freddo fu ritrovato in un’auto lasciata dai terroristi, sedicenti rivoluzionari, a metà strada tra la sede del Pci e quella della Dc». 

Genesi operaia, epilogo tragico?

«Inizia con gli scioperi, ma non è solo la fabbrica. È anche cambio culturale. Nel 1961 nasce la rivista madre del gauchismo, Quaderni Rossi, e dopo di lei tante altre riviste, come quella che creai io a Catania, Giovane critica. Si prepara il terreno, il linguaggio, la poetica del Sessantotto vero e proprio».

Al centro una generazione nata sulle macerie della guerra: è un caso?

«No, perché era tutto elettrizzante, perché c’era stato il boom demografico, ed eravamo tanti ad avere 20 anni negli anni Sessanta e a condividere la crescita esaltante dell’Italia. Venivamo dalla povertà, ma stavano vivendo un momento in cui il mondo mandava messaggi eccitanti. La nuova moda, la nuova musica, la nuova cultura».

Non era un fenomeno elitario?

«L’élite ha fatto scattare il Sessantotto, ma poi i cortei erano ampi e popolari. A dare il via furono gli universitari del 30 e lode, molto diversi dai grillini di oggi. Ma poi vennero subito le manifestazioni, fu un grande casino perché il cambiamento toccava la vita quotidiana, le relazioni. Per la prima volta ragazzi e ragazze condividevano esperienze assieme».

La vita privata diventò vita collettiva.

«E fu la grande novità. Non il socialismo realizzato sulla terra, non il comunismo: la grande novità fu la trasformazione molecolare della vita».

Caddero i tabù. Oggi certe libertà verrebbero scambiate per molestie?

«Oggi è cambiato tutto, non è paragonabile. La società italiana di quegli anni è lontana dall’oggi come gli etruschi».

Che cosa fu la rivoluzione sessuale per i giovani del tempo?

«Fu un percorso e una bellissima scoperta. Uno choc rispetto alla mia educazione. Io arrivavo da una scuola di preti dove unica cosa che insegnavano era la sessuofobia».

E voi ribaltaste tutto?

«Quell’Italia fu ribaltata dalla nostra esperienza concreta. Sperimentavamo che avere accanto le ragazze, soprattutto le ragazze in minigonna, era una gioia. Quando vidi per la prima volta il mio amore dei vent’anni in minigonna, beh, capii che dio esiste!»

In quelle assemblee e occupazioni in fondo comandavano gli uomini. Restava il maschilismo?

«Assolutamente no. Ricordo solo che c’erano alcune ragazze che nelle occupazioni stavano in cucina mentre noi sproloquiavamo. Ma non tutte. La polemica sul maschilismo è stata inventata a posteriori quando al congresso di scioglimento di Lotta Continua alcune compagne salirono sul palco a dire che i loro uomini erano dei cazzoni che non valevano niente a letto».

Ma dopo il ’68 vennero gli anni Settanta e la violenza.

«Gli anni della guerra civile fra giovani. A differenza della guerra civile combattuta fra il 1943 e 1945, quella degli anni Settanta fu una guerra psicotica, anche se con molti morti. Ciascuno dei due gruppi considerava la parte avversa come una parte da distruggere».

Gli anni di piombo nascono dal Sessantotto?

«Vi nascono filologicamente. Già nel ’70 c’erano Curcio e Franceschini, c’era il gruppo di Sociologia a Trento. È un ecosistema che nasce a partire dal 1969 e dura fino alla morte di Moro. Se le Br avessero liberato Moro e si fossero presentate alle elezioni avrebbero preso un milione e mezzo di voti, perché avevano un seguito».

Un ecosistema, appunto.

«Quando rapirono Moro, ero sull’autobus e il passeggero vicino a me commentò la notizia dicendo: se lo merita. I grillini non sono nati adesso, mi ricordano quelli che vedevano la Dc, il più grande partito democratico dell’Occidente, come un nemico a prescindere. Questo è stato il cotè tragico e fallimentare del Sessantotto».

Un fallimento quindi alla fine?

«Non tutto. Il non fallimento è stata la rivoluzione della vita quotidiana, che allora è cambiata per tutti noi e che è l’aspetto più importante della nostra dimensione. Il divorzio, i diritti...».

Giampiero Mughini: "All'islam servirebbe un 1968", Intervista di Gianluca Veneziani del 24 Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano". Di quella stagione lui è stato figlio ma, in un certo senso, anche padre, visto che con la rivista Giovane critica - da lui fondata e diretta a Catania nel 1963 - anticipò lo spirito e i temi del Sessantotto. Ora che si approssima il 50mo anniversario di quell’anno cruciale nella storia del Novecento, Giampiero Mughini prova a tracciare un bilancio in chiaroscuro dell’eredità di quell’epoca, ma anche ad analizzare come sia cambiato rispetto a mezzo secolo fa il ruolo dell’intellettuale nell’influenzare le evoluzioni della politica e della società.

Mughini, il ’68 fu una rivoluzione di studenti e operai, ma anche di intellettuali. Si pensi, per esempio, al ruolo dei Marcuse e dei Sartre. Oggi un intellettuale potrebbe avere la stessa capacità di favorire un cambiamento così radicale?

«No, oggi gli intellettuali umanisti sono dei ruderi, parlano con gli amici e basta, i loro principali vettori di espressione, i giornali, hanno un’influenza minima, pesano sull’opinione pubblica al 5% o forse meno, laddove Instagram vale il 20% o forse più. La tecnologia ha squassato le precedenti gerarchie e forme di comunicazione: gli unici intellettuali che contano sono quelli che attrezzano robot e computer, che permettono il lancio in cielo di missili ultrapotenti, i medici che combattono malattie micidiali. Ma non me ne rammarico. L’intellettuale così come è stato concepito in passato non è un’icona indistruttibile, è una figura storica che ha avuto un grande peso tra Otto e Novecento, tra Émile Zola e Benedetto Croce. Oggi a noi non resta che fare bene il nostro mestiere».

E nei confronti della politica un intellettuale umanista cosa può fare? Coltivare ancora il mito di essere engagé o costringersi all’isolamento?

«Se vuoi essere libero, non puoi che essere inorganico. L’alternativa è restare isolati o essere asserviti a qualche famigliola politica. Ma in quest’ultimo caso devi lustrare le scarpe al potente di turno e spiegare quanto la tua famigliola o la tua gang abbia ragione. Allora io preferisco rimanere isolato, isolatissimo. Non ho più un giornale su cui scrivere, ma almeno quando mi guardo allo specchio non ho nulla di cui vergognarmi, come quelli adusati a fare l’elogio di Berlusconi, Renzi, Grillo o della Boldrini».

Vale lo stesso anche per chi prova a portare qualche idea in tv?

«Per andare in televisione a esprimere ciò che pensi devi essere gradito a chi la tv la possiede, a Cairo, alla sinistra vicina a Repubblica, alla maggioranza renziana. Quando mi invitano in tv, vado volentieri a fare due chiacchiere. Ma è un segno dei tempi che io debba parlare di calcio. Il calcio ha una platea immensa. Se io andassi a parlare di libri, la platea sarebbe miserrima. La tv, si sa, ha bisogno di grandi numeri. E l’unico modo per portare i libri in tv, come ha provato a fare Baricco, è far parte del giro…».

Quanto la stagione del berlusconismo ha inciso nel depotenziare il ruolo dell’intellettuale anche in televisione?

«A dispetto di quanto si pensi, Berlusconi non disprezzava e non disprezza gli intellettuali. Alla sua prima discesa in campo arruolò in squadra menti come Lucio Colletti, Saverio Vertone, Piero Melograni, figure provenienti dalla sinistra e da quella allontanatesi. Ma Berlusconi è stato anche molto generoso nei confronti degli intellettuali, ha pagato bene direttori di quotidiani e tv, giornalisti, opinionisti. Ricordo quanto fosse munifico quando lavoravo a Panorama… Da uomo intelligente qual è non può avercela con gli intellettuali. Certo, gratifica gli intellettuali che non ce l’hanno con lui».

Esattamente 30 anni fa tu pubblicavi il libro Compagni, addio, tuo atto definitivo di distacco dall’intellighenzia sinistrorsa. Oggi che effetto ti fa vedere una sinistra completamente depensante, asservita soltanto al vangelo del Politicamente Corretto?

«Il termine sinistra non vuol dire più nulla da tempo, si è ridotto a una parola passepartout che riguarda temi astratti come il bene pubblico, la lotta alle ineguaglianze ecc. Sinceramente, se oggi Togliatti assistesse allo spettacolo di questa sinistra, divisa in tante famigliole, e alle beghe tra Pisapia e D’Alema, scoppierebbe a piangere. Ma anche il Pd in realtà non esiste, è solo una somma di ambizioni e arroganze personali. La sua obbedienza al Politicamente Corretto sulla questione dei migranti, del femminismo militante è la ricerca di una risposta già pronta che tuttavia non risolve un bel niente».

A livello culturale, invece, la destra pare contorcersi nel dibattito tra sovranisti e indipendentisti. Tu da che parte stai?

«Quello che sta accadendo in Catalogna è una robaccia orripilante: esistono dei Paesi, delle nazioni con le loro diverse anime ed etnie, ma anche con una storia in comune. L’idea che la Catalogna diventi uno Stato è semplicemente ridicola, non credo che la stessa gente di Catalogna lo voglia. Allo stesso modo, il referendum per l’autonomia fiscale di Lombardia e Veneto non andava fatto, e i risultati possono appenderseli in bagno. È assurdo pensare che la più grande regione d’Italia voglia rendersi autonoma dall’Italia, sarebbe uno schiaffo ai Silvio Pellico, ai Carlo Cattaneo, a chi l’Italia l'ha costruita davvero».

A breve si voterà anche in Sicilia, isola dove tu sei nato e cresciuto e che più volte hai detto di “odiare”. Chiunque vinca le Regionali, pensi che l'isola resterebbe irriformabile?

«Tanto per cominciare, io concederei un’autonomia totale alla Sicilia solo per vedere l’effetto che fa. In 15 giorni l’isola andrebbe in fallimento perché non è in grado di autogestirsi: lì c’è un’evasione fiscale inverosimile e sprechi indecenti, a partire dalle commende che ricevono i deputati dell’assemblea regionale. In Sicilia hanno vinto un po' tutti nel tempo, Berlusconi, Leoluca Orlando e ora rischiano di vincere i grillini, ma la politica comunque non potrà mai farci nulla, perché i politici siciliani sono figli di quella cultura».

A proposito di grillini, un loro eventuale trionfo alle prossime Politiche come potrebbe essere riassunto in uno slogan para-sessantottino?

«Sarebbe la vittoria dei politici di professione che tuttavia non avevano una professione prima di entrare in politica. I grillini non avevano un lavoro, non avevano competenze, non avevano un curriculum e ciascuno di loro ha avuto qualche decina di preferenze. Di quanto siano sprovveduti, te ne accorgi da quello che dicono Di Battista e Di Maio: Napoleone che vince la battaglia di Auschwitz, Pinochet dittatore del Venezuela… Pensare che il più grande partito politico italiano oggi è segnato dal colossale confronto tra Fico e Di Maio mi fa semplicemente rabbrividire».

Tornando all’inizio. Il prossimo anno si celebrano i 50 anni dal '68. È tempo di dire addio anche a quella stagione o di conservarne qualche traccia positiva?

«Io sono cresciuto in quegli anni, i suoi marchi mi sono rimasti addosso, e ho passato il tempo a smacchiare buona parte di essi. Di quella stagione salvo tutta la parte di libertà, di creatività, di rottura degli schemi tradizionali e naturalmente condanno la seminagione della violenza e del fanatismo ideologico. Si tratta di un’analisi complessa da fare però, perché il Sessantotto in Italia non fu un anno ma un periodo cominciato ai primi degli anni ’60 e terminato col ritrovamento del cadavere di Moro. Indubbiamente le ricadute nel costume, nel modo di vivere, nella cultura, nei libri, nei film e nei valori di riferimento sono state enormi. Anche in politica il '68 ha inciso nel senso che molti dei politici che oggi siedono in Parlamento sono figli di quegli anni. Ma è stata la rivoluzione nella società quella decisiva. Pertanto auspico che ci sia un '68 anche nell’islam: una società più secolarizzata contribuirebbe a limitare i radicalismi e gli estremismi. Anche se, a essere onesto, non la vedo una prospettiva probabile».

«Quando nascono i tribunali muoiono le rivoluzioni». A cinquant’anni dal Sessantotto un viaggio nella memoria con il leader del movimento studentesco. Intervista di Daniele Zaccaria del 26 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco (lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria». Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti- celebrazione”, una “anti- cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake- memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».

Cosa ricordi di quella mattina?

«Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando potevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbieco una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno».

Cosa intendi?

«Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?»

Pasolini si sbagliava dunque?

«Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare».

Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita.

«Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte».

Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?

«Mi vengono in mente (oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabili nel combattimento e misericordiosi nella vittoria»».

Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto.

«Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social- confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal- liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno».

L’antisemitismo era connaturato al regime?

«No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘ 32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto».

Prego.

«I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime».

Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?

«Prendiamo il caso Traini, lo psicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci psicopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne-mi-ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”».

Qual è il più grande nemico della sinistra?

«È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula (di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere».

Il destino degli esseri umani è la ribellione?

«Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino.

E il futuro?

«Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti».

Buttiglione: “Il ’68? Aveva bisogno di Gesù invece ha scelto Marx…”. Rocco Buttiglione, filosofo allora ventenne, parla del Sessantotto. Intervista di Giulia Merlo del 25 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Lo racconta col sorriso di chi parla di una stagione felice e ingenua, com’è quella parte della giovinezza che forma il carattere e la visione del mondo. Per Rocco Buttiglione, nato a Gallipoli nel 1948, il Sessantotto è stato l’anno di una rivoluzione fatta di fede più che di lotta di classe e sfociato poi in un’organizzazione – Comunione e Liberazione – che rispondeva alle domande di una generazione con le parole del Vangelo di Giovanni. Eppure, da cattolico, si è sentito parte di quel grande movimento studentesco, ricorda le stesse piazze e, in fin dei conti, ne ha condiviso la stessa esigenza di cambiamento.

Lei a vent’anni che ragazzo era?

«Dov’ero, prima di tutto. Nel 1967 mi ero appena immatricolato alla facoltà di giurisprudenza a Torino e nel novembre di quell’anno iniziò l’occupazione studentesca di Palazzo Campana, che era la sede delle facoltà umanistiche. A Torino, però, arrivai prima, durante l’adolescenza. La mia famiglia si spostava molto e, seguendo il lavoro di mio padre, a Torino arrivai da Catania e mi volli iscrivere al liceo Massimo D’Azeglio, tempio della cultura torinese e dell’anticlericalismo. Mi consigliarono subito di ripensarci ma io mi intestardii: mi presentai in classe molto fiero del mio perfetto accento siciliano e scoprii che lì essere meridionale e cattolico non era un vanto. I torinesi erano imbevuti di cultura azionista e dunque fortemente anticattolica, mentre antimeridionali lo erano senza saperlo, gli veniva naturale».

Come stava un meridionale cattolico a Torino?

«Innanzitutto persi l’accento catanese, poi scoprii che anche i torinesi avevano i loro complessi di inferiorità. Verso l’estero, però, e in particolare nei confronti degli Stati Uniti e della scienza tedesca. Ironicamente, il fatto che parlassi correntemente inglese e tedesco riscattò il fatto che fossi meridionale e cattolico. Poi all’università trovai un porto franco: l’istituto di scienze politiche era presieduto da Alessandro Passerin d’Entrèves, professore cattolico, ma anche ex capo della resistenza e insegnante ad Oxford. Per questo suo profilo esterofilo e partigiano godeva di una sorta di immunità e aveva creato uno spazio in ateneo in cui i cattolici erano tollerati. Nel Sessantotto l’idea era che l’Università fosse nostra, un luogo in cui non eravamo ospiti e dove si imparava non un mestiere, ma un sapere critico che indagava la verità dell’uomo».

Come si spiegava questo antagonismo nei confronti dei cattolici?

«A Torino interagivano tradizioni diverse: io venivo da una famiglia che aveva combattuto la guerra contro i tedeschi e per i miei genitori la resistenza era stata la lotta per la liberazione dell’Italia. A Torino, invece, per molti la resistenza era una cosa diversa: era stata una lotta per il comunismo, interrotta dall’intervento degli americani, che sconfissero i tedeschi e occuparono il Nord, e del Vaticano, che mobilitò il popolo per votare contro un governo comunista. Ecco, per chi era cresciuto in quella prospettiva, il Sessantotto era la grande occasione per portare a termine la rivoluzione incompiuta che era stata la resistenza».

Si avvicinò allora alla politica?

«Nel 1967 fondai con un gruppo di amici Gioventù Studentesca, un movimento cattolico da cui poi nacque Comunione e Liberazione e che fu parte del movimento studentesco».

Partecipavate alle manifestazioni di piazza coi vostri colleghi dei gruppi di sinistra?

«Sì certo. Uno dei punti caratteristici del movimento era la scelta della non violenza e l’idea del sit-in. Ci siedevamo tutti, poi arrivava la polizia che ci prendeva di peso e ci portava via. Ricordo che i poliziotti ci alzavano quasi con garbo e anche con una certa simpatia nei nostri confronti. Era il novembre del 1967. Poi, l’anno dopo, mi trasferii a Roma e anche qui fondai Gioventù studentesca».

Voi cattolici vi sentivate parte del movimento giovanile?

«Nel ‘ 67 moltissimo. Non eravamo discriminati, organizzavamo i nostri controseminari ed eravamo parte di quel grande movimento generazionale. Perchè questo è stato: un enorme movimento di massa, centrato sul bruciante desiderio di rompere con l’ipocrisia della società che ci circondava e di creare rapporti nuovi, fondati sulle relazioni interpersonali. In una parola, volevamo liberarci dall’egoismo individualistico per creare una nuova comunità. La nostra era una domanda di autenticità».

E avete trovato una risposta?

«Noi pensavamo che la fede cristiana fosse la risposta. Ancora oggi, sono convinto che la grande domanda generazionale del Sessantotto fosse prima di tutto una domanda religiosa, non una domanda politica. Il terrorismo successivo, che cominciò nel 1969, nasce proprio da questo errore: l’idea di dare una risposta tutta politica a una domanda religiosa».

Quanto ha litigato coi militanti della sinistra?

«Moltissimo. Ricordo una discussione con Mario Capanna, qualche anno dopo il 1968, a Milano. Comunione e Liberazione cresceva e noi ci consideravamo parte del movimento studentesco, ma Capanna voleva spiegarci che non era vero. Io obiettai che anche noi eravamo pronti a condividere la lotta di classe come lotta per la giustizia, ma lui mi rispose che non era sufficiente. Mi disse: «Anche se dite co- sì, per voi al primo posto non ci sarà mai la lotta di classe ma Gesù Cristo. Quindi siete dei reazionari, in questa università non avete diritto di parola e non ci metterete mai piede». Sei mesi dopo, Cl vinse le elezioni alla Statale».

Il Sessantotto è stato anche il momento della rottura con un certo modello di famiglia. Lo fu anche per i cattolici?

«Anche noi, solidarmente con la nostra generazione, eravamo in rivolta contro le nostre famiglie. La differenza, però, stava nel fatto che a questa rivolta offrivamo un’altra prospettiva educativa, in chiave critica ma non di rottura. Noi pensavamo che il conflitto è un elemento necessario ma positivo, poi si deve riconciliare: contestare significa non prendere alla lettera gli insegnamenti ma verificarne la veridicità nella propria vita, mettendo alla prova i valori proposti. Contestavamo piuttosto un certo modo di essere famiglia e ci siamo riconciliati con essa cambiando profondamente i modelli di interazione familiare».

E’ stata la declinazione cattolica di quello che fu la cosiddetta “liberazione sessuale”?

«Noi l’abbiamo vissuta come l’acquisizione di libertà rispetto alla coazione familiare, ma anche l’acquisizione di una responsabilità. Una delle cose di cui sono più grato a Cl e a Don Giussani è che ci ha insegnato a innamorarci, ad avere fiducia nel nostro innamoramento, a sposarci, avere figli, fare famiglie e a vivere il sesso come forza che salda due destini individuali creando una comunità. Ecco, questo pensiero non è stato molto diffuso ed è stata una grave perdita, sia per gli uomini che per le donne».

A proposito di donne, il Sessantotto ha visto fiorire i movimenti femministi.

«Io considero il Sessantotto come un movimento largamente maschile e anche con tratti maschilisti: la liberazione sessuale è stata vissuta in modo prevaricante nei confronti delle donne. Il femminismo è emerso dopo, ma nel Sessantotto l’immagine della donna era ancora quella della segretaria, con in più la libertà di usarla sessualmente».

Quanto c’è, allora, di mitico in quella stagione vista a cinquant’anni di distanza?

«Il Sessantotto è stato una grande occasione perduta. E’ stato una speranza: per un attimo c’è stata la sensazione che un’altra vita fosse possibile, ma le mani in cui questa sensazione è stata posta erano fragili. Subito si è perduta ed è poi degenerata. In un’immagine, penso al Giudizio universale: Dio tende la mano verso l’uomo, ma questa volta l’uomo non l’ha afferrata».

In questa degenerazione c’è il lato oscuro di un movimento che oggi viene celebrato?

«Io credo che si sia vissuta una riedizione in commedia del grande dramma del Novecento, con le sue religioni secolari. In termini teologici si potrebbe dire: si mette qualcosa al posto di Dio. Quando anche l’ideale più alto viene messo al posto di Dio, questo diventa demoniaco: la giustizia sociale diventa comunismo, la nazione diventa fascismo. La politica si presentò come risposta a una domanda religiosa e si trattò di una risposta inadeguata e di per sè, dunque, rovinosa».

Perchè dice che fu l’eccesso di politica a generare il terrorismo?

«La prima esigenza dell’uomo non è la politica, ma la religione. Dal modo in cui io definisco il mio rapporto con Dio deriva anche il modo in cui definisco il mio rapporto con gli uomini e dunque la mia capacità di avere misericordia per le loro imperfezioni. I terroristi travisarono l’intuizione di portare il regno di Dio su questa terra, identificandolo con il comunismo. In quegli anni veniva citato spesso Engels, in un passo di un libretto su Ludwig Feuerbach: «L’essenza della dialettica è che tutto ciò che è merita di morire». Per loro, davanti al bene assoluto che coincideva con la rivoluzione, tutto ciò che c’era perdeva valore e meritava disprezzo».

E dunque legittimava sparare?

«Alcuni anni dopo, nel 1977, le Brigate Rosse uccisero Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa. Il figlio Andrea era militante di Lotta Continua e ricordo che scrisse un bellissimo articolo: «Anche io ho sempre detto che la lotta di classe è al primo posto, ma non immaginavo che potesse venire anche prima della dignità e del rispetto dell’uomo»».

Quando avvertì la rottura con lo spirito del Sessantotto e l’inizio della stagione successiva?

«Per me fu nel marzo del 1969. A Roma c’era una grande manifestazione di studenti delle medie, che venivano in corteo alla città universitaria. I fascisti erano asserragliati dentro a Giurisprudenza, i gruppuscoli dell’ultrasinistra stavano dentro Lettere e la grande maggioranza del movimento era fuori, perchè era una bella giornata di sole. D’un tratto, capimmo che i fascisti volevano uscire per aggredire i ragazzi, così organizzammo un cordone non violento per impedirglielo. Loro ci vennero incontro agitando le bandiere e, quando arrivarono vicini, smontarono le bandiere e tirarono fuori le mazze ferrate. Ci diedero un sacco di botte e ci sbaragliarono, fino a quando i gruppi della sinistra uscirono da Lettere e li ricacciarono dentro Giurisprudenza. Io rimediai una lesione al ginocchio, quel giorno per me è finito il Sessantotto ed è iniziata un’altra storia».

Con il 1969 cominciò un’altra storia.

«Anche nel movimento del Sessantotto c’erano i gruppi dell’ultrasinistra, ma erano fondati su un’idea di comunismo comunitario, che i marxisti definirebbero di socialismo utopistico. I gruppi armati di scienza marxista- leninista e mazze ferrate vennero dopo, e occuparono il campo. Da allora il movimento di massa finì, chi parlava a nome degli studenti non era più uno studente, la partecipazione crollò drammaticamente. Iconograficamente, il passaggio si compì quando, in manifestazione, smettemmo di chiedere “Vietnam libero” e si iniziò a urlare “Vietnam rosso”».

Cosa ha spinto quegli stessi giovani a prendere le armi?

«Le cito un capitolo della Fenomenologia dello spirito di Hegel, che si intitola “La libertà assoluta e il terrore”. Ecco, il tentativo di realizzare la libertà assoluta in chiave politica induce a rivolgersi con spietata violenza contro tutto ciò che c’è, perchè nulla è adeguato all’ideale. L’uomo di ieri va spazzato via perchè totalmente corrotto e i riformisti, quelli che identificano il cambiamento come un percorso a tappe, sono dei traditori. I gruppi che imbracciarono le armi si consideravano gli unici depositari della giusta visione, mentre tutti gli altri erano massa dannata. Nel loro calvinismo rivoluzionario furono indotti a svalutare ogni limite, soprattutto quello della legge, pur di mettere la lotta di classe al primo posto».

In che modo, invece, Cl ha guidato quella stessa generazione?

«Cl era un fenomeno di massa e col tempo divenne largamente maggioritario tra gli studenti attivi, vincendo tutte le elezioni universitarie. Il legante che ci cementava come gruppo sta nel nome stesso: la risposta alla domanda di liberazione dei giovani è la comunione cristiana. Questo ha significato amicizie che duravano una vita, sostegno nelle necessità materiali, creazione di una comunità che nasceva dall’incontro con Cristo come rottura dell’individualismo edonistico. Leggevamo spesso il Vangelo di Giovanni, capitolo XV e seguenti, in cui è contenuta la metafora della vite e dei tralci: chi riconosce Cristo come sua identità vera diventa più che un fratello e nasce un legame che è più forte di quella della carne. Io sono convinto che la fede fosse la risposta alla crisi di quella generazione».

Eppure verrebbe da obiettarle che, per soddisfare la richiesta di cambiamento di cui lei diceva all’inizio, la politica fosse la strada obbligata.

«Io amo la politica e l’ho fatta per 24 anni, ma per fare una politica realistica bisogna fare i conti con gli uomini per come sono e avere la capacità di perdonare al finito il fatto di non essere infinito. Questo si può fare solo capendo che la società è imperfetta: si può provare a renderla meno imperfetta, ma essa non sarà mai il regno di Dio. In altre parole, la domanda di regno di Dio deve trovare una risposta in qualcosa di diverso dalla società stessa, perchè altrimenti si tenta di imporre al terreno una perfezione che non è in grado di raggiungere. Ecco, solo sapendo che il regno di Dio non è di questo mondo ma che è il modello dal quale partire per migliorarlo, si può fare bene politica».

Dunque è stato sbagliato mitizzare quella stagione, che tanto ha inciso su quella successiva, caratterizzata dal terrorismo?

«Quando tenti di spiccare il volo ma non ce la fai, cadi e ti fai male. Non per questo, però, era sbagliato provare a volare».

Banda Baader-Meinhof. Le idee, le bombe, i suicidi, “sospetti”. Nel 1968 in Germania si forma il gruppo terroristico Raf. E scoppia l’autunno caldo, scrive Paolo Delgado l'8 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Li chiamavano “Banda Baader- Meinhof” e i media tedeschi li definivano comunemente “anarchici”, oltre che naturalmente “terroristi”. In realtà il nome che si erano dati era Raf, Rote Armee Fraktion, Frazione dell’armata rossa, ed erano comunisti con forte venatura terzomondista. Per sconfiggerli, lo Stato varò leggi eccezionali infinitamente più dure di quelle adoperate in Italia contro le Br. Calpestò ogni diritto, umano e civile. Fu il momento più tragico della storia della Germania ovest nel dopoguerra: “l’autunno tedesco”. Bettina Rohl, figlia di Ulrike Meinhof, una delle più famose esponenti del gruppo, ha segnalato in una recente intervista quanto, secondo lei, la separazione dei genitori sia stata determinante nella scelta estrema di sua madre. Materiale sufficiente per consentire qualche titolo a effetto sul terrorismo tedesco derivato dalle sofferenze private di Ulrike, giornalista molto nota negli anni anni 60. In realtà neppure Bettina Rohl accenna una tesi così balzana. Si limita ad affermare che il “tradimento” di suo padre Klaus Rohl, direttore della rivista radicale tedesca Konkret, la stessa dove aveva a lungo lavorato Ulrike, avesse fatto vacillare l’equilibrio mentale della madre, spingendola nelle braccia dell’Armata rossa. È anche questa una forzatura. Iscritta al Partito comunista illegale sin dal 1959, poi redattrice di punta dell’infiammata Konkret, Ulrike Menhoif era sempre stata schierata su posizioni molto estreme. E’ possibile che l’abbandono da parte di Rohl abbia pesato sulla sua decisione, ma certamente fu più determinate la situazione che si era creata in Germania ovest alla fine degli anni 60. Lo stesso clima incandescente che aveva portato alla nascita della Raf, gruppo armato longevo il cui scioglimento fu annunciato solo nel 1998, con numerosi attentati spettacolari all’attivo e un bilancio di sangue pesante: 33 vittime, oltre 200 feriti. Più una sfilza impressionante di suicidi, su molti dei quali non hanno mai smesso di aleggiare sospetti di omicidio camuffato, tra cui quello della stessa Ulrike Meinhof. Il ‘ 68 tedesco inizia in realtà il 2 giugno 1967. Quel giorno, nel corso delle manifestazioni contro la visita dello Scià di Persia, uno studente di 27 anni, Benno Ohnesorg fu ucciso da un poliziotto a Berlino. La situazione era già tesa di per sé. Per la prima volta era al governo una Grosse Koalition e i già esigui spazi d’opposizione, con il partito comunista fuori legge, si erano definitiva- mente chiusi. Il capo del governo, Kurt Georg Kiesinger, aveva avuto in tasca la tessera nazista fino al 1945. Ex nazisti di spicco erano disseminati un po’ ovunque nella pubblica amministrazione. L’assassinio di Ohnesorg suscitò tra i giovani una reazione fortissima, che si tradusse nella nascita di un diffuso movimento rivoluzionario che coniugava spesso confusamente marxismo, terzomondismo e suggestioni controculturali. Dal quel terreno sarebbero presto nati i gruppi armati, come la stessa Raf, le Cellule rivoluzionarie, il Movimento 2 Giugno di Bommi Bauman, che prendeva il nome proprio dalla data dell’uccisione di Ohnesorg. Il 2 aprile 1968 quattro studenti, tra cui Andreas Baader e Gudrun Ensslin, diedero fuoco alla sede di due grandi magazzini a Francoforte per protesta contro la guerra in Vietnam. Meno di dieci giorni dopo il leader della Sds, guida del movimento studentesco, Rudi Dutschke fu ferito gravemente da un neofascista dopo una campagna martellante contro il movimento e contro Dutschke personalmente dei giornali del gruppo Springer. La Germania prese fuoco. Le manifestazioni furono violentissime, costellate da attacchi ai giornali di Springer. Gli attentatori di Francoforte furono condannati a tre anni, con pena temporaneamente sospesa nel giugno 1969. Cinque mesi dopo, in novembre, fu spiccato un nuovo ordine di arresto ma a quel punto tre di loro, tra cui Baader e Ensslin erano già riparati in Francia, ospiti del giornalista amico di Castro e di Guevara Regis Debray. Baader fu catturato nell’aprile 1970: meno di un mese dopo fu fatto evadere grazie all’aiuto di Ulrike Meinhof. Il ruolo della giornalista, che aveva chiesto un’intervista per far sì che il leader della Raf venisse spostato dal carcere permettendo l’evasione, avrebbe dovuto restare ignoto. Ma nell’imprevisto scontro a fuoco ci scappò un ferito grave e la giornalista decise di seguire Baader e la Ensslin in clandestinità. La Raf propriamente detta nacque allora. Il gruppo si trasferì in Libano, fu addestrato all’uso delle armi nei campi del Fronte popolare della Palestina. Strinse legami fortissimi con i palestinesi e probabilmente anche con qualche servizio segreto dell’est. Scelse il nome e il simbolo, pare commissionato da Baader a un grafico pubblicitario debitamente pagato: la stella rossa col mitra sovraimpresso e il nome del gruppo. Iniziarono le rapine e gli attentati, molti segnati dall’antimperialismo ma molti anche contro le propietà di Springer. La Raf diventò il pericolo pubblico numero 1 in Germania, oggetto di una caccia all’uomo di proporzioni inaudite che si concluse con l’arresto di tutti i dirigenti nel giugno 1972. Una nuova generazione di militanti riempì però i vuoti lasciati dagli arresti e iniziò allora la fase più tragica della storia tedesca nel dopoguerra. I detenuti furono rinchusi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, un inferno lastricato di isolamento assoluto, luci sempre accese, controlli permanenti. Nel 1974 Holger Meins proclamò uno sciopero della fame per protesta e ne morì. Nel 1976 morì anche la Meinhof: un altro suicidio. In occasione dell’inizio del processo ai capi della Raf, nell’aprile 1977, il gruppo uccise il pubblico ministero, Siegfried Buback, con l’autista e la guardia del corpo. In luglio fu colpito a morte il banchiere Hans Jurgen Ponto. Il 5 settembre fu sequestrato a Colonia il presidente della Confindustria tedesca, in un attacco che fece da modello al sequestro Moro. I quattro uomini della scorta furono uccisi. La Raf chiese il rilascio dei detenuti, lo Stato prese tempo pur avendo già deciso di non trattare. In ottobre l’Fplp si unì all’operazione con uno spettacolare dirottamento aereo. Per il rilascio degli ostaggi avanzò le stesse richieste dei rapitori di Schleyer, aggiungendo alla lista due detenuti palestinesi. Le teste di cuoio tedesche attaccarono l’aereo in sosta a Mogadiscio uccidendo quasi tutti i sequestratori. La stessa notte Baader, la Ensslin a Jan- Carl Raspe si suicidarono a Stammheim. Sulla loro morte, come su quella di Ulrike Meinhof non è mai stata fatta davvero chiarezza. Schleyer fu ucciso il giorno dopo. L’autunno tedesco durò ancora a lungo.

Il disastroso fallimento del ’68 e della rivoluzione sessuale, scrive il 10 febbraio 2013 "L'Unione Cristiani Cattolici Razionali".  A posteriori possiamo tranquillamente dire che le rivoluzioni sessantottine sono chiaramente fallite: non in quanto non si sono realizzate, ma proprio perché hanno acquisito il loro posto centrale nella mentalità degli europei. La colpa più grave delle sciocche ribellioni dei sessantottini è certamente quella di aver creato degli eterni bambini, incapaci di educare e di essere testimoni credibili per le generazioni future (compresa la nostra). Ribellione all’autorità, libertinismo, laicismo, antiproibizionismo ecc. non hanno liberato l’uomo, lo hanno reso solo più solo, più schiavo dei suoi vizi e più impaurito della realtà. Antonio Polito, editorialista de Il Corriere della Sera, nel suo ultimo libro Contro i papà (Rizzoli 2012) ha proprio spiegato come la generazione che è passata dal ’68 abbia rovinato i giovani di oggi: «i nostri figli non hanno più trovato in noi qualcuno cui opporsi, uno stimolo a crescere, a rendersi indipendenti. Dal 6 politico all’università facile, fino al lavoro come diritto. Siamo la prima generazione che ha disobbedito ai nostri padri per obbedire ai nostri figli. Ci siamo liberati al padre, abbiamo fatto la rivoluzione contro la sua autorità, e ora coi nostri figli facciamo appello al negoziato. Abbiamo trasmesso loro il diritto al benessere, senza nessun dovere connesso». Così, spiega Polito, il problema dei figli bamboccioni (niente studio né lavoro) è «un problema culturale», per questo invita i genitori di oggi a comportarsi all’opposto dei loro padri rivoluzionari: «sfidate i figli, opponetevi se necessario, ma non fare il muro di gomma. Con i figli occorre starci, starci e ancora starci». Antonio Scurati si concentra sulla rivoluzione sessuale anche se non vuole nemmeno definirla “rivoluzione”, ha spiegato su La Stampa: «Di tutte le rivoluzioni mancate – o fallite – dalla sinistra sedicente rivoluzionaria, la rivoluzione sessuale è stata la più fallimentare. Sul terreno ha lasciato quasi solo rovine: tra le più ingombranti, e irremovibili, spiccano la crisi della famiglia (non il suo superamento, si badi bene) e la mastodontica mole sociale della frustrazione sessuale». Il dilagare della pornografia, al maschile e al femminile lo dimostra (il 30% del traffico in rete è destinato al porno). Continua lo scrittore: «Siamo tutti, personaggi di finzione e persone reali, parimenti prigionieri dell’ideologia del sesso. In un pomeriggio di noia abbiamo spostato sul sesso l’intera posta metafisica che il secolo precedente, quello romantico, aveva giocato sull’amore, ultima religione dell’Occidente». Antonio Socci ha ripreso questo articolo, affermando a sua volta: «Il sesso parlato, immaginato, guardato, venduto, comprato, praticato, modulato in mille varianti – diventato ossessione di massa e, con la rete, prodotto di vasto consumo – sembra sia l’unica rivoluzione vera scaturita dal ’68 “desiderante”». E ancora: «la marxistissima generazione del ’68 ha dato un decisivo contributo alla più capitalistica e borghese delle rivoluzioni, erigendo il desiderio a pretesa assoluta e così spianando la strada a un’industria della sessualità e del suo immaginario che rende merce i rapporti affettivi e pure i corpi. La famosa e celebrata liberazione sessuale del Novecento si è risolta in realtà in una nuova alienazione, in una servitù volontaria di massa e in una pratica di controllo dei corpi e delle menti fra le più pervasive». Gli ideatori della rivoluzione sessuale del ’68 avevano un chiaro intento di sopprimere la vecchia morale sessuale giudaico-cristiana, considerata repressiva, sessuofoba e arretrata. Tuttavia Socci, conclude la sua riflessione con una bella apertura: «Io che professo tutti gli insegnamenti morali della Chiesa cattolica, che li ritengo anzi liberanti e pieni di sapienza, e che sento come una violenza psicologica e spirituale, soprattutto per i più giovani, questa sessuomania dilagante, questa aggressione pornografica onnipresente, voglio dire che anche la cosiddetta rivoluzione sessuale ci parla dell’inestirpabile desiderio di Dio. E della sua mancanza. Del doloroso vuoto di Lui che ci risucchia nel suo gorgo, anche attraverso la carne».

1968, il fallimento degli adulti che i giovani hanno pagato. Un’istanza di maggiore autenticità – percepita come tradita nella generazione adulta – è stata la base del movimento. Il ‘68 creò nei giovani l’illusione di poter soddisfare l’urgenza di autenticità ripartendo unicamente da se stessi: questo l’errore mortale, scrive il 3 aprile 2008 Pier Alberto Albertazzi su "Il Sussidiario". Facendo un rapido calcolo, chi parla oggi del 1968 sta mediamente per raggiungere - o ha da poco superato - i 60 anni e parla quindi della propria giovinezza. Non può quindi stupire che gran parte di costoro trovi quegli anni entusiasmanti e ne abbia nostalgia; né che qualcuno - allora protagonista delle prime pagine dei giornali e a capo di folle che ora evidentemente gli mancano molto, per come ne è in cerca – li trovi addirittura formidabili. Ma ci sono anche tanti cui la giovinezza in quegli anni fu sottratta, proprio dal “68”. Il primo dato da considerare è che il fenomeno di cui si parla, originariamente - cioè negli anni 1967-68 - riguardò quasi senza eccezioni un’intera generazione in Europa, nelle Americhe ed anche oltre. Si trattò di un fenomeno insorto in tanti paesi per lo scontro tra la prima generazione entrata in università senza aver dovuto fare i conti col dolore della guerra né con l’entusiasmo e la gratitudine della ricostruzione, e la generazione che si trovava allora al potere. Un testimone appassionato di quegli eventi definiva questa fase nascente del ‘68 come caratterizzata da una «istanza di maggiore autenticità di vita, della vita pubblica», una «urgenza di autenticità nel vivere sociale dettata da una irrequietezza che implicava la ricerca di un’autenticità anche per la persona», un «impegno a una trasformazione globale della società…… per affermare l’autenticità al posto dell’equivoco, della menzogna, della maschera di cui si viveva». Quella urgenza veniva percepita come assente, di più, tradita nella generazione adulta la quale aveva appena cominciato a tirare il fiato e a godersi il livello di benessere raggiunto al termine della ricostruzione post-bellica. La percezione di questo tradimento ebbe due versioni principali. I comunisti avevano tradito perché avevano impedito che la resistenza sfociasse in una vera rivoluzione. I nemici di classe erano ancora tutti lì, al potere. Bisognava tornare alla resistenza per abbattere quei nemici, itinerario che alcuni percorsero tanto coerentemente da giungere a riorganizzare la lotta armata. I cattolici vedevano i loro padri al potere in uno stato dove le disuguaglianze erano ancora immense e non sembrava che se ne facessero carico come necessario. Bisognava perciò “tornare” ad un cristianesimo capace di battersi contro le ingiustizie e di abbracciare sul piano sociale le lotte dei poveri e degli sfruttati. In realtà, quello che veniva rifiutato non era solo una tradizione ritenuta inadeguata ma la sua necessità stessa. Ripartiamo da noi! Un’illusione che li avrebbe resi schiavi (spesso inavvertiti) di alcune delle peggiori tradizioni e li avrebbe portati a riconoscere come propri maestri pensatori e leader politici che avevano ispirato e costruito alcune delle società più oppressive e inautentiche della storia. Com’era da aspettarsi, i due principali filoni (comunista e cattolico) finirono per confluire e dalle file cattoliche vennero, in effetti, molti che abbracciarono non solo la contestazione, ma poi anche le forme di politica più violenta fino all’uso delle armi: ma per la “Giustizia”, questo e altro! All’inizio, tuttavia, il ‘68 fu veramente un fenomeno partecipativo e aperto. Nelle prime assemblee del 1967 nella facoltà di Medicina a Milano, ad esempio, anche gli studenti del Fuan ( il movimento giovanile dell’allora Msi) intervenivano contribuendo ai progetti di una “università diversa” per i quali si utilizzavano i testi di don Milani, il cui discorso su autorità e obbedienza non era come talora viene dipinto (d’altra parte in pochi posti si ubbidiva così ferreamente come nella sua scuola) ma intendeva sottolineare l’indispensabilità di una educazione non autoritaria e capace di sviluppare la libertà e la responsabilità di ciascun giovane: per questo erano necessarie figure “autorevoli” (lui per i suoi ragazzi lo era), proprio quelle che la giovane generazione di quegli anni (1968 e seguenti) non riconobbe o perché non c’erano, o perché non li seppe riconoscere, o perché sbagliò a trovarli, illudendosi. Gli sviluppi successivi a questo inizio ricco di istanze e urgenze condivisibili e condivise furono, come si sa, molto diversi sia a causa dell’errore mortale in esso insito (per costruire il nuovo dobbiamo partire solo da noi) sia per una serie di nuovi fenomeni quali l’ingresso in massa di attivisti rivoluzionari professionisti nelle schiere studentesche in rivolta; il gioco dei partiti a cavalcare tale rivolta (e a scavalcarsi in questo); l’intrusione possibile, in moti così profondi e diffusi, anche di altre organizzazioni, le più varie, in modi comprensibilmente mai del tutto chiariti. Ma chi ha pagato, alla fine, sono stati soprattutto gli studenti. Molti, è vero, hanno fatto carriera, forse proprio grazie ai “meriti” di quel tempo. Molti però hanno avuto la vita rovinata o tolta. Vorrei limitarmi ad un esempio e ad un ricordo, anche come riconoscimento pubblico (pur in questo minuto angolo) della figura di Carlo Saronio, ragazzo di ricca famiglia di una bontà, purità e nobiltà d’animo rara il quale, penso per la propria generosità, seguendo amici che amici non erano, finì poco più che ventenne sotto pochi palmi di terra, oscuramente. Una delle vicende più atroci, ma simbolica di centinaia di altre vite finite in rovina seguendo una falsa, e non più sopportabile ad un certo punto, illusione. Dov’ero io in quegli anni? Ero con non pochi amici nelle aule e nei cortili di Città Studi e della Statale di Milano, anche se non avevamo l’”agibilità politica”. Avevamo però qualcosa da vivere che né i servizi d’ordine istruiti ed equipaggiati militarmente né la riedizione dell’opera omnia di Stalin potevano impedire o tacitare. Anzi, ci eravamo persino messi a scrivere un bollettino che avevamo chiamato un po’ pomposamente “Comunione e Liberazione”: come titolo non piaceva a nessuno, ma indicava in modo esplicito qualcosa che noi avevamo incontrato, che c’entrava con l’ansia di quegli anni e di cui volevamo poter parlare anche agli altri nostri compagni. Riuscivamo anche a diffonderlo (pur con una certa circospezione), tanto che cominciammo a essere identificati come quelli che facevano circolare il bollettino “Comunione e Liberazione”, quelli di CL cioè, da scovare ed espellere dall’università. Perché correre tanti rischi? Semplice. Gli amici che se ne stavano andando nelle file del “movimento studentesco”, e che io stavo perdendo, erano stati per me tramite di un incontro con un Maestro che non mi stava deludendo di fronte a questa istanza di autenticità umana. Anzi. Né mi avrebbe deluso mai in seguito. L. Giussani. La lunga marcia dell’educazione. Intervento del 1971. In “Tracce”, marzo 2008, Milano

1968, la rivoluzione è un cold case, dai “famosi” di Valle Giulia all’eskimo di Guccini. Su Fq MillenniuM in edicola. Ferrara, Liguori, Galli della Loggia, Mieli, Fuksas... E Michele Placido con il casco da celerino. Cinquant'anni dopo l'inizio della rivolta, il mensile del Fatto fa raccontare i celebri scontri "cantati" da Pasolini a quelli che c'erano, e poi hanno fatto carriera. E il grande cantautore racconta quegli in un testo inedito, partendo da una delle sue canzoni più famose. Lo storico Giovanni De Luna torna a palazzo Campana a Torino, dove tutto ebbe inizio (nel novembre del '67), scrive Mario Portanova il 6 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Immaginate una giornata di scontri di piazza durissimi: botte, sassi, molotov, almeno 400 feriti. Al posto dei black bloc, però, ci sono Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Paolo Mieli, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Flores d’Arcais, Claudio Petruccioli, Bernardo Bertolucci, Massimiliano Fuksas… E sul fronte opposto, sotto il casco da “celerino”, Michele Placido. Sono solo alcuni dei futuri famosi che il primo marzo 1968 presero parte alla battaglia di Valle Giulia, quella che poi Pasolini eternò nei versi sui poliziotti figli del popolo, schierandosi contro gli studenti “borghesi”. Versi periodicamente riesumati, da destra e non solo, quando volano manganellate. Alcuni di quei famosi ricostruiscono, mezzo secolo dopo, quella giornata storica in un’inchiesta di Fq MillenniuM, il mensile del Fatto diretto da Peter Gomez, da sabato 7 ottobre in edicola con un numero largamente dedicato al ’68. “Mi ricordo un dibattito piuttosto divertente sulle azioni da compiere: qualcuno propose di cominciare a lanciare i sassi, ma poi si disse che i sassi ce li avrebbero rilanciati. Allora si decise per le uova, perché una volta lanciate non potevano tornare indietro”, svela per esempio l’odierna archistar Fuksas. Fq MillenniuM approfondisce un aspetto dimenticato: la presenza a Valle Giulia di gruppi di fascisti (capitanati da un altro famoso, il leader di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie) che si diedero parecchio da fare nelle azioni più violente (sulle prove tecniche di strategia della tensione dei “neri”, Fq MillenniuM pubblica un’inchiesta di Gianni Barbacetto). E Pasolini? A parte che nessuno ricorda il brano di quella stessa poesia in cui l’intellettuale chiarisce “siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”, la sua presa di posizione divide ancora oggi. “Inopportuna”, secondo Lanfranco Pace, oggi giornalista, allora in piazza a Roma e poi fra i leader di Potere operaio. “La distanza tra molti degli studenti e quei poliziotti era palese”, afferma invece Galli della Loggia, oggi commentatore del Corriere della Sera. “I volti degli uomini in divisa erano davvero volti di contadini”. Per Liguori, che poi andò in Lotta Continua e oggi dirige Tgcom24, fu invece “una risposta viscerale di un intellettuale che ci voleva bene”. “E quanto son cambiato allora”, canta Francesco Guccini in Eskimo. Il grande cantautore scrive per Fq MillenniuM un testo che dal suo ’68 arriva ai giorni nostri: “Non feci mai parte di nessun gruppetto o movimento”, rievoca. “Ho un ricordo lontano di un sentimento di sospetto verso il Partito comunista. Del resto nutrivo una certa simpatia, anche se un po’ superficiale, per alcune frange anarchiche”. Il ’68 italiano esplode in realtà il 27 novembre 1967, con l’occupazione di palazzo Campana a Torino. Il mensile torna sul luogo del “delitto” con lo storico Giovanni De Luna, a riscoprire vecchie scritte preservate dalle ristrutturazioni (“Il potere politico sta nelle canne dei fucili”, Mao Tse-tung) e a rivivere il clima di quegli anni. A partire dal baronaggio spietato (oggi tutt’altro che scomparso, dicono le cronache), come quello di un grande italianista che agli esami faceva indossare le pattine per non rovinare il parquet e ti bocciava se incespicavi. Ha senso rivangare il ’68, oggi, quando i suoi protagonisti sono per lo più incanutiti, imborghesiti, accomodati? Fq MillenniuM cerca di raccontare, come si fa con un cold case, un momento storico che ha scosso il mondo. E di sgomberare il campo dalle opposte retoriche che, come spesso succede, annebbiano i fatti.

1968, quando la laurea era un tesoro e gli emigranti spedivano in patria 5 miliardi. Solo un quarto delle famiglie possedeva sia la tv sia la lavatrice sia l'auto: il 23% non aveva nessuna delle tre. La lavastoviglie, poi, era un'aspirazione alla portata di meno del 3% della popolazione. In compenso per comprarsi una 500 nuova bastavano cinque stipendi. E chi aveva proseguito gli studi dopo le superiori guadagnava più del doppio della media, scrive Chiara Brusini il 14 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Gli italiani erano 53 milioni e sognavano la Nuova 500 e la tv Urania con il tubo catodico, ovviamente in bianco e nero. I nostri emigranti spedivano ogni anno in patria l’equivalente di 5,6 miliardi di euro, più o meno pari alle rimesse che oggi gli immigrati in Italia inviano nei Paesi di provenienza. I laureati guadagnavano più del doppio della media. E solo un quarto delle famiglie possedeva sia la tv sia la lavatrice sia l’auto: il 23% non aveva nessuna delle tre. La lavastoviglie, poi, era un’aspirazione alla portata di meno del 3% della popolazione. Correva l’anno 1968, quello a cui è dedicato il numero di FqMillenniuM in edicola da sabato 7 ottobre. Per capire come stavano gli italiani torna utile una delle prime indagini su risparmio e struttura della ricchezza dei residenti, pubblicata l’anno dopo dalla Banca d’Italia guidata allora da Guido Carli. Il reddito medio di un nucleo familiare, rilevavano gli analisti di via Nazionale, era di 1,6 milioni di lire all’anno. Ma i pochi che avevano proseguito gli studi dopo le superiori arrivavano a prendere in media 2,5 milioni (contro le 600mila lire degli analfabeti). E’ l’equivalente di 35mila euro attuali. Ai laureati di oggi va molto peggio: il reddito medio è di 17.500 euro annui. Nonostante le differenze legate al titolo di studio, l’Italia del ’68 era ancora un Paese con un tasso di disuguaglianza molto basso. Le famiglie che ricadevano nei primi tre decili – in soldoni le più povere – percepivano il 35% del reddito totale. Nel 2014, per fare un confronto, quella quota è scesa all’11,7%. Il 37,4% delle uscite mensili del resto era destinato all’acquisto di alimentari: oggi la percentuale si ferma al 17,7%. In compenso gli elettrodomestici erano un lusso: solo un quarto della popolazione aveva l’aspirapolvere e meno del 40% possedeva la lavatrice. Le percentuali salivano rispettivamente al 68 e all’85% tra chi aveva redditi oltre i 3,5 milioni di lire. Ma anche nelle case di questi Paperoni la lavastoviglie era una comodità poco diffusa: ce l’avevano solo 3 su 10. L’auto, in compenso, stava diventando un bene di massa. Nella Penisola ne circolavano solo 9,2 milioni, contro i 38 milioni di oggi, e i listini di casa Fiat consentivano a quasi tutti i lavoratori di metterne una in garage. A un under 30 bastavano cinque stipendi per comprarsi una 500 nuova. Se era laureato, quattro erano più che sufficienti. Oggi, stando ai dati Istat, la famiglia di un 35enne deve metterne da parte quasi sette per portare a casa una Nuova Fiat 500 a benzina, modello base. La passione degli italiani per il mattone, poi, era già scoppiata ma stava iniziando solo da pochi anni a mostrare i propri effetti: le famiglie con casa di proprietà erano il 49% del totale contro il 41,7% del 1961. Oggi la quota è del 78%. Tuttavia, ricordava Bankitalia, “i movimenti interni di popolazione, sia in senso verticale (Sud-Nord) che orizzontale (campagna-città), interessando in prevalenza gruppi di famiglie a basso reddito, si accompagnano nei primi anni dell’insediamento a un’elevata diffusione della locazione”. L’affitto era comunque ben più abbordabile di oggi: in media la pigione ammontava al 14% del reddito. Oggi, sempre secondo via Nazionale, l’incidenza è del 23%. Che cosa succedeva nei tanti appartamenti di studenti trasformati in “comuni” è un’altra storia.

Il Sessantotto è morto, viva il Sessantotto, scrive Aldo Ricci il 13 e 16 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il ’68 lo feci, o meglio ci passai a/traverso, presso l’ancor Libera Università di Trento. Su quell’esperienza e sulle sue conseguenze ho scritto tre saggi, diversi articoli nonché un romanzo-saggio introvabile perché ritirato, si fa per dire, dal mercato. Secondo Mauro Rostagno, nel movimento anti/autoritario trentino ero: “L’opposizione costituzionale interna”. Vale a dire che pur facendo parte del movimento, lo contestavo dall’interno, dato che, non essendo né marxista, né operaista, né tantomeno rivoluzionario, ritenevo che la nostra fosse più una rivolta generazionale, piuttosto che una vera e propria rivoluzione sessuale & culturale già avvenuta nei paesi più avanzati. Ciò premesso, posso affermare con orgoglio che, grazie al mio contro/corso “Psicoanalisi e Società repressiva”, quella di Trento fu la prima università italiana dove la psicoanalisi, dopo decenni di ostracismo fascio-catto-comunista, venne ufficialmente ammessa negli atenei italiani. Per non dire poi degli incontri-confronti con Franco Basaglia, e della ricerca nelle carceri italiane poi best seller Einaudi, nonché libro di testo in diverse università italiane. Su FQ Millennium, il magazine del Fatto che Peter Gomez ha dedicato al cinquantenario del ’68, quest’ultimo, che in quella di Trento e in altre università italiane iniziò nel ’67, era già esploso a Berkeley nel ’64, come dire che le radici del movimento nostrano, venne influenzato dalla contestazione studentesca, nonché dalla saggistica e dalla letteratura americane. Tornando alla non facile sintesi di Millennium, il suo direttore, non potendo ovviamente dare la parola a tutti i protagonisti, ha finito per darla a “quelli che ce l’hanno fatta” – piuttosto che a quelli che non ce l’hanno voluta fare – i quali si sono affermati nei media, nella politica e nelle professioni così/dette liberali, e/o perché rimasti all’interno degli schieramenti formalmente de sinistra, come Capanna, D’Alema, Mieli, Moretti, Strada, etc. A quest’ultimi vanno aggiunti coloro che, come Capuozzo, Cicchitto, Ferrara, Mughini, Pecorella, etc., si son ritrovati a destra. A questi vanno aggiunti i trasversali, a partire da quel Sofri Adriano che “finita la baldoria anche se condannato a 22 anni di carcere per l’omicidio Calabresi – dettaglia Massimo Fini – divenne editorialista del più importante quotidiano di sinistra, La Repubblica, e del più venduto quotidiano di destra, Panorama, Leonardo Marino rimase a vendere le frittelle a Bocca di Magra”. Ma comunque sia o sia stato, cosa rimane oggi di quell’anno famigerato? “L’orgoglio d’aver anticipato la modernità – risponde lo storico Giovanni De Luna – non c’è nessuno di noi che sia diventato un maestro, non abbiamo lasciato discepoli. Eravamo estranei al potere e volevamo mettere la maggior distanza possibile dai poteri: così alcuni di noi, dopo, sono finiti ad adorare compiaciuti il potere, mentre altri hanno mantenuto una estraneità assoluta al Potere”. Come per esempio Oreste Scalzone di Potere Operaio o Vincenzo Sparagna fondatore di Frigidaire, nonché tutti coloro che presero le distanze da quelli che il successo lo ottennero facendo li froci cor culo dell’artri, c’est a dire alla faccia di quelli che, a torto o a ragione, tentarono a proprio rischio e pericolo di ribaltare il sistema e non di miglioralo, né tantomeno di co-gestirlo, pagando con anni di galera, come nel caso di Curcio and CO; oppure saldando il conto in termini di auto-emarginazione, droga, suicidio & via discorrendo. Keith Richards, ma sì proprio il chitarrista dei Rolling Stones, nel suo poderoso Life steso con James Fox – una lettura da raccomandare a tutti i pallosissimi estensori di gran parte dei documenti politici e dell’indigesta saggistica sessantottarda – a proposito dell’occupazione della Sapienza nel ’67, dettaglia: “Si respirava anche un’aria di rivoluzione, molte sfumature politiche, tutte bazzecole tranne le Brigate Rosse che arriveranno più tardi. Prima delle rivolte di Parigi dell’anno seguente, gli studenti avevano dato vita a una contestazione all’Università di Roma, dove andai anch’io. Si erano barricati, ma qualcuno mi fece entrare di straforo. Erano un fuoco di paglia, come rivoluzionari”. Punto di vista che combacia con quello di Massimo Fini: “I sessantottini come rivoluzionari erano farlocchi, ma tutt’altro che innocenti”.

Ai sessantottini furbi, quelli che per esempio imposero il 30 politico, che poi finì per devastare la credibilità dell’università italiana, vanno aggiunte frotte di emuli tornacontisti: artisti, intellettuali, imprenditori & via discorrendo. Come, per esempio, quel quotatissimo artista già patron di una nota casa farmaceutica, che soleva girare con il distintivo di Mao Tse Tung in punta di berretto made in China. O quel compagno tridentino che più di sinistra di così, mentre oggi docente universitario nella stessa università, si pasce della sua scintillante Jaguar. O quell’ex contestatore doc che, sempre a Trento, organizzò una colletta, a cui gli artisti dell’arte povera così/detta parteciparono donando opere poi vendute all’asta, per acquistare una partita di armi… anche se c’è chi ancor oggi sostiene che ciò sarebbe frutto di fantasia, visto & considerato che, sempre secondo costoro, le Br non presero le mosse all’università tridentina, come taluni futuri membri di Lotta Indefessa ancora sostengono, al contrario di Mauro Rostagno che, dopo esserne uscito, produsse il manifesto Dopo Marx, aprile dichiarando: “Io, marxista d’avanguardia, una cagata senza precedenti” – la ragione principale della sua rimozione da parte dei suoi ex amici, fatto salvo Curcio che alla domanda di chi avesse ammazzato Rostagno, tra l’altro rispose: “Lo hanno ucciso perché ha detto, non dicendole in fondo, delle verità che sconquassano gli assetti del potere politico, perché ha tradito la solidarietà di chi infine si è legato a gruppi di potere che lui non amava, che lui non poteva accettare e ai quali non ha mai appartenuto. Per questo l’hanno ucciso!”. Che dire infine di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore di sinistra per antonomasia, nonché “rivoluzionario dilettante di notte e padrone feroce, micragnoso e spilorcio in casa editrice” –  precisa Massimo Fini citando la seconda moglie del fu editore, vale a dire Sibilla Melega la quale, nella sua residenza nei pressi di Villach, quasi mi ammazzò dalle risate a forza di aneddoti sui vari tipi di travestimento, a cui il grande editore ricorreva per passare inosservato su un’ammaccata Volkswagen, tutte le volte che varcava la frontiera austriaca, per recarsi indisturbato nella sua immensa proprietà terriera in Carinzia. Cosa lascia in eredità il ’68? Lo svecchiamento e la conseguente modernizzazione di questo ex bel paesino, bigotto, retrogrado e conservatore, aprendo a diritti civili già acquisti in altri paesi e società. Una liberazione sessuale sotto forma di ideale collettivo anche se, secondo Jean Baudrillard, si trattò di un’ulteriore ascesa dell’individualismo, il che è tutt’altro che negativo in un paese tradizionalmente pecorone e conformista. Infine, e soprattutto, il radicalismo chic e il politically correct che a quanto pare stanno favorendo le destre europee. Cosa poi ne sia stato dei suoi protagonisti, partecipanti e comparse, dipese dal fatto che essi fossero o meno chierici rossi di una supposta rivoluzione proletaria indotta dai figli della borghesia, oppure ribelli tout court come nel caso del sottoscritto. Dove la differenza tra i primi e i secondi sta nel fatto che mentre i primi, presto o tardi si accontentano persino di farsi ridurre a nani & lacché, i ribelli continueranno a resistere fino alla fine dei loro giorni.

“A cinquant’anni di distanza dal ’68 e della sua rivoluzione di cartapesta e di spranga ci siamo liberati, dei sessantottini no” – conclude Massimo Fini su Fq Millennium – Sia pure invecchiati formano una potente frammassoneria, trasversale alla destra e alla sinistra, soprattutto nei media e nella politica, che si autotutela e sbarra il passaggio agli altri (Manconi, Sofri, Lernersono i primi nomi che mi vengono in mente). E se vai a scavare nelle biografie di importanti imprenditori o manager, in età, trovi che molti hanno un passato extraparlamentare. Poi ci sono i figli già ben piazzati. Non ce ne sbarazzeremo mai”. Il sottoscritto invece, pur in sintonia con Fini che però non distingue tra i post sessantottini integrati e quelli che no, ricorda il ’68 trentino come il periodo più intenso, emozionante e divertente della sua vita – mood & climax nell’università di Trento erano assai diversi da quelli della Statale di Milano con i suoi katanga – nonostante il devastante primato della politica che oggi, come lucida/mente Emanuele Severino, ha imboccato la via del tramonto. Processo indubbiamente positivo. Tanto è vero che Rostagno, l’indiscusso carismatico leader del ’68 tridentino, durante l’assemblea del ventennale – A Trento vent’anni prima 1968/1988 – così concluse il suo ultimo, magistrale intervento: “… e meno male che non abbiamo vinto!”. Un dettaglio, quest’ultimo, assai più importante di tutto l’insieme, che però da solo non basta a obnubilare la profonda delusione seguita all’abbandono dell’Università Critica che, geniale creatura sperimentale tutta interna al movimento della sociologica facoltà di Trento – a differenza dell’Università Negativa di Renato Curcio, sorta di premessa alle future Brigate Rosse – avrebbe potuto fungere da volano innovatore di tutta l’università italiana nel suo complesso. Ma purtroppo così non è stato. Forse perché, parafrasando Guy Debord: “Nel ’68 invece della contestazione dello Spettacolo, ci fu lo spettacolo della contestazione”. L’equivoco, letale, ha annientato la mia generazione e quelle susseguenti.

1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA. Le date.

A Roma Luciano Lama, segretario della Cgil, va all’università La Sapienza per un comizio. Viene contestato dagli studenti e i giovani di Autonomia Operaia assaltano il palco e costringono Pci e Cgil alla fuga. 17 febbraio 1977

Scontri all’università di Bologna. Francesco Lorusso, venticinque anni, militante di Lotta Continua, viene ucciso da un carabiniere. Seguono giorni di guerriglia urbana, Francesco Cossiga, ministro degli Interni, invia i blindati per presidiare il centro della città. Viene chiusa Radio Alice. 11 marzo.

A Roma la polizia sgombera l’università occupata dall’Autonomia. Nella giornata scoppiano scontri nel quartiere San Lorenzo, con lancio di molotov e colpi di pistola da parte dei manifestanti contro la polizia. Viene ucciso l’agente Settimio Passamonti, ventitré anni. 21 aprile.

A Roma durante una manifestazione scoppiano scontri con la polizia nei quali resta uccisa Giorgiana Masi, diciotto anni, studentessa. 12 maggio.

A Milano durante una manifestazione di protesta per la morte di Giorgiana Masi scoppiano nuovi scontri tra polizia e movimento. L’agente Antonio Custra, venticinque anni, viene ammazzato da un colpo di pistola. 14 maggio

A Milano un gruppo di brigatisti tende un agguato a Indro Montanelli. Viene colpito alle gambe con otto colpi di pistola. 2 giugno.

A Bologna convegno contro la repressione. Le diverse anime della contestazione si scontrano. C’è chi inneggia alla lotta armata. Di fatto è la fine del movimento. 23-25 settembre.

A Torino agguato a Carlo Casalegno, giornalista e vicedirettore de La Stampa. La colonna torinese delle Brigate Rosse gli spara al volto: morirà il 29 novembre dopo tredici giorni di agonia. 16 novembre

Tano D’Amico: «Gli anni Settanta, la lotta, le pistole, l’invisibile». Intervista di Cecilia Ferrara del 29 giugno 2017 su "Il Dubbio". Non è facilissimo intervistare Tano D’Amico, il fotografo dei movimenti degli anni 70. Non che non sia generoso e non si conceda, al contrario, ma non è un intervistato docile, non risponde alle domande che vuoi tu e come vuoi tu, divaga, non ti fissa un appuntamento perché dice di non sapere mai dove sarà: «La gente pensa che io stia tutto il giorno a casa. Non è così». In questo caldo mese di giugno però è stato possibile intercettarlo per quattro lunedì (il 3 luglio sarà l’ultimo appuntamento) da Zazie nel Metro, un bar del Pigneto a Roma Est che ha organizzato “I lunedì dell’immagine”, quattro incontri con Tano D’Amico per parlare di periferie, del ‘77 e del movimento delle donne. L’abbiamo incontrato prima dell’appuntamento intitolato “E’ stato sconfitto il 77?” e da prassi gli abbiamo chiesto cosa c’è stato prima degli anni Settanta, come ha iniziato a fare il fotografo. Si è subito ribellato: «Via, smettiamola con queste cose… – risponde irritato – Ti spiego: io ho sempre amato le immagini, ma di qui a pensare di fare il fotografo come mestiere ce ne passa. Non l’ho mai pensato, neanche negli anni Settanta. Semplicemente era il modo più adatto per me per vivere e per vedere quello che stava davanti ai miei occhi perché si formavano davanti a me immagini che non si erano mai viste. Io conoscevo un po’ la storia delle immagini e in quegli anni vedevo cose che non c’erano mai state. Non solo, si iniziava a vedere un “ceto” che prima non c’era mai stato, per la prima volta si affacciavano alla soglia della storia quelle persone che la storia l’avevano sempre subita: le donne che erano sempre passate per minoranza, i disoccupati, i senza casa, i carcerati, i pazzi, i senza potere».

Ha detto che ha iniziato a vedere immagini che non aveva mai visto, che differenza c’è in questo tra il Sessantotto e il Settantasette?

«Io sorvolerei sul Sessantotto che è troppo celebrato. Quello che c’era prima e che c’è stato dopo secondo me è più importante. Parlando di immagini che non avevo mai visto: per prima cosa era come le persone scendevano in piazza. Sembrava che comparissero tutte insieme, come se fosse passato prima qualcuno con un pennello e una vernice magari bianca, avesse tracciato una linea e tutti si affacciavano su quella linea senza bisogno di capi, di condottieri, si compariva tutti quanti insieme. Quando scendevano tantissime persone in piazza, notavo che scendevano per conoscersi, per parlarsi, molto più che per ascoltare uno che parla. Ecco, persone che parlano insieme. Queste sono le mie prime immagini. C’è un momento in cui sembra che tutti compaiano sul palcoscenico, per questo le mie foto sono fortemente orizzontali, perché se è vero che ogni uomo e ogni donna è un segmento verticale è anche vero che molti segmenti verticali insieme compongono una linea orizzontale».

Un po’ come il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo insomma.

«Sì, un po’ come il Quarto Stato, ma se mi posso permettere più bello».

Lei è stato testimone di alcuni eventi fondamentali del ‘ 77…

«Come tutti… diciamo che io ho fatto caso ad avvenimenti persone e cose che erano sotto gli occhi di tutti, ma ognuno vede quello che vuole vedere nel modo in cui lo vuole vedere. Comunque non è che ho lavorato in strada da solo. Le mie immagini forse comparivano di più anche se pubblicate su giornali marginali, su poster, stampate male. Ma la domanda vera è dove sono le foto della grande stampa di 40 o 50 anni fa? Un grande giornale ha usato le mie immagini per parlare del ‘ 77 ma le ha usate oggi, non le ha usate 40 anni fa».

Che immagini usavano 40 anni fa?

«Le immagini che servivano a loro, immagini in cui chi scendeva in piazza compariva come un mostro che minacciava la quiete pubblica, qualcosa di minaccioso. Le mie immagini non trovavano spazio in nessun giornale, nemmeno il mio che era Lotta Continua. Questo perché mostrare l’umanità, la bellezza delle persone che scendevano in piazza era inviso a tutti. Tanto che venivo preso in giro dai miei compagni in strada, ero diventato una macchietta perché lavoravo tutti i giorni ma non si vedeva mai una mia immagine sul giornale. Allora c’era chi affettuosamente mi diceva: “Tano ma ti ricordi di mettere il rullo la mattina dentro la macchina? Ti sei accertato che i dentini abbiano agganciato il rullino?». Fu un momento anche di riflessione sul ruolo delle immagini per esorcizzare e quindi coprire la novità. Fotografare i movimenti è difficile, gli aspetti di novità arrivano come dei lampi, bisogna coglierlo nelle linee dei volti che cambiano, nei gesti, negli angoli delle membra. Chi fotografa i lampi fotografa la novità, ma lo può fare solo se li aspetta. Se non li aspetta si limita a fare foto di tenebra. La mia diversità si vide nei primi lavori sui nuovi giornali. Potere operaio del lunedì, sembrò che non aspettasse altro che il mio modo di vedere. Una mia immagine fu per un periodo la testata di Potere operaio del lunedì ed era l’immagine di operai sardi che parlavano insieme. Era su fondo bianco, sembrava quasi mi fossi portato dietro il fondale, perché gli operai erano sulla riva del mare, aspettavano gli autobus su una strada in riva al mare. Ecco anche in questo caso era come se fossero comparsi, tutti insieme, su un palcoscenico».

Cosa successe quando comparvero le pistole alle manifestazioni?

«Il mio modo di fotografare era diverso anche nelle foto di documentazione: cercavo che ci fosse di più. La cosa in più era il contesto, perché se uno mostra un giovane che tira un sasso quel giovane si prende 5 anni, 7 anni. Non dico di nascondere certe cose ma di imparare dai classici che hanno sempre mostrato quello che accadeva – nella pittura, nella fotografia, nel cinema e nel teatro – senza mandare nessuno in carcere. Serve studio e impegno. È necessario mostrare il contesto, la bellezza delle istanze. C’è una mia fotografia molto gettonata, quella della ragazza con il fazzoletto, che in quel fotogramma commette forse tre reati insieme: ha un fazzoletto che copre il volto, resiste alla forza pubblica ed è lei che mette la mano per “bloccare” la polizia. Ma nessuno si è mai sognato di cercarla e di portarla in tribunale perché avrebbero ampliato la bellezza delle sue istanze che erano quelle delle donne, in confronto a cui i reati che stava commettendo erano ben poca cosa. Nelle mie immagini si è visto di tutto, ma anche – m’illudo – tutto quell’invisibile che sono le motivazioni, i perché, l’affetto che le tiene insieme. Per decenni ho occultato una mia immagine, quella di Daddo e Paolo, perché pensavo di nuocere. Vent’anni dopo fu lo stesso Daddo a rimproverami: «Dovevi farla uscire subito», mi disse. È vero che da giovane dicevo sempre che una bella immagine non fa mai male, una cattiva immagine fa sempre uno o più danni. Ma non mi sentivo di farlo con la vita degli altri».

La foto in questione è quella della manifestazione in piazza Indipendenza del 2 febbraio 1977 in cui rimasero feriti due militanti di sinistra Leonardo “Daddo” Fortuna e Paolo Tomassini e un poliziotto, Domenico Arboletti. Nella foto si vede Daddo che solleva con un braccio il compagno già ferito come per portarlo via, con in mano una pistola. Che momento fu quello?

«È stata la nascita del ‘ 77. Per l’attacco che subirono. Quella di Paolo e Daddo fu una risposta all’attacco di due agenti che non si sapeva fossero della polizia: non avevano nessun contrassegno e di fatto volevano con la loro macchina spezzare il corteo in due. Quando il corteo si è compattato e non ha fatto passare l’automobile è sceso un signore con il mitra e un altro con una pistola. Era il giorno dopo in cui i fascisti erano entrati nell’università e avevano ferito uno studente, avere delle armi non era così strano. Quell’immagine mostra due giovani che non volevano perdere, a nome di tutti quanti, le conquiste passate che erano anche affettive, di solidarietà. Quando vent’anni dopo comparve quell’immagine in un blog di Repubblica che si chiama Fotocrazia fui attaccato duramente, però con citazioni di Omero (che aveva raccontato un fatto simile), Virgilio, Tasso e Ariosto, insomma non era male».

Un’altra manifestazione raccontata tantissimo per immagini è stato il G8 di Genova. Che paragone con il ‘ 77?

«Ecco Genova 2001 dimostra come le immagini possono seppellire un avvenimento. Il modo in cui si è visto l’omicidio, la morte in diretta di Carlo Giuliani. Quel modo da “macchina” – come le telecamere piazzate al porto di Napoli che di tanto in tanto riprendono un omicidio di camorra – ecco io penso che non faccia un buon servizio all’umanità. Rappresenta l’abdicazione dell’essere umano a vantaggio della tecnologia. Le immagini di Genova che cosa raccontano? Molte perpetuano il terrore che la polizia e i carabinieri volevano imporre. E venendo all’omicidio di Carlo Giuliani, dopo due anni che il video girava ovunque su internet, la magistratura ha detto che i carabinieri hanno fatto un uso corretto delle armi da fuoco. L’immagine che non è partecipata, l’immagine abdicata, l’immagine da macchina non da essere umano non è capace di raccontare il contesto. La verità non è mai nei verbali della polizia, nelle sentenze dei tribunali. La verità, quella vera, che rimane nella memoria, è nei romanzi. La verità bisogna farla. Non è qualcosa che esiste e che le macchine fedelmente riportano, troppo comodo, non è così. La verità è una creazione dell’uomo, la più bella forse, ma in natura non esiste, è l’uomo che la farà vedere mettendo insieme le cose, mostrando il contesto. Una macchina questo non lo potrà mai fare, la verità è un insieme di ricerche, una ricerca che non finisce mai che l’umanità può fare».

Sulle Onde di Radio Alice correva il ’77 ribelle, scrive Luciano Lanna l'8 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Quarant’anni fa l’emittente bolognese venne chiusa dalla polizia, arrestate le sue “voci”. La radio del movimento studentesco interpretò il cambiamento della società dell’informazione facendo saltare i vecchi schemi della militanza. Quarant’anni fa, il 12 marzo 1977, il giorno dopo l’uccisione a Bologna dello studente Francesco Lorusso, la polizia fa irruzione nei locali di Radio Alice, li sigilla e arresta tutti gli animatori. I media ufficiali avevano scatenato una vera e propria crociata contro l’emittente, con l’accusa di essere stata la diretta responsabile degli scontri violenti seguiti alla morte del giovane studente. Per dirla tutta, lo studente, un 25enne militante di Lotta Continua, era stato freddato da un colpo d’arma proveniente dalle forze dell’ordine dopo che una bottiglia molotov aveva raggiunto un autocarro. Ma la morte dello studente dette origine a ulteriori e pesanti scontri di piazza. Radio Alice aveva solo mandato in onda, come faceva per tutto quello che accadeva in città, la cronaca degli eventi. Del resto, è Umberto Eco, curiosamente attento ma spesso critico nei confronti dell’ala creativa del ’ 77, a difendere la redazione della radio dalla campagna denigratoria nei suoi confronti. Fatto sta che la chiusura determina la fine di un anno vissuto in prima persona da quella radio e che è stato decisivo per l’immaginario di una generazione. Tutti gli arrestati vengono portati in questura e successivamente trasferiti nelle carceri di San Giovanni in Monte. Ovviamente, in seguito vengono tutti prosciolti dalle accuse mosse nei loro confronti. Radio Alice riaprirà circa un mese dopo e continuerà le trasmissioni per ancora un paio d’anni, ma senza l’apporto degli originali fondatori e senza più la stessa vocazione, tanto che la frequenza della radio verrà ceduta a Radio Radicale. Quell’avventura era iniziata ai primi di gennaio del ’ 76, con le prime trasmissioni di prova dalla mansarda al civico 41 di via del Pratello, dall’idea di un gruppo di amici e studenti del Dams, il primo dipartimento universitario in Italia di “arte, musica e spettacolo”. «Quando Maurizio Torrealta venne a casa mia a propormi di fondare una radio – ha ricordato Franco Berardi Bifo, uno degli animatori – la trovai una idea bellissima. Pensai: sappiamo cantare, fare gli speaker, ballare, praticamente possiamo fare tutto: ma la macchina?». E così si aggregano quelli che avevano le competenze tecniche, come Torrealta o Andrea Zanobetti, ingegnere elettronico. Si decide di mandare in onda tutt’altro da quello che si ascoltava dalla Rai: brani di libri, comunicazioni sindacali, poesie e letteratura, lezioni di zen e di yoga, analisi politiche, dichiarazioni d’amore, commenti ai fatti del giorno, ricette non solo macrobiotiche, favole della buonanotte, liste della spesa, la musica dei Jefferson Airplane, degli Area o di Beethoven. E tutte le trasmissioni, sulla frequenza di 100.6 megahertz, si aprono e si chiudevano sempre col brano Lavorare con lentezza, del cantautore pugliese Enzo Del Re. È la versione bolognese, forse più creativa ed effervescente di altre per la presenza in città del Dams, di ciò che stava andando in onda in tutta Italia dopo la sentenza della Corte che aveva dichiarato anticostituzionale il monopolio statale sull’etere. S’era d’un tratto aperto un vero e proprio vuoto giuridico, nel quale in brevissimo tempo si inserì un circuito di piccole emittenti locali improvvisate, le cosiddette “radio libere”. Da questo punto di vista, osserva – in I sogni e gli spari. Il ’ 77 di chi non c’era (Azimut) – Emiliano Sbaraglia, «il 1977 produsse un esempio unico e irripetibile di comunicazione radiofonica: cambiano radicalmente le tecniche di informazione: si modificano, ampliandosi e migliorandosi, le possibilità di recupero di materiale informativo, i metodi di trattamento dello stesso, la pubblicazione e la diffusione di una notizia». D’un colpo irrompe in Italia l’epopea di Radio Popolare a Milano, di Radio Sherwood a Padova, di Radio Città Futura e Radio Onda Rossa a Roma ma non solo… Nascono infatti anche Radio University a Milano e Radio Alternativa nella Capitale e tante altre emittenti “di destra”. Interessante la recensione che L’uno, il supplemento “politico” di Linus, pubblica nel numero di marzo ’ 77: «C’è il solito coretto di scena post- brechtiano, tipo Dario Fo… Poi parlano alcuni giovanotti… Dicono che i servizi segreti sono infiltrati… Poi si mette su un altro disco, questa volta è una melopea dylaniana contro i grassi borghesi, le signore puttane che giocano a canasta… Poi si riprende il dibattito e si parla della strategia della tensione, della manovra della stampa borghese che mette in risalto gli elementi da fotoromanzo presenti negli atti di terrorismo e di equivoca criminalità comune. Altra musica, mitteleuropea ( Berlin, mein Berlin). Poi interviene un parlamentare che rincara la dose: le istituzioni sono in sfacelo, ma non da oggi; fin dai tempi di Salvatore Giuliano e della strage di Portella della Ginestra; ancora prima, dallo sbarco degli americani con i mafiosi». Quindi la sorprendente constatazione: «Tutto questo – si leggeva insomma agli inizi del ’ 77 sul supplemento di Linus – non viene trasmesso da una radio libera “democratica”, come si potrebbe pensare. Ma da Radio University, emittente milanese “fascista”…» ( che trasmetteva addirittura dalla sede della federazione provinciale del Msi). Non si notavano differenze, concludeva l’anonimo recensore, con le programmazioni, le parole e i suoni con le radio legate all’estrema sinistra. E tutto questo era vero, nella condivisione generazione di un immaginario e di una sensibilità esistenziale che accomunava il profondo dei giovani di allora, che alla notizia dei sigilli a Radio Alice, mentre Radio University trasmette in diretta le fasi drammatiche della chiusura dell’emittente bolognese, il conduttore Walter Jeder invitava i suoi ascoltatori a solidarizzare con i redattori bolognesi perché spiegava «potrebbe succedere anche a noi». Insomma, Radio Alice è il simbolo di tutto un più vasto fenomeno che stava trasformando la comunicazione e l’informazione nel nostro paese. Ma perché quel nome? La suggestione veniva dal nome del personaggio di Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. Era accaduto che nel ’ 75 era uscito un saggio di Gilles Deleuze, autore caro ai giovani di quella fase, dal titolo La logica del senso e che analizzava proprio i luoghi e la mente della protagonista degli scritti di Carroll. Come se non bastasse, dal ’ 76 e fino al novembre ’ 77 Gianni Celati, docente di letteratura anglo-americana al Dams, tiene un seminario in forma di lavoro collettivo sulla figura di Alice nel paese delle meraviglie. Tra i suoi studenti, il futuro narratore Enrico Palandri, Andrea Pazienza in arte Paz e Roberto Freak Antoni, giovani creativi che rappresenteranno al meglio lo spirito del ’ 77. «Il nome di Alice era già stato messo in giro alla controcultura americana ed era diventato una parola d’ordine per riferirsi a quel tipo di aggregazione sparsa e senza gerarchie che è stato chiamato movimento», si legge in Alice disambientata, il libro che raccoglie i materiali del seminario e che verrà pubblicato l’anno successivo dalle edizioni “L’erba voglio” di Elvio Fachinelli. Fatto sta, che quel seminario tenuto nel ’ 77 finisce per definire la figura fiabesca di «Alice come emblema e, in qualche modo, nome del nuovo movimentismo giovanile, almeno a Bologna. La stessa Alice che, come ha ricordato Marco Belpoliti, suscitava contemporaneamente le reazioni polemiche dei «giovani barbuti con tascapani militari», gli ideologizzati e militanti che erano convinti che l’argomento fosse «futile e lontano dai problemi della società». Ecco, un personaggio fantastico, un simbolo dell’immaginario, si tramuta in elemento di discrimine: da una parte chi è in sintonia con i tempi nuovi, dall’altra chi resta attardato ai vecchi stilemi ideologici. D’altronde, i partecipanti al seminario ne erano consapevoli. Così scrivevano sulla scelta di una dimensione tutta “fantastica”: «Quando l’eroe parte per il fuori, va fuori dal villaggio dove non esistono più i rapporti di alleanza e parentela che gli forniscono i modelli culturali di comportamento. La fiaba insegna un modello di comportamento per zone dove l’individuo non è protetto dai rapporti sociali di alleanza e parentela, trasmette i modi per stabilire questi rapporti sociali anche fuori dal villaggio». Insomma, Alice diventa una figura che quell’anno compare un po’ dappertutto, metafora di un universo giovanile aperto, che sfugge – si legge nel libro – «all’elaborazione d’una linea e ad esportare verso l’esterno questa linea come proposta di discorso egemonico». Ancora: «Non parliamo di utopia. Anche l’utopia è un modo di ridurre le contraddizioni a uno schema fisso… La controcultura ha posto una questione minima: tutti i rapporti da stabilire sono affettivi, i rapporti politici sono quelli già esistenti nella nostra società e non piacciono a nessuno tranne ai politici». È la riscoperta generazionale del “personale”, dell’esistenziale, del comunitario, rispetto ai vecchi rapporti astratti, societari, istituzionali, politici: «L’ipotesi venuta dalla controcultura – leggiamo ancora in Alice disambientata – non è un’utopia, riguarda un problema di circolazione: un corrersi dietro tutti, cercando di darsi a vicenda dei rapporti d’identificazione affettiva». E in conclusione il seminario riconosce che i “mondi della vita” emergenti nella società in quel ’ 77, soprattutto tra le giovani generazioni, non sono più rappresentabili dalle istituzioni o dei partiti, quanto dalle reali comunità giovanili, un mondo fatto di pluralità e differenze: «Le tribù in movimento sono tante e molto differenziate, e con teorie di campo tanto dissimili». Ecco, quell’icona e Radio Alice rappresentavano al meglio la rottura con le vecchie forme della militanza e aprivano la strada a nuove forme di comunicazione. Tant’è vero che il quando il 9 febbraio ’ 76 iniziano le trasmissioni vere e proprie di Radio Alice, si aprono proprio con la musica di White Rabbit, un brano degli Jefferson Airplane che non poteva non ricordare il coniglio bianco compagno d’avventure dell’Alice ispiratrice. E, da subito il flusso quotidiano di informazione è continuo, senza alcuna interruzione, come invece accadeva con la Rai o con altre emittenti libere. Sarà proprio questa l’innovazione rappresentata dal prepotente ingresso di Radio Alice nel mondo della comunicazione. Un’innovazione che, nel 2004, verrà celebrata dal film Lavorare con lentezza, diretto da Guido Chiesa e sceneggiato insieme al collettivo Wu Ming. Qui le vicende di due ragazzi bolognesi si mescolano a quelle dei movimenti studenteschi del ’ 77 e delle trasformazioni antropologiche, politiche e nella comunicazione di quell’anno. E mentre queste cose accadono, sullo sfondo – a cominciare dal brano del titolo – si ascolta sempre, come una sorta di colonna sonora quotidiana, quanto va in onda sulle frequenze di Radio Alice.

Film d'epoca e documentari inediti: ecco la rivolta del '77. Per la prima volta in tv anche due documentari militanti come Pagherete caro, pagherete tutto del 1975 e Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro (1976), scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 1/03/2017, su "Il Giornale". Il 1977. Uno degli anni più complicati della storia italiana. Nasce un movimento universitario che scavalca a sinistra non solo il Pci ma anche i precedenti movimenti figli del '68, come Lotta Continua. La tensione politica sale alle stelle e per la prima volta una rivolta, fatta a colpi di cortei e radio libere. Il movimento però degenera rapidamente. Tra le idee dadaiste degli Indiani metropolitani e l'invito alla violenza di chi porta le P-38 nei cortei sono rapidamente le seconde a vincere. Eppure alcune cose dello spirito del '77 è arrivato sino a noi. Ecco perché a quarant'anni da quei fatti il canale Iris ha deciso di dedicare quindici film, in cinque serate consecutive proprio al '77 e dintorni. Protesta, politica, canzoni, terrorismo, amore libero: insomma tutto il mix di elementi contraddittori di quegli anni di piombo ma non solo è trattato nel ciclo Black Out (presentato ieri a Milano) che andrà in onda da sabato 11 a mercoledì 15 marzo. La data di partenza non è scelta a caso, l'11 marzo '77 a Bologna venne ucciso il militante Francesco Lorusso. Tra i film alcuni d'epoca che danno l'idea di come si sia creato il clima culturale che portò al '77: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), San Babila ore 20: un delitto inutile (1976) e La classe operaia va in paradiso (1971). Per la prima volta in tv anche due documentari militanti come Pagherete caro, pagherete tutto del 1975 e Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro (1976). L'unico limite dell'iniziativa che ha un bel supporto documentale è quello che, a parte un filmato introduttivo e uno speciale a cura di Tatti Sanguineti (forse ce ne sarà anche uno di Maurizio Costanzo), il pubblico è lasciato solo, in alcuni casi, con delle pellicole (molto ideologiche) che richiederebbero un po' di inquadramento per essere capite. Soprattutto dai giovani.

17 febbraio 1977, gli studenti demoliscono Lama, scrive Paolo Delgado il 17 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Quarant’anni fa il segretario della Cgil veniva contestato alla Sapienza dagli studenti della sinistra ex parlamentare che lo accolsero con fischi e bastoni. Il palco venne giù come fosse di cartapesta, per qualcuno fu una frattura drammatica, per altri fu l’episodio più liberatorio del “decennio rosso”. La sola cosa che avevano in comune era la reciproca ostilità, una sensazione condivisa di estraneità totale, una punta di disgusto ricambiata senza alcuna cordialità. A quarant’anni di distanza ancora non si capisce bene chi prese la decisione sciagurata di spedire Luciano Lama, segretario della Cgil, in mezzo all’università di Roma occupata da un Movimento che il Pci considerava a un passo dal fascismo conclamato e che avrebbe visto il Pci e il sindacato come nemici assoluti anche senza le carinerie che l’Unità elargiva a getto quotidiano. Fu una decisione stupida ancor più provocatoria, e tanto inspiegabile che poi, per anni, Cgil, Federazione romana e Sezione universitaria del Pci si sono rimpallati la responsabilità della brillante trovata. Non poteva che finire malissimo: fu chiaro da subito. Il Movimento si preparò all’indesiderato appuntamento con una di quelle assemblee fluviali ed estenuanti che erano all’epoca merce comune. Ore e ore passate nell’aula I di Lettere, dal primo pomeriggio del 16 febbraio sino a notte inoltrata, accumulando proposte per poi confutarle, difendendo a spada tratta linee di condotte alternative ma che tutti, in fondo, sapevano destinate a essere comunque travolte dagli eventi. Quando uno dei principali leader dell’ala dura di Autonomia, esasperato, prese alla fine la parola per chiedere: «Tutto bene, ok. Ma i bastoni dove li mettiamo?» la sterzata fu accolta con sollievo generale. Finalmente la verità. Non significa che la scelta del Movimento fosse lo scontro fisico. Se nessuno riteneva che si dovesse accettare l’offerta degli organizzatori del comizio, disposti a far parlare dopo il super sindacalista anche un «esponente del movimento studentesco», la linea maggioritaria era favorevole a una contestazione morbida e ironica, a base di sberleffi, non di mazzate. Ma tutti, anche i più creativi tra gli indiani metropolitani, sapevano benissimo che il rischio che le cose prendessero un’altra piega c’era tutto. Chiedersi dove mettere i bastoni non era segno di estremismo e di propensione alla violenza. Era semplice realismo. Non poteva che andare male, ma andò anche peggio del previsto. Anche questo fu chiaro sin dal primissimo mattino, quando i militanti del servizio d’ordine del Pci e i funzionari del sindacato cominciarono ad affluire alla Sapienza, anticipando di un’oretta il segretario. Arrivavano con le facce tirate di chi marcia in territorio nemico e si aspetta l’agguato dietro ogni angolo. Sembrava l’avessero fatto apposta, e probabilmente era proprio così, a rimarcare nei particolari la distanza, anzi la contrapposizione antropologica, l’antagonismo anche estetico, rispetto ai “diciannovisti “che da 15 giorni occupavano l’università di Roma. Gli stessi che una decina di giorni prima avevano sottoposto il cronista del “quotidiano fondato da Antonio Gramsci” a un beffardo processo popolare. Capo d’accusa: “Affermazioni deliranti”. Sentenza, passibile di immediata esecuzione: “Espulsione a vita dall’università”. In quelle prime decine di minute, mentre il servizio d’ordine del Pci montava un palco improvvisato e la tensione s’impennava assai più del palchetto, il popolo del Pci e quello del Movimento si guardavano in silenzio, scoprendo quasi con sorpresa una differenza ormai totale, verificando la profondità di un abisso che non era più colmabile. Le scritte degli indiani, fatte nella notte, accoglievano i funzionari del partito che sosteneva con la sua astensione il governo Andreotti e quelli del sindacato che chiedeva agli operai di sacrificarsi in nome dell’ “interesse generale”. “Nessuno L’ama”, “I Lama stanno in Tibet”. I comunisti le degnavano appena di uno sguardo ma bruciavano d’indignazione: come ci si poteva permettere una simile mancanza di rispetto? Gli insolenti guardavano i sindacalisti con disprezzo anche maggiore, o forse con un’alterità che non permetteva più neppure il disprezzo. Quella gente, con le loro facce torve, la mascelle serrate, le divise d’ordinanza da burocrati così volutamente opposte a quelle altrettanto d’ordinanza ma variopinte e fantasiose del Movimento, non la si poteva più bollare, come si era fatto dal ‘ 68 in poi, come semplicemente “revisionista”, come compagni che miravano allo stesso obiettivo, una mondo diverso e più giusto, ma per una strada sbagliata, arrendevole, genuflessa, sconfitta in partenza. Quello ormai era direttamente il nemico in prima persona. Era, nel momento storico dato, il sostegno e il principale puntello dell’assetto di cui persino “i revisionisti” erano comunque stati considerati critici pur se non abbastanza severi. Gli slogan iniziarono ancora prima che Luciano Lama cominciasse a parlare. La derisione surreale e un po’ demenziale, “Fatti una pera, Luciano fatti una pera” sul tono di Guantanamera, bruciava forse anche più della critica politica, dell’accusa di tradimento: “Lama ti prego non andare via: vogliamo ancora tanta polizia”. Tra il palco, circondato dal servizio d’ordine del Partito, e la massa di minuto in minuto più folta dei ragazzi di Movimento, sotto la scalinata di Lettere, non c’erano che pochi metri. “Luciano” era terreo al momento dell’arrivo nella zona nemica, attorniato dall’immancabile codazzo di funzionari e dal servizio d’ordine, quasi una replica caricaturale delle immagini che dall’Urss raccontavano in ogni Tg la mesta fine dell’Ottobre rosso. Lo era ancora di più quando infine prese la parola, probabilmente già consapevole dello sbaglio commesso, per pronunciare un discorso che non sarebbe mai arrivato alla fine e del quale comunque si persero anche le prime parole, subissate dal fragore dei fischi, dagli slogan strillati a voce sempre più alta. A determinare una deflagrazione comunque inevitabile furono i palloncini. Tanti, colorati e innocui. L’arma scelta dagli indiani per marcare la distanza tra il grigiore plumbeo di chi chiedeva ai sacrificati di sacrificarsi sempre più e la festosità disperata del Movimento. Il quadrato intorno al palco rispose con i sassi, forse per esasperazione, forse perché costretti dalla loro stessa favola, che li voleva impegnati a fronteggiare una forma moderna e camuffata di fascismo. Nulla come quel discorso di Luciano Lama, segretario della Cgil, coperto dagli slogan ostili, pronunciato solo a uso delle persone che occupavano il palco mentre di fronte la sassaiola diventava sempre più fitta, racconta il ‘ 77. Più delle autoblindo spedite da Cossiga a Bologna meno di un mese dopo. Più delle istantanee che concentrano l’attenzione sulle armi in piazza, e così facendo falsano la storia. Più dei girotondi che trasmettono l’immagine di una gioiosità che era mimata e copriva invece un malessere profondissimo. Lama chiuse di corsa il suo discorso, troncandolo di netto, quando si rese conto che la situazione era definitivamente sfuggita di controllo. Fece in tempo ad abbandonare il palco e il campo un attimo prima che quei bastoni ai quali si era alluso la sera precedente entrassero in azione. Una sola carica, decisa e travolgente, non preordinata, forse neppure decisa da nessuno. Spontanea. Il palco venne giù come fosse di cartapesta, e in un certo senso lo era davvero. Poche ore dopo la polizia arrivò in forze a sgombrare l’università. Giusto per confermare che nulla di quanto era stato rinfacciato a Lama e tramite lui all’intero Movimento operaio istituzionale poche ore prima era infondato. Non fu tanto il giudizio politico a tracciare allora nel Movimento una linea di demarcazione che resiste e ancora separa gli ormai incanutiti. Fu una questione di sentimenti prima che di analisi politica. Di emozioni, non di mozioni. Per qualcuno, soprattutto per chi militava o dirigeva gli ex gruppi impegnati nel tentativo votato a certo fallimento di trasformarsi in partitini, si trattò di una tragedia, di una lacerazione drammatica che avrebbe dovuto essere a ogni costo evitata e che andava adesso ricucita quanto prima. Ancora oggi ricordano il 17 febbraio 1977 come un giorno di lutto. Per molti altri fu il momento di massima gioia, il singolo episodio più liberatorio dell’intero decennio rosso, e tale è rimasto nei decenni. Nell’assalto al palco del sindacalista dei sacrifici non c’era solo il rifiuto della linea decisa da un Pci che abboccava all’amo teso dal potere democristiano, quello illustrato in anticipo da Moro e Andreotti al dubbioso ambasciatore americano Gardner. In sintesi: «Dobbiamo prendere misure che gli operai non accetterebbero ma che grazie al sostegno del Pci invece passeranno. Poi però proprio l’aver sostenuto quelle misure provocherà un crollo di consensi a favore del Pci». Strategia mirabile che avrebbe colto tutti i risultati previsti nel giro di due anni. Non c’era neppure soltanto il compimento di una divaricazione che dal 1968 in poi si era fatta sempre più profonda e che aveva in realtà già toccato il punto di non ritorno quando, nel 1970, una serie di articoli dell’Unità denunciò Adriano Sofri per essere entrato illegalmente alla Fiat comiziando, chiedendone di fatto un arresto che arrivò puntuale e chiuse il leader di Lotta continua in carcere per mesi. Tutto questo certamente pesava, ma ancor più a fondo s’agitava un rifiuto globale di quel che il movimento comunista era stato sino a quel momento. Della sua passione per l’ordine. Del suo culto della disciplina, sia pur ribattezzata “disciplina di partito”. Della sua ipocrisia tattica camuffata da ardimentose piroette strategiche. Del suo culto del partito e di chi nel partito comandava. Della sua religione dell’obbedienza. Della sua abitudine a colpire il popolo in nome del popolo. Della sua struttura plumbea. Del suo grigiore costitutivo. Nelle sue componenti più innovative e nei suoi momenti migliori, quello del ‘ 77 è stato soprattutto un Movimento contro il “comunismo reale”. Il primo e sinora l’unico che abbia provato ad aggredire non gli orpelli ma il cuore stesso degli errori commessi dal movimento comunista non in nome della sua revisione e neppure in quello di un ritorno alla sua purezza, ma in nome della capacità di evolversi e cambiare imparando dagli errori senza rinnegare le radici. Per questo la cacciata di Lama, che della mesta e gelida realtà del movimento comunista era emblema, è ancora oggi la data chiave di quell’anno distante. E forse per questo è così difficile consegnare il ‘77 alla nostalgia e alla storia.

Settantasette, parole ed immagini. Tano D'Amico è l'autore dietro le foto che hanno raccontato il Movimento del '77: le proteste, gli scontri, le speranze di una generazione entrata nella storia muovendo i primi passi dal cortile delle Sapienza. Intervista a Tano D'Amico di Michele Smargiassi su “Robinson” (La Repubblica) il 19 febbraio 2017.

Vide gli zingari felici. Ne salvò i volti per noi, con le sue fotografie. Tano D’Amico, 74 anni e un sorriso da Gavroche, “compagno fotografo”, fotografo dei nomadi, degli occupanti di case, una lunga storia che comincia prima e finisce dopo il ’77: ma quell’anno, anche per lui, fu unico. L’anno in cui l’universo si mosse.

Vorrei partire da una foto non tua. Il militante incappucciato che spara in via De Amicis. Temo che l’icona del ’77 sia quella.

“Vollero farla diventare così. Non è un’immagine, è uno scalpo. Era l’immagine che tutta una cultura politica aspettava. Non solo quella di destra. In quel periodo lavoravo a Lotta Continua, e il ’77 lo odiavano pure lì. Certo, ricordo cosa scrisse Umberto Eco, che quella fotografia seppellì il movimento, ma ricordo cosa pensai io quando la vidi sulle prime pagine dei giornali: che era una brutta immagine, e che le brutte immagine prima o poi scompaiono”.

Brutta ideologicamente?

“No no, anche in senso estetico. Se vedessi un’immagine così in un film direi che è brutta, non perché c’è uno che spara. Le immagini sparatorie nei film di Peckinpah sono bellissime. Quella che dici tu invece è un’immagine repellente. Al di là di quello che rappresenta (lo sai vero che quello che si vede non è quello che ammazzò l’agente di Polizia?), diede origine a cose disastrose, un gruppo di giovanissimi che si vendettero gli uni gli altri… penso che le immagini si giudichino anche dal loro futuro”.

Del ’77, tu cercasti solo belle immagini?

“Penso che le belle immagini abbiano un posto nell’universo. Quando l’universo vede una brutta immagine, s’arrabbia. Certe foto invece vengono accolte dall’universo: penso alle due Polaroid di Moro nel carcere delle Br. Appena le vidi pensai a due icone bizantine. Nell’ultima foto Moro non fa caso ai suoi assassini che ha davanti, si appella all’universo, a noi, è già al di là, tutti lo volevano morto. Quella foto mi ha commosso più delle sue lettere”.

Prima di quella foto tutto era ancora aperto. E tu eri il fotografo “del movimento”.

“Ma io non volevo fare il fotografo del movimento. Io volevo fare il movimento, stare nel movimento. Sapevo che invece il fotografo deve mettersi da parte per osservare. Però trovavo brutte le immagini del movimento. Cosa ci potevo fare: ero figlio di emigranti siciliani a Milano, da bambino m’infilavo nei musei, erano gratis e caldi d’inverno e c’erano guardiani gentilissimi. C’era un’immagine che mi ricordava il mio Sud, un gruppo di donne normanne. Il pittore, lo seppi dopo, si chiamava Van Gogh. Forse per questo vedevo subito quando un’immagine smuoveva o bloccava qualcosa e lo dicevo. E i compagni: allora domani al corteo le foto le fa Tano”.

Fotografo precettato dal proletariato.

“Nelle assemblee dicevano Tano, tutti fotografano i fatti, tu fotografi i nostri desideri. Ebbi grande affettuosa libertà”.

Il fotografo dei desideri...

“Be’, non potevo fare diversamente. Mi mandavano nei posti dove era successo qualcosa ma coi treni di allora e pochi soldi per il biglietto arrivavo tre giorni dopo, non mi restava che cercare gli avvenimenti nei volti delle persone. Imparai a leggere la storia negli occhi della gente”.

Cosa ci leggevi?

“Bellezza. Passavo ore nel cortile della Sapienza, tra i ragazzi che sonnecchiavano, leggevano libri, si baciavano. In un libro Chomsky ha scritto che in quel cortile maturava la storia. Poi seguivo quei ragazzi in strada, nei cortei, fotografavo la loro grazia. Ma quelle immagini non uscivano mai sui giornali. I compagni mi prendevano in giro: Tano, ma lo metti il rullino nella macchina? I giornali volevano immagini di scimmie assetate di sangue, di assassini reali o potenziali. Le mie immagini erano intrattabili. Ero diventato una macchietta, il fotografo che fa foto che nessuno vede. Allora venne a casa mia una vera e propria commissione politica, autonomi, femministe, gay, indiani metropolitani… Mostrai le foto. Alcuni si misero a piangere. Bisogna fare un libro, dissero. Fecero una colletta, i soldi dentro un sacco del pattume. Il libro uscì, la bellezza fu vista”.

Eppure hai scattato anche tu fotografie “di fatti”. Il giorno in cui ammazzarono Giorgiana Masi...

“Ho condiviso la buona e cattiva sorte dei movimenti, è una favola che evitassi il conflitto. Quel giorno feci una foto a un agente in borghese armato. Mi pareva un’immagine banale, tutti sanno che ci sono gli agenti in borghese. Non era neppure la foto dell’uomo che sparò a Giorgiana, era un altro posto. Però la sera al telegiornale sento il ministro degli Interni garantire che non c’erano agenti in borghese, allora mi vesto e faccio il giro dei giornali con quella foto. Il primo giorno tutti scrissero che il ministro avrebbe dovuto dimettersi, poi tornò la solidarietà fra potere e stampa”.

C’è una foto di “fatti” che invece tenesti per te. Perché? Era una brutta foto?

“Tu dici la foto di Paolo e Daddo, uno ferito l’altro che lo sorregge e tiene in mano due pistole, dopo gli scontri del 2 febbraio all’università di Roma. Vero, non la feci vedere a nessuno. Vent’anni dopo, quando incontrai Daddo nella redazione del Manifesto, proprio lui mi rimproverò: ma perché non l’hai pubblicata? E io: ma era la tua vita, c’era il tuo sangue… E lui: no, è tua, è il tuo lavoro”.

Il ’68 era stato spensierato nel concedersi agli obiettivi. Il ’77 vide in ogni fotografo un delatore.

“Non volevo essere carnefice. Sapevo per esperienza che tutta la cultura del mondo s’apparecchia per difendere quello che già c’è, e che avrebbe usato certe foto per criminalizzare quel che si oppone. La verità è che nessuno voleva guardare il faccia il movimento del ’77. A destra e a sinistra. Mi ricordava l’Orwell di Omaggio alla Catalogna: gli anarchici odiati da tutti. Un movimento di cui tutti avevano paura perché metteva in discussione i ruoli, anche quelli dei giornalisti e dei fotografi. Quella che dà fastidio al potere, quella che non doveva essere vista era l’umanità delle persone. Invece sono queste le immagini che rimangono vive, che oggi si fanno ancora interrogare. Una bella immagine quando è fatta è fatta. L’universo lo sa”.

Il Movimento del Settantasette, 40 anni fa. Malesseri e speranze in una stagione di crisi. Nelle rivendicazioni dei giovani di allora si leggono i segni premonitori di cambiamenti futuri: i ragazzi erano cresciuti con la scolarizzazione di massa ma le aspettative risultavano frustrate, scrive Maurizio Caprara il 4 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera".

1. Con la scuola di massa, più istruzione. Non sempre i lavori ambiti. Sono trascorsi quarant’anni. Il 1977 fu per una parte dei giovani italiani un gran frullatore: di malesseri, speranze, violenza, intuizioni, abbagli, rivendicazioni. Affioravano i segni premonitori di una crisi dei partiti tradizionali che si sarebbe aggravata più avanti. Cresciuti con la scolarizzazione di massa, i ragazzi di quarant’anni fa vivevano meglio di come avevano vissuto i rispettivi genitori durante o dopo la guerra. Le conquiste del 1968 erano date per scontate. Le aspettative di molti tuttavia risultavano frustrate: per tanti era difficile trovare posti di lavoro adeguati al grado di istruzione raggiunto. Nell’irradiarsi dall’università alle scuole, questa frustrazione si mescolò ad altro. Ne derivarono richieste di programmi di studio aggiornati, proteste inventive. L’ondata di assemblee e manifestazioni cominciò perché fascisti, a Roma, il 1° febbraio avevano sparato su uno studente di sinistra ferendolo gravemente. La fanatica brutalità dell’Autonomia operaia rese ancora più pericolosa una spirale di scontri di piazza. In cortei nei quali non erano rari barricate e lanci di bottiglie Molotov, si aggiunse il ricorso a pistole contro carabinieri e polizia. Presto, gli spazi di azione per le anime maggioritarie del Movimento si estinsero. Tra autonomi e altri studenti di sinistra si ebbero confronti duri, anche fisici. Il quarantesimo anniversario del Settantasette può essere un’occasione per riflettere su come i sistemi democratici debbano recepire, indirizzare e selezionare, depurandoli dall’intolleranza, istanze e disagi di settori della società che si sentono ai margini delle decisioni. Prima che sia tardi.

2. La ritirata di Lama tra ironia e violenza. «I Lama stanno nel Tibet» venne scritto su un muro de «La Sapienza» di Roma prima che, il 17 febbraio, arrivasse il segretario della Cgil Luciano Lama. Un suo comizio doveva servire al Pci per dimostrare che l’università occupata da studenti non poteva fare a meno del sindacato italiano con più tesserati, guidato da un comunista autorevole. Le anime del Movimento reagirono in maniere diverse. Soltanto con alcune critiche i gruppi della «nuova sinistra», tranne Lotta continua su posizioni aspre. Gli Indiani metropolitani, l’«ala creativa», contestando il comizio al grido di «Ti prego/ Lama/ non andare via/ vogliamo/ ancora/ tanta polizia». Quando gli «Indiani» lanciarono palloncini con liquido colorato contro i servizi d’ordine di Cgil e Pci, questi, non capendo di che si trattasse, risposero con una carica. Finì male. Gli autonomi assaltarono il palco con spranghe, bastoni e pezzi di asfalto (nella foto). La ritirata di Lama fu una sconfitta per il più grande Partito comunista dell’Occidente che dall’anno precedente, per la prima volta dal 1947, in Parlamento si era avvicinato alla maggioranza astenendosi sulla fiducia al governo del democristiano Giulio Andreotti. Fu giorno nero anche per la parte ampia del Movimento che preferiva verso il Pci le armi della critica alla «critica delle armi».

3. Sperimentazione, autogestioni: una scuola da cambiare. L’insegnamento nelle scuole italiane meritava aggiornamenti che tardavano. Nei programmi didattici lo studio era considerato in troppi casi slegato dal lavoro. A fare rumore furono le contestazioni intimidatorie dei settori più estremi del Movimento che pretendevano dai professori presi di mira il «6 politico» nelle secondarie o il «18 politico» nelle università. Ma quegli obiettivi non appartenevano né a tutti gli studenti né all’intero Movimento, una parte consistente del quale richiedeva «sperimentazione didattica»: corsi sugli argomenti più vari, dall’economia al cinema, dal teatro alla sessualità. Se ne organizzarono alcuni durante autogestioni e occupazioni di scuole.

4. L’autocoscienza, fermenti e idee del femminismo. «La vostra violenza/ è solo/ impotenza», gridavano i cortei femministi denunciando stupri e soprusi subiti da donne. Si deve anche a quei momenti se oggi è più alto nella nostra società il disprezzo per i troppi delitti che hanno vittime di sesso femminile. Nel 1977 in Italia soltanto 35 donne su cento lavoravano o erano in cerca di lavoro. Il femminismo ha contribuito a farne salire in seguito il numero, riducendo su questo aspetto la distanza del nostro Paese da altri Stati europei. Nel Movimento l’«emancipazione» era giudicata da molte ingannevole rispetto alla «liberazione» della donna. Sommarietà e fondamentalismi non furono assenti. Una delle attività dei collettivi femministi consisteva nell’«autocoscienza»: riunioni nelle quali ogni componente comunicava alle altre propri problemi e pensieri intimi. Occasione di crescita, in vari casi. Non per tutte fu, psicologicamente, una passeggiata. Per fidanzati e mariti — il comportamento privato dei quali, in contumacia, veniva esaminato con la lente di ingrandimento nei collettivi — la tutela della privacy fu un’utopia. Inconfessabile.

5. Volti coperti. E scoperti, con trucco. Le foto dei giornali spesso ricordano le manifestazioni del 1977 con volti di manifestanti coperti da fazzoletti o passamontagna. Immagini scattate durante cariche di polizia, quando candelotti lacrimogeni rendevano l’aria irrespirabile, o nel corso di assalti a sedi di partito e blocchi stradali. Eppure i visi, non soltanto scoperti, anche truccati, furono un elemento non marginale delle proteste del 1977. Mai prima di allora nell’Italia repubblicana il ricorso a ceroni, kajal e matite varie aveva avuto una diffusione così ostentata e vasta per dimostrazioni politiche. A usare il trucco con vistosità teatrali non erano esclusivamente ragazze. Tra gli Indiani metropolitani, per i maschi poteva essere di ordinanza. Lo scopo: mettere in evidenza una irregolarità, un’anomalia, una diversità ritenute ragioni di orgoglio.

6. Il sangue. Le morti. Fuoco sulle speranze. L’11 marzo a Bologna in scontri con i carabinieri venne ucciso Francesco Lorusso, 24 anni, di Lotta continua. Il giorno seguente a Roma una manifestazione nazionale del Movimento con decine di migliaia di persone venne sfibrata da autonomi con le P38 o con armi improprie che assaltarono negozi, gettarono bottiglie incendiarie contro una sede della Dc e bar, scatenarono guerriglia in più punti del centro della capitale d’Italia. Le violenze furono per il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, democristiano, motivo di porre divieto anche a una manifestazione indetta dai radicali per il 12 maggio, terzo anniversario del referendum sul divorzio, in piazza Navona. Ragazzi non organizzati si trovarono sbandati tra drappelli dei settori più estremi pronti allo scontro, agenti in borghese con armi in pugno. Cadde colpita da un proiettile Giorgiana Masi, studentessa di 19 anni. La speranza di cortei senza sangue si indebolì ancora di più.

7. Un altro lato della gioventù. Morire in servizio a 25 anni. A Milano il 14 maggio l’agente Antonio Custra fu ucciso in via De Amicis. Aveva 25 anni, il salario di un lavoratore. Le immagini di autonomi che sparavano segnarono un’epoca.

8. Il ministro Cossiga, gli infiltrati e la repressione. L’Autonomia operaia raccoglieva nel 1977 migliaia di persone e suoi spezzoni erano terreno di reclutamento per formazioni terroristiche. Per quanto non maggioritari, gli autonomi avevano beneficiato di ambiguità e indulgenze di una parte del Movimento e riuscirono a deviare il corso degli eventi in diversi cortei e assemblee. Ma una storia del 1977 non può essere scritta senza tener conto di quanto detto dal ministro dell’Interno di allora, Francesco Cossiga, in un libro del 2010, Fotti il potere: «La contestazione, la violenza politica e il terrorismo minacciavano l’autorità dello Stato e tutti i partiti a cominciare dal Pci mi chiedevano d riportare l’ordine con ogni mezzo. C’era solo un modo per farlo: usare la forza. Fu per questo che, dopo aver infiltrato nelle organizzazioni più estremiste alcuni agenti provocatori, diedi ordine di lasciare liberi i manifestanti di mettere a ferro e fuoco le città. Dopo due o tre settimane la gente non ne poteva più e così, forte del consenso popolare, potei scatenare la repressione».

1977, la rivoluzione che cancellò la rivoluzione, scrive Paolo Delgado il 3 gennaio 2017 su "Il Dubbio". I giovani manifestanti chiudono con la cultura della presa del potere, che dal 1917 russo arriva fino al ’68. Può sembrare del tutto sproporzionato e quasi irriverente azzardare confronti tra il ‘77 italiano e la grande rivoluzione che 60 anni prima aveva rovesciato il secolo e il mondo. Il paragone è certamente impossibile se si guarda alla portata degli eventi. Non così se ci si concentra invece sulla cartografia sociale e politica che il ‘77 ridisegna. Il ‘77 italiano certifica la fine della lunga fase inaugurata dal ‘17 russo, annuncia la fine di quel mondo, l’impraticabilità di quel modello di rivoluzione. Quello del ‘77 è stato un Movimento contro il ‘68, segnato dal radicale rifiuto della ossessione partitistica che aveva dato vita ai gruppi della sinistra extraparlamentare, della separazione tra le sfere del politico e del privato. Il ‘68, come il 1917, è il passato. Il 1977 è il presente. I botti che nella notte del 31 dicembre congedarono il 1976, anno di elezioni politiche finite con una sostanziale parità tra Dc e Pci, anno che di conseguenza aveva per la prima volta visto il Pci non opporsi a un governo monocolore democristiano e anzi sostenerlo con l’astensione, salutarono il 1977 ma solo sul calendario. Politicamente e culturalmente quello che oggi definiamo “il 77” era cominciato già da un pezzo e sarebbe proseguito ancora a lungo. A differenza del ‘68, quanto l’esplosione era stata pressoché contemporanea in tutta la penisola come del resto in tutta Europa e in mezzo mondo, il cosiddetto ‘77 si presentò in momenti diversi di città in città. A Milano era iniziato nell’aprile del 1975, con la settimana di rivolta e scontri seguita alla morte di Claudio Varalli, ucciso da un fascista il 16 aprile, e di Giannino Zibecchi, investito da un gippone della polizia il giorno successivo. Era proseguito con la nascita dei Circoli del proletariato giovanile, la pratica degli espropri nei negozi e nei ristoranti più cari, la teorizzazione del diritto al lusso, sino agli scontri dell’8 dicembre ‘76 per l’inaugurazione della stagione alla Scala. L’anno seguente, nel ‘77 propriamente detto, gli epicentri del Movimento furono Roma e Bologna. L’onda raggiunse gli operai di Torino, i protagonisti principali del decennio rosso, solo nel ‘79, con l’ultima grande ciclo di conflittualità operaia alla Fiat. Può sembrare del tutto sproporzionato e quasi irriverente azzardare confronti tra il ‘ 77 italiano e la grande rivoluzione che sessant’anni prima aveva rovesciato il secolo e il mondo. Il paragone è certamente impossibile se si guarda alla portata degli eventi. Non così se ci si concentra invece sulla cartografia sociale e politica che il ‘ 77 ridisegna, costringendo a depositare nei ripostigli della memoria quella precedente. Il ‘77 italiano certifica la fine della lunga fase inaugurata dal ‘17 russo, annuncia la fine di quel mondo, l’impraticabilità di quel modello di rivoluzione. Quello del ‘ 77 è stato un Movimento contro il ‘ 68, segnato dal radicale rifiuto della ossessione partitistica che aveva dato vita ai gruppi della sinistra extraparlamentare, della separazione tra le sfere del politico e del privato, della concezione sacrificale che rinviava la festa rivoluzionaria a dopo la conquista del palazzo d’Inverno di turno, di un’idea della rivoluzione intesa come presa del potere, dell’universalismo egualitario che il 1917 aveva ereditato dal 1789 e di lì era arrivato senza scosse al ‘68. La musica del ‘ 77 era diversa, tanto distante dai movimenti del passato recente quanto la rabbia punk di Anarchy in Uk lo era dalle utopie del rock impegnato della West Coast hippie. In quella lunghissima assemblea permanente che si svolse a Lettere dal 2 febbraio, giorno dell’occupazione della città universitaria, al 17 febbraio, data della cacciata di Lama dall’università e dello sgombro militare della stessa, si parlava davvero di tutto, senza ordine del giorno, senza presidenza, senza tentativi di strutturare il dibattito. Però il tema che appena pochi anni prima sarebbe stato dominante, l’interrogativo su come dare uno sbocco organizzativo a quel conflitto spontaneo, quasi non figurava nell’agenda. Il Movimento del ‘ 77 guardava al presente, sostituendo all’orizzonte lontano della rivoluzione a venire quello immediato del “qui e ora”. Puntava sulla spontaneità, sulla creatività e sull’autonomia senza inseguire la chimera bolscevica del “soggetto rivoluzionario”. Rompeva ogni barriera tra privato e pubblico, convinto che il “personale” fosse del tutto “politico”. Rifiutava l’universalismo per esaltare le differenze, instaurando il primato di una mitologia “differenzialista” opposta e forse non meno malintesa e pericolosa di quella egualitaria che aveva sin lì tenuto banco. Ma tutto il bagaglio che dal Movimento del ‘77 veniva negato e rinnegato, il ‘68 lo aveva ereditato dalla cultura dei movimenti rivoluzionari, per come si era definita a partire dall’Ottobre di Pietrogrado. La rottura del resto era anche più profonda. Gli studenti e i militanti del ‘68, anche in questo ereditando una cultura politica antecedente alla stessa rivoluzione russa, identificavano un soggetto sociale rivoluzionario, per alcuni l’operaio- massa, gli operai di linea e dequalificati delle grandi fabbriche, per altri i popoli del Terzo mondo destinati ad accerchiare le roccaforti imperialiste, al quale si rivolgevano pretendendo di mettersene al servizio e spesso mirando a guidarlo e indirizzarlo. Ma era sempre e comunque altro da sé. I ribelli del ‘ 77 sentivano e sapevano di essere loro stessi il soggetto sociale sfruttato e condannato a una vita grama. Erano la prima generazione che sperimentava sulla propria pelle la fine della società affluente e l’inizio dell’era del precariato e del neo- schiavismo, erano quindi loro stessi il soggetto rivoluzionario. Si spiegano così l’urgenza, la violenza e anche la sostanziale disperazione di un movimento che reagiva mimando la gioia, mascherando l’angoscia sotto le parvenze beffarde e dissacranti degli indiani metropolitani e del situazionismo riscoperto, ma alla fine inevitabilmente arrivando a uno scontro che era violentissimo perché la posta in gioco non lasciava spazio a possibili mediazioni. I ragazzi del ‘ 68 sapevano che, se sconfitti, sarebbero comunque tornati alle loro origini e avrebbero ripreso il loro posto nei ceti medi o medio- alti, come moltissimi hanno effettivamente fatto. Quelli del ‘ 77 erano senza rete e lo avvertivano a pelle. Come in ogni cesura storica, la nettezza del taglio si coglie meglio guardando a ritroso di quanto non si percepisse nel fuoco degli eventi. Gli elementi nuovi e inediti marciavano fianco a fianco con i bagliori estremi dell’epoca al tramonto, tra i quali nessuno era più abbacinante delle Brigate rosse, organizzazione comunista ancora del tutto interna alla logica rivoluzionaria inaugurata dal 1917 e dunque sospettosa e diffidente quasi quanto il Pci di fronte a quello “strano movimento di strani studenti”, come lo definì un fortunato pamphlet dell’epoca. Sul piano del fronteggiamento politico immediato, il nemico principale del Movimento del ‘77 fu il Pci, e lo fu da subito. Il primo febbraio, in piena città universitaria, viene ferito da una rivoltellata fascista lo studente Guido Bellachioma. Il giorno dopo, mentre in piazza della Minerva Walter Veltroni arringa a nome della Fgci alcune centinaia di studenti, migliaia di manifestanti assaltano e incendiano la sede del Fronte della Gioventù in via Sommacampagna, dietro piazza Indipendenza, con l’immancabile scia di scontri con la polizia e con i gruppi fascisti usciti dalla sede in fiamme. Una macchina della polizia in borghese taglia all’improvviso il corteo e viene bersagliata di sassi. Uno dei poliziotti, Domenico Arboletti, esce e senza qualificarsi spara alcuni colpi. Dal corteo rispondono al fuoco, l’agente cade ferito gravemente. Il suo collega esce a sua volta col mitra spianato, ferisce prima Paolo Tommassini, poi Daddo Fortuna che tentava di portare via il compagno ferito trascinandolo con una mano e tenendo con l’altra sia la sua pistola che quella di Tommassini. Dopo la sparatoria il corteo rientra nella città universitaria e la occupa. Il giorno dopo Ugo Pecchioli, “ministro degli Interni” del Pci dichiara: «Collettivi autonomi e fascisti svolgono da tempo un’azione parallela e concomitante, ma non sono due realtà opposte. E’ la medesima logica che li muove, l’odio per le istituzioni democratiche». Per la prima volta l’estremismo rosso non è solo messo sullo stesso piano di quello nero secondo la logica degli “opposti estremismi” ma è direttamente identificato con una forma di fascismo. Nei giorni seguenti il cronista dell’Unità Duccio Trombadori viene “processato” dall’assemblea riunita a Lettere ed «espulso a vita per affermazioni deliranti» dalla città universitaria. Il bando si allarga in realtà anche ai partitini della sinistra radicale che si vogliono eredi del ‘68. E’ in questo clima che si arriva alla folle scelta di organizzare il comizio di Lama nell’università occupata, il 17 febbraio. L’esito di quella provocazione e il seguito renderanno la lacerazione più profonda e incolmabile: gli scontri, il palco abbattuto, il segretario della Cgil messo in fuga con il servizio d’ordine del sindacato mai così plumbeo e torvo, il successivo arrivo delle ruspe a sgombrare l’università e poi, meno di un mese dopo, l’esplosione della capitale rossa, Bologna, in seguito all’uccisione di Francesco Lorusso, i blindati di Cossiga spediti a ripristinare l’ordine dopo 4 giorni di rivolta, la manifestazione nazionale del 12 marzo a Roma, aperta dai bolognesi che scandiscono “Bologna è rossa del sangue di Francesco”, che assalta la sede nazionale della Dc in piazza del Gesù, saccheggia un’armeria sul lungotevere, apre a ripetizione il fuoco sulla polizia, incendia il commissariato di piazza del Popolo. Non che in precedenza tra Movimento e Pci corresse buon sangue. Ma la critica si era sempre limitata a bersagliare “il revisionismo” del partitone, la sua rinuncia alla via maestra rivoluzionaria. Nel ‘ 77 le cose cambiano: il Pci è individuato come parte integrante dello Stato, sponda politica eminente di quella trasformazione sociale complessiva di cui i ragazzi del ‘ 77 si sentivano, a ragione, vittime e nemici mortali. La deriva che porterà i partiti socialdemocratici a gestire in prima persona la gigantesca riorganizzazione degli assetti sociali che, a partire proprio dalla fine dei ‘ 70, cancellerà le conquiste di un secolo instaurando una sorta di neoschiavismo inizia in quell’anno, così come entra in scena allora, per la prima volta, il soggetto sociale prodotto da quel riassetto. Se a distanza di 40 anni non riusciamo a guardare al ‘ 77 con la stessa distaccata nostalgia che avvolge il ‘68 è perché in quell’anno si è presentato, da ogni punto di vista, il mondo in cui viviamo oggi. Il ‘ 68, come il 1917, è il passato. Il 1977 è il presente.

Sogni, errori, libertà. Il nostro ‘77 fu diverso, scrive Carlo Rovelli il 14 febbraio 2017, su "Il Corriere della Sera". L’idea che il mondo andava cambiato è stata sconfitta ma non fu inutile. Quei valori sono rimasti radicati in noi. Leggo in questi giorni diversi articoli sul movimento giovanile che è passato sull’Italia nel 1977, quarant’anni fa, breve e intenso come una folata di vento. Non mi riconosco in questi articoli. Mi sembra non parlino di quanto ci dicevamo, pensavamo e sentivamo io e i miei amici in quegli anni lontani. Io non so fare analisi storiche e sociologiche e non voglio confondere la mia esperienza personale, mia e di qualche amico, con un fatto storico. Ma allora erano molti gli amici intorno a me che sentivano come me, e da qualche parte ci sono ancora. Scrivo qualche riga per loro, i miei tanti amici di allora, e anche per chi magari è curioso di sentire un ricordo diverso. Alcuni di quegli amici hanno un ricordo magico e mitico di quegli anni. Un momento intensissimo di scambio, sogni, entusiasmo, voglia di cambiare, voglia di costruire insieme un mondo diverso e migliore; lo ricordano con nostalgia intensa, fino a rendere grigia l’immagine di quella che è stata la vita poi. Per me non è così. Avevamo vent’anni, e a vent’anni la vita è spesso splendida e rovente, almeno nel ricordo. Non è il profumo della storia, è il profumo della giovinezza. Per me quegli avvenimenti sono stati sì magici e bellissimi, ma perché sono stati l’inizio, perché ne ho tratto delle cose. Hanno aperto un percorso. Non hanno reso la vita successiva meno colorata: sono stati la scoperta collettiva di colori che sono rimasti con me. Certo, l’anno successivo al 1977 è stato vissuto da molti di noi come una disfatta. La voglia luminosa di cambiare il mondo, che ci era sembrata per un attimo aprire possibilità vere, si scontrava contro la realtà. Naufragava, prima colpita dalla reazione delle istituzioni, quella che allora chiamavamo la repressione; poi sconcertata per la violenza di quello che adesso chiamiamo terrorismo. Eravamo in tanti a dirci e sapere bene che la lotta armata in Italia non avrebbe portato a nulla di buono, che era solo una reazione estrema e sciocca, in realtà disperata, a sogni che si chiudevano. I «compagni che sbagliano», lo sapevamo in tanti, erano ragazze e ragazzi con un senso morale più assoluto degli altri, e, come purtroppo spesso accade, accecati da questo. Noi volevamo altro, e per un momento, insieme, in tanti, avevamo pensato fosse possibile. Che fosse possibile andare in quella direzione. Quale direzione? I grandi sogni hanno la caratteristica che quando svaniscono sembrano inconcepibili. Talvolta nella storia i sogni più inconcepibili si realizzano: contro ogni aspettativa dei realisti, la rivoluzione francese abbatte il predominio dell’aristocrazia, il cristianesimo conquista l’impero romano, un allievo di Aristotele conquista il mondo e i suoi amici fondano biblioteche e centri di ricerca, i seguaci di un predicatore arabo cambiano l’ordine del pensiero di centinaia di milioni di persone, eccetera eccetera. Più spesso, grandi sogni si scontrano contro la forza del quotidiano, durano pochissimo o poco, crollano, vengono dimenticati. Sono i tanti rivoli della storia che, bene o male, non portano da nessuna parte. I movimenti del Trecento per una chiesa povera, le comunità utopiche del XVIII secolo, o il sogno egualitario del comunismo sovietico; oppure le fantasie naziste che appassionavano tanto la gioventù, forse oggi il Califfato… Ma più spesso ancora quello che succede è più complesso, e la storia segue percorsi tortuosi. Il Direttorio elimina Robespierre, Wellington batte Napoleone, e il re di Francia torna sul trono: la rivoluzione ha perso… Ma ha perso davvero? Il movimento delle suffragette per il diritto di voto alle donne è sconfitto al tempo della prima guerra mondiale. Ma ha perso davvero? I movimenti storici sono fatti di idee, giudizi etici, passioni, modi di vedere il mondo. Spesso non vanno da nessuna parte. Talvolta però lasciano tracce che continuano ad agire in profondità sul tessuto mentale della civiltà, la cambiano. La nostra civiltà, l’insieme dei valori in cui crediamo, è il risultato di molti sogni, di molti che hanno saputo sognare intensamente al di là del presente. Il movimento del ‘77 italiano non è comprensibile da solo. È stato un’espressione tarda, non certo l’ultima, ma una delle ultime, consapevole di questo, e per questo intensa, di uno di questi grandi sogni che ha spazzato non l’Italia ma il mondo intero per un breve ventennio che va dagli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta. Sono stati anni in cui una parte considerevole della gioventù del mondo intero ha sognato e sperato intensamente di poter cambiare la realtà sociale in modo molto radicale. Non è stato certo un movimento di pensiero strutturato e coerente, anzi, era disperso in mille rivoli. Ma nonostante le grandi diversità, tutti questi rivoli sentivano con assoluta chiarezza di appartenere allo stesso fiume, dalle piazze di Praga alle università di Città del Messico, dal campus di Berkeley a Piazza Verdi a Bologna, dalle comuni hippie rurali e urbane della California ai guerriglieri sudamericani, dalle marce cattoliche per il Terzo mondo agli esperimenti dell’anti-psichiatria inglese, da Taizé a Johannesburg, nella strepitosa differenza di atteggiamenti specifici, c’era un reciproco intenso riconoscimento di appartenere allo stesso grande fiume, di condividere uno stesso grande sogno. Di «lottare», come si diceva allora, per un mondo molto diverso. Era il sogno di costruire un mondo dove non ci fossero forti disparità sociali, non ci fosse dominio dell’uomo sulla donna, non ci fossero confini, non ci fossero eserciti, non ci fosse miseria. Era il sogno di sostituire la collaborazione alla lotta per il potere, di lasciarsi alle spalle i bigottismi, i fascismi, i nazionalismi, gli identitarismi, che avevano portato le generazioni precedenti a sterminare cento milioni di esseri umani durante le due guerre mondiali. I sogni si spingevano lontano: un mondo senza proprietà privata, senza gelosia, senza gerarchie, senza chiese, senza stati potenti, senza famiglie chiuse, senza dogmi, libero. Dove non avevamo bisogno degli eccessi del consumismo, e si lavorava per il piacere di fare, non per lo stipendio. Solo a nominare oggi queste idee sembra di parlare di delirî. Eppure eravamo in tanti a crederci, in tutto il mondo. In quegli anni ho viaggiato molto, in diversi continenti, e ovunque incontravo giovani con questi stessi sogni. Di questo parlavamo i miei amici ed io in quell’anno, il 1977. Non certo della paura del precariato. Se vogliamo ricordare qualcosa di quelli anni, è questo che io ricordo. Vivevamo in case aperte. Si dormiva un po’ qui e un po’ là. Sapevamo bene che l’eroina è pericolosissima e chiunque avesse un po’ di cervello se ne teneva lontano. Ma sapevano anche che marijuana e Lsd non lo sono, e si offriva uno spinello con la semplicità con cui si offre un bicchiere di vino. L’Lsd era tutt’altro: un’esperienza potente e importante, da trattare con attenzione e rispetto, ma che poteva insegnare molto. L’occupazione principale, come è d’uso per ogni gioventù, era innamorarsi e disperarsi per amore; ma il sesso era moneta quotidiana, un modo per incontrarsi e conoscerci con tutti, dell’altro sesso come del proprio. Era preso sul serio, come il centro della vita, quasi con religione. E come per ogni religione, di sesso e amore si voleva riempire la vita. E di amicizia, di musica, di inventarsi modi di essere insieme, diversi da quelli grigi e competitivi delle generazioni precedenti. Si provava a vivere in comune, si provava a non essere gelosi, si provava a condividere. Ci si azzuffava e ci si disperava come in ogni famiglia, ma il senso di essere una grandissima famiglia sparsa per il pianeta, era forte: un grandissima famiglia che si adoperava insieme, come esploratori delle stelle, a costruire un mondo nuovo, molto diverso… Io mi sono sempre immaginato che le comunità quacchere dei primi coloni europei in America, i compagni di Gesù in Palestina, i primi cristiani, i giovani italiani del Risorgimento, i compagni di Che Guevara in Bolivia o gli allievi di Platone nell’Academia… si sentissero un po’ così…Quel mondo non l’abbiamo costruito, non c’è ombra di dubbio. La disillusione è arrivata presto. Alcuni dei progetti li abbiamo abbandonati perché ci sono sembrati sbagliati. Molti altri semplicemente perché sono gli altri che hanno vinto. La plausibilità di quei sogni si è sciolta per la mia generazione come neve al sole. Ci siamo separati, ciascuno è andato nella vita seguendo una sua strada. È stato inutile sognare? Non credo. Per due motivi. Il primo è che per molti di noi quei sogni hanno rappresentato il nutrimento fertile su cui costruire la vita. Alcuni di quei valori sono rimasti radicati dentro di noi e ci hanno guidato. La libertà di pensiero estrema di quegli anni, in cui tutto sembrava possibile ed esplorabile e qualunque idea sembrava modificabile, è stata la sorgente per cui molti di noi hanno fatto quello che poi hanno fatto nella vita. Il secondo motivo non so se sia credibile o no. Ma esiste lo stesso. Spesso nella storia i sogni di costruire un mondo migliore sono stati sconfitti. Ma hanno continuato a lavorare sotterraneamente. E alla fine hanno contribuito a cambiare davvero. Io continuo a credere che questo mondo sempre più pieno di guerra, di violenza, di estreme disparità sociali, di bigottismo, di gruppi nazionali, razziali, locali, che si chiudono nella propria identità gli uni contro gli altri, continuo a credere che questo mondo non sia l’unico mondo possibile. E forse non sono il solo.

Assemblea operai e studenti. «Già prima dell'arrivo dei militanti del Movimento Studentesco torinese riunioni informali si svolgevano tra gruppi di operai e appartenenti alle formazioni operaiste (Potere operaio e Lega studenti-operai) in un bar di Corso Tazzoli, situato a due passi da Mirafiori. L'Assemblea operai e studenti si forma invece nel mese di maggio del 1969, quando finalmente gli studenti decidono di passare dalle riunioni all'Università all'intervento davanti alle porte di Mirafiori. Si tratta questa volta di una scelta radicale e di un impegno totale a fianco della lotta degli operai, che chiude ogni possibile via di ripiegamento verso l'università e il movimento studentesco, con questa scelta esso infatti cessa ufficialmente di esistere. Questa volta, a differenza degli interventi precedenti, gli studenti ci tengono a segnalare che non vengono davanti alle porte per “scambiare quattro chiacchiere” con i lavoratori, vengono per favorire la costruzione di un collegamento tra operai delle diverse squadre e officine, per riunirsi insieme a loro e “decidere insieme le azioni di lotta”. L'unità d'azione tra loro e i gruppi operaisti che già intervengono alla Fiat si consolida su una piattaforma che rivendica: aumenti salariali uguali per tutti, rifiuto dei tempi di produzione, diminuzione dell'orario di lavoro. Più in generale esprimono un giudizio critico verso le forme storiche di organizzazione operaia, partiti di sinistra e sindacati, e sono propensi a non accettare, in qualunque modo e forma, la figura del delegato operaio». Da: D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di Corso Traiano. Torino 3 luglio 1969, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1997, 56-57.

Alternanza scuola-lavoro, Siamo studenti, non operai: uno slogan sbagliato, scrive Manlio Lilli il 16 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Siamo studenti, non siamo operai”, hanno gridato gli studenti che hanno manifestato venerdì scorso in molte città italiane contro l’alternanza scuola-lavoro. Ma anche contro molto altro, a partire dalla sicurezza, che nelle scuole continua ad essere troppo spesso una promessa. Slogan, certo, quelli degli studenti. Per questo non sempre sintesi di ragionamenti. Frequentemente parole che fanno rumore. Devono colpire. Questa volta l’hanno fatto, anche se forse non nella direzione sperata. In questo caso la contrapposizione tra studenti e operai ha provocato la reazione non del ministro dell’istruzione, oppure di qualche politico al governo, ma dei sindacati. Anzi del sindacato di quegli operai ai quali gli studenti non vorrebbero essere accomunati, “Piccoli snob radical-chic monopolizzano i movimenti degli studenti contro il loro futuro. Chiedano scusa agli operai che a differenza loro sanno quanto paghiamo gli anni di ritardo sull’alternanza studio-lavoro”, ha tuonato in un tweet Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl. Solo un incidente? Insomma un difetto di comunicazione da parte di chi ha sfilato pensando alla propria condizione? Pur volendo concedere agli studenti le attenuanti del caso, non sembra. Già, non sembra proprio. I nuovi sessantottini hanno tutta l’aria di voler andare da soli. Di sentirsi diversi a tutti gli effetti dagli operai. No, questa volta non si tratta di abbigliamento. Ormai differenze non ne ne esistono quasi più. Non esistono capi d’abbigliamento simbolo. Tutto riposto e dimenticato, come se non fosse mai esistito. Non esiste più l’eskimo e neppure la tolfa. Ci si veste generalmente alla stessa maniera. Ma i pensieri sono diversi. Lontanissimi tra loro. Gli studenti non si riconoscono negli operai. Sembra passata un’eternità dal ’68. Allora c’era stata la contestazione con l’occupazione di numerose facoltà, cortei, grandi manifestazioni e scontri con le forze dell’ordine. Poi, sull’onda dell’“operaismo”, il movimento studentesco aveva individuato nella classe operaia il suo interlocutore privilegiato. Un cinquantennio di politiche della scuola scriteriate, di riforme autolesionistiche, hanno cancellato quel rapporto. Lo hanno trasformato in dichiarato antagonismo. Ma addossare ogni colpa alla politica italiana sarebbe ingiusto. Se è vero che si impara quel che ci viene insegnato, è pur vero che poi a fare la differenza è la capacità dell’individuo, anche se giovane, di farsi delle domandare e di chiedere, di informarsi e di farsi delle idee. Ed in questo, almeno, la generazione che ha manifestato in molte città italiane, sembra aver mancato. Sembra aver mancato di esercitare il proprio spirito critico. “Avete faccia di papà, vi odio come odio i vostri papà… siete pavidi, incerti, disperati ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati. Prerogative piccolo-borghesi… chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi)… che la stella della buona borghesia vi assista!”. Il Pier Paolo Pasolini della famosa poesia “Il Pci ai giovani” si scaglia contro il Movimento studentesco dopo l’aggressione ai poliziotti a Valle Giulia. E’ il 1968. Il fallimento di quella esperienza non sembra aver insegnato nulla. A nessuno. Non ai giovani di allora, padri oggi degli studenti che gridano contro gli operai. E neppure alla politica. Sempre più inadeguata a riformare la scuola. Dietro molti dei “bravi figli borghesi” di Pasolini c’era forse una eccessiva politicizzazione. A guidare molti dei nuovi sessantottini, slogan troppo volte gridati ma non pensati. Cari ragazzi, chiedete scuole sicure e un’alternanza scuola-lavoro davvero efficace, utile, per il vostro percorso. Ne avete pieno diritto. Ma lasciate perdere gli operai, non sono loro il vostro nemico.

Perché l’alternanza studio-lavoro divide operai e studenti. La classe operaia è cambiata. L’impressione è però che di questo mutamento i giovani sappiano poco o niente e la figura dell’operaio sia assimilata tout court al lavoro manuale o peggio allo «sfruttamento», scrive Dario Di Vico il 14 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Siamo studenti, non siamo operai». Uno slogan risuonato durante le manifestazioni studentesche di venerdì scorso ha animato il sabato della Rete. La trovata non è piaciuta nemmeno un po’ al segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli che ha il pregio di non mandarle a dire ma di esporsi in prima persona. Ecco infatti il suo tweet: «Piccoli snob radical-chic monopolizzano i movimenti degli studenti contro il loro futuro. Chiedano scusa agli operai che a differenza loro sanno quanto paghiamo gli anni di ritardo sull’alternanza studio-lavoro». Il tweet ha generato a sua volta risposte secche ed insulti ma fin qui (purtroppo) niente di nuovo. È interessante, invece, alla vigilia delle celebrazioni e degli eventi previsti per l’anniversario del ‘68 ragionare sugli slittamenti culturali che riguardano la figura dell’operaio presso le nuove generazioni. Alla fine degli anni ‘70 il metalmeccanico era una figura quasi mitologica. Lo studente che andava in corteo cercava di seguirne l’esempio, spesso si recava davanti ai cancelli della fabbrica per condividere con lui il momento magico del picchetto e della cacciata dei crumiri. In sostanza ne riconosceva e invocava la funzione di «guida». Al punto che diversi militanti della sinistra extraparlamentare vollero provare direttamente l’esperienza di lavoro alla catena di montaggio per conoscere da vicino il meccanismo di funzionamento quotidiano del capitalismo per incamerare conoscenze e far propria la cosiddetta «condizione operaia». Poi arrivò anche il cinema e Giancarlo Giannini con la regia di Lina Wertmuller scolpì il suo indimenticabile «Mimì metallurgico». Ai giorni nostri, con la Grande Crisi alle spalle e i mille dilemmi sulla globalizzazione che avanza o che arretra, per gli studenti — almeno per quella minoranza che venerdì ha manifestato in 70 città d’Italia — l’operaio non è più quel punto di riferimento di tanti anni fa. È cambiato quasi tutto e di classi operaie non ce n’è più una, indossando la tuta si può essere tecnici del 4.0, addetti alle linee di montaggio oppure facchini della logistica. Tre lavori assai diversi tra loro. L’impressione è però che di questo mutamento i giovani sappiano poco o niente e la figura dell’operaio sia assimilata tout court al lavoro manuale o peggio allo «sfruttamento». E da qui partono tutti gli equivoci della via italiana all’alternanza studio-lavoro, errori che potremmo sintetizzare con questa espressione: come raccontare male ai giovani cos’è oggi il mondo della produzione e come volendoli attrarre siamo riusciti ad allontanarli.

Se gli studenti non sanno più chi è un operaio, scrive su "Il Corriere della Sera" il 15 Ottobre 2017 Dario Di Vico. «Siamo studenti, non siamo operai». Uno slogan risuonato durante le manifestazioni studentesche di venerdì scorso ha animato il sabato della Rete. La trovata non è piaciuta nemmeno un po’ al segretario generale della FimCisl Marco Bentivogli, che ha il pregio di non mandarle a dire ma di esporsi in prima persona. Ecco il suo tweet: «Piccoli snob radical-chic monopolizzano i movimenti degli studenti contro il loro futuro. Chiedano scusa agli operai che a differenza loro sanno quanto paghiamo gli anni di ritardo sull’alternanza studio-lavoro». Il tweet ha generato risposte secche e insulti ma fin qui niente di nuovo. È interessante, invece, alla vigilia delle celebrazioni dell’anniversario del ‘68, ragionare sugli slittamenti culturali che riguardano la figura dell’operaio. Alla fine degli anni 70 il metalmeccanico era un mito. Lo studente in corteo cercava di seguirne l’esempio, si recava davanti alla fabbrica per condividere il momento magico del picchetto, ne riconosceva e invocava la funzione di «guida». Al punto che diversi vollero provare l’esperienza di lavoro alla catena di montaggio per conoscere da vicino il funzionamento del capitalismo, e far propria la «condizione operaia». Ai giorni nostri, con la Grande crisi alle spalle e i mille dilemmi sulla globalizzazione che avanza o che arretra, per gli studenti — almeno per la minoranza che ha manifestato — l’operaio non è più quel punto di riferimento d’antan. È cambiato quasi tutto e di classi operaie non ce n’è più una, indossando la stessa tuta si può essere tecnici del 4.0, addetti alle linee di montaggio oppure facchini della logistica. Tre lavori assai diversi tra loro. L’impressione è però che di questo mutamento i giovani sappiano poco/niente e la figura dell’operaio sia assimilata tout court al lavoro manuale o allo «sfruttamento». E da qui partono gli equivoci della via italiana all’alternanza studio-lavoro, che riassumerei così: come raccontare male ai giovani cos’è oggi il mondo della produzione e come volendoli attrarre siamo riusciti ad allontanarli.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.

Luigi Tenco, Pier Paolo Pasolini: quando la tragedia sveglia le coscienze. Il suicidio di Luigi Tenco (1967) e l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (1975): la gravità di questi due eventi scosse tante persone, ma soprattutto colpì anche parte di quel blocco conservatore indicato come “maggioranza silenziosa”, scrive Gianni Martini il 3 dicembre 2012. Si è parlato di “torpore coscienziale”, condizione politico-culturale che caratterizzava, negli anni ’60 e ’70, larghi strati della popolazione. “Maggioranza silenziosa”, così veniva definito questo “blocco sociale” trasversale che dalla piccola e media borghesia arrivava a toccare anche i ceti popolari. Ritengo importante soffermarmi su questo “muro sociale” conservatore perché la sua presenza impalpabile e, appunto, silenziosa, giocò un ruolo significativo. Più che di arretratezza politica penso si trattasse di una ben più grave arretratezza culturale che si esprimeva in una mentalità chiusa e refrattaria alle novità. Sarebbe quindi sbrigativo ed erroneo liquidare come “di destra”, compattamente, quest’area sociale. Infatti, anche una parte della sinistra popolare, allora legata al P.C.I, condivideva nei fatti le stesse posizioni conservatrici che non esitarono a condannare l’arte d’avanguardia, i capelloni dei primi anni ’60, gli omosessuali. Eppure, in quegli anni ci furono almeno due fatti che, sul piano del costume, scossero la società civile, arrivando forse a smuovere un po’ anche le “maggioranze silenziose”: 1967 suicidio di L. Tenco e 1975 omicidio di P. Pasolini. La sociologia ci insegna che quando nella società civile si verifica un “evento traumatico” si possono determinare cambiamenti nei comportamenti sociali più o meno diffusi, in relazione all’entità dell’evento stesso. L. Tenco si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967, mentre era in corso il festival di Sanremo. Nel drammatico messaggio che lasciò scritto sulla carta intestata dell’albergo si leggeva un’attestazione d’amore per il pubblico italiano, ma al tempo stesso una profonda delusione per il passaggio in finale di una canzonetta insulsa come “Io tu e le rose” e una finta canzone di protesta come “La rivoluzione”. L’opinione pubblica fu scossa soprattutto perché non ci si aspettava che il Festival di Sanremo potesse essere sconvolto da una tragedia simile. La morte di L. Tenco fece irrompere nella spensieratezza del tempio della canzonetta disimpegnata e leggera, del bel canto popolare, un’altra realtà: il fatto che si potessero scrivere canzoni frutto di un’ispirazione più autentica, canzoni che parlassero della vita concreta, non idealizzata e mistificata. Che le cose stessero iniziando a cambiare – con grida di scandalo di ben pensanti e reazionari di ogni risma – lo si era in realtà già capito da qualche anno, visto che il Festival di Sanremo aveva ospitato alcuni complessi di “capelloni” e canzoni di protesta. Comunque quasi tutta la stampa batté la strada del “cantante solo, incompreso, forse depresso e inacidito per il mancato successo”. Certamente il mondo della canzone, dopo quel tragico fatto, non fu più lo stesso. Nel 1972 nacque a Sanremo il Club Tenco e nel 1974 vi si tenne la prima “Rassegna della canzone d’autore”. Il Club Tenco (presieduto e fondato da A. Rambaldi), per statuto, si impegna a promuovere e diffondere un nuovo tipo di canzone, fuori dalle strategie delle case discografiche e della musica di consumo. Una canzone rivolta alla parte più sensibile e impegnata della società civile, già frutto di una vitalità socio- culturale, segno attuale dei tempi. E veniamo alla drammatica vicenda di P. Pasolini, ucciso barbaramente nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Gli occulti mandanti e le circostanze dell’omicidio non furono mai del tutto chiarite. Anche in questo caso l’impatto fu notevole soprattutto sulle componenti della società civile più sensibili e culturalmente attive. Buona parte della stampa, dopo aver riconosciuto o semplicemente riportato con distacco il valore dell’impegno artistico e intellettuale di Pasolini, si soffermò soprattutto sugli aspetti da “cronaca nera”. La stampa più retriva e moralista trattò il caso come “maturato negli ambienti omosessuali”. Per il resto ci si limitò con poche eccezioni a descrivere le scelte di vita di Pasolini. Si perse così (volutamente, sia chiaro), l’occasione per una discussione non solo sulla statura artistica di Pasolini ma su ciò che, come giornalista, scriveva su quotidiani e riviste importanti come “Il corriere della sera”, “Il tempo”, “Panorama”, “Rinascita”, “Il mondo” ecc, oltre a dichiarazioni rilasciate in interviste, anche televisive.

Quella rivoluzione chiamata Luigi Tenco. Fascinoso, anticonformista, ombroso. Ma anche ironico e traboccante di creatività, capace di sfidare la morale con canzoni che facevano pensare. Cinquant'anni fa, il 27 gennaio 1967, il cantautore pose fine alla sua vita con un colpo di pistola. Lasciando però una grande eredità alla nostra canzone, scrive Alberto Dentice il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Se non fosse mai andato al festival di Sanremo, oggi Luigi Tenco avrebbe 78 anni, la stessa età di Celentano e chissà, forse sarebbe anche lui un insopportabile gigione. Invece, il 27 gennaio del 1967, 50 anni fa, con un colpo di pistola Tenco pose fine alla sua vita tormentata assicurandosi un posto nel paradiso dei “forever young”, accanto a Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e altre leggende del rock morte giovani e preservate perciò dagli acciacchi del tempo e dell’età. Che si sia trattato di suicido, di un fatale incidente come capitò a Johnny Ace (leggenda del R&B fulminato nel 1954 da un colpo partito per sbaglio mentre giocava con la sua pistola) o di omicidio eseguito su commissione di oscuri mandanti come quello di Pier Paolo Pasolini, il dibattito è ancora aperto. Una mole impressionante di libri e di inchieste giornalistiche ne hanno evidenziato a più riprese l’inconsistenza: si legga in proposito la nuova aggiornata biografia di Aldo Colonna, “Vita di Tenco” (Bompiani), che arriva ad adombrare una responsabilità del vicino di stanza, Lucio Dalla. La versione del suicidio sembrerebbe a tutt’oggi accettata con rassegnata perplessità dalla stessa famiglia del cantautore, rappresentata dai due figli del fratello, Valentino Tenco, e dalla loro madre. Suicidio o omicidio? Non è un dubbio da poco. Cambiando il finale, sarebbe tutto un altro film. E il mito dell’artista “maudit” che si toglie la vita per protestare contro l’ottusità e la corruzione che infestano il tempio della musica leggera ne uscirebbe ridimensionato. Dell’eredità spirituale e artistica di Tenco, nel frattempo ha continuato a occuparsi, nel segno dell’indipendenza e di una mission creativa scevra da compromessi con il famigerato “mercato”, la Rassegna a lui dedicata, fondata proprio a Sanremo da Amilcare Rambaldi, gran signore e appassionato conoscitore di musica popolare. Il Premio Tenco aprì le porte nel 1974, nel pieno della stagione d’oro della canzone d’autore. Poi nel ’95 Rambaldi ci ha lasciato e la manifestazione ha cominciato a perdere un po’ dell’allegria e dello spirito dilettantesco, nel senso migliore del termine, che ne avevano caratterizzato gli esordi. Le mitiche serate post festival trascorse all’osteria assistendo alle sfide in ottava rima tra Guccini e Benigni sono un ricordo. Anche il Tenco ha aperto le porte al nuovo e ha esteso il concetto di canzone d’autore fino ad abbracciare l’hip hop, la canzone dialettale, la world music e il pop all’insegna di quella contaminazione tra i generi che siamo portati a considerare il suggello della contemporaneità. L’orgoglio della diversità artistica è rimasto un punto fermo anche per Enrico De Angelis, il direttore artistico che ne ha guidato le sorti fino a poche settimane fa, coadiuvato da un ristretto comitato di esperti e appassionati. Per celebrare i 50 anni dalla scomparsa, l’edizione 2016, la quarantesima, ha previsto un gran finale tutto dedicato a Luigi Tenco. Titolo: “Come mi vedono gli altri… quelli nati dopo”. Sul palco fra gli altri anche l’istrionico Morgan che per Tenco ha una vera adorazione. Gli ha dedicato il prossimo album e una canzone: «Luigi Tenco / scappato eternamente / oltre lo spazio, le luci e il tempo / perché lui si sente /vivo / fatalmente/ solo nel momento in cui non è». Ma quanti lo ascoltano, quanti fra i giovani musicisti e i cantanti oggi conoscono Tenco? La risposta forse arriverà il 28 gennaio ad Aosta, quando sul palco del Teatro Splendor in ricordo del cantautore saliranno altri giovani protagonisti della canzone d’autore. Fra gli altri proprio il toscano Motta, cui è stato assegnato il recente premio Tenco. E che mentre si appresta a cantare il suo “Una brava ragazza”, ammette di conoscerlo poco. Ma appunto, chi era Luigi Tenco? Certo è che quel gesto estremo, notava anni fa Lietta Tornabuoni su La Stampa, «lo aveva confermato per quel che Tenco era sempre apparso all’euforico, quattrinaio e prepolitico mondo della musica leggera dei primi anni Sessanta: un guastafeste». E chissà se Carlo Conti e Maria De Filippi decideranno di commemorare l’anniversario al prossimo Sanremone. Perché la sua ombra continua a dividere come quella di un angelo sterminatore. Le cronache del tempo tramandano il ritratto di un anticonformista dal carattere ombroso e introverso ma assai consapevole del proprio fascino, jeans e maglione nero d’ordinanza, lo sguardo sprezzante del giovane arrabbiato a mascherare una profonda fragilità. Insomma, è uno che se la tira. Oltretutto il Nostro è un lettore accanito, adora Pavese e in una canzone, “Quasi sera”, cita addirittura versi di Bertolt Brecht. Quanto basta perché alla fama di intellettuale si sommi quella più sospetta di comunista. Oggi non ci farebbe caso nessuno, ma nell’Italia pre-sessantotto che vuole essere ricca, spregiudicata e ottimista basta questo per essere guardato con diffidenza, specie nell’ambiente ridanciano e superficialotto della discografia. All’immagine del pessimista introverso da sempre fa da contraltare quella del Tenco amante della vita, traboccante creatività e perfino spiritoso, bravissimo a raccontare barzellette, con un debole per le zingarate. Dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto, insomma, Tenco risulta essere stato tutto e il contrario di tutto. Ma sulla sua missione ha idee chiarissime: «Anche la canzone può servire a far pensare». Convinto che si debba cantare l’amore con un linguaggio nuovo, fare a pezzi i luoghi comuni, la rima baciata, il verso tronco, la retorica imperante. Sì: «Mi sono innamorato di te», ma solo «perché non avevo niente da fare». Nei primi anni Sessanta, ovviamente, non è il solo artista impegnato a rinnovare il linguaggio della canzone. Tenco è meno musicista di Bindi, meno romantico di Paoli, non ha l’aplomb aristo-maledetto di De André, ma proprio lui, genovese d’adozione (è nato a Cassine in provincia di Alessandria) è il più politico del gruppo. Nel 1962, “Cara maestra”, il “j’accuse” contro l’ipocrisia di certi precetti morali impartiti a scuola e in chiesa, gli era valso due anni di esilio dalla tv. Intanto, nella musica e non solo in quella, sta cambiando tutto. L’avvento di Bob Dylan, dei Beatles, dei Rolling Stones ha impresso al mondo un’accelerazione bestiale. Tenco, appena sbarcato alla Rca, la sua nuova casa discografica, scopre il Piper Club, il tempio romano del beat e dei capelloni, dove oltre ai Rokes, all’Equipe 84, a Patty Pravo si possono ascoltare i Primitives, i Bad Boys e molti altri gruppi rock blues inglesi sconosciuti ma bravissimi. E perfino divinità del Rhythm’ n’Blues come Otis Redding, Wilson Pickett, Sam & Dave. Tenco a differenza di Bindi, di Paoli, di Endrigo, di Lauzi, che hanno la bussola puntata verso la Francia di Brassens, guarda più all’America. Nasce come sassofonista, viene dal jazz e ha trovato in Paul Desmond il suo modello. Come se non bastasse, sussurra «Quando il mio amore tornerà da me…» con lo stesso timbro vellutato di Nat King Cole e in questo come in altri suoi lenti da mattonella farciti con overdose di violini - pensiamo a “Lontano, lontano” o a “Ti ricorderai” - riesce a toccare come pochi le corde della malinconia. Proprio al Piper, però, il Nostro deve rendersi conto che il conflitto, ormai, non è più fra destra e sinistra, quanto piuttosto una questione generazionale. Da una parte i giovani, dalla parte opposta tutti gli altri. Lui a 25 anni si sente già vecchio, e quando nel 1966 scoppia la polemica contro i capelloni, è tra i primi a schierarsi: «Gli argomenti preferiti di certa gente sono che i capelloni non lavorano, che non si lavano, che sono ignoranti; bene, a questo punto io mi proclamo un capellone, mi sento uno di loro». L’ondata dei beat, delle canzoni di protesta lo vedrà in prima linea, anche se, a onor del vero, il contributo di Tenco alla causa, “Ognuno è libero”, non si distingue per originalità. Chissà cosa pensano davvero di lui i giovani che oggi nei dischi infilano cover delle sue canzoni per accattivarsi la giuria del premio Tenco. I cinquant’anni dalla morte cadono mentre De Angelis si dimette dal Club denunciando che l’iniziale «professionalità» si sta trasformando in «professionismo», e gli eredi litigano con i gestori del museo-omaggio di Ricaldone, rei di aver esposto una gigantografia del cantante. E intorno a Tenco tira aria di maretta.

«Ecco perché Tenco fu ucciso». Il libro-inchiesta riapre il caso, scrive Monica Bottino, Sabato 23/02/2013, su "Il Giornale". «Quando molti giornalisti mi chiedono se esiste il delitto perfetto, io gli rispondo di sì: è l'omicidio Tenco». Il criminologo Francesco Bruno ne è convinto. Nella notte del 27 gennaio 1967, durante il Festival di Sanremo, avvenne quello che a 46 anni di distanza resta ancora uno dei grandi misteri italiani. Mistero, sì. Nonostante due sentenze della magistratura dicano che Luigi Tenco si è suicidato, sono tanti e insoluti i dubbi su quella notte. E non solo. A tentare di far luce su quello che è per molti un «cold case» sono due giornalisti d'inchiesta: Nicola Guarnieri e Pasquale Ragone che hanno pubblicato il libro «Le ombre del silenzio. Suicidio o delitto? Controinchiesta sulla morte di Luigi Tenco» (edizioni Castelvecchi), proprio con la prefazione del professor Bruno. Un lavoro ponderoso che è il risultato di quattro anni di ricerche nei faldoni giudiziari, alla riscoperta di interviste dell'epoca con le persone che a vario titolo furono coinvolte nella vicenda. E nuove testimonianze. A rendere straordinario il libro non c'è solo la capacità degli autori di raccontare una storia vera come fosse un noir, ritmandola di colpi di scena e rivelazioni clamorose, ma anche e soprattutto la pubblicazione di testimonianze e materiali inediti rinvenuti nell'aula bunker della corte di Assise di Sanremo. Un lungo lavoro di ricerca che gli autori hanno portato avanti scavando tra archivi e faldoni, fino a scovare per la prima volta il foglio matricolare e alcune lettere di Luigi Tenco, documenti finora mai pubblicati. Il lettore viene assalito da molti dubbi di fronte a un quadro inquietante e alle troppe incongruenze che emergono dalle carte stesse. Alla fine emergono anche altre domande: perché Tenco doveva morire? Quali segreti custodiva? E la richiesta degli autori alla magistratura, sulla base delle nuove prove emerse, è quella di aprire nuovamente il caso. Intanto è bene sapere che Luigi Tenco in quei giorni aveva paura. Di più. Temeva per la sua vita, dopo che poco tempo prima del festival, nei pressi di Santa Margherita due auto lo avevano stretto e avevano tentato di mandare la sua fuoristrada. Era stata la terza volta che attentavano alla sua vita, confidò a un amico. Fu a quel punto che decise di acquistare una pistola Walther Ppk7.65, abbastanza piccola da tenerla nel cruscotto della macchina. Secondo gli autori non fu questa la pistola che uccise Tenco perché non uscì mai dalla macchina. Nella stanza 219 del Savoy la polizia dirà di aver rinvenuto una Bernardelli, molto simile alla precedente, ma naturalmente non quella. Inoltre nel primo verbale stilato dalla polizia «alle ore tre» (e pubblicato nel libro) si parla di proiettili, di medicinali, ma non di arma. La pistola non fu repertata. Perché? Forse perché non c'era? Ma andiamo avanti. È assodato che il cadavere fu condotto all'obitorio subito dopo il ritrovamento dai necrofori, che poi furono richiamati e costretti a riportarlo nella stanza dove fu rimesso nella posizione che aveva al momento del ritrovamento, per consentire alla polizia di scattare le fotografie e di eseguire i rilievi non fatti prima. Non fu eseguita l'autopsia. Il cadavere di Tenco non fu svestito né lavato, ad eccezione del viso. Non fu nemmeno fatto lo «stub», ovvero il test che prova se una mano ha tenuto la pistola che ha sparato. Nulla. Perché? A distanza di molti anni, a fronte di molti dubbi, nel 2006 la salma di Tenco fu riesumata. Gli esami furono - secondo gli autori - incompleti anche in questo caso. Ma ci furono esperti che si dissero convinti che la pistola che aveva ucciso Tenco avesse un silenziatore, poiché la ferita sul cranio non era a stella, ma rotonda. Ma il silenziatore non fu mai trovato. Inoltre nel 2006 non furono fatti accertamenti sui vestiti, gli stessi che l'uomo indossava al momento della morte e che avrebbero almeno dovuto avere le tracce dello sparo. Il lettore verrà condotto attraverso uno dei misteri irrisolti con dovizia di particolari e una documentazione ricca, sebbene un piccolo appunto (magari in vista di una ristampa) va fatto per la poca chiarezza delle immagini fotografiche stampate sulla carta ruvida, e in bianco e nero anche nella ricostruzione. Resta il fatto che il libro-inchiesta non solo pone questioni, ma fornisce al lettore anche una possibile chiave di lettura degli avvenimenti che culminarono in quella notte maledetta. C'è la pista argentina, per dirne una, ma si parla anche di mafia marsigliese, e di eversione di estrema destra. E anche del potere delle case discografiche a Sanremo. Non possiamo svelare di più, per non togliere il piacere di una lettura coinvolgente che attraversa fatti e personaggi della nostra storia. «Gli esami svolti nel 2006 dall'Ert non chiariscono tutti i punti oscuri e la tesi del suicidio non combacia con diversi elementi», scrive ancora Bruno nella prefazione. La soluzione al mistero è ancora lontana. Ma questo libro è un passo avanti.

Con la morte di Pino Pelosi, addio alla verità sul delitto Pasolini. Condannato come unico autore dell'assassinio, malato di cancro, con lui se ne va la speranza di conoscere come andarono davvero i fatti nel 1975, scrive il 21 luglio 2017 Chiara Degl'Innocenti su "Panorama". Con la morte Pino Pelosi se ne va l'unica possibilità di scoprire tutta la verità sul delitto di Pier Paolo Pasolini. Chiamato dalla malavita romana Pino la rana, Giuseppe Pelosi aveva appena 17 anni quando la notte del 2 novembre 1975, venne fermato alla guida dell'auto di Pasolini che era stato brutalmente ucciso all’Idroscalo di Ostia. In quell'auto furono trovate tracce del sangue del poeta ed altri indizi che portarono direttamente a Pelosi che, fermato, si assunse la responsabilità del omicidio. Il racconto fu conciso, ma non privo di buchi neri, lacune e aspetti oscuri. Il giovane infatti disse di aver opposto resistenza alle avances di Pasolini reagendo con violenza picchiando fino a uccidere. Ma la bestiale aggressione apparve inverosimile consumata da parte di un ragazzino mingherlino come Pino. Fermato dalla polizia il giovane, inoltre, era stato trovato privo di tracce di sangue e fango, mentre il corpo di Pasolini appariva massacrato da una furia disumana. Nonostante tutto questo Pino Pelosi venne condannato, in un primo momento per omicidio "in concorso con ignoti" e nel 1979, in via definitiva, a 9 anni e 7 mesi di carcere come "unico autore" del delitto Pasolini. Nel 2005 Pino Pelosi ritrattò la sua versione. Dal nulla spuntarono fuori che sarebbero state tre persone ad uccidere il poeta. Ma poiché una vera e propria ricostruzione definitiva dei fatti di quella notte non vi fu mai, ora con la morte di Pelosi questo vuoto resterà incolmabile.

«Se volete la verità su Pasolini, chiedete a Johnny lo zingaro», scrive Simona Musco il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista all’avvocato Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni. «Se volete la verità sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini dovete trovare Johnny lo zingaro e chiederla a lui». Non ci sono vie alternative: chiunque ipotizzi l’esistenza di una storia segreta, custodita chissà dove, è solo alla ricerca «di pubblicità». A dirlo è Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna definitiva di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni, dopo una lunga malattia, unico a pagare per la morte dello scrittore, ammazzato nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia. Non che si sappia tutto su quel delitto: mancano gli altri esecutori e senza quelli, dice Marazzita, non si conosceranno neanche i mandanti. Ma l’altro possibile custode di quel segreto è scappato a giugno scorso. Giuseppe “Johnny” Mastini, condannato all’ergastolo per omicidi e rapine, «aveva un legame con Pelosi che nessuno ha mai voluto approfondire». Perché, dice l’avvocato, «la procura non voleva la verità». Marazzita parte da qui, dalla cassetta di sicurezza di cui parla Alessandro Olivieri, difensore di Pelosi. «Sono totalmente convinto dell’innocenza di Pelosi – aveva dichiarato -. Una parte delle informazioni non sono state date e sono gelosamente custodite in una cassetta di sicurezza, perché sono troppo forti. Lui non se l’è mai sentita di diffonderle per paura che qualcuno potesse toccare lui o i suoi familiari. La verità non è morta con Pelosi. Ma è talmente pesante e difficile da poter raccontare con semplicità». Parole che Marazzita etichetta come «balle»: Pelosi è morto e solo Mastini può raccontare qualcosa. Ma gli indizi che portavano a lui non sono mai stati considerati. E lo stesso Pelosi manifestava l’ansia febbrile di nascondere ogni collegamento. «Due elementi portano a Johnny. Quando Pelosi viene arrestato non si dà pace per aver perso l’anello con la croce militare regalatogli da Mastini, perché capisce che può collegarlo a lui. È vero che aveva 17 anni – spiega – ma aveva un’astuzia incredibile. Era capace di vanificare immediatamente una domanda capziosa e il collegamento ossessivo che aveva fatto con quell’anello poi ritrovato sul luogo dell’omicidio la diceva lunga. Mastini era claudicante, per una ferita ad una gamba dopo aver ucciso un poliziotto. Nella macchina di Pier Paolo fu trovato un plantare, che poteva appartenere ad una sola persona, ma la mia richiesta di fare un esperimento giudiziale per vedere se fosse suo non fu mai accolta». Non c’è però «alcun dubbio» che sia stato Pelosi ad uccidere Pasolini. L’allora 17enne fu fermato la notte stessa a Ostia, alla guida dell’auto del poeta, un’Alfa Gt 2000 grigia metallizzata. Accusato di furto, confessò di avere rubato l’auto, raccontando, durante l’interrogatorio, di essere stato abbordato da Pasolini e di averlo investito involontariamente dopo una colluttazione a colpi di bastone per aver prima accettato e poi rifiutato una prestazione sessuale. E, inizialmente, disse di aver fatto tutto da solo. Il primo processo davanti al tribunale dei minori, presieduto dal fratello di Aldo Moro, Carlo Alfredo Moro, lo vide condannato per omicidio in concorso con ignoti. «Quella sentenza fu un capolavoro giudiziario – spiega Marazzita – Dice che non fece tutto da solo e non è vero che la sentenza d’Appello negasse la presenza di complici. I giudici di secondo grado non se la sentirono di dire con certezza che ci fosse qualcun altro, ma non lo esclusero. E anche Pelosi ammise che c’erano dei complici durante l’intervista con la Leosini, seppur ampiamente pagato». Secondo il legale, la procura generale, nel condurre le indagini, «dimostrò chiaramente l’intento di non approfondire ma di voler bloccare l’inchiesta. Quando il giudice Moro, che aveva capito che non funzionava niente in quelle piccole indagini fatte in 45 giorni, disse che era certa la presenza di altri, la procura generale impugnò subito la sentenza, senza nemmeno attendere le motivazioni – ha aggiunto -. Questo è stato il segnale che non volevano indagare, perché se si fosse risalito agli esecutori materiali allora si sarebbe potuto arrivare ai mandanti, che potrebbero essere anche uomini delle istituzioni. Negli anni ho chiesto la riapertura del caso cinque volte, perché le indagini vere non sono mai state fatte». Tra i nomi poi attribuiti ai complici di Pelosi furono fatti anche quelli dei fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, alias Braciola e Bracioletta, trafficanti di droga e militanti nell’Msi. Un poliziotto infiltrato li aveva anche sentiti vantarsi di quel delitto ma uscirono dalle indagini dopo aver dichiarato ai magistrati di essersi inventati tutto per fare i duri. «Di loro parla solo dopo la loro morte (negli anni 90, ndr) – dice il legale – Erano ormai innocui, mentre Johnny era ed è ancora pericoloso e rimane l’unico a poter entrare nelle indagini sulla morte di Pier Paolo». Marazzita non la esclude. «Potrebbe capitare l’occasione, con magistrati seri, capaci di approfondire. In quel caso, con l’autorizzazione di Graziella Chiarcossi (la nipote, ndr), la chiederei. E vorrei approfondire i rapporti tra Pelosi e Mastini, perché e quanto si vedevano, se avevano commesso reati insieme», ha aggiunto. E la cassetta di sicurezza? «Non esiste. Perché non è uscita fuori prima?». L’ultimo cenno è al suo rapporto con Pelosi. «Mi vedeva come un nemico. Aveva paura delle mie domande. Poi, con gli anni, incontrandomi spesso ha finito per considerarmi uno di famiglia». Ma non abbastanza da spiegare perché Pasolini è morto. «Quello non lo sapremo mai».

Pier Paolo Pasolini e il mistero di Petrolio nel film La macchinazione di David Grieco. Arriva in sala il 24 marzo la pellicola che racconta la stesura del libro e la morte misteriosa dello scrittore. Nel ruolo del protagonista, Massimo Ranieri. Mentre il regista fu assistente alla regia di PPP, scrive il 14 marzo 2016 "L'Espresso". «A un certo punto avrò bisogno del tuo aiuto, Alberto», parla così al telefono con Moravia il Pasolini di David Grieco, nella clip in anteprima del film La macchinazione, dal 24 marzo nelle sale: «Non so neanche io cosa sto scrivendo, vado avanti come posseduto da un demonio, ho già superato le 400 pagine e forse arriverò a 2000». «Per ora posso dirti il titolo: Petrolio», continua la conversazione tra Moravia e Pasolini, cioè Massimo Ranieri, a cui è toccato il delicato compito di raccontare gli ultimi giorni di vita dell’intellettuale, impegnato nel montaggio di Salò e le 120 giornate di Sodoma e nella stesura del romanzo uscito postumo, atto di accusa che riprende il libro Questo è Cefis, uscito nel 1972 ma subito scomparso dagli scaffali, in cui un informato autore sotto pseudonimo ricostruisce «l’altra faccia dell’onorato presidente», l'altra faccia di Eugenio Cefis, presidente dell’Eni dopo la morte di Mattei e poi della Montedison, indicato come «il vero capo della P2». Salò, Petrolio, la relazione con Pino Pelosi, giovane sottoproletario romano che ha legami con il mondo criminale della capitale. Il 2 novembre 1975, Pasolini morirà a Ostia. E Grieco, già assistente del cineasta e poeta, con il suo film si pone la domanda: «Chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini?»

Il vero mistero su Pasolini è capire come il film di David Grieco abbia trovato posto in un cinema. Quanto volete per smettere? Per lasciare in pace Pier Paolo Pasolini? Tutto questo tempo sprecato per farlo diventare uno dei misteri d’Italia non sarebbe meglio adoperato per leggersi qualche poesia, magari sul vincitore dello Strega che nessuno ricorda l’anno dopo, peggio del vincitore al Festival di Cannes? Scrive Mariarosa Mancuso il 25 Marzo 2016 su "Il Foglio". Tanto tempo sprecato per farlo diventare un mistero d’Italia, ripetiamo volentieri, perché le cose sono andate al contrario: a furia di fare inchieste per stanare scomode verità, il caso si è ingigantito e l’intrigo si è complicato invece di sbrogliarsi. Fino al paradosso: il cugino Nico Naldini, di anni 87, uno che non ha mai voluto sentire parlare di congiure o di complotti (“incidente di percorso in una vita sregolata”, ha detto più volte) non viene invitato né agli anniversari né alle celebrazioni. Tutti hanno detto la loro, incluso Walter Veltroni. Massimo Ranieri ha la parte del poeta nel film di David Grieco “La macchinazione”, ora nelle sale: è bastato per aggiungersi alla lista dei deliranti. Dopo aver indossato un giubbotto scamosciato e girato la scena di una partita a calcio in borgata ha preso anche lui il numeretto e a gran voce ha chiesto la verità su Pasolini. Uno che si faceva tingere i capelli di nero dalla mamma, racconta il film, e non si capisce se lo scandalo sta nel nerofumo, o nella tintura casalinga con la boccetta comprata sugli scaffali del supermercato. Il complotto, o la congiura, o il grande mistero pasoliniano si estende nel film di David Grieco fino a comprendere la banda della Magliana (da “Romanzo Criminale” in poi si porta con tutto). Il mistero più grosso – su cui mancano le indagini – è sapere come mai un film come questo sia stato scritto, girato, distribuito in sala, senza che nessuno facesse la minima obiezione. Cinematografica, almeno, se non di sostanza fanta-criminale. Interessanti anche i retroscena: David Grieco avrebbe dovuto collaborare con Abel Ferrara, per il suo “Pasolini” presentato alla Mostra di Venezia nel 2014 (lo stesso anno del ripassino su Giacomo Leopardi inflitto da Mario Martone). Qualcosa andò storto, e per il gusto della scissione che caratterizza i cultori di Pier Paolo Pasolini - oltre che la sinistra italiana – ora si è fatto un film tutto suo (fa coppia con il volume – sempre firmato David Grieco – uscito da Rizzoli con il titolo “La macchinazione. Pasolini. La verità sulla morte”). La macchinazione è tanto arzigogolata che abbiamo vergogna perfino a raccontarla, tra Eugenio Cefis (“lo considero il demonio dell’Italia d’oggi”, testuale nel film), una sala da biliardo in periferia, il furto con richiesta di riscatto delle bobine di “Salò - Le 120 giornate di Sodoma”, pagine di “Petrolio” che correggono “bomba alla stazione Termini” in “bomba alla stazione di Bologna”. Però garantiamo che a vederlo è peggio.

Pier Paolo Pasolini, la storia e il mistero irrisolto della morte, scrive il 29 Ottobre 2015 Emilia Abbo. Pier Paolo Pasolini avvolto in un mistero. Andiamo a ripercorrere la storia del poeta e nello specifico il caso irrisolto della morte. Pasolini venne brutalmente ucciso all’idroscalo di Ostia la notte fra il primo ed il 2 novembre 1975, e pertanto in questi giorni si celebra il quarantesimo anniversario da quel tragico evento. La mattina del 31 ottobre, ad esempio, il ministro della cultura Dario Franceschini sarà a Pietralata, un quartiere che era molto caro allo scrittore. Significative personalità, anche vicine affettivamente allo scrittore (come ad esempio il suo biografo e cugino Nico Naldini, il suo vecchio amico Giancarlo Vigorelli, nonché l’italianista Guido Santato, che ne fu il più attento studioso) partono dalla convinzione che Pasolini divenne, in un certo senso, regista della sua stessa morte, a causa della vita sregolata e rischiosa che conduceva, e che includeva la frequentazione dei cosiddetti ‘ragazzi di vita’ delle periferie romane.

Il movente biografico: i “ragazzi di vita”. Attraverso la pubblicazione di un diario giovanile, uscito col titolo Il romanzo di Narciso (1946-7), Pasolini rivela ai lettori la propria omosessualità.  Quando scriveva queste pagine lo scrittore bolognese viveva in Friuli, nei pressi di Casarsa (la località di cui sua madre era originaria) dove si era rifugiato all’indomani dell’otto settembre 1943, quando aveva rifiutato di consegnare le armi ai tedeschi. Il 1945 era stato un anno molto difficile per Pasolini, per via della perdita del fratello Guido (che era entrato nelle file del partigianato). Dopo la laurea, conseguita quello stesso anno con una tesi sul Pascoli, Pasolini trova un posto come insegnante nella scuola media di Valvassone, ma il 15 ottobre del 1949 verrà denunciato per corruzione di minorenni, perdendo la cattedra. Anche i dirigenti regionali del PCI, per i quali Pasolini collaborava dal 1947 sulle pagine del settimanale Lotta e lavoro, lo espelleranno dal partito. Per sfuggire allo scandalo, Pasolini si rifugia con la madre a Roma, dove giunge nel gennaio 1950. Il distacco dal mondo contadino friulano, che verrà da lui sempre mitizzato (non a caso, Pasolini compose poesie in dialetto casarsese), si accompagnerà ad una nuova presa di consapevolezza. Alla sua amica Silvana Mauri Ottieri confiderà infatti di sentire ormai sulla pelle il segno di Rimbaud o di Campana o di Wilde, e quindi di essere destinato ad un senso di emarginazione e condanna da parte della società. Giunto nella capitale, la madre prende servizio presso una famiglia come domestica, e Pasolini si adatta a fare il correttore di bozze ed a vendere i suoi libri nelle bancarelle rionali. Grazie al poeta Vittorio Clemente, nel dicembre 1951 trova un altro impiego come insegnante a Ciampino. Tuttavia, lo scrittore non riesce a fare a meno di frequentare l’ambiente periferico ed adolescenziale delle borgate, che divenne fonte di ispirazione per il suo romanzo Ragazzi di Vita (1955). Per questo libro Pasolini (accanto alla casa editrice Garzanti) venne processato, e solo grazie all’intervento di eminenti letterati come Giuseppe Ungaretti e Carlo Bo (che evidenziarono un senso di umana pietà misto a crudo realismo) lo scrittore venne assolto.  Analoga sorte ebbe il romanzo Una vita violenta (1955) che intendeva essere una continuazione del suo progetto ‘sottoproletario’, portato avanti anche nei film Accattone (presentato al festival di Venezia del 1961) e Mamma Roma (interpretato nel 1962 da Anna Magnani).  Anche in questi capolavori cinematografici i ragazzi delle borgate romane non hanno alcuna speranza di affrancamento o redenzione, e la morte diviene l’unica via d’uscita ad un destino di corruttiva miseria e disperazione. La frequentazione di piccoli malavitosi causerà a Pasolini altri problemi giudiziari. Nel giugno 1960, ad esempio, Lo scrittore verrà accusato di aver favoreggiato due ragazzi coinvolti in una rissa, e nel novembre dell’anno seguente vedrà il suo appartamento perquisito, poiché sospettato di una rapina a mano armata in un bar di San Felice Circeo. Il responsabile dell’omicidio Pasolini fu subito ritenuto il diciassettenne reo confesso Giuseppe Pelosi (soprannominato ‘Pino la rana’), già noto alle forze dell’ordine per vari furtarelli, e che venne dichiarato colpevole di omicidio doloso nella sentenza di primo grado. Alla sua versione dei fatti venne aggiunto il ‘concorso con ignoti’, poi inspiegabilmente smentito dalla corte d’appello il 4 dicembre 1976. Tuttavia, questa sentenza non é mai stata ritenuta davvero definitiva, anche perché nel corso del tempo si sono innalzate molte voci (fra cui quella della scrittrice Oriana Fallaci e del regista Marco Tullio Giordana) a sostegno dell’omicidio di gruppo, che lasciava spazio ad altri moventi oltre a quello di un diverbio fra un ‘ragazzo di vita’ ed il suo esigente cliente. Il fatto che il poeta, quella notte, fosse stato vittima anche (o soltanto) di terzi venne validato da vari indizi, come ad esempio l’esile corporatura di Pelosi, che al momento dell’arresto (avvenuto subito dopo il delitto) non aveva significative ferite o segni di colluttazione sugli abiti. La leggerezza e friabilità dell’arma del delitto (che fu identificata con una tavola di legno che serviva ad indicare il numero civico di un’abitazione) sarebbe stata incompatibile con le ferite che vennero selvaggiamente inferte, e che si addicevano ad un oggetto assai più pesante e contundente. Nel caso Pasolini, del resto, vi sono state, e fin dall’inizio, delle gravi negligenze, ed un articolo sull’Europeo del 21 novembre 1975 illustra chiaramente come la scena criminis venne inquinata. La polizia, accorsa sul posto verso le sette di mattina, non disperse la folla di curiosi, e non vennero nemmeno indicati i punti esatti dei vari ritrovamenti. La macchina di Pasolini rimase esposta ad una pioggia insistente, e dopo aver svolto le prime indagini venne rottamata. Sul luogo del delitto non giunse nemmeno un medico legale, e sull’adiacente campetto di calcio, che poteva offrire segni di plantari e pneumatici, venne giocata una partita. Alcuni oggetti (come ad esempio la camicia e gli occhiali che quella sera Pasolini indossava) vennero esposti al museo di criminologia di Valle Giulia, ed anche se in seguito sono stati analizzati con tecniche più moderne e sofisticate (lo stesso comandante del Ris di Parma, Nicola Garofalo, ha coordinato le perizie) i risultati rimangono comunque secretati, e non pienamente attendibili a causa delle negligenze che si verificarono nelle quarantotto ore che seguirono il delitto. Anche le più fresche testimonianze non ebbero il credito che meritavano. Assai emblematica rimane quella di un pescatore (immortalata in un prezioso film-documentario di Mario Martone) che sostenne di avere visto, quella tragica notte, una seconda auto accanto all’Alfa Romeo di Pasolini, ed udito voci di diverse persone, oltre al grido disperato dello scrittore che invocava sua madre. Presente agli atti è la versione della cugina del regista, Graziella Chiarcossi, secondo la quale il maglione che venne ritrovato sul sedile posteriore dell’auto non apparteneva a Pasolini.  Ma non solo.  Il proprietario della trattoria ‘Biondo Tevere’ ritenne che, quella sera, il poeta era in compagnia di un giovane che non aveva le stesse caratteristiche fisiche del diciassettenne di Guidonia. Inoltre, un ex-appuntato dei carabinieri, che indagava in borghese, mise in evidenza il coinvolgimento di due ragazzini siciliani (soprannominati ‘fratelli braciola’), che frequentavano lo stesso circolo ricreativo di Pelosi, e che morirono di malattia negli anni Novanta. Come se non bastasse, nel maggio 2008 lo stesso Pelosi decise di ritrattare, e sostenne, durante una trasmissione televisiva, che la sua unica responsabilità fu quella di avere investito accidentalmente il corpo già inerte di Pasolini, laddove il delitto vero e proprio venne materialmente eseguito da tre individui adulti.  Aggiunse di aver taciuto fino a quel momento per non esporre i suoi ormai defunti genitori a ritorsioni. Nonostante questo, la vicenda non prese una vera e propria svolta, tanto che l’avvocato Nino Marazzita parla ancora oggi di ‘inerzia colpevole’ da parte degli inquirenti (Tusciaweb.it, 26 aprile 2014) e l’avvocato Guido Calvi (anch’egli incaricato dalla famiglia Pasolini all’epoca del delitto) ritiene che si sia voluta spegnere la voce del poeta con l’arma della diffidenza e con ‘risposte sconcertanti’ (Corriere.it, 4 maggio 2010).

Il movente cinematografico: le bobine di Salò. Fra le varie teorie sulla morte di Pasolini merita attenzione anche quella che si profilò grazie alla testimonianza del regista Sergio Citti, il quale asserì che, poche settimane prima dell’omicidio, Pasolini subì la sparizione di due bobine cinematografiche (quelle che in gergo sono chiamate ‘pizze’), ovvero di due copie del suo ultimo film, intitolato Salò. Citti sostenne che quella fatidica sera del primo novembre Pasolini doveva vedere dei loschi individui, ovvero i probabili autori del furto, e seppur questo incontro richiedesse un notevole coraggio, Pasolini era disposto ad affrontarlo lo stesso poiché ci teneva a recuperare l’insostituibile lavoro di montaggio, che era stato effettuato con la tecnica del ‘doppio’, ovvero girando le stesse scene anche da un’inquadratura diversa. Le bobine di questo film, furono probabilmente sottratte per il loro contenuto scabroso. Pasolini stesso sapeva che questa pellicola avrebbe suscitato reazioni anche per il suo significato sottilmente ideologico, poiché si creava una correlazione fra le tematiche dei romanzi di Sade e la dominazione di massa capitalistica (identificata al kantiano ‘male radicale’).  Mentre girava questo suo ultimo film, forse Pasolini avvertiva l’avvicinarsi della sua morte. Non a caso, volle accanto a sé figure amiche, come l’attrice Laura Betti (nel ruolo di doppiatrice) e poi anche l’affezionato Ninetto Davoli e lo stesso Sergio Citti, per il quale fu questo film a rendere reali quelle paure che il regista aveva già allontanato con stoico distacco: La morte compie un fulmineo montaggio nella nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi <…>  e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile ed incerto, un passato chiaro, stabile, certo e dunque linguisticamente ben descrivibile (Pier Paolo Pasolini, Empirismo Eretico).

Il movente letterario: “Lampi su Eni”. Un’interessante teoria è quella legata alla cosiddetta ‘questione Eni‘, poiché direttamente riconducibile al lavoro letterario che l’autore, al momento della sua morte, stava svolgendo con la casa editrice Einaudi. Nel romanzo-inchiesta (rimasto incompiuto) Petrolio, che venne pubblicato postumo nel 1992 (e del quale restano 522 pagine) si delinea una lotta di potere che avviene nel settore petrol-chimico. La finzione del romanzo è riconducibile ad un reale fatto di cronaca, ovvero alla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, che avvenne nel 1967, quando l’aereo su cui si trovava a bordo perse quota sulla campagna pavese. Pasolini giunse, con trent’anni di anticipo, alle stesse conclusioni del magistrato Vincenzo Calia, che chiese l’archiviazione del caso nel 2003.  Per Pasolini la morte di Mattei non fu causata da un fatale incidente, ma semmai da un sabotaggio, da ricondursi agli intrighi dell’ambizioso personaggio che nel suo romanzo rappresenta Eugenio Cefis, il quale divenne presidente della Montedison nel 1971, dopo aver co-fondato l’Eni assieme allo stesso Mattei.  Anche la scomparsa del giornalista Mauro de Mauro, che stava preparando un dossier per il regista Francesco Rosi (il quale decise di girare un film sul caso Mattei) potrebbe essere legata a qualche scottante notizia non dissimile dalla teoria portata avanti in Petrolio. Pasolini ebbe come sua fonte il libro Questo é Cefis, l’altra faccia dell’onorato Presidente, pubblicato nel 1972 sotto lo pseudonimo Giorgio Steimez, e che venne subito ritirato dalla circolazione, ma del quale Pasolini aveva una versione in fotocopia grazie al suo amico Elvio Facchinelli. Per Pasolini Mattei non era un un anacronistico utopista-statalista, ma piuttosto un lungimirante imprenditore, pieno di entusiasmo e di positive risorse, che aveva già evitato la vendita dell’Agip negli anni Quaranta. Mattei proponeva ai paesi arabi ed africani (principali produttori di greggio) condizioni più vantaggiose rispetto a quelle proposte dai trust anglo-americani del petrolio, mettendosi quindi in aperta competizione con le cosiddette ‘sette sorelle’, ovvero con le potenti multinazionali nella cui orbita atlantica Cefis voleva invece ricondurre l’economia della nostra nazione. Tuttavia, fu un capitolo in particolare, intitolato ‘Lampi su Eni’, che venne indicato come probabile movente della morte dello scrittore. Il 2 marzo 2010 il senatore Marcello Dell’Utri (all’epoca ancora in attesa di sentenza definitiva) sostenne, durante una conferenza stampa, di aver visto coi suoi occhi le pagine in questione, che si riteneva non fossero mai state scritte, e nelle quali sarebbero state fornite informazioni più specifiche sull’omicidio Mattei. Aggiunse che questo capitolo, altrimenti detto ‘appunto 21’, sarebbe stato sottratto dallo studio di Pasolini, ed avrebbe fatto la sua comparsa, nei giorni a venire, alla XXI fiera milanese del libro antico. Anche se questo in realtà non avvenne, su iniziativa dell’onorevole Walter Veltroni (il quale scrisse una lettera aperta all’allora ministro della giustizia Angelino Alfano) un nuovo fascicolo venne aperto sul caso Pasolini. Tuttavia, nulla di nuovo emerse a riguardo, anche se i legami di Cefis con la loggia massonica della P2 (che era implicata in quella ‘strategia della tensione’ della quale Pasolini parlava senza remore) davano adito ad altri nuovi ed inquietanti scenari.

Il movente giornalistico: il coraggio “corsaro”. Comprendere il delitto Pasolini é quindi impossibile se si prescinde dall’ideologia dello scrittore, che viene apertamente espressa nei suoi Scritti corsari (1972) dove, senza troppa arte diplomatica, vengono compiute dissacratorie incursioni nel mondo politico-istituzionale, ed anche nella società nel suo complesso. In questi scritti (che raccolgono soprattutto gli articoli giornalistici che Pasolini scrisse per il Corriere della Sera ed Il Tempo) la marxista critica al capitalismo (ed il conseguente rimpianto per la civiltà pre-industriale) vengono espressi in modo unico ed originale, sia per lo stile (assolutamente chiaro, lineare, coerente, inequivocabile) e sia per i costanti riferimenti alla propria esperienza. Pasolini traspone in schietti pensieri teorici (ed anche in polemici commenti) le sue personali e soggettive impressioni, i dettagli e le situazioni che vede e vive intorno a sé. Questi scritti sono quindi corsari sia per la coraggiosa genuinità dell’autore e sia perché evocano, seppur indirettamente, un mondo romanzesco ed avventuroso, creato per appassionare le giovani generazioni. Pasolini evidenzia come, negli anni Settanta, i giovani abbiano invece perso ogni vitale entusiasmo, ogni segno particolare, e si siano borghesemente omologati.  Nella sua tendenza a contrapporre i tempi, Pasolini rievoca i capelloni degli anni Sessanta, che nulla avevano a che fare con quelli del decennio seguente, che hanno ormai perso la potenzialità semantica dei loro gesti ed atteggiamenti, ed anche ogni espressività e coloritura gergale. Secondo l’autore, si é dunque verificata una ‘mutazione antropologica’, poiché i giovani, nella loro ‘ansiosa volontà di uniformarsi’, non solo sono diventati simili nella loro ‘sottocultura’ esteriore, ma anche nel modo di parlare e di pensare (dal centro alla periferia, dal nord al sud, dallo studente all’operaio), cosicché anche le ideologie si confondono, ‘secondo un codice interclassista’. Pasolini ritiene che il maggior errore delle nuove generazioni sia stato quello di non aver mantenuto un dialogo coi loro padri, e quindi di non aver potuto (dialetticamente e non solo) superare i loro limiti, le loro colpe. Lo spirito di ribellione ha spinto i giovani a mettersi nelle mani di un ‘nuovo fascismo’ (definito consumistico-edonistico) assai peggiore del precedente, poiché deforma sottilmente le coscienze e mercifica i corpi. Per Pasolini, il fascismo mussoliniano dei padri era un fenomeno soprattutto ‘pagliaccesco’, poiché una volta tolte le uniformi e le divise tutti tornavano identici a prima, coi loro stessi valori e le loro stesse idee. Questo tipo di fascismo diventa per lui anche archeologico, poiché gli obsoleti comizi in piazza nulla avevano a che fare coi messaggi pubblicitari del nuovo bombardamento ideologico televisivo, che si instilla nell’anima in modo subdolo, imponendosi nel profondo: E’ in Carosello onnipotente che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà il nuovo tipo di vita che gli italiani ‘devono’ vivere (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, ed. Garzanti, 2015, p. 59). Pasolini riteneva che la manipolazione pubblicitaria rappresentasse la fine del linguaggio umanistico, e quindi che un nuovo modo di esprimersi (tecnico, pragmatico, standard) stesse prendendo piede. Lo slogan Jeans Jesus. Non avrai altri jeans all’infuori di me esemplifica il modo in cui la nuova civiltà ‘consumistica-edonistica’ ha strumentalizzato quella dimensione spirituale che prima apparteneva alla Chiesa. Seppur per Pasolini quest’ultima non sia incolpevole nella sua opulenza e nella sua lunga storia di potere, non merita comunque di venire spodestata da una tirannia che non ha alcun rispetto per quel messaggio che egli stesso volle rappresentare, in tutta la sua sublime semplicità, nel film Il Vangelo secondo Matteo (1964). Per Pasolini i giovani stanno dunque vivendo il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto, poiché l’apparente libertà democratica che si respira non è stata ottenuta attraverso una rivoluzione popolare (come è avvenuto, ad esempio, nella Russia del 1917) ma è stata imposta dall’alto coi suoi modelli da seguire: Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo (idem, p.60). Se il mondo contadino pre-industriale si basava su necessità primarie (come il pane che era già una benedizione ad averlo) la nuova società dei consumi, nel suo bisogno di perseguire il superfluo, non solo ha immiserito il paesaggio circostante (nel quale sono ormai scomparse le lucciole) ma anche la capacità di recepire, di sentire. Se quest’ultima fosse rimasta intatta, anche ‘una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end ad Ostia’ potrebbero essere interpretati con poesia e passione, nello stesso modo in cui Leopardi interiorizzava ‘la natura e l’umanità nella loro purezza ideale’. Pasolini amava profondamente quel senso di ingenua spensieratezza che caratterizzava i non acculturati, e che ora vede soltanto umiliati. Simbolo di questa antica felicità dei ragazzi del popolo diviene il garzoncello del fornaio: Una volta il fornarino, o cascherino-come lo chiamiamo qui a Roma-era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicia uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva nella casa del ricco con un riso naturaliter anarchico, che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta questa persona, questo ragazzo, era allegro. (idem, p.61). Secondo Pasolini, anche lo stragismo di quegli anni (fra cui l’attentato di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969) è espressione della nevrosi che deriva dal conformismo. Per Pasolini i veri responsabili degli atti terroristici non erano dei giovani sbandati e senza validi punti di riferimento, ma semmai il sistema governativo nel suo complesso, poiché il fatto stesso di far parte del tessuto politico implica il corrompersi, il divenire conniventi. Pasolini, nel famoso articolo del 1974 Che cos’è questo golpe? afferma di conoscere i nomi dei veri responsabili delle stragi, ma di non poterli rivelare poiché (in quanto personalità estranea ai giochi di potere) non ha ‘né prove né indizi’, ma solo la certezza del suo intuito di uomo intellettuale, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentati di un intero quadro politico (idem, p.89). Pasolini riconduceva il termine stragismo anche alla pratica dell’aborto, che ritiene una tragedia demografica ecologica, ovvero uno minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. Pasolini evidenzia che nell’ambito del ‘nuovo fascismo’ un figlio che nasce non è più considerato un dono di Dio, ma soltanto un fastidio, poiché prevale il timore dell’essere in troppi nella spartizione dei beni di consumo. Piuttosto che rinunciare ai propri capricci, si preferisce eliminare chi è più debole ed indifeso. Per Pasolini l’aborto è una colpa morale, un qualcosa che riguarda non la politica ma la coscienza individuale. La logica dell’eugenetica non ha nulla a che fare con la democraticità dello stato prenatale, con la sua piena ed incondizionata aderenza alla vita: Non c’è nessuna buona ragione pratica che giustifichi la soppressione di un essere umano, sia pure nei primi stadi della sua evoluzione. Io so che in nessun altro fenomeno dell’esistenza c’è un altrettanto furibonda, totale essenziale volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attuare la propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha un qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto e gioioso. (idem, p.111).  Sono parecchi gli articoli in cui Pasolini permalosamente se la prende coi suoi critici o detrattori, e che sono, a loro volta, intellettuali (spesso di sinistra come lui) e anche di tutto rispetto, come ad esempio Umberto Eco, Giorgio Bocca, Italo Calvino, Giuseppe Prezzolini, Franco Rodano, Maurizio Ferrara. Secondo Pasolini, anche il mondo intellettuale era chiuso nel suo ristretto snobismo: Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale.  Lo so perché in parte è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente per bene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio (idem, p.52). Per Pasolini l’unico suo vero impegno diviene quello preso col lettore, che ritiene all’altezza di accettarlo nel bene e nel male, di accompagnarlo nelle sue più smodate ed indomite incursioni: Io non  ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla mai voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello di un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca (idem, p.83).

Alberto Moravia, durante la celebre orazione funebre in onore di Pasolini, mise in evidenza che era stato innanzi tutto perso un poeta, ovvero un qualcuno che nasce di rado nel corso dei secoli.

"<…> Piange ciò che ha

fine e ricomincia. Ciò che era

area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,

chiuso in un decoro ch’é rancore;

ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,

e si fa nuovo isolato, brulicante

in un ordine ch’é spento dolore.

Piange ciò che muta, anche

per farsi migliore. La luce

del futuro non cessa un solo istante

di ferirci: é qui, che brucia

in ogni nostro atto quotidiano,

angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell’impeto gobettiano

verso questi operai, che muti innalzano,

nel rione dell’altro fronte umano,

il loro rosso straccio di speranza."

(Pier Paolo Pasolini Il pianto della scavatrice, 1956) 

Ninetto Davoli: "Il mio Totò segreto". I ricordi dell'attore che recitò negli ultimi film del Principe girati da Pasolini: "Pier Paolo mi disse che avrebbe potuto superare Chaplin", scrive Ilaria Urbani il 14 aprile 2017 su “La Repubblica”. "Totò senta...". "Dite Pasolini...". "Antonio si sciolga, faccia una "totolata"". Gli sembra ancora di averli davanti agli occhi sul set di "Uccellacci e uccellini". Ninetto Davoli, dopo mezzo secolo, ha ancora vivido il ricordo del confronto tra la più grande maschera del '900 e il regista corsaro. E nel racconto dell'ex ragazzo di borgata della baraccopoli Borghetto Prenestino, scoperto da Ppp, sembra di rivedere anche padre e figlio Innocenti in quell'infinito cammino in bianco e nero sul set di una pellicola considerata dallo stesso Pasolini "disarmata, fragile". E di ritrovare pure frate Ciccillo e frate Ninetto. Davoli, dalle borgate al set del capolavoro poetico e picaresco, svolta colta nella carriera del Principe. Un incontro epifanico con quell'attore che Ninetto fino ad allora vedeva al cinema con gli amici. Un sodalizio che proseguì ne "La terra vista dalla luna" da "Le streghe" e in "Che cosa sono le nuvole?", dal film ""Capriccio all'italiana", l'ultimo girato da Totò prima di morire il 15 aprile 1967.

Davoli, cosa ha significato per lei Totò?

"Avevo 16 anni, Totò è stato fondamentale per iniziare quest'avventura, mi ha incoraggiato davanti alla cinepresa, ha alleggerito questa esperienza. Successe tutto all'improvviso, era così surreale trovarmi a recitare con il grande Totò, uno che andavo a vedere al cinema come Stanlio e Ollio. Ma questa volta non dovevo pagare per vederlo, era lì con me, ed ero pagato per recitare con lui. Mi davano 100mila lire, a uno povero come me. Facevo il falegname, a casa eravamo in sei in una sola stanza, vivevamo con 5mila lire alla settimana".

Totò come si rapportava sul set con questo giovane esordiente?

"Come me veniva dalla povertà, lui dai quartieri scalcinati di Napoli, io dalle borgate romane, ideologicamente la pensavamo uguale. Il nostro fu uno scambio di semplicità, una vera complicità. Secondo Pier Paolo ci somigliavamo. Considerava Totò uno di strada come me, un non -intellettuale, anche se lo rispettava molto, gli dava del lei: "Totò senta", "Antonio ascolti"... ".

E Totò nei confronti di Pasolini?

"Anche Totò gli dava del voi: era intimorito da Pier Paolo, non improvvisava come faceva in genere, ma rispettava la sceneggiatura. Pier Paolo gli diceva: Antonio si sciolga, faccia una "totolata". C'era grande stima".

Pasolini racconta di aver scelto Totò per quella perfetta armonia tra l'assurdità clownesca tipica delle favole e l'immensamente umano...

"A Pier Paolo piacevano i film di Totò e diceva che avrebbe potuto superare Charlie Chaplin se l'avessero saputo "usare meglio", nel senso se avesse fatto più film d'autore".

Nel '66 Pasolini scrisse un film sull'utopia, "Le avventure del Re magio randagio", che lei doveva interpretare con Totò, ma poi non si fece in tempo e che poi ha ispirato un film di Sergio Citti...

 "Sì, ma quella di Pier Paolo era una storia diversa, non c'entra con quella di Citti. Totò doveva essere il Re magio e io il suo aiutante. Con un dono partivamo da Napoli alla ricerca di Cristo che stava per nascere. Attraversavamo Roma, Milano, Parigi, New York e poi arrivavamo a Betlemme, ma trovavamo Cristo già morto. Dopo la scomparsa di Totò, Pasolini voleva Eduardo (il titolo diventò "Porno-Teo-Kolossal", ndr), ma poi è successo quello che è successo...".

Oggi chi è in grado di raccogliere l'eredità di Totò e Pasolini?

"Non esiste nessuno con quella potenza e quel coraggio. Totò e Pier Paolo vengono celebrati soprattutto da morti, ricordiamo che Totò veniva massacrato dai critici. Sono accomunati da un destino simile. Trovo giusto celebrare Totò a 50 anni dalla morte, ma mi chiedo perché non prima? Totò andrebbe studiato di più nelle scuole, così come Pier Paolo ed Eduardo".

Totò. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo Paese, in cui però per venire riconosciuti in qualcosa, bisogna morire.» (Franca Faldini, citando le parole del compagno Totò). «Ma mi faccia il piacere!», « ... bazzecole, quisquilie, pinzellacchere!» (Modi di dire di Totò).

Antonio De Curtis, in arte Totò. Totò, pseudonimo di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfiro-genito Gagliardi de Curtis di Bisanzio (brevemente Antonio de Curtis) (Napoli, 15 febbraio 1898 – Roma, 15 aprile 1967), è stato un artista italiano. Attore simbolo dello spettacolo comico in Italia, soprannominato «il principe della risata», è considerato, anche in virtù di alcuni ruoli drammatici, uno dei maggiori interpreti nella storia del teatro e del cinema italiani. Si distinse anche al di fuori della recitazione, lasciando contributi come drammaturgo, poeta, paroliere, cantante. Nato Antonio Vincenzo Stefano Clemente da Anna Clemente (Palermo, 2 gennaio 1881 - Napoli, 23 ottobre 1947) e dal marchese Giuseppe De Curtis (Napoli, 12 agosto 1873 - Roma, 29 settembre 1944), fu adottato nel 1933 dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri. Maschera nel solco della tradizione della commedia dell'arte, accostato a comici come Buster Keaton e Charlie Chaplin, ma anche ai fratelli Marx e a Ettore Petrolini. In quasi cinquant'anni di carriera spaziò dal teatro (con oltre 50 titoli) al cinema (con 97 pellicole) e alla televisione (con 9 telefilm e vari sketch pubblicitari), lavorando con molti tra i più noti protagonisti dello spettacolo italiano e arrivando a sovrastare con numerosi suoi film i record d'incassi. Adoperò una propria unicità interpretativa, che risaltava sia in copioni puramente brillanti sia in parti più impegnate, sulle quali si orientò soprattutto verso l'ultima fase della sua vita, che concluse in condizioni di quasi cecità a causa di una grave forma di corioretinite, probabilmente aggravata dalla lunga esposizione ai fari di scena. Spesso stroncato dalla maggior parte dei critici cinematografici, fu ampiamente rivalutato dopo la morte, tanto da risultare ancor oggi il comico italiano più popolare di sempre. Franca Faldini, sua compagna, diventata giornalista e scrittrice dopo la morte dell'attore, scrisse nel 1977 il libro Totò: l'uomo e la maschera, realizzato insieme a Goffredo Fofi, in cui raccontò sia il profilo artistico sia la vita dell'attore fuori dal set, con l'intento principale di smentire alcune false affermazioni riportate da scrittori e giornalisti riguardo alla sua personalità.

Totò nacque il 15 febbraio 1898 nel rione Sanità (un quartiere considerato il centro della “guapperia” napoletana), in via Santa Maria Antesaecula al secondo piano del civico 109, da una relazione clandestina di Anna Clemente con Giuseppe De Curtis che, in principio, per tenere segreto il legame, non lo riconobbe, risultando dunque per l'anagrafe "Antonio Clemente, figlio di Anna Clemente e di N.N." Nato Antonio Clemente, ma conosciuto nel suo quartiere con il nomignolo di "Totò", che gli fu attribuito dalla madre. 

Il marchese Giuseppe De Curtis, il padre di Totò che, inizialmente, non lo riconobbe come figlio naturale.

Anna Clemente, la madre, che tentò di introdurlo come sacerdote. «Meglio ‘nu figlio prevete ca ‘nu figlio artista», affermava.

Solitario e di indole malinconica, crebbe in condizioni estremamente disagiate e fin da bambino dimostrò una forte vocazione artistica che gli impediva di dedicarsi allo studio, cosicché dalla quarta elementare fu retrocesso in terza. Ciò non creò in lui molto imbarazzo, anzi intratteneva spesso i suoi compagni di classe con piccole recite, esibendosi con smorfie e battute. Il bambino riempiva spesso le sue giornate osservando di nascosto le persone, in particolare quelle che gli apparivano più eccentriche, cercando di imitarne i movimenti, e facendosi attribuire così il nomignolo di «'o spione». Questo suo curioso metodo di "studio" lo aiutò molto per la caratterizzazione di alcuni personaggi interpretati durante la sua carriera.

Terminate le elementari, venne iscritto al collegio Cimino, dove per un banale incidente con uno dei precettori, che lo colpì involontariamente con un pugno, il suo viso subì una particolare conformazione del naso e del mento; un episodio che caratterizzò in parte la sua "maschera". Nel collegio non fece progressi, decise di abbandonare prematuramente gli studi senza ottenere perciò la licenza ginnasiale. La madre lo voleva sacerdote, in un primo tempo dovette quindi frequentare la parrocchia come chierichetto, ma incoraggiato dai primi piccoli successi nelle recite in famiglia (chiamate a Napoli «periodiche») e attratto dagli spettacoli di varietà, nel 1913, ancora in età giovanissima, iniziò a frequentare i teatrini periferici esibendosi – con lo pseudonimo di "Clerment" – in macchiette e imitazioni del repertorio di Gustavo De Marco, un interprete napoletano dalla grande mimica e dalle movenze snodate, simili a quelle d'un burattino. Proprio su quei palcoscenici di periferia incontrò attori come Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo e i musicisti Cesare Andrea Bixio e Armando Fragna.

Durante gli anni della prima guerra mondiale si arruolò volontario nel Regio Esercito venendo assegnato al 22º Reggimento fanteria, rimanendo di stanza dapprima a Pisa e poi a Pescia. Venne quindi trasferito al CLXXXII Battaglione di milizia territoriale, unità di stanza in Piemonte, ma destinate a partire per il fronte francese. Alla stazione di Alessandria, il comandante del suo battaglione lo armò di coltello e lo avvertì che avrebbe dovuto condividere i propri alloggiamenti in treno con un reparto di soldati marocchini dalle strane e temute abitudini sessuali. Totò a quel punto, terrorizzato, fu colto da malore (secondo alcune voci improvvisò un attacco epilettico) e venne ricoverato nel locale ospedale militare, evitando così di partire per la Francia. Rimasto in osservazione per breve tempo, quando fu dimesso dalle cure ospedaliere venne inserito nell'88º Reggimento fanteria "Friuli" di stanza a Livorno; proprio in quel periodo subì continui soprusi e umiliazioni da parte di un graduato; da quell'esperienza nacque il celebre motto dell'attore: «Siamo uomini o caporali?».

Dopo il servizio militare avrebbe dovuto fare l'ufficiale di marina, ma, non digerendo la disciplina, scappò di casa per esibirsi ancora come macchiettista; venne scritturato dall'impresario Eduardo D'Acierno (diventò poi celebre la macchietta de Il bel Ciccillo, riproposta nel 1949 nel film Yvonne la nuit) e ottenne un primo successo alla Sala Napoli, locale minore del capoluogo campano, con una parodia della canzone di E. A. Mario Vipera, intitolata Vicolo, che aveva sentito recitare al Teatro Orfeo dall'attore Nino Taranto, al quale chiese se poteva "rubargliela".

All'inizio degli anni Venti il marchese Giuseppe De Curtis riconobbe Totò come figlio e regolarizzò la situazione familiare sposandone la madre. Riunita, la famiglia si trasferì a Roma, ove Totò, con la disapprovazione totale dei genitori, fu scritturato come "straordinario" - cioè un elemento da utilizzare occasionalmente e senza nessun compenso - nella compagnia dell'impresario Umberto Capece, un reparto composto da attori scadenti e negligenti. Si affacciò così alla commedia dell'arte e guadagnò un particolare apprezzamento del pubblico impersonando sul palco l'antagonista di Pulcinella. Tuttavia, il giovane si sacrificava non poco per raggiungere il teatro: dal momento che non aveva i soldi neanche per un biglietto del tram, doveva partire da Piazza Indipendenza per arrivare a Piazza Risorgimento, che si trovava dall'altra parte della città; a tal proposito, nella stagione invernale, chiese qualche moneta all'impresario Capece che, in modo esageratamente brusco e inaspettato, lo esonerò e lo sostituì all'istante con un altro "straordinario". L'episodio fu un duro colpo per Totò, che rimase esterrefatto e dopo aver raccolto i suoi effetti si allontanò a malincuore dal teatro.

In quel breve periodo di disoccupazione Totò piombò nello sconforto totale ed il suo morale si alzava solo quando riusciva a racimolare qualche soldo esibendosi in piccoli locali; nel corso di quelle esperienze, decise di puntare al genere teatrale a lui più congeniale: il varietà (variété, nella declinazione francese). Progettò di presentarsi al capocomico napoletano Francesco De Marco (famoso per delle stravaganti esibizioni teatrali), ma all'ultimo minuto ebbe un ripensamento, probabilmente a causa dell'insicurezza. L'attore iniziò a ponderare l'idea di esibirsi da solo e dunque decise di mantenere come modello d'ispirazione Gustavo De Marco (omonimo, ma non parente del capocomico Francesco), che Totò, esercitandosi davanti allo specchio, riusciva ad imitare senza particolari sforzi. Appena sentitosi pronto, decise di tentare al Teatro Ambra Jovinelli, che al tempo era la massima rappresentazione dello spettacolo di varietà, dove erano passati artisti come Ettore Petrolini, Raffaele Viviani, Armando Gill, Gennaro Pasquariello, Alfredo Bambi e lo stesso De Marco. Emotivamente teso, si presentò al titolare del teatro, Giuseppe Jovinelli, un uomo rude conosciuto e rispettato per un suo passato scontro con un piccolo boss della malavita locale. Il breve colloquio andò inaspettatamente bene e Totò, per sua gioia e incredulità, venne preso. Debuttò con tre macchiette di De Marco: Il bel Ciccillo, Vipera e Il Paraguay, che ebbero un buon successo di pubblico e un impensabile entusiasmo da parte di Jovinelli. Il comico firmò un contratto prolungato col titolare, che lo usò spesso in varie parti dello spettacolo e che organizzò addirittura un finto match tra lui e il pugile Oddo Ferretti. Il consenso del pubblico ottenuto al teatro non compensava però lo stile di vita dell'artista: la paga era molto bassa e non poteva neanche permettersi abiti eleganti e accessori raffinati (ai quali lui teneva molto) o un taglio di capelli caratteristico, con le basette come quelle di Rodolfo Valentino. In quell'arco di tempo fece appunto amicizia con un barbiere, Pasqualino, il quale, avendo conoscenze in campo teatrale e impietosito dalle ristrettezze economiche del giovane, riuscì a farlo scritturare da Salvatore Cataldi e Wolfango Cavaniglia, i proprietari del Teatro Sala Umberto I. Totò rinnovò il suo corredo teatrale (che fino a quel momento era composto da un singolo abito di scena sempre più consumato): una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa con il colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni corti e larghi a zompafosso, calze colorate e comuni scarpe basse e nere. La sera dell'esordio l'attore diede il meglio di sé, lasciandosi andare in mimiche facciali, piroette, doppi sensi e le immancabili macchiette di Gustavo De Marco. Tra grida di bis ed applausi, l'esperienza al salone Umberto I segnò per Totò l'affermazione definitiva nello spettacolo di varietà.

Tra il 1923 e il 1927 si esibì nei principali caffè-concerto italiani, facendosi conoscere anche a livello nazionale. Grazie ai maggiori guadagni, poté finalmente permettersi di vestire abiti eleganti e di curare maggiormente il suo aspetto fisico, con i capelli impomatati e le desiderate basette alla Rodolfo Valentino; fu un periodo roseo soprattutto per quanto riguarda le donne, con le quali ebbe una serie di avventure (per lo più con sciantose e ballerine), tanto che acquisì presto la fama di vero «sciupafemmene». Prima di iniziare un suo spettacolo, sbirciava sempre tra il pubblico alla ricerca della "bella di turno" alla quale dedicare la sua esibizione, che il più delle volte, dopo varie serate, lo raggiungeva nel suo camerino durante l'intervallo o al termine dello spettacolo.

Nel 1927 fu scritturato da Achille Maresca, titolare di due diverse compagnie; Totò entrò a far parte prima della compagnia di cui era primadonna Isa Bluette, una delle soubrette più in voga del periodo, e poi, dal 1928 di quella di Angela Ippaviz; gli autori erano "Ripp" (Luigi Miaglia) e "Bel Ami" (Anacleto Francini). Nella prima compagnia conobbe Mario Castellani, destinato a diventare in seguito una delle sue "spalle" più fedeli ed apprezzate. Nel 1929, mentre si trovava a La Spezia con la compagnia di Achille Maresca, venne contattato dal barone Vincenzo Scala, il titolare del botteghino del teatro Nuovo di Napoli, che fu mandato dall'impresario Eugenio Aulicio per scritturarlo come "vedette" in alcun spettacoli di Mario Mangini e di Eduardo Scarpetta, tra cui Miseria e nobiltà, Messalina e I tre moschettieri (dove impersonò d'Artagnan), accanto a Titina De Filippo. Messalina rimase particolarmente impresso negli occhi del pubblico, in quanto Totò improvvisò una scenetta in cui si arrampicò su per il sipario e fece smorfie e sberleffi agli spettatori, i quali andarono totalmente in visibilio.

Le soddisfazioni professionali dell'attore non andavano però di pari passo con quelle sentimentali. Nonostante il suo successo con le donne e le numerose avventure, si sentiva inappagato. Fino a quando non irruppe nella sua vita Liliana Castagnola, che Totò vide su alcune fotografie in un provocante abito di scena, rimanendone subito colpito. La sciantosa, fino a quel momento, era stata costante oggetto delle cronache mondane: fu espulsa dalla Francia con l'accusa di aver indotto due marinai al duello, e un suo amante geloso si tolse la vita dopo averle sparato due colpi di pistola, uno dei quali l'aveva ferita al viso lasciandole un frammento di proiettile che le causava forti dolori e per i quali assumeva tranquillanti. A causa della cicatrice, sebbene lieve, ella adottò la pettinatura "a caschetto" che le copriva guance e fronte. La donna giunse a Napoli nel dicembre 1929, scritturata dal Teatro Nuovo, e incuriosita dal veder recitare l'artista napoletano si presentò una sera ad un suo spettacolo. Totò non si lasciò sfuggire l'occasione e iniziò a corteggiarla mandandole, alla pensione degli artisti dove lei abitava, mazzi di rose con un biglietto d'ammirazione, al quale lei rispose con una lettera d'invito. Furono questi gli inizi di un'intensa (seppur breve e tormentata) storia d'amore. Sebbene fosse una donna fatale sia sul palcoscenico sia nella vita reale, la Castagnola aveva per l'artista napoletano un sentimento sincero e passionale, cercando una relazione stabile e sicura. Dopo il primo periodo iniziarono i problemi legati alla gelosia: Totò non sopportava l'idea che Liliana, durante le sue tournée, fosse corteggiata dagli ammiratori e questo lo portò a temere eventuali tradimenti, situazione che diede origine a continui litigi. Entrambi furono poi vittime di malelingue e pettegolezzi, la donna entrò in un profondo stato di depressione e la loro relazione si deteriorò. Liliana, accrescendo un senso di attaccamento morboso al suo uomo, pur di restargli accanto propose di farsi scritturare nella sua stessa compagnia; ma Totò, sentendosi oppresso dal comportamento della donna, fu più volte sull'orlo di lasciarla, fino a quando decise di accettare un contratto con la compagnia della soubrette "Cabiria", che lo avrebbe portato a Padova.

L'epilogo fu che Liliana, sentitasi abbandonata dall'amato, si suicidò ingerendo un intero tubetto di sonniferi. Fu trovata morta nella sua stanza d'albergo, con al suo fianco una lettera d'addio a Totò: «Antonio, potrai dare a mia sorella Gina tutta la roba che lascio in questa pensione. Meglio che se la goda lei, anziché chi mai mi ha voluto bene. Perché non sei voluto venire a salutarmi per l'ultima volta? Scortese, omaccio! Mi hai fatto felice o infelice? Non so. In questo momento mi trema la mano... Ah, se mi fossi vicino! Mi salveresti, è vero? Antonio, sono calma come non mai. Grazie del sorriso che hai saputo dare alla mia vita grigia e disgraziata. Non guarderò più nessuno. Te l'ho giurato e mantengo. Stasera, rientrando, un gattaccio nero mi è passato dinnanzi. E, ora, mentre scrivo, un altro gatto nero, giù per la strada, miagola in continuazione. Che stupida coincidenza, è vero?... Addio. Lilia tua»

Totò, che ritrovò il corpo esanime della donna il mattino seguente, ne rimase sconvolto: il peso della responsabilità, il non aver capito l'intensità dei sentimenti di lei e i rimorsi per aver pensato «ha avuto molti uomini, posso averla senza assumermi alcuna responsabilità», lo accompagnarono per tutta la vita, tanto che decise di seppellirla nella cappella dei De Curtis a Napoli, nella tomba sopra la sua, e decretò che, qualora avesse avuto una figlia, invece di battezzarla col nome della nonna paterna Anna (secondo l'uso napoletano), le avrebbe dato il nome di Liliana, cosa che poi effettivamente fece con la figlia Liliana De Curtis. Totò volle inoltre conservare un fazzoletto intriso di rimmel che raccolse la mattina del ritrovamento del corpo di Liliana, con il quale probabilmente ella si asciugò le lacrime in attesa della morte. In merito all'impegno già preso, la sera stessa partì per la tournée con la compagnia a Padova. Era il marzo del 1930. Tornato a Roma il mese successivo, si esibì nuovamente in numerosi spettacoli alla Sala Umberto I, dove ripropose il suo repertorio di macchiette e nuove creazioni, impersonando anche Charlot, come umile omaggio a Chaplin. Tornò poi a lavorare con l'impresario Maresca, dove iniziò una nuova tournée riproponendo i successi degli anni precedenti. Sempre nel 1930, anno dell'avvento del sonoro, Stefano Pittaluga, che produsse con la Cines La canzone dell'amore (il primo film italiano sonoro), era alla ricerca di nuovi volti da portare sul grande schermo. Le doti comiche di Totò non gli sfuggirono e dato che era in procinto di produrre un film, chiamato Il ladro disgraziato, gli fece fare un provino. La pellicola non vide mai la luce, anche per il fatto che il regista avrebbe voluto che Totò imitasse Buster Keaton, idea che all'attore non garbava. Momentaneamente accantonata l'eventualità di entrare nel cinema, nel 1932 diventò capocomico di una propria formazione, proponendosi nell'avanspettacolo, un genere teatrale che continuò a diffondersi in Italia fino al 1940. In tournée a Firenze conobbe l'allora sedicenne Diana Rogliani (la giovane età della ragazza suscitò inizialmente qualche riluttanza da parte di Totò, dalla quale ebbe una figlia che, in onore della compianta Castagnola, battezzò Liliana. Gli anni Trenta furono un periodo di grandi successi per il comico che, malgrado il guadagno non molto alto, si sentiva affermato: portò in scena, insieme alla sua prima spalla Guglielmo Inglese (più avanti fu Eduardo Passarelli), numerosi spettacoli in tutta Italia. Sulla traccia di copioni spesso approssimativi, Totò ebbe modo di dare sfogo alle risorse creative della sua comicità surreale, con mimiche grottesche e deformazioni/invenzioni linguistiche, interpretando anche Don Chisciotte e travestendosi addirittura da soubrette; imparò così l'arte dei guitti, ossia quegli attori che recitavano senza un copione ben impostato (molte macchiette le ripropose poi nel suo repertorio cinematografico: "Il pazzo", "Il chirurgo", "Il manichino”), arte alla quale Totò aggiunse caratteristiche tutte sue, pronto a sbeffeggiare i potenti quanto a esaltare i bisogni e gli istinti umani primari: la fame, la sessualità, la salute mentale. Naturalmente, come si confà allo stile di Totò, tutto espresso con distinti doppi sensi senza mai trascendere nella volgarità. A plasmare questa sua forma d'espressione, fu il fatto di aver vissuto per anni in povertà, difatti lui stesso era del pensiero che "la miseria è il copione della vera comicità..." che "non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita". Acquisì quindi una sua originale personalità recitativa, diventando uno dei maggiori protagonisti della stagione dell'avanspettacolo.

Nel 1933 si fece adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, per ereditarne così la lunga serie di titoli nobiliari. L'anno successivo mise su casa a Roma insieme alla figlia Liliana e alla compagna Diana Rogliani (per la quale nutriva un'ossessiva gelosia), che sposò nell'aprile del 1935. Fu in quel periodo che alcune personalità importanti tentarono di imporlo nel cinema: tra di loro Umberto Barbaro e Cesare Zavattini, che cercò infatti di inserirlo nella parte di “Blim" nel film Darò un milione di Mario Camerini - ruolo andato poi a Luigi Almirante. Non realizzandosi questi progetti, il vero debutto avvenne nel 1937 con Fermo con le mani!: il produttore Gustavo Lombardo, fondatore della Titanus, scritturò Totò dopo averlo notato mentre era a pranzo in un ristorante di Roma. La direzione fu affidata al regista Gero Zambuto. Il film però non ebbe gran successo; concepito con mezzi molto scarsi, l'intenzione primaria era proporre al pubblico italiano un'alternativa del personaggio di Charlot, di Chaplin. Nel 1938 Totò fu vittima di un infortunio: ebbe un distacco di retina traumatico e perse la vista dell'occhio sinistro, cosa di cui erano al corrente soltanto i familiari stretti e l'amico Mario Castellani. Nonostante l'incidente, trovò la forza di riaffacciarsi per un breve periodo al teatro d'avanspettacolo, la cui epoca, per lui gloriosa, giunse purtroppo al termine. In quel frattempo, causa il fatto che si sentiva come soffocato dal matrimonio e causa anche la sua opprimente gelosia nei confronti della giovane consorte (si dice che la tenesse perfino chiusa nel camerino mentre lui si esibiva, la sua vita coniugale entrò in crisi. Decise dunque di ritornare scapolo e si accordò con Diana per la separazione. In Italia non c'era la possibilità di divorzio, così dovettero chiedere lo scioglimento all'estero, in Ungheria, per far sì che fosse poi annullato in Italia. Dopo l'annullamento, i due continuarono comunque a vivere insieme, trasferendosi in Viale dei Parioli, insieme alla figlia e ai genitori di lui.

Dopo Fermo con le mani!, del quale Totò non si ritenne molto soddisfatto, ci fu, nel 1939, un secondo tentativo, che ebbe inizialmente problemi per i costi di produzione: Animali pazzi di Carlo Ludovico Bragaglia, dove Totò interpretò un doppio ruolo. Pure questo suo secondo film non fu del tutto riuscito, sebbene l'attore sfruttò al massimo le sue potenzialità "marionettistiche". Alla fine del 1939, andò in tournée a Massaua e Addis Abeba, in Etiopia, accompagnato da Diana Rogliani, Eduardo Passarelli e la soubrette Clely Fiamma, presentando lo spettacolo 50 milioni... c'è da impazzire!, scritto insieme a Guglielmo Inglese e già mostrato al pubblico italiano anni prima. Una volta rientrato in patria interpretò la sua terza pellicola, San Giovanni decollato, che fu sceneggiata, tra gli altri, da Cesare Zavattini, al quale venne affidata la regia dal produttore Liborio Capitani. Zavattini però non se la sentì e il compito passò ad Amleto Palermi. Il film fu un successo di critica: alcuni commenti sulla rivista Cinema e su L'Espresso elogiarono proprio la recitazione di Totò, la sua capacità espressiva, i suoi giochi di parole e i suoi movimenti snodati. Zavattini, che nutriva ammirazione artistica verso l'attore, scrisse per lui il soggetto Totò il buono, che non diventò mai un film ma servì allo sceneggiatore per la realizzazione del film Miracolo a Milano (1951), di Vittorio De Sica, con il quale instaurò uno dei sodalizi più celebri del neorealismo cinematografico italiano. Il quarto film fu L'allegro fantasma sempre di Amleto Palermi, dove a Totò vennero affidati tre ruoli differenti. Girato nell'autunno del 1940 (uscito poi a ottobre del '41), fu l'ultimo film che interpretò prima del suo ritorno a teatro.

Questi primi esperimenti cinematografici surreali non ottennero il successo di pubblico che Totò aveva invece sul palcoscenico. Quando tornò a teatro, alla fine del 1940, l'avanspettacolo era già tramontato, sostituito dalla "rivista", un genere teatrale sorto a Parigi e dal carattere (almeno nel primo periodo) esclusivamente satirico - per quanto concesso dal regime fascista - presentato sotto forma di azioni sceniche ricche di allusioni e di accenni piccanti. In quel periodo l'Italia era da poco entrata in guerra e la ferrea censura del fascismo era attentissima a qualsiasi battuta ambigua o accenno negativo sul Governo di Mussolini. Totò debuttò al teatro Quattro Fontane di Roma insieme a Mario Castellani (da quel momento la sua "spalla" ideale) ed Anna Magnani (primadonna), con i quali instaurò un solido rapporto artistico e umano. La rivista era Quando meno te l'aspetti di Michele Galdieri, uno tra i grandi scrittori di riviste teatrali degli anni Quaranta. Totò strinse con Galdieri un sodalizio durato nove anni, con spettacoli scritti anche dall'attore stesso e messi in scena dagli impresari Elio Gigante e Remigio Paone; tra le riviste più note: Quando meno te l'aspetti, Volumineide, Orlando Curioso, Che ti sei messo in testa? e Con un palmo di naso. Causa la guerra, furono tempi difficoltosi anche per il teatro, per la mancanza di mezzi di trasporto, il divieto di circolazione delle auto private e soprattutto per i bombardamenti, in particolare a Milano, dove gli spettacoli venivano spesso interrotti e gli attori erano costretti ad allontanarsi verso il rifugio più vicino, senza avere il tempo di togliersi gli abiti di scena. Fu il periodo in cui Totò venne scritturato dalla Bossoli Film per riaprire una fessura nel cinema e prendere parte ad una nuova pellicola che comprendeva nel cast anche il pugile Primo Carnera, Due cuori fra le belve (ridistribuito dopo la guerra col titolo Totò nella fossa dei leoni), del regista Giorgio Simonelli, che venne girato con animali autentici. Nel maggio del '44, la rivista Che ti sei messo in testa (che avrebbe dovuto chiamarsi Che si son messi in testa?, un chiaro accenno ai tedeschi occupanti) creò problemi al comico napoletano, che dopo le prime rappresentazioni al teatro Valle di Roma, venne dapprima intimorito con una bomba all'entrata dal teatro, poi denunciato dalla polizia, insieme ai fratelli De Filippo, con un telegramma dal Comando Tedesco indirizzato al teatro Principe, che Totò non lesse mai; venne avvertito però da una telefonata anonima. Per evitare l'arresto, Totò, dopo aver allertato i fratelli De Filippo, si rifugiò con la ex moglie Diana e la figlia a casa di un amico in via del Gelsomino nei pressi della via Aurelia, all'estrema periferia ovest di Roma, mentre i De Filippo si nascosero in via Giosuè Borsi. Passati alcuni giorni Totò dovette comunque lasciare l'abitazione, per il fatto che molti suoi ammiratori lo avevano riconosciuto e quindi il nascondiglio non era più sicuro. Tornò a Roma, dove erano rimasti i genitori, e si segregò in casa fino al 4 giugno, il giorno della liberazione della capitale (secondo varie testimonianze avrebbe anche notevolmente contribuito ai finanziamenti della Resistenza romana).

Il 26 giugno riprese a recitare: tornò al teatro Valle con la Magnani nella nuova rivista Con un palmo di naso, in cui diede libero sfogo alla sua satira impersonando il Duce (sotto i panni di Pinocchio), e Hitler, che dissacrò ulteriormente dopo l'attentato del 20 luglio 1944, rappresentandolo in un atteggiamento ridicolo, con un braccio ingessato e i baffetti che gli facevano il solletico, e mandando l'intera platea in estasi. «Io odio i capi, odio le dittature... Durante la guerra rischiai guai seri perché in teatro feci una feroce parodia di Hitler. Non me ne sono mai pentito perché il ridicolo era l'unico mezzo a mia disposizione per contestare quel mostro. Grazie a me, per una sera almeno, la gente rise di lui. Gli feci un gran dispetto, perché il potere odia le risate, se ne sente sminuito.»

Nel 1945, dopo alcune esibizioni nella capitale, a Siena e a Firenze, portando in scena la rivista Imputati, alziamoci! (in cui faceva la caricatura di Napoleone), Totò fu avvicinato al termine dello spettacolo da un partigiano che, indispettito da una sua battuta di risposta che accomunava ironicamente fascisti e partigiani, lo colpì al viso con un pugno. Totò, corso immediatamente al commissariato per denunciare il fatto, decise poi di lasciar correre senza sporgere querela. In quel periodo il sodalizio artistico con Anna Magnani si interruppe, quando l'attrice si rivelò al grande pubblico internazionale interpretando il ruolo della popolana Pina nel film Roma città aperta, diretto dal suo compagno Roberto Rossellini. Totò invece proseguì per la sua strada continuando col cinema e con il teatro e incidendo anche il suo unico disco 78 giri come cantante, interpretando canzoni non sue: Marcello il bello nel lato A e Nel paese dei balocchi - dove venne coadiuvato da Mario Castellani - nel lato B.

Totò fu membro della Loggia massonica "Fulgor" di Napoli dal luglio 1945 e, in seguito, della Loggia "Fulgor Artis" di Roma, da lui stesso fondata. Entrambe le Logge appartenevano alla "Serenissima Gran Loggia Nazionale Italiana" di Piazza del Gesù. Dopo la morte del padre (avvenuta nel settembre del '44), Giuseppe De Curtis, tra il 1945 e gli anni successivi Totò alternò teatro e cinematografia, dedicandosi anche alla creazione di canzoni e poesie, ma anche ad una buona lettura, diligendo in particolar modo Luigi Pirandello. Interpretò la sua sesta pellicola, Il ratto delle Sabine, con il regista Mario Bonnard, film che venne accolto da alcune critiche avverse, come quella di Vincenzo Talarico, che stroncò l'attore "augurandosi che rientrasse al più presto nei ranghi del teatro di rivista." Poi ci fu I due orfanelli, scritto da Steno e Agenore Incrocci e diretto da Mario Mattoli, con il quale Totò interpretò altri tre film tra il '47 al '49: Fifa e arena, Totò al giro d'Italia (il primo film in cui compariva il suo nome nel titolo) e I pompieri di Viggiù (tutti di buon successo e incasso); inoltre, era il tempo della rivista C'era una volta il mondo di Galdieri, composta da sketch rimasti famosi, come quello del Vagone letto, con Totò al fianco di Isa Barzizza, la soubrette che debuttò nel film I due orfanelli e che proprio lui volle nella rivista, e Mario Castellani, la fedele "spalla" teatrale che lo accompagnò anche nel cinema, prendendo parte a quasi tutte le sue pellicole proprio per volere di Totò che, quando non c'erano ruoli disponibili, lo imponeva come aiuto-regista. La rivista C'era una volta il mondo ebbe tanto successo che venne presentata anche a Zurigo, recitata in italiano ma acclamata ugualmente dal pubblico svizzero per la genialità comica degli sketch. Spesso gli spettacoli di rivista di Totò si concludevano con la classica "passerella", col comico che correva tra il pubblico con una piuma sulla bombetta, al ritmo della fanfara dei Bersaglieri (scenetta riproposta nel film I pompieri di Viggiù). Nell'ottobre 1947, durante le repliche della rivista, la madre di Totò morì. Malgrado il grande dolore per la perdita di entrambi i genitori, l'attore non mischiò il lavoro con la vita privata, continuando ad essere il comico Totò nello spettacolo e il malinconico Antonio De Curtis al di fuori. Aprì anche una piccola parentesi come doppiatore, prestando la voce al cammello Gobbone nel film La vergine di Tripoli. Prima di riaffacciarsi al cinema, partì per alcune tournée a Barcellona, Madrid e altre città spagnole, dove recitò in spagnolo (senza avere padronanza della lingua) con Mario Castellani nella rivista Entre dos luces (Tra due luci), improvvisando una canzone non-sense a metà tra spagnolo e napoletano. Tornato in Italia, ebbe anche una piccola esperienza nel campo pubblicitario, facendosi fotografare a pagamento sulla rivista Sette che promuoveva i profumi Arbell.

Da quando entrò nel mondo del cinema, gli furono proposti moltissimi film, molti dei quali non venivano nemmeno realizzati, spesso per problemi di produzione o per sua rinuncia. Alcuni venivano girati contemporaneamente, in tempi ristrettissimi (la maggior parte in due o tre settimane) e su set spesso improvvisati, tanto che a volte era proprio la troupe che raggiungeva Totò nelle città in cui recitava a teatro. L'attore, complice la pigrizia, era sempre molto precipitoso quando gli venivano proposti dei progetti, ed essendo profondamente istintivo spesso non voleva conoscere nulla della pellicola che andava ad interpretare, affidandosi quindi alle sue qualità creative. Così, come sul palcoscenico, dava libero sfogo all'improvvisazione: il copione rappresentava solo un timido canovaccio per l'attore, che concepiva sul momento le gag e le battute; così tuttavia nacquero anche alcune delle sue scene cinematografiche più famose. «Era imprevedibile [...] recitava a braccio», testimoniò Nino Taranto; «Certe sue folli improvvisazioni durante la recitazione erano geniali e insostituibili» espresse invece Vittorio De Sica. Secondo alcuni commenti, invece - come quelli di Carlo Croccolo, Giacomo Furia e Steno - Totò si rinchiudeva nel suo camerino a provare e riprovare le sue battute prima dello spettacolo o delle riprese, rileggeva il copione e modificava i passaggi che non lo convincevano, insieme all'amico Mario Castellani e agli attori coinvolti.

Le differenze tra teatro e cinema crearono inizialmente non pochi disordini per l'attore, che, essendosi formato con lo stile teatrale e quindi con un'unica esecuzione dal vivo, dopo i primi ciak tendeva a perdere la concentrazione. Doveva perciò essere colto "al volo" per poter recitare al massimo; quindi la troupe doveva prima preoccuparsi di sistemare le luci e di preparare la scena con una controfigura, facendo anche qualche prova. Quando tutto era pronto, si poteva far intervenire Totò. Un'altra delle differenze tra le due forme d'arte, di cui il comico risentì molto inizialmente, fu il fatto di non riuscire a comunicare direttamente con il pubblico, uno dei particolari che più amava del teatro. Proprio per questo, di solito, i registi (in particolare Bragaglia, con il quale instaurò un solido rapporto artistico) e i membri della troupe lo spronavano dopo lo stop con un applauso, in modo da dargli maggiore carica ed entusiasmo. Un altro inconveniente furono gli orari: Totò, abituato agli orari teatrali, non si alzava mai prima di mezzogiorno, essendo poi un assertore della teoria che l'attore "al mattino non può far ridere”, girava nel cosiddetto orario francese, dalle 13 alle 21. Si stancava poi per le lunghe pause e attese che il cinema comporta, e inoltre, essendo molto superstizioso, si rinchiudeva in casa e non lavorava mai di martedì e di venerdì, 13 o 17. Fattori che creavano non pochi problemi per le riprese. Complicazioni particolari ci furono per Totò al giro d'Italia, dove erano coinvolti molti ciclisti famosi dell'epoca come Bartali, Coppi, Bobet, Magni; l'attore, non arrivando in orario, creava difficoltà. Nella stagione 1949/1950 ottenne l'ultimo successo a teatro con la rivista Bada che ti mangio!, costata ben cinquanta milioni, che debuttò al teatro Nuovo di Milano nel marzo del '49, dopodiché Totò si allontanò dal palcoscenico per dedicarsi esclusivamente al cinema. Dopo I pompieri di Viggiù, lavorò anche con Eduardo De Filippo nel suo film Napoli milionaria, che accettò di interpretare senza compenso, in segno dell'affettuosa amicizia che lo legava ad Eduardo. I due attori, sebbene avessero progettato di realizzare insieme altri film, non ebbero più modo di incontrarsi sul set, apparendo solo in episodi diversi de L'oro di Napoli di Vittorio De Sica ed in un breve cameo ne Il giorno più corto.

Nel 1950 Totò rinunciò alla proposta di avere un ruolo, insieme al francese Fernandel, nel film di produzione italo-francese Atollo K, dove avrebbe avuto l'opportunità di recitare insieme a Stan Laurel e Oliver Hardy, la famosa coppia comica conosciuta in Italia come Stanlio e Ollio.

Tra il 1949 e il 1950, oltre a Napoli milionaria, interpretò ben altri nove film, tra i quali alcune parodie: Totò le Mokò, Totò cerca moglie, Figaro qua, Figaro là, Le sei mogli di Barbablù, 47 morto che parla, tutti diretti da Carlo Ludovico Bragaglia, poi L'imperatore di Capri di Luigi Comencini, Tototarzan e Totò sceicco (dove s'invaghì dell'attrice Tamara Lees) di Mario Mattoli, Yvonne la nuit di Giuseppe Amato, Totò cerca casa di Steno e Mario Monicelli, un'efficace parodia del neorealismo sulla crisi degli alloggi, che suscitò un po' d'indignazione da parte della censura. Questi film, in misura diversa, ebbero un buon successo di pubblico, ma non di critica, che già dalle pellicole precedenti cominciò a non gradire lo stile surreale di Totò. Commentando in modo ironico queste avversità da parte dei critici, il principe osservò che probabilmente si era "guastato col crescere".

La morte dei genitori fu l'avvio di uno squilibrio familiare: nel 1951 Diana Rogliani, in seguito a un violento litigio, se ne andò di casa e si sposò; altrettanto fece, appena maggiorenne, e contro la volontà di Totò, la figlia Liliana, unendosi in matrimonio con Gianni Buffardi, figliastro del regista Carlo Ludovico Bragaglia. Totò restò solo, e in quel breve lasso di tempo scrisse la nota canzone Malafemmena, che concepì durante una pausa di lavorazione del suo nuovo film Totò terzo uomo, a cui seguirà Sette ore di guai. La canzone fu apparentemente scritta per la ex moglie Diana, alla quale era ancora molto legato, ma i giornali dell'epoca affermarono che Totò l'avesse dedicata a Silvana Pampanini, l'attrice con la quale recitò in 47 morto che parla e che, in quel periodo, corteggiava mandandole mazzi di rose e scatole di cioccolatini. Arrivò perfino a chiederle di sposarlo, uno dei motivi per la brusca separazione con la Rogliani), ma l'attrice lo respinse.

Nonostante le oscurità e le delusioni, il 1951 fu un anno importante per la carriera cinematografica dell'attore. Dopo il successo di Totò cerca casa, venne richiamato da Steno e Mario Monicelli per interpretare il ruolo del ladro Ferdinando Esposito in Guardie e ladri, al fianco di quell'attore che fu uno dei suoi amici più affezionati e una delle sue migliori "spalle", capace di rispondere colpo su colpo alle improvvise e "aggressive" battute di Totò, Aldo Fabrizi. Per Guardie e ladri Totò era all'inizio riluttante, il ruolo offertogli era finalmente reale, diverso dai suoi precedenti personaggi e inserito in un contesto decisamente più drammatico. Il film ebbe inizialmente problemi con la censura, ma appena uscito nelle sale fu un successo unanime: alti incassi, grande apprezzamento di pubblico e plauso inatteso da parte della critica. Nello stesso anno interpretò, sempre per la regia di Monicelli e Steno, Totò e i re di Roma, l'unico film che lo vide recitare con Alberto Sordi. L'anno seguente fu premiato con un nastro d’argento per la sua interpretazione in Guardie e ladri, e l'opera venne presentata al Festival di Cannes 1952, dove si aggiudicò il premio per la migliore sceneggiatura, l'anno in cui l'attore collaborò a Siamo uomini o caporali?, la sua biografia (che si ferma nel 1930 - dopo il suicidio di Liliana Castagnola) curata da Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli.

Proprio nel 1952 Totò rimase colpito da una giovane sulla copertina del settimanale "Oggi", Franca Faldini. Le mandò subito un mazzo di rose con un biglietto: «Guardandola sulla copertina di “Oggi” mi sono sentito sbottare in cuore la primavera», poi le telefonò per invitarla a cena, la ragazza accettò solo quando Totò ebbe modo di farsi presentare. La Faldini, appena ventunenne, era da poco tornata dagli Stati Uniti, dove aveva preso parte al film Attente ai marinai! con Dean Martin e Jerry Lewis. Dopo essersi frequentati per circa un mese annunciarono il loro fidanzamento. Sebbene restassero insieme fino alla morte dell'artista, la loro relazione, che non arrivò mai al matrimonio, fu più volte sull'orlo di essere troncata, per il fatto di essere due persone caratterialmente molto diverse; un motivo, tra l'altro, fu la differenza di età di trentatré anni. La situazione di convivenza senza un legame matrimoniale creò scandalo all'epoca, tanto che, pochi anni più avanti, i due, stanchi di essere tormentati dai paparazzi e dai giornalisti (che li definivano "pubblici concubini"), furono costretti a fingere di essersi uniti in matrimonio all'estero, un espediente che comunque non funzionò sino in fondo.

Franca Faldini comparve anche nel cast di alcuni film del compagno. Il primo a cui partecipò fu Dov'è la libertà?, di Roberto Rossellini, che avendo apprezzato Totò in Guardie e ladri, lo scritturò per il suo film. La lavorazione non ebbe il percorso previsto. Venne girato nel 1952 e uscì nelle sale due anni dopo, per il fatto che nel corso delle riprese Rossellini si disinteressò della pellicola e si allontanò spesso dal set. Molte sequenze furono quindi girate dal regista Lucio Fulci e sembra che ci fossero state anche delle collaborazioni con Mario Monicelli e Federico Fellini. Insieme alla Faldini, girò poi Totò e le donne, nuovamente diretto da Steno e Monicelli, dove Totò recitò per la prima volta con Peppino De Filippo, con il quale formò in seguito una delle coppie più popolari del cinema italiano. Dopo che Steno e Monicelli si divisero, entrambi realizzarono, ciascuno per proprio conto, altri film con Totò. Il primo sfruttò la sua comicità surreale, il secondo proseguì sull'umanizzazione del personaggio (cominciata proprio con Guardie e ladri). Il primo grande risultato raggiunto da Steno fu Totò a colori - gran successo e incassi altissimi - uno dei primi film italiani a colori, girato col sistema "Ferraniacolor", in cui vennero riproposti alcuni dei suoi sketch teatrali, come quello di Pinocchio o del Vagone letto con Castellani e Isa Barzizza. Durante le riprese del film Totò iniziò ad avere diversi problemi, a causa delle potenti luci usate sul set, che gli causarono problemi alla sua vista già precaria e addirittura una lieve infiammazione ai capelli, finendo per svenire a causa dei forti dolori accusati all'occhio destro, il solo da cui vedeva dopo il distacco di retina del 1938 all'altro occhio. Continuò comunque a lavorare. Nel 1953, in seguito ad alcune illustrazioni di Totò il buono disegnate dallo sceneggiatore Ruggero Maccari su Tempo illustrato, furono (con l'ovvio consenso dell'attore) stampati e distribuiti degli albi a fumetti di Totò, rappresentato naturalmente in forma caricaturale, raccolti in una collana chiamata semplicemente Totò a fumetti, che illustrava storie liberamente ispirate ad alcune sue esibizioni teatrali. La collana venne pubblicata dalle Edizioni Diana di Roma.

Nel 1954, un suo brano musicale, Con te, dedicato a Franca Faldini, fu presentato al Festival di Sanremo, classificandosi al 9º posto nella graduatoria finale. La canzone venne interpretata da Achille Togliani, Natalino Otto e Flo Sandon's. Nello stesso anno, i giornali annunciarono che Totò avrebbe interpretato un film muto scritto da Age e Scarpelli, purtroppo il progetto fu presto annullato per il rifiuto dei produttori. Girare un film del genere sarebbe stata una grande soddisfazione per il comico, che affermò: «Il mio sogno è girare un film muto, perché il vero attore, come il vero innamorato, per esprimersi non ha bisogno di parole»; e fu proprio durante una vacanza sulla Costa Azzurra, in un periodo imprecisato degli anni cinquanta, che ebbe un'occasione unica di conoscere nientedimeno che il maestro del muto Charlie Chaplin, quando il suo yacht si ritrovò per caso accanto all'imbarcazione dell'artista inglese. Ma Totò, da sempre bloccato dall'insicurezza e dai complessi d'inferiorità, e pensando poi che l'altro non lo avrebbe riconosciuto per la sua poca popolarità all'estero, rinunciò a salutarlo.

Tra il 1953 e il 1955 interpretò diciassette film, lavorò nuovamente con Steno in L’uomo, la bestia e la virtù (dall'omonima commedia di Luigi Pirandello), dove nel cast era presente anche Orson Welles, poi con Mattòli ne Il più comico spettacolo del mondo (uno dei primi film italiani tridimensionali), e nella trilogia scarpettiana: Un turco napoletano, Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi. Fu anche chiamato dall'amico Aldo Fabrizi che lo volle per il film Una di quelle, al fianco di Peppino De Filippo, Lea Padovani e lo stesso Fabrizi; la pellicola (ridistribuita successivamente col titolo di Totò, Peppino e… una di quelle), dal tono drammatico e sentimentale, non ottenne il successo sperato. Si incontrò nuovamente anche con Monicelli, con il quale girò Totò e Carolina, film uscito nelle sale dopo un anno e mezzo dal termine della lavorazione perché massacrato dai tagli della censura, che era infastidita principalmente dai palesi riferimenti comunisti e dal fatto che Totò interpretasse un poliziotto, e per di più in un atteggiamento che tendeva a ridicolizzarsi.

Totò, di spirito caritatevole, per tutta la sua vita compì molteplici gesti d'altruismo, che includevano sostegno e offerte di viveri ai più bisognosi. Con l’avanzare dell’età si dedicò sempre più spesso a numerose opere di beneficenza: la vita privata dell’attore, negli ultimi anni, si limitava a sporadiche apparizioni in pubblico ma anche (seppur non avendo guadagni eccelsi per il fatto che pretendeva sempre poco dai produttori a un’intensa attività di benefattore, aiutando ospizi e brefotrofi, donando grandi somme alle associazioni che si occupavano degli ex carcerati e delle famiglie degli stessi. Avendo poi una particolare predilezione per i bambini, dopo la morte del figlio Massenzio Totò andava spesso a trovare, insieme a Franca Faldini, gli orfanelli dell'asilo Nido Federico Traverso, di Volta Mantovana, portando con sé regali e giocattoli. Inoltre, in merito al suo amore per gli animali, per raccogliere cani randagi acquistò e modernizzò un vecchio canile, L'ospizio dei trovatelli, che lui stesso visitava regolarmente per accertarsi che i numerosi ospiti a quattro zampe (si parla di più di 200 cani) avessero le cure necessarie. Le spese totali per l'assistenza e il mantenimento del canile arrivarono a costargli circa cinquanta milioni.

Fondò poi la società di produzione D.D.L., con sede legale al suo domicilio, collegata a Dino De Laurentiis e all'amministratore di Totò, Renato Libassi. Ebbe l'opportunità di lavorare con Alessandro Blasetti e anche Camillo Mastrocinque, con il quale girò molte pellicole di successo. La sua vita privata però, non scorreva tranquilla come quella di spettacolo: Franca Faldini, in seguito ad un parto drammatico, diede alla luce il figlio di Totò, Massenzio; il bambino, nato di otto mesi, morì dopo alcune ore.

Superato il dolore della perdita del figlio, al quale Totò reagì malissimo rinchiudendosi in casa per settimane, nel 1956 ritornò sul set interpretando a catena quattro film di Camillo Mastrocinque, che raggiunse il punto più alto del suo sodalizio con l'attore dirigendolo in Totò, Peppino e la... malafemmina (in cui si colloca la nota scena della “lettera”) e ne La banda degli onesti, scritto da Age e Scarpelli e interpretato insieme a Peppino e Giacomo Furia. Ma la tentazione di ritornare a teatro lo vinse, e, spronato anche dall'impresario Remigio Paone, recitò nella rivista A prescindere (che prendeva il nome da un suo modo di dire), che debuttò al teatro Sistina di Roma alla fine del '56, e che venne portata in tournée in tutta Italia. Nel mese di febbraio del 1957, a Milano, Totò venne colpito da una broncopolmonite virale, e nonostante i pareri dei medici che gli dissero di riposare, tornò sul palco dopo alcuni giorni, ciò gli causò uno svenimento appena prima di entrare in scena. I medici gli prescrissero almeno due settimane di assoluto riposo, ma Totò ritornò ugualmente a recitare esibendosi a Biella, Bergamo e Sanremo, dove cominciò ad avvertire i primi sintomi dell'imminente malattia alla vista. Il 3 maggio la situazione precipitò: mentre recitava al Teatro Politeama Garibaldi di Palermo si avvicinò alla Faldini (che aveva sostituito l'attrice Franca May e recitava sul palco insieme a lui) sussurrandole che non vedeva più; contando perciò solo sulle sue abilità e sull'appoggio degli altri attori, fece in modo di accelerare la conclusione dello spettacolo. Nonostante lo sconforto e la totale cecità, cercò di resistere e, per non deludere il pubblico ritornò sul palcoscenico - con un paio di spessi occhiali da sole - la sera del 4 maggio e, in due spettacoli, del 5. L'interruzione della rivista fu comunque inevitabile. Inizialmente i medici attribuirono la cecità a un problema derivato dai denti, ma alla fine gli fu diagnosticata una corioretinite emorragica all'occhio destro. L'impresario della compagnia, Remigio Paone, non credendogli, richiese una visita fiscale e avrebbe preteso anche che Totò tornasse a recitare. Totò in un primo tempo fu completamente cieco, e anche dopo dei lievi miglioramenti e una volta riassorbita l'emorragia non riuscì più a riacquisire integralmente la vista. Dovette abbandonare definitivamente il teatro, continuando però con il cinema: in quell'anno restò quasi inattivo e interpretò solo un film, Totò, Vittorio e la dottoressa di Mastrocinque, ma le sue capacità recitative, malgrado la malattia, non si affievolirono mai. L'unico problema era il doppiaggio, quando alcune scene dei film non venivano girate in presa diretta, non poteva doppiarsi poiché non era in grado di vedersi sullo schermo e non poteva sincronizzare le battute con il movimento labiale; in tali occasioni, veniva doppiato da Carlo Croccolo. Per problemi economici fu costretto a vendere alcune proprietà, e successivamente decise di soggiornare per qualche giorno a Lugano, pensando di trasferirvisi definitivamente per motivi fiscali, ma ritornò a Roma e si spostò in un appartamento in affitto in Viale dei Parioli con Franca Faldini, che gli rimase sempre vicino, insieme a suo cugino Eduardo Clemente, che gli faceva da segretario e factotum, e al suo autista Carlo Cafiero, che di solito lo accompagnava sul set.

Sebbene non si conosca con certezza il pensiero politico di Totò, si sa da fonti accertate che era fermamente contrario a qualsiasi forma di dittatura e supremazia (anche per le sue esperienze personali e per i suoi sbeffeggiamenti del potere), e sembra che, a detta di Franca Faldini, fosse di idee fondamentalmente anarchiche. A smentire ciò, è una fotografia del tedesco Eugenio Haas risalente al 1943, scattata sul set di Due cuori fra le belve e pubblicata sulla rivista "Film", e che raffigurava l'attore con la "cimice", ossia il distintivo del Partito nazionale fascista. Si suppone che Totò sia stato in qualche modo costretto a posare per quella foto, la cui intenzione sarebbe stata quella di "punire l'audacia del comico", poiché scherniva e derideva il regime fascista nei suoi spettacoli teatrali, che difatti gli causarono molte complicazioni durante la guerra. Pur tenendo molto al suo titolo nobiliare, pur conducendo uno stile di vita sfarzoso, e pur essendo stato definito più volte un monarchico, Totò, secondo la Faldini, non pretendeva da nessuno di essere chiamato "principe", la sua mania per la nobiltà rappresentava per lui una sorta di riscatto dalla sua difficile vita giovanile. Ma il suo «Viva Lauro!», esclamato durante Il Musichiere, venne naturalmente mal interpretato. Essendo un periodo delicato, in prossimità delle elezioni politiche, non era tollerabile che un personaggio conosciuto come Totò osannasse il capo di un partito politico, ma l’unico motivo della sua esclamazione era dovuto al fatto che Lauro avesse provvisto di case e alimenti gli abitanti dei "bassi" (le dimore più povere) di Napoli. Totò apprezzò solamente il gesto, essendo fortemente attaccato alla sua città natale. Pur non coltivando molto interesse per l'ambito televisivo, nel '58 accettò l'invito come ospite d'onore nel programma Il Musichiere condotto da Mario Riva, con il quale aveva lavorato anni prima in alcuni film e riviste teatrali. Durante la trasmissione Totò si lasciò scappare un «Viva Lauro!», riferendosi ad Achille Lauro, l'allora capo del Partito Monarchico Popolare; questa sua sgradita, seppur scherzosa, considerazione politica, gli costò un allontanamento dal piccolo schermo (salvando alcune interviste in privato) sino al 1965, quando duettò con Mina a Studio Uno.

Dopo il forzato distacco dalla televisione, riprese a lavorare nel cinema. Sempre nel '58 recitò con l'attore francese Fernandel in La legge è legge e, tra le altre pellicole, prese parte al celebre film I soliti ignoti di Mario Monicelli, interpretando lo scassinatore in pensione Dante Cruciani e recitando, tra gli altri, con Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni. In quel periodo gli venne assegnato il Microfono d'argento e in seguito una Targa d'Oro dall'ANICA, per il suo contributo al cinema italiano e per la sua lunga carriera artistica.

Nel '59 la sua salute peggiorò, durante la lavorazione del film La cambiale ebbe una ricaduta e non lavorò per due settimane, prima di concludere le riprese. Seguendo i consigli medici si concesse alcuni mesi di riposo, e dopo essersi ripreso inviò una sua canzone, Piccerella Napulitana, al Festival di Sanremo 1959, che però fu scartata, insieme ad un'altra di Peppino De Filippo. Totò accettò comunque di occupare il posto come presidente della giuria al Festival, in seguito alle insistenze di Ezio Radaelli, rifiutando tra l'altro un cospicuo pagamento giornaliero; però, in seguito a un disaccordo col resto della commissione, abbandonò prestissimo l'incarico.

Proprio all'apice del successo, l'agenzia artistica statunitense Ronald A. Wilford Associates di New York (agenzia di quel Ronald Wilford che avrebbe poi fondato e diretto la Columbia Artists Management International, considerata una delle agenzie più potenti del mondo) desiderava scritturarlo per uno spettacolo da rappresentare in America, insieme a Maurice Chevalier, Marcel Marceau e anche Fernandel. Naturalmente Totò non se la sentì e preferì rimanere in Italia a continuare in modo più "rilassante" con la cinematografia, rifiutando così, anche se malvolentieri, un'offerta importante e un altissimo compenso.

Nel 1961 gli venne comunicato che era vincitore della Grolla d'oro alla carriera, con la motivazione: «Al merito del cinema, per aver da lunghi anni onorato l'estro e il genio del Teatro dell'Arte». Ma la sua salute e i suoi impegni non gli permisero di partecipare alla premiazione a Saint-Vincent e la Grolla fu assegnata ad un altro attore.

Nonostante la malattia, Totò (da sempre fumatore) continuava a fumare fino a novanta sigarette al giorno. Cercò comunque di non rallentare troppo la sua già allora consistente produzione di film; e per il timore di perdere il lavoro e l'affetto del suo pubblico, cominciò ad accettare qualsiasi copione: aprì una parentesi con il regista Lucio Fulci ne I ladri e tornò con Steno nel film I tartassati, nuovamente al fianco di Aldo Fabrizi, a cui si aggiunse in un ruolo secondario l'attore francese Louis de Funès. Sebbene fosse quasi completamente cieco (vedeva solo dai lati degli occhi), tanto da dover indossare un pesante paio di occhiali scuri che toglieva soltanto per le riprese, si muoveva sul set con assoluta disinvoltura ed era come se tornasse, solo per un attimo, a vedere; cosa che proprio lui affermò: «Appena sento il ciak, vedo tutto. È un effetto nervoso».

Tra i tanti film interpretati negli anni Sessanta, oltre ai numerosi con Peppino e alcuni con Fabrizi, di buon successo furono Totòtruffa 62 di Camillo Mastrocinque, Gli onorevoli e la commedia amara I due marescialli di Sergio Corbucci, poi I due colonnelli di Steno (ricordato per la scena della “carta bianca”) e Risate di gioia di Monicelli, che segnò una tappa importante per Totò, dato che fu l'unica volta che recitò sul set insieme all'amica e compagna storica di teatro Anna Magnani. Non mancarono poi le parodie, come Totò contro Maciste, Totò e Cleopatra e Totò contro il pirata nero di Fernando Cerchio, che altro non furono che delle comiche rivisitazioni mitologiche dei film Peplum, a cui si aggiunsero Che fine ha fatto Totò Baby? (esplicita parodia di Che fine ha fatto Baby Jane?) di Ottavio Alessi e Totò diabolicus di Steno, quest'ultimo una parodia del genere giallo-poliziesco dove Totò concepì una delle sue prove recitative più complesse e riuscite, dando volto e fattezze a ben sei personaggi differenti.

In aggiunta, la fama che Totò vantava tra il pubblico, da sempre sfruttata dai produttori, venne usata come una sorta di veicolo pubblicitario o di lancio per cantanti quali Johnny Dorelli, Fred Buscaglione, Rita Pavone, Adriano Celentano, e per piccoli attori come Pablito Calvo che, già interprete di Marcellino pane e vino, recitò poi in Totò e Marcellino. Esplorò anche il filone notturno-sexy insieme a Erminio Macario in Totò di notte n. 1 e Totò sexy, due tra i film più fiacchi della sua carriera.

Nel gennaio del 1964 venne pubblicizzata la notizia dell'uscita del suo centesimo film, annunciato come il suo primo interamente drammatico, Il comandante. Diretto da Paolo Heusch e scritto da Rodolfo Sonego (sceneggiatore di fiducia di Alberto Sordi), richiese complessivamente otto settimane di lavoro, più del doppio rispetto alla media dei film di Totò. La notizia diede luogo a festeggiamenti e riconoscimenti, Totò ricevette perfino la "Sirena d'oro" e agli incontri internazionali del cinema venne accolto da un applauso interminabile, poche settimane dopo fu intervistato da Lello Bersani, per Tv7, e da Oriana Fallaci, per L'Europeo. Ma nonostante tutto, il film, che in realtà era l'ottantaseiesimo, si rivelò un insuccesso. Poi, presso l'editore Fausto Fiorentino di Napoli, pubblicò il famoso libro di poesie 'A livella, che in origine si chiamava Il due novembre, per la quale vinse anche un premio.

Nel 1965 conobbe un giovane Pasquale Zagaria che, interprete d'avanspettacolo, era stato consigliato dal titolare del teatro Jovinelli di rivolgersi a Totò al fine di trovare lavoro nel cinema. In quell'occasione Totò gli suggerì di cambiare il suo nome d'arte, che era Lino Zaga, spiegando che i diminutivi dei nomi portassero bene e quelli dei cognomi portassero male. Da allora il giovane attore si conferì lo pseudonimo di Lino Banfi.

«Ho girato diversi film mediocri, altri che erano veramente brutti, ma, dopo tutta la miseria patita in gioventù, non potevo permettermi il lusso di rifiutare le proposte scadenti e restarmene inattivo... » Al culmine della sua carriera, anche se poco prima della morte, arrivarono proposte importanti da cineasti come Alberto Lattuada, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini. Col primo girò, nel 1965, il film La mandragola, nel ruolo di Fra' Timoteo, che interpretò in modo brillante. Il secondo lo avrebbe voluto per il film Il viaggio di G. Mastorna, dove erano previsti nel cast anche Mina, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Lavorare con Fellini era sempre stata una delle maggiori ambizioni di Totò, ma la pellicola purtroppo non fu mai realizzata. L'incontro con Pasolini, invece, fu uno dei più importanti e inaspettati dell'intera carriera cinematografica di Totò. La prima opera realizzata insieme fu Uccellacci e uccellini, che Totò accettò senza condividere appieno il suo personaggio e la poetica del regista; ormai il suo intento principale era produrre opere di qualità, per la ricorrente paura d'essere dimenticato dal pubblico. Pasolini lo scelse perché rimase affascinato dalla sua "maschera", che riuniva perfettamente "l'assurdità e il clownesco con l'immensamente umano". Per la prima volta Totò, durante la lavorazione di un film, si sentì in qualche modo smorzato, per volere di Pasolini che lasciava poco spazio ai suoi lazzi e alle sue improvvisazioni, rispetto a come era solitamente abituato con gli altri registi. Uccellacci e uccellini, opera di grande forza poetica, fin dall'inizio fu oggetto di discussioni e controversie, anche se fu quasi unanime il riconoscimento della grande interpretazione di Totò, che, lodato dalla critica, conseguì una menzione speciale al Festival di Cannes e il suo secondo nastro d’argento, e, per esprimere la sua soddisfazione, ringraziò la giuria dei critici cinematografici italiani attraverso una breve dichiarazione scritta. Prima di ritornare con Pasolini, ottenne un ruolo in Operazione San Gennaro di Dino Risi, accanto a Nino Manfredi. Nel 1967 girò con Pasolini il cortometraggio La terra vista dalla luna, episodio del film collettivo Le streghe, tratto dal racconto di Pasolini mai pubblicato Il buro e la bura; poi Che cosa sono le nuvole?, un episodio del film Capriccio all'italiana, dove l'attore prese parte anche a un altro corto di Steno: Il mostro della domenica.

Furono le sue ultime pellicole. Venne chiamato anche da Nanni Loy per Il padre di famiglia, di nuovo con Manfredi, in un ruolo di un anziano anarchico che vive vendendo calzini e mutande ai compagni della sinistra; film destinato a collocarsi fra i tanti progetti non realizzati da Totò, poiché girò la prima scena (per ironica casualità, quella d'un funerale) e morì due giorni dopo.

Totò incontrò la televisione già nel 1958, insieme a Mario Riva nel programma Il Musichiere. Fece ritorno solo nel 1965, invitato da Mina nella trasmissione Studio Uno, partecipando a due puntate: nella prima, subito accolto da un lunghissimo applauso, presentò la sua canzone Baciami, lasciando cantare Mina mentre lui interveniva facendo da contrappunto alle parole della canzone con qualche sua classica battuta. Nella seconda puntata, nel 1966, ripropose invece un vecchio sketch (Pasquale) con Mario Castellani. La scenetta venne poi incisa, insieme alla poesia 'A livella, in un disco 33 giri dell'attore. Nel suo ultimo periodo di vita, mise in lavorazione alcuni caroselli e una serie per la tv chiamata TuttoTotò, comprendente nove telefilm a cura di Bruno Corbucci e diretti da Daniele D'Anza. La serie, nata da un'idea di Mario Castellani, doveva essere inizialmente diretta da Michele Galdieri (l'autore di molte riviste di Totò), ma morì prima che iniziasse la lavorazione. La maggior parte dei copioni di questi telefilm apparivano troppo deboli, e soltanto alcuni di questi, con testi discreti, diedero modo a Totò di esibirsi in alcuni suoi numeri, riproponendo alcuni dei suoi famosi sketch teatrali. L'attore appariva però provato e lavorava non più di quattro ore nel pomeriggio, ma nonostante tutto era ancora in grado di padroneggiare la scena. Il ciclo andò in onda dopo la sua morte, dal maggio al luglio del '67, per poi essere replicato dieci anni più tardi. Positiva fu l'accoglienza del pubblico, più fredda quella della critica, che sottolineava come la comicità di Totò non apparisse al meglio a causa della realizzazione frettolosa e approssimativa.

Alcuni giorni prima della sua morte, Totò disse di chiudere in fallimento e che nessuno lo avrebbe ricordato, dichiarò di non essere stato all'altezza delle infinite possibilità che il palcoscenico offre (riferendosi chiaramente alla sua vera e unica passione, il teatro) e si rimproverò del fatto che avrebbe potuto fare molto di più. Morì nella sua casa di Via dei Monti Parioli, 4; alle 3:25 del mattino (l'ora in cui era solito coricarsi era le 3:30 circa) del 15 aprile 1967, all'età di 69 anni: venne stroncato da un infarto dopo una lunga agonia, tanto sofferta che lui stesso pregò i familiari e il medico curante di lasciarlo morire. Proprio la sera del 13 aprile confessò al suo autista Carlo Cafiero: «Cafiè, non ti nascondo che stasera mi sento una vera schifezza». Secondo la figlia Liliana, le sue ultime parole furono: «Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano», mentre a Franca Faldini disse: «T'aggio voluto bene Franca, proprio assai.»

Nonostante l'attore avesse sempre espresso il desiderio di avere un funerale semplice, ne ebbe addirittura tre. Il primo nella capitale, dove morì. La sua salma fu vegliata per due giorni dalle principali personalità dello spettacolo e non, giunte da tutta Italia per commemorarlo e rimpiangerlo. Fu accompagnata da più di duemila persone nella chiesa Sant'Eugenio, sul Tevere, dove si svolse la cerimonia funebre. Tra le personalità dello spettacolo presenti, all'interno della chiesa si notarono Alberto Sordi, Elsa Martinelli, Olga Villi, Luigi Zampa e Luciano Salce; parteciparono anche i registi che lo avevano sempre ignorato, e i critici che lo avevano avversato e considerato un artista inconsistente e volgare. Sulla sua bara furono poggiati la famosa bombetta con cui aveva esordito e un garofano rosso, la cerimonia si limitò a una semplice benedizione a causa delle difficoltà create dalle autorità religiose, perché con Franca Faldini l'attore non era sposato, addirittura fu fatta uscire di casa mentre il prete benediceva la salma di Totò.

Il secondo si svolse a Napoli, la sua città natale alla quale era particolarmente legato e la sua gioia più grande sarebbe stata proprio ritornare lì, così fu: Il 17 aprile di pomeriggio il feretro partì verso la città, scortato da circa trenta vetture. La città sospese dalle 16 alle 18,30 ogni attività, fu interrotto il traffico, i muri delle strade furono riempiti di manifesti di cordoglio, le serrande dei negozi vennero abbassate e socchiusi i portoni degli edifici in segno di lutto. Tra gli altri personaggi dello spettacolo ed amici stretti, ad attendere il feretro, c'erano i fratelli Nino e Carlo Taranto, Ugo D'Alessio, Luisa Conte, Dolores Palumbo. A causa della grande affluenza, il furgone che trasportava la salma impiegò due ore per raggiungere la chiesa di Sant'Eligio, dove si svolsero i funerali di fronte alla folla traboccante, valutata in circa 250 000 persone, tra bandiere, stendardi e corone.

L'orazione funebre venne tenuta da Nino Taranto: «Amico mio, questo non è un monologo, ma un dialogo perché sono certo che mi senti e mi rispondi, la tua voce è nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli, che è venuta a salutarti, a dirti grazie perché l'hai onorata. Perché non l'hai dimenticata mai, perché sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollarle di dosso quella cappa di malinconia che l'avvolge. Tu amico hai fatto sorridere la tua città, sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l'allegria di un'ora, di un giorno, tutte cose di cui Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico è qui, ha voluto che il suo Totò facesse a Napoli l'ultimo "esaurito" della sua carriera, e tu, tu maestro del buonumore questa volta ci stai facendo piangere tutti. Addio Totò, addio amico mio, Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori, e che non ti scorderà mai, addio amico mio, addio Totò.»

Dopo il rito funebre, le autorità furono costrette a far uscire la salma da una porta secondaria, all'interno della basilica si susseguirono scene di panico e anche svenimenti; ci furono quattro feriti, due donne e due agenti, in seguito all'enorme scompiglio causato. Il corpo di Totò venne così scortato da motociclisti della polizia al Cimitero del Pianto, ove ad attendere c'erano Franca Faldini, la figlia Liliana con il marito, Eduardo Clemente e Mario Castellani, che per via della straripante folla decisero di non assistere alla funzione religiosa e raggiunsero direttamente in auto il cimitero. Totò fu sepolto nella tomba di famiglia accanto ai genitori, al piccolo Massenzio e all'amata Liliana Castagnola.

Il terzo funerale lo volle organizzare un capoguappo del Rione Sanità, nel suo quartiere, che si tenne il 22 maggio, cioè pochi giorni dopo il trigesimo; ad esso aderì un numero altrettanto vasto di persone, nonostante la bara dell'attore fosse ovviamente vuota. Eduardo De Filippo, con un partecipato articolo, lo ricordò dalle pagine del quotidiano Paese Sera nel giorno della sua scomparsa.

«Non è una cosa facile fare il comico, è la cosa più difficile che esiste, il drammatico è più facile, il comico no; difatti nel mondo gli attori comici si contano sulle dita, mentre di attori drammatici ce ne sono un'infinità. Molta gente sottovaluta il film comico, ma è più difficile far ridere che far piangere.»

Secondo un sondaggio del 2009, condotto dal giornale online quinews.it con mille intervistati equamente distribuiti per fasce d'età, sesso e collocazione geografica (Nord, Centro, Sud e Isole), Totò risultava essere il comico italiano più conosciuto ed amato, seguìto rispettivamente da Alberto Sordi e Massimo Troisi. I suoi film, visti all'epoca da oltre 270 milioni di spettatori (un primato nella storia del cinema italiano), molti dei quali rimasti attuali per satira e ironia, sono stati raccolti in collane di VHS e DVD in svariate occasioni e vengono ancora oggi costantemente trasmessi dalla tv italiana, riscuotendo successo anche tra il pubblico più giovane. Inoltre talune sue celebri battute, espressioni-mimiche e gag sono divenute perifrasi entrate nel linguaggio comune.

Umberto Eco ha espresso così l'importanza di Totò nella cultura italiana: «In questo universo globalizzato in cui pare che ormai tutti vedano gli stessi film e mangino lo stesso cibo, esistono ancora fratture abissali e incolmabili tra cultura e cultura. Come faranno mai a intendersi due popoli [cioè cinesi e italiani] di cui uno ignora Totò?»

Liliana De Curtis, la figlia del comico, è tuttora attiva per mantenere vivo il ricordo del padre. Molti italiani, ancor oggi, si rivolgono a Totò inviando lettere e biglietti alla sua tomba, per confidarsi, chiedere favori e addirittura grazie, come fosse un santo. La notorietà di cui Totò gode in Italia è andata anche oltre i confini nazionali: ad esempio in America, dove il comico Jim Belushi lo ha definito un «clown meraviglioso». L'attore George Clooney, intervistato in Italia in occasione del remake de I soliti ignoti, Welcome to Collinwood (2002), in cui lui interpretava il corrispettivo ruolo di Totò, ha altresì dichiarato: «Era un vero poeta popolare, un fantasista espertissimo nell'arte di arrangiarsi e di arrangiare ogni gesto ed espressione» precisando inoltre che, secondo il suo parere, tutti i comici più celebri come Jerry Lewis, Woody Allen o Jim Carrey devono qualcosa all'attore italiano. «Non era certo solo un comico, proprio come Buster Keaton. I suoi film potrebbero essere anche muti: riesce sempre a trasmettere il senso della storia. Grazie ai vostri sceneggiatori e alla sua mimica, dai suoi film traspare un personaggio a tutto tondo: astuto, ingenuo e anche vessato dalle circostanze della vita. Per questo continuerà a essere imitato, senza speranza di eguagliarlo. C'è sempre suspense nella sua recitazione: si aspetta una sua nuova battuta, una strizzatina d'occhi, ma resta imprevedibile il suo modo di sviluppare una storia.»

«Tengo molto al mio titolo nobiliare perché è una cosa che appartiene soltanto a me... A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l'altezza Imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino. Mentre con Totò ci mangio dall'età di vent'anni. Mi spiego?» Dopo l'adozione nel 1933 da parte del marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, cavaliere del Sacro Romano Impero (D. M. di riconoscimento 6 maggio 1941), Totò intraprese lunghe e costose battaglie legali, portate avanti con determinazione, per il riconoscimento di nobiltà, anche grazie all'aiuto di esperti avvocati e araldisti. Totò riteneva di appartenere a un ramo decaduto dei nobili de Curtis, quello dei conti di Ferrazzano, sebbene tale discendenza non sia mai stata dimostrata. Il 18 luglio 1945 e il 7 agosto 1946 il Tribunale di Napoli, IV sez., emanò sentenze che gli riconobbero diversi titoli gentilizi, che vennero registrati a pag. 42 vol. 28 del Libro d'Oro della Nobiltà Italiana, tenuto presso l'archivio della Consulta Araldica (Roma, Archivio Centrale dello Stato): Principe, Conte Palatino, Nobile, trattamento di Altezza Imperiale. Con sentenza 1º marzo 1950 del Tribunale civile di Napoli, il cognome di Totò venne rettificato in "Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio", anche se sul pronao della cappella della sua tomba, nel Cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli, l'incisione recita solo Focas Flavio Comneno De Curtis di Bisanzio - Clemente. Di fatto, dalla sentenza del 1946, Totò acquisì i titoli e i nomi di: Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. In seguito al riconoscimento nobiliare, Totò fece coniare delle medaglie d'oro dal peso di 50 grammi l'una ritraenti il suo profilo, come fosse un imperatore romano, e che amava regalare ai suoi amici più intimi. Sembra che ben cinque denunce siano state sporte contro l'attore (anche da privati cittadini) per "abuso di titoli nobiliari".

Immortale Totò, principe della risata e imperatore solitario. Morì 50 anni fa, ebbe 3 funerali, vita furibonda e grandi amori, scrive Giorgio Gosetti il 15 aprile 2017 su l' "Ansa". Cosa si può dire ancora di Totò, per gli amici Antonio De Curtis ma per l'anagrafe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, scomparso il 15 aprile di 50 anni fa nella sua casa romana di Viale Parioli a soli 69 anni di una vita furibonda e frenetica? Tanto fu applaudito ed esecrato in vita, specie dalla critica, tanto suscitò passioni ed amori nel pubblico e nelle donne, tanto fu un'anima solitaria come solo i grandi comici sanno essere e tanto visse sempre nell'angoscia di non essere ricordato se non per la sua maschera farsesca. Dopo una consacrazione postuma che lo ha innalzato ai vertici della popolarità e dell'arte, dopo le mille e mille righe a lui dedicate da studiosi (Umberto Eco) e artisti (Pasolini scrisse che la "sua maschera riuniva perfettamente l'assurdità e il clownesco con l'immensamente umano") cosa resta da dire? 

Figlio illegittimo del Barone Giuseppe De Curtis e di Anna Clemente, Antonio "N.N." Clemente detto Totò nasce il 15 febbraio 1898 nel cuore della "guapperia" napoletana al Rione Sanità in quella casa modesta che oggi sarebbe il suo museo ed è invece lasciata nell'incuria a rischio di crollo. Malinconico e solitario, poco versato per gli studi e complessato per il suo stato di "figlio di nessuno" (il padre lo riconobbe dopo i 20 anni), Totò si rifugia fin da bambino dietro la maschera del comico e dell'istrione, le sole armi con cui si fa amare da compagni e grandi. Esordisce sui palcoscenici periferici di Napoli già nel 1913, ma è solo dopo la Grande Guerra (sotto le armi ma lontano dal fronte) che abbraccia il suo destino sul palcoscenico della Sala Napoli scritturato da Eduardo D'Acierno.

Il padre riunisce la famiglia a Roma e qui Totò, nella totale disapprovazione dei genitori, comincia la sua vera gavetta da "straordinario" di compagnia, aggregato a diverse formazioni, spesso lasciato senza lavoro e senza soldi, solo a fatica in grado di farsi largo nel mondo della commedia dell'arte e dell'avanspettacolo. Il fortuito incontro con Giuseppe Iovinelli, l'impresario dell'Ambra Iovinelli di Roma e l'inaspettato successo delle sue macchiette ne fanno rapidamente un divo della scena comica. Non scorderà mai però la fatica degli esordi: "La miseria - diceva - è il copione della vera comicità... Non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita". Simile in questo a Charlot, che spesso additò a modello, desolato come Buster Keaton a cui fin troppo spesso veniva accostato per la gestualità straniata, Totò fu però soprattutto un formidabile autodidatta, capace di cogliere nei tic della gente comune i tratti che poi elevava a gesti comici (da bambino lo chiamavano 'o spione per la sua attenzione al lato buffo degli altri), anarchico nel lavoro quanto meticoloso nella costruzione di sé e delle sue maschere. Nel pantheon dei grandi interpreti "del corpo" assomma i tratti di Eduardo e Tati, Chaplin e Keaton, ma non viene mai meno a una originalità senza limiti che, lo faceva applaudire anche dagli stranieri (dalla Svizzera alla Spagna), mentre solo la pigrizia e la timidezza provinciale gli preclusero i palcoscenici più grandi, compreso quello americano dove venne invano invitato. La sua eredità non viene ben descritta dai numeri, comunque impressionanti: 97 lungometraggi interpretati a passo di carica dopo l'esordio nel 1937 con "Fermo con le mani", voluto da Goffredo Lombardo che cercava volti nuovi per il cinema; oltre 50 spettacoli tra commedia, rivista, avaspettacolo nell'arco di tempo che va dal 1928 al 1957 quando l'aggravarsi di una acuta malattia agli occhi lo rese praticamente cieco. In parallelo ci sono poi le prove da cantante (con un successo speciale per "Malafemmena"), le apparizioni televisive (memorabile "Studio Uno" con Mina), le poesie (la raccolta di "A' livella"), i fumetti, le pubblicità, le apparizioni a sorpresa. Ma il cuore di un successo che ancora oggi lo fa primeggiare su ogni altro protagonista della scena italiana (a grande distanza da Alberto Sordi e Massimo Troisi) viene da una genialità interpretativa che sempre lo fece autore di se stesso, in una dimensione sospesa tra osservazione del reale e astrazione surrealista, satira e farsa, intuizione verbale (celeberrimi i modi dire che sono entrati nel lessico comune) e costruzione fisica (la maschera-automa, il guitto e il poeta, il pulcinella e il nobile).

Benché abbia avuto al cinema pigmalioni come Cesare Zavattini e De Sica, poi grandi sodali come Carlo Ludovico Bragaglia, Steno e Monicelli o perfetti complici del suo genio (da Corbucci a Mattoli a Mastrocinque), solo a fine carriera ebbe l'onore dei maggiori autori italiani: lo voleva Fellini per mai realizzato "Viaggio di G. Mastorna", lo scelse Pasolini (da "Uccellacci e uccellini" a "Che cosa sono le nuvole"), lo chiamarono Risi, Bolognini, Lattuada. Eppure nell'immaginario popolare vive soprattutto per i film interamente modellati su di lui, da "Miseria e nobiltà" a " Totò le mokò", da "I pompieri di Viggiù" a "47 morto che parla" fino ai vari episodi di " Totò e Peppino" in coppia con l'amico De Filippo. Fece scalpore anche nella vita privata, segnata da grandi passioni e dolori: dal suicidio della prima moglie, la sciantosa Liliana Castagnola, fino alla tormentata e appassionata storia con Franca Faldini. Si fece adottare, nel 1933, dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, in rincorsa a quel prestigio aristocratico che gli sembrava riscattare le sue origini; si sentiva davvero erede del sacro romano impero e della corona di Costantinopoli, anche se le battaglie legali gli fruttarono spesso denunce e delusioni. Come in una pièce di Pirandello ebbe l'onore di 3 funerali: il primo a Roma, vegliato per due giorni dai più grandi di cinema e teatro; il secondo a Napoli in un bagno di folla con 250.000 anime straziate dietro al feretro; il terzo nel cuore di Spaccanapoli dove un guappo locale organizzò la cerimonia intorno a una bara vuota. Ma a quel punto la sua arte volava ormai da giorni nel firmamento dei geni.

Totò, 50 anni senza il Principe della risata: 5 film da vedere su YouTube. Antonio De Curtis moriva il 15 aprile del 1967, scrive il 14 aprile 2017 su Panorama. "Sono un osso duro, io! Sono tutt'ossa!", diceva Totò alias Felice Sciosciammocca nel film Un turco napoletano. Antonio De Curtis, in arte Totò, era infatti tutto nervi e ossa, viso scavato e un'espressività prepotente e trascinante. Un osso duro della risata. Morto il 15 aprile 1967 a 69 anni, attore, cantante, poeta e tanto altro, Totò è stato il "Principe della Risata" ma anche drammaturgo dal fulgente animo tragico. Coi suoi lazzi, i doppi sensi e la mimica incalzante conquistava. Ma sapeva anche far increspare il cuore. Nel cinquantesimo anniversario della sua morte, Napoli festeggia la sua icona con la mostra Totò Genio, un grande mosaico che rappresenta l'arte di De Curtis in tre luoghi diversi (fino al 9 luglio): il Museo Civico di Castel Nuovo (Maschio Angioino), Palazzo Reale e il Convento di San Domenico Maggiore.

Per rivederlo nella sua verve irresistibile, ecco cinque film da vedere completi su YouTube. 

1) Totò, Peppino e la... malafemmina (1956) di Camillo Mastrocinque. Totò in grande forma in questa commedia, accanto a Peppino De Filippo. Indimenticabile la scena cult della lettera dettata da Totò e scritta da Peppino, ripresa da Roberto Benigni e Massimo Troisi in Non ci resta che piangere.

2) Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Anche film d'autore per Totò, che accettò il ruolo pur con qualche riserva sul suo personaggio proprio per ascrivere il suo nome ai film di qualità. Un grande intellettuale come Pasolini "sdogana" il Principe della Risata facendogli conseguire una menzione speciale al Festival di Cannes. Per l'attore è il suo ultimo film da protagonista. 

3) I due marescialli (1961) di Sergio Corbucci. Commedia all'italiana che unisce Totò e Vittoria De Sica nell'Italia in guerra del 1943. Il primo è un ladruncolo, vestito da prete, l'altro un maresciallo, che si scambiano vestiti e ruoli.

4) Miseria e nobiltà (1954) Mario Mattoli. La celebre scena di Totò che mangia gli spaghetti con le mani appartiene a questa commedia. Il comico napoletano ancora una volta Felice Sciosciammocca, il personaggio immaginario del teatro partenopeo creato da Eduardo Scarpetta. Nel cast anche Sophia Loren e Valeria Moriconi.

5) Totò contro Maciste (1962) di Fernando Cerchio. Parodia dei film peplum, fa parte di una serie di rivisitazioni mitologiche in chiave comica di cui Totò fu protagonista. 

Qualunquista, anarchico, gotico: a ognuno il suo Totò. All'epoca i critici non amavano i suoi film. Apprezzati invece da certi scrittori, da Zavattini a Soldati. La rivalutazione ripartì in pieno post-68, con un volume di Goffredo Fofi. Che rende merito al più grande comico italiano di cui il cinema abbia lasciato testimonianza, scrive Emiliano Morreale il 14 aprile 2017 su "L'Espresso". Totò fa ormai parte dell’arredamento domestico degli italiani: le sue foto nei ristoranti del centro Sud, la sua immagine nei canali televisivi a riempire le fasce orarie più bisognose. Eppure a rivedere e ristudiare i suoi film possono arrivare sorprese: basti pensare ai volumi che gli ha dedicato, alcuni anni fa, Alberto Anile, ritrovando un Totò inedito, alle prese con la cultura del suo tempo, con la politica, con la censura. I critici, si è detto, all’epoca non amavano i suoi film. Che erano spesso modesti, ma non sempre: non solo quelli di Steno e Monicelli, che lo declinavano in versione più “neorealista” (“Guardie e ladri”, “Totò cerca casa”), ma anche certi che più direttamente assecondavano il suo genuino versante farsesco: Mattoli, Corbucci, Mastrocinque. In compenso, Totò era amato da certi scrittori: quelli di derivazione futurista o surreale, che in lui vedevano la marionetta umana (il giovane Zavattini, Campanile, Palazzeschi), ma anche acuti osservatori come Soldati o Flaiano. I fortunati, all’epoca, dicevano che il vero Totò era quello teatrale, che dal vivo potevano apprezzarsi al meglio le sue qualità. Probabilmente è vero; forse per questo uno dei suoi film più memorabili è “Totò a colori” (1952), centone di suoi numeri di varietà, lievitati e portati a perfezione da anni di improvvisazioni. E non a caso hanno avuto fortuna negli anni varie antologie dei “numeri” più famosi, che sono in fondo una forma legittima di mostrare i suoi film. Cerimonia al cimitero di Poggioreale dove il sindaco ha deposto una corona di fiori sulla tomba di Totò. Presente anche Elena de Curtis, nipote dell'artista, che ha detto: "E' qui con noi, si starà facendo una marea di risate". "Sono davvero entusiasta per la qualità delle iniziative, la partecipazione, la grande emotività" ha aggiunto de Magistris accompagnato dall'assessore alla Cultura del Comune di Napoli, Nino Daniele, dal presidente della II Municipalità, Ivo Poggiani, dal Comandante della Polizia Municipale, Ciro Esposito, dal Questore di Napoli, Antonio De Iesu."Sono passati 50 anni ma Totò è qui, nella città, tra i napoletani", conclude de Magistris.

La sua rivalutazione ripartì in pieno post-’68, con un volume di Goffredo Fofi. Ma alla fine della carriera c’era stato, come è noto, l’incontro con Pasolini. Il quale, forse più ancora che in “Uccellacci e uccellini”, fece risplendere il suo genio negli episodi a colori, “La terra vista dalla luna” e “Che cosa sono le nuvole” (in cui, Iago tinto di verde, recita una delle morti più strazianti viste al cinema, depositato in una discarica da Domenico Modugno). Rimane infine il rimpianto di non averlo potuto vedere nei panni di San Giuseppe da Copertino, il “santo cretino” che volava, in “C’era una volta” di Francesco Rosi (il produttore Ponti bocciò l’idea). Ognuno, ovviamente, ha il suo Totò preferito. Personalmente, mi piace ricordare il versante nero, gotico, di “Totò Diabolicus” o “Che fine ha fatto Totò Baby?”. Del resto, Mario Monicelli sosteneva che Totò gli faceva un po’ paura: la sua faccia era un teschio, come la maschera di Pulcinella; anche la critica americana Pauline Kael scriveva dei «suoi occhi stanchi, che hanno visto tutto». Un aspetto colto magnificamente da Alberto Lattuada, che nella “Mandragola” (1965) lo fa monologare nelle catacombe. "Ma mi faccia il piacere", "Cà nisciuno è fesso". I napoletani parlano con le battute di Totò, usate quasi senza accorgersene nel quotidiano per descrivere una situazione o una persona.

Qualunquista e anarcoide, aristocratico e plebeo distruttore delle convenzioni, Totò è senza dubbio il più grande comico italiano di cui il cinema abbia lasciato testimonianza, ed è l’ultimo “comico primario” di un’Italia povera, mosso dal bisogno di cibo e di sesso. È forse difficile, per chi è nato dopo la sua morte, cinquant’anni fa, inserirlo nel mondo da cui proveniva, forse perfino capirlo. Mi viene quasi il timore, per un attimo, che un giovane oggi possa apprezzare Totò, ma non ridere davvero con lui.

Totò, 50 anni dopo i critici continuano a stroncarlo: “Il suo è stato brutto cinema con brutti film”. "All’interno di questi film che sono oggettivamente brutti, esclusi pochi costruiti con più abilità, ci sono pero dei momenti, parlo di cinque minuti, dove Totò dimostra la sua genialità”, spiega al FQMagazine Paolo Mereghetti. "Lui ha sofferto tantissimo il fatto che non gli offrissero film di alta qualità, ma quando li ha fatti è stato molto bravo perché ad esempio con Pasolini, che lo ha persino fatto diventare buono", afferma Roberto Escobar, critico del Sole 24Ore, scrive Davide Turrini il 13 aprile 2017 su “Il Fatto Quotidiano. “Totò genio artistico senza pari, ma i film che interpretava erano (e rimangono) brutti”. Il rapporto non riconciliato tra la critica cinematografica e i quasi cento film del “principe della risata” – di cui il 15 aprile 2017 ricorrono i 50 anni dalla morte – continua. E senza troppe novità. Nell’infinita giaculatoria di mea culpa, dove tutti hanno rivalutato il comico, la maschera, l’uomo De Curtis, ecco che per titoli come Totò sexy, Totò e i re di Roma, 47 morto che parla, Totò Vittorio e la dottoressa, alcune opere a caso su almeno tre quarti dei titoli da lui interpretati, stellette, pallini, voti in pagella, schede di rivalutazione non sono mai riapparse, anzi. “Alcuni film di Totò sono francamente brutti, fatti in fretta, talvolta ne girava sei all’anno come un matto. E all’interno di questi film che sono oggettivamente brutti, esclusi pochi costruiti con più abilità, ci sono pero dei momenti, parlo di cinque minuti, dove Totò dimostra la sua genialità”, spiega al FQMagazine Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della sera ma soprattutto autore del Dizionario dei film (Baldini&Castoldi) dove appena una ventina di titoli su novantasette interpretati dal comico napoletano raggiungono la sufficienza (Totò, Peppino e la malafemmina e Totò a colori sono gli unici con 4 stellette ndr). “E’ lo stesso discorso che si può fare per Gary Cooper e Humphrey Bogart: non tutti i film con Bogie sono capolavori, ma lui era un grande attore anche nei film brutti. Non c’è nulla di che stupirsi, sul dizionario si cerca di giudicare un film nella sua complessità e i risultati sono questi. Ultimamente c’è stata una specie di vulgata critica che per una battuta comica di livello si è messa a salvare l’intero film. Parlo in generale di commedie italiane squinternate. Chiaro, si può ridere a una battuta di Franchi e Ingrassia anche se i loro film venivano fatti oggettivamente coi piedi. Identico discorso che si può applicare ai lavori interpretati da Totò”. “Insisto: come cinema in senso stretto quello fatto da Totò è stato un brutto cinema”, spiega Roberto Escobar, critico del Sole 24Ore e autore di una ricca monografia su Antonio De Curtis (Totò – Il Mulino). “E dirò di più. È un paradosso, ma i più bei film interpretati da Totò in realtà tradiscono Totò. Lui ha sofferto tantissimo il fatto che non gli offrissero film di alta qualità, ma quando li ha fatti è stato molto bravo perché ad esempio con Pasolini, che lo ha persino fatto diventare buono, non era più e solo una maschera, ma un grande attore”. “E comunque lo scrivo da sempre: per fortuna i film che ha interpretato sono brutti, perché Totò è più dei suoi film” – continua Escobar, “Come diceva Goffredo Fofi: il film ideale di Totò è un’antologia, non un superfilm con montate le parti migliori delle sue decine di film, ma la persistenza nella memoria di un continuum di immagini e emozioni. Quando i miei colleghi critici di un tempo, come Guido Aristarco, lo stroncavano, potevano sì stroncare i film ma non si rendevano conto di avere di fronte agli occhi un diamante”. “Pensare che le intenzioni fossero quelle di girare dei grandi film, equivarrebbe a dare ai produttori dell’epoca intenzioni che non hanno avuto. Totò, il più grande comico italiano veniva utilizzato soltanto per fare soldi al botteghino e veniva usato bene solo in rari casi, cito L’oro di Napoli o Uccellacci e uccellini”, afferma Alberto Anile, autore del libro fresco di stampa Totalmente Totò. Vita e opere di un comico assoluto (edizioni Cineteca di Bologna). “Totò non ha potuto essere come Chaplin, autore totale dei suoi film dalla recitazione alla musica, è stato autore e regista dei suoi spettacoli. Copioni, personaggi sketch interi, non solo battute, che poi portò nei film interpretati. Infine, come racconto nel libro grazie alle dichiarazioni di Vincenzo Talarico e Franca Faldini, negli anni sessanta, quando Totò era già stanco e disilluso del mondo del cinema, sbucò un testo per un film muto da lui scritto che Ponti e De Laurentiis bocciarono. Avrebbe potuto portare al cinema storie scritte e ideate da lui, ma non avvenne per via dell’insipienza dei produttori”.

Totò, un mito con Napoli sempre nel cuore, scrive Franco Insardà i 16 Aprile 2017 su "Il Dubbio". L’antropologo Marino Niola ci spiega il legame speciale tra Totò e Napoli: «Il mito è un alimento dell’immaginario in cui ci si riconosce subito». Napoli e Totò, un rapporto ancestrale, passionale, sincero che ha legato il Principe De Curtis alla città in modo indissolubile quando era in vita, fino a fargli dire «sto morendo, portatemi a Napoli» e oggi, a cinquant’anni dalla morte ne ha fatto un mito partenopeo come San Gennaro e Pulcinella. Il suo essere fisico e metafisico, in perenne bilico tra l’allegria e la tristezza ne hanno fatto un’icona nella quale si riconoscono tutti: il sottoproletario, l’aristocratico, il borghese. Marino Niola, professore di Antropologia dei simboli all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, collaboratore di Repubblica (ha una rubrica settimanale sul Venerdì), del Nouvel Observateur e di altre testate straniere, da studioso e da napoletano ha analizzato a fondo il rapporto tra Totò e i napoletani.

Professor Niola, ci spiega questo legame così profondo?

«Totò è stata una grande maschera di Napoli. Una maschera interclassista nella quale ognuno poteva e può riconoscersi. Ciascuno ci trova una parte di se, e spesso è quella parte che non quadra troppo. Il suo personaggio era sghembo come il suo corpo. La sua faccia era un “qui pro quo”, esattamente come il suo “qui pro quo” linguistico. Questo spiega la facile riconoscibilità per cui ciascuno trova qualcosa che lo riconduce al proprio intimo e in cui si identifica. Anche questo è tipico di Napoli, perché è una città di “qui pro quo”, di segni a forte definizione in cui ci si riconosce subito, ma che è difficile conoscere».

Quanto ha dato Napoli a Totò e quanto Totò a Napoli?

«La città gli ha dato sicuramente l’humus culturale, umano, affettivo, sentimentale da cui poi nasce la sua comicità. E lui ha restituito alla città sempre, in un modo o nell’altro, nei suoi film, nelle sue poesie, nelle canzoni questo affetto per Napoli. C’era un feedback continuo. Nel suo rapporto con Napoli non c’era quella rabbia di Eduardo che lo rendeva antipatico a molti napoletani. Parliamo di due icone, ma tra loro c’è questa enorme differenza: Eduardo era più una icona borghese, mentre Totò era interclassista. Totò non voleva insegnare niente a nessuno, Eduardo dava continue lezioni».

La folla immensa di piazza del Carmine per l’ultimo saluto a Totò in questi cinquant’anni è aumentata ed è un amore che si alimenta quotidianamente.

«Perché di Totò, come per tutte le grandi icone dello spettacolo moderno, è rimasto il suo corpo immateriale. I suoi film passano continuamente in tantissime tv in tutt’Italia. Questo fa sì che anche le persone giovani, le quali quando Totò è morto non erano neanche in mente dei, ricordino le sue battute. Senza contare il merito incredibile di essere riuscito a rendere famoso nel mondo un posto, che altrimenti sarebbe rimasto sconosciuto ai più, come Cuneo».

L’arte di arrangiarsi, spesso geniale, è una delle caratteristiche dei personaggi di Totò che ritroviamo da sempre a Napoli.

«Anche in questo c’è un rispecchiamento: Totò nasce povero e si arrangia continuamente nella vita e nei suoi film torna questo personaggio che non ha mai dimenticato la fame. Tante è vero che l’elemento dell’indigenza è presente in molte scene, nelle quali sogna in modo semplice, da persona del popolo, un alimento per nulla sofisticato: lo sfilatino. L’aspetto, quindi, dell’arrangiarsi, del sotterfugio, del piccolo imbroglio è presente, ma i suoi personaggi non sono mai delle carogne. Utilizza degli espedienti perché gli servono per sopravvivere, per pagare la scuola alla figlia ad esempio. Si tratta di motivi nobili che ne fanno un povero cristo, mai il delinquente. Ha rappresentato in pieno il tipo umano che usciva dalla guerra: povero, pieno di voglia di vita, irriverente e disincantato quanto basta, che dava alle cose il giusto valore. E infatti da questo atteggiamento ne deriva una continua lezione di saggezza».

Totò e il cibo è un altro dei connubi della sua maschera. La scena degli spaghetti di Miseria e nobiltà è diventata un’icona di moltissime trattorie in ogni parte del mondo. Come lo spiega?

«È la fame atavica del popolo. Totò diventa il paradigma, il simbolo del rapporto tra il popolo e la fame. E il cibo è proprio questo e lui è una grande maschera, proprio come Pulcinella che tradizionalmente non fa altro che sognare montagne di maccheroni. Consideriamo anche che molti dei film sono stati girati tra la fine della guerra e il ’ 57-’ 58, anni decisivi in cui l’Italia comincia a voltare pagina, si lascia alle spalle la fame ed entra nel miracolo economico, ma il ricordo della fame è ben presente».

Pulcinella, Totò, Troisi, Maradona, Pino Daniele: perché Napoli ha bisogno di avere delle figure di riferimento, direi quasi dei miti?

«Intanto direi che tutti avrebbero bisogno di queste figure, ma non lo sanno, Napoli è una città che non ha dimenticato come il mito sia un alimento dell’immaginario che aiuta a ricostruire continuamente l’identità. Basti pensare che i napoletani si chiamano ancora con il nome della fondatrice mitica: la sirena Partenope. Il che vuol dire che il mito è nel cuore e negli occhi e queste figure rappresentano la collettività. Dopo la sirena Partenope è arrivato San Gennaro, poi Masaniello, fino a Maradona che incarnava l’uno e l’altro: un po’ Masaniello e un po’ San Gennaro, un difensore della città e un simbolo della Napoli che vince e che può fare miracoli. Non a caso nel film “Così parlò Bellavista” di Luciano De Crescenzo il poeta paragona una finta di Maradona allo scioglimento del sangue di San Gennaro».

L’arte di Totò è paragonabile a quella di Chaplin, Groucho Marx o è assoluta e inimitabile?

«Ciascuno di loro ha una cifra inimitabile, però ce li ricordiamo tutti. Sul piano dell’arte Totò è grande quanto gli altri e se avesse avuto alle spalle lo star system americano si parlerebbe di lui allo stesso livello di Chaplin, di Buster Keaton e degli altri grandi comici Usa. Il fatto che sia partito da una cinematografia come quella italiana, soprattutto da una cinematografia minore, e sia arrivato a essere il simbolo vuol dire che parliamo di un campione assoluto».

Come mai il suo linguaggio, i suoi modi di dire sono entrati nel parlare comune e spesso risolvono con una battuta imbarazzi, sentimenti e stati d’animo?

«Totò non chiedeva troppo per essere capito, la sua battuta faceva capire che lui ti aveva capito, c’era una perfetta sintonia. Ci si può calare in quella battuta come in un vestito che veste alla perfezione e diventa della persona, interpretandone il sentimento. Non a caso alcune battute come “siamo uomini o caporali”, “ma mi faccia il piacere”, “ogni limite ha una pazienza” sono diventati modi di dire comuni della lingua italiana».

Il titolo del suo ultimo libro Il presente in poche parole rimanda a un modo di dire alla Totò… “Ho detto tutto”, ripetuto ossessivamente con Peppino De Filippo in Totò, Peppino e la malafemmina…Lei, nei suoi libri, analizza la credulità popolari, le manie, le perversioni legate al cibo e alla cucina: sarebbe stata un’occasione ghiottissima per la comicità di Totò?

«Assolutamente sì. Sulle diete, ad esempio, cominciava già a giocarci. Faceva spesso battute sulla linea, sul dimagrimento. Anche se lui esalta sempre la donna in carne, la maggiorata, la donna che a Napoli si chiama “ciaciona”, come nel film “Signori si nasce” quando bacia il seno di una procace e giovane Angela Luce, o quando chiede a Sophia Loren in “Miseria e nobiltà” di essere accolto nel suo seno. In lui persino le donne sono quasi da mangiare. Anche in questo è come Pulcinella: il cibo e il sesso sono due facce dello stesso desiderio».

Totò e le donne: un altro rapporto molto stretto.

«Strettissimo. La sua vita è punteggiata da donne decisive. E Napoli è assolutamente donna».

I personaggi di Totò sono spesso irriverenti, non politically correct, forse è per questo che arrivano alla gente. Affronta anche temi scomodi: le case chiuse, il regime nazifascista, la morte e interpreta ancora una volta il sentimento popolare e risolve con uno sberleffo o una battuta che rimarrà per sempre nella mente. È questa la sua forza?

«Arrivano alla gente perché Totò in alcune cose non è stato costretto a censurarsi, mentre gli argomenti scomodi li ha affrontati con garbo. Quando non poteva affrontarli esplicitamente li risolveva, come in “Totò e i re di Roma”, con un “poi dice che uno si butta a sinistra…”. Si è salvato dall’onda del politicamente corretto e da questa forma di stupidità profonda che si annida nel politicamente corretto, risolvendo con uno sberleffo situazione pesanti e complicate. Dimostrando che non c’è bisogno di esasperare certe situazioni, ma che in certi momenti una battuta dà a tutti una via di uscita».

In occasione dei cinquant’anni della sua morte il mondo del cinema lo sta ricordando adeguatamente?

«Gli sta in parte restituendo, in ritardo, quello che gli ha tolto quando era vivo. Non dimentichiamo che molti dei lodatori attuali di Totò, come campione della comicità popolare, sono gli stessi che in quegli anni dicevano delle baggianate spaventose suoi sui film, figlie di una critica occhiuta e ideologica».

C’è qualche erede di Totò?

«No. No. No. Una sarebbe potuto essere Massimo Troisi che fondeva in se qualche aspetto di Totò e qualche altro di Eduardo. Più di Totò che di Eduardo, ma era un Totò generazionale che ne aveva quindi una parte. Oggi non vedo eredi».

“A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?” Napoli celebra Totò al Rione Sanità, scrive Imma Pepino il 29/04/2017 su “I Siciliani”. “Mi scusi, mi sa dire dov’è che hanno messo la statua di Totò?”. “Signurì è facile, deve andare diritto. Non il primo cortile, il secondo”. Il secondo cortile è l’interno di un palazzo antico: il palazzo dello Spagnuolo, come recita la targa in legno sul corrimano della scala. La statua di Totò – realizzata da Giuseppe Desiato, in collaborazione con la Fondazione San Gennaro – non si trova qui però. L’indicazione che però mi è stata fornita dal pescivendolo all’ingresso del Borgo Vergini non è del tutto sbagliata, o meglio ha una sua logica: proprio a palazzo dello Spagnuolo dovrebbe essere realizzato il museo dedicato alla memoria di Antonio De Curtis – come deliberato nel 1996 dalla Giunta regionale. Il progetto, voluto anche dai cittadini del quartiere che diede i natali all’artista, è però fermo da vent’anni – come denunciato il 15 Aprile scorso, all’inaugurazione delle celebrazioni, dai rappresentanti della Terza municipalità (di cui il Rione Sanità fa parte) e in particolare da Francesco Ruotolo, consulente alla memoria della Municipalità stessa, che ha affisso in alcuni luoghi simbolo del rione dei manifesti di denuncia rivolti a sindaco e presidente della regione affinché “Totò non muoia una seconda volta”. Un signore di mezz’età, anche lui deluso visitatore del museo fantasma, si sofferma a descrivermi il degrado in cui versa anche la casa in cui nacque l’artista. Mi dirigo verso Piazza San Vincenzo, il cuore del quartiere. Dopo aver percorso qualche metro giungo in Largo Vita: qui campeggia il monolite raffigurante la sagoma di De Curtis. La statua è molto bella, moderna nelle forme. Si trova poco distante dal viale di ingresso dell’ospedale San Gennaro, chiuso dalla giunta regionale De Luca. Il presidente, contestato proprio in occasione dell’inaugurazione della statua, aveva avvalorato la sua decisione pronunciando un solenne e istituzionale: “Signo’ ma l’avete fatta la pastiera?”. Potrei percorrere Calata delle fontanelle e ritornare a Materdei, ma decido di dare un’occhiata anche alla casa di Totò. La strada per arrivare è lastricata di opere dedicate all’artista, come il busto posto all’angolo di Salita Capodimonte. Il vecchio appartamento, in Via Santa Maria Antesaecula, è stato acquistato da un privato e si trova in condizioni di totale abbandono. “La proprietaria ha levato pure gli infissi alle finestre, però se entrate ci sta ancora la finestra del suo bagno che si vede dal cortile” mi dice, invitandomi a entrare, un vicino dell’appartamento accanto a quello di Totò. Un pezzo di memoria storica privatizzato e sottratto alla collettività. Tra il museo fantasma di palazzo dello Spagnuolo e la casa saccheggiata. Un patrimonio che potrebbe portare al riscatto di questo quartiere, e che invece rimane incastrato da anni tra il disinteresse delle istituzioni e il marchio impresso dalla camorra. Il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Totò sarebbe una buona occasione per spostare l’attenzione dal centro città “vetrina” a un quartiere popolare in cui l’impegno delle istituzioni arriva solo quando c’è da fare una passerella o raccattare un applauso, un voto. Il Rione Sanità non può ripartire solo dall’illustre concittadino ma da tutti i cittadini, da tutte le pance, da tutte le coscienze. Perché è “la somma che fa il totale!”. 

25 APRILE. DATA DI UNA SCONFITTA.

ANPI: da “liberatori” a “talebani”, scrive Luciano Fasano il 19 agosto 2016 su “Il Giornale”. L’ANPI, Associazione Nazionale Partigiani di Italia, è ormai da diversi anni vittima di una brutta involuzione fondamentalista e – diciamolo pure – antidemocratica. Ultima dimostrazione ne sia la recente sostituzione ai vertici del Coordinamento regionale dell’Emilia Romagna di Ivano Artioli, Presidente della sezione di Ravenna, con Anna Cocchi, Presidente della sezione di Bologna. Motivazione ufficiale: la prescrizione statutaria che impone il coordinamento regionale venga affidato al Presidente della sezione del capoluogo di regione. Motivazione ufficiosa (anche se spesso a essere maliziosi ci si azzecca): il fatto che Artioli sia un sostenitore del sì alla riforma costituzionale del governo Renzi, mentre Cocchi – allineata con la linea politica dell’associazione – sia contraria a tale riforma. Ma al di là delle polemiche, un aspetto di questa vicenda sembra chiaramente assodato: che all’interno dell’ANPI – per usare le parole dello stesso Artioli – “il confronto sul Referendum è stato duro e aspro”. Certo, l’ANPI di oggi ha ben poco che vedere con una associazione di partigiani – comunisti, socialisti, cattolici, liberali, azionisti – che si sono battuti per la liberazione dalla dittatura fascista. Assai lontani sono i tempi in cui al suo interno si discuteva sull’amnistia dell’allora Ministro di Grazia e giustizia Palmiro Togliatti che beneficiava i sostenitori del fascismo, al fine di voltare pagina e inaugurare una nuova storia per la nascente democrazia italiana. Una discussione in cui prevalse la linea dei partigiani che sostenevano di aver combattuto per la libertà di tutti, fascisti compresi. Oggi quel clima è definitivamente smarrito, mentre l’ANPI è sempre meno associazione di partigiani e sempre più lobby dell’antifascismo militante radicale, nelle mani di giovani di estrema sinistra che di antifascismo sanno ben poco e anziani compiacenti che assecondano quei giovani, in un gioco in cui la vuota retorica ha la meglio su un’analisi politica concretamente fondata sui valori della convivenza democratica. Una cieca retorica dell’antifascismo militante, che spesso porta l’associazione a esprimere posizioni barricadiere più prossime all’antagonismo dei centri sociali che alla difesa delle regole dello stato di diritto. La vuota litania della “costituzione più bella del mondo” (che poi verrebbe da chiedersi: forse che le altre costituzioni democratiche facciano schifo? Ma chi l’ha detto? E perché? Sulla base di quali criteri?), dietro alla quale si cela una visione del compromesso democratico a senso unico e del tutto fuori dai tempi. Sono questi gli ingredienti ideologici fondamentali di un’associazione partigiani che sembra sempre più un’organizzazione settaria, anchilosata in difesa di una concezione conservatrice e a senso unico della democrazia, rispetto alla quale chiunque la pensi in maniera diversa è da mettere all’indice e stigmatizzare come nemico della libertà. E che si alimenta costantemente dell’eccezionalissimo morale tipico delle chiese più settarie, in virtù del quale ogni sua scelta sarebbe sempre e comunque giustificabile. Fino a generare paradossi come il fatto schierarsi nella battaglia referendaria sulla riforma costituzionale con Casa Pound e organizzazioni di estrema destra alle quali, in altri contesti, non si è ovviamente disposti a riconoscere il diritto all’esistenza. L’ANPI come associazione di partigiani rappresentativa di quella comunità di donne e uomini che si sono battuti per la liberazione dal nazi-fascismo non esiste più. L’ANPI di coloro che si erano battuti per le libertà di tutti, fascisti compresi, è morta e defunta. Oggi al suo posto vi è una cricca talebana che si erge a difesa di una concezione paradossalmente anti-democratica della convivenza civile. Il rigore staliniano (purghe comprese) con cui persegue la linea politica contro la riforma costituzionale ne è soltanto l’ultimo conclamato esempio.

Il Parlamento appartiene ai nostri partigiani, è grazie a loro se ce l'abbiamo libero". Sono le parole pronunciate dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, a Passolanciano, sulla Majella, in Abruzzo, il 3 agosto 2016 durante la cerimonia di commemorazione dei 60 anni della tragedia di Marcinelle, in Belgio, che l'8 agosto del 1956, costò la vita a 136 minatori, di cui 60 abruzzesi. La Boldrini ha ricordato "l'epopea della Brigata Maiella, a cui va il mio riconoscimento. Si unì insieme agli altri partigiani e liberò il centro Italia dal nazifascismo. Da qui, dalle montagne abruzzesi, partirono in tanti per andare a combattere su altre montagne. Tanti sono stati i caduti", ha detto, ricordando la cerimonia organizzata in Parlamento, quando i partigiani sono stati invitati "a sedersi sugli scranni, non come ospiti". 

Il 25 aprile chi va in piazza a cantare Bella ciao è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell’Italia. Un’immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era solo il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell’Urss. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e come si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Per concessione di autore ed editore anticipiamo dal libro Bella ciao il capitolo 6 del libro, Terrorismo e ostaggi.

I primi a sparare e a uccidere furono i comunisti di Reggio Emilia. Diedero voce alle rivoltelle quando Longo e Secchia non avevano ancora messo in campo la struttura incaricata di scatenare il terrorismo nelle città e nei piccoli centri. Quindici giorni dopo l’armistizio, la sera di giovedì 23 settembre 1943, poco dopo le nove, un ciclista solitario si recò nel paese di San Martino in Rio, sul confine tra le province di Reggio e di Modena. Aveva l’aspetto del contadino o del bracciante che ritorna a casa dopo una giornata di lavoro sui campi. (...)

Giampaolo Pansa racconta il lato oscuro della Resistenza, tra terrorismo e uccisioni per le strade. Pansa parla dell'obiettivo dei Gap: alimentare la lotta armata, nonostante le rappresaglie. Lo facevano ammazzando padri davanti ai figli e sparando a vista. Poi il giornalista ci racconta il caso di Buranello, il gappista torturato.

Giampaolo Pansa affronta in questo libro tutti i falsi storici che hanno contribuito a dipingere la Resistenza come un mondo dove tutti erano buoni e uniti. La storia della Resistenza è molto diversa da quella celebrata dagli studiosi faziosi. Esiste un retroterra di contrasti, intrighi, faide politiche e personali, conflitti interni e feroci delitti. Per i comunisti guidati da Togliatti nell’Italia del sud e da Longo e Secchia al nord, la Resistenza è soltanto il prologo di una seconda guerra decisiva: quella per la conquista del potere in Italia.

La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati. Pagina dopo pagina, prendono vita i protagonisti di un dramma gonfio di veleno ideologico. A cominciare dagli “spagnoli”, i reduci delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna, presenti in tutte le bande garibaldine, inchiodati a un comunismo primitivo e brutale. Pansa ce li presenta anche nei loro errori di rivoluzionari senza onore, pronti a uccidere chi li contrastava. E nel metterli a confronto con i partigiani che si battevano per un’Italia libera da qualsiasi dittatura rievoca una pagina di storia che la sinistra ha finto di non vedere. Bella ciao verrà ritenuto un libro scandaloso dai gendarmi della memoria resistenziale. E questa sarà la conferma che Pansa ha fatto un importante passo in più nel suo percorso di narratore revisionista - Il 25 aprile chi va in piazza a cantare “Bella ciao” è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell’Italia. È un’immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell’Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. Bella ciao ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall’agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l’omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l’incendio della guerra civile.

Così il Pci scatenò il terrore per impadronirsi del Paese.

In "Bella ciao" Giampaolo Pansa racconta la strategia delle Brigate Garibaldi per sterminare i fascisti. E non solo, scrive Giampaolo Pansa  su “Il Giornale”.  Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto da Bella Ciao. Controstoria della Resistenza (Rizzoli, pagg. 430, euro 19,90; in libreria dal 12 febbraio) di Giampaolo Pansa. Nel saggio Pansa ricostruisce con dovizia di particolari il ruolo del PCI all'interno della guerra civile che ha insanguinato l'Italia dall'8 settembre del '43 sino al 25 aprile del '45 (anche se in molti casi le violenze si sono trascinate ben oltre). Il giornalista documenta come i comunisti si battessero per obiettivi ben diversi da quelli di chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura filosovietica. Pansa racconta come i capi delle brigate Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario. Ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sino dall'agosto 1943. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile.

A distanza di tanti decenni colpisce sempre la strategia messa in atto dai militanti del Pci. In molti luoghi dell'Italia del Nord e del Centro, senza strutture apposite, comandi riconosciuti, progetti elaborati, basi predisposte. All'inizio tutto avvenne per iniziativa di singoli militanti, a volte sconosciuti anche ai dirigenti comunisti periferici. Fu così che si mise in moto un'offensiva fondata su uno schema semplice e terribile. Lo schema può essere riassunto nel modo seguente. Un attentato, una rappresaglia nemica. Un nuovo attentato, una nuova rappresaglia più dura. Un terzo attentato, una terza rappresaglia ancora più aspra. E così via, con una catena senza fine che aveva un solo risultato: allargare l'incendio della guerra civile e spingere alla lotta pure chi ne voleva restare lontano. Scriverà Giorgio Bocca: «Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Cerca la punizione per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio». Ecco qual era la strategia dei Gruppi di azione patriottica, i Gap. Fondati verso la fine del 1943 per iniziativa del Comando generale della Brigate Garibaldi, ossia di Longo e di Secchia. Uno degli spagnoli, Francesco Scotti, poi raccontò: «Qualche compagno sosteneva che non era giusto scatenare il terrore individuale, perché questo era contrario ai principi marxisti leninisti. Anche in Francia avevo ascoltato critiche di questo genere». Aderire alla strategia dei Gap, anche soltanto sul terreno del consenso politico, era difficile per molti iscritti al Pci clandestino. Gente semplice e coraggiosa che rischiava l'arresto perché aveva in tasca una tessera o partecipava a una raccolta di denaro per i primi nuclei ribelli. Ma trovare dei compagni disposti a sparare alla schiena di un avversario, e a sangue freddo, risultava un'impresa davvero ardua. [...] Il vertice delle Garibaldi non perdeva tempo a strologare su queste esitazioni. Voleva vedere subito dei morti nelle strade. Secchia incitava ad agire «contro le cose e le persone» dei fascisti. Le azioni non venivano quasi mai rivendicate. E questo accentuava la paura seminata dalle molte uccisioni. Pochi si rendevano conto che i Gap erano piccoli nuclei armati, composti soltanto da militanti comunisti, clandestini nella clandestinità, capaci di vivere nell'isolamento più totale. Una solitudine in grado di mettere a dura prova la resistenza nervosa anche del più freddo terrorista. In realtà i gappisti veri e propri, quelli professionali e in servizio permanente, erano una frazione davvero minuscola rispetto ai tanti comunisti che iniziarono a sparare quasi subito contro i fascisti. Gli omicidi di dirigenti del nuovo Partito fascista repubblicano, di solito segretari federali, vennero preparati e compiuti da terroristi dei Gap. Ma gli altri delitti, ben più numerosi, furono il risultato di iniziative decise da singoli militanti, decine e decine di volontari, senza nessun rapporto con il vertice delle Garibaldi. Erano pronti a sparare e a uccidere, sulla base di una tacita parola d'ordine diffusa da nessuno. Ecco qualche esempio di queste azioni, di solito destinate a non entrare nella storia della guerra civile. Il 5 novembre 1943, a Imola, venne ucciso il seniore della Milizia Fernando Barani. Il 6 novembre, a Medicina, sempre in provincia di Bologna, furono accoppati quattro fascisti. Il 7 novembre, a San Godenzo (Firenze) altri quattro fascisti caddero sotto le rivoltellate di sconosciuti. In seguito Giorgio Pisanò scrisse che questo attentato era stato compiuto da un gruppo guidato dal meccanico Alessandro Sinigaglia, poi capo dei Gap fiorentini. Anche lui uno spagnolo reduce da Ventotene, perse la vita nel febbraio 1944 in una sparatoria. Nel Reggiano, dopo la fine del Tirelli, si cercò di accoppare il commissario della nuova federazione fascista, l'avvocato Giuseppe Scolari. Era l'imbrunire del 13 novembre e l'attentato fallì. Andò a segno il terzo colpo, messo in atto il 17 dicembre. L'obiettivo era Giovanni Fagiani, cinquantenne, seniore della Milizia e già comandante della 79ª Legione. Abitava nel comune di Cavriago e stava ritornando a casa in bicicletta. Era in compagnia della figlia Vera, 19 anni, che pedalava accanto a lui. In località Prati Vecchi, il seniore venne affrontato da due ciclisti, in apparenza contadini avvolti nel tabarro per difendersi dall'umidità invernale. Gli spararono e lo uccisero. Mentre Vera si gettava sul padre, tirarono anche su di lei e la colpirono al volto. La ragazza sopravvisse, ma rimase cieca. A Genova il gruppo di Buranello, ormai divenuto il Gap della capitale ligure, il 27 novembre 1943 cercò di intervenire in appoggio agli operai meccanici e ai tranvieri scesi in sciopero. L'agitazione era stata indetta dal Pci per adeguare il salario al carovita e ottenere l'aumento della quantità di alcuni generi alimentari tesserati. Ma l'aiuto si limitò a un paio di attentati contro i tralicci dell'alta tensione. Più pesante fu l'intervento in occasione del nuovo sciopero deciso tra il 16 e il 20 dicembre. Due fascisti vennero uccisi, forse dai Gap o da altri. Per reazione, le autorità repubblicane fucilarono due operai già in carcere perché trovati in possesso di armi mentre tentavano di sabotare dei tram. La rappresaglia, resa pubblica il 20 dicembre, fece terminare subito l'agitazione.

Giampaolo Pansa, con il suo nuovo Bella ciao, racconta gli assassini resistenziali del Pci. Pacificazione? Basta la verità. Molte controverità in tanti libri. Nessuna smentita, mai, scrive Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. Giampaolo Pansa va avanti. Questo grande giornalista monferrino, classe 1935, prosegue il suo lavoro di ricostruzione degli anni di storia italiana che vanno dal 1943 al 1948, il periodo che comincia con l'8 settembre e la costituzione delle prime forme resistenziali e che arriva al confuso e violentissimo dopoguerra. Dopo i libri, come Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer), che hanno riportato a galla le ragioni degli sconfitti, dei reietti che scelsero, o si trovarono a scegliere, la Repubblica di Salò, Pansa ha alzato il tiro sulla grande congiura del silenzio, sulla storiografia accomodata sull'immagine dei vincitori, su una narrazione che è stata funzionale anche alle ragioni, spesso poco commendevoli, di un partito, quello comunista. Il suo nuovo lavoro, Bella ciao, in uscita per Rizzoli, di questo si occupa soprattutto ed è destinato, come gli altri, a scatenare le polemiche.

Domanda. «Pansa, un altro libro, ricco e documentato, ma stavolta non è solo il racconto di storie terribili e di vendette silenziate...»

Risposta. «Infatti, stavolta ho cercato di spiegare quanto il Partito comunista italiano, il più forte e l'unico organizzato in quegli anni, vedesse la liberazione dai nazifascisti come l'inizio della rivoluzione. Pietro Secchia, grande dirigente di allora, lo affermò, d'altra parte: volevano fare dell'Italia una democrazia popolare sul modello dell'Urss di Stalin.»

D. «Figuriamoci, già fino a poco tempo fa era disdicevole parlare di «guerra civile» e non «di liberazione», ora lei va scrivere che si voleva fare la rivoluzione...»

R. «Pazienza ciò spiega, come scrivo, perché i comunisti erano implacabili contro chi non stava ai loro ordini. «O stai con noi» e il motto di quel partito con una potenza gigantesca.»

D. «Una spietatezza che arrivò sino all'omicidio politico, nel famoso episodio di Porzus in Friuli, nel febbraio del 1945, quando 18 partigiani della Brigata Osoppo furono uccisi un gruppo di partigiani legati al Pci. Lei aggiunge dettagli nuovi.»

R. «Sì, ho fatto una ricostruzione della biografia di Giacca, il gappista che comandò quella strage, il padovano Mario Toffanin, che morì in Slovenia nel 1999, dopo aver ricevuto la grazia da Sandro Pertini, nel 1978, e da allora percependo fino alla fine la pensione dello Stato italiano.»

D. «Però lei racconta un altro delitto legato a Porzus quello di Leo Scagliarini detto Ricciotti, altro comandante partigiano di Palmanova (Ud)...»

R. «Ufficialmente Scagliarini morì mitragliato da un aereo alleato, mentre si muoveva in auto. Dalle ricostruzioni e dalle testimonianze raccolte dai figli, è evidente che fu ammazzato in altro modo: alcuni partigiani garibaldini lo fecero inginocchiare e gli spararono alla testa. Lui era comandante garibaldino, ma non comunista, era andato in giro a dire che su Porzus si sarebbe dovuta far luce.»

D. «Un'altra morte misteriosa fu quella di Aldo Gastaldi detto Bisagno, capo partigiano garibaldino in Liguria ma cattolico...»

R. «Una fine assurda nella ricostruzione ufficiale: inspiegabilmente Bisagno si sarebbe messo sopra la cabina di un camion in marcia, dalla quale sarebbe rovinosamente caduto. Ho fatto qualche anno di cronaca nera e di morti più improbabili non ne ricordo.»

D. «S'era opposto all'organizzazione resistenziale del Pci in Liguria.»

R. «Era uno dei comandanti più forti e capaci, giovane, aitante, uno da oratorio ma col mitragliatore sten a tracolla. Comandava una divisione e più di una volta il Pci aveva cercato di toglierselo dai piedi con le buone ma lui e i suoi, agguerritissimi, s'erano rifiuti di sloggiare. Riuscirono a impedire che scendesse a Genova per la liberazione anche perché sapevano che si sarebbe opposto alla mattanza dei fascisti: più di 800 esecuzioni in pochi giorni. E in una riunione immediatamente successiva, chiese lo scioglimento della polizia comunista, responsabile di molti di quegli omicidi. Storie che rendono ancora improbabile il racconto della sua morte.»

D. «Vicenda simile a quella di Franco Anselmi detto Marco, altro comandante non comunista, ucciso a Castenaso, in Emilia.»

R. «Fu ucciso l'ultimo giorno di guerra, il 26 aprile, da una raffica di un tedesco in ritirata. Sono andato a vedere la casa dove spirò. Molti ritengono che fosse stato abbattuto da fuoco amico, in realtà. Uno con cui ne parlai fu Italo Pietra...»

D. «Il mitico direttore del Giorno... In cui lei, Pansa, lavorava...»

D. «Certo, Pietra fu comandante di divisione nell'Oltrepò Pavese.»

D. «E che le disse?»

R. «Le sue parole furono chiare: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Marco è morto da vent'anni. Lasciamolo riposare in pace».

D. «Perché lei continua a scrivere questi libri?»

R. «Mai una smentita, lo scriva, mai una smentita...»

D. «Certo. E anche uno degli storici che all'inizio l'aveva criticato, Sergio Luzzatto, lo scorso anno le ha riconosciuto, dalle pagine del Corriere, rigore nella ricerca.»

R. «I ripensamenti non mi interessano. Le storie contemporanee sono tutte basate sulle fonti resistenziali, usare anche quelle dei fascisti pareva indecoroso.»

D. «Infatti, ora che l'eredità politica di quel Pci si va esaurendo, rimangono tetragone le cattedre universitarie...»

R. «C'è il pensiero unico, in materia. Fior di baroni accademici, gente che si ritiene l'unica titolata a occuparsi di storia della Resistenza, mi hanno messo al bando accusandomi di un reato per loro infame: il revisionismo storico. Una colpa ancora più grave perché commessa da chi non appartiene alla loro casta, un giornalista, un bastian contrario, un dilettante della ricerca storica.»

D. «C'è speranza di vedere attecchire una ricerca diversa là dentro?»

R. «Poche. Peggio delle burocrazie, e in Italia ne sappiamo qualcosa, ci sono le burocrazie accademiche: ordinariati che si trasmettono di padre in figlio o di zio in nipote. E comunque anche sugli eredi del Pci...»

D. «... che cosa si può dire?»

R. «Che anche dopo la Bolognina e la condanna di un certo comunismo, c'è stato il sequestro della memoria resistenziale.»

D. «Come mai, secondo lei?»

R. «Avendo visto cadere una grande quantità di certezze, era il solo un osso da succhiare. E la Resistenza è diventata roba loro. Si ricorda quando Letizia Moratti ebbe l'ardire di presentarsi al corteo del 25 aprile a Milano col papà?»

D. «Certo. L'anziano resistente, in carrozzella...»

R. «Era stato un partigiano di Edgardo Sogno, della Organizzazione Franchi, dei badogliani, era finito persino nei campi di sterminio. Furono entrambi insultati. Una cosa vergognosa: la Resistenza sequestrata. Ho voluto intitolare il libro Bella ciao anche per questo.»

D. «Torno al punto. Che valore ha un altro libro come questo, nell'Italia di oggi? Qualcuno potrebbe obiettare che i comunisti ormai sono minoritari anche nel partito che ne ha raccolta l'eredità, per mano di quel Matteo Renzi che, da qualche sua intervista, mi pare non le stia troppo simpatico...»

R. «Il valore di non disperdere memoria vera del nostro passato. È necessario, anzi, se si vuol capire proprio cosa è in grado di fare Renzi, che non mi è antipatico, anzi sta dando scosse elettriche ad altissimo voltaggio, fra Senato e Titolo V dello Costituzione. Lo invidio per la sua giovinezza: fa quello che i politici di centrosinistra avrebbero dovuto fare già da un pezzo.»

D. «Aveva ragione Luciano Violante quando, qualche anno fa, invocava una pacificazione nazionale?»

R. «Non ci credo, non credo alla «memoria condivisa»: l'unica pacificazione possibile è dire la verità, raccontare come sono andati i fatti.»

D. «I protagonisti di quella guerra, tra l'altro, sono quasi tutti morti...»

R. «Il sangue dei vinti in dieci anni ha venduto un milione di copie e io ho ricevuto più di 20 mila lettere scritte dagli eredi di quei vinti: figli, nipoti. Per la maggior parte sono le donne: quando c'è un piccolo archivio familiare, ordinato, ben tenuto, in genere c'è la mano di una donna. Insomma c'è una memoria di quella tragedia, che è difficile da far collimare con quella della vittoria.»

D. «Ha visto che cosa è capitato al cantautore Simone Cristicchi, contestato per il suo spettacolo sulle foibe?»

R. «Non mi sorprende. Le dico che il libro è stato prenotato da centinaia di librerie ma sono costretto a dire di no a molte richieste di presentazione. Da quando, anni fa, a Reggio Emilia sono stato aggredito dai militanti dei centri sociali, devo stare più attento. D'altronde i piccoli gruppi, oggi, sono capaci di tutto, basta vedere cosa hanno fatto cinque leghisti a Strasburgo a un galantuomo come Giorgio Napolitano.»

D. «Lei per anni ha lavorato in gruppo editoriale, quello di Repubblica e di L'Espresso, sulle cui pagine culturali, non erano certo ammessi revisionismi. Come ha fatto?»

R. «Nel «Gruppone», come lo chiamo io, ci sono stato per 31 anni, pensi. Avevano bisogno di me quando nacque Repubblica: erano un gruppo di giovanissimi e io ero uno d'esperienza. Con loro e con gli intellettuali che scrivono sui quei giornali, ho avuto polemiche feroci da quando sono usciti i miei libri. La verità è un'altra...»

D. «Quale?»

R. «Che allora i giornali erano migliori: oggi sono ideologicamente blindati. Al mattino ormai ci impiego solo due ore per leggerne una decina: alcuni ripetono sempre gli stessi articoli. Il suo direttore fa eccezione: ItaliaOggi è un giornale aperto, direi quasi libertino, che ammette visioni diverse. Una rarità.»

Ciononostante negli anni 2000 inoltrati c'è ancora qualcuno che simpatizza per una ideologia del millennio precedente. "Non prova imbarazzo ad avere il padre fascista?". La domanda è come un boomerang e questa volta torna indietro a colei che per prima l'aveva scagliata come fosse un dardo all'indirizzo del deputato M5S Alessandro Di Battista ospite delle sue "Invasioni Barbarie", scrive Libero Quotidiano. Daria Bignardi, infatti, è lei stessa figlia di un padre fascista. Lo fa notare Marco Travaglio, sul suo editoriale, raccontando lo "scandalo" dell'interessamento di Enrico Letta al tweet di Rocco Casalino che chiedeva alla Bignardi se prova imbarazzo per il suocero Adriano Sofri, condannato a 22 anni perché mandante del delitto Calabresi. "Nessuno meglio di lei può raccontare", puntualizza Travaglio sul Fatto Quotidiano, "visto che è così interessata, cosa si prova ad avere un fascista e un assassino in famiglia. Dunque che le salta in mente di chiederlo ai suoi ospiti?". Anzi uno solo: Di Battista. Travaglio fa notare che il giochino, esteso ad altri ospiti del programma, potrebbe innescare scene davvero imbarazzanti, visto che "fino al 1945 gli italiani erano quasi tutti fascisti: compresi il fondatore del giornale su cui scrive Sofri e, absit iniuria verbis, il presidente della Repubblica in carica e in ricarica". Ma quello che più fa imbestialire il vice direttore del Fatto non è tanto la domanda della Bignardi. "La polemicuzza", scrive in prima pagina,"potrebbe finire lì, fra un Casalino e una Bignardi, eventualmente anche un Sofri (nel senso del padre del marito della Bignardi, il quale comunica sul Foglio che lui è, sì, un condannato per omicidio, ma non è un omicida: un po’ come Berlusconi che è, sì, un pregiudicato per frode fiscale, ma non è un frodatore fiscale)". Quello che proprio non va giù a Travaglio è che da Doha, "si fa inopinatamente vivo – si fa per dire – il presidente del Consiglio, per stigmatizzare a nome del governo e delle più alte cariche dello Stato il tweet del Casalino e solidarizzare con la famiglia Bignardi-Sofri, parlando di “frasi folli” e di “barbaria senza fine”, poi tradotta in 'barbarie'". "E doveva pure essere sobrio", ironizza l'editorialista, £visto che l’uso e abuso di alcolici nei paesi islamici è severamente vietato. Il che spiega lo sguardo interrogativo e allarmato degli emiri presenti alla scena". Il pezzo di Travaglio si chiude con la domanda: "Cosa prova Letta ad avere quello zio?".  

L'Italia liberata dagli alleati. La storia scritta, invece, da chi si dichiara vincitore: Saccenti e cattivi sempre contro.

Dubbi e ricordi di Salandra. Così l'Italia entrò in guerra. Primo ministro fra il marzo 1914 e il giugno 1916 fu lui, con Sonnino, a "pilotare" il Paese dalla neutralità all'intervento a fianco dell'Intesa, scrive Francesco Perfetti su "Il Giornale". Il 2 giugno 1915 Antonio Salandra pronunciò in Campidoglio, nella bella sala degli Orazi e Curiazi, un celebre e appassionato discorso per illustrare le motivazioni che avevano spinto l'Italia a imbracciare le armi. Disse che la guerra, appena iniziata per l'Italia, era «santa» e si combatteva «a tutela delle più antiche e più alte aspirazioni, dei più vitali interessi della patria». Aggiunse che sarebbe stata «più grande di qualunque altra la storia» ricordasse e che avrebbe coinvolto tutti gli italiani. Per dare al discorso il carattere di un solenne atto di governo era stato scelto un giorno non festivo. Salandra aveva lavorato al discorso per due mattinate, ma gran parte di esso fu pronunciato a braccio sulla base di appunti. Cionondimeno ebbe successo e piacque persino a Benedetto Croce non certo tra i fautori dell'intervento, che vi trovò parole «veramente da italiano, da italiano antico e moderno, insieme borghese nel miglior senso della parola» e del quale gli piacque «quell'assenza completa di fanatismo nazionalistico, quella concezione patriottica e umana insieme, che è una delle più belle note dell'italianità». Salandra era succeduto a Giolitti nel marzo 1914. Aveva superato i sessant'anni e aveva alle spalle una lunga carriera politica: eletto deputato per la prima volta nel 1886, aveva poi ricoperto più volte incarichi di sottosegretario e ministro. Era, anche, uno studioso illustre di diritto amministrativo, formatosi culturalmente alla scuola di Francesco De Sanctis e di Silvio Spaventa. Liberal-conservatore, si era battuto per «l'unione di tutte le forze liberali» contro i partiti estremi e, formando il governo, si era ispirato al principio di creare una «concentrazione liberale» alla quale partecipassero esponenti della sinistra zanardelliana, del centro e della destra. Interessato soprattutto alla politica interna, all'amministrazione, al rafforzamento dello Stato e alla costruzione del grande partito liberale, si trovò subito a dover gestire la posizione dell'Italia, allora legata dalla Triplice Alleanza all'Austria-Ungheria e alla Germania, di fronte alla guerra scoppiata nell'estate del 1914. La sua prima scelta fu la neutralità, il 3 agosto di quello stesso anno. Poi venne, l'anno successivo, dopo le «radiose giornate» del maggio 1915, la decisione di prendere parte al conflitto per portare «a compimento il Risorgimento» ed «elevare l'Italia alla realtà di grande potenza». Proprio al periodo compreso fra la scelta neutralista e quella di entrare in guerra Salandra dedicò un importante volume di «ricordi e pensieri» intitolato L'intervento che la Fondazione Biblioteche Cassa di Risparmio di Firenze ha ristampato in una curata edizione anastatica e che verrà distribuito gratuitamente a tutti i partecipanti al grande convegno Niente fu più come prima. La Grande Guerra e l'Italia cento anni dopo, che si svolgerà a Firenze il 13 e 14 marzo. L'opera è una testimonianza che ricostruisce, sulla base dei ricordi di un protagonista e sulla documentazione, le trattative con l'Austria e quelle con l'Intesa, la stipulazione dell'accordo di Londra, le battaglie in piazza e in Parlamento fra neutralisti e interventisti, la crisi del maggio 1915, gli estremi tentativi diplomatici per evitare l'ingresso in guerra e le fasi della mobilitazione militare e civile. Salandra aveva cominciato a pensare che la neutralità fosse destinata a finire quando «l'ambizioso piano germanico della guerra di poche settimane» si era infranto sulle rive della Marna. C'erano, quindi, state, prima, la crisi governo per divergenze sul finanziamento del piano militare e, poi, la formazione del nuovo gabinetto del quale entrarono a far parte personalità come Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino. Quest'ultimo, nominato ministro degli Esteri, era legato a Salandra da una trentennale amicizia e da una «solidarietà politica» in nome di una concezione «forte» del liberalismo e della necessità di un «ritorno allo Statuto» per recuperare o tonificare il prestigio e l'autorità dello Stato. I veri protagonisti dell'attività diplomatica svolta in maniera sotterranea nei difficili e drammatici mesi compresi fra il novembre 1914 e la primavera del 1915 furono, proprio, loro due, Sonnino e Salandra. Questi lo riconosce senza mezzi termini: «del bene e del male a noi due spetta l'onore e il biasimo». Le trattative con Vienna e Berlino iniziarono nel dicembre 1914 ma si arenarono per l'insufficienza dei compensi offerti all'Italia dalle potenze della Triplice. Quelle con l'Intesa, che avrebbero portato al Patto di Londra e all'impegno italiano a entrare in guerra entro un mese, cominciarono all'inizio di marzo. La descrizione che Salandra fa della crisi di maggio è precisa e ricca di chiaroscuri. Il fronte interventista era costituito da intellettuali e studenti, nazionalisti, irredentisti, sindacalisti rivoluzionari. Era, per così dire, un vario interventismo raccolto attorno al progetto di completare l'unità nazionale e assicurare all'Italia un ruolo paritario fra le potenze. A esso si contrapponeva il fronte neutralista comprendente liberali giolittiani, socialisti e cattolici. Sottolinea Salandra come la spinta venisse proprio dal Paese: «mentre i neutralisti tenevano il campo a Montecitorio, gli interventisti occupavano le piazze». Poi, finalmente, ci fu la dichiarazione di guerra contro l'Austria. Dal volume emerge la personalità di un uomo che, liberale con una visione conservatrice della politica in linea con la tradizione della Destra storica, segnò la fine dell'età giolittiana e del tentativo di Giolitti di proporre un liberalismo fondato sull'arte del compromesso e sulla prassi della mediazione. Con la sua «politica nazionale» contrapposta alla «sana democrazia» di Giolitti, Salandra diventò il naturale punto di riferimento della «borghesia liberale» costituita dai nuovi ceti medi sorti dal processo di industrializzazione e modernizzazione dell'Italia postunitaria.

La stanza di Montanelli su “Il Corriere della Sera”: Ecco perchè Mussolini entrò in guerra. Caro Montanelli, Sono un giovane appassionato di argomenti storici e ultimamente sto leggendo il suo libro sulla storia d'Italia del Novecento. Per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale, vorrei farle questa domanda. Secondo lei Mussolini proprio non avrebbe potuto fare a meno di entrare in guerra a fianco della Germania di Hitler nel giugno del 1940, e, magari, non avrebbe fatto meglio a fare come Franco, cioè il neutrale? Arduino Lapo. Caro Lapo, Se lei sta leggendo il libro mio e di Cervi sull'Italia del Novecento, dovrebbe avervi già trovato risposta alla sua domanda. Niente e nessuno costringeva Mussolini a entrare in guerra a fianco della Germania. Il problema si era posto il 3 settembre dell'anno prima (1939), quando la guerra era stata - controvoglia, molto controvoglia - dichiarata da Francia e Inghilterra alla Germania che aveva invaso la Polonia. E in quel momento forse Hitler avrebbe voluto che l'Italia si schierasse al suo fianco, come stabiliva il patto d'alleanza (il famoso e famigerato "Patto d' Acciaio") fra i due Paesi. Mussolini, addusse due motivi a giustificazione della sua - come oggi la si chiamerebbe - "desistenza". Il primo era quello di non essere stato nemmeno informato del colpo di mano sulla Polonia che non poteva non provocare l'intervento di Francia e Inghilterra, dati gl'impegni che alla Polonia le legavano. Il secondo era la condizione posta da Mussolini e, a quanto pare, accettata da Hitler, che la guerra non dovesse scoppiare prima di altri tre anni, quanti ne occorrevano all'Italia - da poco reduce dagli sforzi bellici compiuti in Abissinia e in Spagna - per prepararvisi. Tutto questo era noto solo nei ristretti ambienti della diplomazia. Ma io, che in quel momento mi trovavo a Berlino per conto di questo giornale, ricordo con quale disprezzo ci guardavano i tedeschi. "I soliti traditori" pensavano di noi italiani. Nel giugno del '40 le cose erano del tutto cambiate. L' esercito francese era stato spazzato via dalla Wehrmacht, solo un brandello di quello inglese era riuscito a reimbarcarsi e a tornare a casa. E la Germania, convinta di non aver più bisogno di aiuto per giungere alla vittoria, non solo non sollecitò l' intervento italiano, ma ne fu infastidita. (Che cosa i tedeschi pensassero di noi, mi era stato chiaro fin dal 1938, quando, di passaggio a Londra, venni a conoscenza di un episodio che governo e stampa inglesi avevano, per motivi di opportunità, tacitato. Un'associazione di reduci della prima guerra mondiale aveva invitato a una conferenza uno dei più autorevoli Marescialli tedeschi - Brauchitsch mi dissero, ma poi mi smentirono - sulle nuove tecnologie militari. Alla fine del banchetto che seguì, qualcuno gli chiese chi avrebbe vinto la prossima guerra. "Chi la vincerà, non lo so - avrebbe risposto l'ospite -, ma so con sicurezza chi la perderà: chi avrà per alleato l'Italia". Non giuro sul nome di Brauchitsch, ma sull'autenticità dell' episodio sì). Fu quindi di sua testa, e contro l'opinione dei suoi uomini migliori - Grandi, Balbo, Bottai - e dello Stato Maggiore a guida Badoglio, che Mussolini volle e decise la guerra. Perchè? Perchè era convinto che i tedeschi l'avessero già vinta, e che quindi convenisse sedere, al tavolo della pace, al loro fianco. Lei mi chiederà in quali documenti questo sta scritto. No, i documenti non ci sono nè potrebbero esserci. Sono i gesti, le parole e le decisioni di Mussolini a darcene la certezza, del resto condivisa da tutti coloro che avevano accesso a lui e coi quali ho a lungo e ripetutamente parlato. Mussolini era intelligente, ma abbastanza ignorante. Non sapeva cosa fossero l'Inghilterra e l'America. Uomo dell'Ottocento e di cultura ricalcata sulla pubblicistica francese della fine di quel secolo (i suoi autori erano Zola e Sorel), coltivava il mito della Grande Armee, e, quando la vide crollare in pochi giorni, si persuase che più nulla e nessuno potesse arrestare la marcia trionfale dell'odiato (sì, odiato: so quel che dico) alleato. Franco, molto meno intelligente, ma più scaltro, freddo e calcolatore di lui, non ci cascò ("Piuttosto che avere un altro colloquio con quel tipo - disse Hitler al termine del loro incontro nel '40, sulla costa basca -, preferirei farmi strappare tutti i denti"), e così salvò il suo Paese e se stesso. Nemmeno questo sta scritto nei documenti. Ma lo si ricava, senza possibilità di dubbio, dai fatti.

Aprile 1945: gli ultimi giorni di Mussolini. Il 16 aprile lascia il Garda. A Milano cerca inutilmente la mediazione con il CLNAI quando la RSI è ormai agonizzante e i tedeschi si ritirano,scrive Edoardo Frittoli su "Panorama". "Si, Giulio Verne,…ne riparleremo più avanti". Così Mussolini aveva ironicamente risposto al capo della polizia repubblicana Tamburini quando questi aveva fantasticato sulla possibilità di fuga del duce e dei gerarchi a bordo di un sottomarino costruito a Trieste e diretto in Argentina o Polinesia. Il Mussolini dei primi mesi del 1945 è lo spettro di sé stesso. L'ultima fiammata l'aveva spesa al Teatro Lirico di Milano nel dicembre precedente. I tedeschi ormai parlano sempre meno di armi segrete e saccheggiano sempre di più derrate e macchinari industriali nell'ottica di un'estrema difesa del Reich. La violenza e l'anarchia dei reparti "speciali" di Polizia Repubblicana e delle Brigate Nere lo avevano spinto allo scontro con alcuni membri del governo di Salò, sopra tutti Buffarini Guidi. Poi c'erano i battitori liberi come Roberto Farinacci, più vicini ai tedeschi che a Mussolini, che agitavano le acque nella speranza di una successione alla guida del fascismo repubblicano. E gli alleati germanici, con lo strapotere di plenipotenziari vicini a Hitler come Karl Wolff, Eugen Dollmann, Walter Rauff (uno dei padri delle Gaswagen, le camere a gas mobili). Nel marasma degli ultimi giorni della RSI Mussolini altalena tra il purismo del ritorno alla rivoluzione sansepolcrista e spinte neo-socialiste, reminiscenze della sua cultura pre-fascista. Si avvicina e lo avvicinano intellettuali e personaggi grotteschi, che gli propongono soluzioni impraticabili nell'imminenza della fine. Edmondo Cione, un allievo di Benedetto Croce, gli presenta un nuovo assetto politico del fascismo repubblicano, che avrebbe dovuto includere elementi dell'opposizione liberale e cattolica in senso critico. Divorato dall'ulcera, il Mussolini degli ultimi giorni di Salò sembra voler perseguire a tutti i costi la strada della "socializzazione" delle industrie e dell'agricoltura. Da un lato per cercare di preservare il patrimonio industriale del Nord dalla devastazione operata dai tedeschi. Dall'altra pensa ad un passaggio di mano dal fascismo ad uno stato socialista e anti borghese.  Il piano non sarà mai di fatto attuato per la risoluta avversione dei tedeschi e per la generale ostilità degli operai in continua agitazione, nonostante le concessioni salariali promesse dalla RSI. Con l'avvicinarsi degli Alleati e con la ripresa dell'azione da parte del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) il governo di Salò comincia a formulare ipotesi di estrema resistenza o, eventualmente, di fuga in Svizzera per poi giungere nella Spagna franchista e da qui in Sudamerica. Nasce in questi giorni il piano cosiddetto R.A.R. (Ridotto Alpino Repubblicano). Si trattava di fortificare la zona montuosa della Valtellina e resistere almeno fino all'arrivo degli Alleati. Il più convinto sostenitore del ridotto era Alessandro Pavolini, segretario del PFR. Il vecchio generale Graziani, rassegnato e depresso, lo aveva deprecato sin dall'inizio. Infatti mancavano le forze necessarie per realizzarlo e difenderlo. Risultò chiaro sin da subito che il ridotto sarebbe stato devastato in poco tempo dall'aviazione alleata. Mussolini asseconda i suoi e cerca di contattare gli Alleati, i quali rispondono categoricamente: resa incondizionata. Il CLNAI fa altrettanto, così che Mussolini cerca contemporaneamente due strade alternative. Dal 16 aprile il duce decide di andarsene dalle sponde del Garda e lascia Gargnano per Milano, dove si stabilisce in Prefettura. Nella capitale lombarda Mussolini cerca contatto con l'ambasciatore svizzero Troendle. Questi temporeggia, ponendo difficili condizioni alla richiesta di asilo per il duce e i ministri di Salò. L'altra via è la mediazione della Chiesa. Per questo l'Arcivescovo di Milano Idelfonso Schuster si attiva per organizzare un incontro con il governo del CLNAI. Incontro che avviene presso la sede dell'Arcivescovado il 25 aprile, giorno dell'insurrezione. Ad attendere Mussolini c'è il generale Raffaele Cadorna, comandante militare del CVL e c'è Riccardo Lombardi per il CLNAI. Per il governo della RSI ci sono il generale Graziani e il sottosegretario Francesco Maria Barracu, il fondatore dei "Volontari di Sardegna-Battaglione Angioy" , grande invalido e seguace di Mussolini fino alla fine. I colloqui di fatto non cominceranno mai perché al duce è annunciata la voce di una pace separata con gli Alleati voluta da Karl Wolff. Mentre in città echeggiano gli spari e i tumulti dell'insurrezione generale, Mussolini fa ritorno in Prefettura. In corso Monforte termina la sua permanenza a Milano. Verso le 19 raduna i suoi comunicando di fatto la volontà di lasciare la città alla volta di Como, per un "precampo" prima del tentativo di espatrio in Svizzera. A nulla valgono gli estremi tentativi di Carlo Borsani, il cieco di guerra, di far tornare il duce in Arcivescovado. Alle 19,30 circa l'autocolonna con Mussolini e il suo seguito lascia Milano per l'ultimo viaggio.

E alla fine arrivarono gli Alleati. Le divisioni britanniche e americane superarono il Po il 24 aprile. E appresero lungo la strada per Milano che la città era già stata liberata. E i primi carri armati alleati arrivarono in Duomo solo il 29 aprile, scrive Massimo de Leonardis su “Il Corriere della Sera”. Le liberazioni delle grandi città italiane ebbero caratteristiche diverse. A Roma, per ragioni strategiche e per la sua peculiarità di sede del Papato, non vi furono né battaglia né devastazioni: i tedeschi si ritirarono poco prima dell’arrivo degli alleati. Opposto il caso di Firenze, con la città divisa e aspri scontri, che durarono settimane. Torino fu aggirata dalle truppe tedesche in ritirata, ma vi si manifestò il fenomeno dei franchi tiratori fascisti. A Milano le truppe americane arrivarono con la città già in mano ai partigiani, tranne alcuni centri di resistenza tedeschi. Nell’aprile 1945, sotto il Comando Supremo Alleato nel Mediterraneo del britannico Generale Sir Harold Alexander, operava in Italia, agli ordini dell’americano Tenente Generale Mark W. Clark, il XV Gruppo di Armate, composto dall’8a Armata britannica del Generale Sir Richard L. McCreery, e dalla 5a Armata americana del Tenente Generale Lucian K. Truscott, Jr, che contava circa 270.000 soldati (con altri più di 30.000 di riserva), oltre 2.000 pezzi di artiglieria e mortai e migliaia di veicoli, ed era schierata sulla linea di montagna a zig zag dal mare Tirreno, all’altezza del Cinquale tra Viareggio e Massa, al Monte Grande, vicino alla via Emilia. Da qui, verso sud-est, partiva il fronte della 8a armata britannica, a cavallo dei fiumi Sillaro e Santerno, e poi a nord-est lungo la sponda sud del Senio fino alla riva meridionale della laguna di Comacchio sull’Adriatico. Le operazioni preliminari iniziarono sul fronte dell’8a armata alle 3 del 2 aprile nella laguna di Comacchio, mentre l’azione diversiva sulla costa tirrenica iniziò il 5 aprile. Alle 14 del 9 aprile, dopo massicci bombardamenti ed un intenso fuoco di preparazione dell’artiglieria, iniziò l’attacco generale della 8a armata e alle 9.45 del 14 quello della 5a Armata. La svolta nell’offensiva avvenne il 20; il 21 fu conquistata Bologna e a mezzanotte del 24 l’88a divisione di fanteria americana passò per prima il Po. Il Generale Truscott ordinò l’avanzata della 5a Armata verso Verona, conquistata il 26 aprile, per separare la 10a e la 14a Armata tedesca, bloccare le vie di ritirata verso il Brennero e rompere la linea dell’Adige. Più a Occidente la 1a Divisione Corazzata americana, gli «Old Ironsides», doveva bloccare le linee di ritirata verso l’Austria e la Svizzera tra i laghi di Garda e di Como. Il 27 la Divisione incontrò partigiani provenienti da Milano, apprendendo che la città era stata liberata dalle forze della Resistenza. La mattina di domenica 29, gli americani occuparono la periferia e i primi carri armati arrivarono fino al Duomo; la sera il Col. americano Charles Poletti, governatore militare alleato in Lombardia, fu ricevuto in prefettura dai membri del Clnai e del Cvl. Il pomeriggio del 30 entrò in città il Tenente Generale Willis D. Crittenberger, comandante del IV Corpo d’Armata americano, con il Combat Command “B”. Già dal 27 era comunque a Milano il Capitano Emil Quincy Daddario dell’Office of Strategic Services (antesignano della CIA). Il giorno precedente aveva arrestato a Cernobbio il Maresciallo Rodolfo Graziani e i Generali Bonomi e Sorrentino; li trasferì a Milano, prima all’Hotel Regina, poi al Grand Hotel et de Milan e infine al carcere di S. Vittore, da dove infine li condusse verso Bergamo. L’Hotel Regina, tra le vie Silvio Pellico e Santa Margherita, era sede del comando della Sicherheitspolizei-SD. Daddario negoziò la resa dei tedeschi, che avevano rifiutato di arrendersi ai partigiani. Il 30, protetti da mezzi corazzati americani e sotto le armi puntate dei partigiani, i tedeschi abbandonarono l’albergo. Una folla minacciosa tentò di assalirli e gli americani spararono raffiche di mitra in aria per “calmare gli animi”. Nel frattempo, intorno a Milano le truppe americane e brasiliane eliminarono sacche di resistenza di truppe tedesche e della RSI. Dal 9 aprile al 2 maggio 1945, data della resa in Italia, le perdite dei tedeschi e dei fascisti, tra morti, feriti e dispersi, furono di 70.000 uomini, quelle alleate di 16.700.

Professore ordinario di Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali e Docente di Storia dei trattati e politica internazionale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dallo stop alle vendette alla «coabitazione»: Antonio Greppi, il sindaco della Liberazione. Rimasto nella memoria di tutti i milanesi, Antonio Greppi aveva visto morire un figlio, Mario, per mano della Legione «Ettore Muti». Ma non esitò a fermare le rappresaglie contro gli ex repubblichini, scrive Jacopo Perazzoli su “Il Corriere della Sera”. Per i milanesi è rimasto, fino all’ultimo, il sindaco della Liberazione, perché il socialista Antonio Greppi (1894-1982) a capo della nostra città c’era arrivato quando i nazisti erano ancora asserragliati nell’hotel Regina, a pochi passi da piazza della Scala. Non appena nominato dal Clnai il 27 aprile 1945, il neo primo cittadino si spese con determinazione per risolvere le gravi criticità lasciate sul campo dalla guerra. Fu così quando, per contrastare l’annoso problema del fabbisogno di alloggi per i milanesi, decise di nominare un commissario ad hoc e, al tempo stesso, di rivolgersi direttamente ai concittadini, perché coloro che ne avessero la possibilità mettessero a disposizione dei senzatetto alcuni locali: era l’inizio della coabitazione, che sarebbe rimasta nella memoria storica della città per molto tempo. Ma non soltanto. Per esempio, sul piano dell’assistenza sociale, il sindaco non perse tempo: pur in un regime di ristrettezza economica (nel 1945 le casse comunali disponevano di poco meno di 5 milioni di lire da spendere), optò per riorganizzare l’Ente comunale di assistenza, un organo ideato negli anni del fascismo. Esso fu affidato alla direzione di un altro socialista illustre, Ezio Vigorelli, che riuscì a fronteggiare con efficacia le conseguenze del caro viveri (nel secondo semestre del 1945 il costo della vita era infatti aumentato del 20,8%). Ugualmente riconducibile ai limitati mezzi finanziari fu un’altra scelta che contraddistinse l’operato di Greppi: nel 1945, quando uno dei problemi maggiori in città era rappresentato dal diffondersi della tubercolosi, il primo cittadino creò il cosiddetto «fondo penicillina», per coprire le spese necessarie all’acquisto del medicinale per i cittadini meno abbienti e chiese ai milanesi di finanziarlo, trovando un’adesione plebiscitaria. Un altro aspetto, questo di natura morale, ha contribuito a tramandare un’immagine positiva del «sindaco della Liberazione». Nei giorni immediatamente successivi alla resa delle forze nazifasciste, si scatenò in città un’ondata di vendette contro gli ex sostenitori della Repubblica di Salò. Da apprezzato avvocato penalista, Greppi non esitò a prendere posizione ufficiale contro quelle violenze, benché lui stesso fosse da considerare una vittima indiretta del fascismo, dato che suo figlio Mario, membro dell’VIII brigata Matteotti, era caduto a Milano nel corso di una rappresaglia attuata dalla legione Ettore Muti. La sua posizione contraria alla prosecuzione della violenza politica, una volta terminata la Resistenza, non toglie nulla al fatto che Greppi fosse una personalità integrata nell’antifascismo milanese. Il Clnai, su precisa volontà del suo presidente Alfredo Pizzoni, lo scelse quale primo cittadino anzitutto perché godeva di ottime credenziali da oppositore della dittatura. Nel 1938 e nel 1940 venne infatti internato a San Vittore poiché sospettato – non a torto – di attività clandestina antifascista (dal 1937 reggeva le sorti del Centro interno del Partito socialista), e il 26 luglio 1943 firmò, quale rappresentante del Psi, un manifesto dei partiti democratici milanesi con cui si chiedeva la liquidazione di qualsiasi traccia del ventennio mussoliniano. Sottoscrivere quel documento, soprattutto in seguito alla rinascita del fascismo sotto le vesti della Repubblica sociale, volle dire per Greppi prendere la via dell’esilio: dopo l’uccisione di Aldo Resega, il commissario federale di Milano della Rsi, fu costretto a riparare in Svizzera, visto che sul suo capo pendeva una condanna a morte. Dietro a quel motivo se ne celava però un altro che spinse i vertici del Clnai a puntare su Greppi. Partendo dal presupposto che scegliere un socialista quale sindaco di Milano significava ricollegarsi idealmente alla stagione dei suoi predecessori Caldara e Filippetti, venne indicato Greppi perché all’interno di quella famiglia politica era uno dei pochi che potevano contare su una buona esperienza amministrativa. Infatti, tra il 1920 e il 1922, seguendo un suggerimento giuntogli direttamente da Filippo Turati, aveva guidato l’amministrazione di Angera, la città da cui proveniva; nel piccolo centro lacustre impostò un’azione che avrebbe poi perseguito nel capoluogo lombardo, rappresentata dalla messa in campo di misure di politica sociale e culturale, insieme ad un forte sviluppo dell’edilizia convenzionata. Per questa serie di ragioni Sandro Pertini, allora capo dello Stato, parlò di «un grande vuoto nella vita democratica» lasciato da Greppi con la sua scomparsa, avvenuta il 22 ottobre 1982. L’autore fa parte del dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro»

Primo Maggio e 25 Aprile: ma è ancora festa? Momenti di patriottismo per altri soltanto ponte. E c'è chi pensa di abolirle, scrive Carmelo Caruso su "Panorama". E poi è subito 2 maggio. E prima ancora era stato il 26 aprile. Portate via dal giorno successivo, affievolite dalle proteste che non mancano (A Napoli quest’anno con evento sospeso). 25 Aprile e 1 maggio, celebrazioni con appendice musicale “segnato dal tempo”, ha avuto modo di dire perfino Susanna Camusso, segretario della Cgil, tanto da far ipotizzare la fine di quello che è divenuto la foto del primo maggio ovvero il concertone di piazza San Giovanni. Feste, certo e già lo storico Mario Isnenghi sottolineava come non ci sia festa il cui fine non sia la creazione di una memoria condivisa, strumenti per costruire una nazione. Forse. Divenute un lungo “ponte” per alcuni, a vedere le piazze sempre meno affollate, per altri un braccio di ferro sempre più vinto dalle catene commerciali che ne hanno fatto una crociata del lavoro senza attenuanti. Serrare le saracinesche o tenerle aperte? A Firenze un anno fa fu protesta condivisa perché fosse festa di tutti, ma peggio provò a fare Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia, quando si disse pronto ad abolirle o meglio “a spostarle” alle domeniche tutte quelle feste repubblicane che compongono il calendario laico di un paese: 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno, provocando la solita polemica tra abolizionisti e antiabolizionisti. Rientrò subito dopo le proteste di storici e dell’Anpi con la benedizione del nostro presidente. Del resto l’idea di abolire le feste era passata in mente anche a Giulio Andreotti che abolì nel 1976 addirittura l’Epifania poi reintrodotta da Bettino Craxi, ma l’abolizione del primo maggio la realizzò solo Benito Mussolini che nel 1925 volle sopprimere la festa dei lavoratori che nel frattempo erano stati trasformati in cocci delle “corporazioni”, il compromesso storico inventato dal duce tra padroni e operai. Polemica stantia, salvo registrare, come appunto la Camusso, un qualcosa che sa di logoro e non per il simbolo quanto per la contingenza. «Il concerto del Primo Maggio vuole parlare ai giovani con un linguaggio che ci permette di interloquire con loro. Il prossimo è il 25simo. Tutte le cose sono segnate dal tempo». E ha precisato: «Bisogna fare una riflessione ma non voglio dire comunque che questo sia l'ultimo». “Magari andrebbe ripensata con nuove formule, ciò non toglie che queste siano e rimangono feste di tutti – convinto risponde il presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia che proprio nel 2006 decise di aprire le porte dell’associazione - prima eravamo solo partigiani, adesso anche i giovani vengono ad iscriversi. E’ stato un modo per rigenerare. Proprio per questo credo che il concerto non bisogna eliminarlo, rimane un modo per fare uscire dall’isolamento i giovani. E’ il classico momento d’incontro. Poi è inevitabile che una festa come il Primo Maggio abbia subito dei contraccolpi a causa della crisi”. Un riflusso che addolora per primi i padri della Repubblica, quei Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano che di fatto si sono “inventati” la festa del 2 giugno togliendole quella patina di retorica e parata per riconsegnarla alla memoria degli italiani come battesimo e genetliaco della Repubblica. Notizia vuole che il presidente abbia deciso di celebrare per quest’ anno un 2 giugno “sobrio” senza ricevimenti con i diplomatici e c’è chi come Sel di Nichi Vendola auspica la sospensione della parata, ecco. Del resto ci sono date che s’iscrivono e che devono farsi stele dice la storica dell’arte Antonella Sbrilli ricordando l’uso che il pittore Jacques Louis David ne fece nel suo “La Morte di Marat”, attraverso quella data che si legge nel testamento del giacobino il quadro si fa monumento annotò lo scrittore Michael Butor. E credere che ci avrebbero unito anche se così non sembrerebbe, almeno a leggere quanto accaduto ieri a Napoli, alla Città della Scienza, da poco incendiata. Tafferugli tra Cobas e sindacati, insomma frazionismo sindacale con i Cobas che gridavano: “Non c’è niente da festeggiare”. Sicuri? Proprio anni fa su questo stesso giornale lanciava la sua provocazione Paolo Guzzanti premettendo l’accusa a cui sarebbe andato incontro: “Lo so mi tacceranno di revisionismo”. Eppure era proprio quel polemista di Guzzanti stroncandolo a ricordare un primo maggio che oggi sa di sbiadito: “Grumi di memorie inconfessate, se non Spartaco Polizza da Volpedo, almeno le cariche della Celere di Mario Scelba o l’eco dei bambini minatori e di David Copperfield. Quel che non va è proprio la retorica di un mondo morto e non ci sono ingaggi di musica sotto il palco che possono dare vita a ciò che è morto”. La pioggia ieri ha fatto il resto e se si aggiunge il contro concertone (brutto definirlo così) organizzato a Taranto da David Riondino, il più noto commissario Montalbano giovane, le somme si tirano da sé, piazze divise e il pericolo di un deja vu che sa di stanchezza e scoramento. Di solito è questo il destino di qualsiasi data e il poeta Valerio Magrelli ne ha cantato in una sua poesia la caducità: “Luce di stella morta/ giunta da un trapasso presente/ il suo oggi è lo ieri/luce salma/ memoria di un oltretomba quotidiano”. Che sia colpa dell’impossibilità di allungare le date? Probabile, visto che ogni celebrazione è destinata a finire troppo presto, allungarle è soltanto un desiderio che l’incedere quotidiano ha impedito. Sarà per questo che nel testo irridente di Elio e le Storie Tese “Il complesso del primo maggio”, gioco satirico di controinformazione sui clichè della festa, la voce di Eugenio Finardi subentra a ricordare una verità: “Il primo maggio è fatto di gioia, ma anche di noia…”. Nel frattempo è già tre maggio, meno un mese al due giugno…

25 aprile, una festa lunga 70 anni. Iniziative, immagini e celebrazioni per l'anniversario della Liberazione. 25 aprile, cinque libri per la Festa della Liberazione. Dai classici di Calvino e Vittorini ai più recenti di Aldo Cazzullo e Giacomo Verri, cinque romanzi per ricordare, scrive Andrea Bressa su "Panorama". Come ogni anno, il 25 aprile ci si ferma per un giorno a ricordare e celebrare la liberazione dal giogo fascista e dalla barbarie della guerra. La nostra Festa della Liberazione la vogliamo passare anche tra le pagine di chi ha saputo raccontare i drammi di quegli anni, magari anche impegnato nella lotta in prima persona. Ecco dunque cinque libri per riflettere sul significato di una ricorrenza tanto importante.

La mia anima è ovunque tu sia – Aldo Cazzullo (Mondadori)

Nella primavera del 1945 i tedeschi sono ormai costretti a ritirarsi abbandonando i frutti delle loro razzie. Nella città di Alba i tesori dei nazisti vengono spartiti tra il capo dei partigiani e un rappresentante della Curia. Più di cinquant’anni dopo, un misterioso omicidio scuote la città e sembra riportare a galla gli eventi di quei giorni febbrili.

Uomini e no – Elio Vittorini (Mondadori)

Il primo romanzo in assoluto sulla Resistenza, scritto quando la lotta per la liberazione dal nazifascismo era ancora in corso. Il capitano Enne 2 guida il suo gruppo di partigiani alla scoperta di una Milano spettrale e deserta, ormai abbandonata alle violenze e ai soprusi della guerra.

Il partigiano Johnny – Beppe Fenoglio (Einaudi)

Questo classico della letteratura partigiana ha il sapore di una moderna epopea. Il giovane Johnny, studente di letteratura inglese, decide di prendere parte alle azioni di guerriglia per difendere le sue amate Langhe dall’invasore nazista. Il romanzo s’ispira in larga parte alla biografia dell'autore.

Il sentiero dei nidi di ragno – Italo Calvino (Mondadori)

La guerra civile al tempo della Resistenza è narrata dal punto di vista di Pin, un bambino che osserva con stupore e con sinistra ammirazione le imprese compiute dai ‘grandi’. L’apparente sicurezza con cui affronta fascisti e partigiani cela in realtà un profondo disagio, quello dell’orfano di guerra abbandonato da tutti.

Partigiano Inverno – Giacomo Verri (Nutrimenti)

Un ragazzino innamorato, un giovane irrequieto e un pensionato mite e disorientato, sullo sfondo di una Resistenza raccontata in forma di epica contemporanea. Dal passato non arriva solo la storia narrata, ma anche il registro e la voce di un mondo lontano.

C’è un antifascismo un pò fascista. Scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Esistono tre modi di concepire l’antifascismo, e quindi di celebrare il settantesimo anniversario della Liberazione, che cade sabato prossimo, 25 aprile.

Il primo è un modo freddo e storico. Che si limita a osservare la grandiosità di quella data che rappresenta la caduta del nazi-fascismo, e cioè di un fenomeno e di una leadership politica dell’Europa occidentale che trascinò l’intero continente sull’orlo del baratro, al limite della fine della civiltà. E’ talmente gigantesco l’obbrobrio politico creato dal fascismo e dal nazismo – e che ha avuto il suo apice nel razzismo e nello sterminio della popolazione ebraica e dei rom – che la sua sconfitta militare (in Italia sancita dall’ingresso a Milano dell’esercito anglo-americano) segna uno spartiacque nella storia del nostro paese e del continente.

Il secondo è il modo della retorica. Il più diffuso. L’antifascismo proclamato non come un valore ma come una ”appartenenza”. Una bandiera. L’antifascismo come luogo degli eletti, al di fuori del quale c’è solo feccia e vermitudine, e dunque chiunque non entri con baldanza e convinzione nel cenacolo antifascista, e non si sottoponga ai riti e alle giaculatorie, è condannato ad essere scacciato tra i reietti. Questo è l’antifascismo più diffuso. E’ l’antifascismo delle cerimonie, ed è una specie di sotto-ideologia, dai confini molto vasti -dalla vecchia Dc ai centri sociali – che ha permesso per anni alle forze politiche di sinistra di rinunciare ad una propria struttura politica – di idee e di progetto – perché questa struttura era sostituita dal pacchetto-già-pronto dell’antifascismo e della militanza antifascista. Dentro questo antifascismo non ci sono idee o valori: c’è ”identità”. Anzi, questo modo di concepire l’antifascismo è esso stesso ”identità”. E questa “identità”, siccome è molto debole, labile, perché non sia dispersa, è “militarizzata”.

Poi c’è un terzo modo di pensare l’antifascismo. Ed è quello di ricercare, di ricostruire e poi di affermare i suoi valori. Quali sono i suoi valori? Sono il rovesciamento delle caratteristiche più reazionarie del fascismo, e cioè delle caratteristiche che lo hanno portato alla condanna della storia. Proviamo ad elencarle. L’autoritarismo. L’illiberalismo. L’intolleranza e la richiesta di appartenenza. Il militarismo. Il pensiero unico. La violenza, fisica e culturale. L’arroganza. Il senso di superiorità. Il razzismo e la xenofobia. Lo statalismo. La repressione. Il disprezzo per lo stato di diritto. L’antifascismo del ”terzo tipo” è quello che trasforma in valori la lotta contro queste tendenze. Ed è un antifascismo attualissimo, perché queste tendenze non solo sono presenti, e radicate, nello spirito pubblico italiano di oggi, ma sono larghissimamente maggioritarie e prevalenti. E sono trasversali, uniscono destra e sinistra, così come fu trasversale il movimento fascista. Quasi tutte queste tendenze si ritrovano, esasperate, (ma in misura variabile) nel leghismo, nel grillismo, nel travaglismo. E si ritrovano anche, meno esasperate, ovunque. Il ”renzismo”, se lo vogliamo chiamare così, non è certo esente dalla retorica fascista, sia nei suoi aspetti autoritari (riduzione del parlamento a bivacco di manipoli …) sia nel suo linguaggio politico (spianiamo tutto, chissenefrega del dissenso, abbasso i vecchi evviva la giovinezza, se avanzo seguitemi…). E anche nella violenza della polemica politica.

Dei tre tipi di antifascismo che ho citato, il primo è scarsamente rilevante, il secondo è dilagante, il terzo è del tutto marginale. E come tutti gli antifascismi che si rispettano è quasi clandestino…Il problema drammatico è che l’antifascismo di secondo tipo, quello retorico e militarista, che ha dominato il dibattito politico durante tutto il tempo della prima e della seconda repubblica, oggi sta assumendo caratteristiche sempre più militariste, autoritarie e intolleranti, quasi sovrapponendosi allo stesso fascismo. E’ un antifascismo di tipo fascista. E tuttavia è l’unico antifascismo con diritto di parola. Se fino a qualche anno fa il suo limite era l’assenza di pensiero e il trionfo del conformismo, ora le cose si sono complicate, perché si è mescolato con i grandiosi populismi di destra e di sinistra di questi anni, ed ha subito un fortissimo degrado. Basta ascoltare le posizioni di gran parte del mondo politico e giornalistico sull’immigrazione. Sono posizioni che sempre più spesso “sdoganano” principi di tipo nazista. E alle quali non si oppone quasi nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica. Oppure basta seguire le polemiche più diverse, su tanti giornali, e la carica di intolleranza e di rifiuto del dialogo, e di senso di superiorità che vi si trova. Mi ha colpito un articolo di Antonio Padellaro – persona mite e seria – pubblicato ieri sul “Fatto”. Giustamente Padellaro in quell’articolo rivendica il diritto ad essere “buonisti” e rivendica persino il valore della tolleranza contro quello dell’intransigenza. E una riga esatta dopo aver scritto questo, si ricorda che sta scrivendo sul ”Fatto” e si rivolge ai suoi avversari politici, che ha visto in un certo talk show, e li definisce la ”feccia di qualche zoo del Nord-est”. E’ questo il problema: a nessuno viene in mente che rivendicare la tolleranza e definire feccia chi dissente (a qualunque titolo e su qualunque posizione) non funziona.  E però ci avviamo a celebrare un 25 aprile in questo clima. Che non credo sia molto diverso da quello del 1922.

A chi il 25 aprile? Ai soliti noti (ma su Raiuno). Prima serata a rischio retorica con Saviano, Pif, Albanese, Paolini e Ligabue, scrive Maurizio Caverzan su "Il Giornale". Ci saranno tutti o quasi. Dite un nome e lo trovate. Fazio e Saviano, Albanese e Marco Paolini, Pif e Ligabue. E poi chissà quanti altri. Del resto, il momento è solenne, bisogna ammetterlo: settant'anni dalla Liberazione del 25 aprile 1945. Quindi, per l'occasione, Raiuno si traveste da Raitre o, se preferite, Raitre trasloca su Raiuno. Una grande serata unificante, dal titolo schietto e festoso: Viva il 25 aprile! col punto esclamativo. Una serata che avrà nella Piazza del Quirinale il cuore pulsante della celebrazione officiata da Fabio Fazio. «Perché le vere feste si fanno in piazza - recita il comunicato di Raiuno - e la piazza del Quirinale è la piazza di tutti». E ancora: «Il 25 aprile è una festa di compleanno e quest'anno ricorre il 70° compleanno della Libertà». Insomma, diciamola tutta, una grande serata a rischio retorica. Per la quale il servizio pubblico non ha lesinato sulle risorse. Ordunque, Fazio all'ombra del Quirinale, Pif in collegamento dalla Sicilia, Roberto Saviano da Montecassino, Marco Paolini ed Elisabetta Salvatori da Sant'Anna di Stazzema, Antonio Albanese da Alba, Ligabue e Francesco De Gregori in concerto da un'altra piazza di Roma. En plein. Dicono i beninformati che a volere la grande serata unificante sia stato il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi. E che abbia orchestrato l'operazione in perfetta sintonia con Andrea Vianello, direttore di Raitre, con il quale peraltro l'intesa è consolidata dalle trattative sul caso Floris e dalla scelta di trasmettere Gomorra sulla Terza rete con lancio della coppia Fazio-Saviano, e non, per esempio, su Raidue. Secondo queste fonti il capo di Raiuno, Giancarlo Leone, avrebbe fatto buon viso a forza maggiore. E ora aspetterebbe di vedere come va il mezzo trasloco, il cambio di tasto sul telecomando con conseguente, probabile, spaesamento del pubblico. Tuttavia, non c'è tanto da stupirsi. Perché comunque, questa strana serata nasce da un equivoco che viene da lontano. Ovvero che la Liberazione della Seconda guerra mondiale e la Resistenza siano esclusive di una certa sinistra, più salottiera che militante, ma pur sempre sinistra (come se non esistessero partigiani non comunisti o azionisti). E, di conseguenza, che l'anniversario di uno dei momenti fondanti della Repubblica non possa essere gestito se non dai soliti noti. Ma siccome quest'anno il «compleanno della Libertà» è più solenne perché trattasi del settantesimo, cifra tonda, ci voleva la rete ammiraglia, il primo canale, la massima potenza di fuoco. Sarà davvero difficile restare alla larga dalla retorica.

Quest'anno torna la retorica. La Storia invece fa il ponte. Per la festa il diktat è archiviare il "revisionismo", scrive Matteo Sacchi su "Il Giornale". Ma la Resistenza quanto dura? La risposta di qualcuno è semplice, da corteo: «Ora e sempre Resistenza!». Viene da una poesia di Calamandrei, per carità, ma senza la dedica al generale Kesselring (che voleva un monumento dagli italiani) perde di senso. E così, a 70 anni dal 25 aprile, se uno sfoglia i giornali o va in libreria si trova davanti una serie di richiami alla lotta al nazifascismo che dà l'impressione che Kesselring prema di nuovo contro il baluardo alpino. Anzi, se in questi anni qualche tentativo di ragionamento più pacato lo si è fatto, la cifra tonda e l'inserimento della ricorrenza nel calendario del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale sono visti da qualcuno come l'occasione per tornare alla «Resistenza perfetta». Lo storico Giovanni De Luna lo teorizza nel suo volume intitolato proprio La resistenza perfetta (Feltrinelli). Dice di provare «un insopportabile disagio» quando si indaga sulle imperfezioni della Resistenza: «Dagli anni '90 in poi si è messa in moto una valanga di fango e detriti inarrestabile, alimentata da una storiografia punteggiata da aneddoti poco edificanti». Meglio mettere tutto sotto lo zerbino e buttarla in retorica, allora? Qualche esempio. A Modena lo scorso weekend c'è stato il Festival play , un poco resistenziale festival del gioco. Si è dovuto comunque colorirlo di «memoria». Si è giocato alla staffetta partigiana. Oppure a Radio Londra. Niente di male, però la caccia al tesoro che parte da dove si uccise Angelo Fortunato Formiggini e finisce alla lapide per i fucilati è un po' troppo. Meglio allora lo spiegamento di libri del Corriere della Sera che sino al 26 settembre proporrà letteratura partigiana. Promuovendo l'operazione con titoli tipo: «Raccontare la Resistenza, un impegno di libertà». E c'è anche un po' di confusione, visto che tra i libri resistenziali finiscono dei racconti di Mario Rigoni Stern che con la Resistenza hanno poco a che fare ( Aspettando l'alba ). Ma siamo alle solite, tutto è Resistenza, persino Rigoni Stern, volontario fascista, che scriveva: «Non vi è stata una guerra più giusta di questa contro la Russia sovietica». Certo, si dirà: ha cambiato idea mentre era in un lager tedesco, dopo l'8 settembre. Forse. Di sicuro il 25 aprile stava ancora cercando di tornare a piedi dalla Polonia, rientrò a casa il 5 maggio. Del resto qualsiasi cosa, in attesa del 70º, può essere «partigianizzata». Mettiamo che si decida di parlare di una mostra di Mario Dondero, come ha fatto La Stampa il 10 aprile. Dondero è un grande della fotografia. Fra le altre cose ha fatto il partigiano in Val d'Ossola, ma questo poco o nulla ha a che fare con i suoi scatti. Però il titolo diventa: «Dondero, la guerra all'ingiustizia del partigiano con l'obiettivo». L'intervistatore sentirebbe pure la necessità di denunciare «il revisionismo diventato senso comune». Meno male che il revisionismo è diventato senso comune: proprio La Stampa pubblica in prima pagina un «conto alla rovescia» per il 25 aprile a firma Paolo Di Paolo, scrittore «inviato nel 1945». L'inviato raccoglie a piene mani virgolettati d'epoca di Togliatti. E il quotidiano propina anche titoli equilibrati come: «Il momento della scelta tra barbarie e civiltà». Per non dire di come è stata strumentalizzata la lettera del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Micromega . Di tutto ciò che ha scritto, nelle titolazioni di alcuni giornali come il Fatto , si è isolata (quando non forzosamente interpretata) solo la frase sull'evitare «pericolose equiparazioni tra i due campi in conflitto». Lo storico Angelo D'Orsi, sempre sul Fatto esulta per «la fine del “rovescismo” alla Pansa», e nella sua visione persino Luciano Violante, che osò «salutare i ragazzi di Salò», sembra un apologeta. Beh, certo ma quel che conta, chioserà qualcuno, è la tv! Iris, canale Mediaset dedicato al cinema, da oggi al 24 aprile, presenterà il ciclo «Storie di libertà», omaggio alla Resistenza. A commentare la rassegna, Fausto Bertinotti. Quanto ai titoli: Il Generale della Rovere , Il delitto Matteotti , I piccoli maestri ... E anche l'hollywoodiano Il mandolino del Capitano Corelli che, a essere sinceri, trasforma l'eccidio di Cefalonia in un polpettone romantico a cui forse bisognerebbe «resistenzialmente» ribellarsi. Raiuno invece imbastirà una serata affidata a Fazio. Ospiti i soliti noti: Saviano, Paolini, Albanese, Ligabue... Che sia un po' sbilanciata a sinistra? Sulle librerie sarebbe meglio non far parola. Oscar Farinetti, il patron di Eataly, in Mangia con il pane (Mondadori) racconta le avventure del padre Paolo Farinetti. Il comandante Paolo ha un curriculum bellico di tutto rispetto: liberò dalle carceri di Alba 22 detenuti politici. Ma la biografia si trasforma in una narrazione edulcorata. E Farinetti jr., quando può, si ritaglia anche uno spazietto per spiegare quanto è bella Eataly: «Non è un impero, è piuttosto un gruppo di lavoro di circa 4mila persone che si sbattono per celebrare la meraviglia dell'agroalimentare italiano». Insomma, resistere oggi è mangiare bene. Del resto a Milano si va dal «tutto è Resistenza» alla Resistenza a rischio di antisemitismo. La brigata ebraica non è gradita in piazza. Perché? Perché si fa resistenza anche a Israele. Abbastanza per far adirare anche il presidente della Fondazione Anna Kuliscioff, Walter Galbusera: «I veri partigiani... sono rimasti in pochi e i gruppi dirigenti non sempre hanno atteggiamenti costruttivi». Polemiche non dissimili si sono sviluppate anche a Roma. Dove c'è chi ha detto - e la presidente della Camera gli ha dato ragione - «si dovrebbe togliere la scritta “Dux” dall'obelisco del Foro Italico a Roma». Cancellare i nomi è un modo un po' strano di rievocare la storia. Ecco, la Storia? Quella il 25 aprile fa il ponte.

Giorgio Albertazzi: "Io, il duce, piazzale Loreto", scrive “Libero Quotidiano”. Sta per tornare il 25 aprile. E come accade tutti gli anni, torna la retorica della Liberazione. Prima sui giornali e poi sulle piazze. Uno dei quotidiani che si è portato avanti è Il Fatto Quotidiano, che dedica al 25 Aprile due pagine, una delle quali dedicata a una intervista a Giorgio Albertazzi. Che fu negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale tra i fascisti di Salò. E su quanto accadde in piazzale Loreto ha un giudizio sicuramente controcorrente. "Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l' ha voluto e chi l' ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l' uomo è quella cosa lì. Un animale? Il peggiore degli animali". Lui non c'era, quel giorno a Milano: "Non ero in Italia. Io ero a combattere. Paradossalmente contro i tedeschi che erano i nostri alleati. Ma nella confusione di quei giorni ci trovammo a sparare ai tedeschi, in Austria, tra le montagne innevate. Senza più niente". La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l' Italia, ma con altro spirito, e soprattutto consapevole che in quel momento stavo dalla parte di chi già aveva perso". Finì due anni in carcere, per essere stato coi Repubblichini: "Come dissi in un' intervista all' Espresso nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c' è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei. Ma non l' ho mai raccontata questa cosa. Non mi andava. le mie responsabilità, seppur di ventenne, me le prendo tutte".

Il 25 aprile nei diari conservati all'archivio di Pieve Santo Stefano. Quel giorno di 70 anni fa a Milano raccontato dalle parole di chi era lì. Nove storie selezionate tra quelle conservate nell'archivio diaristico nazionale, scrive Nicola Maranesi su “L’Espresso”. Sono trascorsi settant’anni da quel mercoledì 25 aprile 1945. Il giorno della Liberazione, il giorno in cui l’Italia ha debellato il nazifascismo e chiuso l’oscura esperienza della Repubblica Sociale Italiana. Milano è stata e resta il luogo simbolo di quel passaggio storico. Una città che in pochi giorni ha vissuto gioie estreme e dolori estremi, distribuiti tra centinaia di migliaia di persone che tornavano ad abbracciarsi e altrettante che continuavano a uccidersi. Con le vittime e i carnefici a passarsi il testimone, in uno di quei momenti della storia in cui è impossibile tracciare un confine universale tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per comprendere cos’è accaduto in città in quei giorni di 70 anni fa non esiste racconto più efficace di quello racchiuso nei diari e nelle memorie di chi c’era. Centinaia di questi sono conservati presso l’ Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano , in provincia di Arezzo. Una rapida perlustrazione di questo fondo in gran parte inedito lascia affiorare le voci dei protagonisti. Ne abbiamo scelte nove, che ci sembrano rappresentative di sentimenti e stati d’animo diversi e complementari. A partire da quella dell’operaio della Compagnia generale elettricità Antonio De Palo ("Due fucilati") che il 24 assiste a uno degli ultimi crimini commessi dai fascisti, che “per impressionare le maestranze” fucilano due partigiani prelevati dal carcere di San Vittore nel piazzale antistante la sede della Compagnia. C’è poi quella della giovane studentessa di ragioneria Maria Rachele Ciccarelli (“Liberi? Sembra impossibile”), che riassume l’enorme impatto delle novità che si stanno abbattendo sulla vita di tutti con una semplice frase, pronunciata dal sanatorio dov’è in cura: “Liberi. Cosa vuol dire per noi liberi. Mi sembra impossibile”. Una libertà che sfugge a Rina Alberici ("Trentasette morti"), che nella sua testimonianza racconta ancora di esecuzioni sommarie, ma che vedono invertirsi le parti tra vittime e carnefici. Allo stabilimento Breda gli operai insorti hanno imprigionato il personale dirigente. Compilano una lista di capi d’accusa e si fanno giustizia da soli. Tra i reclusi c’è anche Aurelio, marito di Rina, che verrà risparmiato e tornerà a casa salvo, facendosi però strada tra i cadaveri di trentasette colleghi ammucchiati di fronte al cancello della fabbrica. Non rischierà la vita ma subirà una violenta aggressione la giovanissima Maria Luisa Torti ("Picchiata dai partigiani") che sarà picchiata e rasata dai partigiani per essersi rifiutata di baciare una lercia bandiera rossa. Sono gli episodi più tragici di una riconquista della città che annovera molte tappe pacifiche, come quelle che Antal Mazzotti ("Scene dalla Liberazione") e il membro del Comitato di liberazione nazionale Vella Folgore ("La riconquista di Milano") descrivono minuziosamente nei rispettivi diari. Sono i rovesci inaspettati che il partigiano ed ex repubblicano Luigi Mingozzi riassume alla perfezione nella sua biografia e nel racconto delle giornate che seguono il 25 aprile ("Vendette, festeggiamenti, amori"). Tutte queste storie di gente comune rappresentano tasselli che aiutano a comprendere la Storia. E a rispondere agli interrogativi. Come quelli che è lecito porsi al cospetto della compassione che prova il piccolo Mauro Pistolesi ("Più pietà che odio" ) pur trovandosi di fronte ai fascisti fiancheggiatori dei nazisti, responsabili dei delitti ai quali ha assistito. Come quello di cui parla un altro testimone, Claudio Cimarosti ("A otto anni ho visto il duce a testa in giù"), nella sua memoria. Claudio ha otto anni quando il 29 aprile il padre lo conduce a piazzale Loreto per vedere i cadaveri di Mussolini, Clara Petacci e dei gerarchi. “Come hai potuto pensare di portare un bambino?”, ha chiesto al genitore anni dopo. “Mi sembrò assolutamente normale portare anche te”, la risposta. “Tutti gioivano che il fascismo avesse fatto quella fine. Che fosse finita la guerra, le lotte civili, la dittatura. E mi sembrò giusto far partecipare anche te a questa gioia”.

"A otto anni ho visto il duce a testa in giù". A soli otto anni Claudio Cimarosti è già abituato a guardare la morte in faccia. Non solo quella che gli appare a piazzale Loreto nei volti del Duce, di Clara Petacci e dei gerarchi, al cospetto dei quali è posto dal padre senza alcun indugio. Tra partigiani assassinati e violenze verbali, Claudio può dire di aver bruciato presto le tappe della vita. Quel giorno in piazzale Loreto io c’ero. Prima ancora che fossero appesi a testa in giù alla pensilina del distributore di benzina, la notizia che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi ed erano in piazzale Loreto si sparse per la città. Anche mio papà lo seppe, prese immediatamente la bicicletta, mi mise in canna e partimmo per piazzale Loreto. In piazzale Loreto c’era una folla enorme. Mio papà, con me per mano, tentò di avvicinarsi al punto dove c’erano i cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi, ma fu impossibile anche perché, ad un certo punto, la strada era stata completamente allagata. […] Poco dopo che fummo arrivati furono appesi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina e noi potemmo vederli. Forse credo […] che quello non debba essere stato uno spettacolo molto edificante per un bambino di otto anni! E questo ebbi modo di dirlo a mio papà, una sera, chiacchierando, qualche anno prima che lui morisse. “Come hai potuto pensare – gli chiesi – di portare un bambino di otto anni a vedere dei cadaveri esposti in piazza?”. E lui mi diede ragione. “Oggi – mi disse – Non lo rifarei sicuramente, ma questo ti deve far capire che clima c’era in quel periodo, che aria si respirava in quei giorni. Tu sai che in vita mia non sono mai stato un esagitato, però quel giorno mi sembrò assolutamente normale portare anche te, perché quello era un avvenimento storico eccezionale, ma soprattutto perché tutti gioivano che il fascismo avesse fatto quella fine. Che fosse finita la guerra, le lotte civili, la dittatura. E mi sembrò giusto far partecipare anche te a questa gioia”. […] D’altro canto non era la prima volta che vedevo dei cadaveri. Era una cosa quasi normale in quel periodo. Una mattina io ed i miei amici, nel bel mezzo del parco Solari che dovevamo attraversare per andare alle scuole di via Ariberto, trovammo, steso in un prato, il cadavere di un partigiano. Evidentemente era stato ucciso nel corso della notte e giaceva là da ore senza che alcuno se ne curasse. Un’altra volta andammo a vedere due partigiani che erano stati fucilati a piazza Cantore. E di morti se ne sentiva parlare ogni giorno. Uccisi da entrambe le parti, partigiani e fascisti. E si sentiva parlare di gente arrestata, di persone sparite, si sentiva parlare di torture che avvenivano nelle carceri.

Trentasette morti. Madre del piccolo Pierpaolo e moglie di Aurelio, un dirigente della Breda, Rina Alberici ha lasciato una testimonianza autobiografica sul 25 aprile priva di entusiasmi. Nelle ore che accompagnano la Liberazione, ore che definisce “della caccia all’uomo, sanguinosa e fratricida”, un pericolo di morte minaccia la sua famiglia: Aurelio è stato sequestrato dagli operai insorti. Il diario di Rina Alberici (foto di Luigi Burroni)Io e Pierpaolo (il figlio di Rina, ndr) sembravamo due senza fissa dimora; la maggior parte del tempo lo passavamo per strada, scrutando qua e là in attesa di un arrivo. Un pomeriggio, guardando verso viale Umbria vidi stagliarsi nella luce fra gli alberi una sagoma e mi parve di riconoscere Aurelio. “Non è lui” mi dissi “Aurelio non viaggia in bicicletta”. Quell’uomo pedalava piuttosto forte tenendo il manubrio con una sola mano poiché nell’altra aveva una ciambella con coperchio per W.C. Scuotendo la manina Pierpaolo gridavo: “Guarda è papà, papà; Aureliooo” e scoppiai a piangere. Aurelio stava bene, non aveva né fame né sete; in quei tre giorni, rinchiusi nei sotterranei, mangiarono e bevvero come nababbi; non gli fecero mancare neppure il fumo. Secondo gli “aguzzini” si trattava degli ultimi pasti della loro vita. […] All’entrata in Milano degli americani gli operai misero in atto repentinamente la loro “rivolta”; già armati (un’organizzazione fatta a regola d’arte) presero possesso di tutto lo stabilimento (Breda, dove lavorava Aurelio, ndr) convogliando il personale dirigente o con alte cariche nei sotterranei che avevano funzionato come rifugi antiaerei. Il Comitato promotore disponeva della lista di coloro su cui pendevano i capi d’accusa; di mano in mano ne prelevarono quattro o cinque, ma non facevano più ritorno. Aurelio, fra i rinchiusi, quando sentiva l’appello gli sembrava che il cuore volesse scoppiargli. Ne furono prelevati una quarantina circa; non era difficile immaginare la fine che fecero. Il terzo giorno Aurelio si sentì chiamare, le gambe gli tremavano ed un incaricato gli disse che poteva andare a casa; su di lui non pendevano capi d’accusa. Non gli sembrò vero. […] Uscendo dal cancello dovette scavalcare circa 37 morti fucilati, abbandonati in mucchio per terra. La fretta e la paura non gli diedero la possibilità di riconoscerli; là si fucilava senza regolare processo. Presa una bicicletta qualsiasi incominciò a pedalare, ma visto un posto di blocco si fermò rifugiandosi in un negozio di servizi igienici e per non fare la figura del fuggiasco trattò l’acquisto della famosa ciambella.

Picchiata dai partigiani. Quando giunge il 25 aprile e la Liberazione Maria Luisa Torti ha una sola certezza. Il peggio è passato. Purtroppo sbaglia. Mentre osserva senza favori l’ingresso degli americani a Milano, è vittima di una ritorsione immotivata da parte dei partigiani. Il diario di Maria Luisa Torti (foto di Luigi Burroni)Era il giorno che era logico pensare che chiunque avrebbe come minimo avuto la forza di alzare la testa, di guardare avanti, perché ognuno di noi sopravvissuti potevamo dire “io ho già pagato!”. Invece io, proprio io, non avevo ancora finito di pagare. Il tempo, le ore non avevano misura, so che non era ancora del tutto buio [… so che la porta venne spalancata improvvisamente ed entrarono due partigiani, ovvero così si presentavano in quei momenti di caos, tutti coloro che avevano voglia di alzare la voce. Questi due ragazzi (perché non avevano più di sedici-diciassette anni) che conoscevo bene perché abitano due palazzi oltre il mio, prima buttarono all’aria la casa, cassetti e armadi in cerca di che cosa non so, perché infatti non presero nulla, poi guardandomi dissero “tu vieni con noi”. Ricordo solo le labbra di papà che erano diventate due fessure dipinte di bianco. I vicini di casa silenziosi che avevano riempito la stanza e io (ancora oggi per quanti sforzi faccia, non ricordo come scesi le scale, come mi trovai in quel piccolo giardino di quella villetta) io mi vedevo lontana, non vivevo in prima persona. C’era una macchina accanto a me da dove scendevano tanti partigiani, erano aggrappati alle portiere, e avevano tutti i capelli e la barba lunghi, e tutti avevano intorno al collo un fazzoletto rosso, e tutti cantavano continuamente fino a drogarsi col canto “…e bandiera rossa sempre vincerà…e bandiera rossa sempre vincerà…”. I due stupidini che mi avevano prelevata a casa dissero al compagno Lupo: “Questa è una repubblichina”. Dieci, cento mani mi spinsero, mi toccarono, mi spinsero, i bottoncini della camicetta bianca erano saltati ed il mio seno era semiscoperto. Ero una fanciulla di una figura meridionale bruna e prorompente, perciò maggiormente tutti erano eccitati. I due ragazzi che mi avevano portata non c’erano più; forse chi era più grande di loro e che mi conosceva sapeva che io non c’entravo per niente con tutto ciò, ma la voce del compagno Lupo mi portò alla realtà perché mi gridò: “Bacia la bandiera”. Davanti a me c’era una specie di tovaglia rossa, lercia, sporca, bagnata, strappata, puzzava di sudore e di sangue e il tessuto (non il simbolo) mi fece schifo e voltai la faccia…non l’avessi mai fatto! Il volto mi fu riempito di schiaffi, il primo mi colpì subito la bocca, mi si ruppe il labbro superiore e sentivo il sapore dolciastro del mio sangue, i mei capelli lunghi si sparpagliavano intorno al mio volto e ogni tanto sentivo: “Bacia la bandiera”. E io cretina continuavo a voltare la faccia finché i miei capelli, che mi coprivano il volto, e che mi entravano in bocca quando prendevo fiato per urlare di nuovo…improvvisamente il mio volto era libero. E i miei bei capelli neri e riccioluti, erano in terra più in là. E quelli ridevano e quello con la forbice che faticava a tagliare. E quelli che mi tenevano la testa. E io che urlavo e poi una voce forte che grida “Basta!”. Basta. […] Fui sollevata da terra e Glauco, un ragazzo che conoscevo da piccola ed ora già adulto, pulito, con gli occhiali i capelli normali e diventato qualcuno di importante durante la vita partigiana, presami per un braccio mi disse: “Stai tranquilla, è stato un errore…”.

L'altra Resistenza. Quella che nessuno vuole più ricordare. Il saggio di Ugo Finetti ricostruisce le vicende di militari e partigiani dimenticati Erano patrioti e lontani dal Pci, per questo nei libri di storia non c'è stato posto per loro, scrive Matteo Sacchi su "Il Giornale". Tra l'8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945 (data ufficiale della Liberazione, anche si sparò ancora un bel po') chi ha combattuto per liberare l'Italia dall'occupazione tedesca supportata dalle forze (assolutamente gregarie) della Rsi? La risposta all'apparenza è molto semplice. In primo luogo gli anglo-americani e gli alleati, tra cui andrebbe citato il numerosissimo contingente polacco che arrivò a contare 75mila uomini. In secondo luogo le forze cobelligeranti italiane, il Corpo Italiano di liberazione, ovvero ciò che restava del regio esercito. Che crebbe di consistenza durante il conflitto per arrivare a contare 22mila uomini perfettamente armati e disciplinati. Poi le formazioni partigiane di diversa estrazione ideologica e politica. Nel '43 i loro organici erano ridottissimi. Nell'aprile del '44 secondo la maggior parte delle fonti contavano circa 22 mila uomini. Le formazioni comuniste erano le più numerose, ma ben lontane da rappresentare la maggioranza assoluta delle forze partigiane. Quello fatto sin qui potrebbe sembrare un bigino inutile ed ovvio. Però a settant'anni dal 25 aprile del '45 l'immagine che ci viene regalata della Liberazione è ancora molto distorta. Ideologizzata. Il contributo delle truppe regolari italiane marginalizzato, i partigiani raccontati come se avessero tutti al collo un fazzoletto rosso (ma rosso comunista, perché anche sui socialisti già si potrebbe storcere il naso), gli anglo-americani rimossi, anzi quasi colpevoli di averci negato la possibilità di essere inclusi nel Patto di Varsavia. È del resto di qualche giorno fa un titolo delle pagine di Repubblica che recitava così L'Armata Rossa che fece la Resistenza. Racconta le vicende dei soldati sovietici che fuggiti ai tedeschi cooperarono coi partigiani. Sulla loro consistenza numerica non occorre fare molti conti, nel testo si spiega che se ne sa poco, ma il titolo fa ben capire dove si vuole andare a parare. Se si vuole sfuggire a questo clima, che ha stravolto la storiografia per decenni, è di aiuto il testo di Ugo Finetti che proponiamo in allegato con il Giornale nella nostra biblioteca storica, La Resistenza cancellata (pagg. 376, euro 7,60 più il prezzo del quotidiano). Finetti, ex giornalista della Rai con all'attivo moltissime inchieste e reportage, ricostruisce in questo saggio l'uso politico della Resistenza fatto nel Dopoguerra. Spiegando quanto quest'uso politico abbia fatto male alla stessa Resistenza. Per usare le sue parole: «Quando l'antifascismo diventa un marchio di cui una minoranza pretende di avere l'esclusiva, e si accusa quotidianamente di fascismo la maggioranza, si scava un fossato tra antifascismo e opinione pubblica». Ma soprattutto Finetti dà largo spazio alla storia dei resistenti dimenticati. In prima istanza i militari. E rende loro giustizia dopo decenni di oblio: «La resistenza non fu infatti una guerra civile tra due élites - i rivoluzionari comunisti e gli irriducibili di Salò - ne ebbe come caratteristica la lotta di classe. Vide alla nascita come protagonisti militari guidati da ufficiali “legittimisti”... Le prime formazioni hanno come denominazione richiami risorgimentali e gli Alleati ne favorirono la nascita. Il Partito comunista, dal 25 luglio 1943 fino all'aprile 1944, svolse un ruolo del tutto secondario». E l'opera di ricerca di Finetti è pregevole soprattutto quando aiuta a riscoprire personaggi importanti come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che fu il vero organizzatore della lotta antitedesca a Roma. Partecipa all'inutile tentativo di difendere la città sotto l'attacco tedesco. Si dà alla clandestinità. Il 10 dicembre 1943, quale comandante riconosciuto dal governo Badoglio, dirama a tutti i raggruppamenti militari nell'Italia occupata dai nazifascisti la circolare 333/op, nella quale vengono indicati gli obbiettivi dell'organizzazione clandestina e le direttive per la condotta della guerriglia. Le sue parole d'ordine erano: «guerra al tedesco et tenuta ordine pubblico». Cosa che lo metteva in forte concorrenza con i Gap (Gruppi di azione patriottica) e getta una luce sinistra sul suo arresto e la sua fucilazione alle fosse ardeatine. Ma non è un caso isolato. Anche Edgardo Sogno, medaglia d'oro della Resistenza, contatto principale di Radio Londra tra i resistenti italiani, è stato ostracizzato. Stessa sorte per Alfredo Pizzoni che subito dopo l'8 settembre 1943, pur non appartenendo ad alcun partito politico, fu scelto per presiedere il Cln lombardo, che nel febbraio 1944 divenne il ClnaI. Nei libri di storia non compare, troppo borghese. Finetti rende giustizia a quei patrioti, come i militari che resistettero alla Wehrmacht mentre per colpa del Re e di Badoglio il Paese finiva allo sbando, che sono stati rimossi dalla memoria perché non omologabili. È revisionismo? O il revisionismo di comodo è stato il precedente oblio?

Non erano tutti comunisti. La Resistenza fuori dal mito. Una lunga mistificazione, scrive Francesco Perfetti su "Il Giornale". Vent'anni or sono, nel 1995, Renzo De Felice, dopo aver ricordato che la Resistenza era stato «un grande evento storico» che nessun revisionismo sarebbe riuscito a negare, richiamò l'attenzione sul fatto che i numeri di quanti avevano preso parte attiva alla lotta partigiana erano ancora controversi. Ma, quali che ne fossero le dimensioni, quel che sembrava certo allo studioso, era il fatto che, al contrario di quanto si sosteneva generalmente, non era possibile «definire la Resistenza un movimento popolare di massa» se non nelle settimane che precedettero la resa dei tedeschi e la vittoria delle truppe alleate. Del resto anche uno dei suoi principali protagonisti, il generale Raffaele Cadorna aveva scritto nelle sue memorie che, al momento della liberazione, il numero dei partigiani era cresciuto «a dismisura» e aveva aggiunto: «Un semplice fazzoletto rosso al collo bastava a tramutare un pacifico operaio o un contadino in partigiano persuaso di avere acquistato larghe benemerenze nella liberazione della patria». L'amara verità è che la grande maggioranza degli italiani, ormai stanca della guerra, aveva preferito evitare di schierarsi in maniera palese a favore della Resistenza o della Repubblica sociale italiana. Il sentimento collettivo era andato coagulandosi, non per opportunismo ma come scelta di «mera necessità» e come «male minore», in una sorta di «zona grigia» costituita essenzialmente da «quanti riuscirono a sopravvivere tra due fuochi, impossibile da classificare socialmente, espressa trasversalmente da tutti i ceti, dalla borghesia alla classe operaia». La tesi di De Felice sembrò dirompente perché metteva in discussione non già la Resistenza in quanto tale ma piuttosto il suo uso politico e ideologico, la sua strumentalizzazione. Quello dello storico era, in realtà, un invito a rileggere e studiare la Resistenza al di fuori del «mito» che ne era stato accreditato soprattutto ad opera dei comunisti. Questi ultimi erano riusciti a far prevalere l'idea non solo di una grande rivolta popolare di massa ma anche, e soprattutto, di un fenomeno unitario a guida comunista. Cosa che non era affatto vera perché alla Resistenza, nelle sue varie fasi, presero parte, oltre ai comunisti e agli azionisti con le brigate «Garibaldi» e «Giustizia e Libertà», anche esponenti di altre forze politiche, dai cattolici ai socialisti, dai liberali ai monarchici inquadrati in brigate e formazioni autonome, talora in dissenso sulle scelte operative. Per non dire, infine, del contributo alla lotta di liberazione da parte dei militari italiani del Corpo italiano di Liberazione e di quell'altra e coraggiosa forma di resistenza rappresentata dal rifiuto di collaborare con i tedeschi da parte dei soldati internati nei campi di concentramento, gli Imi dei quali fece parte anche Giovannino Guareschi. Alle origini del processo di mistificazione storica della Resistenza c'era un preciso disegno portato avanti dal Partito comunista e, in via subordinata, dal Partito d'azione, quello di accreditare che la Resistenza fosse il vero e il solo evento rivoluzionario della storia dell'Italia unita. Il che spiega, per inciso, il motivo per il quale le formazioni autonome, quelle cioè che facevano riferimento a forze politiche diverse dal Pci o dal Pda, fossero guardate con diffidenza se non addirittura con ostilità. Rientra, per esempio, in questo quadro - e vi entra in maniera emblematica delle lotte intestine all'interno del movimento partigiano - il caso dell'eccidio della malga di Porzûs, dove un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo di orientamento cattolico e laico-socialista fu barbaramente liquidato da parte di partigiani comunisti. Spiega, ancora, perché si dovesse glissare sul contributo militare, importante ed anzi essenziale, degli Alleati alla liberazione del Paese e perché si inventasse quella dubbia categoria interpretativa della Resistenza come «secondo Risorgimento» giustamente criticata da un grande ed equilibrato storico come Rosario Romeo. E spiega, infine, come, per molto tempo, la storiografia ufficiale della Resistenza, quella che De Felice avrebbe definito la vulgata, si fosse preoccupata non soltanto di minimizzare, di fatto sottovalutandola, la partecipazione delle componenti non comuniste all'epopea resistenziale. Quando, nel 1991, venne pubblicato il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza , sembrò che si aprisse una stagione completamente nuova rispetto, per esempio, al classico libro, la Storia della Resistenza , che uno storico militante come Roberto Battaglia aveva scritto, quasi a caldo e sotto la guida ispiratrice di Luigi Longo, presentando, in chiave marxista, la Resistenza come una guerra di popolo egemonizzata e guidata dai comunisti. La novità stava, in primo luogo, nel recupero, in ambito storiografico, della nozione di «guerra civile» prima sdegnosamente rifiutata e utilizzata solo nella polemica politica e in talune ricostruzioni provenienti dall'ambiente neofascista. Adesso la «guerra civile» non era più rifiutata, ma diventava un aspetto della Resistenza accanto ad altri due, quelli di una «guerra patriottica» e di una «guerra di classe». Ma si trattava di una novità apparente perché, al fondo del discorso, rimaneva in piedi l'equazione che tendeva a collegare l'idea della Resistenza con l'idea di una rivoluzione politica e sociale. Non è un caso che la ponderosa, e pur importante, opera di Pavone liquidasse la vicenda di Porzûs in una nota e sottovalutasse il contributo delle componenti non comuniste o azioniste della Resistenza: come dimostra, per esempio, il fatto che le citazioni del nome di un liberale come Edgardo Sogno si contino sulla punta delle dita. Il proposito comunista di accreditare l'immagine di una Resistenza unitaria guidata dai quadri dirigenti del partito comunista e farne il fondamento legittimante dello Stato democratico post-fascista era funzionale al disegno di Palmiro Togliatti, e dei suoi accoliti, di conquistare il potere attraverso l'affermazione della «democrazia progressiva». Era un proposito di natura «pedagogica» e politica al tempo stesso che si risolveva, però, in un vero e proprio «tradimento» della Resistenza stessa e dei suoi valori. La storia della Resistenza raccontata dalla vulgata comunista e azionista è contenuta in un libro ideale pieno di pagine stracciate e cancellate che solo da poco tempo alcuni volenterosi ricercatori stanno tentando di restaurare o ricostruire. È la storia di una «Resistenza rossa» che si sarebbe affermata, come sostenne Luigi Longo durante le celebrazioni del primo decennale, vincendo le opposizioni di cattolici e liberali e di tutti quegli antifascisti che, troppo legalitari, ne boicottavano il carattere di movimento popolare di massa e ne ostacolavano l'evoluzione in senso classista. Ma è una storia falsa che ha avuto successo soltanto grazie all'egemonia culturale gramsci-azionista che per molto tempo, per troppo tempo, ha condizionato le menti degli intellettuali italiani. È ora di riscrivere la storia vera della Resistenza, con le sue luci e le sue ombre, per assegnarle il posto che, legittimamente, le spetta. Al di là e al di fuori del mito. E, soprattutto, delle speculazioni politiche.

La guerra dei sette giorni dei «repubblichini» traditi. Dopo il 25 aprile del 1945, i tedeschi sacrificarono gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero. E per gli uomini della Rsi il conflitto proseguì fino al 2 maggio, scrive Rino Cammilleri su "Il Giornale". Nel 70º anniversario del «25 aprile» l'editore D'Ettoris ha pubblicato un libro che mancava: Il gladio spezzato. 25 aprile-2 maggio 1945: guida all'ultima settimana dell'esercito di Mussolini (pagg. 144, euro 14,90). L'autore, Andrea Rossi, dottore di ricerca in Storia Militare, colma una lacuna. Sì, perché, come dice Francesco Perfetti nella prefazione, permane «la convinzione che il 25 aprile 1945 siano cessate definitivamente le ostilità in Italia». Ma «il conflitto durò ancora per una settimana provocando perdite fra militari e civili almeno fino al 2 maggio 1945. Questi sette giorni sono stati poco esplorati dalla storiografia». Con una precisione da consumato studioso, Rossi ci informa nel dettaglio su ciò che avvenne in quella settimana fatale. Che conobbe il caos, le diserzioni, il «si-salvi-chi-può», i voltagabbana, ma anche pagine di autentico valore e di lotta disperata. Già, perché fu subito chiaro, a chi voleva vederlo, che «i tedeschi intendevano sacrificare gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero», cosa che fin dal febbraio 1945 era stata decisa in una riunione a Parma dei vertici militari tedeschi. Del resto, che cosa questi pensassero degli italiani era stato bene espresso in un giudizio del generale Eugen Ott, ispettore della Wehrmacht per le divisioni della Rsi: «Conoscendo la qualità militare e la mentalità dell'italiano \ non ci si può aspettare molto da questa truppa». Così, i repubblichini furono praticamente lasciati a vedersela con l'avanzata anglo-americana e i partigiani. E i fedeli del Duce sapevano bene che questi ultimi non erano inclini a fare prigionieri. «Come bene aveva intuito Renzo De Felice (e, a onor del vero, assai prima Beppe Fenoglio) nella sua opera postuma e, purtroppo, incompleta, fu guerra civile “senza se e senza ma”, e il solo fatto che se ne parli a quasi settanta anni di distanza accalorandosi come se tali eventi fossero di attualità, dimostra a volumi - se ancora ce ne fosse bisogno - che come tale essa è percepita ancora oggi da molti italiani». Fenoglio nel 1949 aveva intitolato una sua prima raccolta di scritti Racconti della guerra civile , ma l'editore Einaudi l'aveva modificato in Racconti barbari . Il termine «guerra civile» dilagò solo dopo la pubblicazione, nel 1991, del libro di Claudio Pavone Una guerra civile (Bollati Boringhieri). In quei giorni parossistici il destino dell'agonizzante repubblica fascista e delle sue forze armate era l'ultimo dei pensieri non solo dei tedeschi, ma anche degli Alleati, per i quali l'Italia rappresentava un teatro di guerra secondario nello scacchiere europeo. Inoltre «i leader occidentali (Winston Churchill su tutti) temevano una replica dell'amara esperienza greca, dove alla liberazione era seguita una feroce guerra civile fra nazionalisti e comunisti nella quale le truppe britanniche erano rimaste pesantemente coinvolte». La guerra era ormai praticamente conclusa e l'evitare un insensato sacrificio di vite umane fu il problema che occupò le lunghe trattative in Svizzera tra Karl Wolff, plenipotenziario delle forze armate tedesche, e Allen Dulles, responsabile dell'Oss (Office of strategic service), che negoziarono la resa tedesca in Italia. Ma che fare dei prigionieri repubblichini? «Questi ultimi erano considerati dagli Alleati alla stregua dei tedeschi, ossia reparti combattenti i cui componenti ricadevano pienamente sotto la convenzione di Ginevra». Così non la pensava Giovanni Messe, capo di stato maggiore del regio esercito, per il quale, essendo l'Italia di Vittorio Emanuele III ufficialmente in guerra con la Germania dall'ottobre 1943, i soldati di Salò erano colpevoli di tradimento per aver collaborato in armi «con il tedesco invasore». E dire che il Messe era stato a suo tempo decorato dai tedeschi con la croce di ferro di prima e seconda classe e, per giunta, era l'unico Maresciallo d'Italia ad avere ottenuto l'ambitissima Ritterkreuz che neanche Graziani, capo delle forze armate repubblichine, aveva. Per quanto riguardava il Cln, questo aveva stabilito l'instaurazione di tribunali straordinari che avrebbero dovuto giudicare i «collaborazionisti». Il Cmrp (Comitato militare regione Piemonte), da parte sua, decise di passare subito per le armi tutti coloro che avessero militato nelle forze armate di Salò. Né i fascisti, d'altro canto, si comportavano in modo granché diverso con i partigiani catturati. I marò repubblichini furono abbandonati dal generale tedesco Eccard von Gablenz, che contrattò il ritiro dei suoi uomini con i partigiani senza dirlo agli italiani. Questi, decimati dall'aviazione alleata durante la fuga, il 26 aprile 1945 decisero di sciogliersi. Tutti a casa (forse). Quelli di Brescia, responsabili di una rappresaglia, nello stesso giorno «con poca accortezza» si consegnarono al Cln di Lumezzane. Con il risultato che il loro comandante, tenente colonnello Mario Zingarelli, e venticinque marò furono fucilati il 10 maggio. E così via. Italiani contro italiani. Più guerra civile di così...

Ecco le memorie inedite dei "repubblichini" di Salò. I ragazzi di Salò erano spesso giovani che avevano perso tutto e mossi da ideali patriottici. Ecco le loro testimonianze, scrive Roberto Chiarini su "Il Giornale". Parafrasando Carl Schmitt, si potrebbe affermare che, se nello stato di eccezione si costituisce una nuova legittimità, della legittimità in quello stesso passaggio si definiscono anche i principi fondativi. Il nostro stato d'eccezione è stata la Liberazione. Si fissarono allora i criteri ispiratori del nuovo Stato. Il 28 aprile è il giorno in cui i partigiani passarono per le armi l'artefice della dittatura, l'8 maggio quello in cui finì la guerra in Europa, ma è il 25 aprile, giorno della sollevazione di Milano contro l'occupante nazista e il collaborazionista fascista, che è stato assunto come data simbolo della nuova Italia. La Repubblica, nata dalla Resistenza, ha fatto dell'antifascismo lo statuto valoriale che ha tracciato il confine della legittimità democratica. Ne è derivato che l'assolutizzazione della «giusta causa» dei partigiani contro la «causa sbagliata» dei militi della Rsi abbia portato ad assolutizzare uniformandole anche le ragioni della lotta ingaggiata dai due campi nemici: delle avanguardie consapevoli al pari delle maggioranze gregarie. Quel che vale per un giudizio storico-politico complessivo sulla Liberazione, non è detto però valga anche come criterio nella considerazione delle singole vicende personali. Non tutti i «ragazzi di Salò» furono volontari. Non tutti furono fascisti irriducibili. Non tutti furono sanguinari, anche se tutti si caricarono sulle spalle la responsabilità di sostenere la causa di un'Italia e di un'Europa destinate a divenire baluardi di regimi totalitari e razzisti. Del fascismo repubblicano disponiamo di una ricca letteratura fatta di memoriali o di ricostruzioni redatte per lo più da gerarchi o da personaggi in vista del regime, tutte ovviamente più o meno auto-assolutorie. Meno conosciuti sono, invece, i percorsi esistenziali, morali, alla fine anche inesorabilmente politici dei - chiamiamoli - «giovani qualunque», seppure essi costituissero la gran massa di quanti vestirono la divisa saloina. Per quel che si è riusciti a indagare, il mondo dei giovani dell'esercito di Salò risulta più variegato e complesso di quanto sommari giudizi abbiano sinora lasciato intendere. Ecco due casi a nostro giudizio istruttivi.

Umberto, un ragazzo di Padova non ancora diciottenne, in una giornata di sole della primavera del 1944 va con gli amici a giocare la sua solita partita al pallone. Torna a casa e scopre di essere diventato orfano di entrambi i genitori e per giunta anche ridotto sul lastrico. Non c'è più nemmeno la sua casa, colpa di un bombardamento. Non sapendo a quale santo votarsi, non trova di meglio per campare che arruolarsi in Marina, nelle file della X Mas. Viene dislocato in Friuli, dove nel corso di uno scontro finisce prigioniero dei partigiani. Liberato dai suoi commilitoni, è trasferito sul Senio, nei pressi di Castel Sampietro. Qui è impiegato in rischiose azioni sulla linea del fronte. Ferito nel corso di un bombardamento, dopo un trasferimento avventuroso, è ricoverato prima nell'ospedale di Argenta, poi in quello di Verona. Le sue condizioni peggiorano per le molteplici, gravi ferite riportate. È salvato in extremis da un ufficiale medico tedesco che gli asporta decine di schegge. Non ha ancora finito la convalescenza che si vede costretto a fuggire dall'ospedale per non finire nelle mani dei partigiani ormai alle porte di Verona. È a Padova, a casa di una zia dove si sta curando le ferite, quando viene sorpreso dal 25 aprile. Fugge. Tenta inutilmente di rifugiarsi in Francia. Ripiega allora su Bardonecchia. Qui riesce a sopravvivere e soprattutto ad occultare il suo passato da repubblichino facendo il garzone da un fornaio comprensivo. Sospettato di nascondere un passato da milite della Rsi, alla fine del 1945 lascia Bardonecchia per Padova, dove riesce ad arruolarsi nella Guardia di Finanza. Conduce poi una vita nell'ombra, ben guardandosi da compiere atti che facciano riesumare il suo passato compromettente. È la figlia a metterlo nei guai sposando - parole sue - «un comunista» che non manca di riaprire la ferita. Ma il colpo più duro lo riceve allorché l'adorata nipotina, di ritorno dalla scuola, lo apostrofa corrucciata: «Ma tu nonno è vero che sei un massacratore di partigiani?». L'anziano «ragazzo di Salò» scoppia in un pianto sconsolato. Prende allora la decisione di registrare a futura memoria la sua esperienza di combattente della Rsi. Scopo - confessa - lasciare testimonianza perché un giorno la nipotina, divenuta adulta, possa rendersi conto che suo nonno non si è macchiato di delitti né di azioni infamanti.

Tre amici ricevono la chiamata alle armi dall'esercito di Salò. Hanno tutti un'educazione fascista ma nessuno è un ardente mussoliniano. Pur senza entusiasmi, accettano di arruolarsi. Uno, Vaifro, finisce sul fronte orientale dove troverà la morte. Gli altri due, Amilcare e Lucio, sono inviati sul fronte occidentale, in Liguria, in due unità diverse. In occasione di una licenza, Lucio riceve dalla madre del commilitone una lettera e un pacco da consegnare all'amico. Al suo rientro, si presenta alla caserma di Amilcare ma, non appena fa il suo nome, suscita allarme: viene a sapere che ha disertato unendosi a una formazione partigiana. Temendo che nella lettera siano presenti indicazioni compromettenti, Lucio decide di consegnare ai superiori solo il pacco. L'amico finirà comunque catturato, torturato e ucciso. Lucio invece finisce la guerra sempre sotto le insegne della Rsi. A fine guerra, tornando al paese teme di finire oggetto di una qualche attenzione non benevola da parte dei partigiani del posto. Non gli succede invece nulla di tutto questo. La madre di Amilcare, sorella del sindaco socialista insediatosi dopo la Liberazione, lo mette sotto la sua protezione. Mostra in tal modo la sua riconoscenza per il gesto con cui Lucio, tenendo per sé la lettera a suo tempo consegnatagli, aveva coperto la fuga dell'amico. Da allora fino alla morte, avvenuta qualche anno fa, Lucio non manca mai di onorare ogni anno nel giorno dei morti con una corona di fiori la memoria dei suoi due amici, Vaifro e Amilcare, l'uno repubblichino, l'altro partigiano.

Albero della Vita in piazza Loreto, ma l'Anpi: "Offusca ricordo dei partigiani". Secondo il comune, la torre simbolo di Expo potrebbe finire in piazzale Loreto, "per cancellare un momento storico controverso". I partigiani insorgono: "Confonderebbe le idee", scrive Ivan Francese su "Il Giornale". Ha sempre diviso e continua a dividere gli animi dei milanesi e degli italiani, piazzale Loreto.  Prima teatro della barbara esposizione dei cadaveri di quindici partigiani, fucilati nell'agosto 1944 dalle forze della Repubblica di Salò e quindi lasciati esposti al pubblico ludibrio; poi, nell'aprile 1945, testimone dell'altrettanto barbara esposizione dei cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e altri gerarchi, in quella che lo stesso comandante partigiano Ferruccio Parri definì un'oscena "macelleria messicana". Da novembre piazzale Loreto potrebbe ospitare l'ormai celeberrimo "Albero della Vita" progettato per diventare il simbolo di Expo. La torre di 35 metri di Marco Balich potrebbe venire trasferita nella piazza alla fine di corso Buenos Aires su proposta dell'assessore al Verde Chiara Bisconti. "Per cancellare un momento storico controverso con un inno alla vita", spiega la Bisconti. Una proposta che ha subìto scatenato le ire dei partigiani: "Sarebbe una nota stonata che creerebbe solo confusione - protesta il presidente milanese dell'Anpi Roberto Cenati - Il simbolo di piazzale Loreto c'è già ed è il monumento che ricorda i 15 partigiani, che da tempo chiediamo che venga restaurato. L'installazione di Basich resti sul sito di Expo". Più favorevole, invece, il centrodestra. Non si oppone, ad esempio, l'ex vicesindaco Riccardo De Corato, che però avverte: "Prima dovremmo mettere anche una targa che ricordi che qui è stato appeso Mussolini".

Veneziani: il 25 aprile nega dignità anche a chi ha dato la vita per la patria, scrive Antonella Ambrosioni su “Il Secolo D’Italia”. “Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa ”. È stato chiaro, ultimativo, Marcello Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, fresco di nomina come direttore scientifico della Fondazione Alleanza Nazionale. Il 25 aprile non è una festa perché rimane una celebrazione divisiva e mai concepita all’insegna della veritas e della pietas, sostiene il neo direttore.

Veneziani, lei ha parlato di una festa divisiva e di una festa “contro”. Parole quanto mai opportune ascoltando le esternazioni colme di rinata retorica resistenziale e antifascista del presidente della Camera prima, del Capo dello Stato poi, non trova?

«Sì, il 25 aprile non è mai stata una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse, che rappresentano legittimamente una parte degli italiani, ma solo una parte, non sono l’Italia. È una festa nata contro “gli italiani del giorno prima”, ovvero non considerava che gli italiani fino ad allora non erano stati certo antifascisti. Non è un festa di tutti gli italiani, perché non rende onore al nemico, anzi nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Oggi c’è una rinnovata enfasi corale per un evento che più si allontana nel tempo, più è lontano dalla sensibilità della gente e più viene imposto mediaticamente. Per cui mi sono convinto che sia necessario ridiscutere il valore di questa festa così come viene concepita».

Lei sostiene che nella retorica di parte il 25 aprile “oscura” persino la Grande Guerra: come è possibile?

«Facendo parte del Comitato degli anniversari di Palazzo Chigi, ho potuto notare proprio questo paradosso: mentre alcune ricorrenze, come il centenario della Grande Guerra, sono ricordate solo negli aspetti tragici, catastrofici, con il carico di dolore, sacrifici e morte, sul settantesimo del 25 Aprile prevale esclusivamente l’aspetto celebrativo, senza mai ricordare le pagine nere, sporche, sanguinose che l’hanno accompagnata. Negli ultimi tempi è poi è cresciuta l’ enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra mondiale. Anzi, per la Grande Guerra si è deciso solo di restaurare monumenti, per il 25 aprile vi sono celebrazioni ovunque. Prima considerazione: scusate, il centenario è una data più importante, una data “tonda”, non la celebriamo mai; mentre il 25 aprile viene celebrato ogni anno, è l’unica festa civile del nostro Paese, oltre alla Festa del Lavoro, quindi non è certo una festa trascurata; e oltretutto è irrituale celebrare i Settantesimi. Chiedevo, pertanto, nient’altro che l’equiparazione dei giudizi storici, esaminare i due eventi dal punto di vista storico e non celebrativo, mettendo in luce anche i punti critici della Resistenza».

Le parole del Capo dello Stato non aiutano certo a ricomporre la memoria storica quando ancora una volta ristabiliscono una gerarchia tra giovani di Salò e partigiani: pietà per i morti – ammette – ma i primi stavano dalla parte sbagliata, i secondi da quella giusta. Parole che segnano un passo indietro rispetto al processo di riconciliazione avviato da Luciano Violante quando parlò della necessità di comprendere le ragioni dei ragazzi e delle ragazze che scelsero la Rsi.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: tutte le falsità sulla Resistenza. "Gli anniversari dovrebbero essere aboliti. Soprattutto quando celebrano un evento politico che si presta a una giostra di opinioni non condivise. Accade così per il settantesimo del 25 aprile 1945, la festa della Liberazione.  Una cerimonia che suscita ancora contrasti, giudizi incattiviti e tanta retorica. A volte un mare di retorica, uno tsunami strapieno anche di bugie e di omissioni dettate dall'opportunismo politico. Per rendersene conto basta sfogliare i quotidiani e i settimanali di questa fine di aprile. È da decenni che studio e scrivo della nostra guerra civile. Ma non avevo mai visto il serraglio di oggi. Una fiera dove tutto si confonde. Dove imperano le menzogne, le reticenze, le pagliacciate, le caricature. È vero che siamo una nazione in declino e che ha perso la dignità di se stessa. Però il troppo è troppo. Per non essere soffocato dalla cianfrusaglia, adesso proverò a rammentare qualche verità impossibile da scordare. La prima è che la guerra civile conclusa nel 1945, ma con molte code sanguinose sino al 1948, fu un conflitto fra due minoranze. Erano pochi i giovani che scelsero di fare i partigiani e i giovani che decisero di combattere l'ultima battaglia di Mussolini. Il «popolo in lotta» tanto vantato da Luigi Longo, leader delle Garibaldi, non è mai esistito. A perdere furono i ragazzi di Salò, i figli dell'Aquila repubblicana. Ma a vincere non furono quelli che avevano preso la strada opposta. L'Italia non venne liberata da loro. Se il fascismo fu sconfitto lo dobbiamo ad altri giovani che non sapevano quasi nulla di un Paese che dal 1922 aveva obbedito al Duce e l'aveva seguito in una guerra sbagliata, combattuta su troppi fronti. La vittoria e la libertà ci vennero donate dalle migliaia di ragazzi americani, inglesi, francesi, canadesi, australiani, brasiliani, neozelandesi, persino indiani, caduti sul fronte italiano. E dai militari della Brigata Ebraica, che oggi una sinistra ottusa vorrebbe escludere dalla festa del 25 aprile. Gli stranieri e gli italiani si trovarono alle prese con una guerra civile segnata da una ferocia senza limiti. Qualcuno ha scritto che la guerra civile è una malattia mentale che obbliga a combattere contro se stessi. E svela l'animo bestiale degli esseri umani. Tutti gli attori di quella tragedia potevano cadere in un abisso infernale. Molti lo hanno evitato. Molti no. Eccidi, torture, violenze indicibili non sono stati compiuti soltanto dai nazisti e dai fascisti. Anche i partigiani si sono rivelati diavoli in terra. In un libro di memorie scritto da un comandante garibaldino e pubblicato dall' Istituto per la storia della Resistenza di Vercelli, ho trovato la descrizione di un delitto da film horror. Una banda comunista, stanziata in Valsesia, aveva catturato due ragazze fasciste, forse ausiliarie. E le giustiziò infilando nella loro vagina due bombe a mano, poi fatte esplodere. La ferocia insita nell' animo umano era accentuata dalla faziosità ideologica. La grande maggioranza delle bande partigiane apparteneva alle Garibaldi, la struttura creata dal Pci e comandata da Longo e da Pietro Secchia. È una verità consolidata che tra le opzioni del partito di Palmiro Togliatti ci fosse anche quella della svolta rivoluzionaria. Dopo la Liberazione sarebbe iniziata un' altra guerra. Con l' obiettivo di fare dell' Italia l' Ungheria del Mediterraneo, un Paese satellite dell' Unione Sovietica. I comunisti potevano essere più carogne dei fascisti e dei nazisti? No, perché chi imbraccia un' arma per affermare un progetto totalitario, nero o rosso che sia, è sempre pronto a tutto. Ma esiste un fatto difficile da smentire: le stragi interne alla Resistenza, partigiani che uccidono altri partigiani, sono tutte opera di mandanti ed esecutori legati al Pci. La strage più nota è quella di Porzûs, sul confine orientale, a 18 chilometri da Udine. Nel pomeriggio del 7 febbraio 1945, un centinaio di garibaldini assalgono il comando della Osoppo, una formazione di militari, cattolici, monarchici, uomini legati al Partito d' Azione e ragazzi apolitici. Quattro partigiani e una ragazza vengono soppressi subito. Altri sedici sono catturati e tutti, tranne due che passano con la Garibaldi, saranno ammazzati dall' 8 al 14 febbraio. Un assassinio al rallentatore che diventa una forma di tortura. In totale, 19 vittime. La strage ha un responsabile: Mario Toffanin, detto "Giacca", 32 anni, già operaio nei cantieri navali di Monfalcone, un guerrigliero brutale e un comunista di marmo. Ha due idoli: Stalin e il maresciallo Tito. Considera la guerriglia spietata il primo passo della rivoluzione proletaria. Ma l' assalto e la strage gli erano stati suggeriti da un dirigente della Federazione del Pci di Udine. Di lui si conosce il nome e l'estremismo da ultrà che gioca con le vite degli altri. È quasi inutile rievocare le imprese di Franco Moranino, "Gemisto", il ras comunista del Biellese. Un sanguinario che arrivò a uccidere i membri di una missione alleata. E poi fece sopprimere le mogli di due di loro, poiché sospettavano che i mariti non fossero mai giunti in Svizzera, come sosteneva "Gemisto". Il Pci di Togliatti difese sempre Moranino e lo portò per due volte a Montecitorio e una al Senato. Anche lui come "Giacca" morì nel suo letto. Tra le imprese criminali dei partigiani rossi è famoso il campo di concentramento di Bogli, una frazione di Ottone, in provincia di Piacenza, a mille metri di altezza sull' Appennino. Dipendeva dal comando della Sesta Zona ligure ed era stato affidato a un garibaldino che oggi definiremmo un serial killer. Tra l' estate e l' autunno del 1944 qui vennero torturati e uccisi molti prigionieri fascisti. Le donne venivano stuprate e poi ammazzate. Soltanto qualcuno sfuggì alla morte e dopo la fine della guerra raccontò i sadismi sofferti. A volte erano dirigenti rossi di prima fila a decidere delitti eccellenti. Le vittime avevano comandato formazioni garibaldine, ma si rifiutavano di obbedire ai commissari politici comunisti. Di solito questi crimini venivano mascherati da eventi banali o da episodi di guerriglia. Uno di questi comandanti, Franco Anselmi, "Marco", il pioniere della Resistenza sull' Appennino tortonese, dopo una serie di traversie dovute ai contrasti con esponenti del Pci, fu costretto ad andarsene nell' Oltrepò pavese. Morì l' ultimo giorno di guerra, il 26 aprile 1945, a Casteggio per una raffica sparata non si seppe mai da chi. Negli anni Sessanta, andai a lavorare al Giorno, diretto da Italo Pietra che era stato il comandante partigiano dell' Oltrepò. Sapeva tutto del Pci combattente, della sua doppiezza, dei suoi misteri. Quando gli chiesi della fine di Anselmi, mi regalò un' occhiata ironica. E disse: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Anselmi è morto da vent' anni. Lasciamolo riposare in pace». Un' altra fine carica di mistero fu quella di Aldo Gastaldi, "Bisagno", il numero uno dei partigiani in Liguria. Era stato uno dei primi a darsi alla macchia nell' ottobre 1943, a 22 anni. Cattolico, sembrava un ragazzo dell' oratorio con il mitragliatore a tracolla, coraggioso e altruista. Divenne il comandante della III Divisione Garibaldi Cichero, la più forte nella regione. Era sempre guardato a vista dalla rete dei commissari comunisti della sua zona. Nel febbraio 1945, il Pci cercò di togliergli il comando della Cichero, ma non ci riuscì. Alla fine di marzo Bisagno chiese al comando generale del Corpo volontari della libertà di abolire la figura del commissario politico. E quando Genova venne liberata, cercò di opporsi alle mattanze indiscriminate dei fascisti. Non trascorse neppure un mese e il 21 maggio 1945 Bisagno morì in un incidente stradale dai tanti lati oscuri. In settembre avrebbe compiuto 24 anni. Ancora oggi a Genova molti ritengono che sia stato vittima di un delitto. Sulla sua fine esiste una sola certezza. Con lui spariva l'unico comandante partigiano in grado di fermare in Liguria un'insurrezione comunista diretta a conquistare il potere. Scommetto mille euro che nessuno dei due verrà ricordato nelle cerimonie previste un po' dovunque. Al loro posto si farà un gran parlare delle cosiddette Repubbliche partigiane. Erano territori conquistati per un tempo breve dai partigiani e presto perduti sotto l' offensiva dei tedeschi. Le più note sono quelle di Montefiorino, dell' Ossola e di Alba.

Nel 1944, Montefiorino, in provincia di Modena, contava novemila abitanti. Con i quattro comuni confinanti si arrivava a trentamila persone. L' area venne abbandonata dai tedeschi e i partigiani delle Garibaldi vi entrarono il 17 giugno. La repubblica durò sino al 31 luglio, appena 45 giorni. Fu un trionfo di bandiere rosse, con decine di scritte murali che inneggiavano a Stalin e all' Unione Sovietica. Vi dominava l'indisciplina più totale. Al vertice c' era il Commissariato politico, composto soltanto da comunisti. Il caos ebbe anche un lato oscuro: le carceri per i fascisti, le torture, le esecuzioni di militari repubblicani e di civili. Ma nessuno si preoccupava di difendere la repubblica. Infatti i tedeschi la riconquistarono con facilità. La repubblica dell'Ossola nacque e morì nel giro di 33 giorni, fra il settembre e l'ottobre del 1944. Era una zona bianca, presidiata da partigiani autonomi o cattolici. E incontrò subito l' ostilità delle formazioni rosse. Cino Moscatelli, il più famoso dei comandanti comunisti, scrisse beffardo: «A Domodossola c' è un sacco di brava gente appena arrivata dalla Svizzera che ora vuole creare per forza un governino pur di essere loro stessi dei ministrini». La repubblica di Alba venne descritta così dal grande Beppe Fenoglio, partigiano autonomo: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre 1944». Durata dell'esperimento: 23 giorni, conclusi da una fuga generale. Sentiamo ancora Fenoglio: «Fu la più selvaggia parata della storia moderna: soltanto di divise ce n'era per cento carnevali. Fece impressione quel partigiano semplice che passò rivestito dell'uniforme di gala di colonnello d'artiglieria, con intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri...». In realtà la guerra civile fu di sangue e di fuoco. Con migliaia di morti da una parte e dall'altra. Dopo il 25 aprile ebbe inizio un'altra epoca altrettanto feroce. L'ho descritta nel libro che mi rende più orgoglioso fra i tanti che ho pubblicato: Il sangue dei vinti. Stampato da un editore senza paura: la Sperling e Kupfer di Tiziano Barbieri. Un buon lavoro professionale. Dal 2003 a oggi, nessuna smentita, nessuna querela, ventimila lettere di consenso, una diffusione record. Ma le tante sinistre andarono in tilt. E diedero fuori di matto. Più lettori conquistavo, più venivo linciato sulla carta stampata, alla radio, in tivù. Mi piace ricordare l' accusa più ridicola: l' aver scritto quel libro per compiacere Silvio Berlusconi e ottenere dal Cavaliere la direzione del Corriere della Sera. Potrei mettere insieme un altro libro per raccontare quello che mi successe. Qui preferisco ricordare i più accaniti tra i miei detrattori: Giorgio Bocca, Sandro Curzi, Angelo d'Orsi, Sergio Luzzatto, Giovanni De Luna, Furio Colombo, qualche firma dell'Unità, varie eccellenze dell' Anpi, del Pci e di Rifondazione comunista. Tutti erano mossi dalle ragioni più diverse. Se ci ripenso sorrido. La meno grottesca riguarda l' ambiente legato al vecchio Pci. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la svolta di Achille Occhetto nel 1989, gli restava poco da mordere. Si sono aggrappati alla Resistenza. E hanno inventato uno slogan. Dice: la Resistenza è stata comunista, dunque chi offende il Pci offende la Resistenza. Oppure: chi offende la Resistenza offende il Pci e gli eredi delle Botteghe oscure. Ecco un'altra delle menzogne spacciate ogni 25 aprile. Insieme alla bugia delle bugie, quella che dice: le grandi città dell' Italia del nord insorsero contro i tedeschi e li sconfissero anche nell' ultima battaglia. Non è vero. La Wehrmacht se ne andò da sola, tentando di arrivare in Germania. In casa nostra non ci fu nessuna Varsavia, la capitale polacca che si ribellò a Hitler tra l'agosto e il settembre 1944. E divenne un cumulo di macerie. In Italia le uniche macerie furono quelle causate dai bombardamenti degli aerei alleati. Che cosa resta di tutto questo?

Di certo il rispetto per i caduti su entrambe le parti. Ma anche qualcos'altro. Quando viaggio in auto per l' Italia, rimango sempre stupito dalla solitaria immensità del paesaggio. Anche nel 2015 presenta grandi spazi vuoti, territori intatti, mai violati dal cemento. È allora che ripenso ai pochi partigiani veri e ai figli dell' Aquila fascista. E mi domando se avrei avuto il loro stesso coraggio se fossi stato un giovane di vent'anni e non un bambino. Si gettavano alle spalle tutto, la famiglia, gli studi, l'amore di una ragazza, per entrare in un mondo alieno, feroce e sconosciuto. Erano formiche senza paura e pronte a morire. L'Italia di oggi merita ancora quei figli, rossi, neri, bianchi? Ritengo di no. Giampaolo Pansa".

Pansa: «La Boldrini dovrebbe andare al doposcuola. Non conosce la storia», scrive Aldo Di Lello su “Il Secolo D’Italia”. «La Boldrini? Dovrebbe andare a ripetizione di storia». Non fa sconti, Giampaolo Pansa, alla terza carica dello Stato dopo Bella ciao cantata nell’Aula della Camera e dopo gli interventi sul  25 aprile che hanno riproposto i temi della vecchia vulgata resistenziale della Prima repubblica. In questi giorni di retorica d’annata, l’autore de Il sangue dei vinti è intervenuto su Libero (23 aprile) per ricordare alcune verità scomode sulla Resistenza.

Allora Pansa, non ritieni che il clima di questo settantesimo anniversario del 25 aprile sia caratterizzato da un sorta di passo indietro rispetto alle aperture e alle ammissioni di qualche anno fa? Penso a Mattarella, che non vuol sentir parlare di “ragioni” dei “ragazzi di Salò”, a differenza di quanto a suo tempo affermò Luciano Violante e di quanto, più recentemente, ha ammesso Napolitano. Penso soprattutto alla Boldrini, che giorni fa, in televisione, è arrivata a negare l’esistenza di una guerra civile. Per la presidente della Camera bisognerebbe solo parlare di «lotta di liberazione». Un vero e proprio ritorno al passato. Non ti pare? 

«Non voglio polemizzate con Mattarella: è una persona che stimo. È il Capo dello Stato e mi rappresenta. Della Boldrini penso invece che dovrebbe essere mandata al doposcuola, perché dimostra di non conoscere la storia italiana. Non può parlare in quel modo. L’estrema semplificazione della sua non conoscenza c’è stata quando ha fatto intonare Bella ciao alla Camera:  non è mai stata una canzone partigiana. I partigiani cantavano Fischia il vento. Ha fatto uno spettacolo da teatrino dell’oratorio rosso».

Che differenza noti tra il tempo in cui uscì Il sangue dei vinti e oggi?

«Il sangue dei vinti uscì nel 2003 ed ebbe subito un successo pazzesco. Dopo pochi mesi aveva già venduto duecentomila copie. E l’interesse è continuato  negli anni successivi, fino alla vendita di un milione di volumi.  Fui bersagliato in tutti i modi. Me ne dissero di tutti i colori. E si trattava spesso di accuse ridicole e grottesche. Ci fu anche chi, ad esempio,  disse che volevo fare un regalo a Berlusconi per farmi nominare direttore del Corriere della Sera. Non c’è dubbio che era un’Italia faziosa.  Oggi abbiamo una faziosità nascosta, che non si esprime. Siamo alle prese con una crisi economica che, nonostante quello che dice Renzi, non è affatto risolta. E poi c’è l’enorme dramma delle migrazioni e degli sbarchi. L’Italia è come un malato che non si è ancora alzato dal letto per la paura di muoversi. Rispetto ad allora, l’Italia è più addormentata. Ed è su questa Italia che si è abbattuto lo tsunami di retorica per il settantesimo anniversario del 25 aprile».

Non ritieni che, in questa Italia addormentata, il conformismo attecchisca più facilmente?

«Ti rispondo con un esempio tratto dai miei ricordi d’infanzia. A quel tempo, avrò avuto otto o nove anni, i miei genitori mi facevano preparare il “prete”. Sai che cos’è?»

Ecco perché il 25 aprile non è la festa di tutti, scrive Luigi Benedetti il 25 aprile 2015. Tanto tempo fa, quando andavo a scuola, mai avrei potuto immaginare anni, questi, in cui la consapevolezza mi avrebbe portato a rivedere con difficoltà tutto quello su cui ero stato formato; volente o nolente. Ricordo i libri dettagliatamente esaustivi sulle vicende storiche che riguardavano la seconda guerra mondiale e non vi nascondo che, avendo da sempre avuto un otto in storia, ero convinto di conoscere e di sapere ciò che c’era da conoscere e da sapere. Questa mia convinzione di allora è probabilmente la convinzione rimasta in molti, oggi, che non hanno, come me, intrapreso un lavoro di passione fatto di ricerche, letture e studi personali durati anni. I più, infatti, restano convinti di conoscere la storia del ‘900 grazie all’istruzione scolastica, sempre difesa per politically correct ma davvero indifendibile avendo un minimo di cognizione di causa. Anche se già qualcosa non tornava quando mi accorsi che il mio libro di testo esaltava i risultati dei piani quinquennali di Stalin, la mia vita cambiò totalmente quando, appena diplomato, lessi l’opera che svelò al mondo la tragedia marxista leninista: Arcipelago Gulag. Immaginatevi di dormire. Siete nel pieno di un sonno riposante e sereno e, improvvisamente, vi viene sbattuta una padella in faccia. Ecco, per metafora, quello che provai quando lessi l’opera di Aleksandr Solzenicyn. Compresi chiaramente di non sapere assolutamente nulla della storia del 900. Anzi, compresi che tutti non sapevano completamente nulla; a parte le nozioni su Nazismo e Fascismo che rappresentano una parte piccolissima della storia del secolo del male; una parte che annichilisce dinanzi alla furia e alla durata dei regimi comunisti. Ed anche questi, mi accorsi nelle varie letture, non erano poi insegnati per ciò che accadde, con la sola eccezione dei Paesi anglosassoni. Mi piacerebbe dire molte cose. Parlare di come, contrariamente a quanto fattoci credere, i nazisti e i comunisti erano alleati. Fino all’operazione Barbarossa, infatti, così era e quando, capitolata Parigi, Hitler decise di attaccare l’est, Stalin venne preso alla sprovvista. A Mosca il Bolscioj dava soltanto Wagner ed erano proibiti i film antifascisti. Nella Polonia occupata, sul ponte di Brest Litovsk, la NKVD comunista (prima che si chiamasse KGB) consegnava alla Gestapo nazional socialista gli ebrei tedeschi fuggiti in Urss. Come poter chiudere gli occhi davanti al fatto che, quando cadde La Francia, mentre le truppe di Hitler entravano a Parigi sfilando sotto l’arco di Trionfo, gli amici del Partito Comunista Francese, su L’Humanité (l’Unità francese), titolavano a tutta pagina: “Bravi camerati! La borghesia mondiale sa finalmente di che pasta è fatto il proletariato tedesco!”. Si, i comunisti francesi inneggiavano, sul proprio giornale, agli amici nazisti che invadevano la Francia. Pagine della storia che, ad esser studiate, produrrebbero autocoscienza; pagine strappate, quindi, che nessuno vi farà mai studiare. La problematica dello studio consono e giusto della storia del comunismo e in generale del 900, a causa del fatto che questo partecipò alla vittoria e gli venne consentito di scrivere i libri di storia, riguarda tutti i Paesi. Lo dimostrano gli attacchi violenti subiti da Alain Bensacon per essersi permesso di dire che nessuno studia lo sterminio Ucraino o la kolyma. Le motivazioni dell’oblio a cui la storia del comunismo è stata destinata sono tante e difficilmente analizzabili. Certo, però, non esiste un Paese come il nostro da questo punto di vista. Un Paese passato da una dittatura, quella fascista, ad una egemonia culturale dittatoriale, quella comunista, senza passare da una rivoluzione liberale. Una egemonia culturale nelle mani del partito comunista più forte dell’occidente che ha fatto del possedimento dell’istruzione pubblica e dell’arte in genere il proprio punto di riferimento. E i risultati si vedono. I risultati sono quelli sperati e cioè convincere noi tutti, non importa se di destra o di sinistra, di una grande grandissima bugia; e cioè che il comunismo è stato il più grande e valoroso strumento antinazista ed antifascista. Un falso storico ben raccontato da Francois Furet. Questo valore, assolutamente falso, è il motivo grazie al quale si è sempre giustificato ogni scempio. E’ il motivo per il quale si è consegnata alla gente da istruire una consapevolezza basata sulla menzogna. La storia Italiana e in particolar modo la storia della resistenza italiana sono il simbolo di quanto detto fino ad ora. Tra le pagine del nostro passato, ad esempio, è quella dei partigiani italiani che certamente gode di più retorica e intoccabilità, e falsità, pena il pubblico disprezzo e la pubblica derisione. I partigiani sono sacri…La realtà, ciò che avvenne nel ’45, è ben diversa e in questi anni è stata ben rivisitata e analizzata da un bravissimo giornalista che, proprio in quanto antifascista come provenienza culturale, ha fatto questa battaglia di verità a testa alta. Avrete certamente sentito parlare di lui. Giampaolo Pansa ha dovuto combattere contro quelli che chiama i “gendarmi della memoria”. I violenti compagni a guardia della “vulgata resistenziale”.  E’ stato aggredito, minacciato di morte, umiliato, vessato, licenziato dal quotidiano Repubblica dopo 25 anni. Perché egli intraprese questo percorso? Lui, come avvenne per Solzenicyn tanti anni prima, si è trovato quasi per caso ad essere il punto di riferimento di tanti nostri concittadini che, figli di persone assassinate dai partigiani, avevano subito torti atroci ma non avevano mai potuto raccontare la loro storia essendo “prigionieri del silenzio”. Le tante lettere ricevute lo convinsero che era dannatamente vero che l’Italia repubblicana, infondo, era stata fondata su quella che lui chiamò “La Grande Bugia” e cioè l’insieme di convinzioni storiche inesatte riportate sui testi scolastici. Riporto testualmente dall’introduzione del suo libro che prende proprio questo nome: “Come nasce una grande bugia? Nasce da un insieme di reticenze, di omissioni, di piccole menzogne ripetute mille volte, di distorsioni della verità. Tutte giustificate dal pregiudizio autoritario che la storia di una guerra la possono raccontare solo i vincitori. Anzi, uno solo dei vincitori. Mentre i vinti devono continuare a tacere.” E’ bene dire che una delle grandi verità è che gli italiani erano Fascisti e, fino al ’38, entusiasti. Se si riesce ad avere giudizi sereni e distaccati il motivo di ciò appare evidente; evito di argomentare a fondo ma basta dire che mentre nel “paradiso socialista” c’erano i campi di concentramento, in Italia c’erano l’INPS e le colonie estive per i bambini. Ciò non toglie che il Fascismo sconfinò in una dittatura che, se al confronto del comunismo e del nazismo è da considerarsi una meraviglia, perseguitò gli oppositori; erano gli strumenti del tempo. Giorgio Napolitano era il Presidente delGruppo Universitario Fascista. Giorgio Bocca scriveva articoli contro gli ebrei. Come dimenticareDario Fo, che in piena disfatta si arruolò nella Repubblica Sociale e combatté per il suo Duce, fino all’ultimo, nelle brigate di Tradate contro i partigiani. Ma non voglio parlare della ipocrisia vomitevole che esiste in questo Paese bensì della grande e negata verità sulla guerra di liberazione. Liberazione…Il fronte partigiano era composto da tante anime e, mentre la maggior parte volevano dare all’Italia la democrazia, l’anima comunista come quella della Brigata Garibaldi operava in maniera organica all’Unione Sovietica che doveva invadere da est l’Italia ed instaurare il comunismo. Tutti i dirigenti partigiani e del PCI avevano combattuto in Spagna ed erano stati formati a Mosca. Su questo ho anche visionato personalmente le cartine con i piani di invasione del Kgb all’interno dell’archivio Mitrokhin; piani rimasti militarmente attivi fino ai primi anni ’80. Ho già parlato di ciò che avvenne nei territori a confine quando ho scritto delle foibe in febbraio nell’articolo “Il genocidio italiano”; meno l’ho fatto per ciò che prese inizio all’interno del territorio Italiano. Tutti noi siamo stati convinti che gli scontri e le rappresaglie durarono fino alla morte di Mussolini e che a quel punto l’Italia venne liberata. La cosa è totalmente falsa. In realtà, morto Mussolini, iniziò una battaglia di tre anni che per nostra fortuna si concluse con la vittoria della Democrazia Cristiana. E’ molto importante sapere cosa avvenne nelle zone a più influenza comunista e cioè quelle emiliane. Il triangolo compreso tra i paesi di Manzolino, Castelfranco Emilia e Piumazzo passò alla storia come il triangolo della morte per lo spaventoso numero di martoriati e uccisi dai partigiani comunisti. Era in atto una operazione di terrore marxista che vedeva la macelleria non di fascisti, ma di tutti quanti potessero contrastare negli anni seguenti una ascesa rossa; fino a quando non venne dato il contro ordine da Stalin sul progetto di invasione, i partigiani iniziarono un lavoro dicarneficina verso comuni cittadini: il farmacista, il notaio, il medico condotto, il parroco, il maestro, l’avvocato, lo studente universitario, il proprietario terriero, l’imprenditore, l’artigiano. Trucidati: prelevati la sera, portati via e mai più rientrati. Migliaia, spesso dati in pasto ai porci affinché non ci fossero cadaveri da riesumare. Tutto questo, ricordiamolo, con Mussolini già morto. Per questi assassini, spesso già condannati all’ergastolo, Togliatti amministrò una amnistia che liberò uomini che avevano compiuto esecuzioni in massa e sanguinosi atti “rivoluzionari”. Questi furono avviati verso la Cecoslovacchia, dopo il 1948, e lì sono rimasti ad addestrare negli anni Sessanta e Settanta i futuri Brigatisti rossi. Oggi, i “gendarmi della memoria”, ci raccontano che i partigiani combattevano solo contro i fascisti e che ammazzarono i fascisti per donarci la democrazia, per liberarci. Questa è una bugia intoccabile che è arrivata fino ai giorni nostri. Prova ne è il fatto che i componenti della Brigata Osoppo, che erano partigiani non comunisti che facevano anch’essi la resistenza, vennero ammazzati a martellate sul cranio in una imboscata perché non accettavano il progetto di invasione sovietica. La strage di Porzus, appunto, è una delle pagine della nostra storia simbolo della verità nascosta. Se in Italia non fossero state presenti le truppe alleate, il bagno di sangue comunista avrebbe raggiunto proporzioni colossali e avrebbe avuto inizio, come già accaduto ad est, una dittatura sanguinaria che avrebbe cambiato per sempre la nostra vita. Questa è la verità. E a lavorare in favore degli stermini e di questo progetto c’erano i partigiani comunisti. Coloro i quali siamo obbligati a celebrare come i nostri eroi in un Paese dove la menzogna è la pietra fondante e dove ad essere celebrati dovrebbero essere i ragazzi di 17 anni prelevati dalla scuola e morti congelati sul Carso, sul Grappa, in Russia per difendere la Patria Italiana. Giovani italiani dimenticati, mai celebrati. I nostri eroi. Dal punto di vista politico, con i suoi continui errori, la sinistra italiana ha trovato nelle tematiche riguardanti la resistenza la vera e propria prigione culturale dalla quale non è riuscita ad uscire, a tal punto da diventare patetica nell’esercizio di una retorica spinta oltre il normale. Prova ne è che, nella dialettica politica, le parole resistenza e liberazione trovano sempre spazio contro l’avversario politico. Questo nel 2015. Una sinistra sempre a matrice culturale comunista che, nonostante i tentativi di apparente cambiamento coadiuvati da cambi di nome del PCI, non ha portato in porto un processo di maturità politica propedeutica a una pacificazione nazionale. Un isterismo e una reazione violenta si sono sempre registrati, nella sinistra italiana, al tentativo di operare, appunto, verso una strada di pacificazione dove tutti i cittadini si sentano figli di una stessa storia e dove le date, come appunto quella del 25 aprile, siano davvero sentite come patrimonio comune. Sfida impossibile ormai. E’ sotto gli occhi di tutti che questa data non è sentita dalla maggior parte della gente. Perchè questa data non è e non può rappresentare una memoria positiva. E non è e non può rappresentare un momento di festa. Solo bandiere rosse, in piazza, e niente tricolori; ci sarà un motivo? A raccontare la verità sulla liberazione ci sono gli stermini comunisti del nord, ma anche tanto da raccontare al sud, con ad esempio le truppe alleate marocchine, quelle della foto in testa all’articolo, che saccheggiarono con violenza intere regioni, stuprando donne e sodomizzando uomini legati agli alberi. Ne avete mai sentito parlare? E’ la storia mai raccontata del marocchinato alleato. Ma anche se non raccontata è la nostra storia, la vera storia della “liberazione” e appartiene a tutti noi. Siamo stati invasi da eserciti stranieri che hanno vinto la guerra e hanno conquistato il territorio risalendo da sud, facendosi largo con i metodi di ogni conflitto: la violenza. Il sistema sanitario nazionale mise a disposizione le condotte mediche per imbastire una grandissima operazione di aborti. Per le centinaia di migliaia di donne stuprate, incinte dei soldati nemici, dei “liberatori”. Queste cose chi le sa? Questa è la verità, con buona pace di tanti politici che presenziano il teatrino che celebra, ogni anno, la menzogna. Siamo l’unico Paese del mondo che festeggia la sconfitta delle seconda guerra mondiale come un giorno di vittoria, fateci caso: è grottesco. Ma anche se questa data è spacciata per gioiosa, anche se a scuola la verità non ce la fanno studiare, per molti nostri concittadini è e sarà sempre una data di morte e di lutto; non solo per i “figli dell’aquila” ma anche, ad esempio, per i figli di quei tanti partigiani non comunisti assassinati. Una parte importante, maggioritaria, dell’Italia non può riconoscersi nel 25 aprile che è quindi festa solo rossa, di divisione; è roba loro! Perché al contrario di quanto propinatoci e fattoci credere, questa data ricorda la sconfitta, l’invasione delle truppe nemiche, gli stupri e le violenze; ed è l’anniversario del tentativo di instaurare in Italia una dittatura comunista. Che fallì. Ecco perché il 25 aprile non è la festa di tutti.

25 APRILE: LA FALSIFICAZIONE SPUDORATA DELLA STORIA. La Storia non si celebra, si studia, scrive Gianfredo Ruggiero il 25 aprile 2015. Ogni anno, con l’approssimarsi del 25 aprile, si susseguono a ritmo incalzante le rievocazioni della guerra di liberazione. E’ un crescendo di manifestazioni, convegni e interventi per celebrare degnamente il sacrificio dei partigiani e di quanti si immolarono per riportare in Italia libertà e democrazia. Le piazze si tingono di rosso e i ricordi della barbarie nazifascista riaffiorano alla mente. Tutto bene tranne che… Dei crimini fascisti oramai sappiamo tutto o quasi, ma del lato oscuro della resistenza, quello fatto di processi sommari, fucilazioni, fosse comuni e di soldati uccisi sui letti di ospedale o prelevati dalle prigioni e freddati con un colpo alla nuca, di violenze e stupri cosa sappiamo? Poco, molto poco. E delle motivazioni, non sempre nobili, che hanno portato i partigiani a coprirsi il volto e a imbracciare il fucile, cosa ci viene tramandato? Praticamente nulla. Conosciamo tutti la triste vicenda dei 7 fratelli Cervi uccisi dai fascisti (è stato perfino tratto un film), ma quanti conoscono l’altrettanto dolorosa storia dei 7 fratelli Govoni, tra cui una donna incinta, fucilati dai partigiani perché uno di essi vestiva la camicia nera? Si ricordano giustamente le 365 vittime della strage nazista delle Fosse Ardeatine, mentre è stata rimossa dalla storia un’altra orribile strage, quella di Oderzo dove, a guerra finita, 598 tra allievi ufficiali e militi della Guardia Nazionale Repubblicana furono fucilati dai partigiani e gettati nel Piave dopo essersi arresi e aver deposto le armi. Di vicende come queste la storia, quella vera, ne è piena.  Non è mia intenzione fare la macabra contabilità dei morti o stabilire chi maggiormente si macchiò le mani di sangue innocente, ma solo contribuire a sollevare quel velo di omertà che copre le malefatte dei vincitori e questo non per spirito di rivalsa, ma solo per amore di verità, perché solo riconoscendo gli errori del passato possiamo evitare di ripeterli in futuro. Messi con le spalle al muro i sostenitori della mitologia partigiana, dopo aver negato per sessant’anni i crimini della loro parte, ora ammettono, a bassa voce e con evidente imbarazzo, che in effetti qualche errore e qualche eccesso ci fu, però – e qui incomincia la solita stucchevole tiritera – da una parte, quella partigiana, c’era chi combatteva per la libertà, mentre dall’altra parte c’erano i sostenitori della tirannide nazifascista. Quindi secondo loro quegli eccessi sono pienamente giustificati dal nobile fine, esattamente come le Foibe, anch’esse nascoste per sessant’anni e poi presentate come reazione all’oppressione fascista. Se devesse prevalere questa logica qualunque crimine, anche il più efferato, sarebbe giustificato. Dipenderebbe solo dalla potenza di comunicazione e dalla forza di persuasione di chi detiene il potere. Per motivi anagrafici non ho conosciuto il Fascismo e anch’io, come la maggior parte degli italiani, sono cresciuto a pane e resistenza avendo appreso la storia in maniera superficiale dai libri di testo, dai programmi televisivi e attraverso la cinematografia imperniata sui soliti luoghi comuni che vede i cattivi da una parte e i buoni dall’altra. Solo che non mi sono accontentato della verità ufficiale – quella scritta dei vincitori – e ho voluto approfondire le mie conoscenze. Il risultato è stato che man mano colmavo i miei vuoti i dubbi aumentavano. Dubbi che a tutt’oggi nessuno è stato in grado di sciogliermi. Il primo dubbio riguarda la definizione dei partigiani quali “patrioti e combattenti per la libertà”. Il movimento partigiano pur essendo variegato e spesso al suo interno profondamente diviso era militarmente e, soprattutto, politicamente egemonizzato dal Partito Comunista Italiano (Pci), all’epoca diretta emanazione della Russia Sovietica da cui prendeva ordine (e denari) tramite Togliatti, stretto collaboratore di Stalin, che infatti viveva in Russia. Obiettivo dichiarato di questi partigiani era quello di fare dell’Italia, una volta sconfitto il fascismo, uno stato comunista satellite dell’Unione Sovietica. Non si capisce quindi su quale base logica e storica i partigiani si possano definire tout court patrioti e combattenti per la libertà. Se l’Italia è oggi una Repubblica “democratica” (sul concetto di democrazia – altro grande equivoco – torneremo) non è certo per merito dei partigiani, ma in virtù della divisione del mondo in due blocchi contrapposti decretata a Yalta nel ’45, da cui scaturì la nostra collocazione nel campo occidentale e la conseguente dipendenza americana. Il contributo dei partigiani alla sconfitta tedesca fu, infatti, del tutto marginale se lo rapportiamo all’enorme potenziale bellico messo in campo dagli alleati. Le fila partigiane s’ingrossavano man mano che l’esercito tedesco si ritirava sotto l’incalzare degli angloamericani. Gli stessi americani avevano una scarsa considerazione dei partigiani e li tolleravano solo perché facevano per loro il lavoro sporco come assassinare i gerarchi fascisti e fare attentati dinamitardi per suscitare la rappresaglia tedesca che fu quasi sempre spietata e spropositata. Il 25 aprile del ‘45 Mussolini era a Milano e solo dopo la sua partenza per trovare la morte a Dongo il capoluogo lombardo fu “liberato” dai partigiani che si abbandonarono ad una vera e propria orgia di sangue contro i fascisti o presunti tali, compresi i loro familiari. Come testimoniano le lapide al Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano che raccoglie le spoglie dei fascisti (di quelle che si riuscì a recuperare, oltre un migliaio) molti dei quali barbaramente assassinati o fucilati ben oltre il 25 aprile e dopo che ebbero deposto le armi. Lo stesso discorso riguarda la Russia di Stalin la quale contribuì in maniera determinante alla sconfitta della Germania nazista, pagando per questo un pesante tributo di sangue, ma al solo scopo di estendere il suo dominio su tutto l’est europeo e non certo per portare in quelle sciagurate terre democrazia e libertà. Non dimentichiamoci poi che l’Unione Sovietica fu alleata della Germania nazista fino al 1941 con la quale si spartì la Polonia due anni prima. Particolare importante che la storiografia ufficiale nasconde – perché farebbe smontare in un sol colpo la tesi di comodo della “lotta della democrazia contro la tirannide” – riguarda la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra all’indomani dell’invasione tedesca della Polonia: fu dichiarata alla Germania, ma non alla Russia pur avendo anch’essa attaccato, da est, la Polonia alcuni giorni dopo. Perché? Evidentemente la Polonia fu solo un pretesto per muovere guerra alla Germania, mentre Stalin, che dopo la Polonia si apprestava ad invadere la Finlandia e ad annettersi le deboli Repubbliche Baltiche con l’assenso occidentale, era considerato già da allora un prezioso alleato, ben sapendo che questi era uno spietato dittatore, che con le sue “purghe” aveva massacrato, deportato nella gelida Siberia e ridotto alla fame milioni di russi, molti dei quali ebrei, definiti “nemici della rivoluzione” (ma questo, evidentemente, alle democrazie occidentali – America in testa – poco importava). Il secondo dubbio riguarda la definizione di “guerra di liberazione”, quando invece fu una classica e tragica guerra civile. I fascisti non venivano da Marte, era italiani come italiani erano i partigiani. In quei lunghissimi 18 mesi la guerra non risparmiò nessuno, attraversò le famiglie e divise i fratelli. La guerra è una cosa tragica e quella civile lo è ancor di più, in queste circostanze gli uomini tendono a perdere la loro dimensione umana per accostarsi a quella bestiale, per cui o stendiamo un pietoso velo e consideriamo tutti i morti uguali e rispettiamo gli ideali che animarono le loro azioni giusti o sbagliati che possano apparire, oppure la storia la raccontiamo tutta e per intero, senza reticenze e convenienze politiche. Altro grande equivoco riguarda la presunta invasione nazista dell’Italia: tedeschi non invasero l’Italia, c’erano già. Dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, il governo Badoglio chiese aiuto dell’alleato tedesco per contrastare gli anglo americani che nel frattempo erano sbarcati in Sicilia. I soldati italiani e tedeschi si ritrovarono, quindi, a combattere spalla a spalla contro l’invasore americano fino all’8 settembre ’43, quando il Re e Badoglio, con estrema disinvoltura e lasciando allo sbando il nostro esercito, passarono armi e bagagli dalla parte del nemico, scatenando l’ira di Hitler. Solo la nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ricostituzione di un esercito lealista cui aderirono, secondo uno studio di Silvio Bertoldi e confermati dai libri matricola, in seicentomila (quanti furono i partigiani è invece un mistero), frenò i propositi di Hitler che aveva previsto il totale smantellamento e trasferimento in Germania del nostro apparato industriale, la deportazione nei campi di lavoro e nelle fabbriche tedesche di tutti gli uomini che si fossero rifiutati di arruolarsi nella Wehrmacht e chissà cos’altro. Le motivazione che spinsero tanti giovani ad entrare nel neo costituito Esercito Fascista Repubblicano furono diverse e non sempre nobili (come spesso accade in questi casi): il rischio di fucilazione per i renitenti alla leva, l’intento di molti militari deportati nei campi di concentramento in Germania di tornare in Italia per poi disertare, la paga e la voglia di protagonismo. Vi aderirono anche fior di criminali, ma la stragrande maggioranza di essi lo fece per riscattare l’onore perduto e per sottrarre l’Italia alla vendetta hitleriana. Questi giovani, uomini e donne, potevano, al pari di molti loro coetanei, aspettare in qualche luogo sicuro che la bufera passasse, oppure andare con i partigiani le cui fila s’ingrossavano man mano che i tedeschi si ritiravano e la vittoria alleata si approssimava. Potevano, ma non lo fecero. Preferirono continuare a combattere, in divisa e a volto scoperto, per quel senso dell’onore che oggi, in epoca di consumismo e individualismo, si fatica a comprendere, consapevoli che le sorti del conflitto erano segnate e che difficilmente ne sarebbero usciti indenni. Furono migliaia e migliaia in tutta Italia i soldati fascisti fucilati dopo la loro resa o condannati a morte dopo processi sommari, come ampiamente documentato nei libri di Gianpaolo Pansa, di Giorgio Pisanò e di Lodovico Ellena, (solo per citarne alcuni). Un capitolo a parte lo meritano le ausiliarie, Il primo reparto al mondo di donne combattenti, addestrate senza nessuna differenza con i loro commilitoni maschi. Il loro tributo di sangue fu altissimo, catturate dai partigiani venivano spesso violentate e uccise.A guerra finita molte di loro, rapate a zero, furono costrette a passare su carri bestiame tra ali di folla inferocita, sottoposte a insulti e angherie di ogni genere. Il terzo dubbio riguarda la modalità di lotta dei partigiani. Mentre i fascisti come abbiamo visto combattevano in divisa e a volto scoperto, inquadrati nelle divisioni dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana o nelle varie milizie volontarie i partigiani, invece, pur potendo anch’essi vestire una divisa – essendo armati e finanziati dagli americani – e pur potendo combattere a fianco dell’esercito alleato o nell’esercito  italiano di Badoglio secondo le regole di guerra, preferirono il passamontagna, i soprannomi e la tecnica del mordi e fuggi a base di attentati, sabotaggi e omicidi alle spalle. Tecnica sicuramente meno rischiosa per loro, ma devastante negli effetti. Il fine era infatti quello di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi eufemisticamente definita di “liberazione”, le cui ferite ancora oggi stentano a rimarginarsi. Non si capisce infine l’ostinazione dei partigiani con la quale insistono a definirsi militari nonostante una sentenza del Tribunale Supremo Militare abbia negato loro tale status, attribuendolo invece ai combattenti fascisti della Repubblica Sociale Italiana Sono questi i dubbi su cui mi piacerebbe si sviluppasse un sereno dibattito, scevro da pregiudizi ideologici e senza reticenze, finalizzato a capire la storia e non solo a celebrarla come purtroppo avviene da oltre sessant’anni.

La memoria. Il 25 aprile divide meno, ecco perché, scrive il 25 aprile 2016 Marco Gervasoni su "Il Messaggero"

Lo dicono tutti: il 25 aprile è ormai spento, non accende più le “grandi passioni”. Meglio così, verrebbe da dire. L’origine della parola “festa” nella nostra lingua rimanda all’idea di “accogliere”, di “ospitare nel focolare domestico”. Ma il 25 aprile non è mai stata una celebrazione condivisa, ha spesso prodotto gli effetti contrari, ha esaltato una divisione degli italiani in nome di memorie contrapposte. Negli anni Cinquanta i governi non rievocavano quella data, lasciandola ai comunisti, che ne fecero una festa dell’antifascismo, buona per rafforzare la loro identità. In seguito si trasformò in una celebrazione della Resistenza, intesa come incompiuta e da attuare, magari con l’incontro tra i “grandi partiti popolari”, la Dc e il Pci. Solo negli anni Ottanta, con il salutare spegnersi delle guerre ideologiche, il 25 aprile sembrò normalizzarsi, anche se caricandosi di una retorica celebrativa fine a se stessa. Poi crollò la repubblica dei partiti, venne Berlusconi, e il 25 aprile ritrovò vita, ma era una vita apparente, perché la festa diventò uno strumento di lotta politica. Molti ricordano il 25 aprile 1994, quando una parte della sinistra cercò di trasformare la celebrazione in una rivincita contro la vittoria elettorale del Cavaliere.

Chi ha tradito il 25 aprile? "Da qualche tempo, il 25 aprile si festeggia sempre più stancamente, tra l'indifferenza generale, tra bande, cortei, bandiere, labari, gagliardetti, con la scorta di un numero sparuto di superstiti partigiani, ormai ultra90enni, che si guardano di sottecchi, quasi sgomenti ed imbarazzati, chiedendosi dove mai si trovino. Il 25 aprile viene ormai celebrato solo come un rito, senza comprenderne, appieno e a fondo, il significato, secondo una liturgia abitudinaria, da officiare, semel in anno. Sale su un palco qualche politico locale, che, spesso, non sa nemmeno, anche per ragioni anagrafiche, che cosa sia mai la Resistenza, e che si profonde in discorsi retorici di circostanza, vani e vuoti, tra slogans ripetitivi e roboanti. Tante orazioni sono tenute da personaggi invischiati in connivenze mafiose e in sporchi intrallazzi politici; poi, l'oratore ridiscende tra i comuni mortali, la banda attacca “Oh, bella, ciao!”, infine, tutto termina a tarallucci e vino, fino al prossimo 25 aprile. E i vecchi partigiani vengono di nuovo rinchiusi in un cassetto, sotto naftalina, per essere riesumati, l'anno seguente; chi è sopravvissuto, beninteso. Non capisco poi l'abitudine di celebrare il 25 aprile con riti religiosi, con tanto di Messe, in cui il sacerdote, dal pulpito, non sa che diamine dire, e che si accoda poi ai vari cortei, con tanto di croce in testa e seguito di chierichetti: mi pare che sia quasi unire “un s-ciopp cunt un cunfesiunàl”, come diceva mia nonna milanese, Trono ed Altare, sacro e profano, politica e religione. Calamandrei esemplifica così lo spirito eroico e di fratellanza del movimento partigiano: “Tra tutti i morti della Resistenza, vi erano seguaci di tutte le fedi: ognuno aveva il suo Dio, ognuno aveva il suo credo: e parlavano lingue diverse, e avevano pelle di diverso colore: eppure, nella libertà, si sentivano fratelli: e quando si trattò di difendere questi beni, ognuno fu pronto, nonostante la diversità di fede e di nazione, a sacrificarsi per il fratello”. E Ungaretti sottolineò

”Qui

vivono per sempre

gli occhi che furono chiusi alla luce

perché tutti

li avessero aperti

per sempre

alla luce”

Questo è ciò che dobbiamo ricordare e tramandare, aldilà delle sterili cerimonie rievocative. Non è da abolire la commemorazione del 25 aprile, ma la sua stanca ripetizione, tra rituali di circostanza. Il 25 aprile non deve limitarsi alla reiterazione e all'ecolalia di parole come Libertà e Resistenza, senza poi trasformarle in prassi civile quotidiana. Altrimenti, la Resistenza scade nell'ironico, direi quasi irriverente, gioco di parole, di “Partigiano reggiano”, di Zucchero. Evitiamo dunque i discorsi retorici improduttivi e le parate inutili.

Tanti caduti partigiani, se ritornassero in vita, oggi, che cosa mai non direbbero, constatando, con amarezza, che hanno sacrificato la loro vita inutilmente?" Franco Bifani

«Via i libri di Pansa dal banchetto per la Resistenza». Sul banchetto nell’atrio centrale della biblioteca comunale “Bassani”, in questi giorni vi sono tanti libri e saggi storici in mostra, a raccontare, in occasione del 25 aprile, la storia della..., scrive il 23 aprile 2016 “La Nuova Ferrara”. Sul banchetto nell’atrio centrale della biblioteca comunale “Bassani”, in questi giorni vi sono tanti libri e saggi storici in mostra, a raccontare, in occasione del 25 aprile, la storia della Resistenza italiana. Una iniziativa non nuova per la biblioteca Bassani, che per eventi di attualità propone agli utenti il materiale della biblioteca. Però, tra i libri esposti sul banchetto in questi giorni, anche quelli di Giampaolo Pansa che hanno innescato una petizione e che ieri aveva raggiunto un centinaio di adesioni. Una petizione proposta da Irina Aguiari per rimuovere i testi di Pansa dal banchetto allestito: tre titoli, "La Grande Bugia", "La Guerra Sporca dei Partigiani e dei Fascisti" e "Il Sangue dei Vinti". «Testi revisioni e negazionisti» scrive la Aguiari, sottolineando che «la biblioteca giustifica tale scelta con la volontà di garantire molteplici punti di vista». «Credo - la motivazione della petizione - che su una dittatura durata un ventennio e una guerra civile per la libertà d'Italia non esistano punti di vista discordanti». «Soprattutto - continua - non in una città in cui gli antifascisti sono stati fucilati, non in una biblioteca intitolata a Giorgio Bassani, non in occasione della Giornata della Liberazione». Nella petizione si parla di «sfregio alla memoria di tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà del nostro Paese (partigiani e civili)». E si conclude «così come nessuno oserebbe (a ragione) porre un testo di Hitler accanto al Diario di Anna Frank, non vedo per quale motivo tale riserbo non venga dedicato anche alla nostra storia». La richiesta di rimuovere i testi- è bene dire - è già stata respinta da Enrico Spinelli, direttore Servizio biblioteche Comune, che spiega: «A mio personale giudizio non ci sono elementi di scandalo poichè Pansa scrive libri, chiunque può analizzarli criticamente e può dire la propria: l’operazione della biblioteca Bassani è corretta, senza faziosità». E commenta: «Le purghe dei libri ricordano anni bui della cultura europea, dico di più: a mio giudizio il 25 aprile, la memoria di Bassani e dei partigiani escono rafforzate dal confronto con quanto scrive Pansa. Quindi ho deciso di respingere la richiesta inoltratami via mail di far rimuovere quei testi dal banchetto».

La sinistra contro Pansa contraddice il senso della Liberazione. "Egregio Direttore, Leggo della triste petizione promossa da Irina Aguiari per rimuovere i libri di Giampaolo Pansa dai banchetti del 25 Aprile, davanti alla biblioteca comunale “Bassani” di Ferrara. Invocare la rimozione di libri richiama tempi bui, nega e contraddice quindi il significato vero del 25 Aprile, ossia la lotta per la Libertà, anche di opinione. Non se ne può più di questo retaggio nostalgico della sinistra, che si è impossessata di una festa di tutti, di una data storica. Ricordo che la Resistenza non l’hanno fatta solo i comunisti, ma tra gli eroi che diedero la vita per liberare il Paese dal nazifascismo ci furono anche liberali, cattolici, liberi pensatori, persone di diversa estrazione e di credi differenti. E’ ora che certa sinistra la finisca di strumentalizzare il 25 Aprile per far propaganda a se stessa. Mio nonno, Gianpietro Fabbri, fu partigiano, non comunista, ma democristiano. Il suo ricordo è il mio orgoglio. Nei circoli Anpi ci si ostina a parlare esclusivamente di "compagni", promuovendo di fatto un falso storico (o, quantomeno, solo mezze verità). E’ ora inoltre che si inizi a parlare di ciò che è accaduto dopo la guerra, e che anche l’Anpi dica la sua a riguardo, per evitare di giustificare ogni tipo di assassinio in nome di un conflitto già finito. Ricordo a questo riguardo episodi come l’eccidio di Argelato: l’esecuzione sommaria, compiuta dai partigiani delle Brigate Garibaldi, di decine di persone, tra cui i sette fratelli Govoni. Esecuzioni precedute da torture e sevizie, a guerra finita. Ricordo anche l’uccisione dei preti e dei seminaristi, vittime della furia ideologica comunista, come il nostro Rolando Maria Rivi, beato della Chiesa cattolica, barbaramente trucidato a 14 anni solo perché indossava l’abito talare. Se Pansa ha tolto dal cono d’ombra argomenti scomodi alla retorica comunista è perché ha a cuore la verità storica. E questo dà valore al 25 Aprile, che è festa di tutti. Non lasceremo che – anche quest’anno – la sinistra si impossessi della festa di Liberazione per la sua bassa propaganda politica. La petizione di Irina Aguiari è la negazione stessa del 25 Aprile. Cordiali saluti". Lettera di Alan Fabbri (Capogruppo Lega Nord in Regione Emilia Romagna) su “Estense”.

Pansa “Il nazismo e il fascismo non sono stati sconfitti dalla Resistenza, ma dagli Alleati”. La voce e l’opinione di Pansa in un intervista di Cesare Martinetti pubblicata su La Stampa il 25 Aprile 2016. «Pansa!». La vociona rimbomba nel telefono al terzo squillo.

Buongiorno Pansa, parliamo della Resistenza?

«Certo, sono anch’io un figlio della Resistenza, me ne occupo e ne scrivo da quasi sessant’anni, ho cominciato con la tesi di laurea che ho discusso nel 1959 a Torino, relatore Guido Quazza, 110, lode e dignità di stampa. Da allora non ho più smesso di occuparmene».

Quanti anni aveva durante la guerra civile?

«Tra gli 8 e i 10, parliamo del ’43-’45. La mia famiglia era genericamente socialista. Se avessi avuto 19 anni con ogni probabilità sarei andato anch’io in montagna».

A combattere il fascismo?

«Sì, ma in Italia nazismo e fascismo non sono stati sconfitti dalla Resistenza. È una verità che non piace a molti, ma è la verità. Sono stati sconfitti dagli Alleati, in particolare dagli angloamericani e non solo. Da migliaia di ragazzi americani, inglesi, canadesi, brasiliani, persino indiani e della Brigata ebraica che sono morti fino all’aprile 1945. Non possiamo dimenticarlo».

E cosa fu la lotta di Liberazione?

«Una guerra civile, un affare di due minoranze. Erano ragazzi di 18-19-20 anni. E si sono trovati in un conflitto bestiale. La retorica resistenziale accredita la ferocia soltanto ai fascisti e certo che erano feroci, ma i partigiani lo sono stati nello stesso modo, hanno compiuto eccidi e torture. È successo in Valsesia – la fonte è uno storico di provata fede antifascista, Cesare Bermani – che due ausiliarie ritenute spie furono uccise facendo esplodere una bomba a mano nella vagina. Ma è solo uno dei tanti episodi».

Perché questa ferocia?

«Dipendeva dal carattere dei comandanti o delle bande, partigiane o fasciste che fossero, ma anche dal tipo di guerra e tra il ’43 e il ’45 ci sono state tante guerre: c’era chi combatteva per liberare il Paese dal fascismo e chi per preparare la rivoluzione comunista. Ci sono stati delitti politici che non verranno di sicuro ricordati tra il 24 e il 25 aprile. C’è stato l’eccidio dei partigiani bianchi a Porzûs, le malefatte della banda Moranino, ci sono stati dei comandanti, veri partigiani, ma non comunisti, eliminati misteriosamente nei giorni della Liberazione».

Pansa, lei dodici anni fa ha pubblicato da Sperling & Kupfer “Il sangue dei vinti”, rovesciando il punto di vista ufficiale e guardando ai fatti dalla parte degli sconfitti, dei fascisti. Perché? Qual era il suo intento??

«Per capire bene le guerre civili non possiamo fermarci nel momento in cui si concludono, uno vince e uno perde. Conoscevo i tentativi di Giorgio Pisanò e i piccoli libri pubblicati da editori sconosciuti. Ma non c’era un racconto organico. Ho fatto un’inchiesta, ho girato mesi, nel Centro ma soprattutto nel Nord Italia, andando a vedere i posti e verificare quello che mi raccontavano. L’unico intento era di fare una cosa che per come la facevo io non l’aveva mai fatta nessuno».

E infatti il suo libro è stato uno scandalo: ma come, Pansa, uno di noi, che si mette dalla parte dei fascisti?

«È successo il finimondo per la reazione dei compagni e dei compagnucci ma anche di altra gente, mi viene in mente Giorgio Bocca, ma è scomparso e non voglio più litigare con lui. La cosa meno cattiva ma più sciocca che mi dissero era che l’avevo scritto per compiacere Berlusconi perché mi facesse nominare direttore del Corriere della Sera. Una cosa ridicola».

Un successo che non le è stato perdonato?

«Il mio caso ha messo allo scoperto un mondo terribile e cioè che una democrazia nata da una guerra civile dovrebbe essere conciliante, riconoscere e non disprezzare il lavoro di uno che viene dalla sua parte, che ha lavorato per tutta la vita in giornali di sentimenti antifascisti, dal Giorno, a La Stampa, al Corriere, a Repubblica per 15 anni, all’Espresso per 17 e che ha attraversato un territorio proibito per raccontare quello che era successo».

Un revisionista?

«Ah quella parola sono stato tra i primi a pronunciarla, il 24 maggio del 1959, in un convegno a Genova, c’era Ferruccio Parri, mi sono alzato e ho attaccato Roberto Battaglia, autore della Storia della Resistenza italiana pubblicata da Einaudi (che Longo aveva corretto, perché troppo intrisa di azionismo), dicendogliene di tutti i colori. L’ex sindaco socialista di Genova ha protestato, ma Parri mi ha lasciato parlare. Poi mi ha chiamato e mi ha detto: hai fatto bene, i giovani devono tirare i sassi nei vetri, i vetri si rompono, vediamo che erano sporchi e andavano cambiati. Poi mi diede 25 mila lire, un assegno rosa del Credito italiano, come una sua personale borsa di studio».

Senta, Pansa, nei suoi libri fascisti e partigiani sembrano stare sullo stesso piano. Perché? Non c’era una parte giusta e una sbagliata?

«Intanto non è vero che metto tutti sullo stesso piano. E poi, che domanda è? La parte giusta era quella della Resistenza. Con una nota a margine. Che il maggior numero delle bande erano delle Garibaldi ed erano comandate da due ossi da mordere, Longo e Secchia, convinti che la guerra di resistenza al fascismo fosse solo il primo tempo. Poi doveva arrivare il secondo… per fortuna grazie a Stalin, a Yalta, a De Gasperi il secondo tempo, dalla dittatura nera a quella rossa, non arrivò mai».

S’è mai pentito di aver scritto quel libro?

«Mai, ne sono orgogliosissimo, ha rotto un tabù, ma mi fa ridere chi dice che si sapeva tutto. Mi fa paura la retorica che esploderà in questi giorni… guai se non si celebrasse il settantesimo, ma chissà cosa dirà Renzi che non sa niente. Vorrei scappare dall’Italia, fare il turista in Australia…».

E invece cosa farà il 25 aprile?

«Come ogni giorno mi alzerò alle 6 e dopo una piccola colazione accenderò il computer e mi metterò a scrivere. È la mia vita, lo farei anche gratis. E poi, come diceva Totò, bisogna insistere: e io insistisco».

25 aprile: basta con l’idea di elevare a Nazione una festa di partito, scrive Emanuele Ricucci il 25 aprile 2016. L’idea di elevare a Nazione una festa di partito. L’Italia è figlia di pochi pregi e tanti errori, è impossibile chiamare democrazia ciò che scrivono solo i vincitori. Fiano e Boldrini: ecco la nuova Resistenza? Nella parolina magica, antifascismo, ormai, c’è un mondo. Un po’ come dire oggi democristiano. Antifascismo è un credo, una mezzo e una missione. Un accessorio vintage, una scusa per tutto e un’offerta promozionale: passa ad antifascismo ed avrai elevazione sociale, culturale, 4 gb al mese, 400 sms e 400 minuti di chiamate. Del fascista – sempre da intendersi come prolungamento naturale di antifascismo, quindi con assoluto disprezzo – oggi ci si da tutti, random. Un modo gretto ed assolutamente superficiale per indicare il male, momentaneo e di qualsiasi forma. Per decentrosocializzare e rendere alla portata di tutti un evento che con il presente non ha più nulla a che fare. Chi sono i nuovo paladini della Resistenza, in una società perennemente a base di antifascismo? I centri sociali, Emanuele Fiano, l’uomo che vuole rendere illegale l’anellino con la croce celtica e maledire a vita il suo portatore o Laura Boldrini, la distruttrice di obelischi, l’apriporte alla Camera dei nonnetti con il fazzolettino al collo e la gita pagata – quelli che almeno mezzo mitra in mano l’hanno tenuto? – In una società liquida in cui il polo d’attrazione è il centro e tutto il resto è anacronismo, l’ideologia è anacronismo e rinnegamento, in cui va configurandosi l’antipolitica populista, canonicamente intesa, nello schieramento del poveraccio popolano costretto sempre alla sofferenza contro il politico di professione, chi è il vero Resistente, qual è la vera Resistenza? Allora stanca da morire la brutalità e l’ipocrisia con cui la retorica militante impone di leggere ancora oggi, nel 2016 disastrato da crisi umane ed economiche continue, nel 2016 della decadenza occidentale, disumanizzante, in cui la Tecnica oltrepassa qualsiasi flusso di coscienza e lobotomizza le masse, il “benedetto” valore della Resistenza. Forse utile a tenere aperti i circoli di quella creatura mitologica definita Associazione Nazionale Partigiani d’Italia? Forse per acchiappare audience in momenti di estrema difficoltà. I crimini fascisti, tutti segnati nel grande libro. Negata la storia. Allora pare che questa disgraziata Italia parta per il lungo viaggio verso la sua maturità solo da dopo la Resistenza. Né il Rinascimento, né il Risorgimento, né il fascismo, ovviamente, né la Grande Guerra, troppo patriottica per essere il riferimento di slancio dell’italica modernità, per essere la protagonista dell’Italia che cresce. Incuranti di alcuni dettagli che giammai potrebbero essere insegnati nelle scuole di ogni ordine e grado. Dal concetto di guerra civile, che mise fratelli contro altri fratelli, che mai si può definire tale, da intendersi invece come Resistenza, come mito della Resistenza, come necessità di Resistenza, come gesta della Resistenza e non come tale, protrattasi anche dopo la cessazione del secondo conflitto. Dal Pci armato che subito dopo la guerra tentava di imporsi, fucili alla mano, per eliminare gli avversari della futura democrazia subito – “Nemici da uccidere sono anche i partigiani bianchi, i militari anticomunisti che hanno combattuto insieme agli Alleati, gli antifascisti liberali, i possidenti, i sacerdoti, i politici moderati, i socialisti riformisti”, quindi non solo fascisti in fuga nelle campagne, scrive Giampaolo Pansa nel suo “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli, 2010) -, approfittando del conflitto ancora caldo, alle parole di Pietro Secchia – una della teste più importanti della Resistenza italiana -, scritte negli anni ‘70, capaci di far intuire un certo scopo: “Particolarmente importante, come indice del nostro orientamento, mi sembra il fatto che già nel settembre 1943 noi sottolineassimo che il nostro obiettivo era la lotta per una democrazia popolare. In seguito si parlerà di democrazia progressiva. Ma sin dall’inizio il nostro obiettivo era chiaro ed esplicito: noi comunisti non ci battevamo per ritornare alla democrazia prefascista” o a quelle del generale Raffaele Cadorna, inviate nel 1945 all’allora Ministro della Guerra, Alessandro Casati: “Il PCI, che conduce il gioco, non nasconde affatto che il suo scopo è di prendere il potere. Per instaurare un regime russo che chiama popolare progressivo. I suoi capi nell’Italia del Nord sono stati addestrati in Unione Sovietica. E sono passati attraverso la trafila delle Brigate internazionali in Spagna e del comunismo in Francia. Dichiarano apertamente di volersi appoggiare all’Urss e a Tito. E recalcitrano al pensiero di doversi sottomettere agli ordini degli alleati occidentali”. Degli omicidi metaconflitto, degli stupri di ragazzine, umiliate e poi uccise – come nel caso di Giuseppina Ghersi -, del “triangolo della morte”, finanche delle crocifissioni – Il ‘triangolo della morte’, una specifica zona del Nord Italia in cui trovarono la fine numerose persone per mano partigiana, di cui non tutte furono legate direttamente al fascismo. Dall’uccisione di Rolando Rivi, poi Beato della Chiesa Cattolica, giovane seminarista di 14 anni, ai sette fratelli Govoni, di cui soltanto due aderirono de facto alla Rsi, facenti parte del secondo ‘Eccidio di Argelato’, compiuto nel maggio del 1945; in entrambi gli accadimenti, persero la vita più di 30 persone. La strage della ‘cartiera Burgo’ a Mignagola, in cui vennero rinvenuti nei pressi della stessa cartiera più di 80 cadaveri occultati da componenti delle brigate ‘Garibaldi’. Oltre ai civili massacrati, vi era Luigi Lorenzi, sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana. Testimoni oculari affermarono che, ancora vivo, fu inchiodato ad una specie di croce formata da due legni e che poco prima di morire disse: “La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano” -, di queste azioni condotte da frange della Resistenza, da componenti della Resistenza e delle varie Brigate appartenenti alla grande famiglia del CLN o del CLNAI, poi riconosciuti con onore unici eroi, unici degni figli dalla futura Repubblica Italiana, non si può e non si deve parlare. Disturberebbe quantomeno la retorica della Resistenza che, invece, deve secondo qualcuno perpetuarsi nei secoli a venire. Tutta fantascienza di cattivo gusto. Solo alcuni esempi. Tranquilli, un parto della fantasia. “Il 25 aprile non è mai stata una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse, che rappresentano legittimamente una parte degli italiani, ma solo una parte, non sono l’Italia. È una festa nata contro “gli italiani del giorno prima”, ovvero non considerava che gli italiani fino ad allora non erano stati certo antifascisti. Non è un festa di tutti gli italiani, perché non rende onore al nemico, anzi nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Oggi c’è una rinnovata enfasi corale per un evento che più si allontana nel tempo, più è lontano dalla sensibilità della gente e più viene imposto mediaticamente. Per cui mi sono convinto che sia necessario ridiscutere il valore di questa festa così come viene concepita”, scrive Marcello Veneziani. Impossibile la riappacificazione nazionale, unico gesto utile a rendere memoria a chi ha ceduto la vita combattendo per un’idea, verso cui dignitosamente va riconosciuta memoria, questo sì. Unico gesto utile a garantire una reale coscienza nazionale, un reale impulso democratico. Per evitare di celebrare la “festa” di una guerra civile – come l’hanno definita Giorgio Pisanò e Claudio Pavone –, per tendere davvero a valori nazionali condivisi.

Per il 25 aprile scoppia la faida tra i partigiani. La Scala concede uno spazio all'Anpi. Un reduce: non rappresenta tutti, scrive Luigi Mascheroni, Lunedì 25/04/2016, su "Il Giornale. La guerra civile, ora, è interna al mondo partigiano. Può sembrare un piccolo episodio ma, a un giorno dalle celebrazioni del 25 aprile, mette a nudo una vecchia contrapposizione - partigiani comunisti che hanno egemonizzato la Liberazione, e partigiani non comunisti sempre rimasti ai margini - che si trascina tra infastiditi silenzi e malumori da 70 anni, e ogni tanto alza la testa. Come ha fatto ieri un «affezionato scaligero» milanese, Carlo Guidi, il quale ha firmato una lettera aperta al sovrintendente del Teatro alla Scala, Alexander Pereira, per esprimere il suo dissenso (e sembra di capire di molti altri frequentatori del Piermarini) da un clamoroso gesto. Ritenuto offensivo. Quale? Avere concesso all'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, l'autorizzazione ad aprire all'interno del teatro una sezione «che si prefigge di promuovere e tutelare i valori della Costituzione». Di per sé, obiettivo nobilissimo. Ma - si chiede il firmatario della lettera, «nipote di partigiano e ugualmente nipote di un combattente della Repubblica sociale» - perché non limitarsi a un richiamo alla Resistenza da parte del Teatro alla Scala (dedicare per esempio una sala a un grande partigiano o promuovere un concerto per l'anniversario della Liberazione) e invece arrivare a coinvolgere l'istituzione scaligera in un sodalizio con un'associazione «che non rappresenta affatto tutti i partigiani d'Italia, ma solo una parte?». «Da sempre l'Anpi è stata la succursale partitica del mito della Resistenza, ovvero quanto di più lontano dalla Liberazione: l'ha trasformata in un valore di partito e non di tutti gli italiani». «Trovo assai grave - è la conclusione della lettera, in cui chi firma promette di non assistere più ad alcuna rappresentazione nel periodo della direzione di Pereira - che un'associazione come l'Anpi, ancora purtroppo non del tutto scevra da logiche di partito e di contrapposizione ideologica, abbia messo un piede nel tempio sacro della musica milanese, dove la politica e lo spirito fazioso dovrebbero essere banditi». Augurandosi di non ritrovarsi «pugni chiusi e bandiere rosse dentro il Palco reale». La Scala, insomma, è la casa di tutti i milanesi, non la sede di un partito. E, se non bastasse, a rovinare la festa del 25 aprile, ecco scoppiare la polemica di giornata, rilanciata ieri dal Corriere del veneto. Il quotidiano ha raccontato di come giorni fa Deris Turri, del direttivo Anpi di Rovigo, sia finito nell'occhio del ciclone con accuse di simpatie per le Brigate rosse (alle quali - detto per inciso - i vecchi partigiani consegnarono molte armi e più di un'idea). E cos'ha fatto, il dirigente Anpi? Ha condiviso sulla sua pagina Facebook la frase «La rivoluzione è un fiore che non muore» accanto al volto di Prospero Gallinari, il brigatista rosso (morto nel 2013) condannato all'ergastolo per una serie di attentati, tra cui il rapimento di Aldo Moro: in totale fu esecutore diretto, con altri brigatisti, di otto omicidi. Titolo del post condiviso dall'esponente dell'Anpi? «Ciao Prospero». Conseguenze: polemiche violente in Rete, richieste di scuse, tentativi di giustificazione («La mia unica colpa è essere da sempre un vero Antifascista») e, infine - probabilmente su pressione dell'Anpi stessa - dimissioni dall'incarico. Buon 25 aprile. A tutti.

MALEDETTO 25 APRILE.

25 aprile tra divisioni e polemiche tra Roma e Milano. Mattarella: “Ricordiamo senza odio né rancore, grati alla Brigata ebraica”. Nella capitale doppio corteo, uno dell’Anpi e l’altro della Brigata ebraica (contraria alla presenza di organizzazioni palestinesi alla sfilata dei partigiani) che ha ribadito: «La storia è qui, il resto sono menzogne», scrive il 25/04/2017 “La Stampa”. Settantadue anni fa hanno combattuto fianco a fianco per liberare l’Italia dal nazifascismo. Oggi si è celebrata quella ricorrenza, una festa di Liberazione sì ma anche di divisione. Così è successo a Roma, dove questo 25 Aprile ha avuto due piazze, una dell’Anpi e una della Comunità ebraica, contraria alla presenza delle organizzazioni palestinesi alla sfilata dei partigiani. A Milano ha prevalso l’unità, non senza qualche contestazione arrivata all’indirizzo della Brigata ebraica da parte dei movimenti anti Israele. Una Milano che il sindaco Beppe Sala ha salutato come «centro di un grande progetto per la pacificazione». 

A Roma le celebrazioni si sono aperte con il ricordo istituzionale al Vittoriano: il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio al Monumento del Milite Ignoto all’Altare della Patria. Ma nella Capitale la divisione ha pesato: Anpi da una parte e Brigata ebraica dall’altra, come preannunciato, nonostante gli appelli all’unità. L’ultimo, oggi a Porta San Paolo, del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti: «Mi auguro che da oggi parta una riflessione per ricomporre tutte le componenti che lottarono per ridarci questa libertà». A via Balbo il vicepresidente della Comunità ebraica romana Ruben Della Rocca ha tagliato corto: «La storia è qui, il resto sono solo menzogne». Il rabbino capo Riccardo Di Segni ha aggiunto: «Il terrorismo che in questi anni sta devastando l’Europa ha avuto una scuola importante e noi sappiamo qual è», e a margine ha spiegato: «Alludevo ai palestinesi». Ma si è anche augurato che «il prossimo anno si torni in piazza insieme». Il valore della memoria «affinché la storia di un passato così buio non torni più» è stato l’auspicio della sindaca Virginia Raggi, che ha partecipato ad entrambi i cortei «con la stessa passione»: «Il 25 Aprile è una festa di tutta l’Italia». Ed è spettato al presidente Anpi Roma Fabrizio De Santis parlare della sua come di una «piazza unitaria e senza polemiche». 

Corteo unitario a Milano dunque, e divieto di sfilare nella zona del cimitero dove sono sepolti i repubblichini per l’estrema destra. Dal palco di Piazza Duomo il presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia ha salutato così i manifestanti: «Eccolo qui il nostro 25 aprile, decine di migliaia di persone in piazza per una festa», ma ha anche ammonito chi «coglie l’occasione per fare provocazioni sciocche e inutili» e «le strumentalizzazioni fatte da chi ritiene l’Anpi inutile perché i partigiani sono sempre di meno: sciocchezze». Il sindaco Sala ha parlato della sua città come «libera, aperta e accogliente»; presenti anche i segretari confederali di Cgil e Uil. 

A Genova sempre Smuraglia ha ricordato a piazza Matteotti che «ci sono ancora troppi fascisti in giro, non importa se con la camicia nera o fascisti dentro. Quanto ci vuole perché lo Stato faccia il suo dovere?». Nel Cosentino vandali hanno danneggiato l’ingresso del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, mentre ad Ascoli Piceno sono state ricordate anche le vittime del terremoto. E ha assunto anche toni contro il razzismo il corteo di Benevento al quale ha partecipato un nutrito gruppo di migranti. A Cagliari un gruppo di donne ha sfilato portando a piedi la bicicletta in ricordo delle partigiane che durante il conflitto davano una mano, spesso come staffette, alla lotta. 

A Torino, al cimitero Monumentale, c’è stato l’omaggio ai caduti con corteo e deposizione delle corone di fiori ai cippi. Ieri sera a Cuneo si è tenuta una fiaccolata in memoria di Giulio Regeni. A Firenze in piazza Unità Italiana è stata deposta la corona di alloro alla base al Monumento ai Caduti di tutte le guerre alla presenza delle autorità. Partigiani, sindacati e sinistra antagonista hanno sfilato insieme. A Napoli cerimonia al Mausoleo di Posillipo e in piazza Carità davanti al monumento a Salvo D’Acquisto. A Bari deposizione delle corone di alloro al sacrario dei caduti d’Oltremare alla presenza delle autorità. A Palermo deposta in mattinata la corona di fiori presso il cippo del Giardino Inglese.  

Il 25 aprile non c'è più nulla da festeggiare, scrive il 26 Aprile 2017 Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano". Dopo 72 anni siamo ancora qui a festeggiare il 25 aprile e a fingere di lottare contro il nazifascismo inesistente. Mi fanno pena quelli che vanno in giro, di qua e di là, a sfilare come se la liberazione fosse avvenuta ieri. Sono quattro gatti esaltati e patetici. Pochi hanno memoria di ciò che accadde alla metà degli anni quaranta e quei pochi lo ricordano per sentito dire. I partigiani erano una sparuta minoranza di italiani ininfluenti ai fini bellici e sono morti quasi tutti per ovvi motivi di età. I sopravvissuti alla dura legge dell’anagrafe, mosche rosse, hanno come minimo 90 anni e non sono in grado di andare in piazza, è già tanto se si reggono in piedi. Le tristi manifestazioni organizzate ieri sono state alimentate dalla più vieta retorica, che può avere emozionato solo qualche nostalgico delle squallide bandiere vermiglie. Spettacoli di una mestizia struggente. La Resistenza ormai va archiviata per quello che fu: un movimento elitario o, meglio, trascurabile in un Paese fino all’ultimo ad alta densità di fascisti. Ovvio, quando poi il baraccone di Benito Mussolini è crollato sotto i bombardamenti degli alleati e le masse hanno constatato (...) (...) che il conflitto era straperso, mentre i tedeschi si incattivivano con la collaborazione dei repubblichini sui partigiani, il vento è cambiato e le simpatie nei confronti del duce si sono trasformate in odio. Resta il fatto che il descritto mutamento è avvenuto nei tempi supplementari concessi al regime azzoppato il 25 luglio 1943 quando il re spedì il capo in camicia nera sul Gran Sasso. Farla tanto lunga col presunto eroismo di quelli all’epoca definiti ribelli, molti dei quali sbandati (incerti se stare coi fasci o coi comunisti, figli della stessa mignotta) serve soltanto a illudersi che gli italiani, subìto per oltre venti anni il giogo sulle spalle, si siano sollevati contro l’oppressore. Diciamola tutta e senza ipocrisia: non fossero arrivati in nostro soccorso gli angloamericani noi saremmo ancora a piazza Venezia irrigiditi nel saluto romano e inneggianti al dittatore, vendutosi a Hitler per un sacco di lenticchie in cambio di orrende leggi razziali e di una alleanza bellica sciagurata. Nella fase terminale della battaglia in Italia non si sono registrati episodi eroici degni di commemorazione. I nostri nonni si sono semplicemente lasciati andare, causa rancori mai sopiti, a una sanguinosa guerra civile ovvero uno squallido regolamento di conti. Risse e vendette che non è il caso di ammantare di gloria. Quanto all’Anpi, Associazione nazionale partigiani italiani, i cui iscritti sono degli zombie, teniamola pure in vita, ma smettiamo almeno di finanziarla con denaro pubblico. Rappresenta soltanto la propria inutilità.

25 Aprile, giorno del rancore, scrive il 25 aprile 2017 Luigi Iannone su "Libero Quotidiano". Il 25 Aprile è la festa più tediosa e incomprensibile dell’anno. E non lo dico per repulsioni tardo nostalgiche o per fatto estetico e avversione visiva a drappi rossi o similari ma perché è una ricorrenza che si dice ‘democratica’ ma discrimina più persone di quante non ne facciano tutte le altre feste comandate messe insieme. Niente di più che un raduno di vincitori che non hanno mai avuto e, tuttora, non hanno umana pietà per i vinti. In Spagna questa vicenda la superarono subito con la Valle de los Caídos. Un solo cimitero affinché fratelli combattenti su fronti opposti potessero riposare tutti, per sempre e in pace. Da noi, no! L’odio resiste imperituro e si alimenta non raramente su una Storia scritta male e commentata e spiegata ancora peggio. Più che festa trattasi di apologia della contrapposizione perpetua che coinvolge tutti, anche le nuove generazioni. Siamo al caos generalizzato sul fronte della corretta interpretazione storiografica ma all’inquadramento e al rigido manicheismo su quello organizzativo: e così ci ritroviamo partigiani che non vogliono la destra di qualunque forma o colore, ebrei che detestano i palestinesi che vorrebbero sfilare nello stesso corteo, progressisti che disprezzano i barbari leghisti, i trinariciuti che allontanano quelli di Forza Italia perché a lungo alleati dei post-fascisti di Alleanza nazionale, e potremmo continuare per decine e decine di righe. Una penosa vicenda che non conosce sosta ed è ancora più paradossale se si pensa che, con tutte le evoluzioni e involuzioni del caso, va avanti dalla fine della Seconda guerra mondiale. In ogni altro luogo della Terra chi si fregia della patente di democraticità e la celebra in una festa nazionale tende sempre ad accogliere e non a separare. Qui da noi è come una festa di famiglia trasformatosi in serata per Vip dove si fa selezione all’ingresso e si impedisce ai cugini, ai fratelli, ai figli, alle madri di prender parte. Non che vi siano fiumane di persone che bramino per entrare in questa annuale orgia del risentimento collettivo, tuttavia la boriosa selezione risulta stantia. È dunque una festa partita male e continuata peggio, qualificatasi per la peculiarità tutta italiana di quelle variegate colorazioni di rosso che imperversano per le strade e saturano di falsità i nostri libri scolastici (chi ricorda, per esempio, che i civili morti sotto i bombardamenti degli Alleati furono in numero maggiore rispetto alle pur deprecabili stragi naziste?); per una bandiera che simboleggia solo da noi, con una inconsueta potenza espressiva, democrazia e libertà mentre in giro per il mondo se ne guardano bene dal tirarla fuori ad ogni piè sospinto. E poi slogan triti e ritriti e linciaggio morale e politico per chiunque osi dissentire di una virgola rispetto al Verbo resistenziale. E non parlo solo di nostalgici e similari ma anche e soprattutto di coloro i quali hanno pure tentato in tutti questi anni di dare un senso al 25 aprile decrittando deficit e sconcezze, falsità storiografiche e reticenze; tentando in pratica di mettere sul piedistallo un minimo di verità condivisa senza far prevalere gli odi di parte o la difesa di una casacca. Qualcuno, per esempio, ricorda mai che il comunismo in tempo di pace ha mietuto più vittime che il nazismo in tempo di guerra? Lo si può fare? È permesso farlo? Invece, non c’è nulla da fare. C’è così tanta retorica in questa festa astiosa e divisiva, nutrimento quotidiano per gli istigatori di odio, che anche solo replicare alle solite nenie diventa atto para-terroristico e passibile di apologia di fascismo. Perché di questo si tratta. Si ostenta una vittoria militare ma allo stesso tempo una superiorità morale, e si nega con inaudita virulenza verbale e fisica la pietà per i morti dell’altra parte e gli sconfitti. E se per le prime due questioni possiamo intenderne le motivazioni primariamente culturali e politiche in un Paese come il nostro dove c’è necessità costante di un nemico, facciamo invece fatica a comprendere il disprezzo umano e il rancore verso combattenti passati a miglior vita oramai settanta anni fa. Molti di costoro, se non la quasi totalità, lottarono per una idea di Patria che oggi farebbe sorridere le giovani generazioni; ma per quello combatterono e non per altro. E molti di quelli che un attimo dopo la caduta di Mussolini si atteggiarono a strenui paladini dell’antifascismo, avevano passato la giovinezza cantando inni ultra-nazionalistici, concedendosi saluti romani a profusione e ascoltando ‘’il capoccione’’ parlare da Palazzo Venezia. Ma anche questa è cosa nota! E siccome la patria e la bandiera fino a qualche anno fa suscitavano l’orticaria a quasi tutti i rappresentanti del mondo cultural-politico-accademico come diretta conseguenza vi era il fatto che coloro i quali combatterono con in testa l’idea di una Patria da difendere fossero considerati degli illusi e degli sconsiderati. Ma queste convinzioni sono state tanto estese e vorticose che il 25 Aprile riesce comunque a oscurare ogni altra festa nazionale. Vi sono stati periodi anche recenti della nostra storia in cui sembrava dovesse fermarsi anche il battito cardiaco di ogni singolo italiano per permettere alle fanfare di ogni paesello di suonare con inaudita potenza Bella ciao. Gli anni dei governi Berlusconi li ricordiamo tutti; sembrava che un’orda di selvaggi in camicia nera si fosse impossessata del Paese e gli echi della lotta partigiana dovevano perciò ridestarsi con rinnovato ascendente su giovani e meno giovani, nelle scuole e nei luoghi di lavoro, alimentati da una grancassa massmediatica sempre prona. Eppure il 25 Aprile segna con un marchio di sangue una ‘guerra civile’. Una lotta armata fratricida dove fatti cruenti e indegni hanno coperto pagine di eroismi e coraggio. Morti innocenti perché dalla parte sbagliata; giustizia sommaria e violenza su donne inermi, colpevoli di aver condiviso brandelli di vita con un fascista e su anziani rei di aver mantenuto fede ad una idea. La Storia farà il suo corso ma in Italia è un scorrere lentissimo, sfiancante. L’antifascismo è infatti sin da subito divenuto religione laica inattaccabile, ma soprattutto strumento per carriere politiche, nelle università e nelle redazioni di giornali. Ecco perché non raramente si alimenta un fascismo virtuale proprio per mantenere in vita il carrozzone dell’antifascismo reale; antifascismo che per anni è stato predicato da coloro i quali esaltavano i carri armati a Budapest, attendevano l’arrivo di ‘Baffone’ o dipingevano il Maresciallo Tito come un buontempone. Gli stessi che ora sono talmente ideologizzati da essere antifascisti senza fascismo e magari erano usi al saluto romano e poi, in fretta e furia, in quella notte del 24 aprile, smisero la camicia nera per indossare quella rossa. Perché ciò che accadde da quella notte in poi è chiaro a tutti. I vecchi camerati divennero i nuovi compagni che, però, da più di mezzo secolo sono inseguiti dai loro fantasmi e scorgono il fascismo dappertutto. Eppure il fascismo è morto. È finito con Mussolini, e non vi potrà essere alcuna riedizione senza il ‘titolare’. Ma se il fascismo è morto e sepolto, l’Italia resiste ed esiste da tempo immemore. Ecco perché è utile ricordare almeno questo ai tanti soloni della democrazia repubblicana: l’Italia non nacque sulle colline insieme ai partigiani ma esisteva da qualche migliaio di anni. Se ne facciano una ragione.

Maledetto 25 aprile, scrive Nini Spirlì Lunedì 24 aprile 2017 su "Il Giornale". Può esserlo, maledetto, un giorno? Se chiudo gli occhi davanti al calendario e lo vivo come dono del Cielo, di Dio, no. Ogni alba è una carezza del Creatore, una possibilità in più di essere Umano e Divino insieme. E anche un qualsiasi 25 aprile è un regalo della Vita. Ma se, invece, ripongo la Corona del Rosario, tengo la mia Bibbia nella sua custodia di cuoio, cerco di dimenticare lo Scapolare che indosso h24 e la missione che dolcemente mi impone, e apro la porta a questa orrenda e incancrenita celebrazione politica e parziale, allora, sì! Questa giornata è maledetta dalle urla di migliaia di famiglie, colpevoli e innocenti, che chiedono giustizia e vendetta. Che odiano ancora perché sanno o perché non sanno. Che si tramandano livore e inimicizia a prescindere. Che meriterebbero, invece, salvifici silenzi. Oblio, piuttosto che ipocrite fanfare e reboanti proclami. Il fascismo è finito. O, forse no. E, se vive, è per “colpa” dei tanti “antifascisti”, che, da oltre settant’anni, si risvegliano ciclicamente per lucidare le aureole e affilare gli artigli. Se il fascismo “morisse”, a loro rimarrebbe ben poca visibilità e notorietà. E, dunque, è bene tenerlo in vita e garantirsi uno spicchio di telecamera. E il 25 aprile, per molti, è una sorta di Natale, di ferragosto, di Domenica di Pasqua. Un appuntamento solenne con la storia; quella che hanno scritto i vincitori, chiaramente. A prescindere da come abbiano potuto vincere. Combattendo o patteggiando, per esempio. Forse, più patteggiando che combattendo. Ma senza voler polemizzare, una cosa resta evidente. Gli animi, anche dopo lo scoccare del secolo e del millennio, non sono sereni. I cuori non conoscono pace. Le menti non hanno trovato la via. La liberazione da cotanto doloroso ricordo non è avvenuta. E la guerra civile continua. Anche nel ventre delle famiglie che, di quella guerra, non solo non ne hanno sentito le mitraglie, ma non ne possono serbare ricordo, perché nate tempo dopo. Molto tempo dopo. Maledetto 25 aprile di divisioni e malanimi. Veri e presunti.

Ma quale festa della liberazione? Oggi siamo più oppressi di prima, scrive il 24 aprile 2017 Andrea Pasini su "Il Giornale". “Se la libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente cose che non vogliono sentire”. Da questo spunto, arrivatomi da George Orwell, mi introduco nel mondo dell’ipocrisia targata 25 aprile. Un sentimento che non si sviluppa soltanto nelle ventiquattro ore dedicate alla Liberazione, ma che permane nella mentalità della sinistra italiana. “È sempre tempo di Resistenza” ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo scorso anno durante i festeggiamenti. “Una festa di speranza ancor di più per i giovani”, l’ha definita invece nel 2015. Speranze di un futuro diverso. Ma quale futuro può nascere con il sostegno inesistente di questa classe politica. Un futuro in cui manca il rispetto per la propria nazione? In cui si canta Bella Ciao ignorando quanti morti, da un fronte all’altro, la storia ci ha portato in dono. Ricordo ancora una frase, di dodici mesi fa, pronunciata dalla più alta carica del nostro Paese: “Battersi per un mondo migliore è possibile e giusto”. Per questo motivo vi dico che serve una nuova giornata della Liberazione. I cittadini italiani si trovano nuovamente ed infinitamente vessati. Serve una nuova Liberazione, ma dall’attuale classe politica. Classe politica egoista ed arrivista capace di riempirci le orecchie con i suoi discorsi composti da bei virtuosismi. Parole che evocano la libertà, la giustizia, l’onestà, ma che nascondo l’orgoglio lugubre di un passato nefasto, lasciando aperto uno spiraglio in direzione del comunismo. Vergognoso. Una bassezza culturale figlia della falsità, incapace di concepire dei limiti. Serve un nuovo 25 aprile, una giornata per celebrare la riconquista della dignità dell’Italia. Una giornata non sia tinta di rosso o marchiata da una falce ed un martello, ma che abbia come punti di riferimento l’abbattimento delle tasse, la distruzione della pachidermica burocrazia e ridoni fiducia ad un popolo sull’orlo del suicidio. Una Liberazione da un governo ingiusto capace solamente di spendere i soldi da noi guadagnati con estremo sacrificio. Danaro, regalato, per mantenere i clandestini, che arrivano in numero sempre maggiore sulle nostre coste. Una Liberazione dalle istituzioni che mantengo i rom tutelandoli ben più degli italiani. Permettendogli di non lavorare, di non pagare le imposte e di usufruire di tutti i servizi per i quali paghiamo uno sproposito. Una Liberazione da un sistema vessatorio a dir poco criminale. Sistema che ci obbliga a pagare senza darci nulla in cambio. Una Liberazione da una politica anti-tricolore che vede i nostri connazionali costretti a vivere nelle automobili o sotto i ponti, mentre ai clandestini viene concessa la possibilità di alloggiare in alberghi. Abbiamo il dovere di batterci per una nazione in cui le istituzioni non siano nemiche delle imprese. Uno Stato volenteroso di aiutare i suoi cittadini a trovare un lavoro, mantenerlo e costruirsi un percorso. Uno Stato che metta gli italiani al primo posto e chiunque purché non sia nato da Bolzano a Palermo. Quale Liberazione può essere festeggiata sapendo che ogni giorno aumenta la povertà nelle famiglie italiane? Partiti di destra, di sinistra e movimenti vari hanno tradito il proprio popolo. Ci fanno credere che la libertà sia nostra, ora e per sempre, dopo essere stata “conquistata” il 25 aprile 1945. Ci tradiscono parlando di speranza, ma il domani racconta di teste chinate e sguardi persi. Sventolano le loro bandiere, mentre un’altra serranda viene abbassata senza che nessuno dica niente. La sovranità e la dignità ci spettano di diritto, questo dobbiamo rivendicare il 25 aprile. Gridandolo forte, con tutto il fiato che abbiamo in gola. È ora di ricordalo a questi politici. È ora di ricordarlo a noi stessi. Serve una rivoluzione per combattere tutto questo schifo che giorno dopo giorno ci sta distruggendo. La nostra storia è in pericolo, le nostre radici e la nostra dignità vanno al macero. Tutto questo ha un unico mandante ed esecutore il sistema politico-finanziario, le lobby che vogliono renderci schiavi, che vogliono portarci via tutto quello che siamo stati in grado di costruire nel tempo. Il lavoro dei nonni, dei padri, degli avi bruciato nel nulla. Noi dobbiamo lottare, non celebrare una festa che non esiste. Quale Liberazione? Quale libertà? Oggi siamo più oppressi e schiavi di prima, ce ne vogliamo rendere conto o no? Vogliamo riprenderci, con coraggio senza avere paura, la nostra vita e la nostra rispettabilità? Perché adesso il problema incombe sulle nostre teste, ma domani a pensarci saranno le nuove generazioni, nonché i nostri figli. Vogliamo costringerli a vivere un’esistenza da vittime? Io no, non ci penso neanche lontanamente. E voglio combattere per riconquistare la vera libertà. 

"La Resistenza è solo un falso mito. La retorica della Liberazione è finita". Parla Arrigo Petacco, giornalista, storico e scrittore. "Sono state dette molte balle". Intervista del 24 Aprile 2016 su “Il Tempo”.

«Il 25 aprile, finché c’è stato il Partito comunista italiano, è stato molto festeggiato. Adesso assai meno perché sulla Liberazione e sulla Resistenza ci hanno costruito sopra un sacco di castelli di carta». A parlare, in questa intervista a Il Tempo è Arrigo Petacco, giornalista, storico, scrittore, autore anni fa della celebre intervista ad Indro Montanelli in cui il giornalista toscano parlò della guerra in Abissinia cui aveva partecipato, dicendo che «era come il West per gli americani: la nuova frontiera, un paese nuovo dove costruirci un’esistenza diversa. Andammo laggiù pure per sfuggire alle liturgie del regime. Ma anche lì arrivarono i gerarchi tronfi e buffoni. Fu il trionfo delle bischerate di Starace. Ci sentimmo traditi».

Petacco, quali sarebbero i castelli di carta?

«Diciamolo chiaramente, se non ci fossero stati gli americani la Resistenza non ci sarebbe mai stata. Si tratta di una retorica enorme e anche di qualche balla. All’epoca al Pci della patria non gliene fregava niente e il gruppo storico dei comunisti "inventò" il mito della Resistenza affinché sembrasse una lotta di popolo».

Non starà esagerando?

«L’hanno fatta in ottantamila partigiani che, poi, non erano neppure comunisti. Io sono stato un partigiano quando avevo 16 anni. Pochi anni dopo la guerra scrissi un libro, senza mitologia, "I ragazzi del 44", la storia di un partigiano un po’ per caso alle prese con problemi più grandi di lui, che mi venne rifiutato. Trenta e passa anni dopo, quando ero divenuto famoso per altre cose, me lo pubblicarono. Mi viene in mente il mito dei garibaldini dopo l’Unità d’Italia».

Che c’entrano i garibaldini con il 25 aprile?

«Ai tempi dell’Unità nazionale i garibaldini erano degli eroi del momento poi, col passare del tempo ne rimase solo uno, ma tutti si dicevano garibaldini. Oggi i partigiani che hanno fatto la Resistenza son tutti morti. O quasi. Ma sul mito della Resistenza, come sull’essere stati partecipi alla spedizione dei Mille ai tempi di Garibaldi, sono state costruite carriere, anche da chi non c’era affatto. Molte persone, io li definisco i partigiani del giorno dopo, ne han fatto una professione, magari con un bel fazzoletto rosso al collo».

Se come lei sostiene la Resistenza è stata un falso mito, perché gli italiani ci credono da così tanto tempo?

«Ci han creduto perché gli italiani son fatti così, come hanno fatto a credere per 20 anni a Benito Mussolini?».

Vuol dire che al popolo italiano piace salire sul carro del vincitore?

«Dopo il Risorgimento i famosi Mille di Garibaldi erano diventati 25mila. È normale salire sul carro del vincitore, lo fanno anche negli altri paesi, solo che in Italia lo facciamo con più entusiasmo».

C’è un libro che avrebbe voluto scrivere e non ha scritto?

«Sulla Resistenza "Il sangue dei vinti", l’ha scritto il giornalista Giampaolo Pansa, sulle esecuzioni e i crimini dei partigiani, un libro che ha avuto successo perché scritto da un giornalista che era visto come un uomo di sinistra».

Che intende dire?

«Che quelle critiche così feroci sulla Resistenza scritte da uno non di sinistra sarebbe state considerate una lesa maestà. Adesso le racconto una confidenza: negli anni Settanta, un editor della Mondadori, mi disse che era arrivato il tempo di scrivere un libro contro la Resistenza, ma io non ho mai avuto il coraggio di scriverlo. Pansa ha scritto la verità, verità che alcuni fascisti avevano già scritto prima di lui ma nessuno ci credeva, penso ad esempio a un fascista come Giorgio Pisanò. Non gli hanno creduto perché era ancora un fascista convinto e lo accusavano di essere un diffamatore».

Sul fascismo ha scritto diversi libri revisionisti. Lo rifarebbe?

«Io ho rotto un tabù, a sinistra mi hanno definito un revisionista, ma io me ne vanto».

Tempo fa sul Blog di Beppe Grillo ha sostenuto che Mussolini non fece uccidere Giacomo Matteotti. Ne è sicuro?

«Mussolini non aveva nulla a che fare con l’omicidio Matteotti, che fu ucciso dai fascisti che volevano impedire a Mussolini di fare un governo coi socialisti. Tenga presente che eravamo nel 1924, prima della svolta autoritaria. Mussolini ripeteva che gli avevano gettato il cadavere di Matteotti tra i piedi. Uno storico serio ha il dovere di spiegare che Mussolini non aveva nessun vantaggio dall’assassinio di Matteotti».

Una previsione: domani per il 25 aprile si riempiranno le piazze?

«In piazza andranno in pochi, la retorica della Liberazione e della Resistenza è finita».

Indro Montanelli: Da una guerra nasce la Repubblica. "La guerra perduta ha cambiato i destini d’Italia. Dal disastro militare fu travolto il fascismo, tra le macerie dell’8 settembre nacque la Resistenza, gli errori e le colpe della monarchia che aveva avallato l’intervento a fianco della Germania nazista portarono alla Repubblica. Sulla restaurata democrazia italiana pesa quest’ombra tragica: d’essere stata figlia della disfatta, e tenuta a battesimo dai vincitori. Circostanze che, sia chiaro, non vanificano i valori della democrazia, e nemmeno quelli della Resistenza, che fu un fenomeno politicamente e moralmente importante; con molte migliaia di morti e molti eroi: ma che fanno dubitare della ragionevolezza — e dell’opportunità — d’un certo trionfalismo ritualistico al quale siamo stati assoggettati. I discorsi enfatici che accompagnano le commemorazioni del 25 aprile 1945 rischiano di suscitare più disagio che consenso. Il 25 aprile segnò l’epilogo di una tragedia nazionale. I Paesi seri non sono usi a festeggiare le sconfitte, e non pretendono di barare con la storia: e la storia colloca l’Italia — beninteso, l’Italia di Mussolini — tra le nazioni che combatterono e persero la Seconda Guerra Mondiale. Poi, dal profondo buio morale del «tutti a casa!» scaturirono fiamme di riscossa, venne la guerra partigiana. Che nacque e si sviluppò perché l’Italia si era arresa, e i Tedeschi ne avevano occupato due terzi, e pretendevano di chiamare alle armi — tramite il vassallo di Salò — dei giovani che non ne volevano sapere. E non ne volevano sapere soprattutto perché la Germania era spacciata. Ho la convinzione che molti Italiani preferirebbero ricordare il 25 aprile con il silenzio, e con un omaggio di fiori ai morti. Nient’altro. Senza voler annoverare tra i fasti militari della storia patria le rese, attorno appunto al 25 aprile, di unità tedesche le quali non chiedevano, da giorni, altro che di arrendersi — e non riuscivano a farlo solo perché v’erano difficoltà tra gli Angloamericani e i Sovietici — e senza mitizzare quell’insurrezione generale dell’Alta Italia che fu un gesto politico — come tale probabilmente giusto — ma che fu scatenata contro il vuoto: Tedeschi e fascisti erano allo sbando, non c’era più nulla contro cui insorgere. Non si tratta di dissacrare. Ciò che di alto e nobile vi fu nella Resistenza resterà per sempre. Si tratta di resistere alle tentazioni della retorica resistenziale. La guerra perduta fu una guerra fascista, da ogni punto di vista. Mussolini decise di precipitarvisi, mentre la Germania hitleriana assestava colpi mortali all’Esercito francese, per non essere escluso dalla divisione del bottino. Lo fece per iniziativa personale, ignorando i sentimenti degli Italiani, e dando per scontata la vittoria tedesca. Entrò nel conflitto portandovi le Forze Armate che il regime ‘guerriero’ aveva forgiato, prescrivendo che ogni ragazzetto dovesse dormire con la testa sullo zaino e il moschetto in mano. Quelle Forze Armate erano inadeguate ai compiti, e anche di questo Mussolini portava la responsabilità. Scadente l’armamento, superati i mezzi (tranne che per la Marina), pessimo l’addestramento, in maggioranza politicizzati, arrivisti, incapaci i comandanti. Arrogatosi il comando delle Forze Armate, sottraendolo al re, il duce non ebbe una sola idea creativa. Cominciò la guerra con due simulacri d’offensiva, contro la Francia agonizzante e in Libia fino a Sidi-el-Barrani; progettò tardivamente e, per volontà di Hitler, finì col rinunciare alla conquista di Malta, che sarebbe stata vitale; volle solo qualche centinaio di morti da buttare sul piatto della bilancia. Poi restò al rimorchio dei Tedeschi, e una volta che volle fare da sé — con la campagna di Grecia — fu il disastro. L’avversario era piccolo, mediocremente armato, ma costrinse a un vistoso ripiegamento o allo stallo le forze prima di Visconti Prasca, poi di Soddu, infine di Cavallero. Dovette accorrere la Wehrmacht a darci man forte. La colpa della catastrofe militare ricade sul fascismo, questo è indubbio. Ma stiamo una volta di più attenti a non autoingannarci, sostenendo — come hanno fatto alcuni storici — che la guerra fu combattuta male dagli Italiani perché era guerra del regime e della borghesia, non di popolo. Se con questo s’intende che la guerra non fu sentita, nulla da eccepire. Se si vuole intendere, invece, che, ove fosse stata sentita, l’Italia avrebbe dato prova di straordinarie capacità militari, da eccepire c’è parecchio. Alle carenze materiali si sommarono carenze morali — o civiche — che non dipendevano da una maggiore o minore popolarità della guerra, ma che a tutti i livelli, cominciando dai generali, venivano di lontano. Erano il frutto intossicato di secoli in cui, per necessità, la furbizia fu il surrogato della forza. Rimane vero che i cattivi comandanti fanno i cattivi soldati. Quanto quei comandanti fossero impari alle loro responsabilità — non per mancanza d’intelligenza, merce che abbonda in Italia, ma per mancanza di carattere — lo si vide nella prova dell’8 settembre 1943. La fuga della famiglia reale e di Badoglio, umiliante, fu probabilmente inevitabile. Ma la calca di alti ufficiali — a cominciare da Roatta, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, cui era affidata la sorte di molte centinaia di migliaia di soldati sparsi in mezza Europa — sul molo di Ortona a Mare, per inerpicarsi sulla corvetta Baionetta, fu una pagina ignobile. Il fuggi-fuggi che serpeggiava nei reparti era assai meno riprovevole dell’abbandono dei capi. Queste viltà furono riscattate da atti di valore di reparti e di uomini. E anche dalla lotta partigiana e dalle imprese del piccolo Esercito del Sud che, a Montelungo e dopo Montelungo, fece bene il suo dovere, tra la diffidenza o almeno l’indifferenza degli ex nemici divenuti alleati. Sulla Resistenza il discorso, già accennato del resto, dev’essere rispettoso e onesto (e si parla della Resistenza post-8 settembre, non dell’antifascismo di più vecchia e genuina data). La sua rilevanza politica fu enorme. Lì si formarono i lieviti che poi ebbero sviluppo nei decenni successivi, i CLN (e il CLNAI) prefigurarono gli schieramenti ideologici del dopoguerra, anche se taluni partiti, come quello d’Azione, ebbero folgorante successo iniziale e rapida morte, composti com’erano da ufficiali senza truppa. La Resistenza migliorò — benché meno, forse, di quanto si pretenda — l’immagine degli Italiani nei confronti degli Angloamericani, cui si poté dimostrare che tanti volontari erano in armi contro i Tedeschi e contro i ‘repubblichini’. Notevole fu anche la rilevanza morale della Resistenza: anche se sbocciò e dilagò — la lealtà ci costringe a rilevarlo — quando il fascismo era caduto per effetto di altre forze e la Germania era irreparabilmente in declino. Scarsa fu, invece, l’importanza della Resistenza italiana dal punto di vista militare, almeno in questo senso: che le scadenze fondamentali della guerra — presa di Roma, sbarco in Normandia, crolli tedeschi sul fronte russo — non furono influenzate dalla Resistenza italiana, ed è facile capire perché. Erano in azione i più potenti eserciti che la storia dell’umanità avesse mai conosciuto, e la sorte della Germania veniva decisa sui fronti occidentale e orientale. Infatti, la Linea Gotica era ancora salda, e i Tedeschi tenevano in pugno il Nord Italia, quando già le armate angloamericane e sovietiche calpestavano il suolo tedesco. Questa è la verità: che va onorata anche quando contraddice una consolidata mitologia, anche quando ha risvolti amari". Indro Montanelli, Da una guerra nasce la Repubblica, in C. Graffigna (a cura di), Italia: Ventesimo secolo, Selezione del Reader’s Digest, Milano 1985, pp. 298-299

Resistenze. Penso per prima cosa al mio professore di liceo, che ci diceva: “Liberazione, ma da chi?” Scrive Salvo Vitale il 25 aprile 2017 su "Telejato". In realtà, a quella data, cioè nel 1945, noi siciliani eravamo stati “liberati” da un pezzo, pochissimi i colpi sparati, nella marcia degli americani da Gela a Palermo. Qualche scaramuccia più cruenta si era avuta nel catanese per la presenza di un forte contingente tedesco che gli americani avevano scaricato sulle spalle degli inglesi. Non ci eravamo liberati dal nemico, sol perché numericamente insufficiente ad affrontare l’offensiva alleata, e che, pertanto si era ritirato, come i soldati borbonici davanti a Garibaldi, non ci eravamo liberati da noi stessi, perché nessuno aveva usato un’arma, non ci eravamo liberati dai fascisti, perché erano quasi tutti rimasti ai loro posti diventando collaborazionisti. E soprattutto non ci eravamo liberati dalla mafia, che aveva spianato la strada agli americani e aveva in cambio ricevuto lucrosi affari e incarichi. Il momento della liberazione parve invece essere arrivato due anni dopo, quando, il 20 aprile 1947 il Blocco del Popolo vinse le elezioni. Sembrava che tutto dovesse cambiare: c’era la fame di terra, la promessa di distribuzione delle terre incolte, la volontà e la capacità di organizzare le lotte per la conquista dei feudi da parte di alcuni sindacalisti, disposti a mettere a rischio anche la propria vita. Può essere affascinante l’ipotesi che la nostra Resistenza sia stata quella, ma che si sia tragicamente realizzata con la strage di Portella della Ginestra e con lo sterminio di una quarantina di sindacalisti. E a questo punto le differenze cominciano a delinearsi: la Resistenza era stata una “lotta armata”, oltre che un’insurrezione o una lotta di popolo contro un nemico interno, il fascismo, e contro il suo alleato esterno, il nazismo. La Resistenza aveva avuto un supporto logistico da parte degli alleati, che avevano rifornito di armi e assistenza alcuni nuclei più agguerriti, diffidando comunque dei gruppi troppo orientati a sinistra. La Resistenza aveva potuto usufruire di un forte comitato di Liberazione, attorno al quale si erano stretti tutti i nuclei antifascisti. Nulla di tutto questo invece nelle lotte contadine per la conquista delle terre del biennio 46-48. I contadini si battevano per il rispetto della legalità, ovvero per l’applicazione di una legge dello stato, i decreti Gullo. Non avevano armi, ma solo la loro voglia di lottare insieme contro i gabelloti, ovvero contro il braccio armato dei grandi latifondisti. Il P.C.I. e il P.S.I, a parte il grande dispendio di forze impiegate nella creazione di strutture organizzative (Federterra, Federbraccianti ecc.) non avevano potuto e saputo dare, ma non poteva essere altrimenti, una carica offensiva e difensiva forte che potesse fungere da risposta alle prepotenze armate dei mafiosi. Lo Stato se ne stava a guardare, potendo i mafiosi contare su tutta una serie di complicità che andavano dall’ordine pubblico all’amministrazione della giustizia, al controllo dei voti nelle campagne. A chiudere il cerchio l’atteggiamento americano, che mai avrebbe permesso, dopo gli accordi di Yalta, la creazione di una regione gestita dalle sinistre al centro del Mediterraneo. E così, quella che poteva essere una vittoria che avrebbe segnato la fine della mafia, si tramutò in una sonora sconfitta e nella perpetuazione del sistema atavico di controllo delle campagne e dei lavoratori. Si può chiamare questa la “nostra resistenza”? Erano partigiani i contadini in lotta? Qualcuno ci provò: Placido Rizzotto, per esempio, proveniva dall’esperienza partigiana al nord e su questa traccia stava cominciando ad organizzare i contadini. Anche di Giuseppe Maniaci, sindacalista di Terrasini, si sa che non era disposto ad accettare alcuna prepotenza. Tutto questo avrebbe significato lotta armata, cioè autentica Resistenza contro un nemico interno, la mafia, altrettanto feroce quanto i fascisti. Non fu così perché le condizioni per una guerra armata erano tramontate e perché i dirigenti contadini lottavano per il trionfo della giustizia dello stato. Adesso ha un senso definire partigiani tutti coloro che si impegnano nella lotta alla mafia? Non c’è dubbio che essere partigiano è qualcosa di affascinante, ma molto lontano dalla realtà, perché i mafiosi usano la pena di morte, mentre gli inermi cittadini, ma anche lo stato, si attengono alle norme della società civile, a meno di non indulgere a pericolose complicità. Perso in questa domanda scrivo qualcosa…

Partigiano d’altra sponda ho conosciuto mafiosi, anziché fascisti, la differenza non era poi molta:

stesse indicibili violenze, stesso sistema di paura, stessa scientifica teoria del silenzio, stesso teschio come simbolo.

Sempre col vecchio dilemma, se rispondere allo stesso modo o se scegliere la non–violenza,

se subire l’esercizio del ricatto e sperare nella protezione dello stato, oppure organizzare passaggi di lotta dura.

Nella teoria del rosso si amalgamano le arance, i gelsi, il melograno, il pomodoro, il sangue.

Ogni giorno trangugi la bibita e ti predisponi all’assuefazione.

Nei casi di ordinaria eversione c’è l’emarginazione, per la scheggia impazzita c’è l’eliminazione.

D’improvviso mi ricordo che il 25 aprile 1977 Radio Aut metteva in onda le prime prove di trasmissione. Sono passati appena tre anni e quella che poteva essere una micidiale arma d’offesa, in fin dei conti si è ridotta a sparare proiettili a salve, un pesce costretto a boccheggiare per mancanza d’ossigeno, di linfa vitale. Ogni velleità ha finito con il fare i conti, con il dileguarsi, davanti al muro invalicabile che ci è stato costruito attorno. Reagisco alla sensazione d’impotenza mettendo sul piatto canti di resistenza e canti di lotte sociali d’ogni tipo, a cominciare da “Contessa”. (Da Salvo Vitale “Cento passi ancora” Edizioni Rubbettino)

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Gli antifascisti che non vinsero. La sorte amara di Giustizia e Libertà. A 80 anni dall’assassinio di Carlo Rosselli e del fratello Nello un libro di Marco Bresciani ripercorre le vicende di intellettuali che cospirarono contro il regime di Mussolini, scrive Paolo Mieli il 2 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Il nome veniva dal rovesciamento di quello del gruppo anarchico fondato a Napoli nel 1865 da Michail A. Bakunin: «Libertà e Giustizia». La nascita è databile all’agosto del 1929, quando giunsero a Parigi Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Saverio Nitti, evasi dal confino di Lipari. Ad accoglierli trovarono Gaetano Salvemini, Alberto Cianca e Alberto Tarchiani. A loro si sarebbero nel tempo aggiunti Umberto Calosso, Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Augusto Monti, Silvio Trentin, Vittorio Foa, Aldo Garosci, Leone Ginzburg, Andrea Caffi, Michele Giua, Max Ascoli, Franco Venturi e molti altri. Nessun gruppo o partito dell’epoca ebbe una concentrazione di cervelli di pari livello, sottolinea Marco Bresciani nelle pagine iniziali del saggio Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà, pubblicato da Carocci. Fondamentale fu per GL la generazione che si era formata all’inizio del Novecento, tutti grandi lettori de «La Voce», la rivista che Giuseppe Prezzolini fondò nel 1908. Le biografie politiche dei giellisti, scrive Bresciani, «erano accostabili, per certi versi e almeno per un tratto, a quelle di non pochi fascisti della prim’ora: la lontana ascendenza, o comunque la lealtà all’album di famiglia mazziniano; l’adesione al mito di una nuova rivoluzione nazionale; la passione interventista militante; l’avversione per il massimalismo socialista e la rivendicazione combattentistica postbellica». Fondamentale fu per tutti loro l’avversione all’esperienza di governo del liberale Giovanni Giolitti. La cultura di inizio Novecento, sostiene Bresciani, «trovò nell’antigiolittismo un comune denominatore (negativo)». Sotto la pressione dell’esperimento giolittiano di nazionalizzazione e insieme di democratizzazione del Paese, «si aprì una faglia profonda tra la classe dirigente liberale e classe intellettuale, che l’interventismo prima, il fascismo e l’antifascismo poi, in vario modo avrebbero cercato di ricomporre». La cultura antigiolittiana, con tutti i suoi strascichi, «fu il terreno d’incubazione dell’uno come dell’altro, depositando e accumulando molti dei materiali più innovativi — ed esplosivi — del nuovo secolo». La «virulenta critica antigiolittiana» e la «bruciante passione interventista» lasciarono nell’opinione pubblica «tracce ambigue (se non torbide), che riaffiorarono nella campagna per il rinnovamento della politica nazionale postbellica». Del resto ancora nel 1958 Salvemini ricordava che, nel 1922, ai tempi della marcia su Roma, tra Mussolini e Giolitti avrebbe scelto il primo. E non era l’unico. Ernesto Rossi aveva collaborato al «Popolo d’Italia», il quotidiano del movimento fascista, dal 1919 al 1922. Silvio Trentin, nel 1919, guardava a Mussolini come «artefice sicuro della rinascita» nazionale. Nicola Chiaromonte — come scrisse poi nel libro Il tarlo della coscienza (il Mulino) — fu in una fase iniziale attratto dalla figura di Mussolini. Identiche suggestioni ebbe Ferruccio Parri. Augusto Monti si spinse ad apprezzare le «buone intenzioni» mussoliniane. Anche coloro che sarebbero poi approdati ad una «versione intransigente di antifascismo» — è il caso di Rossi e Ascoli — furono a lungo esposti alla tentazione di guardare al fascismo come «rivolta generazionale». Paradossalmente la storia di GL e quella del fascismo, quantomeno nella sua fase iniziale, sono «indissolubilmente intrecciate»: ed è proprio su questo «comune terreno» che si possono «meglio comprendere le ragioni della loro contrapposizione». Dopo questa infatuazione iniziale, i giellisti adottarono la tesi di Piero Gobetti che identificava nel fascismo «l’autobiografia della nazione». Ma — come fece osservare uno di loro, Nicola Chiaromonte — si trovarono in contraddizione con la tesi gobettiana quando nell’ottobre del 1929 Rosselli, Lussu, Rossi e Tarchiani appoggiarono, nell’ottica del tirannicidio, l’attentato di Fernando De Rosa al principe Umberto. La difficile condizione di «fuorusciti» alimentò tra loro polemiche virulente. La collaborazione di GL con gli altri avversari del regime fascista — come è ben documentato nella Storia della Concentrazione antifascista di Santi Fedele (Feltrinelli) — suscitò le perplessità di Salvemini, emigrato a Boston, che raccomandava a Rosselli di lavorare piuttosto con i «giovani» e i «giovanissimi» rimasti a vivere sotto il regime. Ad un tempo i giellisti furono criticati da Togliatti, che su «Lo Stato Operaio» nel settembre del 1931 scriveva: «I quadri intermedi piccolo-borghesi di Giustizia e Libertà non hanno più davanti a sé, oggi, altra prospettiva che quella di dare il cambio ai limoni spremuti del riformismo». E persino da Max Ascoli che, emigrato a New York, accusò i suoi amici di essere inclini «ad agire prima che a pensare» e di assomigliare (nei loro ragionamenti) ai fascisti. Anche Chiaromonte obiettò che il loro antifascismo stava diventando una sorta di «fascismo a rovescio». Analoghi rilievi vennero da Umberto Calosso. Rosselli, e Lussu, Salvemini e Trentin, Rossi e Ascoli, scrive Bresciani, «avevano faticato a decifrare la novità e la radicalità del fascismo nella strisciante guerra civile del 1919-22». Una cultura «impregnata di umori antigiolittiani, di ardori interventisti e di slanci combattentisti», non aveva loro consentito di mettere bene a fuoco il fenomeno. Anzi, i «cascami impolitici» di quella cultura li aveva spinti a «identificare ogni esito della crisi postbellica con la stagione di Giolitti o anche solo a sottovalutarne la significativa discontinuità». Alcuni di loro «avevano stentato a riconoscere l’effettiva minaccia incombente sulle istituzioni liberali e parlamentari». Altri si erano lasciati suggestionare dal «messaggio di rinnovamento radicale del movimento di Mussolini». Ma una volta che ebbero maturato un convincimento antifascista, presero il regime sul serio e furono — soprattutto Salvemini e Trentin — «più attrezzati a comprenderlo di quanto non lo fossero tanti socialisti, comunisti e liberali». Nell’aprile del 1934, però, Salvemini accusò Rosselli di essere sempre di più «un fuoruscito… vivente di sogni e di parole astratte». E, stimolato da questa lettera, nel novembre di quello stesso anno così Rosselli elencò e stigmatizzò gli errori degli antifascisti: «Presentare il fascismo come in procinto di cadere da un istante all’altro; esagerare l’importanza dei movimenti esistenti; impiegare un tono roboante, minaccioso; esagerare nelle critiche di dettaglio e nello scandalismo, anziché attaccare le fondamenta e guardare all’insieme; condurre le requisitorie su motivi prevalentemente sentimentali o sulle violenze del passato; assumere verso coloro che stanno ancora nel Paese il tono di una aristocrazia antifascista; aver l’aria di difendere la così detta democrazia prefascista o le pseudo-democrazie esistenti; negare alcunché si sia fatto di utile sotto il regime; contestare a Mussolini ogni qualità, oppure, con esagerazione opposta, risolvere il fascismo in Mussolini; non insistere abbastanza sull’elemento positivo dell’antifascismo». Si distingue già allora Calosso il quale — «con spirito di raro anticonformismo», scrive Bresciani, e «infrangendo ogni canonico schema di classe» — riconosce che il reclutamento fascista è stato «anche contadino e operaio fin dalle origini», sicché è impossibile negare «le radici popolari del fascismo». La parte del movimento rimasta in Italia nel frattempo fu devastata dalle delazioni e dalle due retate torinesi, quella dell’11 marzo 1934 e quella del 15 maggio 1935, che misero fuori combattimento Leone Ginzburg, Carlo Mussa Ivaldi, Carlo Levi, Sion Segre, Vittorio Foa, Massimo Mila, Michele Giua, Augusto Monti, Franco Antonicelli, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Piero Martinetti, Giulio Einaudi, Ludovico Geymonat. Ed è qui che arriva il momento dell’apertura ai comunisti. Per quel che riguarda il regime dell’Unione Sovietica, il più lucido appariva Andrea Caffi che già nel 1932 , dopo aver definito la rivoluzione d’Ottobre «un positivo, generale sollevamento delle masse popolari», considerava il regime staliniano «un grandioso meccanismo per la coercizione e lo sfruttamento degli individui», notava le sue «evidenti affinità con i mostruosi parti dell’epoca nostra» e metteva in guardia dall’Unione Sovietica che, invece di costituire «un contrappeso ai regimi di reazione capitalistica», stava diventando «un elemento di questa costellazione reazionaria». Nella Vita di Carlo Rosselli (Vallecchi) Aldo Garosci nota come, invece, i giudizi del leader di Giustizia e Libertà dal 1934 in poi siano molto più generosi nei confronti dell’esperimento comunista. Bresciani attribuisce a Rosselli un corsivo redazionale comparso su «Giustizia e Libertà» (gennaio 1935) nel quale, in evidente polemica con Caffi e con Lionello Venturi, che aveva sottolineato le somiglianze tra i regimi fascista e comunista, è scritto: «Si possono combattere la dittatura russa e i suoi sistemi: non si deve però mai dimenticare che questa dittatura scaturisce dalla più grande rivoluzione del mondo moderno, si esercita su un Paese profondamente rinnovato e offre un vasto bilancio di opere per cui ogni parallelo tra dittatura russa e dittatura fascista è viziato alla base». La guerra civile spagnola, fin dagli inizi nel 1936, fu per Rosselli occasione per adottare quello che Bresciani definisce «un linguaggio insolitamente brutale, disponibile a giustificare qualsiasi violenza in chiave antifascista». Cosa che lo portò a scontri con Caffi, Lussu e Garosci. E, all’epoca dei processi staliniani, in Rosselli continuava ad affiorare, secondo Bresciani, «l’intrico di tentennamenti e cedimenti verso l’esperimento sovietico e il regime staliniano». Nei suoi scritti «si registrava una sempre più netta identificazione di anticomunismo e fascismo». La condanna delle «pratiche terroristiche» di Stalin si fece sempre più «fioca». Rosselli fu ucciso, assieme al fratello Nello, nel bosco di Bagnoles-de-l’Orne da fascisti italiani e francesi, secondo modalità ben esposte da Mimmo Franzinelli in Il delitto Rosselli 9 giugno 1937: anatomia di un omicidio politico(Mondadori). Morì che aveva da poco dato alle stampe un lungo saggio dal titolo Per l’unificazione del proletariato italiano, nel quale proponeva una sorta di partito unico dell’antifascismo. Ma, nonostante molti incontri tra giellisti e comunisti del calibro di Giuseppe Berti, Eugenio Curiel, Ruggero Grieco, quel che accadde in Spagna nella seconda fase della guerra civile, in Unione Sovietica e soprattutto le conseguenze del patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, resero poco concreta la prospettiva da lui indicata. Alla notizia dell’accordo tra Hitler e Stalin, Cianca e Garosci scrissero per il giornale del gruppo un editoriale dal titolo esplicito: Crisi di un ideale. Infine il Comitato direttivo di GL si disperse nel giugno del 1940, al momento in cui le truppe di Hitler fecero il loro ingresso nella capitale francese. Ma il lavoro di questo straordinario gruppo di attivisti antifascisti e intellettuali raffinati ebbe eco nel Manifesto di Ventotene (scritto da Spinelli, Rossi e Colorni al confino, tra l’inverno del 1941 e la primavera del 1942) e nel Partito d’Azione fondato a Roma, in clandestinità nella casa di Federico Comandini, il 4 giugno del 1942. Anche se, precisa Bresciani, la storia del Pd’A deve essere tenuta «ben distinta» da quella di Giustizia e Libertà. Dopodiché, constata lo storico, nel dopoguerra gli ex giellisti «si presentarono (e si sentirono) più come vinti che come vincitori». A un suo personaggio — Andrea Valenti identificabile con Leo Valiani — Carlo Levi, ne L’Orologio (Mondadori), fa dire: «Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al governo e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi, chissà, forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima». Sarebbe andata proprio così. Ma Levi lo aveva capito già nel 1950. Il libro di Marco Bresciani Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà (Carocci, pagine 237, e 27) viene presentato il 4 maggio a Torino (ore 16.00) presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza (Istoreto) da Andrea Ricciardi. L’incontro fa parte dell’iniziativa «Giellismo e azionismo. Cantieri aperti» (4-5 maggio), che è ormai un appuntamento fisso per lo studio di questo filone politico. A Bresciani è stata assegnata la prima edizione del premio Giorgio Agosti, creato nell’ambito dei «Cantieri», a pari merito con Renato Camurri, curatore del volume Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo (Marsilio). Tra i libri su questi temi: Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli (Vallecchi, 1973); Santi Fedele, Storia della concentrazione antifascista (Feltrinelli, 1976); Mario Giovana, Giustizia e Libertà in Italia (Bollati Boringhieri, 2005).

Giustizia e Libertà. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giustizia e Libertà fu un movimento politico liberal-socialista fondato a Parigi nell'agosto del 1929 da un gruppo di esuli antifascisti, tra cui emerse come leader Carlo Rosselli. Il movimento era vario per tendenze politiche e per provenienza dei componenti, ma era comune la volontà di organizzare un'opposizione attiva ed efficace al fascismo, in contrasto con l'atteggiamento dei vecchi partiti antifascisti, giudicati deboli e rinunciatari. Il movimento Giustizia e Libertà svolse anche un'importantissima funzione di informazione e sensibilizzazione nei confronti dell'opinione pubblica internazionale, svelando la realtà dell'Italia fascista che si nascondeva dietro la propaganda di regime, in particolare grazie all'azione di Gaetano Salvemini, che era stato l'ispiratore del gruppo e il maestro di Rosselli. Alla fine del 1926, Carlo Rosselli, antifascista, iscritto al Partito Socialista Unitario (PSU) di Filippo Turati e del compianto Giacomo Matteotti, allievo del liberal-socialista Gaetano Salvemini, venne arrestato e condotto prima nel carcere di Carrara e in seguito in quello di Como.

Nel dicembre del 1926 fu deliberato nei suoi confronti il provvedimento di confino per 5 anni da scontare a Lipari. Tentò la fuga più volte, senza successo. Solamente il 27 luglio 1929, a bordo di un motoscafo, assieme ai compagni di confino Francesco Fausto Nitti e Emilio Lussu (avvocato e leader del Partito Sardo d'Azione), riuscì nell'impresa e, il 1º agosto, via Marsiglia, raggiunse Parigi. Rosselli e Lussu si trasferirono all'Hôtel du Nord de Champagne, a Montmartre; qui, dopo pochi giorni, ebbe i natali il movimento Giustizia e Libertà, grazie anche al contributo di altri fuoriusciti antifascisti, tra cui proprio Salvemini, residente in Saint-Germain-en-Laye presso l'abitazione del giornalista Alberto Tarchiani. Il simbolo del movimento - una fiamma, con nel mezzo le sigle G e L - fu disegnato da Gioacchino Dolci, un altro esule che aveva partecipato all'organizzazione dell'evasione di Rosselli da Lipari. Oltre agli esuli succitati, aderirono al nuovo movimento anche Alberto Cianca, Raffaele Rossetti, Francesco Fausto e Vincenzo Nitti. I triumviri incaricati di guidare il movimento furono Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Alberto Tarchiani.

Giustizia e Libertà non nasceva come partito, ma come movimento rivoluzionario e insurrezionale in grado di riunire tutte le formazioni non comuniste che intendevano combattere e porre fine al regime fascista, cavalcando la pregiudiziale repubblicana. Così si apriva il primo numero del periodico pubblicato dal gruppo: «Provenienti da diverse correnti politiche, archiviamo per ora le tessere dei partiti e fondiamo un'unità di azione. Movimento rivoluzionario, non partito, "Giustizia e libertà" è il nome e il simbolo. Repubblicani, socialisti e democratici, ci battiamo per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale. Non siamo più tre espressioni differenti ma un trinomio inscindibile.» L'obiettivo di "Giustizia e Libertà" era quindi quello di preparare le condizioni per una rivoluzione antifascista in Italia che non si limitasse a restaurare il vecchio ordine liberale, ma in grado di creare un modello di democrazia avanzato e al passo con i tempi, aperto agli ideali di giustizia sociale, sapendosi inserire nella realtà nazionale e in particolare raccogliendo l'eredità del Risorgimento. Riprendendo le idee di Piero Gobetti, di cui era stato collaboratore, Rosselli considera il fascismo una manifestazione di antichi mali della società italiana e si propone quindi non solo di sradicare il regime mussoliniano, ma anche di rimuovere le condizioni politiche, sociali, economiche e culturali che lo avevano reso possibile. Il motto, coniato da Lussu, era "Insorgere! Risorgere!" e anche - come recita il primo bollettino mensile di GL - "non vinceranno in un giorno, ma vinceranno": anche se non saranno tutti loro i diretti testimoni di questa vittoria, lo sarà l'Italia repubblicana. Nel 1930 Carlo Rosselli pubblicò a Parigi, presso la Librairie Valois, il testo teorico del movimento, Socialisme Libéral, scritto l'anno precedente a Lipari; il testo sarà per la prima volta ristampato in Italia nel 1945, a cura di Aldo Garosci. Secondo Norberto Bobbio, gli intenti e le conclusioni a cui Carlo Rosselli vuole giungere sono, prima tra tutte, la necessità di una "rottura tra marxismo e socialismo" e, dunque, la possibilità di essere socialisti senza essere marxisti. Se il socialismo era stato considerato, in modo peculiare dal movimento operaio italiano, inscindibile dal sistema marxista, era giunto il tempo di riconsiderare il suo ruolo alla luce di una compatibilità possibile con il liberalismo: «Il socialismo inteso come ideale di libertà non per pochi ma per i più, non solo non è incompatibile con il liberalismo, ma ne è teoricamente la logica conclusione, praticamente e storicamente la continuazione. Il marxismo, e ancora una volta bisogna intendere per marxismo una visione rigorosamente deterministica della storia, ha condotto il movimento operaio a subire l'iniziativa dell'avversario, e una sconfitta senza precedenti.» (Carlo Rosselli.)

In una lettera a Garosci, Gaetano Salvemini, al contrario, stroncò senza riserve il socialismo liberale di Rosselli e non si astenne dal definirlo come «l'eruzione vulcanica di un giovane entusiasta e non un'opera critica, equilibrata e sostanziosa in cui era incapsulata una idea fondamentale: la ricerca di un socialismo che facesse sua la dottrina liberale e non la ripudiasse o assumesse di fronte ad essa una posizione indifferente o equivoca». Dopo la confluenza del partito donde proveniva Rosselli, il PSULI di Turati, Treves e Saragat, nel Partito Socialista Italiano di Pietro Nenni (luglio 1930), Giustizia e Libertà iniziò a conformarsi come un vero e proprio partito politico. In tale ottica, Rosselli stipulò un accordo con il Partito Socialista che riconobbe in GL "il movimento unitario dell'azione rivoluzionaria in Italia". Nell'ottobre del 1931, tale accordo fu esteso alla Concentrazione Antifascista, un'associazione di partiti antifascisti alla quale aderiva anche il Partito Repubblicano Italiano. Ciò sancì l'ingresso di Giustizia e Libertà nella "Concentrazione" e l'inclusione della stessa nel comitato esecutivo dell'organizzazione, composto da tre elementi in rappresentanza del PSI, del PRI e di GL, scelti di comune accordo. La Concentrazione Antifascista sembrò così conformarsi come un'associazione di tre forze politiche autonome e paritarie. L'accordo tra le tre formazioni politiche fu, tuttavia, ben presto segnato da numerosi contrasti: socialisti e repubblicani criticavano come un'"invasione di campo" il programma pubblicato da Rosselli nel primo numero dei Quaderni di Giustizia e Libertà, giudicato operaistico e giacobino. Inoltre, non era ben visto dal PRI e da GL il fatto che il Partito Socialista si orientasse verso un accordo con il Partito Comunista. Questo portò, nel maggio del 1934, allo scioglimento della Concentrazione Antifascista. Nel frattempo in Italia si erano formati clandestinamente altri nuclei antifascisti legati a GL, presenti soprattutto a Milano, dove si trovavano Ferruccio Parri, Riccardo Bauer e Umberto Ceva; a Bergamo, con Ernesto Rossi, in collegamento con il gruppo milanese; a Torino ove nel 1934 e maggio'35 vengono arrestati Franco Antonicelli, Norberto Bobbio,Umberto Cosmo, Giulio Einaudi, Leone Ginsburg, Carlo Foà, Vittorio Foa, Michele Giua, Carlo Levi, Gino Levi, Piero Luzzati, Massimo Mila, Giulio Muggia, Cesare Pavese, Battistina Pizzardo, Luigi Salvatorelli, Sion Segre Amar, Gioele Solari; a Firenze, con Nello Traquandi; a Roma, con Francesco Fancello e Vincenzo Torraca; in Sardegna, con Dino Giacobbe, Cesare Pintus e Michele Saba. Il gruppo venne subito decapitato a seguito di una spiata che condusse all'arresto (dicembre 1930) di Rossi, Bauer, Fancello, Traquandi, Parri, Torraca, Ceva ed altri. Condannati, Rossi e Bauer scontarono nove anni di carcere, poi commutati in confino, scontati a Ponza e a Ventotene; Fancello e Traquandi: cinque anni di carcere e cinque di confino; Parri: due di carcere e cinque di confino.

Nel febbraio 1936, in Spagna, dopo un periodo di grandi difficoltà politiche e sociali (moti rivoluzionari duramente repressi, sospensioni delle libertà civili, drammatiche condizioni sociali della popolazione nel quadro di un sistema economico ancora semifeudale), il Fronte popolare (comprendente il Partito Comunista di Spagna, all'epoca di estrazione marxista e filosovietica) vinse le elezioni. Le forze nazionaliste e antibolsceviche, che vedevano in pericolo gli interessi delle classi dominanti e le ancestrali tradizioni spagnole (anche religiose), passarono presto al contrattacco: nel luglio i militari di stanza in Marocco, guidati dal generale Francisco Franco, attuano un pronunciamento (colpo di Stato militare) contro il governo repubblicano. I militari, che speravano in una vittoria facile e breve, si trovarono contro una massiccia resistenza popolare che riuscì in poco tempo a fermare l'avanzata delle truppe ribelli e a riequilibrare la situazione. Anche una parte dello stesso esercito (marina e aviazione) si schiera con la Repubblica. Mentre i governi democratici restavano indifferenti, erano gli intellettuali e i militanti antifascisti di tutta Europa a sentirsi in dovere di portare il loro contributo alla lotta dei repubblicani spagnoli. Ovviamente Giustizia e Libertà fu subito in prima linea. Rosselli convocò tempestivamente una riunione dei gruppi antifascisti per organizzare un'azione comune. In un primo tempo però il partito comunista e il partito socialista decisero di non intervenire in Spagna per non creare problemi politici al governo repubblicano. Così Giustizia e Libertà decise di agire autonomamente insieme ad altri gruppi antifascisti minori (socialisti massimalisti, anarchici) e, grazie alla disponibilità della CNT-FAI, il sindacato anarchico che organizzò la resistenza in Catalogna, fu creata una Colonna Italiana, composta in maggioranza da anarchici ma aperta ad antifascisti di tutte le tendenze politiche e al comando di Carlo Rosselli. Solo successivamente, dopo l'appoggio dell'URSS ai repubblicani spagnoli e la nascita delle Brigate internazionali, i partiti comunista, socialista e repubblicano si accordarono per formare una legione unitaria, la Brigata Garibaldi, che operò lontano dalla Catalogna. La formazione di Rosselli si trovò isolata e, con la militarizzazione della resistenza popolare, si aprirono contrasti tra gli anarchici intransigenti, insofferenti a ogni disciplina, e lo stesso Rosselli. Quest'ultimo, che nel frattempo si era ammalato, decise di lasciare la Spagna temporaneamente per curarsi ma, il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l'Orne, poco dopo il suo rientro in Francia, venne ucciso insieme al fratello Nello da sicari di una formazione della destra francese filofascista.

Dopo l'omicidio dei fratelli Rosselli, la guida del movimento venne assunta da Emilio Lussu, che impresse a GL una forte impronta socialista. Ciò provocò il dissenso e il distacco di numerosi componenti, tra i quali Alberto Tarchiani, che andò ad affiancare Randolfo Pacciardi alla direzione della pubblicazione repubblicana La Giovine Italia (1937). Giustizia e Libertà si indebolì ulteriormente a causa della "diaspora" conseguente alla minaccia bellica della Germania nazista. Nel settembre del 1939 Salvemini, rifugiatosi negli Stati Uniti, diede vita alla Mazzini Society, di cui il giornalista Max Ascoli assunse la presidenza. La nuova associazione si proponeva di contribuire all'orientamento dell'opinione pubblica americana di fronte alla questione italiana, ma aveva una forte connotazione repubblicana e liberaldemocratica. Con l'ingresso delle truppe tedesche in Francia, quasi tutti i dirigenti cercarono scampo altrove. Alberto Tarchiani raggiunse Salvemini a New York e assunse la segreteria della Mazzini Society. Paolo Vittorelli, rifugiatosi al Cairo, fondò Giustizia e libertà - Egitto, che svolse un'intensa attività propagandistica rivolta soprattutto ai militari italiani prigionieri dei britannici. Anche Lussu, nel giugno del 1940, fu costretto a lasciare la Francia per il Portogallo e quindi per l'Inghilterra. Nell'ottobre 1941 Silvio Trentin e Francesco Fausto Nitti sottoscrissero in Francia, ancora a nome di GL, un accordo unitario con comunisti e socialisti. Contemporaneamente (1941), dal confino di Ventotene, Ernesto Rossi, insieme al comunista dissidente Altiero Spinelli e al socialista Eugenio Colorni, redasse il Manifesto di Ventotene, il primo documento ufficiale prefigurante l'istituzione di un'Unione europea di tipo federalista. Nel gennaio 1942, negli Stati Uniti, un gruppo riunito attorno a Bruno Zevi fondò i "Quaderni Italiani", che divennero luogo di dibattito sui temi del liberalsocialismo. Lussu rientrò clandestinamente in Francia nel luglio 1942 e si incontrò con esponenti socialisti e comunisti per un patto d'unità d'azione dei partiti italiani di sinistra. L'accordo fu firmato il 3 marzo 1943 a Lione e fissava il quadro di un impegno programmatico a costituire un Comitato d'azione per l'unione del popolo italiano, alle cui decisioni i militanti dei tre partiti dovevano essere vincolati. Giustizia e libertà si dissolse, sostanzialmente, con il progressivo rientro in Italia dei suoi militanti, dopo il 25 luglio 1943 e la loro adesione ad altri partiti. In particolare, Emilio Lussu rientrò a Roma il 15 agosto e fu subito inserito negli organismi di vertice del Partito d'Azione. Tale operazione fu una precisa scelta politica del gruppo dirigente azionista, in particolare di Ugo La Malfa. Rossi aderì al P.d'A. dopo un convegno a Milano, tenutosi tra il 27 e il 28 agosto, mentre Spinelli attese ancora alcuni mesi (dic. 1943). Trentin giunse in Italia il 6 settembre e fu subito investito della direzione veneta del Partito d'Azione. Il 29 ottobre 1943, Emilio Lussu scrisse al “centro meridionale del Partito d'Azione” che mai il partito avrebbe collaborato con Badoglio e con la monarchia e di non preoccuparsi che GL scomparisse, perché “GL e PdA sono la stessa cosa e sarebbe fuori luogo ora far questione di denominazione”.

In Italia, un gruppo degli oppositori democratici ancora a piede libero aveva sentito l'esigenza di costituire un nuovo soggetto politico. Il 4 giugno 1942, nella casa romana di Federico Comandini, infatti, si era formato clandestinamente il Partito d'Azione. La nuova formazione era costituita, in particolare, da personalità repubblicane di estrazione liberal democratica come Ugo La Malfa, Adolfo Tino e Mario Bracci, insieme a personalità del mondo progressista e radicale come Guido Dorso, Tommaso Fiore, Luigi Salvatorelli, Adolfo Omodeo e ai liberalsocialisti di Guido Calogero, Norberto Bobbio e Tristano Codignola. L'elaborazione politica di quest'ultimi si era sviluppata in via del tutto autonoma da quella di Giustizia e Libertà. I giellisti aderirono progressivamente al nuovo partito che, dopo l'8 settembre 1943, rappresentò l'organizzazione a cui facevano riferimento i combattenti partigiani delle Brigate Giustizia e Libertà. Oltre a Lussu, Rossi e Trentin, entrarono nel P.d'A. anche Alberto Tarchiani e Alberto Cianca (per ricordare solo gli esponenti principali). Il Partito d'azione riuscì a presentarsi come un partito che lotta per un cambiamento radicale della società italiana rompendo, ovviamente, con intransigenza con il fascismo e l'Italia pre-fascista, contrapponendosi in questo ai liberali; per una società laica e secolarizzata, contrapponendosi ai democristiani, per una società democratica progressista ma pluralista e con ordinamenti politici liberali, contrapponendosi ai comunisti ancora saldamente legati all'Unione Sovietica. Per questi motivi distintivi riuscì a raccogliere vasti consensi tra le persone desiderose di combattere contro il nazi-fascismo, caratterizzandosi comunque come un movimento piuttosto elitario. Durante la guerra partigiana, il Partito d'azione fu attivo nell'organizzazione di formazioni partigiane, tra le quali si ricordano le brigate Giustizia e Libertà. Numericamente, le formazioni GL (dette "gielline" o "gielliste") erano seconde soltanto a quelle "garibaldine", riconducibili al Partito Comunista. I partigiani giellini si riconoscevano per i fazzoletti di colore verde. Tra costoro - tutti facenti parte del Partito d'Azione - si possono ricordare Ferruccio Parri, nominato dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) comandante militare unico della Resistenza, Antonio Giuriolo e Riccardo Lombardi, nominato nel 1945 prefetto di Milano dal CLN dell'Alta Italia (CLNAI).

Il Partito d'Azione, fondato nel 1942, fu l'erede principale del movimento GL ma, nell'immediato dopoguerra si divise in due correnti: una socialista, guidata da Emilio Lussu, e una liberaldemocratica, guidata da Ugo La Malfa. Riccardo Lombardi e Vittorio Foa tentarono invano di organizzare una terza corrente che fungesse da ponte fra le due ali estreme. La divisione interna si manifestò insanabile: dopo che la minoranza liberaldemocratica aveva già aderito al Partito Repubblicano Italiano, il 20 ottobre 1947 la maggioranza socialista confluì nel Partito Socialista Italiano e il Pda fu sciolto. Una componente minoritaria del Partito d'azione (Piero Calamandrei, Tristano Codignola, Aldo Garosci, Paolo Vittorelli) non confluì nel Partito Socialista Italiano e, al momento dello scioglimento del partito, formò il movimento “Azione Socialista Giustizia e Libertà” che mantenne la proprietà della testata giornalistica L'Italia Socialista (già: L'Italia libera), con la direzione di Garosci. “Azione Socialista Giustizia e Libertà”, l'8 febbraio 1948, a Milano, poi, dette vita all'Unione dei Socialisti, insieme ad alcuni ex giellini indipendenti. L'Unione dei Socialisti partecipò alle elezioni politiche del 1948 nell'ambito della coalizione di Unità Socialista, insieme al PSLI. Il 31 gennaio 1949 confluì ufficialmente nel PSLI che, nell'occasione, cambiò il suo nome in PSDI. Successivamente, il 1º febbraio 1953, la componente ex azionista del gruppo di Calamandrei e Codignola uscì anche dal PSDI e formò Autonomia Socialista, insediandosi nella vecchia sede fiorentina del soppresso movimento “Azione Socialista Giustizia e Libertà”. Nel frattempo, il 18 gennaio 1953, lo scrittore Carlo Cassola, rifondò ufficialmente Giustizia e Libertà, ma il nuovo movimento si dissolse dopo solo tre mesi. Il 18 aprile 1953, infatti, in vista delle elezioni politiche del 1953, si costituì il movimento Unità Popolare, con l'obiettivo di far fallire la cosiddetta legge elettorale "truffa" varata dal governo De Gasperi. Confluirono nel nuovo movimento sia Autonomia Socialista di Calamandrei, sia Giustizia e Libertà di Carlo Cassola che un gruppo di dissidenti di sinistra del PRI (Unione di Rinascita Repubblicana), guidati da Oliviero Zuccarini e al quale, successivamente, aveva aderito anche Ferruccio Parri. Aderirono ad Unità Popolare anche ex-azionisti ed intellettuali come Leopoldo Piccardi, Federico Comandini, Giuliano Vassalli e Carlo Levi; il movimento ebbe anche il sostegno di Adriano Olivetti e del suo Movimento Comunità, di Carlo Bo, Norberto Bobbio, Mario Soldati e Leo Valiani. Tuttavia, colto il risultato di non fare scattare per un pugno di voti il premio di maggioranza a favore dei vincitori (la DC e gli alleati centristi), il raggruppamento non riuscì a proporsi come centro di coagulazione di un socialismo democratico di ispirazione non marxista. Dopo l'adesione dell'ala liberaldemocratica (Piccardi, Valiani) nel costituendo Partito Radicale, nel 1957 il movimento votò, a maggioranza, la sua dissoluzione e la confluenza nel Partito Socialista Italiano. Tra i contrari: Oliviero Zuccarini rientrò nel PRI e Aldo Garosci lasciò temporaneamente la politica. Le battaglie laiche, antimonopoliste e antiautoritarie condotte dal Mondo diretto da Mario Pannunzio sfociano nel 1955 nella costituzione del Partito radicale, che comprendeva fra i fondatori numerosi militanti di estrazione giellista e azionista, fra i quali spiccavano Ernesto Rossi e Leo Valiani. Questa esperienza, fra le più innovative del panorama politico italiano, entrò in crisi all'inizio degli anni sessanta, a causa della dura contrapposizione a proposito del "caso Piccardi" fra l'ala di origine azionista (rappresentata da Ernesto Rossi) e quella di origine liberale (guidata dallo stesso Pannunzio), che lasciò un lungo strascico di rancori personali. Successivamente, singole personalità, fuori e dentro i partiti, nei sindacati, nelle associazioni e sulle colonne dei principali giornali italiani, ripresero e rilanciarono alcuni temi cari a quest'area politica - le fondamenta della democrazia, la difesa della Costituzione, la laicità delle istituzioni repubblicane, lo sviluppo di una forte etica pubblica. Si pensi, per esempio, a Vittorio Foa, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Leo Valiani, Giorgio Bocca. Soltanto a partire dagli anni novanta si tentò di riallacciare i rapporti all'interno della diaspora giellista e azionista, dapprima con la costituzione, nel 1993, del Movimento d'azione Giustizia e Libertà[20] (alla cui presidenza fu chiamato Aldo Garosci), in seguito con la costituzione della Federazione nazionale dei circoli Giustizia e Libertà, il cui coordinatore è Vittorio Cimiotta. Quest'ultima è un'"associazione di associazioni" (facente capo allo storico Circolo "Giustizia e Libertà" fondato a Roma nel 1948) priva di finalità di tipo partitico, ma esclusivamente di studio e diffusione del patrimonio ideale, culturale e politico di GL e del Pda. Su questi temi collaborò con le fondazioni, gli istituti storici, gli archivi e le associazioni con questo comune interesse. A Torino, nel 1993, si costituì il Movimento d'Azione Giustizia e Libertà (con finalità di politica riconducibili ai partiti della sinistra) sotto l'egida culturale di Alessandro Galante Garrone e di Guido Fubini che lo presiedette sino al decesso. Dal 2010 è presidente Antonio Caputo; ha organizzato e coorganizza importanti eventi, come la manifestazione del 29 aprile 2001 al Cinema Eliseo di Torino che fu occasione per diffondere l'appello di Bobbio, Galante Garrone, Sylos Labini, Pizzorusso, per battere col voto la cosiddetta "casa delle Libertà"; il Palavobis del 2002, "se non ora quando" del 2011. Esprime la linea attualizzata dell'azionismo torinese, inteso come metodo che intende coniugare pensiero e azione, nella difesa e attuazione della Carta costituzionale e dell'affermazione dei principi sempre attuali di Giustizia e Libertà.

PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.

Primo maggio, Festa dei lavoratori? No! Festa dei violenti e degli immigrati.

1° MAGGIO, PERCHE' LA FESTA DEL LAVORO? (CHE NON C'E'...) Scrive Domenica 30 Aprile 2017 Luigi Garofalo su "Leggo". Tre 8. La festa dei lavoratori che si festeggia il primo maggio è figlia della rivendicazione, coniata in Australia nel 1856, di “otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire” perché nei Paesi che si stavano rapidamente industrializzando, si lavorava 11-12 ore in condizioni spesso bestiali. È una festa figlia delle lotte del movimento operaio e socialista.  Perché si festeggia il 1^ maggio?  Perché la prima volta è stato festeggiato nell’Illinois (USA) nel 1867: nonostante l’entrata in vigore di una legge che stabiliva la giornata lavorativa di otto ore, molti imprenditori non volevano rispettarla: per le vie di Chicago sfilarono 10mila operai, il più grande corteo mai visto fino ad allora. In Italia nel 1947 la festa del lavoro e dei lavoratori è diventata ufficialmente festa nazionale. Da diversi anni, a causa dell’alta disoccupazione, si dice che il primo maggio è la festa del lavoro…che non c’è. 

Lavoro che non c’è, riflessioni sulla Festa dei lavoratori, di Giuseppe Saluppo su "La Gazzetta molisana" il 30 aprile 2017. La chiamano festa dei lavoratori, ma in realtà il 1° Maggio, ormai da qualche decennio, si è trasformato in una cerimonia funebre. Con la disoccupazione schizzata al 13% e quella giovanile (15-24 anni) che supera il 44%, con disoccupati e inattivi che vorrebbero lavorare ma non hanno prospettiva che arrivano al 25%. Festa del Lavoro? Si è già parlato, più o meno scherzosamente, del suo opposto: festa del non lavoro. E dunque, se così è, si può ancora parlare di festa? E’ vero, ci sono timidi segnali di ripresa ma, purtroppo, restano forti criticità. Con la disoccupazione giovanile alle stelle, una tassazione soffocante e un territorio che invecchia. E’ la fotografia, per certi versi impietosa, del nostro Molise. I numeri descrivono un territorio che procede a tentoni, alla ricerca di un rilancio possibile ma sostanzialmente fermo. Un primo maggio in cui il senso della festa è sostituito dalle preoccupazioni per il futuro, per il lavoro che non c’è; sostituito da quel senso di precarietà, dalla paura del domani, dal rischio di non farcela, non solo di chi il lavoro l’ha perduto, ma anche di chi il lavoro non l’ha ancora avuto: i nostri figli. Il “libero mercato del lavoro” sta spingendo i nostri giovani fuori dalla Regione, trasformandola in una terra di vecchi dove si sta rinunciando all’energia vitale, alla creatività, alla capacità di lavoro e di progetto perché i giovani saranno sempre più, una minoranza. Dovrebbe dunque essere chiara l’enormità economica, politica, umana della questione del lavoro, dove le aziende chiudono i battenti e nessuna capacità politico- progettuale crea alternative credibili di crescita. L’unico binario percorribile per inseguire un futuro migliore e regalare alle nuove generazioni un mondo del lavoro diverso è la legalità, la dignità e il rispetto della vita. Ideali limpidi da proteggere e rivendicare ad ogni costo. Perché, disoccupazione e precarietà uccidono il futuro e l’economia.

Quei cortei senza operai: gli immigrati in prima fila. Fino a pochi anni fa sfilavano manovali e tute blu. Ora non si sentono più rappresentati dai sindacati, scrive Riccardo Pelliccetti, Mercoledì 3/05/2017, su "Il Giornale". L'immagine non sorprende, ma fa riflettere. L'Italia è diversa e i sindacati pure, così il Primo maggio 2017 fotografa una realtà su cui spesso non ci soffermiamo: il cambiamento sociale. Rapido e inarrestabile. Certo, per i cultori della società multietnica sono passi verso il paradiso del progresso, un'opinione rispettabile ma non per questo condivisibile. Vedere la prima fila del corteo di Milano, in occasione della Festa del Lavoro, composta totalmente da lavoratori extracomunitari lascia interdetti. In passato ci eravamo abituati a veder sfilare le tute blu della Fiat, della Breda, dell'Ilva e di tante altre realtà operaie e industriali italiane. Sono solo un ricordo. Eppure i lavoratori italiani sono ancora tantissimi, anzi la stragrande maggioranza: sono oltre 22 milioni gli occupati in Italia (tra lavoratori dipendenti e autonomi) tra i quali gli stranieri sono poco più di due milioni. Un numero corposo ma parliamo del 10 per cento della forza lavoro. Per quanto in molti distretti industriali la manodopera dei migranti sia una realtà consistente, la media nazionale rivela che nove lavoratori su dieci sono italiani. Ma, a guardare le immagini del corteo del Primo maggio, le proporzioni sembravano opposte, anche se oltre un milione di stranieri è iscritto al sindacato. Ma forse c'è un altro motivo, senza bisogno di scomodare il passato. Tra quel 90 per cento di lavoratori italiani ve ne sono pochi che desiderino sfilare in corteo sotto i vessilli sindacali e, men che meno, che vogliano marciare in prima fila. Forse perché sono disillusi e delusi dai sindacati italiani che, in questi anni, non hanno fatto niente di più che avventurarsi in qualche conflittualità politica, mostrando di essere più partiti che associazioni di lavoratori. E molto spesso sono impegnati più a difendere i privilegi che a tutelare i diritti. Certo, in questa congiuntura economica e con il mercato del lavoro anoressico non c'è grasso che cola ma allora, a maggior ragione, dovrebbero tornare a essere rivoluzionari e proporre ricette che siano al passo con i tempi. Per esempio, è inutile arroccarsi sull'articolo 18 per difendere posizioni anacronistiche, quando da anni l'unica nuova occupazione è il cosiddetto precariato. Come accade nel pubblico impiego, dove i dipendenti a termine guadagnano la metà rispetto a uno assunto a tempo indeterminato, ma senza la tutela del posto fisso. Un controsenso, una vergogna di cui sono corresponsabili i sindacati, che hanno piantato i piedi solo per difendere chi è già garantito, il quale talvolta può anche permettersi di essere un fannullone senza temere alcunché. Detto questo, non vi è nulla di strano né di sorprendente se il Primo maggio i lavoratori extracomunitari sfilano in corteo, ci mancherebbe. Ma quella prima fila ha tanto il sapore della resa dei lavoratori italiani. Certo, meglio questa immagine di quella vista a Trieste, dove nel corteo sventolavano le bandiere con la stella rossa dei partigiani titini. Più che una festa del Lavoro, qualcuno ha preferito celebrare l'anniversario della sanguinosa occupazione jugoslava di Trieste, cominciata il Primo maggio 1945. Per qualcuno il tempo si è fermato assieme ai propri neuroni. Qualcun altro invece pensa di anticipare i tempi. I sindacati forse sono convinti che questa metamorfosi possa garantirgli un futuro. Può darsi che non abbiano tutti i torti (a guardare i rapporti dell'Istat, se non vi saranno inversioni di tendenza, gli stranieri in Italia saranno oltre 20 milioni entro il 2065).

Tra l'ipocrisia dei sindacalisti e la violenza dei centri sociali: il solito Primo maggio. Nelle piazze va in scena il copione di sempre: da una parte l'ipocrisia dei sindacati, dall'altra gli antagonisti violenti, scrive Chiara Sarra, Lunedì 1/05/2017, su "Il Giornale". Da una parte l'ipocrisia dei sindacati, in piazza a difendere il lavoro che loro stessi hanno ucciso. Dall'altra centri sociali e antagonisti, sempre pronti a vandalizzare e provocare la polizia, costretta a caricare per evitare disordini e eccessi. Va in scena il solito copione del Primo maggio. La giornata dedicata ai lavoratori è iniziata con l'omaggio dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil a Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, a 70 anni dall'eccidio. "È un Primo maggio di impegno e non di festa perchè c'è poco da festeggiare", ha detto Carmelo Barbagallo (Uil), "Siamo qui per rivendicare l'opportunità di far riprendere l'economia del Paese mettendo al centro del dialogo l'articolo 1 della Costituzione, cioè che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E vediamo di non affondarla sul lavoro". "Il messaggio di oggi deve essere lavoro, lavoro, lavoro", aggiunge, Annamaria Furlan (Cisl), "Siamo qui contro le mafie, siamo qua per mettere al centro del dialogo sul futuro il tema dell'occupazione dei nostri giovani che non trovano lavoro e sono costretti ad abbandonare il nostro Paese. Abbiamo bisogno delle loro intelligenze per proiettarci nel domani". Intanto a Milano si svolgeva sotto la pioggia il corteo dei sindacati che hanno sfilato insieme ai migranti. Un centinaio di persone, soprattutto uomini ma anche donne, di origine egiziana, senegalese, ivoriana e di altre nazionalità, con tamburi, bandiere rosse con la scritta "Proletari di tutti i Paesi unite", tradotta in diverse lingue e striscioni come "Migranti del mondo benvenuti" e "Basta con gli spacciatori di paura". E l'immancabile "Bella ciao" che ha accompagnato il corteo fino alla fine, in piazza della Scala. Tensioni e scontri invece a Torino dove la polizia ha bloccato i manifestanti dei centri sociali per impedire loro l'accesso in piazza San Carlo dove sono previste le manifestazioni ufficiali. I dimostranti hanno così tirato uova contro le forze dell'ordine, che hanno risposto con cariche di alleggerimento.

Se i sindacati festeggiano ciò che hanno ucciso. Nove milioni di italiani a rischio povertà. Invece che autocelebrarsi nelle piazze, i sindacalisti dovrebbero fare un esame di coscienza, scrive Carlo Lottieri, Lunedì 1/05/2017, su "Il Giornale". I dati diffusi nell'imminenza della festa dei lavoratori offrono una rappresentazione eloquente dei disastri conseguenti a decenni di alta tassazione e regolazione. Lo studio realizzato da Unimpresa, in effetti, mette il dito nella piaga, ricordando come ben nove milioni di italiani siano a rischio povertà. Invece che autocelebrarsi nelle piazze, allora, i sindacalisti dovrebbero fare un esame di coscienza e rivedere le proprie linee di condotta. Se manca il lavoro e se anche quanti hanno un'occupazione spesso possono contare su retribuzioni modeste, questo si deve al fatto che lo Stato pesa come un macigno sull'economia: esso sottrae un'enorme quantità di risorse e, oltre a ciò, impedisce quello sviluppo dei rapporti contrattuali che è alla base di ogni crescita. Avere eliminato i voucher, ad esempio, renderà ancora più difficile la vita di tante imprese e ostacolerà ancor più quanti cercano di guadagnarsi da vivere. Se il miglioramento delle condizioni di vita deriva sempre e soltanto dalla libera inventiva, dall'impegno e dal moltiplicarsi degli scambi, in questi anni i governi (spesso subendo i diktat sindacali) hanno fatto quasi tutto il possibile per impedire la crescita. E se ora l'esecutivo salverà 13mila posti di Alitalia, sarà solo per bruciare risorse che - qualora lasciate nelle tasche di chi le ha prodotte - con ogni probabilità potrebbero crearne molti di più. Una delle ultime battaglie di retroguardia è stato il «no» al lavoro festivo, conseguente alla pretesa d'imporre a tutti come devono vivere. Ma questa logica autoritaria, nei fatti, può solo aumentare la disoccupazione. Le strutture corporative che condizionano la vita produttiva (la Cgil e non solo), ogni Primo maggio scendono in piazza in nome dei lavoratori e a «difesa del lavoro», ma sono impegnate in attività che impediscono a molti giovani e meno giovani di costruirsi un futuro. Il sistema di tutele che è stato costruito spesso nega la possibilità d'interrompere un rapporto di lavoro anche quando il dipendente non è giudicato interessante dall'azienda. Tutto ciò, unito al prelievo fiscale esorbitante, frena molte imprese dall'assumere e spinge pure a trasferire fuori dalle frontiere i propri impianti. Statalismo e demagogia sono all'origine del disastro italiano. Se i sindacati non lo comprendono e non cambiano rotta, sperare in un futuro migliore è proprio da ingenui o da sprovveduti.

Ecco la verità sul crac Almaviva: il Tribunale dà la colpa alla Camusso. Nessuna volontà di dare attuazione agli accordi. E la Cgil paga le spese, scrive Patricia Tagliaferri, Mercoledì 3/05/2017, su "Il Giornale". Anche quest'anno, tante belle parole sui diritti dei lavoratori dal palco del concertone del primo maggio, in piazza San Giovanni. Salvo poi scoprire che non sempre i sindacati remano a favore di coloro che dovrebbero tutelare. Nulla di inedito. Questa volta, però, è anche un giudice a certificare che è andata così nella dolorosa vicenda di Almaviva, costata il licenziamento a 1.666 dipendenti del call center di Roma. La sentenza riportata da Il Messaggero è clamorosa, perché le carte giudiziarie raccontano una storia diversa da quella che solitamente passa dalle organizzazioni sindacali. Per il Tribunale del Lavoro di Roma ai licenziamenti dello scorso dicembre si è arrivati anche per colpa del comportamento dei sindacati che «hanno chiaramente dimostrato di non voler dare attuazione agli accordi firmati». Nella fase finale del confronto, poi, scrive il giudice, «non hanno chiesto alcuna interruzione della trattativa per attendere la consultazione dei lavoratori», così che il referendum fra i lavoratori si svolse a licenziamenti già partiti. Altro che concertazione, insomma. Sono accuse pesanti, quelle messe nero su bianco dal Tribunale, che offrono uno spaccato inedito su quello che normalmente si intende per confronto sindacale. Il ricorso contro i licenziamenti presentato dalla Cgil-Slc è stato così respinto e il sindacato di Susanna Camusso, oltre ad essere condannato a pagare 3mila euro, è finito sotto accusa, indiretto «complice» della perdita di tanti posti di lavoro. Nella sentenza il giudice ripercorre la vicenda, da quando azienda e sindacati si accordano per aumentare la produttività dei call center di Roma e Napoli. Poi però la Gcil-Slc salta i primi due incontri fissati e un terzo va a vuoto. Un comportamento che non passa inosservato al giudice, che pronunciandosi stigmatizza anche quello delle Rsu, alla cui «lacerazione» attribuisce la responsabilità del mancato accordo. Il risultato finale sono i 1.666 licenziamenti, giunti «per l'esito di un percorso svoltosi nel rispetto di condizioni e termini fissati dalla legge». In altre parole legittimi. Nulla da dire, dunque, su Almaviva, che grazie al lavoro di chi avrebbe dovuto tutelare gli interessi dei dipendenti si è potuta liberare di quelli in esubero.

Il concerto del 1˚ maggio ci costa 900mila euro, scrive "Libero Quotidiano" il 28 aprile 2017. Il Concertone del Primo maggio a Roma, più che ad un rito, assomiglia ad un rituale. Una sorta di piccola Sanremo alternativa, declinata dai sindacati a favore dei lavoratori, che non sono mai in piazza San Giovanni. Sotto al palco giovani e giovanissimi, che poco sanno di lavoro e ancora meno di sindacato. Figuriamoci del significato del Primo maggio. Per la maggior parte di loro è solo una grande occasione per fare una scampagnata a Roma. Eppure Cgil, Cisl e Uil si ostinano a chiamarlo «Concertone». Forse per i costi, visto che la kermesse, fra allestimento, cast, Siae, permessi e spese varie costerà «fra gli 800mila e i 900mila euro». A spiegarlo è Massimo Bonelli, musicista e produttore, che con la sua società «iCompany» produce il Concertone di piazza San Giovanni (che quest’anno sarà condotto da Clementino e Camila Raznovich) insieme alla Ruvido Produzioni di Carlo Gavaudan. Fra i costi non vi sono cachet degli artisti dato che, spiega Bonelli, «la quasi totalità degli artisti non riceve un compenso ma solo un rimborso spese», spiega il promoter, «accettano di esibirsi perché hanno motivi personali, di impegno civile, e poi perché il Concertone è una magnifica vetrina». Ecco, quest’ultima ipotesi è decisamente la più verosimile. Una folla acclamante in piazza, il resto davanti alla Tv. Il concerto dei confederali per la Festa dei Lavoratori ai sindacati, che ne sono solo promotori, non costa nulla. Chi paga il conto, sostanzialmente in linea con quello dello scorso anno secondo Bonelli, sono gli sponsor e la Rai, che manda in onda il concerto. Viale Mazzini sborsa una cifra che oscilla fra i 400 e i 500 mila euro, facendosi carico del grosso delle spese. La parte restante è a carico degli sponsor. La domanda resta quella di sempre: è normale che la Rai paghi l’evento dei sindacati quando il ritorno, sia in termini pubblicitari che di ascolto, non è certo in linea con la cifra spesa? La domanda si rincorre da anni senza trovare una vera risposta. Se non quella di sempre. In fondo il Concertone è la piccola Woodstock de’ noantri (come si dice a Roma) e per riempire il palinsesto del primo maggio un po’ di musica non fa male.

Le magagne del concertone del primo maggio di Roma. Critiche incrociate, budget risicati, aziende in liquidazione e lavoratori in attesa dei pagamenti, scrive Lidia Baratta il 30 Aprile 2014 su “L’Inkiesta”. Guardando sotto il tappeto del concertone del primo maggio a Roma si scoprono tante cose. Dietro le quinte del palco di piazza San Giovanni, dove si esibiscono ogni anno band più o meno emergenti e artisti più o meno conosciuti, si nascondono critiche incrociate tra organizzatori e sindacati, budget sempre più risicati, società in liquidazione e lavoratori che aspettano di esser pagati. Dal 2001 l’evento viene organizzato da Marco Godano, da leggersi con l’accento sulla “o” per non confondersi con Godàno, cognome del leader dei Marlene Kuntz, con il quale il patron della manifestazione non ha nessuna parentela. Godano, un passato da militante di sinistra come dirigente dell’Arci Musica, lavorava già nella precedente gestione del concertone, per poi passare a essere il promoter principale dell’evento con la sua società Primata srl, acronimo di “Primo maggio tutto l’anno”. La società, controllata dal gruppo Godano - che fa capo a Connie Godano - risulta in liquidazione (come le altre tre aziende – su cinque – del gruppo), con 400mila euro di debiti sulle spalle; e dal 2011 non organizza più il concertone di piazza San Giovanni. Dopo lo scioglimento della Primata, la palla poi era passata alla Anyway srl, di cui Godano è amministratore unico, ma in vent’anni di attività ha accumulato più di un milione di debiti. Così «la Anyway ora non organizza più il Concertone», spiega Godano, nonostante il nome della società compaia ancora in fondo al sito dell’evento. «Proprio per mettere a posto i conti, abbiamo passato la mano alla società 1MVideo», nata nel settembre 2013, per iniziare ufficialmente le attività poco più di due mesi fa. Tolta un’azienda in difficoltà, se ne mette un’altra, purché il concerto si faccia. La storia senza lieto fine della Primata, però, non è isolata. Godano, il cui contratto per l’organizzazione del primo maggio scade nel 2015, ha alle spalle un lungo passato nel mondo dello spettacolo e dell’organizzazione di eventi, anche per Confidustria. Il suo curriculum è ricco di imprese ormai inattive, cancellate, liquidate e fallite. Come il gruppo Edo srl, che nel 2003 ha prodotto per la Rai la trasmissione Fiesta. Su Il Giornale di qualche anno fa venne fuori che autori e conduttori del programma si erano dovuti rivolgere agli avvocati per cercare di incassare le retribuzioni dovute. Ma lo speaker radiofonico Joe Violanti, che con Charlie Gnocchi era coautore e conduttore del programma, a distanza di undici anni dice: «I soldi naturalmente sono spariti, nell'assordante silenzio della Rai». E pare che non sia l'unico caso, visto che proprio di recente si è concluso un contenzioso con altri quattro lavoratori per mancati pagamenti da parte della GoEvent srl, sempre del gruppo Godano, e sempre in liquidazione. «È una vicenda destinata a concludersi», spiega l’avvocato Fabio Santoro, che ha seguito i quattro lavoratori. «La società GoEvent srl ha sottoscritto un accordo dopo un contenzioso durato un anno. Il 2 maggio le persone saranno pagate con il pagamento integrale, più gli interessi maturati in un anno. Il contenzioso da parte nostra si può quindi dire concluso con estrema soddisfazione». Le cifre sono «riservate», dice l’avvocato, e comunque dipende dai casi. Ci sono persone che aspettano gli arretrati di due mesi di lavoro, altri di più. Si tratta di qualche migliaio di euro mensile per lavoratore. Non stipendi stellari, insomma. Qualcuno di loro ha anche lavorato per il concertone del Primo maggio, ma Godano precisa che i mancati pagamenti «non riguardavano il concertone». Tant’è. Ma affidare l’organizzazione del concerto della Festa dei lavoratori a uno che non paga i propri dipendenti (tanto più sei quattro non sarebbero i soli ad aspettare ancora pagamenti da Godano, come giurano alcuni suoi ex dipendenti) sembrava quantomeno paradossale. Tanto che Cgil, Cisl e Uil sarebbero intervenuti per sollecitare l’accordo tra l’azienda e i lavoratori non pagati. «Avevamo saputo che c’era qualche problema, in particolare per il mancato pagamento di alcuni fornitori», dice Carmelo Barbagallo, segretario generale aggiunto della Uil. «Per cui abbiamo chiesto alla società di arrivare a una soluzione. Da parte nostra, però, siamo solo promotori del concerto, non ci occupiamo della gestione artistica. Quello che ci interessa è l’affidabilità dell’impresa e dal risultato finale mi pare ottima. Ma siamo anche sindacato, e se veniamo a conoscenza di qualche irregolarità, interveniamo, come è avvenuto». Cgil, sulla questione, ha preferito non rispondere. Dalla Cisl, invece, rispondono dicendo che i sindacati sono «solo i promotori e non gli organizzatori del concerto». In effetti i sindacati con l’organizzazione, soprattutto economica, del concerto non c’entrano proprio nulla. Cgil, Cisl e Uil, che quest’anno per la festa dei lavoratori hanno organizzato un corteo a Pordenone, dal 1990 scelgono l’impresa organizzatrice dell’evento e amen. Le tre sigle si trovano nel logo del concertone. Ma più di loro per il palco di piazza San Giovanni contano gli sponsor privati, che per metà, insieme alla cessione dei diritti alla Rai, garantiscono ogni anno la copertura economica del concertone. Per anni l’evento è stato sostenuto quasi esclusivamente da aziende a controllo statale: oltre alla Rai, Poste Italiane, Trenitalia ed Enel. «Sono quelli che si vedono ai lati del palco», spiega Godano, «gli sponsor più importanti sono Poste italiane, Gruppo Unipol, Eni e Banca Intesa, oltre ad alcuni sponsor tecnici di varia natura». Il sostegno del Comune di Roma, invece, messo in discussione negli anni precedenti dal sindaco Alemanno, che nel 2012 aveva presentato il conto ai sindacati chiedendo 240mila euro, «si concretizza per quanto riguarda i fondamentali servizi di pulizie dell’Ama, così come c’è un sostegno della Regione Lazio per la parte sanitaria, il 118 e la guardia medica. Non dimentichiamo che c’è una piazza con centinaia di migliaia di persone». Ma l’austerity vale anche per il concertone, e anche quest’anno ci saranno altri tagli al budget, che si aggirerebbe su per giù intorno agli 800mila euro. Il 20 aprile, a pochi giorni dalla festa di piazza San Giovanni, Godano dichiarava al Tempo: «Anche quest’anno non sappiamo quanti soldi abbiamo». Dal 2008 a oggi, tra sponsor e diritti tv, si sono persi circa tre milioni di euro. Per questo Godano chiedeva la costituzione di una «fondazione» per mano delle tre sigle sindacali. «Fa parte della situazione complessiva del Paese», taglia corto evitando polemiche, «che ci impone di fare scelte di sobrietà. Non ci lamentiamo: la forza del concertone è sempre stata la creatività, l’impegno, la competenza di quelli che ci lavorano, la generosità degli artisti e l’energia dei ragazzi della piazza. Un mix che non ci ha mai tradito, non abbiamo mai tradito e non tradiremo neanche quest’anno». Va detto, tra l’altro, che gli artisti sul palco percepiscono poco più che un rimborso spese. Grandi big a parte, che quest’anno - non a caso -sembrano latitare (qui l’elenco). Anzi, a vedere l’elenco, gli «avannotti» di cui parlano gli Elio e le storie tese nel loro Complesso del Primo Maggio sarebbero di più dei «pesci grossi». Eppure suona strano che per uno degli eventi live più grandi d’Europa non si sappia su quale budget si possa contare fino a pochi giorni prima. Si naviga a vista, insomma. «Bisognerebbe poter programmare dal 2 maggio quello che succederà l'anno dopo», dice Godano. «Purtroppo fino ad oggi non è stato possibile. Ci vorrebbe un provvedimento ad hoc per sostenere il concertone, che ha un valore sociale importante». Provvedimento ad hoc che, viene naturale ipotizzare, dovrebbe arrivare dai sindacati, che sotto l’evento continuano a metterci la firma. Anche se, precisa Godano, «rispetto al ruolo che hanno, i sindacati fanno abbondantemente il loro dovere». Con qualche piccolo incidente di percorso. Come quando due anni fa Fabri Fibra venne escluso dalla scaletta per via di presunti testi definiti «sessisti» dalle organizzazioni femministe. O quando nel 2007 i sindacati criticarono le parole del conduttore Andrea Riverasul Vaticano e il pm John Woodcock. Ma nonostante qualche incursione dei padroni di casa, con il sindacato e i lavoratori il concertone del primo maggio ha ormai poco o niente a che fare. Tra un pezzo e l’altro, a ricordare ai ragazzi danzanti «a torso nudo» (ancora citazione degli Elii) le radici “impegnate” dell’evento, ci pensa il tema scelto per l’edizione 2014: «Le nostre storie. Accordi e disaccordi delle nostre radici, della nostra memoria e del nostro domani». 

I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.

Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista. Raccolti in un volume appena pubblicato con la prefazione di Canfora e la postfazione di Frasca Polara. Un vero e proprio manuale della professione e le battaglie su molte testate. Fino all'Unità, della quale racconta la genesi del nome, scrive Giovanni Cedrone il 6 aprile 2017 su "La Repubblica". "Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale". Queste parole, contenute in una lettera a sua cognata Tatiana Schucht dell'ottobre 1931, forse meglio di altre testimoniamo l'indomito spirito con cui Antonio Gramsci si è dedicato al giornalismo. Le parole sono contenute nell'ultimo volume dedicato al fondatore del Partito comunista "Il Giornalismo, Il Giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore dell'Unità" a cura di Gian Luca Corradi (edito da Tessere). A 80 anni dalla sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937, Corradi ha raccolto alcuni fra gli oltre 1.500 articoli che Gramsci pubblicò su varie testate (prima di essere recluso nel 1927) e alcune lettere, antecedenti e successive alla carcerazione, nelle quali tocca l'argomento della stampa periodica. L'ideatore del concetto di egemonia si conferma un pensatore aperto e non dogmatico e le sue intuizioni sul giornalismo stupiscono per l'attualità e la lungimiranza. Come sottolinea Giorgio Frasca Polara nella postfazione, "Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia". Non bisogna dimenticare che il contributo di Gramsci al giornalismo italiano è stato enorme: oltre ad aver fondato "L'Ordine Nuovo" e "L'Unità", Gramsci scrisse per almeno una decina di giornali, tra cui "La Città futura", numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese e "Energie nove", quindicinale diretto da Piero Gobetti. Luciano Canfora ricorda nell'introduzione le parole contenute nel verbale d'interrogatorio di Antonio Gramsci nel carcere giudiziario di Milano, datato 9 febbraio 1927, con cui lo stesso pensatore comunista dichiara di essere "pubblicista" prima ancora che "ex deputato al Parlamento". Sui "Quaderni" il fondatore dell'Unità traccia quasi un manuale del buon giornalista: parla di giornalismo "integrale", cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma intende creare e sviluppare questi bisogni, rimarca poi la necessità per i giornalisti di "seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese". Un sano realismo lo porta a considerare i lettori da due punti di vista, sia come elementi "ideologici, trasformabili filosoficamente", sia come elementi "economici, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri". Sottolinea come il contenuto ideologico di un giornale non sia sufficiente a garantire le vendite: conta anche la forma in cui viene presentato. Interviene su quella che chiama "l'arte dei titoli" in cui influisce l'atteggiamento del giornale verso il suo pubblico che può essere "demagogico-commerciale" o "educativo-didattico".

Le riflessioni teoriche di Gramsci si riflettono nella sua attività di pubblicista. Il fondatore del Pci non si occupava solo di politica, ma anche di costume, società, teatro, musica e storia. In una pagina del marzo 1916 di "Sotto la Mole", Gramsci contesta, ad esempio, l'assunto che la malavita organizzata sia solo al sud, un discorso che a 100 anni di distanza risuona quanto mai attuale. Nel maggio 1916 difende il maestro Toscanini per aver scelto una sinfonia di Wagner in un concerto al Teatro Regio di Torino, scelta che, con l'Italia entrata in guerra contro gli Imperi centrali, aveva provocato i fischi del pubblico. Scrive di teatro e in particolare la sua attenzione cade su Pirandello che per lui aveva il merito di creare "delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione". Ragiona poi sul "carattere" degli italiani improntato, secondo lui, all'ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita familiare, nella vita politica, negli affari. "La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale - sottolinea Gramsci - corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività. L'ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà".

Da un punto di vista storico, le pagine più interessanti sono nelle lettere, soprattutto quelle dal carcere, con il racconto della sua detenzione e le riflessioni sul giornalismo che occupano una parte importante della sua corrispondenza. In una missiva al Comitato esecutivo del Pcd'I del settembre 1923 svela perché fu scelto il nome "l'Unità" per il giornale da lui fondato. Aveva un duplice significato: innanzitutto richiamava all'unità tra operai e contadini, non soltanto nell'ambito del rapporto tra le classi, ma anche nel più generale tema della questione nazionale, "unità" tra nord e sud, tra città e campagna. Nella lettera a Vincenzo Bianco del marzo 1924 emerge il Gramsci "maestro di giornalismo", una pagina che forse qualsiasi giornalista alle prime armi dovrebbe sempre tenere a portata di mano. Prima di iniziare a scrivere - afferma Gramsci - bisogna predisporre uno schema e domandarsi cosa sia veramente importante. Consiglia poi di leggere "Il Manifesto dei Comunisti" che definisce "un capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica". Infine invita alla brevità ricordando l'esempio di Andrea Viglongo, suo collaboratore, che allenava a scrivere articoli di al massimo una colonna e mezzo.

La raccolta di scritti ha il grande merito di tracciare con chiarezza un aspetto del profilo di Gramsci forse meno noto, quello del Gramsci giornalista. Un aspetto che conferma, come giustamente sottolinea Canfora, quanto Gramsci sia davvero appartenuto alla cultura italiana di quegli anni molto più che ad una cultura di partito. Pensatore mai banale, marxista irregolare, oggi icona pop e studiato nelle università di mezzo mondo, Gramsci fu anche "maestro di giornalismo" i cui insegnamenti, a distanza di 80 anni, restano più che mai validi.

Ecco a voi una vera e propria perla andata in onda su Rainews24: durante la notte delle elezioni americane, Giovanna Botteri si è lasciata andare alla disperazione: «Che ne sarà di noi giornalisti se non riusciamo più a influenzare l’opinione pubblica?» Parole testuali: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa!». Forse è per questo che la gente non si fida più di voi? Forse è per questo che non vendete più giornali?  Forse è per questo che dovete andarvene tutti a casa?

Gramsci giornalista senza tabù. «Ci vuole l’articolo di un fascista». Il volume, curato da Gian Luca Corradi, raccoglie scritti, articoli e lettere del fondatore de «l’Unità». L’introduzione è di Luciano Canfora, la postfazione di Giorgio Frasca Polara, scrive Paolo Franchi il 30 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". «In dieci anni di giornalismo io ho scritto tante righe da poter costituire 15 o 20 volumi da 400 pagine», sostiene Antonio Gramsci il 7 settembre 1931, in una lettera a Tatiana Schucht dal carcere di Turi. In realtà, quanto agli anni di attività, sbaglia per difetto. Il suo primo articolo, così come il suo primo tesserino da giornalista, in qualità di corrispondente dell’«Unione Sarda» da Aidomaggiore, risale al 1910. Ne seguiranno, fino all’arresto, nel 1926, altri 1.500, in forma di editoriale, di commento, di corsivo, di critica teatrale e di quant’altro, sul «Corriere universitario», l’«Avanti!», il «Grido del popolo», la «Città futura», «Avanguardia», «Energie Nove» e vari altri giornali ancora, oltre che, naturalmente, sulle due testate storiche che fondò. Stiamo parlando, ovviamente, dell’«Ordine Nuovo» («Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza», scrisse, rivolto agli operai torinesi, sul primo numero, nel maggio del 1919), e «l’Unità», che volle chiamare così (correva l’anno 1924) a significare che doveva essere ben di più di un foglio di partito. Non solo. Al giornalismo, e ai giornalisti, Gramsci dedica, nei Quaderni del carcere, un’attenzione a dir poco sistematica, e riflessioni sovente di sconcertante attualità. Di giornalismo, e di giornalisti, c’è traccia assai ampia nelle sue lettere. Di tutto questo dà conto, nell’ottantesimo della morte, un’ampia e ragionata raccolta di scritti gramsciani, curata, per Tessere, da Gian Luca Corradi (Antonio Gramsci, Il giornalismo, il giornalista, con un’introduzione di Luciano Canfora e una postfazione di Giorgio Frasca Polara) che andrebbe letta e meditata, in particolare, da noi che facciamo questo mestiere, da chi di informazione, per un motivo o per l’altro, si occupa, e da chi più o meno professionalmente fa politica. Gramsci, annota giustamente Canfora, condivise con molti altri leader dell’Ottocento e del Novecento («da Cavour a Mazzini, a Marx, a Turati, a Lenin, a Jaurès», e per l’Italia aggiungerei almeno Benito Mussolini e Pietro Nenni) l’idea che impegno giornalistico e lotta politica fossero in una certa misura consustanziali. Ma considerò e rivendicò l’essere giornalista come il suo lavoro («Sono e mi chiamo Gramsci Antonio, pubblicista, ex deputato al Parlamento», si legge nel primo verbale di interrogatorio, datato 9 febbraio 1927). E fu in primo luogo la sua militanza giornalistica a consentirgli, ha ancora ragione Canfora, «un rapporto di costante e feconda dialettica con le correnti di pensiero, letterarie, artistiche, che si sprigionavano e si esprimevano in quegli anni». Di questo rapporto c’è, nel libro curato da Corradi, una ricchissima testimonianza diretta, cui non posso che rimandare i lettori. Qui vorrei segnalare un tema soltanto. Da uomo e da giornalista libero Gramsci si appassiona (eccome) alla fattura del giornale, alla grafica, al formato, alla scrittura degli articoli (fantastica una sua lettera a Vincenzo Bianco), ai problemi della tipografia e a quelli della distribuzione. Da detenuto a San Vittore, legge cinque quotidiani (ma pure il «Corriere dei Piccoli», «che mi diverte», il «Guerin Meschino», «cosiddetto umoristico», e la «Domenica del Corriere»), a Turi è costretto a ridurli a due, la «Gazzetta del Popolo» e il «Corriere»: e si deciderà presto a serbare solo l’abbonamento a quest’ultimo, perché gli altri quotidiani gli sembrano delle imitazioni mal riuscite del «Corriere», con tutti i suoi difetti, non ultimo «il parlare di antecedenti che non sono stati dati, come se il lettore dovesse conoscerli» (una malattia di cui non si è ancora trovata la cura). Sa benissimo che i quotidiani vivono poche ore, e quanto a lui, da libero cittadino, non ha mai voluto raccogliere i suoi articoli in volume, e nemmeno aderire alla richiesta del fascista Franco Ciarlantini, che nel 1924 gli ha chiesto di scrivere, per una sua collezione, un libro sull’«Ordine Nuovo»: anche se, annota nel 1931, «aver pubblicato un libro da una casa editrice fascista… era molto allettante». Ma il suo oggetto di riflessione è quello che chiama il «giornalismo integrale», che non intende solo «soddisfare tutti i bisogni (di una certa categoria) del suo pubblico», ma vuole «creare e sviluppare questi bisogni, e quindi suscitare, in un certo senso, il suo pubblico ed estenderne progressivamente l’area»: un giornalismo moderno, destinato a diventare «un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile», che non può affidarsi a giornalisti formati solo attraverso la «praticaccia». Sostiene, Gramsci, che le stesse riunioni di redazione dovrebbero avere anche questa funzione per così dire pedagogica, diventando così «vere scuole politico-giornalistiche». Un’utopia? Forse sì, come ricostruisce, con arguzia, Frasca Polara. Ma, utopia o no, colpisce che l’idea gli sia venuta in mente, a Gramsci, leggendo in galera un articolo del fascistissimo Ermanno Amicucci. Molti anni prima, Gramsci aveva scritto da Vienna a Mauro Scoccimarro, a proposito di un’inchiesta sul fascismo per l’«Ordine Nuovo». Voleva vi si provocassero anche «giudizi di parte borghese», e faceva tra gli altri il nome di Mario Missiroli, che pure giudicava un «misirizzi». Ma trovava utile anche l’articolo di un fascista, e suggeriva il piemontese Pietro Gorgolini. Libero o in cattività, sapeva distinguere, scrive bene Canfora, «tra valutazione tecnica del mestiere del giornalista e giudizio etico-politico su di un personaggio o di una testata». Come si conviene ai giornalisti di razza.

Quando Ottone censurò l'agguato a Montanelli. Morto a 92 anni il giornalista che negli anni Settanta spostò a sinistra il Corriere emarginando Indro, scrive Daniele Abbiati, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale". I grandi giornalisti non amano i giornalisti, grandi o piccoli che siano. Qualcuno dice: perché li conoscono troppo bene. E forse non hanno tutti i torti. Piero Ottone, all'anagrafe Pier Leone Mignanego, morto il giorno di Pasqua all'età di 92 anni, è stato senza dubbio un grande giornalista. Lo dice la sua carriera, iniziata dal basso, dalla cara, vecchia gavetta, e salita fino all'empireo della poltrona più ambita, quella di direttore in via Solferino, al Corrierone. Primi passi in un altro Corriere, quello Ligure, nel 1945 e nella sua Genova, poi andatura più spedita alla Gazzetta del Popolo di Torino sotto la direzione di Massimo Caputo, dove diviene corrispondente da Londra. Segue la prima esperienza al Corriere della Sera, come corrispondente da Mosca nei delicatissimi anni Cinquanta e quindi come redattore capo. Nel '68, anno altrettanto delicato, più sul fronte interno che su quello internazionale, torna a «casa»: direttore del Secolo XIX, in gergo, il «Monono». A 44 anni, la formazione è ormai ultimata: scrittura solida, evidenti capacità direttive e di guida della macchina-quotidiano. Se ne accorgono anche a Milano, dove lo tengono sotto osservazione e, nel '72, decidono che è lui l'uomo adatto a subentrare a Giovanni Spadolini, autorevole ma grigio, colto ma cauto, troppo cauto. Giulia Maria Crespi vuole (e non soltanto lei...) un Corriere meno moderato, meno conservatore, più aggressivo, più à la page, insomma, in linea con l'aria che tira. E qui ritorniamo al punto di partenza, ai grandi giornalisti che non amano (eufemismo) i giornalisti, in questo caso i grandi giornalisti. Perché al Corriere, Ottone non ci mette né uno né due a scontrarsi con Indro Montanelli, l'inviato principe. Indro non accetta il nuovo corso che fa rima con sinistrorso, ritiene che il Corriere così facendo tradisca prima il proprio lettorato e poi, in subordine, l'elettorato anticomunista. Potete immaginare come abbia preso, l'anno dopo, nel '73, gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini in prima pagina... Il dado era tratto: o Piero o Indro. «Guardando retrospettivamente forse fu un errore licenziarlo», ammise Ottone in una lunga intervista alla Repubblica, tre anni fa. Perché questo accadde, Montanelli non se ne andò dal Corriere, ne fu cacciato, dopo il casus belli di una sua intervista al Mondo in cui, come ricordava Ottone, invitava in sostanza la borghesia a divorziare dal quotidiano di via Solferino. Tutti sanno che senza quello strappo, noi oggi non saremmo qui a (ri)scriverne su queste colonne, visto che da lì, da quella clamorosa rottura, nacque, nel '74, questo Giornale. Auspicando il divorzio della borghesia milanese dal suo foglio di riferimento, Montanelli si propone come suo nuovo «amante». Un amante non occasionale, ma fedelissimo, irriducibile, coraggioso. Così, per tre anni le strade di Ottone e di Indro proseguirono seguendo tragitti lontani, divergenti. Il Corriere a spingere da una parte, il Giornale a resistere dall'altra, colmando il vuoto editoriale che si era creato. Ma c'era in agguato il fattaccio, nipote di un'ideologia distruttiva e figlio di un metodo criminale. E su questo fattaccio di cronaca nera i due big si ritrovarono l'uno contro l'altro: Indro in ospedale, Ottone a preparare la «prima». La mattina del 2 giugno 1977, Montanelli viene «gambizzato» dalle Brigate Rosse. Il giorno dopo, il Corriere titola: «I giornalisti nuovo bersaglio della violenza. Le Brigate Rosse rivendicano gli attentati». Il nome Montanelli è confinato nel lungo sommario (mentre più in basso c'è l'intervista di Enzo Biagi al collega ferito). E molti ripensano a quanto poco i grandi giornalisti etc etc. Poi Indro si rimette in piedi, e torna a correre con il Giornale. E, di lì a poco, anche Ottone esce dal Corriere. Dimissioni, questa volta. Passa alla Mondadori come consulente. Infine, alla Repubblica. Il destino ha voluto che morisse a 92 anni, come Indro. E su questo, purtroppo, non c'è più nulla da discutere.

Ma i giornalisti sono troppo di sinistra? Si chiedono Luigi Curini e Sergio Splendore di Lavoce.info il 20 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. Perché i giornali non reagiscono? Perché a leggerli e comprarli sono coloro che hanno una posizione ideologica in media più vicina a chi li scrive. Il difficile rapporto tra italiani e stampa. Stando ai sondaggi periodicamente effettuati da Eurobarometro, i cittadini italiani hanno poca fiducia nella carta stampata. Sostanzialmente più di un italiano su due esprime un giudizio negativo a riguardo: negli ultimi quindici anni la media del livello di fiducia verso la stampa è stata complessivamente del 43 per cento, quattro punti in meno del dato europeo nello stesso periodo. Le spiegazioni più ricorrenti riconducono la sfiducia al modello di giornalismo italiano contraddistinto da una propensione al commento, da un alto livello di parallelismo politico e da una stampa che storicamente si è indirizzata a una élite, producendo, come conseguenza, bassi livelli di lettura. In questo quadro, il rapporto tra giornalisti e cittadini rimane tuttavia in secondo piano. Un peccato, a dire il vero, dato che, in una importante ricerca che risale oramai a venti anni fa, si mettevano bene in luce le conseguenze relative alla possibile “discrasia” tra credenze politiche e ideologiche dei giornalisti rispetto ai loro lettori, senza peraltro controllare empiricamente la cosa. Abbiamo dunque voluto esplorare direttamente l’ipotesi mettendo in relazione tra loro i dati relativi al posizionamento politico dei giornalisti italiani raccolti durante la recente ricerca demoscopica The worlds of journalism study con quelli che si possono estrarre da Eurobarometro per quanto riguarda i cittadini italiani, sfruttando il fatto che in entrambi i sondaggi viene somministrata la medesima domanda relativa all’autocollocazione ideologica dei rispondenti lungo una scala che va da sinistra a destra. La figura qui riportata mostra il confronto tra le rispettive distribuzioni di preferenze ideologiche nello stesso periodo temporale (inizio 2015). Come si può facilmente osservare, la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani in generale. Quello che tuttavia ci interessa è capire la conseguenza di tutto ciò. Prendiamo un italiano che, magari dopo aver letto una serie di tweet o interviste televisive a vari giornalisti, si auto-percepisce complessivamente come lontano ideologicamente da questi ultimi (perché più a sinistra oppure, più plausibilmente, a destra rispetto a tali posizioni). Il cittadino presenterà anche una minore fiducia nella stampa? E se sì, in che misura? I risultati di una semplice analisi logistica mostrano che il fattore ideologico conta, e molto: pur controllando per tutta una serie di fattori considerati rilevanti in letteratura (come il genere, l’età, il reddito, il luogo in cui si vive, l’interesse per la politica e la stessa propria posizione ideologica del singolo rispondente) l’impatto della prossimità ideologica tra italiani e giornalisti non solo si conferma significativo, ma risulta assai rilevante (qui di seguito il link per chi è interessato all’analisi econometrica): la probabilità attesa di avere fiducia nella stampa passa, ad esempio, da poco più del 30 per cento per un italiano che si auto-colloca in modo molto distante dalla posizione media dei giornalisti, a un più che soddisfacente 65 per cento per chi presenta la stessa posizione ideologica registrata, sempre in media, dai giornalisti. I risultati della nostra analisi pongono però anche un ulteriore quesito: se è vero che la prossimità ideologica conta in termini di fiducia verso la stampa, perché la stampa in senso lato non reagisce in qualche modo a questa situazione? Qua le risposte possibili sono due, una ottimista e una meno. Per quanto riguarda la prima, ci si potrebbe (dovrebbe?) attendere che l’accentuata competizione sul mercato editoriale sia in grado presto o tardi di colmare l’apparente disequilibrio che emerge dalla figura sopra (e in parte è quello che sembra stia avvenendo nel panorama delle testate digitali). C’è un “ma”, tuttavia. Sempre i dati dell’Eurobarometro ci mostrano che i lettori più assidui dei giornali sono anche quelli che hanno una posizione ideologica in media più prossima ai giornalisti. Il che potrebbe condurre a un circolo che si auto-riproduce e si auto-rinforza: ovvero lo iato ideologico con gli italiani in senso lato (e la conseguente crisi di fiducia) non risulta alla fin fine davvero rilevante per il mondo editoriale, perché dopotutto chi legge (e compra) i giornali ha la stessa visione del mondo che ha chi ci scrive, e così via. Un apparente paradosso, con esiti complessivi.

La stampa è molto più a sinistra dei cittadini, in Usa come in Italia. Secondo uno studio, “la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani”, scrive Luciano Capone il 9 Novembre 2016 su “Il Foglio”. L’origine della vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, come molti hanno già segnalato, va ricercata nella ribellione non più sotterranea di una larga fetta della società nei confronti delle élite e di tutto ciò che puzza di establishment: partiti, banche, istituzioni, mondo accademico, corporation, attori, cantanti e soprattutto media. In queste elezioni presidenziali i giornali, settimanali e magazine che hanno espresso un sostegno ufficiale per Hillary Clinton sono stati 500, mentre gli endorsement a favore di Trump sono stati solo 25, in gran parte di piccoli giornali locali: tra i 100 quotidiani più diffusi nel paese, solo due hanno appoggiato il candidato repubblicano, alcuni si sono schierati per i democratici dopo decenni di neutralità e altri non hanno espresso una preferenza a favore ma hanno suggerito di votare “contro Donald Trump”, colui che poi ha vinto le elezioni. Naturalmente lo scollamento tra media e cittadini non è solo un fenomeno americano ma, come hanno mostrato il voto sulla Brexit e l’avanzata di tanti partiti definiti “populisti”, è un fenomeno che riguarda tutte le democrazie occidentali e in particolare l’Italia. Luigi Curini, professore associato di Scienza politica all’Università Statale di Milano, e Sergio Splendore, ricercatore nello stesso ateneo, in uno studio dal titolo “The ideological proximity between citizens and journalists and its consequences”, hanno mostrato con i dati quanto sia profondo il solco ideologico tra media e persone comuni, tra i concetti veicolati dai giornalisti e le convinzioni delle persone, e quanto questo divario sia all’origine della sfiducia dei cittadini nei confronti della stampa. Detto in parole povere, in Italia i giornalisti sono troppo di sinistra ed è anche per questo che, secondo i sondaggi effettuati da Eurobarometro, la credibilità dei giornali italiani è più bassa della già bassa media europea. I due politologi hanno messo in relazione i dati sulle preferenze ideologiche dei giornalisti, ricavati da una specifica ricerca demoscopica, con quelli dei cittadini ricavati dall’Eurobarometro, sfruttando il fatto che in entrambi i sondaggi viene posta la stessa domanda sulla collocazione ideologica lungo un asse che va da sinistra a destra. Il risultato è che “la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani”, hanno scritto gli autori sul sito Lavoce.info. La logica conseguenza è che maggiore è la distanza politica tra cittadini e giornalisti e maggiore è la sfiducia nei confronti della stampa e ciò vuol dire che chi legge i giornali ha una posizione ideologica più simile a quella dei giornalisti, “il che potrebbe condurre a un circolo che si auto-riproduce e si auto-rinforza: ovvero lo iato ideologico con gli italiani non risulta alla fin fine davvero rilevante per il mondo editoriale, perché dopotutto chi legge i giornali ha la stessa visione del mondo che ha chi ci scrive, e così via”. Salvo svegliarsi un giorno meravigliati e sorpresi del fatto che gli elettori fanno il contrario di ciò che scrivono i giornalisti. Tra l’altro il dato italiano è ancora più paradossale perché i giornalisti non sono solo ideologicamente schierati più a sinistra della popolazione in generale, ma sono molto più a sinistra anche rispetto ai propri lettori. Pochi mesi fa Curini ha pubblicato una ricerca simile sulle idee politiche dei docenti universitari, dal titolo “Experts’ political preferences and their impact on ideological bias”. Anche in quel caso i dati dicevano che la stragrande maggioranza degli studiosi intervistati è di sinistra. E se questa è una caratteristica comune nelle democrazie occidentali, cioè che l’élite accademica tenda ad essere progressista, la peculiarità dei professori italiani è che nel mondo sono quelli più a sinistra di tutti. Visto che in questi mesi in tanti hanno paragonato il successo di Trump a quello di Silvio Berlusconi, bisogna riconoscere che forse il Cav esagerava quando diceva che in Italia i professori e i giornalisti sono tutti comunisti, ma non si allontanava molto dalla realtà. O quantomeno dalla percezione dei cittadini, che poi lo votavano.

Di destra, quindi dimenticato. In memoria di Almerigo Grilz. A 30 anni dalla morte una mostra per il primo giornalista caduto dopo il 1945. E che i colleghi lasciano nell'oblio, scrive Gian Micalessin, Venerdì 19/05/2017, su "Il Giornale". Si chiamava Victor. L'incontrai nel novembre 2002 a Dondo, nel Nord del Mozambico. Durante la guerra civile degli anni '80 tra il governo filosovietico della Frelimo e i guerriglieri anti comunisti della Renamo era stato maggiore dell'esercito. Smessi gradi e divisa si guadagnava da vivere come responsabile della sicurezza della Gmc, una cooperativa rossa di Ravenna presente da decenni nel paese. Ero arrivato lì con il collega Franco Nerozzi e Giancarlo Coccia, storico corrispondente africano de il Giornale per cercare la tomba dell'amico Almerigo Grilz freddato da un colpo alla nuca il 19 maggio 1987 mentre filmava uno scontro tra Renamo e soldati del Frelimo. Bivaccavamo in quel campo grazie alla generosità di Claudio Conficoni, il manager, ex Pci, responsabile locale della Cmc. «Prendete auto e uomini che vi servono... fate come a casa vostra» ripeteva. E mi rideva in faccia se ricordavo che Almerigo Grilz era diventato giornalista dopo esser stato vice-segretario nazionale del Fronte della Gioventù al fianco di Gianfranco Fini. «Ora è morto sbottava - e se anche è stato "fassista" era prima di tutto italiano. Questo è quello che conta». Victor ascoltava silenzioso. Non spiaccicò mezza parola nemmeno quando arrivammo a Caia. Ma quando incominciai a studiare il terreno per capire dove Almerigo era stato colpito fu lui a portarmi nella radura ai margini della città, non lontano da uno zuccherificio. «Di solito disse i ribelli arrivavano da qua». Guardai l'ultimo filmato di Almerigo, le ultime immagini della sua cinepresa. Tutto corrispondeva. Victor sorrise. E fu lui, nonostante il pericolo, ad accompagnarmi a Gorongoza, la zona dove a 10 anni dalla fine delle ostilità la Renamo nascondeva ancora le armi. La zona dove i ribelli avevano sotterrato il cadavere di Almerigo dopo una lunga ritirata notturna. Lì all'imbrunire del 21 novembre 2002 trovammo il grande albero di Muthongo sotto cui riposava. Allora Victor m'abbracciò e mi sussurrò parole mai dimenticate. «Ero il comandante di Caia, forse c'ero pure io a sparare al tuo amico, ma ci tenevo ad aiutarti perché la guerra è finita e a nessuno interessa più se un giornalista stava con noi o con i nostri nemici. I morti sono tutti fratelli». Non qui in Italia. A Trieste l'Ordine dei Giornalisti, a cui Grilz era iscritto, ignora da 30 anni la richiesta d'accogliere una lapide con il suo nome accanto a quelle per l'inviato Rai Marco Luchetta e gli operatori Alessandro Ota, Dario D'Angelo e Miran Hrovatin, morti tra Bosnia e Somalia. Fuori da Trieste non va meglio. Grilz oltre ad aver raccontato guerre e guerriglie tra Afghanistan, Libano, Etiopia, Mozambico, Filippine, Cambogia e Birmania scriveva per il Sunday Times e firmava reportage trasmessi da Cbs ed Nbc negli Stati Uniti, da Channel4 in Inghilterra e dal Tg1 Rai qui in Italia. Eppure nonostante quel curriculum, nonostante sia stato il primo caduto su un campo di battaglia dal 1945 Almerigo Grilz continua ad essere un «inviato ignoto» per gran parte dei giornalisti italiani. Una damnatio memoriae sconcertante per una categoria che annovera con orgoglio colleghi come Adriano Sofri, condannato per l'omicidio Calabresi, Bernardo Valli, orgoglioso dei 5 anni trascorsi nella Legione Straniera e una legione di reduci della sinistra extraparlamentare come, Paolo Mieli, Toni Capuozzo, Enrico Deaglio, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Paolo Liguori, Andrea Marcenaro, Carlo Panella, Riccardo Barenghi e Lanfranco Pace. Ma i giornalisti si consolino. A destra non è andata meglio. Fini a Trieste pernottava regolarmente nella casa di Almerigo, ma una volta divenuto presidente della Camera, si è ben guardato dal muovere mezzo dito per sottrarre l'amico all'oblio collettivo. Poco importa. Di una vita conta la storia. La storia di un ragazzo che, unico tra le fila di una destra sclerotizzata, comprendeva, già negli anni '70, l'importanza dell'informazione e imbracciava macchine fotografiche e cineprese anche quando guidava cortei e manifestazioni. La storia di un giornalista che seppe trasformare la passione politica in passione professionale. La storia di un uomo che, non appena la politica smise di regalargli emozioni, l'abbandonò per trasferirsi sulle prime linee del mondo. Perché se il giornalismo era la sua passione, l'avventura era la sua vita.

Le immagini, i filmati e i racconti: omaggio dei compagni d'avventura. Oggi apre l'esposizione a Trieste con 90 pannelli su 35 anni di reportage. E a settembre sarà in edicola anche un fumetto, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 19/05/2017, su "Il Giornale". «La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (...) Fa freddo, l'erba è umida e c'è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l'effetto di una fiammata in gola» scrive Almerigo Grilz il 18 maggio 1987 sul suo diario di guerra dell'ultimo reportage in Mozambico. «In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (...) Il vocione del generale Elias (...) li incita a muoversi: Avanza primera compagnia! Vamos in bora!. In no time siamo in marcia». Per Almerigo sarà l'ultimo giorno di appunti. All'alba del 19 maggio, il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca mentre filma la scomposta ritirata dei guerriglieri della Renamo respinti dai governativi nell'attacco alla città di Caia. Grilz è il primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Trent'anni dopo Gian Micalessin e chi vi scrive, i suoi compagni di avventura nei reportage, gli dedicano a Trieste, la città dove è nato, la mostra fotografica Gli occhi delle guerra - da Almerigo Grilz alla battaglia di Mosul. Un'esposizione unica in Italia con 90 pannelli su 35 anni di reportage dall'invasione israeliana del Libano nel 1982 fino al caos della Libia, la terribile guerra in Siria e la sanguinosa battaglia contro il Califfo in Irak. La mostra e il catalogo contengono anche le foto scattate da Almerigo nel corso della sua breve, ma intensa attività in Afghanistan, Etiopia, Filippine Mozambico, Iran, Cambogia e Birmania. L'esposizione, che si inaugura oggi alle 18.30 con l'assessore alla Cultura di Trieste, Giorgio Rossi, al civico museo di guerra per la pace Diego de Henriquez rimarrà aperta fino al 3 luglio. Della mostra fa parte una selezione delle pagine più significative delle agende (Guarda la gallery con le immagini) che Almerigo Grilz utilizzava per annotare con precisione ogni momento dei suoi reportage corredando il tutto con disegni e mappe dettagliate. La futura vocazione e la passione del giornalista emerge pure dalle pagine dei Diari del giovane Grilz con un Almerigo adolescente che disegnava scene di battaglie storiche e descriveva gli avvenimenti della sua Trieste. Il pubblico potrà sfogliare anche le bozze del fumetto Almerigo Grilz - avventura di una vita al fronte (Ferrogallico editore), dalla passione politica al giornalismo, che verrà pubblicato in settembre. Un percorso nella memoria di un giornalista scomodo e volutamente poco ricordato per il suo attivismo a destra, nel Fronte della gioventù, negli anni Settanta, che non a caso Toni Capuozzo ha definito l'«inviato ignoto». Oggi alle 19.30 Almerigo verrà ricordato a Trieste anche in via Paduina davanti a quella che è stata la sede nel Fronte, l'organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano. Al museo de Henriquez accanto alle foto scorrono i filmati realizzati da Almerigo con la cinepresa Super 8. E l'invito in studio nel 1986 di Ambrogio Fogar nel programma Jonathan dimensione avventura dove Grilz con Egisto Corradi, storica colonna del Giornale e Maurizio Chierici del Corriere della Sera parlano del mestiere di inviato di guerra e dei suoi pericoli. I video comprendono anche i reportage di oggi sui Paesi senza pace come Afghanistan, Siria, Libia, Irak realizzati grazie al progetto del giornale.it, Gli Occhi della guerra e al sostegno dei nostri lettori. E non manca il documentario L'Albero di Almerigo (guarda il video) che racconta la ricerca e il ritrovamento in Mozambico dell'antico albero ai piedi del quale riposa Almerigo Grilz. La mostra nel trentennale della sua scomparsa vuole essere anche un tributo ai reportage in prima linea, in un periodo di media in crisi e un omaggio non solo a Grilz, ma a tutti i giornalisti che hanno perso la vita sul fronte dell'informazione per raccontare le tragedie dei conflitti. Nel 1986 in Mozambico, un anno prima di morire, Almerigo annotava sul suo diario: «Mi sporgo fuori per filmarli: non è facile, occorre stare appiattiti a terra perché le pallottole fischiano dappertutto. Alzare troppo la testa può essere fatale».

LA TRUFFA DELL'ANTIFASCISMO.

Sul tema una carrellata di opinioni, la cui natura ideologica traspare palesemente in alcuni di loro, rispetto al cospetto imparziale di altri. Entrambe le posizioni hanno diritto di sede.

Renzo De Felice. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La neutralità di questa voce o sezione sull'argomento Storia è stata messa in dubbio. Motivo: La voce è strutturalmente sbilanciata nel rilevare critiche rivolte contro De Felice, sottovalutando il fondamentale impatto innovativo derivante dalle sue ricerche, sia in Italia che nel resto del mondo. «Lo storico non può essere unilaterale, non può negare aprioristicamente le "ragioni" di una parte e far proprie quelle di un'altra. Può contestarle, non prima però di averle capite e valutate.» (Renzo De Felice). Renzo De Felice (Rieti, 8 aprile 1929 – Roma, 25 maggio 1996) è stato uno storico italiano, considerato da alcuni il maggiore studioso del fascismo, allo studio del quale si dedicò sin dal 1960 e fino all'anno della sua morte. Figlio unico, Renzo De Felice conseguì la maturità nel 1949 presso il liceo classico Marco Terenzio Varrone. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Roma La Sapienza e nell'anno accademico 1951-1952 ottenne il passaggio al secondo anno del corso di laurea in Filosofia. Durante gli studi universitari si era iscritto al Partito Comunista Italiano e, secondo la testimonianza del suo collega di studi Piero Melograni, decise il suo passaggio al corso di laurea in Filosofia, perché lo studio della stessa gli sembrava – in una prospettiva marxista – indispensabile per fondare adeguatamente gli studi di carattere storico, che lo appassionavano sin dalla sua iscrizione a Giurisprudenza. Era un militante di ispirazione trotskista e, nel 1952, fu arrestato insieme a Sergio Bertelli mentre preparava una contestazione contro la visita a Roma del generale statunitense Matthew Ridgway, veterano della guerra di Corea e comandante della NATO. Alla fine degli anni ottanta, interrogato su cosa avesse conservato dell'ideologia coltivata in gioventù, rispose: «Oggi nulla, salvo che l'essere stato marxista e comunista mi ha immunizzato dal fare del moralismo sugli avvenimenti storici. I discorsi in chiave morale applicati alla storia, da qualunque parte vengano e comunque siano motivati, provocano in me un senso di noia, suscitano il mio sospetto nei confronti di chi li pronuncia e mi inducono a pensare a mancanza di idee chiare, se non addirittura ad un'ennesima forma di ricatto intellettuale o ad un espediente per contrabbandare idee e interessi che si vuol evitare di esporre in forma diretta. Lo storico può e talvolta deve dare dei giudizi morali; se non vuole tradire la propria funzione o ridursi a fare del giornalismo storico, può farlo però solo dopo aver assolto in tutti i modi al proprio dovere di indagatore e di ricostruttore della molteplicità dei fatti che costituiscono la realtà di un periodo, di un momento storico; invece sento spesso pronunciare giudizi morali su questioni ignorate o conosciute malamente da chi li emette. E questo è non solo superficiale e improduttivo sotto il profilo di una vera comprensione storica, ma diseducativo e controproducente.» Nella facoltà di Filosofia, quale titolare del corso di Storia Moderna, insegnava il professor Federico Chabod: per De Felice quello con Chabod fu un incontro decisivo: prese a frequentare assiduamente le lezioni ed i seminari tenuti dallo storico liberale e, nell'ambito di uno di questi, scrisse un saggio sugli ebrei nella Repubblica Romana del 1798-1799, del quale Chabod sollecitò la pubblicazione. Ma chi più ebbe influenza sul giovane De Felice, secondo quanto da egli stesso riferito, fu il suo maestro e poi amico Delio Cantimori. Ormai definitivamente orientato verso lo studio della Storia, De Felice preparò quindi la sua tesi di laurea - relatore lo stesso Chabod - con titolo Correnti di pensiero politico nella prima repubblica romana, che discusse il 16 novembre 1954 ottenendo il massimo dei voti con lode. Nel 1956 ottenne una borsa di studio presso l'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, fondato da Benedetto Croce e diretto dallo stesso Chabod. Sempre nel 1956 fu tra i firmatari del Manifesto dei 101, sottoscritto da intellettuali dissenzienti verso l'appoggio dato dal partito all'invasione sovietica dell'Ungheria. Insieme a molti dei firmatari del manifesto, De Felice lasciò il PCI, iscrivendosi al Partito Socialista Italiano. In seguito preferì rinunciare a ogni militanza politica e lasciò anche il PSI. L'uscita dal partito costò a De Felice alcuni anni di isolamento, che durarono sino all'incontro con la futura moglie Livia De Ruggiero, figlia dello storico liberale Guido De Ruggiero scomparso nel 1948, e il sacerdote e studioso cattolico don Giuseppe De Luca. Con l'appoggio di Rosario Romeo, ottenne l'incarico di professore ordinario presso l'Università di Salerno dove insegnò dal 1968 al 1971. Nel 1970 fondò la rivista Storia Contemporanea edita da Il Mulino, che diresse sino alla morte. Nel 1972 si trasferì all'Università "La Sapienza" di Roma, ove insegnò Storia dei partiti politici, prima alla facoltà di Lettere e poi, dal 1979, in quella di Scienze politiche; infine, nel 1986, passò a occupare la cattedra di Storia contemporanea. Alla vigilia delle elezioni politiche del 1976 firmò insieme ad altri cinquanta intellettuali un manifesto pubblicato da Il Giornale di Indro Montanelli, nel quale si invitavano gli elettori a votare «dal PLI al PSI», criticando come «moda del giorno» le dichiarazioni di voto di molti intellettuali per il PCI, allora in costante ascesa tanto da far apparire probabile il "sorpasso" sulla Democrazia Cristiana come primo partito. Intervistato sulla sua adesione, De Felice spiegò di avere l'impressione che tanti intellettuali «votino comunista nel timore di perdere la qualifica di uomini di cultura. Noi, al contrario, non crediamo che la cultura "liberale", della quale siamo partecipi, abbia come logico sviluppo la scelta comunista. È proprio una scelta opposta». Durante il novembre 1977 partecipò a Roma a un'udienza del Tribunale internazionale Sacharov, dal nome del dissidente sovietico Andrej Dmitrievič Sacharov, sulle violazioni dei diritti umani nell'URSS e nell'Europa orientale comunista. Nel 2012, negli archivi della Stasi, polizia segreta della Germania Est (DDR), è stata rinvenuta una scheda su De Felice, segnalato per essere intervenuto attivamente nella fase preparatoria dei lavori, nel corso dei quali la DDR fu accusata di abusi. Ha fatto parte del consiglio editoriale del Journal of Contemporary History. De Felice è morto di tumore, a 67 anni, nella notte tra venerdì 24 e sabato 25 maggio 1996 nella sua casa romana di Monteverde vecchio in via Antonio Cesari, tumore probabilmente legato all'epatite cronica che da vent'anni lo affliggeva. Tra i suoi studenti divenuti a loro volta storici, vi sono Emilio Gentile, Giovanni Sabbatucci (entrambi considerati i più importante storici contemporanei del fascismo) e Francesco Perfetti. Inizialmente De Felice si dedicò allo studio della storia moderna, concentrandosi in particolare sul giacobinismo italiano. Sebbene abbia prodotto sul tema un considerevole numero di pubblicazioni, la sua attività come studioso del giacobinismo fu in qualche modo oscurata dalla successiva e ben più ampia produzione storiografica sul Novecento e soprattutto sul fascismo. Ciononostante, secondo Giuseppe Galasso, «De Felice resta nella storiografia sul giacobinismo, se non con lo stesso rilievo che in quella sul fascismo, certo con una non minore legittimità di ricerca e risultati». Gli studi di storia contemporanea iniziarono con il volume Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961), studio commissionatogli dall'Unione delle comunità israelitiche. Da tale filone scaturì l'interesse che contraddistinse più marcatamente la sua carriera di storico e che lo propose spesso all'attenzione del grande pubblico: la storia del fascismo. In otto volumi (il primo Mussolini il rivoluzionario è del 1965, l'ultimo Mussolini l'alleato. La guerra civile, fu pubblicato incompleto e postumo nel 1997) partendo dalla vita di Mussolini, affronta oltre venticinque anni della storia d'Italia, dando un'interpretazione originale del fenomeno fascista, suscitando consensi e critiche. L'interpretazione che De Felice dà del fascismo si articola su tre temi fondamentali: l'origine socialista del pensiero di Mussolini e la differenza fra il fascismo e le dittature di destra contemporanee, la distinzione fra il "fascismo movimento" e il "fascismo regime", la realizzazione di un consenso determinante a garantire stabilità e successo al regime fascista. Al di là degli elogi e delle critiche, l'interpretazione che De Felice offre del fascismo e della dittatura mussoliniana ha comunque il merito di aver suscitato una nuova stagione di studi e riflessioni sul fascismo. Quando De Felice pubblicò il primo volume della monumentale biografia di Mussolini, la storiografia e la cultura italiane erano divise da barriere ancora molto rigide e una ricerca che contraddicesse l'interpretazione storiografica prevalente del fascismo, di Mussolini e della guerra di liberazione, si esponeva a forti critiche e pesanti polemiche; lo storico venne accusato dalla sinistra di giustificare il fascismo e di eccessiva adesione al personaggio oggetto del suo lavoro. D'altra parte, le sue ricerche, poi riconosciute da buona parte degli accademici come generalmente serie e scrupolosamente documentate, furono spesso piegate (con evidenti forzature delle tesi defeliciane) dai seguaci delle teorie revisionistiche al fine di negare le responsabilità storiche del fascismo. Il mondo antifascista reagì accusando De Felice di "revisionismo" e accomunandolo spesso a storici invisi e considerati anch'essi revisionisti. De Felice reagì, da una parte ribadendo le sue tesi in libri discussi ma sempre di tono "scientifico", dall'altra, con articoli che pubblicò su Il Giornale, o in alcune interviste rilasciate a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, utilizzando il mezzo giornalistico per aprire il dibattito sul fascismo a un pubblico non di soli specialisti. In definitiva il lavoro svolto da De Felice permise l'inizio di un nuovo modo di porsi riguardo allo studio degli anni del fascismo, affrancando quest'ultimo "dagli stereotipi e dalle secche dell'antifascismo di maniera". De Felice viene considerato lo storico italiano che, accedendo agli archivi di stato ed a quelli del regime fascista, ha ricostruito più in profondità, dedicando l'ultima parte della sua vita ad una opera monumentale (8 volumi per quasi 6000 pagine con ricca documentazione), la biografia storica di Mussolini. La sua opera, ricca di nuove interpretazioni rispetto alle correnti storiografiche tradizionali, rappresenta un esempio di approfondimento storico metodico e documentato del ventennio fascista ed in particolare della parabola mussoliniana. De Felice ha creato una vera e propria scuola storiografica: oltre a Emilio Gentile, diversi allievi ne hanno proseguito gli studi, (molti raccolti intorno alla rivista Nuova storia contemporanea) da Giuseppe Parlato a Francesco Perfetti, a Giovanni Sabbatucci. Al di fuori della sua scuola, la sua opera è stata oggetto anche di critiche da parte di storici accademici. Tra i critici Giorgio Rochat ha evidenziato la scarsa attenzione prestata ai problemi fondamentali della politica militare del Duce; l'autore afferma che: «De Felice non aveva alcun interesse per le forze armate, dimenticate nei primi cinque volumi della sua biografia di Mussolini malgrado le responsabilità di costui nella politica militare» e che «lo scarso interesse di De Felice per le questioni militari lo porta anche nell'ultimo volume della biografia a scelte discutibili» oltre a sottolineare anche l'assenza nella sua opera di riferimenti al ruolo decisivo svolto da Mussolini nelle politiche repressive in Libia: «nella monumentale biografia che De Felice dedica a Mussolini non è mai citato il vivo interesse con cui il Duce seguiva la repressione». È stata criticata inoltre l'assenza di una analisi della politica bellica di Mussolini in Etiopia e delle sue decisioni sull'impiego dei gas; a tale proposito Angelo Del Boca ha scritto: «A nostro avviso De Felice non ha messo sufficientemente in risalto la gravità dell'aggressione a uno stato sovrano e i metodi spietati che hanno caratterizzato la campagna [...] per fare un solo esempio De Felice liquida la questione dell'impiego sistematico degli aggressivi chimici, forse il peggior crimine che si può imputare al fascismo, con una sola riga.». Relativamente alle occupazioni balcaniche, Teodoro Sala scrive della «sottovalutazione delle questioni balcaniche operata da Renzo De Felice quando ha ricostruito la politica estera fascista» e di «uso magmatico delle fonti introdotto nell'opera monumentale dedicata da De Felice a Mussolini». Riguardo l'interpretazione da parte di De Felice della politica estera intrapresa da Dino Grandi, lo storico britannico MacGregor Knox scrive di: «singolare interpretazione della diplomazia e della strategia fascista» e di «ancor più bizzarra adorazione per l'ambiguo collaboratore e rivale Dino Grandi», mentre lo storico australiano R.J.B Bosworth parla di «ricomparsa di Grandi nel 1988 in veste di eroe dell'interpretazione revisionista del regime data da Renzo De Felice». Sempre riguardo l'interpretazione di De Felice della politica estera fascista, Teodoro Sala condivide il concetto di una "continuità" del fascismo rispetto al periodo liberale ma scrive anche che «si insiste in modo francamente artificioso sulla prevalenza che il fascismo avrebbe dato, fino alla metà degli anni trenta, a una politica degli interessi nazionali contrapposta a quella successiva fondata più sugli interessi ideologici». Lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, pur citando varie volte De Felice e apprezzandone alcuni lavori, scrive anche di «impressionante trascuratezza riguardo alle fonti tedesche, cosa che per l'interpretazione del periodo bellico porta necessariamente ad uno stravolgimento della prospettiva». Lo storico Thomas Schlemmer elogia gli autori italiani più giovani per "aver messo in dubbio la tesi, che risale a Renzo De Felice, secondo la quale il fascismo sarebbe fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto". Infine è stata criticata la tesi defeliciana di una sostanziale equivalenza morale delle due parti in lotta. Ancora Bosworth: «la tesi revisionista diventa inaccettabile quando storici e memorialisti accampano un'equivalenza morale tra le due parti in lotta».

Lo strano revisionismo all'italiana, scrive Dino Cofrancesco il 12 Aprile 2008 su “L’Occidentale”. E’ difficile capire per quali ragioni in quella vasta e composita area politica e culturale che si riconosce nel centro-destra, ogni tanto qualcuno ritenga di dover rimettere in questione i momenti più alti della storia nazionale: l’atto fondativo della comunità politica italiana—v. i simboli del Risorgimento e di Casa Savoia—e la nascita della nuova forma di Stato seguita alla caduta del fascismo e alla sconfitta militare—v. i simboli della Resistenza e della Repubblica. Un tempo si squalificava l’uno per esaltare l’altro. La saggistica di destra, ad esempio, minimizzava la lotta partigiana, contestava il referendum istituzionale, mostrava le lacerazioni dell’Italia liberata, contrapponeva alle miserie del presente l’eroica epopea del passato, evocava gli spiriti sdegnosi di Cavour, Garibaldi, Mazzini che mai si sarebbero riconosciuti nei loro lontani eredi e nella patria tornata ad essere. A sinistra il quadro era diverso: il Secondo Risorgimento, la Resistenza, aveva finalmente restituito al popolo lo scettro della sovranità sicché ora gli italiani non più sudditi passivi di una storia scritta da altri -- dalle élite del potere, dai loro notabili e dai loro intellettuali — avrebbero potuto partecipare, in virtù della democrazia non solo formale ma sostanziale scolpita a caratteri indelebili negli articoli della Costituzione Italiana, alla costruzione del loro avvenire. E’ vero che non tutta la destra, specie al Sud, sentiva il ‘mito risorgimentale e che non tutta la sinistra era disposta a credere nel salto di qualità che per alcuni, seppur c’era stato, in poco volger d’anni, aveva visto esaurire la sua dinamica innovativa (v. la Resistenza tradita), ma in ogni caso quei due miti di fondazione rimanevano estranei, se non ostili, l’uno all’altro. Solo i piccoli partiti laici — a cominciare dal Partito d’Azione—riuscivano a tenere assieme il 1861 e il 1946. Per gli altri, se una data era veneranda, l’altra era da dimenticare: chi cantava Fratelli d’Italia non poteva che provare disagio e fastidio nel sentire Bella ciao e viceversa.

 Da quando un grande maestro della ricerca storica, Renzo De Felice, ha lanciato sul mercato delle idee il ‘revisionismo’, si sono registrati, nei fronti ideologici, significativi slittamenti di senso e di valore che, come in una quadriglia, hanno fatto scambiare le posizioni. La giustizia resa ai vinti del 1945 (i fascisti), a poco a poco, è stata rivendicata per tutti gli altri vinti della storia, almeno di quella moderna. Se il ventennio non fu quello descritto dalla vulgata antifascista — come De Felice, giustamente, definiva le opere dei Guido Quazza, dei Nicola Tranfaglia & C.— perché lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie dovevano continuare ad essere considerati i prototipi del malgoverno di Satana? Quegli esecrati monarchi non avevano costruito strade e persino qualche ferrovia, non avevano favorito industrie e commerci, non avevano fondato orti botanici e teatri, chiese ed enti di beneficenza? Il riconoscimento di quel tanto o poco di buono che avevano lasciato le odiate dinastie nemiche dei patrioti e dell’Italia, come capita in una cultura fragile, priva di nerbo concettuale, per dirla col vecchio Croce, doveva convertirsi nella demistificazione, non priva di compiacimento, dei presunti ‘buoni’. Si vedano i libri (già ricordati in questa sede) di Angela Pellicciari — prefati da Rocco Buttiglione e apprezzati da un ‘antimoderno’ come Franco Cardini — o gli articoli sul Giornale di Ruggero Guarini. Quest’ultimo di recente ha condensato, sul periodico on line Il Velino, tutti i luoghi comuni del revisionismo allargato e in una lettera a Dell’Utri così ha fatto parlare la Signora Italietta: < La rivoluzione napoletana del 1799, con cui si pretende che sia incominciato il mio Risorgimento, non avvenne mai. Quel che avvenne fu una vittoria dei conquistatori francesi che dopo aver sbaragliato l’esercito borbonico, messi in fuga il re e la regina e soffocato nel sangue la resistenza dei Lazzaroni, permisero ai giacobini locali, che non avevano mosso un dito, di fondare una repubblica fantoccio. |…| Il Risorgimento non fu, come il termine lascia credere, un movimento di popolo, ma una lunga serie di cospirazioni e sommosse ordite da movimenti elitari e sfociate in una serie di guerre di conquista combattute e vinte dal Piemonte (col sostegno di un’esigua minoranza di “patrioti” e di alcuni Stati europei) per annettersi tutti gli altri staterelli preunitari. |…| Quale Italietta liberale? – Le molte migliaia di fucilazioni con cui nell’ex Regno delle due Sicilie furono represse, durante i miei primissimi anni di vita, le ultime resistenze filoborboniche (briganti o partigiani?), nonché l’inizio della grande fuga degli emigrandi verso le Americhe (in pochi decenni circa venti milioni di disperatissimi miei figli onorarono la mia nascita scappandosene altrove) dicono che gli inizi della mia storia dopo l’unità, dipinti come sereni e operosi dai suoi apologeti, furono segnati dal terrorismo di stato e dell’accresciuta miseria delle sue popolazioni più derelitte>. Come si vede, rispuntano a destra gli slogan di una storiografia—anche letteraria, teatrale e cinematografica -- che imperversò nel ’68 e che affondava le sue radici in una cultura che, da Alfredo Oriani a Piero Gobetti, da Antonio Gramsci al primo Salvemini, aveva alimentato il non-conformismo degli anni dieci, l’antigiolittismo eversivo e, da ultimo, l’interventismo del radioso maggio inteso a rigenerare la flaccida provincia italiana con una vera. Alla base di questo anticonformismo déjà vu—ripreso da Marcello Dell’Utri che, dopo Francesco Storace, ripropone la Commissione ministeriale per la revisione dei libri di testo e da Raffaele Lombardo, che ripete vecchie litanie sul male che ci ha fatto Garibaldi: - possono esserci varie motivazioni.  Innanzitutto, una volontà di provocazione, di épater les bourgeois, ma sempre più ripetitiva e inefficace; la notizia del bambino che ha morso il cane, infatti, colpisce la prima volta ma, a forza di sbatterla in prima pagina, diventa più stucchevole di quella del cane che ha morso il bambino, sicché se oggi uno storico pubblicasse una impegnativa Apologia del Risorgimento farebbe più scalpore di mille Pellicciari, Cardini e Guarini messi insieme.  In secondo luogo, la difficoltà di pensare per et et piuttosto che per aut aut. Nel teatro culturale italiano sembra esserci posto solo per un protagonista alla volta. Se si riabilita Ferdinando I (non si sa come ma tutto è possibile) si sottraggono allo sguardo degli spettatori i ‘martiri napoletani’ del 1799, si cancella il ricordo di uno dei più fulgidi centri dell’Illuminismo europeo (illustrato dai Galiani, dai Filangieri, dai Genovesi, dai Pagano), si relega in soffitta il primo grande capolavoro dello storicismo liberale italiano, il Saggio storico di Vincenzo Cuoco.   In terzo luogo, il preconcetto delle anime belle che non concepiscono nascita di stato nazionale senza il prodotto dell’ambizione; come se in altri paesi europei — ivi compresa l’Inghilterra — il processo unitario non sia stato opera di dinasti scaltri e intraprendenti.   E infine, forse decisivo, il tipico delle nostre scuole che non riusciranno mai a capire che ogni interpretazione di un evento è una costruzione intellettuale quanto mai ardua e complessa. La storia, con la sua miriade sterminata di fatti, non è il supermarket della memoria in cui ciascuno preleva ciò che fa più comodo alla sua tesi, ritenendosi esonerato, nel nostro caso, dal fare i conti con la grande storiografia italiana del passato-- da Volpe a Croce, da Omodeo a Chabod, da Venturi a Romeo, per limitarci a questi sommi che non avevano nulla, proprio nulla, da invidiare ai maestri d’oltralpe—e con la sua esemplare riflessione sulla questione risorgimentale.  A ben guardare, questo dilettantismo è il peggiore lascito di un antico   condannato a precludersi la consapevolezza che qualsiasi spiegazione si possa avanzare sulle vicende umane — fosse pure la più eccentrica — troverà sempre, nei fatti, qualche pezza d’appoggio; sennonché, nelle scuole frequentate dai neo-revisionisti, Max Weber, come il caffè nella tazzina di Luca Cupiello. Non è questo, tuttavia, l’aspetto più preoccupante della polemica sul revisionismo e sui libri di testo. In tutti i paesi occidentali, la storia nazionale è oggetto di ‘revisione’. Si pensi, nell’Europa dell’Ottocento, all’imponente dibattito sulla Rivoluzione francese, sulla sua genesi, sulla sua natura, sui suoi protagonisti cui partecipano le più robuste menti filosofiche della Germania del tempo, da Kant a Hegel! O, negli Stati Uniti, alla guerra d’indipendenza interpretata in modi differenti -- per gli uni, i democratici ovvero i republicans-, è l’inizio di un novus ordo seculorum, per gli altri, i liberalconservatori ovvero i federalists, è la riappropriazione, da parte degli inglesi d’oltreoceano di diritti storici e di libertà (al plurale) che Londra aveva conculcato. In seguito, l’altro evento traumatico — la guerra civile — attiva un ancor più lacerante conflitto di interpretazioni e porta a scovare fatti – arbitri, violenze, genocidi—destinati a pesare come macigni nell’immaginario collettivo e, puntualmente, portati da Hollywood sugli schermi. In tutti questi casi, però, la ricostruzione storica rappresenta un’arma brandita dai partiti-- e dalle loro retrostanti aree culturali-- in una lotta politica che si svolge all’interno del regime ma che lascia fuori la comunità politica, due dimensioni che vanno accuratamente distinte. La comunità politica, infatti, è l’edificio, il territorio, il contenitore istituzionale, in cui si svolge la competizione per il potere e si confrontano i partiti con le loro diverse, talora irriducibili, visioni del mondo. Il regime politico, al contrario, si riferisce all’assetto interno dell’edificio, alla suddivisione e all’assegnazione degli spazi, ai ruoli di autorità, alle regole che debbono presiedere all’elezione degli amministratori. La prima, se si vuole, si trova in prossimità dello Stato, il secondo, in prossimità del governo. Orbene ciò che colpisce nelle battaglie storiografiche combattute in Italia è che le tesi contrapposte non si propongono solo di fornire agli avversari risorse culturali per l’andata al governo ma rimettono sistematicamente in discussione la stessa ‘comunità politica’. Non si tratta, in altre parole, di decidere se nella tormentata fabbricazione del bene collettivo Francia siano state più importanti le dinastie esaltate da Charles Maurras o i soldati dell’anno II celebrati da Michelet e dalla’ Terza Repubblica—il prevalere dell’una o dell’altra tesi, evidentemente, decide quale subcultura politica ha più titoli per governare l’hexagone. Da noi, dietro le controversie ideali, ci sono spesso l’arrière pensée del, la rottura di una continuità, l’orgogliosa rivendicazione di una diversità irriducibile. Di qui il rifiuto--ostentato e provocatorio -- dei simboli comuni: Nei dollari americani ci sono tutti: Washington, Hamilton Madison; nel Pantheon francese, stanno fianco a fianco Giovanna d’Arco e Luigi IX, il Roi Soleil e Napoleone, il Louvre e la Bastiglia. In Italia, invece, i simboli convivono nei monumenti, nelle facciate di enti, scuole, ospedali, nella toponomastica dei comuni ma non nei cuori di quelle che Barrès chiamava le familles spirituelles di una nazione. Un repubblicano che passa davanti alla statua equestre di Vittorio Emanuele II o un monarchico che guarda l’esile figura di Mazzini scolpita nel marmo provano entrambi una sensazione di disagio. Non è vero che la modalità retorica nazionale sia quella dell’embrassons-nous — le immagini dei padri della patria a braccetto nell’iconografia risorgimentale hanno sempre attivato le ironie di chi --: il nostro famedio ha un numero limitato di posti.

Dal revisionismo al rovescismo. La Resistenza (e la Costituzione) sotto attacco, scrive Angelo d’Orsi il 18 gennaio 2010 su “Micro Mega” (Temi Repubblica). Pubblichiamo un capitolo dal volume "La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico", a cura di Angelo del Boca (Neri Pozza Bloom, pag. 384, € 20). Nell’ottobre 2006, il giornalista Giampaolo Pansa pubblicava un volume che avrebbe dovuto essere legato strettamente al precedente, fortunatissimo Sangue dei vinti, un’opera beneficiata da uno spettacolare lancio del sistema mediatico, con notevolissime, immediate ricadute sul piano politico. Se quel libro voleva essere la rivelazione di fatti tenuti nascosti per sei decenni – tale il messaggio che sostanziò la campagna propagandistica – i successivi del medesimo autore, apparivano quasi dei metalibri, complemento polemico rispetto al primo, stazioni di una personale via crucis dell’autore: lo scrivano – il «pennarulo», per dirla en napolitain – travestitosi da studioso di storia, sfidava i professionisti della ricerca, non soltanto producendo un risultato di enorme successo, e, grazie a esso, ergendosi a loro accusatore, con sonori squilli di trombe e roboanti rulli di tamburi di guerra. L’imputazione? Essere professionalmente non all’altezza del compito, e addirittura nascondere per fini ideologici, o peggio, spinti da conformismo politico (vittime o complici; magari i soliti «utili idioti» della vecchia propaganda anticomunista), nei confronti del «politicamente corretto», ossia della «verità di partito», o quanto meno «di parte»; essi, nella requisitoria di Pansa, avrebbero per decenni nascosto la vera, intera verità di cui pure erano o potevano essere a conoscenza. Non casualmente, dopo avere polemizzato, già nelle aspre tenzoni legate al Sangue dei vinti, contro l’angusta pedanteria di professori che pretendevano addirittura l’indicazione delle fonti su cui egli aveva «lavorato», l’autore andava rivendicando la propria formazione storica, avvenuta all’Università di Torino, con una tesi sulla Resistenza nelle sue zone, l’Alessandrino. Ho detto via Crucis, in quanto in realtà tutta l’operazione-Pansa, oltre ad avere un significato, prima di tutto, bassamente commerciale, era una delle tante rese dei conti che nel sottobosco intellettuale italiano si andavano consumando relativamente ad appartenenze o a militanze nell’area vicina o contigua alle forze politiche della tradizione operaia, socialista, comunista. Insomma, «revisionando» i risultati della ricerca sulle «questioni scottanti» legate alla Resistenza, e ancor più al post 25 aprile, l’autore sembrava esercitare il suo commiato, aspro ed egolatrico, dalla sinistra, accusata di essere, in sostanza, disonesta, retrograda, succube dell’occhiuto, nefasto esercizio dell’egemonia gramsciano-togliattiana. Un tema assai caro a una sovrabbondante pubblicistica, passata dall’era craxiana a quella berlusconiana, che, via via più convinta della giustezza della battaglia contro la pretesa egemonia comunista, ne ha fatto una sorta di leitmotiv. Benché, con eccesso di malizia, forse, vi fu chi sospettò allora che le ambizioni di Pansa fossero di tipo politico, o di giornalismo «che conta» (direzione Corriere della Sera, ad esempio), in realtà il giornalista Pansa era parte – divenuta subito prediletta dai media di area di centrodestra – di una non piccola, anche se non estesa, conventicola: i rovistatori della Resistenza, che hanno la specialità, o endogena, o insufflata dalla committenza politico editoriale, di raschiare nelle pieghe della storia, per snidare il nascosto, ma soltanto se questo sia passibile di uso politico e mercantile, e, soprattutto, se questo «nascosto» emani odore di putrescenza, o sia in grado, appunto, di rovesciare, ribaltare, le acquisizioni storiografiche: ossia la «storia di sinistra», quella che De Felice e i suoi adepti bollarono, con sussiegoso disdegno, come «vulgata antifascista», e poi, semplicemente, «vulgata». E poiché nella maggior parte dei casi la putrescenza è assente, la si inventa, o meglio si condisce con il proprio putridume interiore i fatti, a partire da una impostazione che, come è stato osservato, è prima che anticomunista, «anti-antifascista». Non casualmente, fu sempre pratica corrente di De Felice di non citare mai i lavori dei suoi antagonisti, cioè coloro che venivano deietti nell’inferno della storiografia «ideologica», ossia «di sinistra»: il che, a prescindere dai contenuti della querelle, costituisce già un errore di prospettiva. La storiografia non può essere individuata come «di destra» o «di sinistra», ma soltanto come buona o cattiva, vale a dire seriamente fondata, o meno. Insomma, l’accusa di ideologismo, proveniente dalla sponda revisionistica, andrebbe semplicemente ribaltata su chi la scaglia. E, in ogni caso, appare segno di debolezza – oltre che di insopportabile arroganza – il voler evitare di confrontarsi con ipotesi interpretative e impostazioni metodologiche diverse dalle nostre. Dunque, eccoci alla ricerca sistematica della storia «nascosta», la storia «negata», la storia «menzognera», la storia «sequestrata», la storia «violentata»…, ossia la storia che mostrerebbe (questa la reductio ad unum) il ruolo nefasto, esercitato appunto dal Partito comunista italiano, e dai tanti suoi utili idioti, gli intellettuali «organici», espressione con cui nel disinvolto quanto grottesco lessico revisionistico, vengono etichettati tutti coloro che al PCI erano stati legati, anche indirettamente, coloro che pubblicavano presso casa Einaudi, oltre che sotto le insegne canoniche delle Edizioni Rinascita e, poi, degli Editori Riuniti. L’idea sottesa a questo tipo di atteggiamento e di procedura, è – se vogliamo nobilitarli – che la storia fino a un certo momento sia stata «ostaggio» della cultura di sinistra, a sua volta egemonizzata dal PCI. Costoro, gli intellettuali (non solo gli storici) di sinistra, sotto l’occhiuta regia di Togliatti e, in seguito, del togliattismo, sarebbero stati «i padroni della memoria». Via via che il clima politico generale andava cambiando, e diveniva un fatto concreto lo «sdoganamento» del neofascismo (ormai, nella versione corrente, «postfascismo»), tra gli anni Ottanta e i Novanta, ossia tra Craxi e Berlusconi, i revisionisti prendevano coraggio, occupavano spazi (in particolare si segnalano le pagine, non solo quelle culturali, del Corriere della Sera, foglio in cui ha imposto la linea, su queste tematiche, Ernesto Galli della Loggia), e facevano proseliti, nella loro crociata, che, oltre che anti-antifascista, sostanzialmente era anticomunista, o meglio ancora, in termini più generali, antirivoluzionaria (benché il termine possa apparire desueto). Il revisionismo ha posto sotto attacco, in effetti, a partire dagli anni Sessanta, tutto il ciclo delle rivoluzioni, da quella Francese a quella Bolscevica, fino alla Resistenza, nella quale fu presente, come una componente importante, l’istanza rivoluzionaria, di un cambiamento epocale, e di un sovvertimento sociale a favore delle classi subalterne. Associandosi all’anticomunismo, questo revisionismo, anche nella versione estrema, portato avanti da giornalisti, ma anche da storici, giungeva a sostenere che tutto quello che sappiamo in merito a fascismo, antifascismo, Resistenza, è menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull’occultamento; responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un particolare accanimento su Togliatti, presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare l’arte speciosa del rovesciamento, e come ispiratore delle trame storiografiche negatrici della verità, infine rimessa a posto dai Pansa e sodali, i vendicatori della storia. Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire una «verità alternativa». E più si urlano le verità alternative, più esse sono costruite in modo plastico, condite possibilmente da eros e thanatos, più si allarga il bacino d’utenza. Più i libri smerciano le copie, più aumentano i «passaggi» televisivi (con un rapporto di reciproco beneficio tra l’una cosa e l’altra), più il ceto politico se ne occupa, e un prodotto cartaceo diviene strumento di lotta politica. Non è un caso che il successo dell’«operazione Pansa» sia stato preparato da un lungo lavorio, che parte almeno dagli anni Ottanta, volume dopo volume della mastodontica biografia mussoliniana di Renzo De Felice. Che De Felice abbia dei meriti, è fuori discussione, ma che il suo lavoro avesse anche un fine politico, è altrettanto indubbio, e del resto lo stesso studioso si è incaricato con prese di posizione pubbliche, specie nelle due note interviste, rilasciate a distanza di un ventennio, di trarre risultati politico-ideologici a una ricerca presentata sempre come «disinteressata». E senza quel lavoro, e quegli impulsi ideologici, il revisionismo all’italiana non avrebbe avuto cittadinanza. De Felice, dunque, a partire dai primi anni Sessanta, quando venne allo scoperto come studioso del fascismo, aveva reiteratamente etichettato il proprio metodo nei termini classicamente positivistici del minatore che scava nelle latebre del passato, portandone alla luce i tesori (i documenti), aggiungendo, ad abundantiam, di essere assolutamente «obiettivo», dimenticando l’avvertenza salveminiana: «lo storico che si dichiara obiettivo o è uno sciocco, o un uomo in malafede, quasi lupo travestito da agnello». Salvemini invitava alla «probità»: dichiarare le proprie passioni, innanzi tutto, e prendere «le contromisure nei loro confronti». Il che significa essere onesti, sul piano intellettuale, e rigorosi sul piano del metodo. Ma, nella biografia del duce, contraddicendo il proprio assunto, fin dal primo volume (1965), De Felice aveva operato un pieno ricupero alle glorie patrie del figlio del fabbro romagnolo, sconnettendo, nel prosieguo del lavoro, il cattivo nazismo dal fascismo («che non era poi così male», come si espresse, all’ingrosso, uno dei grands commis di questo apparato ideologico, Giuliano Ferrara), usando (e abusando) la categoria della «modernizzazione» oltre che, ovviamente, di quella del «consenso». Categorie che, nell’analisi del fascismo sono del tutto lecite, ma da usarsi con cautela. E senza enfatizzare né l’una, né l’altra; soprattutto, senza recidere i nessi tra fascismo (movimento e regime) e l’uso della violenza, della sopraffazione, dell’intimidazione. E il sostegno a Mussolini giunto da poteri non propriamente modernizzatori come il Vaticano. Ma ritorniamo a Pansa, e al revisionismo, inteso come teoria e pratica della revisione programmatica, che sarebbe giunto alla sua estremizzazione, il rovescismo, agli inizi degli anni Duemila, ma che aveva palesato già vent’anni prima il suo obiettivo, che ancor prima che culturale era direttamente politico; ad ogni modo, esso non si collocava affatto nell’alveo delle problematiche storiografiche, né aveva un intento conoscitivo. A seguito di una intervista (al Corriere della Sera), in cui De Felice invitava a lasciar cadere la retorica dell’antifascismo, vi fu chi – Alessandro Galante Garrone, tra i primissimi – comprese quale fosse il punto d’arrivo, di un combinato disposto, che metteva accanto, come pezzi di una batteria, revisionismo (pseudo)storiografico e proposte politico istituzionali (erano gli anni della annunciata Grande Riforma, della vaticinata Seconda Repubblica). L’obiettivo di tanto fuoco, in vero, era la Costituzione Repubblicana, cui si voleva metter mano, per un «adeguamento», che ricordava, nella sostanza, la medesima operazione che in termini storiografici si pretendeva di compiere rispetto al ventennio fascista e al biennio resistenziale. Tra De Felice, in specie l’ultimo De Felice, e Pansa, il rapporto sussiste ed è indiretto; fra i due esiste naturalmente una distanza siderale, ma il nesso v’è, e il secondo non sarebbe pensabile senza il primo. Diretta invece la filiazione dal primo degli pseudostorici della Resistenza chiamata sbrigativamente «guerra civile», il giornalista repubblichino Giorgio Pisanò; ma Pansa s’inseriva nel solco tracciato da divulgatori disinvolti quali Arrigo Petacco, Silvio Bertoldi, e un nugolo di altri che non sempre hanno avuto il beneficio del grande successo di pubblico, ossia del massiccio sostegno mediatico. Proprio tale successo, impossibile del resto in epoca preberlusconiana, faceva di Pansa, a partire dal 2003, il principe dei rovistatori. L’obiettivo perseguito da costoro è, come dicevo, la ricerca del sensazionale, o ancora meglio del maleodorante, del putrescente: e, se non c’è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte in prima pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico, senza le cautele minime di qualsivoglia studioso, poco importa. Se gli autori di libri di tal fatta, vendono, troveranno editori disposti a scommettere su di loro, giornali, radio e televisioni pronti a parlarne, e un pubblico abilmente stuzzicato e quindi incuriosito, non dei fatti, così come si sono effettivamente svolti, ma delle notizie (il giornalismo attuale ci ha abituato a una perfetta disconnessione fra le due parole, un tempo legate consequenzialmente: le notizie come la fotografia e radiografia, quando si va un po’ oltre i dati empirici, dei fatti accaduti). Quel pubblico, in sostanza, viene convogliato verso il misterioso, verso il segreto, verso il maligno, verso l’erotico, verso il sadico, verso il macabro: ossia verso ciò che suscita attenzione di massa, che eccita interesse della radio e soprattutto della televisione; ebbene allora il risultato è conseguito. Del resto, l’obiettivo massimo – raggiunto da Pansa– è che la propria opera diventi un film o uno sceneggiato TV. Ho affermato che la filiazione del Pansa «storico» della Resistenza e del primissimo dopoguerra, ci porta a un attivista neofascista, già militante della RSI, giornalista e politico nel MSI (di cui fu rappresentante al senato per un ventennio), Giorgio Pisanò. Nella sua febbrile attività volta a screditare l’antifascismo, e a riabilitare il duce, e il fascismo in generale, costui negli anni Cinquanta pubblicava un’opera a suo modo capitale, che fissava lo stilema interpretativo della Resistenza nei termini di guerra civile. A tale fonte a dir poco inquinata, si abbeverarono i rovistatori di cui sopra, Pansa per ultimo, ma con maggiore dovizia. Ma vediamo chi è il revisionista numero uno, in fatto di «storiografia» sulla Resistenza, Giorgio Pisanò. Ci affidiamo a una fonte inequivoca, un suo libro autobiografico-memorialistico. La decisione di restare nel campo repubblicano (la RSI, insomma) dopo l’8 settembre, viene motivata dall’autore come difesa della «sua dignità di italiano» e de «l’onore della bandiera» di fronte al «rovesciamento di fronte» del Regno....

A sinistra gli storici, a destra i cantastorie, scrive Luigi Iannone su “Il Giornale” il 30 novembre 2016. Quiz della sera …facile, facile.

1) Morto lo storico Claudio Pavone. Per i media è stato colui il quale ha sdoganato il termine di guerra civile.

2) Ernesto Galli della Loggia esce in questi giorni con un libro (Credere, tradire, vivere) in cui si descrivono tutti i passaggi, a fine guerra, dei fascisti nelle fila del PCI e si parla esplicitamente della “truffa dell’antifascismo”.

3) Dovunque mi capiti di cliccare sul telecomando mi imbatto in programmi di Storia in cui: a) si parla solo di fascismo o nazismo come se il mondo iniziasse e finisse negli anni Trenta del secolo scorso; b) i conduttori-giornalisti sono Carlo Lucarelli, Aldo Cazzullo o Paolo Mieli nella migliore delle ipotesi.

4) In qualunque libreria io vada, nella sezione Storia, trovo sempre una caterva di libri revisionistici di Pansa.

Fatta salva la condivisione per questi loro, seppur tardivi, posizionamenti in tema di revisionismo, trattasi tuttavia di persone provenienti o attualmente ancora ‘dimoranti’ in quel mondo che per comodità linguistica definiamo di sinistra.  Un mondo che da sempre detta ‘tempi e modi’ dell’analisi storiografica e delle sue ricadute nel dibattito politico. E allora, secondo voi, cari lettori, tutto ciò può rappresentare una delle principali motivazioni per le quali mi vengono dei ‘travasi di bile’ ogni qualvolta guardo atterrito i soliti volti noti che, invece di andare ai giardinetti dopo aver mostrato le loro miserrime capacità nel ventennio passato, pontificano di nuovo sulla ricomposizione della diaspora post An e si dicono pronti a riorganizzare la Destra politica?

Giampaolo Pansa. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giampaolo Pansa (Casale Monferrato, 1º ottobre 1935) è un giornalista, saggista e scrittore italiano. Nativo di Casale Monferrato, dopo gli studi classici si iscrisse a Scienze Politiche presso l'Università degli Studi di Torino, dove ebbe come docente Alessandro Galante Garrone. Si laureò con una tesi intitolata Guerra partigiana tra Genova e il Po. Sposato con Lidia, nel 1962 ha avuto un figlio, Alessandro, ex amministratore delegato di Finmeccanica. Agli inizi degli anni sessanta entrò nel quotidiano torinese La Stampa. L'elenco delle sue collaborazioni è il seguente:

1961-1964: La Stampa (direttore Giulio De Benedetti). Uno dei suoi servizi più noti del periodo fu sul disastro del Vajont[3];

1964-1968: Il Giorno (direttore Italo Pietra), si occupò delle cronache dalla Lombardia;

1969-1973: La Stampa, inviato da Milano (direttore Alberto Ronchey). Scrisse per il quotidiano torinese sulla strage di piazza Fontana;

(dopo una breve parentesi al Messaggero di Roma come redattore capo) 1º luglio 1973- ottobre 1977: inviato per il Corriere della Sera (direttore Piero Ottone). Durante il periodo al Corriere Pansa scrisse con Gaetano Scardocchia l'inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockheed;

novembre 1977-1991: La Repubblica, inviato speciale (direttore Eugenio Scalfari). Nell'ottobre 1978 assunse la vicedirezione[4]. Riprese a scrivere per il quotidiano romano nel 2000 come editorialista;

1983-1984: crea la rubrica «Quaderno italiano» su Epoca (direttore Sandro Mayer);

1984-1987: crea la rubrica «Chi sale e chi scende» su L'Espresso (direttore Giovanni Valentini);

1987-1990: crea la rubrica «Bestiario» su Panorama, (editore Mondadori, direttore Claudio Rinaldi, Pansa fu condirettore);

1990- settembre 2008: il «Bestiario» prosegue su L'Espresso (direttore Giulio Anselmi, poi Daniela Hamaui).

Nella carriera di Pansa hanno avuto un ruolo preponderante i giornali del Gruppo L'Espresso (la Repubblica e L'Espresso), con i quali Pansa ha collaborato ininterrottamente dal 1977 al 2008. Negli anni della sua collaborazione alla Repubblica, Pansa è stato tra i rappresentanti della linea editoriale vicina alla sinistra di opposizione, senza risparmiare critiche anche al Partito Comunista Italiano. Sono note inoltre alcune sarcastiche definizioni che Pansa ha dedicato a politici italiani, come quella di "Parolaio rosso", per Fausto Bertinotti o quella di "Dalemoni", allusiva al cosiddetto "inciucio" tra Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi ai tempi della Bicamerale. Pansa non fu tenero neanche con i colleghi giornalisti: nel 1980scrisse su la Repubblica un articolo intitolato «Il giornalista dimezzato», in cui stigmatizzava il comportamento, da lui giudicato ipocrita, dei colleghi che, a suo dire: "cedeva[no] metà della propria professionalità al partito, all'ideologia che gli era cara e che voleva[no] comunque servire anche facendo il [proprio] mestiere". Il 1º ottobre 2008, trovandosi in contrasto con la linea editoriale, lasciò il Gruppo Editoriale L'Espresso. Da allora ha scritto sui seguenti giornali:

ottobre 2008-dicembre 2010: Il Riformista (direttore: Antonio Polito);

settembre 2009-luglio 2016: Libero, dove nel gennaio 2011 ha portato il «Bestiario» (direttore: Maurizio Belpietro (2009-2016), Vittorio Feltri (2016-in carica);

settembre 2016: La Verità (il nuovo quotidiano fondato da Belpietro).

La sua attività ha avuto come principale interesse la Resistenza italiana, già oggetto della sua tesi di laurea (pubblicata da Laterza nel 1967 con il titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po). Nel 2001 Pansa pubblica Le notti dei fuochi, sulla guerra civile italiana combattuta tra il 1919 e il 1922, conclusa con la presa del potere da parte del fascismo. Nel 2002 esce I figli dell'Aquila, racconto della storia di un soldato volontario dell'esercito della Repubblica sociale italiana. Con questo libro comincia il ciclo «dei vinti», cioè una serie libri sulle violenze compiute da partigiani nei confronti di fascisti durante e dopo la seconda guerra mondiale. Escono successivamente Il sangue dei vinti (vincitore del Premio Cimitile 2005), Sconosciuto 1945 e La Grande Bugia. Nel 2011 esce Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri, in cui ritrae l'Italia degli umili tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX attraverso la storia dei propri nonni e genitori. In particolare per Il sangue dei vinti, Pansa è stato oggetto di critiche in quanto avrebbe "infangato" la Resistenza utilizzando, a detta dei detrattori, quasi esclusivamente fonti revisioniste di parte fascista[8] accuse che Pansa ha sempre respinto con decisione, sostenendo di aver utilizzato fonti di diverso colore politico e di aver spesso descritto i crimini che certi esponenti fascisti avevano commesso ai danni dei partigiani prima di essere a loro volta uccisi. Durante la presentazione dei suoi libri in alcune occasioni Pansa è stato oggetto di contestazione da parte di centri sociali di estrema sinistra che accusano l'autore di revisionismo. In un caso ci sono stati tafferugli tra gruppi di sinistra e di destra, entrambi presenti all'evento. Tali episodi sono stati condannati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal presidente del Senato Franco Marini. Vi è stato anche chi, come Galli della Loggia, ha giudicato positivamente il lavoro di Pansa, chiedendosi però come mai l'Italia si permetta di far luce sui crimini ignorati della sua storia solo quando sono gli intellettuali di sinistra a renderli noti al grande pubblico. Anche lo storico Sergio Luzzatto, dopo una iniziale perplessità su Il sangue dei vinti, che comportò da parte sua anche dure prese di posizione, dichiarò in seguito che nelle sue opere «nulla si inventa» e c'è «rispetto per la storia». Il libro successivo, La Grande Bugia, è dedicato proprio alle reazioni suscitate da Il sangue dei vinti. Anche quest'opera è stata oggetto di critiche. I gendarmi della memoria ha chiuso il trittico aperto da Il sangue dei vinti: è un atto di accusa contro quanti, a suo avviso, non accettano alcuna forma di ripensamento o di autocritica su quel periodo.

E' morto Claudio Pavone: aprì il dibattito sulla Resistenza come guerra civile. Aveva 95 anni, la sua opera "Una guerra civile" è stato uno snodo centrale della storiografia sugli anni tra il 1943 e il 1945, scrive Simonetta Fiori il 

29 novembre 2016 su "La Repubblica". È scomparso a Roma Claudio Pavone, tra i più autorevoli storici italiani e uno degli ultimo grandi maestri del Novecento. Classe 1920 - avrebbe compiuto 96 anni domani 30 novembre - è autore di libri importanti, capaci di cambiare lo sguardo sulla storia. Nel suo lavoro più celebre, Una guerra civile (1991 Bollati Boringhieri), sostenne che la Resistenza oltre a essere una guerra di liberazione dai nazifascisti fu anche una guerra civile tra italiani. Una lettura profondamente innovativa, che non mancò di suscitare discussione nelle file del partigianato. Ma gli argomenti usati da Pavone - e la sua specchiata biografia di resistente - finirono per risultare più forti rispetto alle critiche. E oggi quel suo lavoro figura come un titolo spartiacque, capace di segnare gli studi storici e il senso comune intorno alla guerra partigiana. Nato pochi anni prima dell'avvento di Mussolini, Pavone crebbe sotto la dittatura che non gli impedì di maturare una coscienza civile: l'8 settembre 1943, a Roma, assiste al disfacimento delle forze armate e dell'apparato statale, prende contatti con il Psiup -  Partito Socialista d'Unità Proletaria - e diventa assistente di Eugenio Colorni, figura storica dell'antifascismo. Il 25 aprile del 1945, giorno della liberazione, Pavone è a Milano: di quella giornata ricorderà l'incredibile anarchia, "tra pulsione di festa e spettacolo di morte". Misura e sensibilità resteranno componenti fondamentali di una personalità colta ed elegante, che avrebbe coltivato la sua passione civile attraverso lavori storiografici fondamentali. Per moltissimi anni, nel dopoguerra, svolse il lavoro di archivista. Ebbe un ruolo importante nella sistemazione dell'Archivio Centrale dello Stato. La frequentazione con i documenti gli consente di approfondire il suo interesse per la storia. Dalla metà degli anni Settanta riceve un incarico all'università e fino alla pensione sarà professore a Pisa. La prima opera rilevante sul piano storiografico si intitola "La continuità dello Stato: Istituzioni e uomini": lo studioso vi sostiene la tesi della continuità dello Stato, degli apparati burocratici e dei funzionari, nel passaggio tra il regime fascista e la democrazia. Tesi storiografica innovativa che inaugurò un nuovo filone della ricerca anche sul piano metodologico (allo stesso tema è dedicato il volume più recente "Alle origini della Repubblica"). La sua opera più famosa porta come sottotitolo "Saggio storico sulla moralità nella Resistenza". Ricchissimo di materiale documentario, e forse anche frutto dell'esperienza diretta vissuta da combattente, il libro punta per la prima volta la lente storiografica sulle motivazioni, i comportamenti, le aspettative dei partigiani. Un'opera cardine della storiografia, che "sdogana" la nozione di guerra civile, fino a quel momento invalsa soltanto nella pubblicistica neofascista. La Resistenza secondo Pavone è stata una triplice guerra: patriottica contro l'invasore tedesco, civile tra italiani fascisti e italiani antifascisti, e di classe tra rivoluzionari e classi borghesi. Non mancarono le polemiche, ma Pavone ebbe dalla sua parte figure antifasciste della statura di Vittorio Foa e Norberto Bobbio, che aveva partecipato all'elaborazione dell'opera. Caposcuola di un revisionismo di sinistra, Pavone non avrebbe poi esitato a intervenire nella battaglia politico-culturale contro un "neorevisionismo" anti-antifascista che voleva deformare la storia d'Italia, rendendola più adatta al nuovo corso politico inaugurato nel 1994 da Silvio Berlusconi e i postfascisti. Intellettuale rigoroso, fu allergico alle "sciatterie" di ricostruzioni storiche strumentali. E tra le imprese cui teneva di più era anche la sua rivista "Parolechiave", con cui indagava i temi della contemporaneità. Sposato, tre figlie, ha poi incontrato la seconda moglie, la storica Anna Rossi-Doria, con cui ha condiviso tantissimi anni di amore e di ricerca.

Pavone, lo storico di sinistra che scoprì la "guerra civile". Ma dopo Montanelli e Cervi. Il suo libro del 1991 fu fondamentale (pur con troppe omissioni) per riaprire il dibattito sulla Resistenza, scrive Francesco Perfetti, Mercoledì 30/11/2016, su "Il Giornale". È trascorso esattamente un quarto di secolo da quando, nel settembre del 1991, apparve in libreria il ponderoso lavoro di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza. L'opera ebbe un immediato successo e finì, subito, al centro di un vasto e articolato dibattito storiografico per il fatto che introduceva in un certo senso come concetto storiografico neutro la locuzione «guerra civile». Pavone, scomparso ieri a Roma all'età di 96 anni, era uno studioso di formazione marxista, ben conosciuto per la sua attività di archivista e ricercatore, ed era stato anche attivo nel movimento partigiano. Già qualche tempo prima della pubblicazione di quel suo celebre volume aveva sollevato il problema di sdoganare la categoria interpretativa di «guerra civile» utilizzata largamente, sino ad allora, quasi soltanto dalla letteratura neofascista, anche se, ad onor del vero, al di fuori delle sacche del «nostalgismo», già nel 1983 Indro Montanelli e Mario Cervi avevano intitolato proprio L'Italia della guerra civile un loro volume della fortunata serie dedicata alla storia d'Italia. La verità è che l'ortodossia resistenziale si rifiutava, al netto delle giustificazioni morali o politiche, di concepire l'idea stessa che i fascisti potessero essere considerati «uomini» come gli altri impegnati a combattere una guerra. Vi ostava l'idea che i fascisti, durante i sanguinosi anni di guerra civile, avessero considerato «antinazionali» e «traditori» i loro avversari e, ancora, vi ostava il fatto che, in nome dell'«unità della Resistenza» a guida comunista, essi fossero percepiti come un elemento da espellere dalla considerazione storica. Bisognava negare ai fascisti, proprio in virtù dell'oblio del concetto di guerra civile, qualsiasi forma di possibile legittimazione come forza nazionale. Si trattava di una scelta, del resto, coerente con il progetto togliattiano di conquista della società civile e politica. Il volume di Claudio Pavone, nato da un suggerimento di Ferruccio Parri, aveva avuto, dunque, una lunga gestazione ed era apparso subito come profondamente innovativo rispetto alla lettura tradizionale della Resistenza. Esso partiva dalla distinzione fra «una Resistenza in senso proprio e forte, quella combattuta nel Nord, politicamente e militarmente, da una cospicua minoranza», e «una Resistenza in senso ampio e traslato» che era venuta «man mano assumendo anche per chi non vi aveva partecipato o aveva cercato di circoscriverne, manometterne o emarginarne la memoria un ruolo di legittimazione dell'intero sistema politico repubblicano e della sua classe dirigente». Le vicende succedutesi nell'Italia repubblicana dall'espulsione delle sinistre dal governo all'indomani dell'esperienza ciellenista fino al progetto di «arco costituzionale» come riedizione del Cln avevano finito per mettere in crisi, mostrandone tutta l'inadeguatezza, una lettura «monocorde» della Resistenza. E, quali che ne fossero le presse e i risultati, lo studio di Pavone finiva per muoversi in una prospettiva di tipo revisionistico. Secondo lo studioso, nel periodo compreso fra l'armistizio dell'8 settembre 1943 e il 2 maggio 1945 furono combattute tre guerre: una guerra di liberazione nazionale o guerra patriottica, una guerra civile e una guerra di classe. La prima fu diretta contro lo «straniero», segnatamente i «nazisti» con una precisa connotazione politico-ideologica; la seconda si manifestò attraverso la contrapposizione dei partigiani ai fascisti e fu di tipo volontaristico e ideologico; mentre la terza riguardò il carattere di lotta al fascismo come lotta del proletariato contro il padronato propria delle frange comuniste della Resistenza con caratteristiche o suggestioni di tipo insurrezionale di massa. L'impatto del saggio di Pavone sulla storiografia fu enorme. La legittimazione del concetto di «guerra civile» fu accettata, per esempio, da Norberto Bobbio e da Vittorio Foa, che, senza mezze parole, dichiarò di essere sempre stato «irritato» di fronte a chi «negava il carattere di guerra civile alla lotta partigiana». La rifiutò, invece, un cattolico come Sergio Cotta, il quale, anzi, rigettò anche la «tripartizione» della Resistenza in tre guerre combattute su «fronti» diversi sostenendo, invece, che la Resistenza fu un'unica, grande guerra. Comunque sia, l'opera di Claudio Pavone segnò davvero un passo avanti nella ricerca storiografica e inaugurò una nuova stagione di riflessione e di studi. Anche se, va pur detto, in termini di contenuto, essa non si distaccò troppo dalla vulgata tradizionale della sinistra culturale allora egemone nel Paese. Per esempio, il contributo alla lotta di liberazione dei militari italiani che si trovavano all'estero al momento dell'armistizio si pensi all'eccidio di Cefalonia è stato completamente sottovalutato. Non solo. Il massacro di Porzus, dove i partigiani della Brigata Osoppo furono trucidati da partigiani comunisti, è liquidato in sei righe. E, ancora, viene citata una sola volta la figura di Alfredo Pizzoni, presidente del Clnai e capo della Resistenza ma che, troppo liberale e troppo patriota filo-inglese, venne messo alla porta e sostituito dal socialista Rodolfo Morandi, gradito ai comunisti. E sporadici sono i riferimenti, soltanto cinque, all'eroe della Resistenza Edgardo Sogno. Si potrebbe proseguire. Ma non vale la pena.

Gli eroi dell'Arma dei Carabinieri? I partigiani rossi li hanno cancellati, scrive il 29 novembre 2016 Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”. Salvo D’Acquisto non era affatto solo. C’era -per dire- il maggiore Giovannini che intercalava coi i suoi «Porcomondo!» le inalazioni di Muratti accese al contrario, un vecchio trucco per sfuggire ai cecchini. Giovannini prima aiutò gli sloveni a sbarazzarsi dei crucchi; e poi, nella Milano invasa dai carrarmati, faceva il Robin Hood della liberazione con la sua “Banda Gerolamo”. C’erano anche il generale Caruso della «banda» omonima, a cui i nazisti estrassero 13 denti ma non la dignità; e il brigadiere Ioppo, il suo pard, pestato come un tamburo dal muto lamento: entrambi uniti nel dolore, e scampati alla deportazione («un eroismo diffuso a prescindere dai gradi», commenta Bruno Vespa) grazie un camion uscito fuori strada. C’erano il maggiore Di Iorio che alzava le barricate dalla stazione Roma San Giovanni; e il maggiore Bellini che, a Bussolengo, per tre volte, respinse le SS finchè un panzer dell’armata Himmler non gli sfondò le mura della caserma. E c’erano gli infoibati di Tito, i martiri delle Fosse Ardeatine, gli uomini in divisa dispersi per ordine del gerarca Kappler «la cui presenza a Roma avrebbe impedito la razzia e le deportazioni nel ghetto ebraico». Erano in tanti, i piccoli grandi eroi affondati nella storia oggi descritti nel bel libro del giornalista del Corriere della sera Andrea Galli, Carabinieri per la libertà. L'Arma nella Resistenza: una storia mai raccontata (Mondadori, pp 168, euro 18). Il libro di Galli paga un debito con la storia, ne riscrive una pagina volutamente dimenticata dalla pubblicistica ufficiale della Resistenza. Parla di 2753 carabinieri morti ammazzati col moschetto poggiato sull’omero; e che non si piegarono al servizio della Rsi, perchè «avevano una dignità che non poteva spingerli a difendere i prepotenti contri i deboli» (come disse uno di loro, il maggiore maceratese Pasquale Infissi, dimenticato perfino a Macerata). Questo libro è un vaso di Pandora, appunto, di dignità perdute. E disvela una sorta di «eroismo diffuso che non teneva conto dei gradi»; l’espressione, felice, è di Bruno Vespa che la usava per presentare questo saggio romanzato al Pavilion Unicredit Milano, con l’autore osannato da Paolo Mieli, da monsignor Vincenzo Paglia, dal generale Enzo Bernardini e dal critico letterario del Corriere Antonio D’Orrico. Platea robusta usi obbedir tacendo. Tutta pervasa del senso d’appartenenza all’Arma, la commozione degli alamari cuciti sulla pelle -avrebbe detto il generale Dalla Chiesa. Andrea Galli s’è comportato da speleologo della memoria. S’è inoltrato negli archivi, ha strappato indizi e mozziconi di cronaca tra i documenti dimenticati della Benemerita. E dalla vicenda proprio di Ettore Giovannini ne ha sfilata un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora: ogni racconto concatenato all’altro, in una sfilata di atti di coraggio impietosamente dimenticati. «Perchè questo libro esce solo ora? Perchè ci siamo dimenticati di loro? Perchè c’è dolo...» commenta, con placida ferocia, Paolo Mieli qui in funzione di storico «perchè i carabinieri erano fedeli all’istituzione monarchica, perchè il sacrifico di Salvo D’Acquisto consegnatosi al posto dei partigiani che causarono l’attentato sacrosanto di via Rasella provocò, negli anni, una sorta di ostracismo dell’Arma da parte dell’ideologia di sinistra. E perchè al confine orientale i carabinieri, amati dalla popolazione, finirono nelle foibe titine, uscendo automanticamente dai registri dei martiri della Resistenza...». I carabinieri del libro di Galli -ha ragione Antonio D’Orrico- assolvono, attraverso un’epica romanzesca, una funzione quasi di «filosofia della storia»: «Con la loro storia non potevano mettersi al servizio di chi non aveva storia». E giù con le citazioni delle buone azioni in alta uniforme delle copertine di Beltrame e Molino sulla Domenica del Corriere; con l’evocazione delle indagini letterarie dei Racconti del maresciallo di Mario Soldati, che proprio in un sottufficiale dell’Arma aveva scovato lo spirito del «Maigret italiano». Ma non è tanto questo che rende Carabinieri per la libertà un afflato letterario degno d’esser letto. «Qui c’è, soprattutto, un messaggio morale per le nuove generazioni», dice il Comandante generale Tullio Del Sette, il cui padre, tra l’altro, era tra i carabinieri deportati e dimenticati. Il messaggio morale degli eroi del silenzio. Il suddetto libro è davvero la sceneggiatura di una nazione, fatta di tanti Salvo D’Acquisto. Più di quanti il cuore e l’orgoglio avrebbero potuto immaginare...Francesco Specchia

Nel libro di Ernesto Galli della Loggia l’Italia che non sa cambiare. In «Credere, tradire, vivere», edito dal Mulino, l’autore sottolinea la difficoltà degli intellettuali ad ammettere i proprio errori e denuncia la confusione tra politica e morale, scrive Aldo Grasso il 24 ottobre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Benedetto Croce sosteneva che «ogni vera storia è sempre autobiografica». Verissimo: nei giudizi, nelle ricostruzioni, nelle analisi è impossibile prescindere dalle proprie esperienze personali, dagli studi che ognuno di noi ha fatto, dalle persone che ha incontrato. Basta ammetterlo, con franchezza. Per questo Ernesto Galli della Loggia in Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica (il Mulino) non si rifugia dietro quella forma di anonimato accademico («il noi delle tesi di laurea», diceva Roland Barthes) che normalmente usano gli storici di professione, specie quando parlano di cose recenti in cui, in qualche modo, sono coinvolti: «Di qui — scrive l’autore — la natura alquanto inconsueta di questo libro: insieme libro di storia e di ricordi, di vicende pubbliche da un lato e di sentimenti personali dall’altro. E proprio in un grumo di sentimenti (e risentimenti, perché non dirlo) è da cercare l’origine del tema di fondo delle sue pagine: la difficoltà, l’impossibilità di cambiare». In una puntata della settima stagione di Grey’s Anatomy (anch’io ci metto qualcosa della mia vita), la grande Shonda Rhimes mette in bocca a Meredith queste parole: «Quando diciamo cose tipo “Le persone non cambiano”, facciamo impazzire gli scienziati. Perché il cambiamento è letteralmente l’unica costante di tutta la scienza… È il fatto che le persone cerchino di non cambiare che è innaturale, il modo in cui ci aggrappiamo alle cose come erano invece di lasciarle essere ciò che sono, il modo in cui ci aggrappiamo ai vecchi ricordi invece di farcene dei nuovi». Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è il motore dell’esistenza. Perché allora ci rifugiamo nell’immobilismo delle idee, in una sorta di eden di specchiata moralità, finanche nel gattopardismo? Con questo libro variegato, Galli della Loggia ci regala l’esempio più efficace della sua maniera di affrontare la storia. Seguendolo lungo le vie più personali che qui tratteggia, ci troviamo ad avere un’immagine molto più precisa, molto più concreta di questi anni, a partire dal fatidico Sessantotto. Anni che abbiamo vissuto, ma anche anni che la memoria storica cerca di levigare, smussando i contrasti e le non poche contraddizioni. Nel parlare di questo libro non vorrei seguire il filo cronologico per non rovinare al lettore il piacere delle trame, per non rivelargli come va a finire. Preferirei parlare di alcuni temi che ricorrono e si rincorrono come leitmotiv, come fari nella notte per le nostre povere risorse intellettuali stremate dagli eccessi d’informazione. Uno di questi è appunto «quel presunto tipico vizio italiano che sarebbe il voltagabbanismo/trasformismo. Vizio storico italiano ma, beninteso, degli “altri” italiani, sempre di quelli dell’altra parte, non della nostra, che invece, come si sa, è immancabilmente quella degli italiani bravi e virtuosi per definizione». Insomma, è possibile «cambiare» senza necessariamente «tradire»? La democrazia non dovrebbe essere il luogo per eccellenza della mobilità delle idee? Anche i padri della Patria, come Camillo Benso conte di Cavour, non hanno forse seguito itinerari tortuosi prima di arrivare, nel caso specifico, a un fulgido esempio di liberalismo progressista? La tesi dell’autore è questa: in politica cambiare opinione è normale, spesso necessario (senza per questo essere additati al pubblico ludibrio). L’unica condizione per un personaggio pubblico è però di ammettere che si è cambiati. C’è un momento storico che spiega questo atteggiamento moralistico? Il capitolo «Autobiografie della nazione» andrebbe letto e riletto, riga per riga. Perché parla dei conti mai chiusi con il fascismo, della politica che stinge nella morale (e diventerà molto ambigua quando si parlerà di «questione morale» con Enrico Berlinguer), del peso della memoria e della funzione liberatrice dell’oblio. Galli della Loggia si sofferma sul caso Bobbio, quando nel dicembre del 1988 compare sulla prima pagina della «Stampa» un articolo in cui l’insigne filosofo confessa alcuni atteggiamenti «servili» tenuti durante il fascismo. Quello che colpisce non è l’onesta confessione di Bobbio quanto la reazione di alcuni suoi famosi sodali (da Alessandro Galante Garrone a Giorgio Bocca) che insultano chi tenta una qualche riflessione su quella sorprendente dichiarazione. Il passaggio dal fascismo alla democrazia è stato piuttosto caratterizzato da un trasformismo di massa e la «conversione» altro non è stata che dimenticanza (nel mio piccolo ho più volte descritto il passaggio «indolore» dalla Eiar alla Rai, con la beatificazione di quasi tutti i dirigenti storici compromessi). È stata proprio la mancanza di un processo di autoconsapevolezza sugli errori del passato ad acuire la confusione tra politica e morale, a far considerare il cambiamento con diffidenza, a dividere il mondo tra buoni e cattivi. Negli anni Sessanta era quasi impossibile non essere di sinistra: «Fu per l’appunto il mio caso. Il caso di chi allora diventò di sinistra quasi naturalmente: perché, guardandosi intorno, erano lì le idee che apparivano più moderne e più vive, lì soprattutto stavano le persone che incontravi e ti colpivano per la loro spregiudicatezza, la loro cultura e la loro capacità critica». Era in quell’ambito culturale che si cercavano i padri ideali, che si interpretavano i fermenti che arrivavano dall’estero, che i laici potevano avvicinarsi al mondo cattolico attraverso le «aperture» del Concilio Vaticano II. Ma era sempre in quell’ambito che si sarebbero presto sviluppati i germi dell’estremismo, le ondate di radicalismo manicheo, le pulsioni antiparlamentari dei gruppi gauchisti, le ideologie più utopiche o assassine. Anni terribili in cui bisognava avere il coraggio di cambiare idea, anche se per molti illustri maître à penser il cambiamento è avvenuto troppo tardivamente. L’idea che mi sono fatto sui Sixties è che sono stati un periodo decisivo di storia sociale (il nascente benessere e la segregazione razziale, il sogno americano e Il giovane Holden, il dottor Spock e la gioventù bruciata) attraverso l’accumulo di sensazioni, di filmati, di spot pubblicitari, di telegiornali e soprattutto di canzoni. Le idee innovative erano nell’aria, si respiravano con entusiasmo. Poi è arrivato il Sessantotto, il tanto evocato e osannato Sessantotto, che avrebbe ucciso tutto, con la sua pesantezza ideologica, con la sua illusione di sovvertire strutture ed equilibri del capitalismo. Non dunque un punto di partenza, ma un fatale arrivo. E poi c’è tutta la storia dell’egemonia culturale della sinistra, degli orfanelli del «Politecnico» di Vittorini, di una cultura che cercava risposte politiche alle proprie inquietudini, delle scelte di campo che talvolta obbligano alla cecità. Rappresentando se stesso all’interno di queste narrazioni che riguardano la storia del nostro Paese, la sua identità (il compromesso storico, la Biennale del dissenso di Venezia, il rapimento di Aldo Moro, l’ascesa di Bettino Craxi, la questione morale di Berlinguer, l’avvento di Berlusconi, l’idea perduta di patria…), e sono narrazioni una più interessante dell’altra, Galli della Loggia stringe un ideale patto di lealtà conoscitiva con il lettore. Pur esponendosi in prima persona, lo storico non è mai un semplice io, ma una specie di sistema complesso: dove si trovano molte funzioni, molte particolarità secondarie che legano rapporti reciproci e subiscono attrazioni vicendevoli, mentre ruotano attorno a un nucleo centrale. Ma qual è questo nucleo? È l’uso della storia. Nella sua pagina più importante, quella su cui edifica tutto il libro, l’autore pone una distinzione fondamentale tra uso politico della storia e vocazione pubblica della storia: «L’uso politico è quello che non si fa scrupoli di manipolare in vario modo i fatti o loro aspetti specifici ritenuti cruciali per giudizio universale (tacendoli o distorcendoli palesemente)… la vocazione pubblica della storia, il suo uso pubblico, è invece quella caratteristica dell’indagine storica connessa al clima generale, alla temperie ideale, dell’epoca in cui l’autore vive». Nella vita, ogni persona intelligente compie un cammino tortuoso, possibilmente di maturazione. Perciò cambia idee, si confronta continuamente con l’immagine virtuale dell’epoca, cerca di vincere l’atrofia della memoria, prende atto di quel misterioso «sentire comune» o «spirito del tempo» che la storiografia filosofica ha chiamato Zeitgeist. E infatti le pagine più trascinanti sono quelle in cui l’autore depone per un attimo la corazza dello storico e in veste di chroniqueur traccia del suo passato, delle sue avventure esistenziali, degli incontri decisivi: l’esperienza di «Mondoperaio», gli incontri con Livio Zanetti, Lamberto Sechi, Giorgio Fattori e Claudio Rinaldi, la lunga amicizia con Paolo Mieli, l’avventura di «Pagina», lo scontro con gli einaudiani di ferro… La storia delle idee lascia il posto a immagini vive e riccamente articolate. Oggi lo storico non ha più, come certi suoi colleghi del passato, punti fissi d’orientamento: le grandi ideologie, la divisione in classi, le organizzazioni sociali. È più solo, paradossalmente più nudo. La storia insegna, ma prima ancora segna.

Galli della Loggia racconta i suoi trasbordi politici in una Italia che non è mai cambiata. Liberi ma soltanto a sinistra. Il ricollocamento avviene solo in un perimetro ristretto, scrive Gianfranco Morra su "Italia Oggi", Numero 274 pag. 10 del 18/11/2016. È possibile cambiare idea politica senza essere definito voltagabbana, trasformista, traditore? Una domanda oggi attualissima, mentre circa 300 parlamentari hanno cambiato casacca anche più di una volta. Cerca di rispondere Ernesto Galli della Loggia, del quale è giunto in libreria un curioso libro: Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica (Il Mulino, pp. 356, euro 24). Nel quale una sicura e informata storiografia si alterna con una garbata e schietta autoconfessione. I salti politici appartengono alla natura del nostro popolo. L'Italia ha iniziato il suo cammino di unificazione quando Cavour, liberale conservatore, ha fatto una apertura alla sinistra di Rattazzi, rottamando D'Azeglio: «stai sereno, Massimo». Seguirono poi gli anni del trasformismo di De Pretis, del mazziniano e garibaldino Crispi per il quale «la monarchia ci unisce e la repubblica ci divide», dell'opportunismo di Giolitti e del salto di Mussolini dal socialismo al fascismo. Un fascismo che cadde per volontà dei suoi gerarchi pentiti, mentre la monarchia cambiava le alleanze. Con un popolo quasi tutto fascista, che, quando le cose andarono male, si mise in attendismo, mentre solo alcune decine di migliaia si combatterono fra di loro in una guerra civile. Terminata la quale gli italiani erano diventati antifascisti. Anche non pochi fascisti si erano Redenti (come li chiama lo studio di Mirella Serri, edit. Corbaccio) e in gran parte confluirono nella sinistra. Compresi alcun padri della repubblica antifascista. Nel 1935 Norberto Bobbio scrisse a Mussolini una «infame lettera» (sono sue parole) per assicurarlo della sue fede fascista. E, grazie anche alla protezione del triunviro De Bono, vinse la cattedra universitaria a Camerino. E Piero Calamandrei, ancora nel 1940, collaborò alla stesura del nuovo codice di Procedura civile voluto dal Guardasigilli fascista, Grandi. Pochi come Della Loggia erano in grado di parlare con cognizione di causa dei mutamenti politici. Anche se ha bevuto sempre latte di sinistra, ne ha fatti tanti e li riconosce con sincerità: ventenne si iscrisse al Psi, appoggiò la contestazione studentesca, i suoi miti (Vietnam, Cuba) e i suoi padri surrogati, votò Pci negli anni Settanta, quando era giornalista di «Paese sera», poi si sentì radicale, divenne infine un intellettuale di Craxi. È sempre andato nel senso giusto, anche se nessuno può dubitare della sua buona fede. Lo confessa lui stesso con schiettezza: «Io seguii la corrente, in nessun senso sono stato una vittima». Sappiamo tutti che a partire dagli anni Sessanta per un uomo di cultura le porte erano aperte soprattutto se aveva la divisa di sinistra. Nel 1974 Galli ebbe l'incarico universitario di Storia contemporanea a Perugia solo dopo aver dato assicurazioni al dirigente culturale del Pci. Egli lo confessa senza difficoltà, nessuno può dubitare che lo meritava pienamente e ancor meno che tanti docenti con le sue stesse capacità, ma renitenti a quell'aggancio ideologico, sono rimasti fuori. La dittatura gramsciana sulla cultura era totale, anche grazie al menefreghismo della Dc, che da «partito dirigente» si era degradata a «partito dominante». Nella mia facoltà bolognese, forse la più cattocomunista d'Italia, si era diffusa l'abitudine che chi leggeva «Il giornale» comprasse anche la «Repubblica» con cui, prima di entrare, incartava l'altro. Un totalitarismo culturale per non pochi aspetti ancora più forte di quello del fascismo. L'ultima svolta di Galli fu per Craxi. Ormai deluso del comunismo ne capì subito le novità: far nascere finalmente in Italia una socialismo democratico europeo; far cadere il pericoloso inciucio, chiamato «compromesso storico», fra Moro e Berlinguer. Ma ne intuì, anche, i limiti. Non solo quelle ruberie, che lo porteranno alla fuga, ma anche difetti di carattere. Nel momento in cui il popolo italiano, stanco dei partiti politici, cercava un leader carismatico, non poteva essere attratto dalla sua intelligenza fredda, dall'eloquio secco, dalla condotta acida e altezzosa. Mancava di quelle doti «populiste», che condurranno alla vittoria il suo successore Berlusconi. La democrazia è un regime che favorisce i cambi delle idee. Del tutto legittimi, quando non sono mossi da motivi abietti. E vi sono momenti storici in cui solo cambiando idee e programmi è possibile migliorare la situazione. Purtroppo nella nostra repubblica i cambiamenti o non ci sono stati o non hanno cambiato nulla. Lo mostra la seconda repubblica che non è stata diversa dalla prima. Due schieramenti, uno dei quali accusava l'altro di un comunismo che non c'era più e l'altro, il pericolo di un fascismo che non era più possibile. Il gioco continuava: la destra trovava qualcosa da dire solo riesumando un cadavere contro cui combattere, la sinistra inventava un pericolo per avere una ragione di esistere e nascondere così le sue impotenza e decadenza. In questa situazione Della Loggia ha smesso di saltare. Ha fatto una indigestione di utopie, ma ora il futuro è morto prima di nascere, cambiare non si può, è giunto il momento di una dieta di contenimento: «Sono divenuto un cane sciolto genericamente democratico». Ottima consapevolezza, ma anche insufficiente. Come mostrano gli articoli che settimanalmente pubblica, esemplari per lucidità e chiarezza, critici e sollecitanti. Ma anche quasi sempre inconclusivi e inconcludenti. Un sublime gioco intellettuale, che per lo più ci dice con acutezza cosa non va, senza indicare che cosa si dovrebbe fare. Il pulmino della sinistra, nel quale si è seduto in tutti i posti e strapuntini, è fermo per mancanza di benzina. Non serve più. Ma senza comprarne uno nuovo come si fa a partire?

Il tradimento degli storici e la truffa dell'antifascismo. Galli della Loggia mostra come l'ortodossia di sinistra abbia impedito all'Italia di comprendere il suo passato, scrive Fiamma Nirenstein, Martedì 29/11/2016, su "Il Giornale". Il nuovo libro di Ernesto Galli della Loggia "Credere, tradire, vivere" edito da il Mulino è un classico da conservare in biblioteca: lo è per il modo in cui è costruito, con l'enunciazione di una tesi originale e poi la sua dimostrazione, arricchite da un ricco corredo di citazioni, da ricordi personali che si intersecano col mestiere accademico di Galli. È un classico anche per l'importanza della intenzione storiografica che lo ispira e che vuole trasmettere, smontando la cosiddetta «narrativa» di sinistra. Essa, come Galli dimostra, domina la storiografia, affligge anche la maggioranza dei testi scolastici e ha enormi responsabilità sull'epos collettivo del popolo italiano: la storiografia traditrice è uno dei grandi responsabili dell'antifascismo obbligatorio sostitutivo di qualsiasi riflessione sincera su ciò che è accaduto all'Italia degli ultimi cento anni. Il testo dunque si sviluppa lungo un carattere basilare della identità politica italiana, quella riassunta dal secondo verbo nel titolo: «tradire», un'attitudine italiana spiegata da tutti gli angoli e con malcontenuta indignazione. Da un'epoca all'altra della politica italiana, quella che porta dentro il fascismo, e poi fuori di esso costruendo la Repubblica, e via via nelle varie vicende di un'egemonia politica di sinistra che diventa «la nuova ortodossia», ogni passaggio è stato caratterizzato da migrazioni ideologiche di massa evidentissime, e tuttavia mai ammesse, mai elaborate, ci dice Galli, fino a una svolta definitiva, quella del «revisionismo» di cui Galli è stato uno degli storici protagonisti. Tutte le rotture ideologiche, per altro evidentissime, sono invece state sempre affermate come buone ragioni per cui, anzi, si resta identici a quello che si era prima. Si trasmigra senza darne conto, a volte neppure a sé stessi, o si resta nello stesso ambito fingendo di trasmigrare, o ci si inventa formule apparentemente nuove (come il «centro sinistra») destinate invece alla conservazione dell'esistente dualismo post fascista fra comunisti e cattolici. Ambedue incapaci di guardare con sincerità al passato, ambedue decisi a incarnare la perfetta virtù antifascista. Così il fascista di un tempo si ammanterà di valori resistenziali, e di fatto non sarà mai pronto a ammettere di aver intrapreso una nuova strada; l'Italia dell'arco costituzionale e dell'unità democratica è stata costruita su questo segreto. Di conseguenza il fascismo non sarà mai elaborato. Questa pessima abitudine si riflette sulla intangibilità del comunismo, monade a lungo quasi intonsa nonostante i suoi delitti e le sue pene; sulla incapacità socialista di sferrare un vero colpo definitivo al moralismo comunista, che invece scatenandosi ebbe la meglio su Craxi. I meandri della politica italiana, attraverso la crisi dei partiti e la «questione morale», con l'epoca di Berlusconi che Galli vede bene come sia stata criminalizzata e fantasticata come un'era di pericolo fascista, invece che esaminata obiettivamente, hanno fatto molta fatica a elaborare la crisi inevitabile che finalmente montava sull'onda lunga della crisi del comunismo. Galli della Loggia ricorda con citazioni stupefacenti quanto odio abbia suscitato (si pensi al caso di Giorgio Bocca fra quelli che lo hanno accusato di essere addirittura uscito dall'ambito dell'antifascismo), solo per il suo lavoro di storico «revisionista». Un ruolo che egli racconta di aver condiviso con alcuni intellettuali, e nota il ruolo propulsivo del Corriere della Sera di Paolo Mieli nel rileggere finalmente la storia negata. Le note del libro sono una miniera di citazioni per capire come il voltagabbanismo possa essere indorato e nobilitato, da Croce, trattato con rispetto ma con sincerità, a Norberto Bobbio ai giornalisti comunisti e a mille altri intellettuali che sono le pietre di fondazione dei guai in cui tuttora versa l'Italia. È con autentico stupore e ironia che vengono elencate le bugie più evidenti. Un esempio su mille, le parole del manuale di Camera e Fabietti edito da Zanichelli L'età contemporanea. I due autori parlano del terrorismo delle Brigate rosse lavando via il «rosso» e trasformandolo in nero: «Al terrorismo nero si salda quello che si dichiara rosso e proletario ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue oggettivamente gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè... genera disordini... da cui può nascere solo un'involuzione reazionaria di origine fascistoide». È una delle tante interpretazioni umoristiche del passato che disegnano la indispensabile fede nella sinistra «antifascista» che è stata e resta la fede fondamentale su cui l'Italia del dopoguerra si disegna. È sull'«ortodossia antifascista» che si disegna una dogmatica descrizione del fascismo come «strumento del capitale» che ha creato la patologica negazione della elementare realtà di un fascismo di massa causato da molteplici ragioni che invece storici come De Felice hanno esaminato gridando nel deserto. La menzogna ha alimentato la sinistra per tanti anni. Ogni legittimazione, a partire da quella del nuovo Stato italiano, ha avuto come marchio quello dell'antifascismo nella sua versione depurata da ogni falla, ogni frattura, ogni errore. «Il trasformismo di massa» fu dell'intera classe dirigente, politici, burocrati, professori universitari, magistrati, militari, industriali, vissuti con pieno agio all'ombra del fascio, i quali si trasferirono senza colpo ferire nella «repubblica democratica nata dalla resistenza». Il riciclaggio silenzioso è stato in seguito, racconta Galli, il sistema prescelto da ogni gruppo sociale e politico in vena di cambiamento: zitti zitti piano piano, si cambia senza riconoscerlo, scivolando via. L'arco costituzionale, l'unità democratica, il centro sinistra... Tutte queste espressioni sono di fatto la casa dei buoni a fronte della quale perfidi nemici disonesti, vere carogne sempre di destra, tramano per un nuovo fascismo. «L'inautenticità si instaurò nel cuore della repubblica» per esaltare la collettiva «trasformazione democratica» dice Galli. Il finale cui si arriva, percorrendo molto bene tutta la storia recente, suggerisce che adesso è ora di restituire all'Italia «la dimensione stessa del proprio passato... perché possa esserci un futuro». Ma resta sul lettore il peso schiacciante di ciò che è stato, e che si legge in ogni riga della maggioranza della stampa italiana, nell'atteggiamento di ancora troppi intellettuali, politici o, semplicemente, cittadini.

DEMOCRATICI: SOLO A PAROLE.

L'ultima follia della Boldrini: censurare la democrazia. Nel Mantovano eletta una consigliera "fascista". La presidente s'infuria e chiede l'aiuto di Minniti, scrive Massimo Malpica, Mercoledì 14/06/2017, su "Il Giornale". Come volevasi dimostrare. I «fasci» vincono e gli autoproclamati difensori della democrazia si ritrovano sull'orlo di una crisi di nervi. La storia è nota: nel piccolo comune di Sermide e Felonica, provincia di Mantova, tra le liste in corsa c'è «Fasci italiani del Lavoro», partito creato da Claudio Negrini, e la cui figlia, Fiamma, è candidata sindaco. Non è la prima volta che sulla scheda compare quel simbolo al profumo di Ventennio. Il partito col fascio littorio aveva già presentato una sua lista alle elezioni nel 2002, nel 2007 e nel 2012, senza mai sollevare polemiche. Stavolta succede l'imponderabile. Ben 334 elettori votano per Fiamma, il 10,41 per cento dei votanti. E la ragazza, 20 anni, si ritrova consigliera comunale. E pensare che a una settimana dal voto, in seguito a una sassaiola «social» contro Negrini e il suo partito, papà Claudio aveva pensato di evitare le polemiche chiamandosi fuori: «Inizialmente volevo sospendere la campagna elettorale per tutelare i membri della lista - aveva raccontato all'Adnkronos - ma sia l'intervento di mia figlia Fiamma che quello degli altri due candidati sindaci Mirco Bortesi e Anna Maria Martini, che ringrazio, mi hanno fatto cambiare idea». La storia di tolleranza di provincia diventa però un clamoroso successo elettorale, rendendo virale la vicenda. E moltiplicando i mal di pancia. Tra i più fastidiosi, quello accusato dalla terza carica dello Stato, Laura Boldrini. Che ha chiesto «aiuto» a Marco Minniti, lamentandosi con il titolare del Viminale per quella lista col fascio littorio «presentata e ammessa» alle elezioni, con una decisione che «desta forti perplessità». Cercando conforto in leggi e regolamenti contro l'affronto, Boldrini pesca le «istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature» diramate dalla direzione dei servizi elettorali del ministero a maggio scorso. Lì, ringhia, c'è scritto che vanno ricusati «i contrassegni con espressioni, immagini o raffigurazioni che facciano riferimento a ideologie autoritarie (per esempio, le parole fascismo, nazismo, nazionalsocialismo e simili)». E invece i «fasci del lavoro» sono passati indenni. Di fronte alla «questione di particolare gravità» sollevata dalla furiosa Boldrini, Minniti scatta senza indugi. E il prefetto di Mantova revoca i malcapitati funzionari della sottocommissione responsabili della svista-attentato alla democrazia. Che, però, appunto, è democrazia. E non può toccare la volontà manifestata dagli elettori che hanno scelto di portare la Fiamma candidata per i «Fasci» dentro il Consiglio comunale del paese del Mantovano.

«Un risultato straordinario», esulta papà Negrini, che invece di alimentare le polemiche fa sfoggio di fair play: «Quello non è il fascio littorio ma il fascio della Repubblica sociale italiana, sono 15 anni che presento lo stesso simbolo in tutt'Italia e nessuno ha mai avuto nulla da ridire. Vorrà dire che la prossima volta lo cambierò».

Fiamma Negrini, il prefetto di Mantova rimuove i funzionari che hanno ammesso la lista fascista, scrive il 14 Giugno 2017 "Libero Quotidiano". Il caso di Fiamma Negrini, la sexy-fascista di 20 anni eletta in Consiglio comunale a Sermide-Fellonica, nel Mantovano, continua a tenere banco. Dopo l'exploit alle urne con la lista Fasci del lavoro, ha preso il 10,42%, è esplosa la polemica, capeggiata, ovviamente, da Laura Boldrini, la quale ha mostrato di non apprezzare, affatto, la democrazia. La presidenta ha infatti scritto a Marco Minniti per dire che no, così non va. La Boldrini ha espresso "forti perplessità sul piano giuridico" per l'ammissione di una lista "che si richiama dichiaratamente a nomi e immagini del partito fascista". E la risposta del Viminale non si è fatta attendere. Il prefetto di Mantova, infatti, "ha revocato le designazioni dei funzionari competenti della settima sottocommissione elettorale circondariale di Mantova, competente per quel Comune". La loro colpa è stata quella di aver ammesso la lista fascista: il combinato disposto Fiamma Negrini-Laura Boldrini, dunque, fa cadere delle teste. Il provvedimento, però, non avrà riflesso sull'esito delle elezioni nel Comune: la revoca dei funzionari riguarderà le prossime tornate elettorali.

Fiamma Negrini, il trionfo con la lista fascista perché vuole far fuori la pista ciclabile, scrive il 15 Giugno 2017 "Libero Quotidiano". Da lunedì, tiene banco il caso di Fiamma Negrini, la "fascista sexy", la ragazza di 20 anni entrata in consiglio comunale a Sermide e Felonica, provincia di Mantova, con la lista "Fasci italiani del lavoro". Lista fascista, lista che ha fatto sclerare Laura Boldrini e ha fatto anche cadere teste in prefettura. Nel frattempo, contro Fiamma, si preannunciano ricorsi e controricorsi. Ma in tutto questo delirio, qualcuno si è chiesto perché la figlia del "camerata" Claudio Negrini, 61 anni e cuore nerissimo, è riuscita ad ottenere più del 10% alle elezioni? Una risposta ha provato a darla La Stampa, che con un suo inviato ha tastato il polso sul territorio. Si parte dai punti del programma, quelli fondamentali. "Riorganizzazione della macchina comunale. Ridare slancio all'agricoltura. Uso degli autovelox a fine educativo e non vessatorio". E già quest'ultimo, per i cittadini massacrati da multe spesso piuttosto insensate, è un tema assai sensibile. Ma secondo il reportage, la vera ragione del successo di Fiamma alle urne è un'altra. E sta tutta in questo punto del programma: "Ritorno immediato alle precedenti modalità veicolari dell'argine del Po". Ovvero, permettere alle auto di tornare a viaggiare dove vogliono far sorgere una pista ciclabile di fianco al fiume. Una pista ciclabile, che a Sermide e Felonica, non vuole nessuno o quasi.

Marino deve pagare il conto per "i fascisti nelle fogne". L'ex primo cittadino della Capitale è stato condannato per l'offesa al mondo della destra. E ha dovuto scusarsi, scrive Elena Barlozzari, Giovedì 15/06/2017, su "Il Giornale". Il «sottoMarino» si è ammaccato. Non è più il sindaco di Roma, ma adesso comincia a pagare l'arroganza e le ingiurie di quella stagione e quel suo modo di puntare l'indice verso chi, secondo lui, meritava la fogna e la compagnia dei topi: ossia, gli elettori di destra. Solo che il tempo qualche volta porta giustizia. Ed è quello che è avvenuto. Ignazio Marino si è presentato davanti al giudice di pace del tribunale di Roma. Il verdetto ha un forte valore simbolico e morale: l'ex sindaco deve scusarsi con gli elettori di destra e pagare un risarcimento simbolico. È l'unico modo per raggiungere in extremis il ritiro della querela. Marino ha accettato il compromesso: risparmiare i soldi in cambio della faccia. Tutto questo accade a distanza di due anni da quando, dal pulpito della Festa dell'Unità, il «sindaco marziano» arringava i suoi concittadini, spostando la mano verso il basso, dritto nella direzione di un tombino. È lì, disse, che devono tornare, «dalle fogne da cui sono venuti». «La smettano proseguiva accendendosi questi eredi del nazifascismo di dare lezioni di rigore e democrazia a noi». E il suo popolo, lì sotto, si spellava le mani. Destinatari dell'invettiva, neanche a dirlo, erano i «fascisti immaginari». Rei d'aver sostenuto l'ascesa in Campidoglio del suo predecessore. Gianni Alemanno l'aveva querelato senza ottenere granché. Secondo i pm di allora, infatti, il limes della critica politica non era stato superato. In quelle frasi, insomma, non c'era nulla di penalmente rilevante. Nemmeno l'evidente richiamo allo slogan tanto in voga negli Anni di piombo aveva smosso le toghe. Eppure, il significato di quel motivetto se lo ricorda bene chi ha visto amici e familiari vittime della sinistra violenta. Il caso, però, si chiuse lì. Come la carriera del chirurgo genovese, prematuramente stroncata dallo scioglimento del consiglio comunale e dal successivo commissariamento. Eppure aveva promesso di restare al timone dell'Urbe sino al 2023, per poi raccontare come in Blade Runner «cose che voi umani non avete mai visto». Ma l'annunciata fatica letteraria, Un marziano a Roma, ha visto la luce ben prima del previsto. E, dopo aver resistito alla tentazione di una nuova candidatura, sembra esser definitivamente scomparso dai radar della politica. Salvo irrompere, a gamba tesa, quando si tratta di restituire qualche stilettata a quella tal Virginia, seduta all'ultimo banco dell'opposizione ed oggi alla guida della Capitale. A disturbare il buen retiro dell'ex sindaco, rinfacciandogli quelle «parole denigratorie», sono stati il consigliere regionale di Fratelli d'Italia, Fabrizio Santori, ed il consigliere municipale di Noi con Salvini, Fabio Sabbatani Schiuma. Determinati ad ottenere giustizia, anche loro avevano denunciato l'accaduto in Procura. E così, dopo il rinvio a giudizio disposto dal pm Giulio Berri, l'ex sindaco della Capitale è finito alla sbarra. Per rispondere di quelle offese e del reato di diffamazione. Sprovvisto della carta di credito del Comune di Roma, stavolta, il conto lo ha pagato di tasca sua. E si è scusato. «Per non gravare ulteriormente la già ingolfata macchina della giustizia fanno sapere le parti abbiamo ritenuto di accettare l'invito del giudice e le rinnovate scuse nell'odierna pubblica udienza, estese questa volta a tutto il mondo della destra». Oltre a farsi carico delle spese legali, su richiesta dell'avvocato Remo Pannain, l'imputato si è visto costretto a staccare un assegno di 200 euro. Una cifra simbolica che, come insegna il più dantesco dei contrappassi, finirà nelle tasche di una famiglia. Non una qualsiasi. «Adesso annunciano i consiglieri vogliamo devolvere l'assegno a una delle tante famiglie che, in tutta Italia, hanno subito un lutto o un aggressione negli anni Settanta e ora si trovano in difficoltà».

Il politologo Tarchi: "È uno slogan che non più ha senso. Una sciocchezza di chi non ha idee". Il politologo di destra Marco Tarchi che negli Anni di piombo fondò la rivista "La voce della fogna": "La sinistra si aggrappa agli spauracchi", scrive Domenico Ferrara, Giovedì 15/06/2017, su "Il Giornale".  «La destra deve tornare nelle fogne». Marino ha pagato il conto per aver rispolverato un insulto usato negli Anni di piombo per delegittimare gli avversari. Ne sa qualcosa Marco Tarchi, politologo e tra i massimi esperti di populismo. Lui, proprio in quegli anni, fu fondatore e direttore di una rivista satirica improntata all'ironia nei confronti dei detrattori ma anche della stessa destra.

Come mai si chiamava proprio La voce della fogna?

«Per far capire che anche i reietti avevano idee, valori, sentimenti alternativi a quelli di moda. L'editoriale del primo numero si intitolava Oggi le catacombe si chiamano fogne. Più chiari di così...».

Come è nata la storia della frase «fascisti carogne tornate nelle fogne»?

«Immagino dalla vena creativa di un poeta dell'ultrasinistra, che per coerenza ideologica non ne ha preteso il copyright. Comunque in quell'ambiente è stata un refrain di successo».

Come ci si sentiva a essere chiamati così e a essere fascisti o post fascisti negli anni '70 e '80?

«Negli anni Settanta accentuava la sensazione di diversità dal resto del mondo, di cui ci si vantava».

È di quel periodo anche lo slogan "Uccidere un fascista non è reato". Anche oggi si verifica questo gioco dei due pesi e due misure?

«Certamente, ma non è in gioco la destra, quanto l'insieme di coloro che hanno opinioni non in regola con i dettami del politicamente corretto, ovunque si collochino».

Che senso ha oggi un insulto del genere?

«Nessuno. È una delle tante sciocchezze prodotte quotidianamente dagli esponenti della classe politica, che coprono con le risse la carenza di idee».

Anche la Boldrini, con il caso della lista dei Fasci, sembra voler evocare le fogne. I fascisti sono davvero così pericolosi?

«Ovviamente no, ma se alla sinistra che ha rinunciato a quasi tutte le idee che aveva sostenuto da metà Ottocento in poi, a partire dall'anticapitalismo, si togliesse anche lo spauracchio del fascismo, cosa la distinguerebbe dal resto del panorama politico?».

Perché la sinistra radical chic usa gli ancora anni 70 per nascondere i suoi errori?

«Perché, come del resto i suoi avversari, non ha ricette credibili ed efficaci per il presente e non sa immaginare un futuro migliore. Rifugiarsi nel passato e animare guerre tra fantasmi è tipico di tutti coloro che coltivano l'illusione della fine della Storia, che invece è viva e un giorno passerà a chiedere il conto di questa miopia».

In una società dove l'antipolitica la fa da padrona, qual è l'insulto più utilizzato?

«Al di là del repertorio di quelli che si usano in qualunque altro contesto, mi pare che oggi vadano di moda xenofobo e omofobo. Sono aggettivi squalificanti molto in voga a sinistra, che consentono di far passare per un crimine quelle che per molte persone sono preferenze a lungo considerate normali se non scontate: chiunque non mostri di avere verso stranieri e omosessuali una spiccata ed esibita simpatia è sospettato di coltivare pregiudizi razzisti o discriminatori. Segni dei tempi».

Sarebbe riproponibile oggi un'esperienza come La voce della fogna?

«Adeguandola ai tempi, sì. I bersagli polemici non mancano».

ANTROPOLOGIA SINISTROIDE. VIAGGIO NEL CERVELLO PROGRESSISTA CHE “HA SEMPRE RAGIONE”.

Scrive Maurizio Blondet il 13 gennaio 2017. Il ministro degli Interni Marco Minniti, dalemiano d’acciaio, ha enunciato la nuova politica della Sinistra sui migranti: raddoppio delle espulsioni. A questo scopo è andato in Libia a trattare con uno dei caporioni che hanno sostituito Gheddafi per ottenere un nuovo accordo sui “rimpatri”.  E reprimere il traffico dei barconi, impedendo il più possibile ulteriori arrivi dei barconi e dei gommoni dalla Libia. Quando le stesse cose le faceva da ministro degli interni Roberto Maroni, siccome era leghista, le stesse identiche azioni erano per la Sinistra incivili, odiosamente neandertaliane, inumane, inutili e anzi dannose. Grazie a Vendola, è diventato “di sinistra” sfruttare una donna povera, pagarla perché si faccia ingravidare da un estraneo, e poi strapparle il bambino per darlo a una coppia di ricchi omosessuali, che su quel bambino non hanno altro diritto che quello che viene dal denaro e dal potere. E questo fenomeno è evidente a livello mondiale. Barack Obama ha fatto più assassini, stragi, guerre con false scuse etiche, e sovversioni interne di paesi, di quanto abbia fatto il precedente Bush jr: eppure le opinioni pubbliche progressiste non cessano di considerarlo un uno dei loro, un modello luminoso della sinistra, persino un pacifista. Anche il fatto che abbia ordinato di ammazzare coi droni degli individui   sconosciuti da una lista preparata dalla Cia non ha scosso, agli occhi del “popolo di sinistra”, la sua bella fama di essere dalla parte del progresso contro l’oscurantismo; per contro, attribuiscono scopi guerrafondai a Trump. Parimenti, nessuna delle rivoltanti rivelazioni su Hillary Clinton ha infiltrato nelle sinistre del mondo occidentale il dubbio sul suo essere “democratica”.  Non il fatto che abbia detto con gioia incontenibile, a proposito di Gheddafi, “Veni, vidi, e lui morì!”. Non il fatto appurato che la sua Clinton Foundation era il raccoglitore delle mazzette gigantesche, grazie alle quali regimi reazionari e impresentabili come i sauditi potevano storcere secondo i loro desideri la politica estera Usa: fra cui la distruzione della Siria per insediarvi, al posto di un regime laico, una cosca wahabita decapitatrice; o di bombardare i bambini del paese più povero dell’area, lo Yemen.  Non la coscienza che Hillary era pronta a preparare le forze Usa a sferrare il primo colpo nucleare contro la Russia per annichilirla, come ha proclamato pubblicamente in innumerevoli interviste televisive, laddove Donald Trump ha negato con forza questa eventualità. Niente: agli occhi dei suoi fan, ma anche delle Botteri, Boldrini, delle Mogherini, come dei Gentiloni, come dei lettori di Repubblica e del Manifesto, Hillary Clinton è “di sinistra”, dunque ammirevole, e Trump “di destra”: quindi idiota, rozzo e spietato. Hillary ha dato enormi prove della sua inumanità, corruzione, marciume morale, totale assenza di scrupoli – e disprezzo del popolo lavoratore: eppure lei è   illuminata, illuminista, razionalista, moralmente superiore al rozzo idiota maschilista che palpa le donne e deride un giornalista invalido… Putin è riuscito a pacificare il carnaio siriano che Obama e Hillary avevano provocato e finanziato: eppure Putin è antidemocratico e pericoloso, mentre quei due sono per la pace. E non basta: ormai anche lo smantellamento dello stato sociale, l’asservimento dello Stato ai poteri finanziari speculativi, il filo-americanismo, l’imperialismo delle multinazionali, contro cui precedenti generazioni di sinistra scagliavano i loro strali propagandistici, adesso è “progressista”.  E chi è contro è “populista”; antisemita, e va escluso perciò dal dibattito pubblico. Anche, se necessario, con la violenza. E’ evidente che esiste qui un problema di antropologia – anzi peggio. Basti vedere le scene di disperazione degli snowflakes, i pianti durante l’addio ad Obama presidente che assicurava senza alcuna incertezza quanto fosse stata meravigliosa la sua presidenza, il dolore e odio espresso senza ritegno dalla “giornalista” Rai Botteri, per intravvedere qui una turba psichiatrica.  Estremamente pericolosa perché, essendo la Sinistra collettiva quella che dà le patenti di superiorità morale, essa sta imponendoci come santa ed etica la nuova versione di dittatura europea, la dittatura flaccida delle tecnocrazie ed oligarchie; insonne nel sorvegliare che all’orizzonte non sorga un improbabile Hitler, “di destra”, non ha visto arrivare l’Hitler del nostro tempo, che non ha baffetti né divisa militare. Anzi s’è messa al suo servizio.  Perché la prigione de popoli chiamata UE è “progressista”. Come fanno gli esseri umani “di sinistra” a mantenere la coscienza di sé come “progressisti” nonostante approvino politiche belliciste e imperialiste, anti-popolari e usurarie? Come mai per loro Minniti dalemiano fa una buona politica anti-immigrazioni, mentre quella di Maroni era disumana e repressiva? La domanda se l’è posta anche un gruppo di ricerca di psicologi dell’Università del Sud California (Brain and Creativity Institute and Department of Psychology, University of Southern California Los Angeles), che ha condotto una indagine sul fenomeno mentale. Scelti 40 partecipanti tra i 18 e i 39 anni, che definivano se stessi “liberal” (nel senso americano) con “solide opinioni progressiste”, hanno sottoposto loro un questionario dove, su una scala da 1 a 7, dovevano indicare la forza con cui condividevano opinioni come “l’aborto deve essere legale” e “le tasse ai ricchi vanno aumentate”: 1 per condivisione debole, 7 per accordo massimo. Seconda fase dell’esperimento: i volontari sono messi dentro un apparecchio di risonanza magnetica per riprendere le modificazioni dei loro cervelli mentre vengono sottoposti a certe immagini proiettate. Si tratta della proiezione breve (10 secondi) di una delle opinioni politiche per cui i soggetti hanno espresso un accordo forte, fra 6 e 7.  Dopo, ad essi vengono proiettate (sempre per 10 secondi) frasi che contraddicono l’opinione da loro fortemente condivisa, magari anche false. Tipo: “La Russia possiede il doppio di testate nucleari rispetto agli Usa” (falso) come contrasto all’idea pacifista (le sinistre sono “pacifiste, anche se hanno votato Hillary…) fortemente approvate, “Gli Usa devono ridurre le spese militari”.  Alla fine della sessione, si ripresentano ai volontari le opinioni dell’inizio, chiedendo loro di valutarle di nuovo assegnando il punteggio da 1 a 7. Le opinioni però sono mescolate, stavolta, a piatte affermazioni che non hanno a che vedere con la politica, come “le vitamine fanno bene” e “Edison è l’inventore della lampadina”; anche queste seguite da asserzioni contrarie.

Il risultato della (macchinosa) sperimentazione è meno sorprendente di quanto si pensi: i volontari non hanno cambiato praticamente di un millimetro le loro opinioni di colore “politico” (tasso di indebolimento della fiducia in esse: 0,31 punti), mentre la forza che perdono le opinioni non politiche, quando opposte ad argomenti contrari, è quattro volte superiore. Ma c’è di più, ed è la vera rivelazione del test: dalle immagini in risonanza magnetica, si è visto che quando il volontario “di sinistra” legge un’opinione “di destra”, il suo cervello attiva dei meccanismi di vera e propria resistenza, che tecnicamente si chiama “rete cerebrale del modo per difetto” – l’attivazione del precuneo, della corteccia cingolare posteriore media prefrontale – che secondo i neurologi è implicata nella identità, nel sé, nell’introspezione.  Sono, hanno appurato i ricercatori da precedenti test, le stesse zone che si attivano quando persone selezionate come fortemente religiose, vengono messe di fronte a frasi che negano o contrastano la loro fede. Anche allora c’è attività accresciuta del “Modo per difetto”. Insomma la Sinistra sta iscritta nell’apparato neuronale profondo. Così, quando i progressisti nel test   sono confrontati ad asserzioni che negano le loro credenze politiche, il cervello mobilita l’amigdala (che sembra implicata nella paura di fronte a una minaccia), la corteccia insulare ed altre strutture   collegate alla regolazione delle emozioni, e la memoria – attivata alla ricerca di un contrattacco, di argomenti polemici di resistenza. Jonas Kaplan, il capo della ricerca, lo spiega così: “Le credenze politiche somigliano alle credenze religiose in questo senso: che fanno parte di ciò che voi siete e sono importanti per la cerchia sociale in cui vi riconoscete appartenere”. Per assurdo, “per prendere in considerazione un altro punto di vista, dovreste prendere in considerazione un’altra versione di voi stessi”. La ricerca è stata motivata, conclude, dalla constatazione che nei dibattiti politici pubblici non si vedeva mai nessuno cambiare la propria opinione su temi importanti e discutibili. Che dire? Forse l’esperimento conferma che “la gente vive di fede come mille anni fa”, come scrivevo in un recente articolo: di rado l’uomo “pensa” davvero in proprio e originalmente (è una gran fatica) e di solito aderisce alle opinioni del suo ambiente; opinioni che sono “credenze”, che sono molto diverse dalle idee: per le idee si combatte e si dibatte, nelle credenze “si sta”, ci si vive dentro come nel paesaggio circostante. Per esempio, i progressisti “stanno” nella credenza   nel progresso, della superiorità della modernità sull’antichità, del “nuovo” rispetto al “vecchio”, che   li rende tanto ridicoli ad occhi riflessivi, e disperatamente inattaccabili da ogni dubbio. D’altra parte, il piatto materialismo dell’esperimento per cui si è scomodata la risonanza magnetica onde mappare i cervelli, dimostra insieme troppo, e troppo poco. In ognuno giace, pronto a risvegliarsi, il riflesso primordiale “Noi contro Loro”,  biologicamente necessario nelle arcaiche caccie e in primitive guerre tribali,  ma non meno utile  nei reparti militari in operazione; chi lo  sa suscitare  nelle  folle, sia il demagogo, un colonnello  o la società calcistica, ha il gioco facile a suscitare fedeltà e  avversità irrazionali;  metti “Noi” contro  “Loro”  e non hai bisogno di argomenti , di  spiegazioni; crei spirito di corpo (Noi)  e inimicizia  settaria (Loro), fino alla tendenziale disumanizzazione di “Loro”. D’altra parte, questo non dà ragione del particolare, specifico dell’antropologia di sinistra: quello per cui le stesse azioni sono deplorevoli se le fa un governo “di destra”, mentre sono lodevoli, o spiegabili, se le fa un politico “di sinistra”. Perché per le Botteri o Boldrini, Obama (e persino la Clinton) restano più civili e moralmente superiori, benché abbiano fatto più guerre di Bush jr, più distruzioni e malvagità?

Nel solo 2016, ultimo anno della sua presidenza, Obama ha fatto lanciare su sette paesi – Irak, Somalia, Siria, Libia, Pakistan, Afghanistan, Yemen – tre bombe ogni ora, notte giorno, 24 ore su 24. Inoltre:  ha ridato una postura offensiva alla NATO; ha ammassato armi , missili ed armati alla frontiera della Russia; ha creato in Ucraina un colpo di Stato; ha straziato la Siria con la creazione e l’addestramento dei terroristi del  Califfato;  non ha chiuso – nonostante le promesse –  il carcere di Guantanamo;   ha aiutato i sauditi a bombardare i civili del miserabile Yemen…In base a quale allucinazione le opinioni pubbliche “di sinistra”, in Europa  come in Usa, continuano a  rimpiangerlo come un civile progressista?  Moralmente superiore a Putin (“un dittatore nazionalista”), e senza confronto migliore di Trump, spregevole, che però non ha bombardato nessuno? E che dire delle sue politiche “sociali”?  Ha compiaciuto sempre e in tutto Wall Street, la finanza miliardaria e speculativa; ha fallito   il sistema assicurativo sanitario, che è diventato costosissimo tanto che poche famiglie possono permetterselo; sotto la sua guida, i salari sono calati, e le ricchezze dell’1% plutocratico aumentate; alla   fine, lascia un paese dove il numero degli americani in età di lavoro che ne sono fuori è aumentato: oggi sono 102,632 milioni, un record storico assoluto. Il numero dei maschi capifamiglia disoccupati è uguale a quello della Grande Depressione.  Il 47 per cento degli americani non ha da parte 400 dollari per far fronte a un imprevisto. E come mai le opinioni pubbliche progressiste continuano a vedere in lui un presidente “democratico”, anche se ha fatto tutte politiche anti-popolari e anti-lavoro? Tre giorni fa Obama ha tenuto il discorso di addio nella sua Chicago; almeno speriamo sia l’ultimo, è un mese che   tiene ultimi discorsi di addio.  Di fronte a un pubblico di fan, ha descritto le cose meravigliose che lui ha fatto per l’America, e come l’America sia diventata migliore negli otto anni del suo governo, più progredita, progressista e amica degli omosessuali – s’è commosso più volte ricordando e magnificando “il mio retaggio”, e i presenti si sono commossi ed estasiati con lui.   Ha promesso di restare a Washington per sorvegliare, dall’alto della sua superiorità morale, il governo dell’impresentabile Donald, per timore che guasti “la mia legacy”, il làscito (di caos e fallimenti?) che   adesso affida all’America progressista…E’ stato notato che Obama, in questo discorso, s’è riferito a se stesso 75 volte. Precisamente, ha detto “Io” 33 volte, “mio” 20 volte, “me” 10, “io sono” e “io ho fatto” 12 volte.  Una presunzione, un egocentrismo così conclamati (ancorché probabilmente aggravati dalla “cultura” del negro, schiavo  risalito ad altezze a  cui era impreparato), e una distorsione del senso di realtà e  mancanza di autocritica  così  patologico, che forse ci dà la chiave per capire  – su  questo caso clinico  estremo  messo sul tavolo anatomico  – l’organo difettoso  per cui “la sinistra”  è sempre sicura della propria superiorità morale, qualsiasi cosa faccia  –  al punto  da santificare, se le fa lei, azioni “di destra”. Come spiegarlo? Vi dirò: tutte le volte che mi capita di scrivere della mia fede cristiana c’è sempre qualche lettore che mi deride per questa mia debolezza mentale, da vecchierella; e poi, gonfiando il petto, scrive qualcosa come: “Io sono ateo, eppure sono perfettamente morale. Non ho bisogno di immaginarmi un Dio punitore, come lei, per aderire al mio codice etico”. Da qui riconosco immediatamente di trovarmi davanti a un progressista-tipo.  Questa è gente che non ha mai fatto un esame di coscienza. Non ha mai avuto modo di giudicarsi sinceramente e senza sconti.  Semplicemente perché “non è possibile” giudicarsi da sé; senza porsi alla presenza del Padre, senza confrontarsi con l’Altro, il Vivente che ti scruta dentro, non si trova altro che il proprio “Io”, e la sua inflazione – anzi enfiagione aerostatica al ridicolo livello di Obama. Ovviamente, si diventa il dio di se stessi. E infatti si può affermare: “Io sono ateo ma perfettamente morale”: è questa appunto la fase in cui il progressista può compiere atti mostruosi.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

Insultare la Boldrini è prova di «maschia libertà», scrive Piero Sansonetti il 16 Aprile 2017, su "Il Dubbio". Sul web troneggia la notizia degli affari d’oro che la sorella di Laura Boldrini combina sulla pelle degli immigrati. Questa sorella della Boldrini – dice il web – si chiama Luciana ed è la presidente di 340 cooperative di assistenza ai profughi. Chiaro che si mette in tasca i milioni. E chiaro anche che è stata Laura a indicarle la buona strada. E giù insulti. «Scandalo, scandalo!!! E i giornali, complici non ne parlano! Farabutta, farabutta!». Eh già: Boldrini è la casta, signori, vedete come è arrogante?. Però non è vero niente. Insultare Laura Boldrini è prova di «maschia libertà»? La sorella di Laura Boldrini è morta alcuni anni fa. La sorella di Laura Boldrini non si chiamava Luciana. La sorella di Laura Boldrini non presiedeva alcuna cooperativa ma faceva la restauratrice di opere artistiche. Non è vero niente ma sono veri, e bruciano, gli insulti che piovono a valanga sui social, nei post, nelle mail. In questa storia si congiungono due questioni, diverse, che spesso si mescolano. La questione delle fake news, ossia delle notizie false (quelle che una volta si chiamavano leggende metropolitane) e la questione, cosiddetta, del linguaggio dell’odio. Le leggende metropolitane sono una vecchia storia, non si sapeva come nascessero ma entravano nel cuore dell’opinione pubblica. Una volta si diceva che la moglie di Rutelli fosse la proprietaria di tutti i parcheggi con le strisce blu di Roma. Oppure che il tale leader politico avesse determinate abitudini sessuali, o una certa fidanzata o un certo fidanzato segreto, e cose simili. Tutto falso. Ma ci sono anche leggende metropolitane più pericolose, come quella – per citarne una storica – che gli zingari rubano i bambini, o che gli ebrei sono proprietari di tutti i posti chiave nell’economia di una città, o di una regione. Fino a qualche anno fa queste leggende “aleggiavano” e facevano danni, ma non potevano diffondersi, e soprattutto “inverarsi”, attraverso la potenza incontrollabile della rete. Ora il problema si è molto aggravato, perché non solo è sempre più difficile smentire le fake news, ma la proporzione tra notizie vere e notizie false si sta ribaltando. Le notizie vere diventano minoranza, e in questo modo il rapporto tra conoscenza e verità salta in aria.

È un problema? Si, è un problema serissimo, soprattutto perché al diffondersi dell’informazione non vera (quella che in Unione sovietica era ben organizzata dallo Stato, si chiamava “disinformazia” ed era un formidabile strumento di governo e di controllo sociale) si è sommato il dilagare del linguaggio dell’odio. Di che si tratta? Della convinzione sempre più diffusa che la misura del valore di ciascun odi noi – della nostra libertà, e del nostro coraggio, e della nostra capacità ideale – risieda nella forza d’odio che riusciamo ad esprimere. Usando modi di espressione violenti e mirando a demolire l’interlocutore col quale vogliamo dissentire, e umiliarlo, e ferirlo profondamente.

Gli avvocati italiani (e cioè il Cnf, il Consiglio nazionale forense) sono riusciti in queste settimane a organizzare un evento che avrà una notevole importanza: un G7 degli avvocati, che si svolgerà in settembre e metterà a confronto i rappresentanti delle avvocature dei sette paesi più industrializzati del mondo. E questo G7 degli avvocati avrà come tema dei suoi lavori proprio questo: come opporsi al linguaggio dell’odio senza mettere in discussione la libertà di parola, di pensiero, di espressione, di stampa.

Problema non semplice e che sicuramente riguarda molto da vicino il giornalismo italiano. Perché è chiaro che il dilagare della “disinformazia” e dell’odio è uno dei risultati della perdita di funzione del giornalismo. Il quale aveva tra i suoi compiti principali quello di mediare tra notizie e popolo, e dunque produrre informazione vera, verificata, di qualità, approfondita. Il giornalismo si è trovato spiazzato dall’improvviso successo della rete, e ha visto assottigliarsi il suo ruolo di mediatore e di “intellettuale”. Ma invece di elaborare una strategia di rilancio dell’informazione di qualità, ha preferito accodarsi al linguaggio dell’odio e alle fake news. Facilitato dalla retorica anti- casta. Le fake news e l’odio vengono usati come mazza per colpire la casta, cioè soprattutto i politici, e in questo modo si costruisce una gigantesca auto- giustificazione: “vado contro il potere dunque sono coraggioso – dunque ho ragione”. Il ruolo della verità sparisce. A dare la prova di correttezza e di giustezza non è il vero o il falso, ma il grado di rabbia e di attacco al presunto potere. Questa abitudine giornalistica – il caso Consip, con le clamorose balle che ha prodotto, è un esempio lampante e recente – è sospinta da un’ “onda” popolare, ma a sua volta è lei stessa il motore che alimenta quest’onda, e la protegge, e la giustifica, e la sostiene. Qual è la causa e quale l’effetto è difficile dire. È facile dire, invece, che se il giornalismo non si pone il problema di affrontare la propria crisi di identità, sarà difficile fronteggiare la barbarie del falso e dell’odio. E chi vorrà inondare di fango la Boldrini, o chiunque altro, potrà farlo liberamente e sentirsi eroico, libero e vero maschio.

Perché diciamo “migrante” anziché “immigrato”? Ce lo spiega la Boldrini, scrive Adriano Scianca il 18 maggio 2015 su “Il Primato Nazionale”. “Migrante”, participio presente del verbo “migrare”. Grammaticalmente, la parola indica un’azione che è in corso, che si sta svolgendo in questo momento, senza riguardo al passato o al futuro. Indica quello che stai facendo ora, non ciò che hai fatto o ciò che farai. Non c’è né origine né destinazione in un participio presente. Forse è per questo che il termine è stato scelto come definizione ufficiale delle masse sradicate che muovono il grande business dell’immigrazione. Finché la lingua italiana ha avuto una sua logica esistevano gli emigrati (chi lasciava una terra per andare altrove) e gli immigrati (chi si era mosso da casa sua e raggiungeva un nuovo luogo), che potevano anche essere le stesse persone ma viste da prospettive differenti. L’emigrato è andato da qui verso altrove, l’immigrato è arrivato qui da altrove. Resta comunque l’idea di un punto di partenza e di arrivo, lo spostamento è una parentesi limitata al fatto di raggiungere un determinato luogo.

Nei primi anni Ottanta, tuttavia, comincia a comparire nei documenti ufficiali della Cee la parola “migrante”. Il giornalismo italiano recepisce la novità a partire dalla fine di quel decennio, ma è in questi ultimi anni che la parola entra nel linguaggio comune, sospinta anche dall’eugenetica linguistica operata dal politicamente corretto.

I motivi del cambio sono spiegati dall’Accademia della Crusca: “Rispetto a migrante, il termine emigrante pone l’accento sull’abbandono del proprio paese d’origine dal quale appunto si esce (composto con il prefisso ex via da) per necessità e mantenendo un senso profondo di sradicamento su cui proprio quel prefisso ex sembra insistere […]. Migrante sembra invece adattarsi meglio alla condizione maggiormente diffusa oggi di chi transita da un paese all’altro alla ricerca di una stabilizzazione: nei molti transiti, questo è il rischio maggiore, si può perdere il legame con il paese d’origine senza acquisirne un altro altrettanto forte dal punto di vista identitario con il paese d’arrivo, restare cioè migranti”.

L’emigrante, nel nostro immaginario collettivo, è l’italo-americano o l’italiano che si è stabilito in Belgio o Germania per trovare lavoro. Persone che, per quanto siano riuscite a integrarsi, spesso solo dopo diverse generazioni, per noi restano sempre “italiani all’estero”, con un legame anche solo virtuale che non si spezza. Ma legami e appartenenze non sono visti di buon occhio oggi, potrebbero essere portatrici o suscitatrici di razzismo.

Aggiunge il sito della Treccani: “Emigrante, come dice l’etimo, sottolinea il distacco dal paese d’origine, calca sull’abbandono da parte di chi ne esce, come segnala anche l’etimologico e- da ex- latino. Ad emigrante, proprio per via di quel prefisso, ma anche a causa del precipitato storico che si è sedimentato nell’uso della parola, si associa l’idea del permanere di un’identità segnata dal disagio del distacco, e dunque l’allusione a una certa difficoltà di inserimento nella nuova realtà di vita […]. In ogni caso, migrante sembra adattarsi meglio alla definizione di una persona che passa da un Paese all’altro (spesso la catena include più tappe) alla ricerca di una sistemazione stabile, che spesso non viene raggiunta. In tal senso, il senso di durata espresso dal participio presente che sta alla base del sostantivo viene sottolineato: il migrante sembra sottoposto a una perpetua migrazione, un continuo spostamento senza requie e senza un approdo definitivo”.

Una “perpetua migrazione”: è questo il concetto chiave. E va interpretato alla luce di un ragionamento illuminante fatto a suo tempo da Laura Boldrini, secondo la quale il migrante è “l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi”. Anzi, secondo la Boldrini gli immigrati “sono molto più contemporanei di noi. Di me ad esempio che sono nata in Italia, sono cresciuta in Italia, ho anche lavorato fuori ma poi continuerò come tanti di noi a vivere in questo Paese”. Ecco quindi perché dire “migrante” anziché “immigrato”: perché indica una condizione di sradicamento generale, di continuo movimento, di nomadismo spirituale in cui forgiare il nuovo cittadino del mondo, rappresentato dall’immigrato ma al cui modello tutti ci dobbiamo ispirare. L’immigrazione è un esperimento di laboratorio, la creazione di un uomo nuovo a cui tutti prima o poi ci dovremo conformare, eliminando il peccato originale del radicamento per essere anche noi “più contemporanei” e cessare di pensarci come italiani, marocchini, cinesi o romeni. A quel punto, finalmente, nascerà l’homo boldrinicum, senza più origini né radici. Adriano Scianca

Boldrini regina del politicamente corretto: amica dei migranti ma lei non migra, scrivono il 15 Agosto 2016 Francesco Borgonovo e Adriano Scianca su “Libero Quotidiano”. È come il bambino di quella storiella, quello che indica il sovrano in veste adamitica e dice: «Il re è nudo». Anzi, no, il paragone non calza. Questa è un'altra favola.  Qui non c' è il re, c' è una regina ed è vestita. È lei che guarda il popolo e urla: «Siete tutti nudi». È il motivo per cui perfino la sua corte la odia: parla troppo, parla troppo sinceramente, dice quello che sarebbe conveniente non dire, smaschera tutti i piani. Se sveli al popolo che lo stai riducendo in mutande, il gioco si rompe. Lei è Sua Maestà Laura Boldrini, la regina del politicamente corretto. Sul fatto che, anche nella metafora, lei sia vestita è meglio insistere, giusto per autotutelarsi: tre anni fa, per esempio, cominciò a girare in rete una foto di una donna nuda vagamente simile al presidente della Camera. Era un fake, una bufala. Ma chi la condivise sui social network si ritrovò nel giro di qualche giorno la polizia alla porta. È fatta così, lei, sta sempre allo scherzo. È una delle ragioni per cui, pur essendo l'incarnazione vivente del pensiero dominante, finisce per non riscuotere troppi consensi nemmeno in tale ambito: non solo parla troppo, ma è pure permalosa. Del resto, quando qualche anno fa decise di rendersi «più simpatica», la Boldrini scelse come consulente Gad Lerner. Uno di cui tutto si può dire tranne che sia «popolare» o, appunto, particolarmente simpatico. Basta questo particolare a rendere l'idea di quanta presa sulle masse sia capace di esercitare Laura.

Una così sarebbe capace di gettare discredito su qualsiasi causa appoggiasse. E se si tratta di una causa particolarmente impopolare, un certo tatto è necessario. Prendiamo la Grande Sostituzione. Significa che prendi l'Italia, scrolli via da essa gli italiani come se fossero formiche attaccate a un tramezzino durante un picnic, e ci metti dentro popoli venuti da altri continenti. È quello che sta succedendo, qui da noi e non solo. Ma non lo puoi dire così, altrimenti c' è il rischio che qualcuno si incazzi sul serio. Devi per lo meno girarci attorno, ammantare le tue argomentazioni di finto buonsenso, se possibile citare «gli economisti» o non precisati «studi americani». Laura no, non ce la fa. Lei è priva della malizia dei politici.  Quando prova a ragionare in soldoni risulta goffa, come quando twittò: «Italia è Paese a crescita zero. Per avere 66 milioni di abitanti nel 2055 dovremo accogliere un congruo numero di #migranti ogni anno». Sì, vabbé, ma chi se ne frega di avere 66 milioni di abitanti qualsiasi nel 2055, possiamo anche essere 55 milioni di italiani senza dover portare l'Africa intera in casa nostra, no? A quanto pare, per Madama Boldrini non è così. Ma il meglio di sé, Laura lo dà quando parla a briglia sciolta. Una delle sue uscite più memorabili riguardò la confusione tra immigrati e turisti: «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo, a volte, inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate», disse. Ma cosa c' entra? La Boldrini proprio non riusciva a capire che noi non «offriamo» servizi di lusso a nessuno ma che i turisti li hanno solo perché pagano per averli. Per gli immigrati, invece, è lo Stato a pagare. Ma la vera origine di queste gaffes è «filosofica».

Il top del Boldrini-pensiero risiede infatti nella sua visione del futuro in stile Blade Runner. Parliamo di quella volta in cui disse che il migrante è «l'avanguardia di questa globalizzazione» e, soprattutto, è «l'avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Capito?

Non si tratta di trasformare l'immigrato in cittadino europeo, come vorrebbe (vanamente) la retorica dell'integrazione. Siamo noi a dover diventare come lui. Noi dobbiamo integrarci con i suoi usi e costumi, o meglio con il rifiuto di ogni uso o costume, occorre solo abbandonarsi a un insensato nomadismo, all' abbandono generalizzato di ogni radice. Che l'obiettivo fosse quello di ridurre in miseria noi anziché di dare benessere a loro era già chiaro. Ma, appunto, è una di quelle cose che in genere si dicono con una certa prudenza. Laura no, lei non ha filtri. Del resto non è una politica di professione e non ha quindi le astuzie della categoria.

Laureata in Giurisprudenza, durante l'università ha dedicato metà del tempo allo studio, metà a viaggi nel Sud-est asiatico, Africa, India, Tibet: all' epoca preferiva ancora andare lei nel Terzo Mondo anziché portare il Terzo Mondo qua. Giornalista pubblicista, ha lavorato per un periodo anche in Rai prima di dar seguito alla sua vera vocazione: mettere radici nell' inutile carrozzone burocratico dell'Onu. Nel 1989, grazie ad un concorso per Junior Professional Officer, comincia la sua carriera alle Nazioni Unite lavorando per quattro anni alla Fao come addetta stampa. Dal 1993 al 1998 lavora presso il Programma alimentare mondiale come portavoce e addetta stampa per l'Italia. Dal 1998 al 2012 è portavoce della Rappresentanza per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNHCR) a Roma. Qui scopre il suo vero eroe: il migrante. Quando vede un migrante, Laura perde ogni freno: deve ospitarlo, mantenerlo, incensarlo. Arrivano orde di stranieri sui barconi? Lei vuol dare a tutti il permesso di soggiorno. Erdogan perseguita i turchi? Nemmeno il tempo di capire se ci saranno persone in fuga dal Paese che lei è già pronta a spalancare le frontiere. Tanto, che male può mai fare il Santo Migrante? Di sicuro non può essere un possibile jihadista, perché il terrorismo e l'immigrazione, per la Boldrini, non hanno alcun legame. E, comunque sia, i conflitti religiosi non esistono. Dunque, dal migrante non ci si può attendere che buone cose. Dopo tutto, egli è un po' il partigiano del nuovo millennio. Sì, Laura lo disse davvero, nel corso di un 25 aprile: «70 anni fa erano i partigiani che combattevano per la libertà in Italia, oggi capita che molti partigiani che combattono per la libertà nei loro Paesi, dove la libertà non c' è, siano costretti a scappare, attraversando il Mediterraneo con ogni mezzo». Combattono o scappano? Perché fare le due cose insieme non è possibile. In genere si usano i verbi come due contrari, anzi. O combatti, o scappi. Ma la logica, si sa, è un riflesso indotto dalla società patriarcale. Così come la grammatica. I suoi siparietti con i deputati che si ostinano a usare la «sessista» lingua italiana sono noti. Ma per lei è una crociata: «Sono arciconvinta - ha detto recentemente al Corriere della Sera - che la questione del linguaggio rappresenti un blocco culturale.

La massima autorità linguistica italiana, la Crusca, dice chiaramente che tutti i ruoli vanno declinati nei due generi: al maschile e al femminile. Ma la maggior parte accetta di farlo solo per i ruoli più semplici, e si blocca per gli altri». La Crusca le dà ragione. La Crusca: quella di «petaloso». Per la Boldrini, la politica è fatta solo di simboli, battaglie di principio, questioni formali. Un altro dei suoi chiodi fissi sono le pubblicità. «Certe pubblicità che noi consideriamo normali, con le donne che stanno ai fornelli e tutti gli altri sul divano, danno un'immagine della donna che invece non è normale e che non corrisponde alla realtà delle famiglie», disse una volta. Donne in cucina, che orrore, dove andremo a finire di questo passo? Praticamente non parla d' altro.

Nel maggio del 2013 auspicò orwellianamente nuove «norme sull' utilizzo del corpo della donna nella comunicazione e nella pubblicità» perché «se la donna viene resa oggetto nella sua immagine puoi farne quel che vuoi». Si sa, è un attimo passare dallo spot della crema abbronzante al femminicidio. Passarono pochi mesi e nel luglio 2013, si guadagnò più di qualche critica definendo una «scelta civile» quella della Rai di non trasmettere più Miss Italia. Nel settembre successivo tornò sul punto in un convegno, parlando di pubblicità e stampa. «Penso a certi spot italiani in cui papà e bambini stanno seduti a tavola mentre la mamma in piedi serve tutti. Oppure al corpo femminile usato per promuovere viaggi, yogurt, computer». Pubblicità obbligatorie con papà che cucinano: è praticamente il punto in cima alla sua agenda. Il femminismo caricaturale della Boldrini arriva al punto di distinguere gli attacchi politici a seconda del genere di chi attacca: «Per principio mi rifiuto di entrare in dispute tra donne che vanno a indebolire la posizione femminile. Se una donna mi attacca, mi aggredisce in quanto donna, non rispondo. Non mi presto». Ma che vuol dire? Se ti attacca un uomo rispondi, se lo fa una donna no? Questa non è discriminazione? Curioso strabismo. Non è l'unico caso.

Attenta alle parole degli spot, Laura è stata molto più di bocca buona nel soppesare il linguaggio del «Grande imam di al-Azhar Ahmad Mohammad Ahmad al-Tayyeb», invitato qualche mese fa a tenere una «Lectio Magistralis» sul tema «Islam, religione di pace» che si sarebbe dovuta tenere nella Sala della Regina di Montecitorio. E pazienza se lo stesso aveva esaltato gli attacchi suicidi contro i civili in Israele, se aveva detto in tv che alle mogli si possono rifilare «percosse leggere», se ai combattenti dell'Isis voleva infliggere «la morte, la crocifissione o l'amputazione delle loro mani e piedi» ma non - attenzione - perché siano degli assassini, ma perché «combattono Dio e il suo profeta», cioè perché non interpretano l'islam come dice lui. Le donne in cucina negli spot, no. Se vengono percosse leggermente dall' imam, invece, va tutto bene. Contraddizioni, ipocrisia? Non nel fantastico mondo di Laura. Dove tutti i migranti sono buoni. Anche perché tutti sono migranti. Francesco Borgonovo e Adriano Scianca

Chissà se madonna Laura Boldrini, papessa della Camera, ha letto di recente I promessi sposi e s'è dunque imbattuta in Donna Prassede, bigottissima moglie di Don Ferrante, convinta di rappresentare il Bene sulla terra e dunque affaccendatissima a "raddrizzare i cervelli" del prossimo suo e anche le gambe ai cani, sempre naturalmente con le migliori intenzioni, di cui però - com'è noto - è lastricata la via per l'Inferno, scrive Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano l'11 marzo 2014. Noi tenderemmo a escluderlo, altrimenti si sarebbe specchiata in quel personaggio petulante e pestilenziale descritto con feroce ironia da Alessandro Manzoni, e avrebbe smesso di interpretarlo ogni giorno dal suo scranno, anzi piedistallo di terza carica dello Stato. Invece ha proseguito imperterrita fino all'altroieri, quando ha fatto sapere alla Nazione di non avere per nulla gradito l'imitazione "sessista" della ministra Boschi fatta a Ballarò da Virginia Raffaele, scambiando la satira per lesa maestà e l'umorismo su una donna potente per antifemminismo. E chissenefrega, risponderebbe in coro un altro paese, abituato alla democrazia, dunque impermeabile alla regola autoritaria dell'Ipse Dixit. Invece siamo in Italia, dove qualunque spostamento d'aria provocato dall'aprir bocca di un'Autorità suscita l'inevitabile dibattito.

Era già capitato quando la Rottermeier di Montecitorio aveva severamente ammonito le giovani italiane contro la tentazione di sfilare a Miss Italia, redarguito gli autori di uno spot che osava financo mostrare una madre di famiglia che serve in tavola la cena al marito e ai figli, sguinzagliato la Polizia postale alle calcagna degli zuzzurelloni che avevano postato sul web un suo fotomontaggio in deshabillé e fare battutacce - sessiste, ça va sans dire - sul suo esimio conto (come se capitasse solo a lei), proibito le foto e i video dei lavori parlamentari in nome di un malinteso decoro delle istituzioni, fatto ristampare intere risme di carta intestata per sostituire la sconveniente dicitura "Il presidente della Camera" con la più decorosa "La presidente della Camera". Il guaio è che questa occhiuta vestale della religione del Politicamente Corretto è incriticabile e intoccabile in quanto "buona". E noi, tralasciando l'ampia letteratura esistente sulla cattiveria dei buoni, siamo d'accordo: Laura Boldrini, come volontaria nel Terzo Mondo e poi come alta commissaria Onu per i rifugiati, vanta un curriculum di bontà da santa subito. Poi però, poco più di un anno fa, entrò nel listino personale di Nichi Vendola e, non eletta da alcuno, anzi all'insaputa dei più, fu paracadutata a Montecitorio nelle file di un partito del 3 per cento e issata sullo scranno più alto da Bersani, in tandem con Grasso al Senato, nella speranza che i 5Stelle si contentassero di così poco e regalassero i loro voti al suo governo immaginario. Fu così che la donna che non ride mai e l'uomo che ride sempre (entrambi per motivi imperscrutabili) divennero presidenti della Camera e del Senato.

La maestrina dalla penna rossa si mise subito a vento, atteggiandosi a rappresentante della "società civile" (ovviamente ignara di tutto) e sventolando un'allergia congenita per scorte, auto blu e voli di Stato. Salvo poi, si capisce, portare a spasso il suo monumento con tanto di scorte, auto blu e voli di Stato. Tipo quello che la aviotrasportò in Sudafrica ai funerali di Mandela, in-salutata e irriconosciuta ospite, in compagnia del compagno. Le polemiche che ne seguirono furono immancabilmente bollate di "sessismo" e morte lì. Sessista è anche chi fa timidamente notare che una presidente della Camera messa lì da un partito clandestino dovrebbe astenersi dal trattare il maggior movimento di opposizione come un branco di baluba da rieducare, dallo zittire chi dice "il Pd è peggio del Pdl" con un bizzarro "non offenda", dal levare la parola a chi osi nominare Napolitano invano, dal dare di "potenziale stupratore" a "chi partecipa al blog di Grillo", dal ghigliottinare l'ostruzionismo per agevolare regali miliardari alle banche. Se ogni tanto si ghigliottinasse la lingua prima di parlare farebbe del bene soprattutto a se stessa, che ne è la più bisognosa. In fondo non chiediamo molto, signora Papessa. Vorremmo soltanto essere lasciati in pace, a vivere e a ridere come ci pare, magari a goderci quel po' di satira che ancora è consentito in tv, senza vederle alzare ogni due per tre il ditino ammonitorio e la voce monocorde da navigatore satellitare inceppato non appena l'opposizione si oppone. Se qualcuno l'avesse mai eletta, siamo certi che non l'avrebbe fatto perché lei gli insegnasse a vivere: eventualmente perché difendesse la Costituzione da assalti tipo la controriforma del 138 (che la vide insolitamente silente) e il potere legislativo dalle infinite interferenze del Quirinale e dai continui decreti del governo con fiducia incorporata (che la vedono stranamente afona). Se poi volesse dare una ripassatina ai Promessi Sposi, le suggeriamo caldamente il capitolo XXVII: "Buon per lei (Lucia) che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza". Poco dopo, sventuratamente, la peste si portò via anche lei, ma la cosa fu così liquidata dal Manzoni: "Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto". Amen.

Sgarbi contro il vocabolario politicamente corretto della Boldrini, scrive il 4 gennaio 2017 "New notizie". Vittorio Sgarbi vs Laura Boldrini: il noto critico d’arte, che non si fa problemi a dire pubblicamente quello che pensa di ogni situazione che richiami la sua attenzione, ha preso di mira la Presidente della Camera, Laura Boldrini: non si tratta della prima volta, ricordiamo che quest’estate Sgarbi aveva demolito la sua decisione di istituire una fantomatica commissione parlamentare contro l’Odio. “La Commissione contro l’odio porterà a risultati sorprendenti. Riconosceremo finalmente i sentimenti di Totò Riina. Saremo indotti a giustificarlo e forse ad amarlo, anche se non lo abbiamo concesso ai suoi figli. Sì, esorcizziamo l’odio. Cerchiamo le radici del male.  Perché odiare gli assassini del Bangladesh? Perché provare rabbia e rancore? Rispettiamo lo slancio religioso dei terroristi. Condividiamo il loro martirio, i valori reali che li ispirano” aveva allora criticato Sgarbi. Ma non si ferma qui: il noto critico, che ha tantissimi seguaci sui social e non solo, ha anche preso di mira il nuovo vocabolario della Boldrini, il cui scopo politico primario sembra essere quello di declinare al femminile ogni nome. Con buona pace della grammatica italiana. ‘Sindaca’ e ‘Ministra’ o addirittura ‘Presidente’, neologismi che sono già mutuati da alcuni organi di informazione. Per deridere questa “battaglia”, Sgarbi chiama il presidente della Camera Boldrina. “Napolitano ha detto una cosa semplice: che i ruoli prescindono dai sessi, che non si applicano ai sessi, che sono persone ma che essendo di genere femminile non diventano femminili, un persono sostiene Sgarbi.

La ministra Fedeli e i discorsi di Totò. L’uso caricaturale del politicamente corretto rischia di essere ridicolo anche quanto si propone obiettivi seri, come nel caso dei decreti delegati sulla scuola, scrive Gian Antonio Stella il 18 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". «Signore e signori, dottoresse e dottori, idrauliche ed idraulici, oboiste ed oboisti, sfogline e sfoglini…». Avanti così, Valeria Fedeli rischia di fare il verso a certi discorsi del mitico Totò. L’uso caricaturale del politicamente corretto, infatti, riesce ad essere ridicolo anche quando si propone obiettivi seri. E se la British Medical Association, come ha raccontato su il foglio Giulio Meotti, ha tracciato il solco in Gran Bretagna invitando «i medici a non parlare più di expectant mothers (mamme in attesa), ma di un più generico pregnant people (gente incinta), per rispettare l’eventuale natività gay» la nostra ministra dell’Istruzione si è incamminata lesta nel solco. Come spiega Tuttoscuola, infatti, dopo aver esordito alla ripresa delle lezioni dopo l’Epifania con un tonante «Care ragazze e cari ragazzi, bentornate e bentornati», la signora ha sfidato le scontate ironie della popolazione scolastica (che in queste cose sa essere feroce) con i testi definitivi dei decreti delegati. Dove ha sfondato la barriera del suono del politicamente corretto: «Ventinove (29) volte bambino è diventato “bambina e bambino”, quarantanove (49) volte alunno è diventato “alunna e alunno”, quarantasei (46) volte studente è diventato “studentessa e studente”». Un esempio? Nel decreto sull’inclusione spicca: «Valutato, da parte del dirigente scolastico, l’interesse della bambina o del bambino, dell’alunna o dell’alunno, della studentessa o dello studente…».

Il record, prosegue la rivista di Giovanni Vinciguerra, «è dentro il decreto sulla valutazione con 44 articolazioni di genere (per fortuna non c’erano le bambine e i bambini dell’infanzia, non compresi nella valutazione). Al secondo posto il decreto sull’inclusione con 32 articolazioni, seguito dal decreto della riforma 0-6 anni con 17 exploit tutti riservati ovviamente a bambine e bambini». E meno male che i sindacati, che sembrano a loro agio con la ministra-sindacalista, non si sono accorti d’una profonda ingiustizia: nei «già verbosissimi decreti» non ci sono distinzioni sul sesso dei docenti. Scelta che avrebbe imposto l’uso di professoresse e professori, maestre e maestri e così via. Domanda: al di là delle possibili proteste di chi davanti a un eccesso di precisazioni di genere potrebbe dichiararsi estraneo all’uno e all’altro sesso, è questo il famoso «rispetto» per gli studenti? Non sarebbe più rispettoso evitare loro di cambiare professori ogni anno o passare ore ed ore in edifici a rischio sismico e idrogeologico?

Politicamente corretto, la nuova religione della “sottomissione” al “non pensiero” del potere, scrive il 13 dicembre Giuseppe Reguzzoni su Tempi. Per la nuova religione non è vero ciò che è vero, ma ciò che si riesce a far apparire tale. Il nemico non è un’altra religione ma il pensiero stesso. Chi pensa è un potenziale nemico. Anticipiamo in queste pagine alcuni stralci del saggio Il liberalismo illiberale, dell’Editore XY.IT, in libreria in questi giorni. L’autore, Giuseppe Reguzzoni, è uno storico e giornalista, traduttore (tedesco, francese, inglese) anche di opere di papa Benedetto XVI. Collabora con l’Istituto Mario Romani dell’Università Cattolica di Milano. Il Politically Correct è il nuovo tabù e l’aura di timore che lo circonda è il nuovo senso del pudore, del tutto imposto ed eterodiretto. Preso alla lettera, “politically correct” richiama in qualche modo l’idea di “correct polity”, dunque una certa buona maniera di governare o, anche, di stare al mondo gli uni accanto agli altri, di costruire insieme la politéia, la comunità civile. (…) Il Politicamente Corretto è, nella prassi sociale di ogni giorno, un elenco implicito di divieti o, se si vuole, di dogmi indimostrabili. Il sacerdote del Politicamente Corretto non mira ad argomentare, ma a puntare il dito, con orrificato stupore, su chi osa mettere in questione la secolarissima sacralità del suo Credo. (…)

Già solo accennare alle grandi aree semantiche di cui si occupa questo moderno e laico tribunale dell’Inquisizione costituisce in qualche modo un reato: immigrazione, sicurezza, differenze di civiltà e di origine geografica e razziale, omosessualità, gender mainstreaming, temi identitari, domande esistenziali e fedi religiose sono oggi i nuovi “tabù”, ciò di cui è bene non parlare, anche se, inconsciamente, quando sopravvive un minimo di spirito critico, lo si vorrebbe fare. L’idea di tabù è stata sviluppata anzitutto dagli antropologi, come una sorta di proibizione rituale, implicita e inconscia, ma è stato Freud a evidenziare il nesso tra tabù e nevrosi. La nostra è una civiltà nevrotica, a tratti schizofrenica, che nega l’esistenza stessa del problema, confinandolo nei propri tabù. Il Politicamente Corretto è, appunto, il tabù rispetto alla ricerca e alla percezione della verità, tutta intera. C’è, tuttavia, chi di questi tabù usa consapevolmente per consolidare i propri disegni di potere. (…)

Il ministero orwelliano del condizionamento esiste e la sua forza sta nella sua apparente, superficiale, invisibilità. Come nel mondo immaginato da Orwell in 1984 la lingua, o meglio, la “neolingua” è strumento di potere. Solo che, a differenza che nel mondo distopico di Orwell, nel linguaggio politicamente corretto i termini sono in costante aggiornamento. Si dice e non si dice, attuando con efficacia forme di censura preventiva che ostacolano o impediscono ogni forma di pensiero critico personale, qui proprio come in 1984. (…)

Questi tabù, organizzati ectoplasmaticamente in quella realtà fluida e in continuo mutamento che è il Politically Correct, costituiscono la nuova religione civile della società globale. Qui sta il cambiamento in corso almeno da due decenni e coincidente con la crisi dei grandi sistemi politici di matrice ideologica, incluso il liberalismo e la sua pretesa di essere una sorta di via media. Qui sta il nocciolo della forma che il Politically Correct sta assumendo e il fatto che esso non sia ormai più solo un linguaggio, ma, appunto, un elemento di raccordo e coesione sociale, con tratti simili a quelli che Rousseau attribuiva alla sua religione civile.

Che la formulazione del modello del Politically Correct abbia avuto luogo prima negli Stati Uniti non è certamente un dato casuale. Rispetto all’Europa gli Stati Uniti, pur essendo un paese fortemente secolarizzato, restano tuttavia fortemente segnati da un ipermoralismo parabiblico, in cui Arnold Gehlen ha riconosciuto i tratti di «una nuova religione umanitaria». Dopo la Seconda Guerra Mondiale e, soprattutto, negli anni Sessanta del secolo scorso, il linguaggio puritano ha subìto una profonda mutazione a contatto con il linguaggio (neo)marxista veicolato dagli intellettuali della scuola di Francoforte o ispirato da loro, dapprima rifugiati negli Stati Uniti e poi installati nelle scuole e università occidentali. È stato soprattutto con le rivolte giovanili degli anni Sessanta che costoro hanno assunto il ruolo di sacerdoti del pensiero unico, esercitando un controllo progressivamente egemone sui media e sui sistemi scolastici ed educativi occidentali. Già le modalità con cui questo pensiero si è imposto presentano quei tratti di slealtà che sono caratteristici del linguaggio politicamente corretto, dal momento che la critica dell’autorità andava di pari passo con modelli di autoritarismo implicito: si contestavano le figure tradizionali dell’autorità, avvvalendosi dell’autorità che derivava dalle proprie cattedre e dai propri ruoli. Il politicamente corretto si presentava antidogmatico, imponendo però dogmi impliciti e indiscutibili, così come, nella sua versione sessantottina, si presentava come anticonformista, imponendo però nuove forme di conformismo radicale e disperato. In questo modo, sleale, il nuovo moralismo andava costruendo i suoi dogmi, e si avviava a trasformarsi in quella che Carl Schmitt definiva «la tirannia dei valori». (…)

D’altra parte è l’Occidente, nel suo insieme, dunque anche l’America, a divenire vittima di se stesso e dei propri complessi di colpa, evidenti nelle nuove forme di autocensura. Il bombardamento di slogan antirazzisti, multiculturali, antiomofobi ha assunto toni parossistici, quasi religiosi. Non si offrono ragioni, ma tabù indiscussi, e il solo sollevare questioni, anche minime, è considerato blasfemo. Il politicamente corretto, in quanto nuova religione civile, impone un credo indiscutibile e indiscusso. Nella nuova religione non si crede perché essa è ragionevole, ma solo per paura o per assuefazione. Lungo sarebbe l’elenco dei “dogmi” di questa nuova religione civile, più facile identificare nei grandi media, voce dei poteri forti, la nuova inquisizione, che sentenzia senza ascoltare e condanna attraverso mantra ossessivamente ripetuti. Per essa non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che si riesce a far apparire tale. Il nemico di tale tribunale non è un’altra religione civile, filosofica o rivelata, ma il pensiero stesso. Chi pensa, per il fatto stesso che pensa, è un potenziale nemico. Non affannatevi a pensare, a voler conoscere la realtà, lo facciamo noi per voi. Voi limitatevi a divertirvi o compiangervi e, soprattutto, adeguatevi.

La dittatura del politicamente corretto suppone delle società liberali o, se si preferisce, apparentemente liberali, dove sia almeno a parole garantita la possibilità di scegliere, magari cambiando canale tra reti, in realtà tutte omogenee al sistema. È il paradosso del liberalismo, che vive di presupposti che non è esso stesso in grado di generare, (…) è l’involuzione di un modello culturale e politico che, partito in nome della libertà, finisce per ritagliare quest’ultima a uso di chi ha il potere finanziario e politico. (…) Nel Politicamente Corretto tutto ciò che marca la differenza tra comunità e individui, finanche tra i due sessi, è percepito e indicato come un ostacolo imbarazzante. (…)

La laicità radicale, o laicismo negativo, mira finanche ad annullare i segni storici della presenza delle religioni in Occidente (dunque della religione cristiana) sostituendovi altri segni in linea con la propria visione del mondo. Alle comunità religiose è riconosciuto, al massimo, lo status di enti privati, senza alcuna pertinenza diretta con la realtà statuale. È quanto non ha mancato di constatare, e denunciare, papa Giovanni Paolo II lungo tutto il proprio pontificato: «Nell’ambito sociale si sta diffondendo anche una mentalità ispirata dal laicismo, ideologia che porta gradualmente, in modo più o meno consapevole, alla restrizione della libertà religiosa fino a promuovere il disprezzo o l’ignoranza dell’ambito religioso, relegando la fede alla sfera privata e opponendosi alla sua espressione pubblica. Il laicismo non è un elemento di neutralità che apre spazi di libertà a tutti: è un’ideologia che s’impone attraverso la politica» (Ai presuli della Conferenza episcopale della Spagna, in visita Ad limina Apostolorum, 24 gennaio 2005).

La campagna contro i crocifissi, sottoscritta anche da un altro Zagrebelsky, a nome del Consiglio d’Europa, non è che un elemento di questo complesso processo di sostituzione simbolica che pretende di investire la totalità del vivere civile e le sue espressioni non puramente individuali, come accade, esemplarmente, nella gestione del tempo e della sua dimensione pubblica. Per il momento la rimozione del calendario cristiano risulta ancora troppo complessa, ma val la pena di ricordare che essa è già stata sperimentata all’epoca della Rivoluzione francese e riproposta dai sistemi totalitari del XX secolo. La nascita di un calendario civile, con applicazione rigorosa di nuove forme di “precetto festivo” si colloca, a sua volta e in pieno, su questa medesima linea, dal momento che il calendario rappresenta la scansione ufficiale del tempo in una società. In Italia il 25 aprile, l’1 maggio e il 2 giugno hanno assunto funzioni che vanno ormai ben al di là della commemorazione civile di eventi storici importanti. Ci sono centri commerciali che sono aperti il 25 dicembre, Natale, ma non è possibile o è estremamente difficile che la stessa cosa avvenga il 25 aprile o il 2 giugno. Eppure, se il presupposto del laicismo radicale è che tutto è relativo e che, dunque, nessuna posizione debba essere considerata preminente, non si capisce bene su che cosa debba fondarsi la sacralità di tali ricorrenze “civili”.

Alle feste “comandate” del calendario civile, paragonabili alle solennità del calendario liturgico, si sommano le “feste di precetto” e le “memorie solenni”, come la giornata della memoria (ormai imposta in tutte le scuole, con cerimonie e iniziative culturali), l’8 marzo (festa della donna) o la festa della mamma o il 14 febbraio, san Valentino, festa degli innamorati. Queste ultime, laiche feste di precetto, tra l’altro, che pur non hanno il carattere di solennità nazionali, sono oggi elementi costitutivi di una sorta di calendario universale del Politicamente Corretto.

Tale calendario “civile”, non potendo annullare del tutto le festività religiose, tende a neutralizzarle. Così è avvenuto con il Natale cristiano, ormai scomodo sul piano dei dogmi della religione civile del Politicamente Corretto, che è stato trasformato in festa dei buoni sentimenti (con apertura dei negozi). D’altra parte, se internet è l’emblema della nuova società globale, quando si parla di calendario, è interessante osservare come il motore di ricerca Google ormai da anni scandisca il fluire dei giorni come una sorta di rubrica liturgica di questa nuova religione civile secolare, assumendo il ruolo di custode e guardiano della rete. Intorno al logo di Google abbiamo visto scorrere di tutto: dall’anniversario della nascita di Confucio, con tanto di costume mandarino stilizzato, a quella di Galileo, con allegato telescopio, e persino quello di Ludwik Zamenhof, ebreo polacco creatore dell’esperanto. Non sono mancati riferimenti alla nascita di Buddha, malgrado la scarsità di dati storici certi, e abbiamo potuto seguire quasi integralmente la scansione annuale delle principali festività ebraiche. Da qualche anno ci toccano anche gli auguri ai musulmani per l’inizio e la fine del Ramadan. Per par condicio il 25 dicembre ci si attenderebbe l’immagine di un piccolo presepe, ma non è mai stato così. Il massimo che ci è stato concesso è stato il grassone vestito di rosso, con tanto di renne al seguito, caricatura inventata dalla Coca Cola del vescovo greco anatolico Nicola di Myra.

Su Google sono costantemente e volutamente assenti i riferimenti al calendario cristiano in quanto cristiano, benché il motore di ricerca non abbia ancora rinunciato al calcolo degli anni dalla nascita di Cristo. I richiami alle feste cristiane sono “tabù”. Ma nella geografia politica dell’imbarazzo, Google non è che un elemento accanto a moltissimi altri, come il divieto esplicito del tradizionale augurio “Merry Christmas” sulle insegne di molti comuni inglesi o quello implicito nella stragrande maggioranza delle aziende europee ed americane, fino ad arrivare all’esclusione di presepi e alberi di Natale in alcune scuole statali italiane in nome della multiculturalità. La domanda che sorge spontanea è se davvero si tratti solo di imbarazzo o se, piuttosto, queste scelte non sottendano un disegno nascosto, non siano cioè l’espressione di una visione secolarista che si va imponendo come una nuova e non esplicita religio civilis, mascherandosi da laicità dello Stato che, addirittura, come in Zagrebelsky, dichiara di considerare pericoloso ogni contributo che le religioni possono offrire alla coesione sociale in quanto tale.

Le forze che agiscono dietro questo progetto sono molteplici e si muovono sulla base di processi anche molto differenti di autocoscienza. Sarebbe ingenuo, però, pensare a un movimento in tutto e per tutto spontaneo, di carattere culturale, quasi che la cultura e la mentalità dominante non abbiano nulla a che fare con le forme, indotte, del disciplinamento sociale. Un’analisi compiuta di questi processi è arrivata sinora più dalla letteratura distopica che dalla riflessione speculativa. Certo, la teologia successiva al Vaticano II non si è ancora confrontata in maniera seria con il tema del condizionamento socio-culturale come progetto di riscrittura della mentalità e della società. I sorrisini e le ironie quando si tocca il tema dell’influenza della massoneria sulla mentalità odierna la dicono lunga su questa profonda ingenuità (è davvero solo tale?). Eppure i testi e i documenti che mettono in guardia da un atteggiamento che cerca di mascherare l’ingenuità con la spocchia intellettuale non sono pochi. Una cosa è il complottismo, altra, e ben diversa, è la progettualità culturale sulla società, particolarmente quando essa non è esplicitata in programmi politici trasparenti, ma in forme di condizionamento legate ai soft power. (…)

Il cristianesimo non è una religione civile; il laicismo radicale, almeno implicitamente, sì. Si può discutere se e quanto le religioni possano contribuire alla religione civile di una nazione, ma, in una prospettiva cristiana, ciò implica che il termine “religione” sia inteso in senso quasi metaforico. E implica che la religione civile non si ponga in termini sostitutivi rispetto alle religioni storiche, ma ne accolga il contributo (…). Benedetto XVI, riassumendo una posizione che non può essere tacciata di integralismo fondamentalista, non dice che il cristianesimo è una religione civile, ma che esso ha una funzione civile. Non è la stessa cosa (…).

Per dirla con Carl Schmitt, si tratta di un processo di continua “neutralizzazione” dei riferimenti ideali. Alle religioni tradizionali si sostituisce la pura razionalità, sino ad arrivare a cercare un punto di coesione il più neutro possibile nell’economia e nella tecnica. Tra queste suggestioni di massa, quella che fluttua da un centro conflittuale all’altro, mantenendo la propria funzione mitica, è certamente l’idea di progresso. (…) In fondo, mentre il cosmopolitismo settecentesco era una dottrina filosofica, il globalismo contemporaneo ne è l’erede in forma “neutralizzata”. L’altro elemento, accanto al mito del progresso e della “neutralità della tecnica”, impostosi soprattutto dal Sessantotto, è quello dei diritti dell’uomo, interpretati evolutivamente proprio alla luce del mito del progresso, come ha acutamente dimostrato la professoressa Janne Haaland Matláry proprio in rapporto all’idea di dittatura del relativismo. Il concetto riprende un passaggio fondamentale dell’omelia di Benedetto XVI durante la celebrazione della Messa Pro eligendo pontifice, che ben riassume il carattere (pseudo) “religioso” di questa prospettiva. Il dialogo, per funzionare, implica l’esistenza di un vocabolario comune, in cui i termini fondamentali non vengano usati in maniera e con significati ambigui od equivoci.

Il relativismo etico dell’Occidente e il Politically Correct come sua implicita religione civile non sono in grado di realizzare questo dialogo dato che, nella migliore delle ipotesi, quel che ne deriva è solo una mera giustapposizione del diverso, una multiculturalità senza incontro e senza scambio. Anche i diritti dell’uomo, considerati in sé e per sé, non riescono a uscire dal rischio di un’interpretazione ambigua ed equivoca. A prescindere dal fatto che la maggior parte dei paesi islamici non riconosce la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’interno dello stesso Occidente è al centro di interpretazioni opposte che ne annullano il valore “universale”. Il punto è l’uso che oggi si sta facendo dei diritti dell’uomo. Da una parte sono divenuti la nuova Bibbia politica di una comunità sociale diversamente priva di qualunque riferimento ideale, dall’altra sono stati di volta in volta usati come la bandiera di un valore e del suo esatto contrario, per esempio, della difesa della famiglia tradizionale e della sua demolizione attraverso il riconoscimento dei cosiddetti matrimoni omosessuali. Nessuno in Occidente può oggi permettersi di andare contro i diritti dell’uomo, e allora si tenta di tirarli dalla propria parte, spostando il problema dall’applicazione dei diritti dell’uomo alla loro interpretazione.

La Dichiarazione ha una sua precisa collocazione storica e si tratta di un riferimento storico che ha qualcosa di miracoloso, di irripetibile. Si usciva dalla Seconda Guerra Mondiale e dagli orrori del nazifascismo (quelli del comunismo erano ancora ipocritamente occultati). La Dichiarazione Universale nacque come reazione al relativismo politico e legale della Germania hitleriana e, più in generale, delle ideologie totalitarie, con un implicito riferimento all’idea che stava alla base del processo di Norimberga. Ai criminali nazisti che si appellavano all’obbedienza agli ordini ricevuti dall’alto, si ricordava che esiste un’altra obbedienza, ben più decisiva. Sulla base di questa idea, per la prima volta nella storia, un tribunale aveva emesso delle condanne non perché gli imputati erano nemici, ma perché avevano violato questa legge di natura, quella a cui si ispirò la Dichiarazione.

Ora, perché questa legge possa davvero essere tale, in forza di quel “sentire comune” di tutta l’umanità a cui essa fa riferimento, bisogna che non possa essere modificata arbitrariamente dagli attori politici. Ma è proprio questa la crisi che sta investendo i diritti dell’uomo. Se essi sono solo una convenzione, modificabile col cambiare delle opinioni, allora i diritti non sono più tali, perché possono a loro volta essere modificati. Perché i diritti dell’uomo siano tali, devono essere al di sopra degli stati, (…) essi non possono neppure essere in balìa dei nuovi poteri transnazionali che cercano di svuotarli dall’interno reinterpretandoli in direzione di quel mostro ideologico che è il politicamente corretto. Le grandi lobbies del potere transnazionale non potendo negare i diritti in quanto tali, tendono a dissolverli considerandoli solo come delle mere convenzioni, delle questioni di maggioranza all’interno di un’opinione pubblica da loro dominata o egemonizzata. (…)

La strategia sottesa è quella del soft power, vale a dire del condizionamento dell’opinione pubblica da parte di agenzie internazionali di opinione, con meccanismi acutamente descritti da Haaland Matláry nel suo volume sui «diritti umani traditi»: si comincia a imporre la trattazione di certi temi, mettendo in conto il rifiuto della maggioranza ancora poco “illuminata”; si pretende che se ne parli come di “diritti civili”, magari facendo riferimento a “casi pietosi” e con l’appoggio di importanti figure del mondo dello spettacolo o dello sport; ci si appella al sostegno del mondo scientifico, di volta in volta identificato con qualche personalità di comodo e si ottengono, alla fine, delle “direttive non vincolanti” emanate da organismi transnazionali (come – aggiungiamo noi – potrebbe essere anche il Parlamento europeo). A questo punto il gioco è fatto e si può intervenire all’interno di ciò che resta dello stato nazionale appellandosi alle moderne conquiste dei paesi civili e al tale pronunciamento della tale commissione per chiedere il “diritto” al matrimonio omosessuale, alla sperimentazione sugli embrioni, alla clonazione eccetera. Nel frattempo si dilata il vocabolario delle maledizioni politicamente corrette per far sì che gli avversari nemmeno vengano ascoltati: razzista, omofobo, oscurantista, rozzo. (…)

È chiaro che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è stata svuotata. Essa ha senso solo in quanto espressione del diritto naturale, cioè di quel diritto che viene prima di ogni forma di organizzazione statale e che è inviolabile: «Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati» (Art. 30). Mettere in questione il carattere universale di questi princìpi e il loro ancorarsi nelle «leggi non scritte e immutabili» del diritto naturale significa spianare la strada all’arbitrio e a nuove forme di totalitarismo. All’azione distruttiva del soft power Haaland Matláry oppone la necessità di riscoprire il valore fondativo e universale della ragione. La sua proposta di rivalutazione del diritto naturale indica in modo rigoroso un possibile percorso fondativo della categoria del “prepolitico” in un contesto culturale e sociale secolarizzato.

In una prospettiva cristiana, restano due questioni: quella di come l’avvenimento cristiano debba porsi di fronte a questa sorta di religione globale, incentrata sul mito del progresso e sulla relativizzazione dei diritti dell’uomo; quella del contributo alla coesione sociale che il cristianesimo è chiamato a portare nella vita delle nazioni e nelle relazioni internazionali.

Il punto non è solo il ruolo che le religioni possono svolgere all’interno delle società secolarizzate, ma, soprattutto, le condizioni perché queste ultime possano sopravvivere e non sprofondare in una violenza di tutti contro tutti. (…) Una corretta religione civile – sempre che si voglia ancora insistere su questa espressione di per sé ambigua – sarebbe, dunque, necessaria allo Stato liberale e democratico occidentale proprio in funzione della realizzazione di questi presupposti che esso non può darsi da solo, ma che può ricevere dalle forze più vive che esistono al proprio interno.

Senza negare l’evidenza di una società occidentale divenuta plurale (…), ma comunque bisognosa di riferimenti etici e ideali comuni, si tratta di relativizzare l’idea di religione civile, riconoscendole – con Benedetto XVI – un valore necessario, ma non sufficiente: «Il concetto di religio civilis appare così in una luce ambigua: se esso rappresentasse soltanto un riflesso delle convinzioni della maggioranza, significherebbe poco o niente. Ma se invece deve essere sorgente di forza spirituale, allora bisogna chiedersi dove questa sorgente si alimenta». Ecco, allora, le due tesi ratzingeriane, per una rilettura della laicità dello Stato e della religione civile a essa sottesa: «La mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive non si costruisce niente. La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità», espressione con cui si intende non solo la presenza di nuove comunità religiose, ma il contributo fattivo e vitale che le comunità possono dare, come «sale della terra» (che più avanti Ratzinger chiama anche «minoranze creative»), alla coesione sociale e civile, in rapporto con tutti i fermenti più vivi che operano all’interno della società. È evidente che per essere se stessa, l’esperienza cristiana chiede e necessita di non essere privatizzata e ridotta a puro elemento individuale e soggettivo. È altrettanto evidente che questa esperienza non deve temere di rapportarsi a un mondo divenuto plurale, rimanendo però se stessa sino in fondo. Diversamente, il concetto di religione civile resta «prigioniero in quella gabbia di insincerità e ipocrisia che è il linguaggio politicamente corretto».

Contro il fascismo di sinistra. L’occidente politicamente corretto è un élite vuota e secolarizzata che si crede eterna, dice Camille Paglia. “Il free speech era l’anima della sinistra degli anni Sessanta, poi è diventata una polizia del pensiero stalinista”, scrive Mattia Ferraresi il 6 Febbraio 2015 su "Il Foglio".  “Quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”, dice Camille Paglia.

New York. Camille Paglia combatteva il politicamente corretto quando ancora non esisteva. C’era la cultura perbenista e censoria che veniva dagli anni Cinquanta, ma non esisteva ancora l’invisibile polizia del linguaggio del “fascismo di sinistra”, come lo chiama lei, che tracciava il confine fra il legittimo e l’illegittimo nel discorso pubblico non sulla base di un ben perimetrato codice morale, ma intorno alle linee incerte della libertà individuale. Non è con la coercizione che il politicamente corretto si è insediato. E’ stato un docile golpe culturale nel nome dell’uguaglianza, articolato con il linguaggio accondiscendente dei diritti, non imposto con il manganello della buoncostume. E’ lo strumento di protezione degli indifesi, dei più deboli, delle minoranze oppresse, dicevano i suoi difensori, e l’argomento potrebbe essere ripetuto anche da Mark Zuckerberg per giustificare l’esclusione da Facebook dei testi che contengono la parola “frocio” (termine che compare in questo articolo al solo scopo di sfruculiare l’ottuso algoritmo).

Paglia è passata in mezzo a tutte le fasi della guerra del politically correct. Faceva il primo anno di università nello stato di New York quando gli studenti di Berkeley guidati da Mario Savio manifestavano per la libertà di parola, gettando i semi della controcultura; in tasca aveva sempre una copia di “Howl” (“la mia bibbia”, dice) il poema di Allen Ginsberg censurato per oscenità. Nel 1957 la polizia aveva perquisito – e contestualmente devastato – la libreria di San Francisco che con inaccettabile affronto aveva continuato a vendere il volume; nei primi anni Novanta, quando il politicamente corretto si è coagulato in un sistema di regole per lo più non scritte, diventando convenzione dopo essere stato pulsione, la femminista contromano era sulla copertina del New York magazine con uno spadone medievale davanti al Museo d’arte di Philadelphia: una “women warrior” a presidio della libera cittadella della cultura contro gli attacchi del politicamente corretto.

Non che lo schema del politicamente corretto oggi sia stato superato, anzi. Nella sua veste più minacciosa di “hate speech”  – un politicamente corretto con il turbo – il canone che regola l’indicibile nel discorso pubblico è diventato pervasivo e meccanico, s’è infiltrato nella rete sotto forma di cavillosi termini d’uso che si accettano senza leggere; nelle università americane è sempre più frequente il fenomeno del “disinvito” di oratori che possono offendere la sensibilità di qualche gruppo minoritario; sul giornale di Harvard lo scorso anno una studentessa suggeriva di abbandonare la finzione della “libertà accademica” e di selezionare in modo finalmente esplicito quali eventi approvare e quali no sulla base della compatibilità ideologica con una certa tavola di valori che l’università di fatto promuove (e a parole nega). Il massacro islamista nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi ha rinfocolato il dibattito sulla libertà di espressione e sui suoi limiti. Per qualche settimana siamo stati tutti Charlie, poi l’occidente benpensante è tornato al suo business as usual: il New York Times non ha pubblicato le vignette di Maometto per non offendere i lettori musulmani, Facebook le ha censurate per non far arrabbiare il governo turco e l’editorialista David Brooks ha fatto notare un’indiscutibile verità: un giornale come Charlie Hebdo “non sarebbe durato trenta secondi” in qualsiasi università americana. Si sarebbero sollevate proteste indignate, minoranze offese avrebbero manifestato e finanziatori altrettanto offesi avrebbero protestato con argomenti molto più convincenti.

Lo stesso magazine che ritraeva Paglia fra armature medievali quasi quindici anni fa ha pubblicato di recente un saggio sul politicamente corretto di Jonathan Chait, opinionista di tendenza liberal, di cui il Foglio ha dato conto la settimana scorsa. Chait si scaglia contro la dittatura del politicamente corretto e per capire che ha messo il dito in una piaga insanguinata del dibattito basta leggere alcune delle violente reazioni all’articolo da parte di esponenti di minoranze e sottoculture che esigono protezione da parte della polizia del linguaggio. Il ragionamento dei critici suona così: Chait può permettersi di attaccare il politicamente corretto perché è un maschio-bianco-etero-ricco, se soltanto uscisse per un attimo dalla bolla di privilegio sociale in cui vive capirebbe che le regole per non offendere le minoranze sono un bene sociale imprescindibile. Questo tanto per dire dove può portare la foga iconoclasta del movimento anti-anti-politicamente corretto, che legge qualunque episodio come figura dell’universale dialettica fra oppressori e oppressi.

Il cuore del saggio di Chait, però, era il tentativo di dimostrare che il politicamente corretto non è figlio del liberalismo, ma ne è una perversione, un tradimento introdotto dalla sinistra radicale d’impostazione marxista e inclinazione totalitaria. Nello schema di Chait c’è una sinistra buona e liberale che disprezza la correttezza politica e innalza monumenti al “free speech”, e una sinistra cattiva che con un rasoio ideologico raschia via dal discorso pubblico ciò che è incompatibile con il suo pensiero, e usa come scusa la difesa delle minoranze.

La guerriera Camille Paglia prende a spadate questa rappresentazione, e in una conversazione con il Foglio ripercorre la genesi del politicamente corretto in seno (e non al di fuori) alla rivoluzione liberale: “La libertà di espressione era la vera essenza, l’anima della politica di sinistra degli anni Sessanta, che reagiva al conformismo e alla censura degli anni Cinquanta, alla quale si opponevano già prima gruppi radicali underground, i poeti Beat e gli artisti di San Francisco e del Greenwich Village. La libertà di espressione è sempre stato il mio principio e la mia motivazione centrale, parte dell’eredità dei filosofi dell’illuminismo che hanno attaccato con forza le autorità religiose e i privilegi di classe. Proprio per questo è stato incredibilmente scioccante per me il momento in cui i liberal americani hanno abbandonato il free speech negli anni Settanta e hanno inaugurato l’èra del politicamente corretto, per la quale soffriamo ancora oggi. Invece di difendere il vibrante individualismo degli anni Sessanta, la sinistra è diventata una polizia del pensiero stalinista che ha promosso l’autoritarismo istituzionale e ha imposto una sorveglianza punitiva delle parole e dei comportamenti”.

La sottesa analogia con la dinamica che dalla rivoluzione giacobina e ai suoi ideali di liberté ecc. conduce al terrore è certamente politicamente scorretta, e Paglia da sempre mischia maliziosamente il registro dell’analisi a quello della provocazione (solitamente quando l’interlocutore pensa si tratti di provocazione in realtà è il frammento di un ragionamento calmo e lucido), rimane da spiegare il perché, e forse anche il come. Perché la sinistra ha abbandonato le sue aspirazioni di libertà per rintanarsi nel fascismo di sinistra? “Per capirlo – dice Paglia – dobbiamo innanzitutto esaminare il fallimento della sinistra nel comunicare e capire la maggioranza dell’America, il mainstream. Il documentario Berkeley in the Sixties, uscito nel 1990, mostra una serie di errori strategici fatti dalla sinistra, che, ad esempio, ha deciso di associarsi a movimenti che promuovevano il disordine civile. Questo ha portato a una reazione culturale fortissima, la quale ha contribuito al risultato delle elezioni del 1968: Richard Nixon è diventato presidente, ed è nato un enorme movimento conservatore a livello nazionale”.

Così la destra è riemersa sulla scena politica grazie alle contraddizioni interne della sinistra, mentre i liberal scottati dal l’arrivo di Nixon “si sono infiltrati nelle università”. Erano i primi anni Settanta, ricorda Paglia, “proprio quando ho cominciato a insegnare”. Questa sinistra che si è riversata nell’accademia “ha fatto pressioni enormi sugli organi di governo dei college per introdurre cambiamenti di sistema che poi sarebbero diventati la struttura base su cui è stato costruito tutto l’edificio del politicamente corretto: sono nati dipartimenti autonomi e autogestiti di studi femminili, studi afroamericani, chicano eccetera. Questi programmi ispirati dalla ‘politica dell’identità’ erano basati innanzitutto sull’ideologia, non su standard di qualità in termini di ricerca. I professori venivano assunti in quanto true believer e il dissenso da un codice approvato non era tollerato. Ero orripilata dai rigidi dogmi e dalla mediocrità intellettuale di tutto questo: oggi è la routine dell’accademia americana”.

I dipartimenti umanistici sono stati occupati dai discendenti della sinistra illuminata e liberale, non soltanto dai radicali marxisti, i quali invece occupavano inespugnabili e tuttavia isolate roccaforti universitarie. “Nei decenni – continua Paglia – i pensatori indipendenti che cercavano di fare carriera nelle humanities sono stati cacciati dalle università. Ho avuto a che fare con questo fascismo dottrinario in tutti i modi possibili. Esempio: il mio primo libro, ‘Sexual Personae’, che criticava l’ideologia femminista convenzionale, è stato rifiutato da sette editori prima di essere pubblicato nel 1990, nove anni dopo che avevo finito di scriverlo. Per fortuna quello era un momento in cui si stava discutendo del politicamente corretto sui media per via di certi codici linguistici imposti da università tipo la University of Pennsylvania. Non mi è dispiaciuto quando il magazine New York ha deciso di dedicarmi la storia di copertina, anzi se devo dire la verità l’idea della spada è stata mia”.

A quel punto, però, i dettami del politicamente corretto avevano penetrato a tal punto la cultura che i giornali di sinistra accusavano Paglia di essere una conservatrice (“accusa isterica che non aveva alcun senso: avevo appena votato per l’attivista ultraliberal Jesse Jackson alle primarie democratiche, sono ancora registrata per il Partito democratico e ho sostenuto, anche finanziariamente, il Green Party”) e la ragione della reazione convulsa, spiega, è semplice: “La sinistra è diventata una frode borghese, completamente separata dal popolo che dice di rappresentare. Tutti i maggiori esponenti della sinistra americana oggi sono ricchi giornalisti o accademici che occupano salotti elitari dove si forgia il conformismo ideologico. Questi meschini e arroganti dittatori non hanno il minimo rispetto per le visioni opposte alla loro. Il loro sentimentalismo li ha portati a credere che devono controllare e limitare la libertà di parola in democrazia per proteggere paternalisticamente la classe delle vittime permanenti di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. La sinistra americana è un mondo artificiale prodotto dalla fantasia, un ghetto dove i liberal si parlano solo con altri liberal. Penso che la divisione politica fra destra e sinistra sia moribonda e vada abbandonata, abbiamo bisogno di categorie più flessibili”.

Il “free speech” è un concetto morto nel cuore della sinistra, ma a morire, più tragicamente e meno concettualmente, sono anche i vignettisti che disegnano Maometto per rivendicare la libertà d’espressione. In America molti giornali mainstream non hanno voluto ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo, cosa pensa di tale scelta?

“Dato che le vignette di Charlie Hebdo erano disponibili in rete, non capisco perché i grandi giornali avrebbero dovuto ripubblicarle, esponendo i loro staff a potenziali pericoli da parte di fanatici senza scrupoli. I direttori poi possono anche indulgere in gesti nobili e simbolici, barricati come sono dietro sistemi di sicurezza molto più sofisticati di quelli della redazione di Charlie, ma di solito a pagare il prezzo più alto sono gli inservienti, le guardie, i custodi”. Un’esibizione di prudenza che non ci si aspetterebbe da un’intellettuale venuta fuori dalla sinistra, ma a ben vedere Paglia ha passato tutta la vita a combattere una élite che sbandierava la libertà come valore supremo; la femminista che combatte il dogma dell’uguaglianza dei ruoli e la lesbica che difende la differenza sessuale come base antropologica dell’occidente: “Guarda, sono una militante della libertà di espressione e un’atea, ma rispetto profondamente la religione come sistema simbolico e metafisico. Odio profondamente le becere derisioni alla religione che sono un luogo comune dell’intellighenzia occidentale secolarizzata. Ho scritto che Dio è la più grande idea che sia venuta all’umanità. Niente dimostra l’isolamento della sinistra dalla gente quanto la derisione della religione, che per la maggior parte degli uomini rimane una caratteristica vitale della loro identità. La magnifica ricerca di significato, dunque religiosa e spirituale, degli anni Sessanta si è persa nella politica delle identità dei Settanta. Le vignette di Charlie Hebdo erano crude, noiose e infantili, insultavano il credo di altre persone senza nessuna vera ragione artistica. Il massacro è stata un’atrocità barbara e la libertà di espressione deve essere garantita in tutte le democrazie moderne. Ma quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”.

Michel Houellebecq nel suo libro “Sottomissione” parla esattamente dell’assenza di un’alternativa secolare all’altezza dell’immaginario religioso, che finisce per affermarsi nella vuota libertà dell’occidente perché porta un surplus di significato. Paglia non ha letto il libro dello scrittore francese né lo farà. Nessuna antipatia particolare, soltanto “non leggo romanzieri contemporanei”. E qui Paglia s’infervora: “A meno che non abbiano una diretta esperienza da zone di guerra, gli scrittori odierni non hanno nulla da dirci sulla crescente instabilità del mondo di oggi. Cosa sa esattamente Houellebecq del presente a parte quello che tutti leggiamo sui media? Per capire il presente leggo sempre testi di storia e religioni comparate. Siamo in un periodo simile a quello del tardo impero romano, quando una élite sofisticata, secolare e con uno stile di vita sessualmente libero pensava che il suo mondo fosse eterno. Il suo vuoto spirituale era la sua condanna. Quella che è arrivata dalla Palestina era una religione di passione e mistero che valorizzava il martirio. L’occidente ha perso la strada, che cos’ha da offrire oggi? Può anche essere che il vecchio conflitto con il mondo islamico sia il fattore primario nel determinare la storia nel prossimo secolo. Ma non possiamo capire cosa sta succedendo senza tornare alle nostre radici culturali e ricostruire un senso di rispetto per la religione”.

Siamo sottomessi? Sì, all'autocensura. Un dossier sull'Impero (culturale) del Bene che spinge al conformismo e umilia il pensiero, scrive Stenio Solinas, Domenica 14/02/2016 su "Il Giornale".  «Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d'arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c'è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l'avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent'anni fa, in quello che resta un classico in materia, La cultura del piagnisteo, Robert Hughes si era mostrato fiducioso: «Un'abitudine tipicamente americana» l'aveva definita.

«L'appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d'Europa non desta praticamente alcuna eco». Mai profezia si è rivelata più avventata, nel piccolo come nel grande, nella politica come nella cronaca, nella tragedia come nella farsa. Giorni fa, nello spiegare l'invio di militari intorno alla diga di Mosul, in Iraq, il nostro ministro della Difesa ha detto che sarebbero andati lì «per curare i feriti» e il suo collega degli Esteri ha specificato che non andavano certo «per combattere»... L'idea del soldato-infermiere e/o portatore di caramelle è singolare e richiama alla mente la neo-lingua e il bis-pensiero del George Orwell di 1984: «La libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza», mentire con purità di cuore, «negare l'esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trarre vantaggio dalla realtà che viene negata»...D'altra parte, «la guerra è pace» è in fondo poca cosa rapportata alle dichiarazioni con cui, poco tempo fa, il rettore di un college inglese ha deciso che «il ragazzo è una ragazza» e viceversa, e quindi a scuola gonne e pantaloni sono optional: il sesso non si dà, si sceglie. Se, indeciso, lo studente/la studentessa, si presentasse nudo/nuda alla meta, ovvero in classe, non è dato sapere se frequenterà le lezioni... E naturalmente, i guerrieri della pace e/o i pacifisti della guerra, gli uomini-donne e/o le donne-uomini fanno anche loro parte di quella corrente di pensiero che ha stabilito che immigrati e emigranti erano un retaggio del passato, di quando insomma non eravamo esseri umani: «migranti» rende meglio il concetto, qualsiasi cosa con esso si voglia dire. È l'onda lunga di quella che Hughes aveva definito la Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svanivano grazie a un tratto di penna, ma è la stessa idea di natura umana che il pensiero progressista, ovvero «il campo del bene», ovvero «il politicamente corretto» guarda con sospetto. Niente è più irritante dell'avere una identità, di uomo e di cittadino. Come spiega lo storico Jacques Julliard alla Revue des deux mondes, corrisponde «alla caricatura dell'idea sartriana che l'uomo non è ciò che è, ma ciò che fa. Alla filosofia del progresso che era quella del XIX secolo, si è sostituita la filosofia del volontarismo individuale: la decostruzione di ogni identità individuale a beneficio di una libertà pura nella quale la filosofia greca avrebbe visto una sorta di hybris, di rivolta contro la natura che gli dei ci hanno dato. Ecco il fondamento filosofico ultimo della sinistra morale». Il fatto è, dice ancora Julliard, che l'uomo è un essere storico, e ciò che c'è di più presente in lui è il suo passato. Viene anche da qui quella strana «teologia negativa» per la quale si nega la propria identità per far emergere quella dell'altro. Così, nella Francia del laicismo scolastico, puoi avere dei programmi dove l'islam diviene obbligatorio, mentre il cristianesimo è facoltativo...La «cultura dell'eufemismo» vuole le eccezioni preferite alle regole, le minoranze alle maggioranze, le orizzontalità alle verticalità, e grazie a lei la contro-verità diventa una verità. Nel «campo del bene», spiega alla Revue des deux mondes il filosofo Jean Pierre Le Goff, l'emozione e i buoni sentimenti la fanno da padrone. Non si vuole cambiare la società con la violenza, e la classe operaia ha smesso da tempo di essere oggetto di interesse. Si tratta invece di rompere con «il vecchio mondo» estirpandone le idee e i comportamenti ritenuti retrogradi, in specie nel campo dei costumi e della cultura. Non ha un modello chiavi in mano di società futura, ma una sorta «di armatura mentale: svalutazione del passato e della nostra tradizione; appello incessante al cambiamento individuale e collettivo, reiterazione dei valori generali e generosi che porteranno alla riconciliazione e alla fratellanza universali. Da un lato i buoni, dall'altro i cattivi»…Relativista, antiautoritario, edonista, moralista e sentimentale. Anche libertario? Le Goff dice di no: «Esercita una polizia del pensiero e del linguaggio di un genere nuovo. Non taglia le teste, fa pressione e ostracizza». A sentire i difensori del «politicamente corretto», per esempio il direttore di Libération Laurent Joffrin, si tratterebbe di una balla. Essere progressisti vuol dire fondarsi sui valori universali di eguaglianza e giustizia per giudicare le situazioni contemporanee. Le idee progressiste, insomma, sono politicamente corrette proprio perché progressiste, e del resto, per restare sempre in Francia, non siamo di fronte a un affollarsi di pensatori reazionari, sulla stampa come alla televisione, sempre lì a dire che sono proscritti e intanto però a scrivere e a parlare senza impedimenti e con qualche lucro: libri, programmi, rubriche eccetera? Sono loro «il vero pensiero unico»...Le cose sono un po' più complicate, e trasformare una minoranza che dissente in maggioranza che ha potere rimanda ancora al bis-pensiero e alla neo-lingua orwelliani. Per quel che si sa, nessun professore universitario viene fischiato dai suoi studenti per essersi richiamato all'ideologia dei diritti dell'uomo e a quella del progresso, e quindi l'ideologia dominante è ancora quella lì ed è ancora saldamente al suo posto. Solo che è un disco rotto, non inventa più niente e quindi più che alla confutazione del pensiero altrui si dedica alla sua delegittimazione: non dice che è falso, dice che è cattivo o che, oggettivamente, fa il gioco del cattivo, del Male, del Diavolo. Non interessa se le opinioni possono essere giuste, conta che possano essere strumentalizzate contro il «campo del bene», «l'impero del bene»... Si arriva così all'assurdo di dichiararsi per la libertà di espressione, purché però la si pensi allo stesso modo. Naturalmente, c'è anche un benpensantismo a destra, un politicamente corretto che non è solo o tanto la retorica del definirsi politicamente scorretti, una sorta di esaltazione per il rutto intellettuale scambiato per schiettezza anticonformista. È una questione più delicata. In Francia l'hanno ribattezzata «droite no frontier», ovvero il sogno della libertà economica, il capitalismo libertario e senza confini che però non dovrebbe confliggere con i valori familiari e morali. Si esalta il mercato planetario di massa, ma non si ammette che dietro c'è «l'uomo nomade», che al mercatismo del mondo corrisponde quello dell'essere umano. In questo i due benpensantismi, di sinistra e di destra, finiscono per darsi la mano: il primo sogna la libertà illimitata di agire sul naturale umano e però fa finta di rifiutare la libertà economica del mondialismo; il secondo prende per buona quest'ultima, ma finge di credere che non lo riguardi nella sua quotidianità. Entrambi tartufi, politicamente corretti.

L'ossessione politicamente corretta ammazza la cultura e l'Università. Salisburgo, tolta la laurea ad honorem a Lorenz per il suo passato nazista. La lettera di protesta dei professori di Oxford: stanno distruggendo il confronto tra le idee, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale".  E l'uomo incontrò il politicamente corretto. Pochi giorni fa l'università di Salisburgo ha revocato al grande etologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la Medicina nel 1973 (morto nel 1989), la laurea honoris causa per il suo passato nazista. Studioso di fama mondiale per gli studi sul comportamento animale - e autore di uno dei testi più straordinari mai scritto sul valore della conoscenza e dell'informazione, L'altra faccia dello specchio - Lorenz si distinse fin dagli anni Trenta per la volontà di diffondere l'ideologia hitleriana. È curioso. Il passato nazista di Lorenz è noto da sempre (nel 1937 fece domanda per una borsa di studio universitaria facendosi raccomandare da accademici viennesi come simpatizzante del nazismo, nel '38 aderì al Partito dopo aver scritto sul curriculum che aveva messo «tutta la sua vita scientifica al servizio del pensiero nazionalsocialista», e nel '42 fu spedito sul fronte orientale e fatto prigioniero dai russi). Eppure Lorenz fu ritenuto meritevole del Premio Nobel nel 1973. E l'ateneo austriaco lo insignì del titolo onorifico nel 1983. Però, oggi, lo rinnega. Perché l'abiura non è stata fatta prima? Perché ora? Ha senso? L'onda lunga del politicamente corretto, nella corrente di risacca, finisce per travolgere la cultura del passato. Ma è quella del futuro che preoccupa di più. Lo tsunami scatenato da questo pericoloso atteggiamento sociale che piega ogni opinione verso un'attenzione morbosa al rispetto degli «altri», perdendo quello per la propria intelligenza, fino a diventare autocensura, rischia di fare immensi disastri. Ieri un gruppo di professori di «Oxbridge», cioè di Oxford e Cambridge, ha scritto una lettera aperta al Daily Telegraph per denunciare il politically correct che sta uccidendo progressivamente la libertà di pensiero ed espressione nelle università britanniche, indebolendone il ruolo di spazio privilegiato del confronto delle idee. Il casus belli è la campagna indetta per rimuovere la storica statua di Cecil Rhodes, ex alunno e benefattore dell'«Oriel College» (tanti ragazzi si sono fatti strada grazie ai suoi soldi), perché considerato l'ispiratore dell'apartheid in Sudafrica. Ma le sue colpe - fa notare qualcuno - non ne cancellano i meriti a favore del progresso. Un principio che può essere applicato anche a Lorenz in campo medico. O a Heidegger in campo filosofico. O a Céline in campo letterario. Ironia della sorte, e dimostrazione della stupidità insita nel politicamente corretto: l'ex studente che ha lanciato la crociata per la rimozione della statua, il sudafricano Ntokozo Qwabe, ha potuto studiare a Oxford grazie a una borsa di studio finanziata dalla Fondazione Rhodes.L'aspetto più inquietante della faccenda è che a farsi promotori dell'autocensura basata sulla correttezza politica, ad Oxford, non sono i professori, ma gli stessi studenti. Gli autori della lettera aperta, guidati dal sociologo Fran Furedi della University of Canterbury, da parte loro accusano le università inglesi di trattare i giovani come «clienti» che pagano rette salate (che è meglio non scontentare) e non come menti da formare e aprire al confronto. A Oxford un dibattito sull'aborto è stato annullato dopo che una studentessa ha lamentato che si sarebbe sentita offesa dalla presenza nell'aula di «una persona senza utero». Che, tradotto, significa «un uomo». Un comportamento da vera papera che avrebbe di certo incuriosito un etologo come Lorenz.

La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Non capisco perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day una "manifestazione inaccettabile", scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/06/2015, su "Il Giornale".  In un Paese civile - e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è - tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati. Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day - per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender - una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale. Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro - peraltro per una comprensibile reazione polemica - affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità - che è una scelta di libertà individuale - come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione - salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto. Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale». Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto. Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.

L’UBBIDIENTE DEMOCRATICO di Luigi Iannone. L’intento di questo libro è quello di misurare quanto sia marcato nelle singole vite e nei percorsi collettivi il nostro grado di assuefazione al conformismo. Viviamo un mondo in cui siamo allo stesso tempo attori e registi di una enorme sinfonia pervasa dal politicamente corretto tanto che per rintracciarne gli echi non dobbiamo fare molta fatica. Basta soffermarsi sugli accadimenti più banali, sui fatti di cronaca o di costume, sul linguaggio della politica o dei media. È sufficiente indugiare con animo libero su ognuno di essi per rendersi conto quanto sia difficile farne a meno. “Luigi Iannone, scrittore non allineato dalle frequentazioni raffinate, con questo libro ci accompagna nei sentieri poco battuti, lontani dal politicamente corretto. L’autore si propone di ricostruire un mosaico ‘differente’ tra presente, passato e futuro, per ribaltare schemi, épater le bourgeois, non facendo concessioni alla morale comune, ordinaria, canonica, maggioritaria nell’establishment e nell’immaginario collettivo progressista.” dalla prefazione di Michele De Feudis.

Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico <<(…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.

Libri. “L’Ubbidiente Democratico” di Iannone: per distinguersi dalla ridente polis dei corretti, scrive il 20 settembre 2016 Isabella Cesarini su "Barbadillo". Si spalanca con un’affermazione di Carmelo Bene, durante una puntata del Maurizio Costanzo Show – 1994, l’ultimo libro dello scrittore Luigi Iannone. Corsivo che diviene principio guida dell’opera L’Ubbidiente Democratico, nell’esergo del genio salentino: “Non me ne fotte nulla del Ruanda. E lo dico. Voi no. Non ve ne fotte ma non lo dite”. Si tratta di una dichiarazione, all’interno della quale non si trovano i caratteri di quel “corretto” che attualmente siamo tutti obbligati a indossare. Iannone si inoltra all’interno di un campo minato che pochi hanno l’ardire di calpestare. Il suo soliloquio si fa dapprima parola e poi pagina scomoda, poiché lontana da quello spazio così abusato e gremito del politicamente corretto. Una città immaginaria solo nel nome, zeppa di tante bravissime persone, altrettanti buoni propositi, tutti così realizzabili, ma solo nell’evanescenza dell’incompiuto. E guai a non pensarla come gli abitanti di questa ridente città: marchio d’infamia e foglio di via. In assenza di cotanto calore, l’apolide si ritrova rapidamente isolato, ma certamente sereno in compagnia di quelle idee ritenute così scomode. Pensieri come lampi; zampilli che attraversano anche gli autoctoni della lieta cittadella, ma restano sconvenienti e dunque la scelta ricade sulla comodità di restare distesi sul proprio personale divano del tacere. E rimanendo nel tema morbido del salotto, lo stesso scrittore confessa il suo – e non solo – incubo ricorrente. La vicenda onirica si svolge nel salotto più famoso e corretto d’Italia: la casa immacolata di Fabio Fazio. Cortese sino alla nausea, accogliente nelle ospitate degli abitanti della città ubbidiente: Fiorella Mannoia, Corrado Augias che in un altro alloggio ancor più confortevole illumina d’immenso Piergiorgio Odifreddi e Federico Rampini. Ancora un passaggio sull’agiata villa di Lilli Gruber che invita Roberto Vecchioni, Jovanotti e compagnia lealmente cantando. Un ripiegamento onirico, nello specifico meglio noto come incubo, dove i buoni e i giusti si avvicendano nelle notti turbate dello scrittore. Al risveglio, il tedio risulta meno onirico, ma ugualmente corposo. Quello di Iannone è un percorso che svela acutamente molte annose questioni e ripetuti meccanismi. Il cantante Simone Cristicchi è uno di quei casi, che da un certo punto in poi, entra di diritto nella categoria dei ripudiati dagli ubbidienti. Portando in scena lo spettacolo dal titolo Magazzino18, legato all’ostico argomento dei martiri delle foibe e il dramma degli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia, Cristicchi si fa velocemente indegno della residenza sotto la volta dei corretti. All’esterno di un tale phanteon di purezza, lo scrittore Iannone colloca una figura leggendaria che trattiene tutti i caratteri del mito: Hiroo Onoda. Non come l’icona di un eccesso idealistico, quanto la delicata e meritevole descrizione di una creatura, che da lontano, si rivolge direttamente alla nostra voce interiore. Accade in questo piccolo uomo, un’espressione dell’onore nell’aderenza a quella meravigliosa forma di amor patrio, stimato malamente come espressione desueta e oltremodo scorretta. Diverso il discorso per i nostri Presidenti della Repubblica, tutti, da un momento storico in poi, cittadini onorari della cittadella corretta. Non più latori del potere temporale, ma cavalieri senza macchia, custodi eterni del potere spirituale. Figure immacolate con vite prive di umani buchi neri: coerenza e sacralità. Dunque papi e non capi di Stato in odor di santità e non in tanfo di muffa. Iniziato dallo storico revisionista Ernst Nolte, allo spirito critico che si fa maniera di voler scomporre e sezionare anche il più ameno dei luoghi comuni, Iannone procede come un bulldozer verso le considerazioni scolastiche. Con uno sguardo nostalgico a quella che ritiene l’ultima degna del nome di riforma, nella persona di Giovanni Gentile, opera una non poco interessante distinzione tra scuola come istituzione e studio. Non necessariamente le due cose coincidono. L’autore stesso, si dichiara tanto avverso alla scuola, quanto devoto all’apprendimento e all’approfondimento. Caratteristica che si dovrebbe considerare virtù, anche in merito al fatto di essere stata patrimonio di molti nomi altisonanti. A fronte del fatto che personalità come Croce e Prezzolini non raggiunsero l’incoronazione in pianta di alloro, attualmente presunti rapper, assolvono il ruolo di oracolo. Il reietto dell’arcadica cittadella dell’ubbidiente, raggiunge l’apoteosi della sua posizione in una più che scontata affermazione: “Chi sbaglia, paga”. Un coro di indignati si leva davanti a una dichiarazione così poco chic, qualunquista e fuori da ogni apericena. E anche se il profano proclamatore, circoscrive il suo pensiero nella premessa, che alcuno deve essere trattato in maniera deprecabile, non risulta comunque socialmente accettabile. Ed è proprio in tale incrocio tra la tolleranza a oltranza e la volontà di ridurre al minimo gli effetti di ogni dramma che le due strade si confondono, sino ad annullarsi all’unisono. Al contrario, accolti con una certa deferenza sono coloro che Montanelli sintetizzava nel termine “firmatari”. Una categoria numerosa che pone la sua firma ovunque, contro o in favore, poco importa. L’atto apprezzabile prescinde la causa e premia l’atto: l’autografo. Nell’Eden degli ubbidienti, persino il tempo è differente: l’unico imperativo è nella rapidità. Elemento imprescindibile che qualifica ogni tipo di legame sentimentale, amicale o lavorativo. Ogni traccia di sequenzialità, qualsiasi tratto di gradualità, necessari alla civiltà, vengono prontamente inghiottiti dalla velocità che svilisce il naturale processo di crescita identitaria e comunitaria. L’autore ci porta, non privo di un tono amaro, finanche all’interno delle rovine di Pompei. Non vi è modo di uscire da un’impasse dove si gioca al rimbalzo di responsabilità tra ministri, soprintendenti, sotto, di lato o ad angolo, se non mediante un paradosso. Singolarità, che si dispiega nella sopravvalutazione di alcuna arte contemporanea, a scapito di meraviglie antichissime e intramontabili. Alla bellezza che naturalmente affascina, l’esempio in un’emozione provata di fronte alla grandezza di un Caravaggio, si preferisce cercare il significato ancestrale di un ortaggio steso a terra in qualche galleria d’arte nel mondo. Allora, il trionfo appartiene a quel lato deteriorabile, che si elegge a tutto, con le virgolette di occasione intorno alla parola arte. Nell’incontaminato mondo degli ubbidienti, lo scrittore ci guida altresì, nella spiegazione dell’uso di una certa tipologia di linguaggio. Il mansueto democratico adopera una lingua che si esaurisce tutta nel trionfo della premessa. Un’epifania che accoglie qualunque argomento, puntualmente preceduto da un mantra, una sorta di nenia: “premesso che non ho nulla contro…”. Un noiosissimo preambolo che scagiona preventivamente da qualsiasi accusa, eccezion fatta per quella di viltà. Poiché non vi è mai l’ardire e/o semplicemente l’onestà di dire ciò che intimamente si pensa. Troppo rischioso, eccessivamente inelegante e dannoso sino alla cacciata dal borghetto della compostezza. L’opera di Luigi Iannone figura un invito alla riflessione, all’ascolto di una voce dissenziente come arma di difesa dallo smottamento di informazioni che quotidianamente ci cade indosso. Un sovraccarico di notizie, dove difficilmente si trova la bussola per l’orientamento. Se risulta poco agevole farlo nelle strade, almeno si provi un tipo di ribellione, forse più adatta alla nostra società; insorgere verso quella diffusa e prepotente forma di conformismo che si fregia nel vezzo del mascheramento anticonformista. Lo spirito libero all’interno di una cittadina tutta edificata sulla compostezza democratica, tende ad apparire alla stessa maniera dello zio pazzo in Amarcord di Federico Fellini, nella splendida interpretazione di Ciccio Ingrassia. Iannone ci dona un sapiente parallelo cinematografico per descrivere la considerazione che abbraccia coloro che provano a non appiattirsi sulla melassa perbenista: i matti del paese. E se l’autore apre in Carmelo Bene, chi scrive si permette – solo dopo aver sollecitato la lettura di questo pungente pamphlet – di usarlo in conclusione da un estratto del Maurizio Costanzo Show – 1995: “Qualcuno ed era davvero anche lui un genio, ha detto che la democrazia è il popolo che prende a calci in culo il popolo, su mandato del popolo”.

Ecco come distruggere il politicamente corretto, scrive l'1/11/2016 “Il Giornale”. Ci voleva qualcuno che lo scrivesse e Luigi Iannone lo ha fatto: “provate a dire banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti”. L’idea del giornalista e scrittore, frequentatore abituale del pensiero di Jünger e amico personale del defunto Ernst Nolte, è balenata a molti, ma ci voleva il suo libro per esprimerla appieno. Il titolo è L’ubbidiente democratico. Come la civiltà occidentale è diventata preda del politicamente corretto (Idrovolante Edizioni, pp. 138, Euro 13) e spiega come “incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze”. E via con esempi eclatanti su cose che tutti sanno ma è meglio tacere, per non rischiare gli insulti di cui sopra. Quindi, vietato dire che la Kyenge è diventata ministro grazie al colore della sua pelle, che le quote rose sono una forma di sessismo alla rovescia, un contentino da dare alle donne, un po’ come piazzare un filo di perle su un severo gessato da ministro. Guai a dire che certi delinquono, perché Caino non si tocca e se Abele se la passa male sono fatti suoi: i criminali vanno capiti. Guai a toccare il capo dello Stato, che pare il Santo Patrono del politicamente corretto. Che di questo si tratta, e basta. Di una dittatura soft, che ha messo da una parte i buoni e gli intelligenti – ossia gli ubbidienti al credo unico imposto dalla vulgata radical chic – e dall’altra i cafoni, gli ignoranti, gli imbecilli, i puzzoni. Ossia, quelli che provano ancora a ragionare con la propria testa e non si lasciano influenzare. L’importante, però, è tacere. Per non fare la fine degli abitanti di Gorino i quali, non avendo voluto gli immigrati, sono i mostri del momento. Quelli di Capalbio, che pure non li hanno voluti, invece se la sono cavata. Chissà perché… ma questa, in fondo, è tutta un’altra storia.

Questo libro è un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Pensate di essere liberi di esprimervi come vi pare? Provate a esporre tesi anticonformiste durante una cena, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale". La libertà d'espressione è meravigliosa e noi tutti siamo convinti di poterla esercitare. Fino a quando scopriamo che le cose non stanno esattamente così. Infatti, per chi professa certe idee, non incendiarie ma comunque non allineate al pensiero unico, c'è la riprovazione del mondo culturale, che si esprime in due modi: il silenzio e l'insulto delegittimante. In libreria domina ormai il Saggio Unico, figlio del Pensiero Unico. È solare: su alcuni temi si può parlare in un solo modo, quello prescritto dal politicamente corretto. L'islam? È una religione di pace. Il libero mercato? Il vero responsabile di tutte le ingiustizie del mondo. L'accoglienza indiscriminata degli immigrati? Un dovere morale e una necessità per sostenere l'economia del Vecchio continente. A proposito, l'Europa? Una magnifica istituzione senza la quale saremmo ancora più poveri e perpetuamente in guerra come nel XX secolo. L'appartenenza al genere maschile o femminile? Uno stereotipo culturale da superare. Avere figli? Un diritto. L'adozione alla coppie omosessuali? Un diritto. L'eutanasia? Un diritto. Tutti abbiamo diritto a tutto. Abbiamo perfino diritto a dire che le cose elencate, o almeno alcune di esse, non ci trovano d'accordo. Ma se lo esercitiamo, ecco il nastro adesivo sulla bocca per impedirci di parlare e le accuse infamanti: ignorante, xenofobo, razzista, islamofobo, omofobo. Non se ne potrebbe almeno parlare, confrontarsi, dibattere? In teoria, sì. In pratica, no. Se non ci credete, guardate lo spazio occupato dalle idee anticonformiste nelle librerie, nei programmi televisivi, nei festival, nei convegni. È prossimo allo zero. Per questo, il libro di Camillo Langone "Pensieri del lambrusco. Contro l'invasione" (Marsilio, pagg. 180, euro 16; in libreria dal 3 giugno) è un'autentica rarità. L'autore, firma de il Giornale, mette in fila tutte le ideologie che considera rovinose per se stesso e per l'Italia. Ne esce un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Langone, spesso partendo dalla notizia di cronaca, a volte di cronaca culturale, colpisce senza paura proprio nei punti più controversi, e ci mostra che quando un'idea, perfino buona, viene trasformata in ideologia, produce disastri. Nel mirino ci sono i nuovi -ismi: l'ambientalismo, l'americanismo, l'animalismo, l'estinzionismo, l'esibizionismo, l'europeismo, l'immigrazionismo, l'islamismo... Pagina dopo pagina, gli intellettuali che vanno per la maggiore sono ferocemente dissacrati (vedi il teologo-non teologo Vito Mancuso alla voce ateismo). Al loro posto, autori che insegnano a pensare: Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Michel Houellebecq e altri. Cosa c'entra il lambrusco del titolo? Di fronte alla liquidazione dell'Italia, meglio rifugiarsi «nell'unico vero vino autoctono italiano» invece di ricorrere a «dozzinali vitigni alloctoni». Già, perché alla fine, il libro di Langone si e ci interroga su cosa significhi essere italiani ai nostri giorni. Per i nichilisti, nulla. Ma Langone non è un nichilista.

Dalle bandiere rosse ai dogmi del politicamente corretto, scrive Carlo Lottieri, Domenica 23/10/2016, su "Il Giornale". Quando crollò il muro di Berlino, in molti furono portati a pensare che l'età del socialismo fosse alle spalle e che il materialismo storico fosse destinato a finire nella spazzatura della storia. In parte, le cose sono andate così, se si considera che l'Unione sovietica si è dissolta velocemente, che la Cina è cambiata in profondità, che ormai gli ultimi fortini di quell'ideologia sono nelle mani di fratelli o nipoti di quelli che un tempo furono leader carismatici: da Fidel Castro a Kim Il Sung. Eppure il comunismo resta onnipresente, dato che larga parte della cultura contemporanea è pervasa da quella visione del mondo che ancora oggi esercita un potente influsso sulle categorie che utilizziamo per interpretare la realtà: sia nell'establishment di sinistra, sia nel populismo di destra. È sufficiente pensare al trionfo dello stupidario ecologista. È sicuramente vero che si farebbe fatica a trovare, nel pensiero di Karl Marx (proiettato verso il futuro e volto a esaltare il progresso industriale) una qualche legittimazione dell'ambientalismo dominante e delle nuove parole d'ordine: animalismo, coltivazione biologica oppure «chilometro zero». Eppure il legame tra il vecchio socialismo ottocentesco e questa nuova sensibilità è chiaro, poiché in entrambi i casi tutto si regge sulla condanna della società di mercato. Anche autori che oggi - a ragione - vengono considerati «di sinistra» (da John Maynard Keynes a John Rawls), definirono le proprie tesi alla ricerca di un'alternativa moderata e in qualche modo ai loro occhi «ragionevole» tra la pianificazione e il laissez-faire, tra l'egualitarismo assoluto e l'ineguale distribuzione conseguente alla lotteria naturale e allo svilupparsi degli scambi. Oggi il marxismo non ha più il peso che aveva quando Bertolt Brecht, Herbert Marcuse o Louis Althusser dominavano la scena culturale, ma le tradizioni ora egemoni si sono definite nel confronto con quelle idee e muovendo dall'esigenza di dare loro una risposta alternativa. Non c'è quindi da stupirsi se il dibattito pubblico e spesso la stessa legislazione tendono a considerare «ineguale» (e di conseguenza ingiusto) ogni rapporto contrattuale che abbia luogo tra soggetti che hanno posizioni economiche differenti. Il nostro sistema normativo - che prevede distinti diritti per i proprietari e per gli inquilini, per i datori di lavoro e per i dipendenti, per i produttori e i consumatori, ecc. - deriva il suo carattere fortemente discriminatorio dalla tesi secondo cui un dominio dell'uomo sull'uomo non si avrebbe solo quando qualcuno aggredisce o minaccia qualcun altro, ma anche quando due persone liberamente negoziano. Siamo tutti in una certa misura comunisti perché siamo tutti imbevuti dell'idea che una società dovrebbe eliminare le diversità, soddisfare ogni bisogno, innalzare i nostri gusti e allontanarci dall'egoismo, impedire che taluno guadagni miliardi e altri siano indigenti e senza lavoro. Non avremmo mai avuto alcuna legittimazione della coercizione statale, quando è strumentale a modificare l'ordine sociale emergente dalla storia e dalle interazioni sociali, senza il successo del pensiero socialista e senza un intero secolo di riflessione «scolastica» (con eresie, glosse e innesti di ogni tipo) attorno alle opere di Marx. Se il nazismo è ovunque condannato senza «se» e senza «ma», ben pochi esprimono la medesima riprovazione nei riguardi del socialismo: che pure ha causato un numero di morti innocenti perfino superiore. E questo si deve al fatto che le posizioni culturali mainstream sono in larga misura una revisione e una rilettura di temi di ascendenza socialista. S'intende certamente seguire altre strade, ma non è detto che gli obiettivi siano poi tanto diversi. Un dato da tenere ben presente è che se il marxismo è stato certamente una teoria a tutto tondo, sul piano storico-sociale esso è stato anche il catalizzatore di spinte tra loro diverse, ma accomunate dal voler esprimere un rifiuto radicale della realtà, identificata - a torto o a ragione - con la società capitalistica. Con argomenti variamente comunitaristi, egualitaristi, ecologisti, pseudocristiani e altro ancora, per molti anni gli spiriti rivoluzionari si sono ritrovati sotto le bandiere rosse essenzialmente per esprimere il più radicale rigetto delle libertà di mercato e di ogni ipotesi di un ordine economico-sociale senza una direzione prefissata. E se oggi, come sottolinea spesso Olivier Roy, circa un quarto dei terroristi islamisti francesi non ha genitori musulmani né ha radici nei Paesi arabi, questo probabilmente si deve al fatto che oggi il fondamentalismo incanala, in vari casi, un'analoga volontà nichilistica di distruggere ogni cosa. Le stesse librerie ci dicono, anche semplicemente osservando le copertine dei volumi in commercio, quanto il comunismo sia vivo e vegeto. In effetti, il successo di autori come Thomas Piketty, Naomi Klein, Thomas Pogge o Slavoj iek (solo per citare qualche nome à la page) può essere compreso unicamente a partire da un dato elementare: e cioè dal riconoscimento che l'Occidente è diviso al proprio interno da posizioni diverse, ma quasi ogni famiglia culturale si concepisce quale profondamente avversa alla proprietà, al libero scambio, all'anarchia dell'ordine spontaneo. Quando si consideri pure il «politicamente corretto», con il suo corredo di censure e proibizioni, è chiaro come si tratti in larga misura di una logica strettamente connessa a quel risentimento che ha alimentato, sin dall'inizio, l'egualitarismo socialista e la sua rivolta contro la natura. È chiaro che oggi nessuno si propone di spedire i dissidenti in Siberia e di disegnare piani quinquennali che governino dall'alto l'intera economia, ma il reticolato delle regole approvate dalle assemblee parlamentari delinea un quadro complessivo quanto mai illiberale: in cui si discrimina ogni libera scelta estranea al luogocomunismo e si pongono le basi per una società sempre più servile, assoggettata, priva di ogni capacità d'iniziativa. Carlo Lottieri

Bret Easton Ellis choc: il politicamente corretto uccide la nostra cultura. Lo scrittore americano e il critico Alex Kazami contro movimenti antirazzisti e nazi-femministe, scrivono Andrea Mancia e Simone Bressan, Martedì 4/10/2016, "Il Giornale".  "Che diavolo è successo agli MTV Music Awards? Niente di inquietante o scioccante, nessuna Miley Cyrus strafatta che insulta Nicki Minaj sul palco, nessun tipo di provocazione e dunque nessun attimo di divertimento. Tutti invece, vanno d'amore e d'accordo nel celebrare quella falsa inclusività politicamente corretta che ormai è diventata terribilmente noiosa e che, probabilmente, è la causa del vertiginoso crollo nel numero di telespettatori che ha seguito lo show". A Bret Easton Ellis, lo scrittore americano autore (tra l'altro) di Less Than Zero e American Psycho, l'edizione 2016 dei Video Music Awards, organizzata lo scorso 29 agosto da MTV al Madison Square Garden di New York, proprio non è piaciuta. E durante l'ultima puntata del suo podcast ha letto integralmente un monologo del giovanissimo scrittore (e critico-provocatore) canadese Alex Kazami che spara a zero contro gli eccessi politically correct di una cerimonia ormai diventata un gigantesco spot per «Black Lives Matter», il movimento finanziato anche da George Soros che accusa le forze di polizia statunitensi di essere intrinsecamente razziste nei confronti della comunità afro-americana. Kazami, che non incarna esattamente lo stereotipo del vecchio trombone della destra conservatrice, visto che è un millennial di 22 anni dichiaratamente gay, è ancora più feroce di Ellis. "Il Black Lives Matter Sabbath che è stato rappresentato ai Video Music Awards 2016 rappresenta la fine della cultura per come la conosciamo. L'intero show è stato un'ode alla narrativa liberal secondo la quale, visto che i bianchi sono tutti cattivi, almeno una persona su due tra quelle inquadrate dalla telecamera deve essere una donna di colore, perché siamo costantemente angosciati dalla necessità di non terrorizzare una generazione di spettatori cresciuta con una dieta di spazi di sicurezza, auto-vittimizzazione e trigger warning (l'avvertimento che segnala la possibilità che un testo possa essere offensivo per qualcuno, ndr)". Una scelta, secondo Kazami, totalmente ipocrita e dettata soltanto da strategie commerciali: "MTV non vuole esporre il suo pubblico a un immaginario pop pericoloso, per paura di offendere qualcuno, a meno che questo immaginario non ricada sotto il mantello protettivo del politicamente corretto. Ma la musica pop deve essere offensiva, non politicamente corretta". "La maschera imposta allo show continua il giovane scrittore canadese è stata un melenso tentativo di dipingere ogni artista sul palco come un campione di bontà, indulgendo continuamente in riferimenti al movimento Black Lives Matter, alla brutalità della polizia, a Martin Luther King. Questo era il copione, il dogma a cui tutti hanno obbedito. Ed era palpabile il terrore che qualcuno potesse esprimere un'opinione contraria al dogma. È proprio questo che sta uccidendo la nostra cultura: la paura di essere puniti per non aver aderito integralmente a questa ideologia collettiva del politicamente corretto". Il principale obiettivo delle critiche di Ellis e Kazami, con ogni probabilità, è stata l'interminabile performance di Beyoncé (vincitrice addirittura di otto premi), che nella sua coreografia ha esplicitamente fatto riferimento agli afro-americani uccisi dalla polizia (con i ballerini che crollavano al suolo dopo essere stati colpiti da una luce rossa) e che sul red carpet ha sfilato insieme alle madri di Mike Brown, Trayvon Martin ed Eric Garner, i tre uomini di colore che con la loro morte sono diventati il simbolo di «Black Lives Matter» (e una scusa per la guerriglia urbana scatenata dal movimento in molte città americane). Ellis, in ogni caso, non è nuovo alle polemiche sugli eccessi del politicamente corretto e dei social justice warriors. Ad agosto, sempre sul suo podcast, se l'era presa con le "femministe isteriche" e "naziste del linguaggio" che avevano attaccato il critico musicale del Los Angeles Weekly, Art Tavana, per un presunto articolo "misogino" sulla cantante (e modella) Sky Ferreira. Per Ellis, queste femministe di nuova generazione sono diventate "nonnine aggrappate alle proprie collane di perle, terrorizzate dal fatto che qualcuno possa pensare qualcosa, su un qualsiasi argomento, che non sia l'esatta replica delle loro opinioni". "Queste piagnucolose narcisiste afferma Ellis utilizzano l'altissimo tono morale tipico dei social justice warriors, sempre fuori scala rispetto alle cose per cui si offendono. E si stanno trasformando in piccole naziste del linguaggio, con le loro regole di indignazione prefabbricata, invocando la censura ogni volta che qualcuno scrive, o dice, qualcosa che non aderisce completamente alla loro visione dell'universo". "Questa sinistra liberal che si auto-proclama femminista conclude l'autore di American Psycho è diventata così iper-sensibile da essere ormai entrata in una fase culturale di autoritarismo. È qualcosa di così regressivo e lugubre da assomigliare terribilmente a un film di fantascienza distopica, ambientato in un mondo in cui è permesso un solo modo per esprimersi, in un clima di castrazione collettiva che avvolge tutta la società".

Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. Il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

Annalisa Chirico fra femminismo e provocazione, scrive Benedetto Marchese su “Città della Spezia”. L'autrice racconta a Cds il suo libro "Siamo tutti puttane" presentato anche nella rassegna "I grandi temi" di Bocca di Magra: "Quote rosa? Solo se c'è competenza". “Provocare significa sciogliere il proprio pensiero e lasciarlo libero di muoversi e concepire qualcosa per noi e per gli altri. Nella società di oggi c'è una cautela estrema che frena tutto questo”. Ospite nel salotto di Bocca di Magra di Annamaria Bernardini De Pace e della sua rassegna letteraria dedicata quest'anno proprio alla provocazione, la giornalista e saggista Annalisa Chirico sintetizza così il filo conduttore della manifestazione nella quale ha presentato il ultimo libro “Siamo tutti puttane” (sottotitolo “Contro la dittatura del politicamente corretto”), senza distinzioni di genere e ispirato dal Processo Ruby. “Seguendo le udienze – racconta a Cds la collaboratrice di Panorama e Il Foglio – mi sono resa conto che l'imputato non era più Berlusconi ma quelle ragazze le cui vita privata veniva vivisezionata e giudica di fronte al grande moralizzatore pubblico. Era diventato un processo al senso del pudore e il codice morale si stava sostituendo a quello penale, si parlava solo di gusti sessuali. Il mio libro – prosegue – è invece un grido di rivolta contro il moralismo e il politicamente corretto: ognuno ha il diritto di scegliersi la vita che vuole, e di lavorare per realizzare i propri sogni, anche rischiando di farsi del male”. Edito da Marsilio e pubblicato dopo i precedenti “Condannati preventivi” e “Segreto di Stato – il caso Nicolò Pollari”, il libro delinea anche il pensiero dell'autrice sul femminismo e il ruolo della donna nella nostra società. “Ho concluso il mio dottorato con uno studio sul corpo della donna – prosegue – e mi ritengo una femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione: ciascuna di noi può sentirsi Madonna o puttana ma non deve sottostare a delle regole. Sono critica verso le Taleban-femministe che hanno fatto di quel processo solo una battaglia politica contro Berlusconi per poi sparire subito dopo. Negli anni Settanta le femministe scendevano in piazza al fianco delle prostitute, oggi troviamo una parte di quella sinistra sui palchi a puntare il dito contro altre donne che ritengono degradate e che discriminano. Un movimento che è diventato braccio armato della politica e che è stato respinto, sempre nella stessa area, da coloro che quarant'anni fa avevano lottato per i diritti delle donne. Si sono occupate delle “Olgettine” ma non delle arabe o italiane che vivono segregate. Un problema che riguarda tutto l'Occidente che non si preoccupa di tutelare ad esempio le eroine di Kobane che vengono lasciate sole a combattere contro l'Isis”. Chirico, origini pugliesi e romana d'adozione, non si sottrae poi ad un commento sull'episodio avvenuto pochi giorni fa su una spiaggia di Fiumaretta con vittima una giovane ripresa con il compagno in un video che ha girato sugli smartphone di mezza Val di Magra ed è finito anche sui giornali. “Dobbiamo capire che le giovani d'oggi sono molto più disinibite e se da un lato queste cose possono accadere normalmente, dall'altro dovrebbe esserci un limite da parte di chi le pubblica o le condivide”. Attratta fin da piccola dalla politica e con un passato fra i Radicali di Pannella l'autrice rivela invece una distanza convinta dalla militanza: “Ne sono stata interessata, ora la seguo solo per mestiere, ho votato poche volte e mi sono astenuta sempre senza pentimento. Le quote rosa in politica? Scegliere donne competenti è importante – conclude – farlo solo per rispettare la parità è del tutto inutile”.

Chi è Annalisa Chirico, la paladina del femminismo liberale. La giovane scrittrice e opinionista ha pubblicato un libro dal titolo esplicito, “Siamo tutti puttane”, nel quale polemizza contro il femminismo radical-chic di certa sinistra e invoca la libertà per un nuovo femminismo, scrive I.K su "Gossip di Palazzo" venerdì 23 maggio 2014. 28 anni dalla penna tagliente, aspetto piacente che male non fa, autodefinitasi “liberale, tortoriana, radicale” sulle pagine delle sue biografie online, sul proprio sito personale e sul blog di Panorama "Politicamente scorretta" che gestisce personalmente, dottoranda in Political Theory a alla Luiss Guido Carli di Roma: Annalisa Chirico è una delle giovanissime opinion-maker della carta stampata e dell’editoria digitale che stanno mettendo a dura prova le giornaliste di una volta grazie ad una buona dose di sfacciataggine e femminile tracotanza. Sulla sua pagina Facebook ci sono moltissime foto con tutti i sostenitori e acquirenti famosi del suo nuovo libro, …La giovane scrittrice e fidanzata di Chicco Testa si scaglia contro le femministe post sessantottine. Autrice di due libri, uno contro l’abuso della carcerazione preventiva “Condannati preventivi” e l’altro sul caso Niccolò Pollari e i segreti di stato tra Usa e Italia, Annalisa Chirico è in questi giorni sulla bocca della politica e del costume italiano per la pubblicazione di un terzo libro dal titolo decisamente esplicito di “Siamo tutti puttane” nel quale, come ha spiegato in un’intervista a Dagospia, rivendica il diritto di ciascuno di farsi strada come meglio può senza dover per forza incappare in trancianti giudizi operati sulla base della morale altrui. Nello specifico mirino del libro della Chirico, lanciato in pompa magna anche grazie all’appoggio una campagna mediatica via Twitter (#SiamoTuttiPuttane è l'hashtag dedicato) con personaggi famosi quali cantanti, giornalisti provocatori come Giuseppe Cruciani e svariate partecipazioni televisive, sono finite le cosiddette taleban-femministe dell’intellighenzia di sinistra, guidate da Lorella Zanardo di Se non ora quando e dalla presidente della Camera Laura Boldrini: il libro, ha spiegato Annalisa Chirico, è nato proprio dall’indignazione che le montava dentro durante il processo alle olgettine, le ragazze prezzolate da Berlusconi per i famosi festini nella villa di Arcore gestiti da Nicole Minetti. A ogni udienza m'incazzavo di più: quelle ragazze, chiamate in qualità di testimoni, in realtà erano imputate, e non per reati del codice penale, ma per i loro costumi privati. Quelle toghe stavano violando i diritti di ragazze che avevano avuto la colpa estrema di accarezzare il potere cercando di inseguire i loro sogni. Embé? Chi siamo noi per giudicare i sogni degli altri? Le taleban-femministe giudicano. Annalisa Chirico ne ha per tutti, specialmente per quello che lei chiama "il boldrinismo" della politica: Io sono femminista, ma il loro è un femminismo perbenista che celebra il modello di donna madre e moglie. Hanno restaurato il tribunale della pubblica morale. Il berlusconismo non t'impone come vivere. Il pericolo del boldrinismo invece è che vuole importi come vivere. E in merito alla sua relazione con Chicco Testa, sessantaduenne ex presidente di Enel e giornalista su molte testate italiane? Annalisa Chirico si riconferma sprezzante del giudizio altrui: Non è l’uomo più vecchio con cui sono stata.

GLI ECCESSI DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

Cicciottelle non di può dire, ma panciuti sì, scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano" il 9 agosto 2016. Che la faccenda del politicamente corretto sia del tutto fuori controllo, e abbia prodotto l' esatto opposto di ciò che voleva prevenire, e cioè livore, aggressività, pretesto per giudicare sommariamente il «nemico» e inchiodarlo a una parola diventata oscuramente impronunciabile, lo dice la furibonda polemica sulle tre azzurre del tiro con l' arco, bravissime, ma che non sono riuscite a guadagnare il podio alle Olimpiadi di Rio, cedendo alle russe, e le cui gesta il Resto del Carlino, nelle sue pagine sportive, ha raccontato con il titolo «il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico». Ora, poiché viviamo al tempo della pussy generation, come dice Clint Eastwood che ha coniato l' espressione in una sua recente intervista a Esquire (scandalizzando tutti perché, sai che scoperta, il vecchio Clint mostrava interesse per Donald Trump, ma dai, e noi che pensavamo fosse kennediano tendenza Veltroni…) cioè «la generazione delle femminucce» - e non staremo a spiegare o a difendere l' uso dell' espressione, attendendo pazientemente i soliti geni, che ci diranno che offende le donne anzi «il corpo delle donne» - allora ne consegue che «cicciottelle», riferito alle tiratrici olimpiche, è «una vergogna», e che i giornalisti che hanno così titolato sono responsabili della «morte di una professione», e che «sono da pestare» perché «fanno schifo». Questi commenti, così civili, indice di elevato pensiero e nobili sentimenti, sono alcuni nella nauseante marea di analoghi insulti, partoriti dagli indignati del politicamente corretto, presi a casaccio dalla rete, che ieri ne traboccava. E tutto perché l'anonimo giornalista - di cui ora la rete pretende il nome, ché si deve pubblicamente umiliarlo, e pretenderne scuse solenni, e casomai ottenerne anche la radiazione dall' ordine professionale, provvedimento che gli indignati del web sollecitano ogni ora per gli episodi più vari e contraddittori - ha detto che tre atlete sono «cicciottelle». Occorre rammentare alla scatenata pussy generation, quella per la quale, come dice Clint, «questo non si può fare, quello non si può dire, quell' altro nemmeno» (tutti divieti stabiliti da loro, beninteso) che quattro anni fa la rete non si scatenò affatto, per i «Robin Hood con la pancetta», come vennero chiamati dai giornali i tre arcieri italiani, non propriamente smilzi, che vinsero l'oro alle Olimpiadi di Londra. Allora, il fatto che i nostri tiratori fossero «cicciottelli», com' è del resto abbastanza normale in una disciplina dove non è richiesto il peso forma, semmai occhi di lince e grande capacità di concentrazione, non destò scandalo alcuno. Soprattutto non destò scandalo per gli arcieri, così come nulla hanno commentato, stavolta, le tiratrici italiane. Allora, nessun giornalista fece schifo, né venne indicato per essere pestato, né sotterrò la professione, né venne minacciato di radiazione, né se ne pretese con voce stentorea il nome come fosse un nazista imboscato da decenni. Come mai? Ma perché erano tre uomini. La pussy generation ha questa idea che esistano delle categorie di «diversi», più sensibili, più vulnerabili, che vanno curati come piantine stentate, anche malgrado i propositi e le volontà delle stesse presunte «vittime». Sappiamo quali siano tali categorie: gli omosessuali, i neri, i «migranti», le donne, in parte anche gli islamici. Di questi non si può che dire e scrivere ogni bene. Qualunque epiteto dal significato meno che esaltante, sia anche l'infantile «cicciottello» (ma seriamente: chi può dirsi offeso, essendo adulto, perché viene definito così?) mette subito colui che lo usa nei pasticci. E nel dire nei «pasticci» siamo politicamente corretti, perché ciò che in realtà accade è che viene coperto da una valanga di merda, escreta da loro, i buoni, i giusti, i politicamente corretti, la parte avanzata della società, insomma, la pussy generation, che si gonfia di boria grazie all' esibizionistica amplificazione e risonanza dei social. Fortunatamente, c' è ancora chi non ha perso il senno, e per criticare un titolo, criticabilissimo, ci mancherebbe, ricorre all' ironia, sottolineando che ci vuol coraggio a definire «cicciotelle» tre donne che sanno scoccare frecce con tanta precisione. Ma la media delle reazioni è l'insulto, la messa alla berlina, la gogna virale, tutte procedure che il politicamente corretto usa immancabilmente. E dunque ci chiediamo: come mai un esercizio critico così barbarico, che usa sempre questi metodi di aggressione, il vile tutti contro uno, viene tollerato? Perché accettiamo che il controllo sul linguaggio, nella discussione pubblica, venga affidato all' isteria del «popolo della rete» in quotidiana caccia di un capro espiatorio? Il quale popolo, altro che ricorrere a un «cicciottello», quando parte all' attacco, pretende la testa del nemico. Giordano Tedoldi.

Le "cicciottelle" divorano il direttore. Ecco come l'hanno rovinato, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Ha vinto il politicamente corretto, ha perso il buonsenso a favore della boria che tracimava dai profili Facebook per tutto ieri, dopo che era stato messo in giro il titolo del Quotidiano sportivo, supplemento sportivo del Resto del Carlino, sulle tre atlete italiane del tiro con l'arco, le "cicciottelle" che hanno portato a casa una medaglia di bronzo. Con una nota da parte dell'editore del quotidiano, Andrea Riffeser Monti, arriva il licenziamento in tronco del direttore del Qs, Giuseppe Tassi: "L'editore - si legge - si scusa con le atlete olimpiche del tiro con l'arco e con i lettori del Qs Quotidiano sportivo, per il titolo comparso sulle proprie testate relativo alla bellissima finale per il bronzo persa con Taipei. Lo stesso editore a seguito di tale episodio ha deciso di sollevare dall'incarico, con effetto immediato, il direttore del Qs Giuseppe Tassi". L'atteggiamento più dignitoso lo hanno avuto le tre atlete che non si sono volute intromettere nel carnaio di polemiche sterili. Da parte degli indignati di professione un coro di proteste sulla trita e ritrita questione del rispetto del corpo femminile, portata a bandiera quando conviene, dimenticata solo in casi di avversari politici da disintegrare. Chissà dove erano questi paladini del rispetto in quota rosa quando si faceva carne da macello delle ragazze coinvolte nei processi contro Silvio Berlusconi, giusto per citare un trascurabile caso fenomenologico degli ultimi anni. A poco è bastata la nota di scuse con la quale lo stesso direttore questa mattina aveva giustificato quel titolo, apparso tra le altre cose nell'edizione di prima battuta, poi corretto in un'altra forma nella successiva edizione. Ormai la palla di neve era diventata valanga, con un il carico da novanta aggiunto dal presidente della Federazione italiana Tiro con l'Arco, Mario Scarzella, che rivolgendosi proprio al direttore aveva drammatizzato fino all'inverosimile: "Dopo le lacrime che queste ragazze hanno versato per tutta la notte - aveva scritto Scarzella - questa mattina, invece di trovare il sostegno della stampa italiana per un'impresa sfiorata, hanno dovuto subire anche questa umiliazione". E l'umiliazione doveva essere lavata con un colpevole da lanciare alla folla assetata di sangue. Di sicuro quel licenziamento "con effetto immediato" avrà ridato dignità a tutto il genere femminile.

Le «cicciottelle» e noi ostaggi dell’ossessione dell’estetica, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera” il 9 agosto 2016. «Il trio delle cicciotelle sfiora il miracolo olimpico» era un titolo sbagliato. Anzi, peggio: era un brutto titolo. Ma se licenziassero tutti i giornalisti che hanno fatto un brutto titolo, o un commento inopportuno, le redazioni sarebbero deserte. Di certo, il sottoscritto non ci sarebbe. Anni fa, dopo averla incontrata, ho definito «cicciottina» Scarlett Johansson (su Sette): ai miei occhi era un complimento, la ragazza era uno splendido manifesto contro l’ossessione della magrezza. Oggi non lo scriverei. Anche per questo a Giuseppe Tassi, l’autore di quel titolo, rimosso dalla direzione del Quotidiano Sportivo, concederei l’attenuante della buona fede: l’impressione è che, in modo un po’ datato, volesse vezzeggiare le ragazze dell’arco dopo la bella prova di Rio. In fondo, molte testate hanno applaudito Teresa Almeida, portiere della squadra di pallamano dell’Angola, 170 centimetri per 98 kg («Fortissima, simpatica e portavoce dei “cicciottelli” di tutto il mondo», Huffington Post, 7 agosto 2016). Domanda: non sono più offensive le esternazioni di Matteo Salvini su Laura Boldrini, paragonata a una bambola gonfiabile? Non sono più indelicati i giudizi di Marco Travaglio su Maria Elena Boschi («Si occupi di cellulite, non di riforme»). Non sono più spiacevoli i commenti di Vincenzo De Luca su Virginia Raggi («Bambolina imbambolata»)? Eppure non risulta che sia partito il linciaggio virtuale. Meglio così, sia chiaro. I titoli giocati sull’aspetto fisico sono figli di questo clima. E di certe abitudini. Siamo onesti: dall’inizio delle Olimpiadi molte testate pubblicano, e molti tra noi guardano, le scollature delle atlete e gli addominali degli atleti. È un’estensione dell’insopportabile ossessione estetica che domina la pubblicità, i media e la società; e tiene in ostaggio le nostre vite. I social — gli stessi che oggi invocano la gogna per l’autore del titolo sulle «cicciottelle» — godono a umiliare ogni personaggio per qualsiasi imperfezione: dalla pelle di un’anziana cantante a Sanremo alla pancetta di Higuain all’esordio con la Juve. Riassumendo. È inopportuno giocare sull’aspetto: il collega Tassi ha sbagliato. Ma fra disapprovazione e linciaggio c’è un confine. E ogni giorno viene superato, con euforica ipocrisia.

“Frocio” non si dice. “Figlio di troia” sì, scrive Francesco Merlo il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Dunque “frocio” non si può dire e “figlio di troia” sì? E “siciliano mafioso” non è razzismo, mentre “zingaro di merda” lo è? E se fosse ridicolo tutto questo affanno del perbenismo italiano nel compilare classifiche di legittimità dell’insulto? Non si può infatti applicare il politicamente corretto all’ingiuria, non esiste l’offesa sterile, non ci sono parolacce detergenti e anzi spesso il più turpe vaffanculo, quando è lanciato sotto stress e non quando diventa progetto politico, disinnesca il pugno. Le male parole come sfogo, come valvole liberatrici durante uno scontro sul campo di gioco, o sulla strada o persino in Parlamento, fanno muro ai ceffoni, disarmano gli istinti violenti, impediscono le botte, sono l’unico modo di darsele di santa ragione senza farsi male. E chissà se per Mandzukic è più offensiva la parola “zingaro” o la parola “merda”? Ed è più politicamente scorretto Sarri, che ha dato del finocchio a Mancini, oppure Mancini che aveva assolto se stesso quando aveva dato del “finocchio” ad un cronista? E’ infatti una giostra il mondo del politicamente corretto. Basta un piccolo cambio di scena e l’ingiuriante diventa ingiurato come nel film i Mostri dove Vittorio Gassman, pedone sulle strisce, si indigna e si ribella perché gli automobilisti, mentre gli sfiorano il sedere, gli gridano. E Gassman incede su quelle strisce a passo volutamente lento e abusa dell’asilo politico che gli offre il codice della strada: come Mancini, “ci marcia”. Ma poi quando sale sulla sua cinquecento il mostro Gassman sfreccia su quelle stesse strisce mostrando le corna ai pedoni. Più ancora della strada, lo sport è metafora di guerra, la vita combattuta con altre armi, non la politica astrusa e neppure la cultura dei privilegiati, ma il mondo dei sentimenti, materia forse non semplice ma sicuramente selvatica: il mondo del turpe eloquio. E però Konrad Lorenz tratterebbe De Rossi come uno dei suoi spinarelli e non certo come un razzista. Anche Freud sorriderebbe dinanzi alle accuse di omofobia a Sarri. Per non dire di Lévi-Strauss che si sentirebbe beato davanti a tanti selvaggi. Tanto più che, con un formidabile testa-coda, il politicamente corretto avvelena anche i selvaggi. Ieri, nelle tante trasmissioni radio, persino gli ultrà romanisti si sono impasticcati di politicamente corretto e, dando vita alla figura ossimorica dell’ultra per bene, dell’estremista formalista, per salvare il loro De Rossi hanno solennemente stabilito che non essendo Mandzukic uno zingaro non può sentirsi offeso dalla parola zingaro. Con questa logica se dici puttana a una puttana la offendi, se invece lo dici a una signora, va bene. L’importante infatti è non ledere i diritti della minoranza sfruttata (le puttane) anche a costo dell’onore della maggioranza (le signore). Insomma sei un gran maleducato, ma politicamente corretto; sei un vero facchino ma non sei un razzista. Applicando questa logica anche all’ingiuriato, solo un frocio si arrabbia se gli dicono frocio. Dunque se Mancini si arrabbia vuole dire che è frocio? La giustizia sportiva, per trovare delle attenuanti a Sarri, ha accolto questa stramba tesi degli ultrà e ne ha fatto una fonte di legge condannando l’allenatore del Napoli a solo due giorni di squalifica, e per giunta in coppa Italia, a riprova che la nostra giustizia sportiva coniuga le regole con l’humus, la legge con gli umori, in nome del popolo italiano politicamente corretto, vale a dire della curva sud che strologa di diritto, del bar sport dove il tifoso-fedele si traveste da laico. Come si vede, il politicamente corretto della plebe, che di natura è scorretta, è alla fine un pasticcio, è l’innesto del birignao nella suburra. Come se Marione Corsi, l’ex terrorista dei Nar, divo della più importante radio romanista (dice), conducesse “Che Tempo che fa” al posto di Fabio Fazio. Infine c’è la televisione che amplifica e rende caricaturale il politicamente corretto perché costringe a mentire, non conosce sfumature, insegna a parlare con la mano davanti alla bocca e dunque a occultare il corpo del reato, come ha ben spiegato ieri Spalletti, il nuovo allenatore della Roma. Alla Camera dei deputati sono stati vietati per regolamento gli zoom proprio per evitare la lettura del labiale e dunque le indiscrezioni rivelatrici, le schermate dei siti porno visitati mentre si discute della Finanziaria, l’ingrandimento del display del cellulare di Verdini terminale di traffici e commerci, le parolacce dette e scritte nei pizzini che gli onorevoli si scambiano tra loro. E certo non ci piace che sia stata oscurata la casa di vetro della democrazia. Ma una vota Dino Zoff raccontò che dovendo subire un rigore, il suo allenatore Trapattoni gli impartì un ordine in forma di consiglio: buttati a destra perché quello lì calcia i rigori sempre sulla destra. Al momento del tiro, Zoff per istinto avrebbe voluto andare a sinistra, ma prevalse l’obbedienza al Mister. Fu gol. E Zoff scomodò il cielo con una bestemmia e con un insulto secco e forte contro Trapattoni. Lo avesse ripreso la televisione, Zoff sarebbe passato alla storia del calcio come un insolente e un blasfemo, nemico di Dio e del proprio allenatore. Ecco dunque l’ultimo pasticcio del politicamente corretto: la televisione condanna alla trasparenza che però tanto più sembra fedele quanto più è infedele perché travisa mentre mostra, deforma mentre informa. E’ allora meglio nascondersi al politicamente corretto? Oppure è meglio comportarsi come profetizzava Italo Calvino? Conosco un omosessuale che vive in un piccolo paese e che all’insulto “frocio”, che ogni tanto gli capita di subire, reagisce con orgoglio.

Insultare una fascista (incinta) non è reato, scrive Gian Marco Chiocci il 2 febbraio 2016 su “Il Tempo”. Giorgia Meloni non ha bisogno di avvocati d’ufficio, la conoscete, sa difendersi da sola. Ma quel che la fogna di internet le sta vomitando addosso dopo l'annuncio del bebè in arrivo, imporrebbe una risposta dura e bipartisan che a distanza di 48 ore ancora non s'è vista. Madri, padri, figli di, parenti prossimi o trapassati: di insulti familistici la politica si alimenta ogni giorno ma non se n'erano sentiti rivolti a un feto. I cultori della doppia morale, della superiorità intellettuale, culturale ed esistenziale, ci regalano sovente perle di ironia che a parità di sarcasmo, se rivolte a un'immigrata, una lesbica, una politica di sinistra, scatenano reazioni veementi, rimostranze parlamentare, raccolte di firme e sit-in in girotondo. Prendete la Boldrini. Impegnata com'è a far rispettare l'articolo determinativo femminile, "la" presidente della Camera ha espresso solidarietà all'ex ministro solo quando Fabio Rampelli (l'ombra lunga di Giorgia) ha evidenziato la sua partigianeria nell'esprimere solidarietà solo a chi non la pensa come la leader di An. Va detto che anche le politicanti di centrodestra si sono fatte riconoscere. Hanno tergiversato fino a quando non s'è mossa la Carfagna, dopodiché qualcuna ha preso coraggio e s'è indignata. Insomma, se la Bindi è più bella che intelligente, giustamente il mondo s'indigna con Berlusconi. Ma guai a scandalizzarsi se esponenti democratici condividono su facebook Madonna Meloni che concepisce senza peccare oppure ritwittano quel gentiluomo di sua sobrietà di Vladimir Luxuria che cinguetta sperando di tramandare la specie («auguri e figli trans»). Ti sentirai rispondere che è satira, sarcasmo, ironia. Ma sì, minimizziamo. Ridimensioniamo l’accaduto. Lo facevano anche i katanga dell’autonomia operaia quando sprangavano i missini e si difendevano così: «Uccidere un fascista non è reato».

Un orrore sul sito dell'Annunziata: giusto insultare il figlio della Meloni, scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2016. Sull'Huffington Post di Lucia Annunziata un intervento di rara violenza contro Giorgia Meloni. A firmarlo è Deborah Dirani, che si definisce "donna, prima. Giornalista, poi". Nel mirino la leader di Fdi-An, bersagliata da insulti e sfottò dopo aver rivelato di essere incinta. E la signora Dirani, de facto, spiega che la Meloni si merita questo tipo di linciaggio. Chiarissimo l'attacco del suo articolo: "Giorgia Meloni è incinta. Giorgia Meloni è una delle responsabili della degenerazione della politica del mio Paese. Di quella politica fatta di esclusione, di negazione dei diritti, di slogan populisti e di intolleranze culturali". Dunque, la Dirani aggiunge che la Meloni "è incinta e io sono ben contenta, dico sul serio". E subito dopo riprende a manganellare: "Ma la gravidanza non fa di lei una persona migliore, non la trasforma magicamente in una donna aperta al diverso da sé. Resta esattamente quella che è e raccoglie esattamente quello che tanto si è prodigata a seminare: intolleranza". Insomma, l'intolleranza raccolta dalla Meloni in questi giorni - ricordiamolo: insulti e sfottò al nascituro, qualcosa di vergognoso che non c'entra nulla con la politica - sarebbe dovuta alla presunta intolleranza del personaggio Meloni. Quale intolleranza? Si suppone il sostenere politiche di destra, una roba che la signora Dirani non può tollerare, tanto che nello stesso, improponibile e violento, commento si spinge a scrivere: "Buona gravidanza, Giorgia Meloni e... Speriamo che sia femmina (volevo aggiungere anche comunista!)".   

Mancini e il politically correct che tarpa le ali alla libertà d'espressione. Froci, zingari, clandestini e handicappati non esistono più. La "neolingua" impone gay, rom, migranti e diversamente abili e ora invade anche i campi di calcio, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 20/01/2016, su "Il Giornale". “Sarri è un razzista, uomini come lui non possono stare nel calcio. Mi son alzato per chiedere al quarto uomo del recupero. Lui ha iniziato ad inveire contro di me, dicendo ‘frocio e finocchio’ Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo. Persone come lui non possono stare nel calcio, se no non migliorerà mai. Ha 60 anni, si deve vergognare”. Con queste parole Roberto Mancini rischia di inguaiare Maurizio Sarri. I due allenatori hanno avuto un brutto battibecco al termine della partita di Coppa Italia e l’insulto scappato al coach del Napoli rischia di costargli caro. Secondo le norme della Figc chi ha “stop "un comportamento discriminatorio e ogni condotta che comporti offesa per motivi di sesso" ​rischia quattro mesi di squalifica che andrebbero scontati anche in campionato. Mancini ha rotto la regola aurea del calcio che può essere riassunta con la frase di un celebre film: “ciò che avviene dentro il miglio verde rimane dentro il miglio verde” e così il web si è diviso su Twitter tra chi scriveva #iostoconMancio e #iostoconsarri. Siamo all’apoteosi del politicamente corretto. Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center ha chiesto un incontro con il presidente del Napoli, Auelio De Laurentis e Carlo Tavecchio, presidente della Figc perché “uno sport così popolare non può permettersi messaggi di violenza". Siamo sicuri che molti di questi benpensanti di sinistra che si indignano per un “frocio” scappato in un campo di calcio, dove gli insulti e le bestemmie sono di casa, sono scesi in piazza a difesa della libertà d’espressione quando l’Isis ha fatto la strage di Charlie Hebdo. Fintanto che si insulta la Chiesa cattolica o qualcuno dipinge un Gesù Cristo immerso nella pipì tutto va bene ma se si dice frocio, zingaro, clandestino, cieco o handicappato allora apriti cielo. Nella neolingua dei benpensanti frocio deve chiamarsi “gay”, il clandestino “migrante”, cieco diventa "non vedente", zingaro “rom” e l’handicappato si trasforma in “diversamente abile”. Come se anche i cosiddetti “normodotati” non siano diversamente abili tra loro. Non tutti gli uomini “comuni” hanno le stesse abilità e anche chi non è in sedia a rotelle, nella maggior parte dei casi, ha abilità diverse se messo a confronto con Rocco Siffredi e Stephen Hawking. Chi vive in sedia a rotelle, chi non vede o chi non sente è, invece, portatore di uno o più handicap, ossia di svantaggi cui non si è ancora è posto il giusto rimedio con un adeguata opera di abbattimento delle barriere architettoniche. Eppure la sinistra cosa si accinge a fare? Una proposta di legge per aumentare le pensioni d’invalidità, al momento ferme a poco più di 200 euro? No, la preoccupazione di Sel è quella di cambiare la dicitura “handicappato” in “diversamente abile” dal testo di legge 104, come conferma al giornale.it da Erasmo Palazzotto, promotore della proposta di legge che arriverà in Parlamento presumibilmente a febbraio. Se si va avanti di questo passo si dovrà chiedere a Iva Zanicchi di cambiare la sua canzone da “dammi questa mano, zingara” a “dammi questa mano, rom”. Dire “frocio” fa scandalo proprio nel momento in cui il governo depenalizza il reato di ingiuria tanto che persino Vittorio Sgarbi, per protesta, ha abbandonato una trasmissione tivù senza insultare nessuno. A breve sarà impossibile anche dare del “cornuto” all’arbitro. Preparatevi al marito con una moglie “diversamente fedele”… Siamo alle comiche finali del politicamente corretto.

Sarri e il solito coro del "Politicamente corretto" a giorni alterni, scrive "Il Piccolo D'Italia il 20 gennaio 2016. Fonte: Fabrizio Verde, Francesco Guadagni e Alessandro Bianchi per L’Antidiplomatico. In occasione della partita di calcio tra Napoli e Inter, valevole per la qualificazione alla semifinale della Coppa nazionale, è entrata in azione la solita ipocrisia e doppia morale di marca italica. Evento scatenante, un litigio tra i tecnici delle due compagini calcistiche Maurizio Sarri e Roberto Mancini. Quest’ultimo, allenatore dell’Inter, nel dopo partita ha lanciato accuse di razzismo nei confronti del tecnico toscano che allena la squadra partenopea, colpevole di averlo apostrofato con i termini ‘frocio’ e ‘finocchio’. Per Maurizio Sarri, che dichiara di non ricordare le parole esatte ma si è scusato a telecamere spente nello spogliatoio dell’Inter prima dell’accusa mediatica di Mancini, si è trattato di una caduta di stile, questo è fuor di ogni dubbio. Ma è l’intero contesto di abnorme colpevolizzazione dell’allenatore del Napoli ad essere oggettivamente fuori luogo. Innanzitutto bisogna ricordare che l’Italia è il paese dove in occasione di ogni partita di calcio vengono gridati i più beceri cori razzisti nei confronti della città di Napoli e dei suoi abitanti, nel generale disinteresse di giornalisti e addetti ai lavori, che fanno a gara nel minimizzare questi atti di razzismo, declassandoli a semplici sfottò da stadio, senza tener contro del retroterra culturale che vi è dietro a questi slogan beceri e razzisti. Si tratta degli stessi personaggi che da ieri cercano di ergersi a improbabili moralizzatori del mondo del calcio. Si tratta, si sa, del solito “politicamente corretto” creato ad arte. Che dire poi dello stesso Roberto Mancini che si è precipitato ai microfoni della Rai a denunciare indignato delle offese ricevute, dopo aver provato nello spogliatoio del Napoli a venire alle mani con il tecnico toscano? Si tratta dello stesso Mancini che nel 2000 intervenne in difesa del suo amico Sinisa Mihailovic, il quale aveva definito il centrocampista dell’Arsenal Vieira un «negro di merda», con queste testuali parole riportate dal quotidiano ‘La Repubblica’: «Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». Lo stesso Mancini che da allenatore del Manchester City rischiò di finire alle mani con ben due suoi giocatori Adebayor e Tevez. Il primo accusato di fingere un infortunio poi rivelatosi vero, il secondo per divergenze tecnico-tattiche. Il litigio tra il tecnico di Jesi e l’attaccante argentino trovò il suo culmine quando Mancini affermò nei confronti di Tevez ‘l’elegante’ frase «go fuck your mother». Insomma, il tecnico che ieri si è tanto scandalizzato non ha nulla da invidiare alle tante teste calde che popolano il calcio mondiale. In ultima analisi è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che da anni ignorano il più becero razzismo, le ruberie, i macroscopici brogli e quant’altro accade nel mondo del calcio. E, infine, un ultimo punto, il più importante perché non parliamo più di qualcosa attinente ad un gioco, è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che ignorano e tollerano ogni giorno lo stupro di diritti, democrazia e della nostra Costituzione che avviene ogni giorno. Lo stato in cui versa un’Italia sempre più schiacciata della dittatura europea neoliberista dipende anche, e soprattutto, dal coro del “politicamente corretto” dei bombardatori umanitari a giorni alterni.

Quella sinistra "politicamente corretta" che da settant'anni deride e insulta i gay. Togliatti offendeva Gide mentre la rivista diretta da Berlinguer inseriva gli "invertiti" fra i nemici di classe. Fino alle scivolate di D'Alema e Bersani, scrive Cristina Bassi, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale".  «A froci!», «finocchio», «culattoni», «checca squallida»: la destra, certo, si è spesso messa in (cattiva) luce quando si è trattato di insulti omofobi e battute da trivio. Post-missini e leghisti in testa. E se la Dc usa per decenni la maldicenza, pure Beppe Grillo scivola su un «At salut, buson!», rivolto a Nichi Vendola dal palco di Bologna (2011). Ma arrivano dalla sinistra progressista le invettive più insidiose contro i gay. A volte vaghe: «È mollezza borghese». Altre dirette: «Deviati», «pederasti», «invertiti». Altre ancora subdole: le unioni omosessuali? «È mai possibile che i problemi dell'Italia siano questi?», si chiede D'Alema nel 2006. «È meglio che un bambino cresca in Africa piuttosto che con due uomini o due donne», dichiara un anno più tardi Rosy Bindi, madre del ddl sui Dico. Dopo Stai zitta e va' in cucina, saga del sessismo a Palazzo, il giornalista di SkyTg24 Filippo Maria Battaglia pubblica Ho molti amici gay - La crociata omofoba della politica italiana (Bollati Boringhieri).

Partiamo dal dopoguerra. Nel 1950 Palmiro Togliatti sul mensile Rinascita si scaglia, sotto pseudonimo, contro André Gide che si è ricreduto sul comunismo. A sentirlo parlare, sostiene il segretario del Pci, «vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov'è specialista». E un anno prima: «Se quando ha visitato la Russia nel 1936 gli avessero messo accanto un energico e poco schizzinoso bestione che gli avesse dato le metafisiche soddisfazioni ch'egli cerca, quanto bene avrebbe detto, al ritorno, di quel Paese!». Mentre il mensile della Fgci Gioventù Nuova, diretto da Enrico Berlinguer, se la prende con Jean-Paul Sartre: «Un degenerato lacchè dell'imperialismo, che si compiace della pederastia e dell'onanismo». Riflette l'autore: il messaggio dell'apparato è che «tra i comunisti non c'è posto per gli omosessuali, invertiti e pederasti (usati spesso come sinonimi) sono solo gli avversari borghesi».

C'è l'espulsione dal Pci di Pier Paolo Pasolini «per indegnità morale» nel 1949. Francesco Rutelli che nel 2000 da sindaco di Roma ritira il patrocinio al Gay Pride perché si tiene nei giorni del Giubileo. E la reazione di Giancarlo Pajetta nella seconda metà degli anni '80. A Botteghe Oscure nota facce nuove: «Incuriosito, si avvicina, scoprendo che si tratta della prima delegazione gay accolta in via ufficiale nella sede comunista. E prima le puttane, e adesso i finocchi si sfoga, scuotendo la testa ma che c... è diventato questo partito?». Arrivando ai giorni nostri, ecco la sinistra «diversamente omofoba». Nel 2009 Bersani manifesta «forti perplessità» sulle unioni gay. È bene, spiega, regolare un fenomeno cresciuto «a dismisura». Però «poi non è che lo chiamo matrimonio omosessuale perché non sono assimilabili». Ancora: «È mai possibile che i problemi dell'Italia siano i Pacs e la Tav?, si domanda nel 2006 l'ex premier Massimo D'Alema (...). Prima di aggiungere, significativamente: Ci siamo fatti incastrare a discutere di questioni marginali rispetto ai problemi del Paese». Pochi mesi dopo aggiungerà che il matrimonio tra omosessuali «offenderebbe il sentimento religioso di tanta gente». Nel 1995 aveva dichiarato: la coppia omo non può «essere considerata una famiglia».

A sinistra la «tolleranza repressiva» ha lasciato il posto al silenzio imbarazzato: «C'è una generazione di gente brillantissima che viene dal Pci che non ha mai fatto coming out racconterà nel 2012 la deputata dem Paola Concia Donne e uomini, personaggi di primo piano di quel partito. Se avessero dichiarato pubblicamente la loro omosessualità avrebbero fornito carburante alla sinistra». Non solo: «Alcuni colleghi del Pd (...) ogni volta che mi vedono parlare con una donna, si strizzano l'occhio e dicono che ci sto provando (...). Pregiudizi che trovano conferma nel 2011 quando la deputata annuncia che si sposerà in Germania con la compagna. Che si dice in questi casi?, le domanda Rosy Bindi». Infine Vendola che confessa: «È stato forse più facile dire la mia omosessualità ai preti che al partito».

Da Che Guevara a Orlando, tutte le contraddizioni del mondo gay, scrive Adriano Scianca il 14 giugno 2016 su “Il Primato nazionale”. Il 14 giugno 1928 nasceva a Rosario, in Argentina, Ernesto Guevara de la Serna, destinato a passare alla storia, col nomignolo di Che, per l’apporto dato alla rivoluzione comunista cubana e per essere stato, dopo l’instaurazione del regime castrista, uno dei suoi principali esponenti. Di lui si è detto e scritto tutto. Non è neanche una novità sconvolgente quella per cui, nella visione guevarista dell’uomo nuovo, non ci fosse posto per l’omosessualità: che il Che sia stato l’artefice della creazione di veri e propri campi di concentramento per omosessuali, in cui finirono anche molti simpatizzanti per la rivoluzione, è cosa ben documentata. Eppure il brand guevarista va forte proprio in quei settori che vorrebbero fare l’esame del dna a chiunque sia anche solo in odore di “omofobia”. Beninteso, non vogliamo frettolosamente liquidare qui la rivoluzione cubana con un giudizio piccolo-borghese limitato ai suoi “crimini”, ma certo la contraddizione stride, e parecchio. Non è la sola, se restiamo in campo “lgbt”: al recente gay pride di Roma, per esempio, sono stati fotografati dei cartelli che inneggiavano al boicottaggio dei prodotti israeliani e alla libertà della Palestina. Ben fatto, la causa palestinese gode di tutta la nostra simpatia. Ma, anche qui, non si può non ragionare in punta di coerenza: Israele è uno Stato estremamente gay friendly, cosa che è difficile dire della controparte palestinese e del mondo musulmano in genere. È questo il motivo per cui, dopo la strage di Orlando, il pensiero dominante è andato in tilt: un musulmano, figlio di immigrati, che fa strage di gay. Come uscirne? Sel, in Italia, ha risolto la questione, dando la colpa al fascismo, ma questa è patologia psichiatrica e va lasciata quindi agli specialisti. Abbiamo detto del gay pride: non è forse quella una contraddizione ambulante? Uno sfoggio identitario per rivendicare diritti e uguaglianza. L’espressione di una sottocultura trasgressiva per reclamare l’accesso al perbenismo borghese. Un ostentato “siamo diversi da voi” per far capire alla gente “siamo uguali a voi”. Ora, questo micro-viaggio che parte da Che Guevara e arriva non a Madre Teresa, come la Chiesa immaginaria di Jovanotti, ma allo stragista di Orlando passando per i carri chiassosi del gay pride, cosa vorrebbe dimostrare? Nulla, se non che l’ortodossia politicamente corretta, che ha nelle rivendicazioni lgbt la sua punta di lancia più avanzata, è un sistema logico fallace e un sistema etico claudicante. E che la dittatura del pensiero unico è innanzitutto una dittatura del non pensiero. Adriano Scianca

Omofobia sinistra. Era il 1934 quando Klaus Mann, il figlio dello scrittore Thomas che ebbe una vita signorilmente intensa e signorilmente angosciata, scrisse un pamphlet contro la persecuzione dei “pederasti”. Persecuzione degli omosessuali da parte della sinistra. Sì, perché se oggi negli stereotipi c’è l’omofobia di destra e l’omofilia di sinistra, un tempo, e non fu molto tempo fa, c’era l’omofobia di sinistra e l’omofilia di destra. Klaus Mann denuncia “l’avversione nei confronti di tutto quanto è omoerotismo che nella maggior parte degli ambienti antifascisti e in quasi tutti gli ambienti socialisti raggiunge un livello intenso. Non siamo molto lontani dall’arrivare a identificare l’omosessualità con il fascismo. Su questo non è più possibile tacere”, scrive Giulio Meotti il 22 Luglio 2013 su “Il Foglio”. E ancora: “Come mai sui giornali antifascisti leggiamo parole come ‘assassini e pederasti’ abbinate quasi con la stessa frequenza con cui vengono abbinate sui fogli nazisti le parole ‘traditore del popolo ed ebreo’? La parola ‘pederasta’ viene usata come un’ingiuria”. Né in “Arcipelago Gulag” di Alexander Solzenicyn, né nei “Racconti della Kolyma” di Varlam Salamov, c’è una parola per raccontare la sorte degli omosessuali nei campi sovietici. Sono chiamati, semplicemente, “gli infamati”. In un’opera di divulgazione del commissariato sovietico di Pubblica sicurezza del 1923, intitolato “La vita sessuale della gioventù contemporanea”, si legge che l’omosessualità è “una forma di alienazione” che sarebbe scomparsa, naturalmente o meno, con l’avvento del comunismo. La morale sessuale della sinistra ha sempre oscillato fra la critica radicale delle istituzioni borghesi, a cominciare dal matrimonio, e quella delle “degenerazioni” del costume, segno della corruzione che veniva dalle classi dominanti e capitalistiche. Nel 1862 il proclama della “Giovane Russia” postulava l’abolizione del matrimonio “fenomeno altamente immorale e incompatibile con una completa eguaglianza dei sessi”. La critica di Engels (“Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”) indusse la prima generazione di rivoluzionari russi a considerare la famiglia come una “istituzione superata”. August Bebel scriveva che “il soddisfacimento dell’impulso sessuale è un affare privato di ciascuno proprio come il soddisfacimento di ogni altro impulso naturale”. Ma quando una militante bolscevica, nel 1915, stese un pamphlet favorevole al “libero amore”, Lenin rispose che questa era una concezione borghese, non proletaria. Parlando con Klara Zetkin, nel 1920, definì “completamente antimarxista e per di più antisociale la famosa teoria secondo cui, nella società comunista, la soddisfazione dell’istinto sociale e dell’amore è una cosa semplice e insignificante come bere un bicchier d’acqua”. Queste teorie e i conseguenti comportamenti si erano diffusi nella prima fase rivoluzionaria, negli ambienti intellettuali delle grandi metropoli, dominati dallo spirito dissacratore dei futuristi, che consideravano l’omosessualità solo un modo diverso di bere un bicchier d’acqua. A mano a mano che il potere sovietico si estese alle campagne, con la guerra civile e la Nep, la situazione mutò radicalmente. La famiglia tradizionale tornò a essere il modello e ogni “devianza” fu condannata.

Si cominciò con l’attacco di Bucharin alla diffusione fra i giovani di “gruppi decadenti e semiborghesi con nomi come Abbasso l’innocenza, Abbasso il pudore” e si finì con l’inserire nel codice penale la condanna ai lavori forzati per l’omosessualità. Gli intellettuali comunisti occidentali si adeguarono. Uno dei testi più noti di Bertolt Brecht, “Ballade vom 30 Juni”, presenta Hitler e Ernst Röhm come amanti di letto, usando l’accusa di omosessualità per screditare il nazionalsocialismo. Si arriverà, con il giornalista Georges Valensin, a dichiarare che nella Cina di Mao “l’omosessualità non esiste più” (l’Espresso, 20 novembre 1977).

Il Pcf si distinse nell’attacco a “intellettuali degenerati” come André Gide, l’autore di “Si le grain ne meurt”, l’autobiografia dove confessa come in una psicoterapia le “brutte abitudini” di bambino onanista all’Ecole Alsacienne o le crudeltà di adulto libertino inflitte alla madre. “Ce vieux Voltaire de la pédérastie”, scrisse di lui Ernst Jünger, che così sintetizzò il suo nichilismo scettico redento dall’eleganza dello stile. Gide l’alfiere dell’individualismo antiborghese, il custode del classicismo che disse “Je ne suis pas tapette, Monsieur, je suis pédéraste”. Ma anche il militante dell’antifascismo infatuato per breve tempo del comunismo e che, sontuosamente accolto nel 1936 a Mosca, ritornò in occidente per scrivere “Retour de l’Urss” e “Retouches à mon retour de l’Urss”, i libri in cui riferì quello che aveva visto realmente nella Russia staliniana. Divenne così “Gide, il traditore”, “il bieco reazionario”, “il servo dei padroni”, “il nemico della classe operaia”: questo il campionario di epiteti pubblicati a caratteri cubitali contro l’omosessuale antesignano. “Quelle sue calunnie, assurde e ignobili, contro il paese guida del comunismo internazionale, sono la bava avvelenata di un degno figlio della piccola borghesia, di un alleato dei nostalgici nazisti e delle camicie nere”, scrivevano i giornalisti dell’Humanité, il quotidiano del Partito comunista francese. E i loro colleghi della Pravda, organo del Partito comunista sovietico, rivolgendosi ai lettori militanti: “Sapete perché il signor Gide ce l’ha tanto con noi e con i nostri compagni? S’è indignato, poverino, ha provato un disgusto indicibile, quando si è accorto che i comunisti di Mosca non sono pederasti”.

Quando a Stoccolma, nel 1947, diedero al settantottenne Gide il premio Nobel per la Letteratura, Jean Kanapa arriverà a dire che dieci anni prima lo scrittore aveva provato disgusto per i bolscevichi “accorgendosi che essi non erano pederasti”. Nel 1949 Dominique Desanti lo descrisse vecchio di ottantun anni “con già sul viso la maschera della morte”, circondato da giovani ammiratori che avevano trovato nei suoi libri la stessa liberazione che altri trovavano a Place Pigalle. Nel coro di mostrificazione di Gide non mancherà la voce di Palmiro Togliatti, il segretario del Pci che sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, dal giorno del suo ritorno in Italia, nell’ottobre 1943, a quello della sua morte a Jalta, nell’agosto 1964, svolse il suo magistero culturale sulle pagine di Rinascita. Nel maggio 1950, scriverà a proposito di Gide: “Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti fra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e il terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente”.

Il 20 febbraio 1951, all’indomani della scomparsa di Gide, l’Humanité pubblicherà un necrologio intitolato “Un cadavere è morto”. E’ lo stesso Kanapa che nel 1947 riassunse la posizione ufficiale del Partito comunista francese in un saggio intitolato “L’esistenzialismo non è un umanesimo”, in cui si arriva a sostenere che “il significato sociale dell’esistenzialismo è la necessità attuale per la classe sfruttatrice di addormentare i suoi avversari” e che Jean-Paul Sartre era un “pederasta che corrompe la gioventù”. In Italia si seguì un doppio binario. Gli omosessuali non venivano ammessi nel partito e quando venivano scoperti, come nel caso famoso di Pier Paolo Pasolini, venivano espulsi in base alla norma sulla “condotta esemplare” contenuta nello statuto comunista. C’è ad esempio il caso di Pietro Secchia, sul quale cominciarono a circolare voci soltanto dopo che, morto Stalin e fuggito il suo più stretto collaboratore, fu esautorato dal suo ruolo di capo dell’Ufficio quadri, quello che vigilava sulla vita, anche privata, di “compagni e dirigenti”. Sul piano pseudoscientifico pesarono a lungo le teorie biologiche di Andrei Lissenko, che sosteneva una specie di superiorità razziale del proletariato nel quale “fenomeni di devianza”, come l’omosessualità, potevano sussistere solo come il risultato della contaminazione di altre classi. Nel Partito comunista, di omosessualità non si parlerà a lungo. Nel convegno del 1964 dedicato a “Famiglia e società nell’analisi marxista” si accenna polemicamente, lo fa Umberto Cerroni, “alle false alternative teoriche del ribellismo sessuale”, mentre la ricognizione della “esperienza sovietica” di Luciana Castellina arriva a criticare “gli eterodossi, gli innovatori” come sostenitori “del ritorno a una tematica crepuscolare, in difesa del privato e dei suoi tenui sentimenti”. Ancora nel 1979 Antonio Roasio, uno dei fondatori del Partito comunista a Livorno, non trovava di meglio che criticare l’Unità per “l’eccessivo rilievo” dato all’omosessualità in un numero del quotidiano e che “comunque la si giudichi, l’omosessualità non può essere considerata un aspetto della libertà sociale”.

C’è poi la storia, quella vera, del “Che”, Ernesto Guevara. Una storia che in pochi raccontano oggi e che le stesse associazioni omosessuali militanti hanno sempre nascosto. Con il passaggio di poteri da Batista a Castro, nel 1959, Guevara venne nominato procuratore militare con il compito di reprimere “gli oppositori della rivoluzione”. Nei tribunali finiscono per espressa volontà del Che molti religiosi, tra cui l’arcivescovo dell’Avana, e moltissimi “maricones”, gli omosessuali. Il Che realizza campi di lavori forzati ed elabora i regolamenti dentro le galere del regime, che fissano le punizioni corporali per i più facinorosi, come i lavori agricoli eseguiti nudi. Alcuni reduci racconteranno di “maricones” uccisi personalmente, con colpi di pistola alla tempia, dal leggendario guerrigliero. Perché nella Cuba comunista tanto amata in occidente, il castrismo ha perseguitato gli omosessuali chiamandoli “pinguero” (marchetta) e “bugarrón” (uno che cerca sesso spasmodicamente). E se nella Cuba di Batista i gay stavano male e basta, fu tra il 1965 e il 1968, dopo la rivoluzione, che ci fu il trionfo delle Unidades militares de ayuda a la producción, veri e propri lager con guardie armate e filo spinato. Ci finivano dal “poeta finocchio” all’“attore effeminato”, tutti in divisa blu, sottoposti a marce durissime, cibo scarso, ma anche “cure” con gli elettrodi attaccati ai genitali. Il comandante Ernesto Guevara fu lì uno degli aguzzini.

Granma, l’organo ufficiale del Partito comunista cubano, nell’aprile 1971 scriveva per esempio che “il carattere socialmente patologico delle deviazioni omosessuali va decisamente respinto e prevenuto fin dall’inizio. E’ stata condotta un’analisi profonda delle misure di prevenzione e di educazione da rendere efficaci contro i focolai esistenti, inclusi il controllo e la scoperta di casi isolati e i vari gradi di infiltrazione. Non si deve più tollerare che gli omosessuali notori abbiano una qualche influenza nella formazione della nostra gioventù. Siano applicate severe sanzioni contro coloro che corrompono la moralità dei minori, depravati recidivi e irrimediabili elementi antisociali, ecc.”. L’omosessualità è trattata alla stregua di un virus patogeno. Nel 1979 gli atti omosessuali vennero decriminalizzati a Cuba, ma i gay continuarono a venire accusati di essere “oppositori del regime”, sbattuti in galera senza processo, mandati a morte in quell’isola magnifica che descrive Claudio Abbado. Il quotidiano Juventud rebelde pubblica una foto di un impiccato, un “gusano”, un verme, e sui pantaloni c’è scritto “homosexual”. Nel 1984 Néstor Almendroz e Orlando Jiménez Leal producono il documentario “Cattiva condotta”, dove raccontano la persecuzione del regime castrista contro i gay. Racconta lo scrittore Guillermo Cabrera Infante: “La persecuzione degli omosessuali dei due sessi fu una persecuzione di dissidenti. Gli omosessuali deviano dalle norme borghesi. I comunisti sostengono le coppie convenzionali, il matrimonio… L’omosessualità minaccia tutto ciò, perciò gli stati totalitari la temono”. Ancora l’articolo 303 del codice penale del 30 aprile 1988 punisce chi “manifesti pubblicamente” la propria omosessualità con pene che variano tra i tre mesi a un anno di prigione o una multa che va da cento a trecento cuotas per coloro che “infastidiscono in modo persistente gli altri con proposte amorose omosessuali”. In occidente, dove oggi vige l’omofilia militante e avanza la censura antiomofoba, l’omosessualità è stata sempre una questione di emarginazione. Nell’emisfero comunista, e nel pensiero della sinistra europea, l’omosessualità era destinata a scomparire. Assieme ai froci. Una “soluzione finale” contemplata in un articolo che Maksim Gorkij, la bandiera degli scrittori sovietici, l’amico di Lenin, il padre del realismo socialista, pubblicò il 23 maggio 1934 contemporaneamente sulla Pravda e sull’Izvestia, sotto il titolo “Umanesimo proletario”: “Nei paesi fascisti, l’omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce impunemente; nel paese dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l’omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. Eliminate gli omosessuali e il fascismo scomparirà”.

SINISTRISMO E RADICAL-CHIC.

Radical chic. Locuzione: Che riflette il sinistrismo di maniera di certi ambienti culturali d'élite, che si atteggiano a sostenitori e promotori di riforme o cambiamenti politici e sociali più appariscenti e velleitari che sostanziali.

Ecco come smascherare i radical chic 2.0 (in 12 punti), scrive Francesco Maria Del Vigo il 26 agosto 2014 su "Il Giornale". Qualche giorno fa, sul Giornale, ho pubblicato una lista in nove punti sui tic dei radical chic on line. Questa è la versione integrale:

La foto del profilo non è (quasi) mai una loro foto. Sarebbe troppo nazionalpopolare. Mettono solo frammenti di film di qualche regista polacco mai distribuiti fuori dalla circonvallazione di Varsavia.

Quando scelgono una loro immagine deve essere schermata da almeno cinque o sei filtri, avere delle velleità artistiche e magari ritrarre solo una parte del viso. Espressione sempre preoccupata per i destini del mondo. Il sorriso è bandito come un retaggio del ventennio berlusconiano.

L’oroscopo è un vizio da portinaia. Ma se si tratta di quello di Internazionale no. Lo condividono su tutti i social come se fosse il Vangelo.

Le foto delle vacanze vanno bene solo se si è nel terzo mondo o in un campo profughi. Pose obbligatorie: sguardo corrucciato, camuffati da indigeni e nell’atto di solidarizzare con gli abitanti del luogo. Il colore (degli abitanti del luogo) deve essere intonato alla nuance dei sandali Birkenstock.

Su Twitter parlano tra di loro di cose che capiscono solo loro. Sublimazione del sogno radical chic: l’esposizione mediatica del salotto (ovviamente etnico) di casa propria.

Sì al selfie, ma solo se ha un significato sociale e politico. Possibilmente con un cartello in mano che sostiene la battaglia di qualche gruppo di contadini ugandesi. Ancora meglio se su iniziativa di Repubblica.it.

La Reflex. Più che uno strumento fotografico è un monile, una collana da appendere al collo. Condividono e scattano foto solo con voluminosissime – e costosissime – macchine fotografiche professionali. Preferiscono Flickr a Instagram, troppo plebeo.

Il meteo è il prolungamento della politica coi mezzi della natura. Se piove non è colpa del governo ladro, ma dello scioglimento dei ghiacci dovuto al capitalismo diabolico. Condividere (sui social) per educare.

Il cibo non esiste. Esiste solo il food. Da fotografare e condividere sui social solo a tre condizioni: che sia a km 0 (va bene anche se è stato coltivato nella rotatoria di Piazzale Loreto), etnico o equo e solidale.

La petizione on line è la nuova e comodissima forma di contestazione. Va bene per risolvere tutti i problemi: dal cambio degli stuoini nel condominio (meglio sostituirlo con un piccolo kilim) alla fame nel mondo. Basta un click. Tutto il nécessaire è su Charge.org.

Film, libri, giornali. Tutto in lingua straniera. Molto chic condividere video di serie tv in lingua originale non ancora trasmessi in Italia. Appena oltrepassano le Alpi diventano rigorosamente pacchiane.

Anche Youporn è troppo pop. Forse anche sessista, potrebbe addirittura essere di destra con quello sfondo nero… Meglio ripiegare su siti soft porn o intellettual-erotici. Ammesso anche spulciare tra le pagine osè di Tumblr.

Le 9 differenze tra tamarri e radical-chic, scrive il 4 novembre 2014 Enrico Matzeu. (Gli stilisti mi evitano, le pr non mi invitano ai party più glamour. Scrivo sull’Oltreuomo per vendicarmi di loro.) La giungla umana è fatta di tante specie diverse, di tanti tipi umani che vengono costantemente tenuti sotto osservazione da antropologi e ornitologi. Tra queste specie, due meritano di essere analizzate con cura certosina: i Tamarri e i Radical-chic. Due categorie che come i binari della transiberiana non si incontreranno probabilmente mai. Entrambe le categorie si schifano a vicenda ed entrambe vanno orgogliose delle loro variopinte peculiarità. Ho provato con cura e garbo a sottolineare le differenze tra gli zarri e gli snob, nei nove ambiti dove emerge al meglio la loro personalità. Le 9 differenza tra Tamarri e Radical-chic:

1. Abbigliamento. I Tamarri doc vogliono stare comodi e si infilano i pantaloni della tuta anche per il matrimonio del cugino di ottavo grado (ah no, lì indossano i pantaloni della festa in finto acrilico traslucido). Le donne non rinunciano ai leggings, mai, neanche quando i leggings rinuncerebbero volentieri a loro. Entrambi portano con ossessione i gilet imbottiti, come fossero costantemente a bordo della Costa Concordia. I radical-chic invece portano la giacchia in velluto a costine anche in spiaggia, con camicette alla coreana e le immancabili Clarks. Per le donne l’abito asimmetrico di qualche stilista giappo-svedese è d’obbligo nell’armadio.

2. Vacanze. I Tamarri amano il sole più di se stessi e se d’inverno passano il tempo libero stesi su un lettino abbronzante, d’estate preferiscono di gran lunga le sdraio di polipropilene di Rimini e Riccione. I più internazionali svernano invece a Ibiza o Mykonos, sfoggiando costumini con sospensorio annesso o bikini tigrati. I radical-chic temono il sole più dell’ebola e se una volta amavano Capalbio ora preferiscono di gran lunga il Museo d’Orsey di Parigi o al massimo qualche sperduta isola del Mediterraneo a mangiare crudité di pesce e piatti bio.

3. Borse. I Tamarri amano indubbiamente accessori griffati, evidentemente griffati. Le donne non rinunciano al bauletto Louis Vuitton (meglio se tarocco) e gli uomini al borsello di Gucci (meglio se rubato). Per i radical-chic le borse sono unisex. Sia uomini che donne infatti usano quasi esclusivamente borse in tela, meglio se di qualche festival filosofico-cinefilo-letterario, ai quali probabilmente non sono neanche mai stati.

4. Ristoranti. Per i Tamarri sushi is the new pizza. Si abbuffano come bambini del Biafra in un qualsiasi all you can eat del quartiere e più ordinano più si sentono dei giusti. I radical-chic hanno smesso di mangiare il sushi da almeno tre anni. Ora si dedicano alla cucina vietnamita, alle hamburgerie dove si ordina con l’IPad o da Eataly, dove un ordine costa come un IPad.

5. Tatuaggi. I Tamarri si tatuano con gusto tutto il corpo come fosse una tela impressionista (nel senso che fa impressione). Partono con un tribale sui bicipiti e finisce che si colorano anche la mano con il viso della nonna defunta. Le iniziali del proprio amato sono indispensabili e diventano un marchio a fuoco come per le vacche. I radical-chic invece si dividono tra quelli che vogliono il tattoo old school, con marinai e sirene (che neanche nei Pirati dei Caraibi), oppure puntano sui tatuaggi minimalisti, fatti di disegni stilizzati o schizzi di Mirò.

6. Occhiali da sole. Un Tamarro come si deve si distingue anche e soprattutto da un paio di occhiali da sole. Per la regola che più grosso ce l’hai (l’occhiale) più sei figo, al Tamarro tipo piace esagerare, con montature che invadono la faccia, peggio di Putin con l’Ucraina, e lenti specchiate che ti riflettono pure le adenoidi. Il radical-chic non rinuncia ai suoi Rayban, meglio se tartarugati, pieghevoli, vintage, in limited edition e con la cordicella al collo. Sia mai li perdano.

7. Musica. Da adolescenti la musica dance è per i Tamarri come l’insulina per i diabetici: questione di vita o di morte. Crescendo, si affezionano ai neo melodici italiani, possibilmente amici della De Filippi o con almeno un paio di date in America Latina. I radical-chic citano De André, Guccini e Battiato ogni tre per due, spesso confondendoli tra loro e odiano tutto ciò che è pop (talvolta addirittura i pop-corn). Frequentano club con musica dal vivo e non si perdono i concerti dei gruppi più indie del momento, anche di quelli che non conoscono.

8. Libri. Diciamocelo, i Tamarri leggono più volentieri le riviste scandalistiche (o scandalose) dei libri, però se proprio devono entrare in una libreria ne escono con la biografia di qualche calciatore, qualche libro di aspiranti motivatori e naturalmente il libro dell’Oltreuomo. I radical chic millantano sempre letture impegnate e impegnative e sui loro comodini ci sono pile e pile infinite di libri, tra i quali si leggono titoli di Kafka, Hesse e Tolstoj, ma in fondo, messo al contrario, un po’ nascosto c’è sempre una delle novità letterarie di Fabio Volo. I radical-chic in salotto hanno sempre l’ultimo libro fotografico di Oliviero Toscani. Ottimo soprammobile.

9. Sport. La palestra è per i Tamarri come la Mecca per i musulmani. Quando entrano però loro non si tolgono le scarpe perché devono sfoggiare le ultime sneakers giallo fluo con i lacci fucsia e le canotte ascellari. Bicipiti, tricipiti e addominali devono essere tonici e tirati più della pelle di un tamburo e sfoggiati sotto a camicie e t-shirt aderenti dal dubbio gusto. I radical-chic boicottano la palestra perché la ritengono anticostituzionale e preferiscono di gran lunga la corsa, possibilmente al Central Park di New York o il tennis, perché si possono indossare quei gonnellini tanto chic.

Radical chic. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Radical chic è un'espressione idiomatica mutuata dall'inglese per definire gli appartenenti alla borghesia che per vari motivi (seguire la moda, esibizionismo o per inconfessati interessi personali) ostentano idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale o comunque opposte al loro vero ceto di appartenenza. Per estensione, la definizione di radical chic comprende anche uno stile di vita e un modo di vestirsi e comportarsi. Un atteggiamento frequente è l'ostentato disprezzo del denaro, o il non volersene occupare in prima persona quasi fosse tabù, quando in realtà si sfoggia uno stile di vita che indica un'abbondante disponibilità finanziaria o improntato al procacciamento dello stesso con attività che, qualora osservate in altri, un radical chic non esiterebbe a definire in modo sprezzante, come volgarmente lucrative. Inoltre tale atteggiamento sovente si identifica con una certa convinzione di superiorità culturale, nonché con l'ostinata esibizione di tale cultura "alta", o la curata trasandatezza nel vestire e, talora, con la ricercatezza nell'ambito di scelte gastronomiche e turistiche; considerando, insomma, come segno distintivo l'imitazione superficiale di atteggiamenti che furono propri di certi artisti controcorrente e che, ridotti a mera apparenza, perdono qualsiasi sostanza denotando l'etichetta snobistica. La definizione radical chic fu coniata nel 1970 da Tom Wolfe, scrittore e giornalista statunitense. Il 14 gennaio di quell'anno, Felicia Bernstein, moglie del celebre compositore e direttore d'orchestra Leonard Bernstein, organizzò un ricevimento di vip e artisti per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista-leninista Pantere Nere (alcuni membri delle Pantere Nere furono invitati al ricevimento). Il party si tenne a casa dei Bernstein, un attico di tredici camere su Park Avenue (un ampio viale di Manhattan). Tom Wolfe scrisse un ampio resoconto sulla serata, descrivendo in modo molto critico gli invitati, rappresentanti dell'alta società newyorchese. Ne risultò un articolo di 29 pagine pubblicato sul New York Magazine dell'8 giugno 1970. In Italia, l'espressione fu ripresa da Indro Montanelli nel celebre articolo Lettera a Camilla, in forte polemica con la giornalista Camilla Cederna, quale ideale rappresentante dell'italico "magma radical-chic", superficiale e incosciente culla degli anni di piombo. In seguito, egli chiarì che la vera destinataria della lettera aperta era invece Giulia Maria Crespi, allora padrona del «Corriere della Sera» e amica della Cederna, con la quale i dissidi sarebbero sfociati, l'anno seguente, nell'allontanamento di Montanelli dal quotidiano di via Solferino, dove lavorava sin dal 1937. A parte l'adozione del neologismo, l'argomento era già stato affrontato da Montanelli in vari scritti, nei quali lamentava la frivola ideologia sfoggiata da certa borghesia ricca e pseudo-intellettuale lombarda, facendone anche un ritratto tragicomico nella pièce teatrale Viva la dinamite! (1960).

Cosa sono i radical chic? Scrive Luca Sofri il 29 agosto 2014 su "Il Post". In teoria non "sono": abbiamo trasformato noi un'espressione inventata da Tom Wolfe nel 1970 e che ormai è usata lontanissimo dal suo senso. Nella rituale e un po’ ammuffita terminologia del dibattito pubblico italiano prospera da decenni con minore o maggiore frequenza l’espressione “radical chic”, usata prevalentemente in modo offensivo e dispregiativo, per indicare la presunta incoerenza di persone che si dicono politicamente di sinistra ma hanno redditi maggiori di quelli che un luogo comune anacronistico attribuirebbe ai militanti di sinistra. Proprio perché il termine è usato quasi sempre per polemica e con intenzioni aggressive, la coerenza del suo uso non è di solito rilevante: è diventato un insulto come un altro. Ma la sua storia è interessante, così come quella della nebbia semantica in cui è poi finito ora che viene usato spesso a caso e per mille cose diverse tra loro. Il termine “Radical chic” è formato dalla parola inglese “radical” – che vuol dire “radicale” nel senso dell’intensità dell’attivismo e degli obiettivi politici – e da quella francese “chic”, “raffinato”. Nella definizione del dizionario Treccani è sia un aggettivo che un sostantivo, e indica: «che o chi per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali». L’Oxford Dictionary precisa (in inglese “radical chic” è un concetto, non una persona): si tratta «dell’ostentazione», molto alla moda, di idee e visioni «radicali e di sinistra». Radicale, per moda. Wikipedia esplicita un terzo elemento: al concetto di “radical chic” è associata anche la ricchezza. Il “radical chic” appartiene «alla ricca borghesia» o proviene «dalla classe media» e «per seguire la moda, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostenta idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale (come il comunismo) o comunque opposte al suo vero ceto di appartenenza». Spiegazione che si può sbrigativamente riassumere nella frase “fai il comunista con il maglione di cachemire” (sinistra in cachemire è una delle diverse varianti usate per concetti simili, come gauche-caviar o champagne socialist). La versione inglese di Wikipedia dice che il “radical chic” è un esponente della società, dell’alta società e della mondanità impegnato a dare di sé un’immagine basata su due pratiche: da una parte quella di definire sé stesso attraverso la fedeltà e l’impegno ad una causa, dall’altra a esibire questa fedeltà perché quella stessa causa è alla moda e qualcosa di cui si preoccupa (anche tra i ricchi). Per il termine “Champagne socialist” Wikipedia spiega una cosa uguale e simmetrica: non un ricco che si atteggia artificiosamente a persona di sinistra, ma uno di sinistra che è ricco e ha abitudini da ricco in contraddizione con i suoi pensieri. Nell’uso comune, in italiano, “radical chic” è usato per definire entrambi i casi. L’introduzione della definizione di “radical chic” viene attribuita storicamente allo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe che sul New York Magazine del giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Wolfe fece un resoconto del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard, organizzò per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere». La festa si svolse a casa dei Bernstein, in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Erano presenti molte personalità che provenivano dal mondo della cultura e dello spettacolo newyorchese e i camerieri in livrea (camerieri bianchi per non offendere gli ospiti afroamericani) servivano tartine al Roquefort. Dopo una breve introduzione, la prima parte del racconto di Tom Wolfe inizia così: «Mmmmmmmmmmmmmmmm». Sedici lettere, un’onomatopea per esprimere l’aria di appagamento che circolava in quella serata, ma anche che cosa Wolfe intendesse per “radical chic”: una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali. La serata fu molto criticata: un editoriale del New York Times sostenne che aveva offeso e arrecato danno a quei neri e a quei bianchi che «lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale», Felicia Bernstein rispose pubblicamente difendendo la sua festa. Fatto sta che il termine usato da Wolfe per descrivere l’atteggiamento dei Bernstein si diffuse ben presto in tutto il mondo, e in Italia si radicò ancora più che altrove e prese a indicare, in maniera inesatta, una persona o un atteggiamento, diventando anche aggettivo. L’espressione fu ripresa sul Corriere della Sera il 21 marzo del 1972 da Indro Montanelli in un famoso articolo intitolato “Lettera a Camilla” e rivolto a Camilla Cederna, la giornalista italiana che si era occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dove si trovava accusato innocente dell’attentato di Piazza Fontana nel 1969. Montanelli descrisse Cederna così. «C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza […]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga». Montanelli, con la sua sgradevole descrizione contribuì già allora in realtà a far scivolare il concetto originario di “radical chic” verso la confusione condivisa che sta oggi intorno a questa espressione. Che rapidamente fu fatta propria da chi a destra voleva accusare qualcuno di sinistra di scarsa coerenza e successivamente adottata nelle polemiche interne alla sinistra quando il mondo cominciò a cambiare e gli elettori di sinistra smisero di essere prevalentemente “proletariato” in senso stretto. Negli ultimi anni, con lo sviluppo di maggiori contraddizioni nella sinistra italiana di fronte a grossi cambiamenti, ma anche legata a tradizioni radicate, l’accusa è tornata a essere usata molto proprio a sinistra come contraltare di tutti i richiami alla “vicinanza al territorio”, “ai problemi della gente”, stimolata dai fallimenti delle dirigenze politiche della sinistra in questo periodo. E un generale antintellettualismo in grande crescita è stato un altro fattore che ha alleato nell’uso del termine sia leader della sinistra radicale che politici e stampa di destra, per attaccare da parti opposte gli esponenti della sinistra più riformista. Così oggi “radicalscìc” è diventato un insulto di uso comunissimo e destinato a persone dai redditi più vari e dalle posizioni più articolate. Con la contraddizione che oggi i principali destinatari dell’epiteto sono persone che hanno posizioni niente affatto radicali, anzi sono gli oppositori della sinistra radicale: l’uso più convincente del termine negli anni passati è stato quello destinato a Fausto Bertinotti, un uomo in effetti elegante e di modi garbati, coi pullover di cachemire e posizioni di estrema sinistra; mentre quando lo si dice per esempio a persone come Matteo Renzi, per niente radical e nemmeno straordinariamente chic, il senso è definitivamente stravolto.

Il corso per diventare un vero radical-chic. Sul web impazza una locandina che promette fantomatiche lezioni. L'obiettivo: incarnare perfettamente lo stereotipo nel minor tempo possibile, scrive il 6 Dicembre 2013 "Libero Quotidiano”. Il radical-chic. Una figura che accompagna gli "anni duemila". Rigorosamente di sinistra (ma critico con la sinistra stessa), snob ma finto alternativo, con la puzza sotto al naso, un po' terzomondista ma elitario, molto tollerante soltanto a parole, il radical-chic è odiato da tutti: da chi non lo è e da chi, invece, ne incarna lo stereotipo. Già, perché il radical-chic, essenzialmente, disprezza e denigra, ottenebrato da una sorta di nichilismo illuminante di cui lui, e solo lui, è dotato in abbondanza. Non è semplice essere un radical-chic. Ci vogliono anni di studio, le giuste frequentazioni, una certa inclinazione. Ma da oggi imparare è possibile. Almeno questo è quanto promette una locandina che circola sul web, e che nel tam-tam di Twitter e Facebook ha già avuto un certo successo. Si tratta del "Primo corso di Radical Chic". Sottotitolo: "L'unico corso con attestato riconosciuto a livello nazionali". La promessa: "Impara tutti i segreti per sc... le donne più insipide del sistema solare in sole 10 lezioni da dieci ore". L'omaggio: "I primi 10 iscritti riceveranno in omaggio la guida Diventa buddista in un'ora". I contenuti - Nel mirino, insomma, tutti gli stereotipi molto radical e altrettanto chic: quello appena citato buddismo, quello sulle donne (quelle radical-chic, sia chiaro) molto insipide e quello relativo all'ambizione (malcelata) dei radical-chic, ossia fare l'amore il più possibile (anche se le parole usata per indicare la "circostanza" è ben più volgare). La locandina entra poi nel merito del corso, in cui si imparerà "come curare al peggio barba e capelli", "come metterci ore a capire come vestirsi per sembrare uno che si butta addosso la prima cosa nell'armadio". S'apprenderà poi "l'importanza del velluto a costine e del cachemire", e verrò chiarito l'amletico dubbio: "Clarks o mocassini?". E ancora, verrete illuminati sull'"importanza dell'abbinamento aperitivo-bio e musica jazz", nonché su "tutti i vini buoni, i cantautori, teatri, viaggi da citare", e sempre in termini di viaggi due regioni non avranno più segreti grazie al corso di geografia "dettagliato di Toscana e Umbria". Altri temi utili per la formazione: "Pere e formaggio, parliamone" e "le migliori supercazzole da pronunciare per fare colpo al primo approccio". Quindi una lezione su "tutte le parole più impressionanti, quali: Flaubert, sushi, Moleskine e tante altre!". Infine un seminario su "come raggiungere in bicicletta le mostre di fotografia, presentazioni di libri e sale d'essai più scrause dell'intera Ue" e "come mettere in atto la rivoluzione del salotto di casa propria". Il tutto, conclude la locandina, con una "quota d'iscrizione promozionale a 5.000 euro per il primo ciclo di lezioni (Iva esclusa)".

Ebbene sì, siamo radical-chic, scrive Eugenio Scalfari il 10 aprile 2012 su “L’Espresso”. L'etichetta che la destra populista ci affibbia come un insulto, per noi è diventata un motivo d'onore. Perché si riferisce a una cultura laica, eterodossa e ironica. Che guarda a Voltaire, Keynes, Einstein e Roosevelt. Fino a qualche tempo fa per definire un tipo bizzarro e "con la puzza sotto il naso" rispetto alle mode e ai comportamenti altrui si usava la parola snob. Non c'era altro modo e altro termine. Sebbene l'origine di quella parole fosse "sine nobilitate" il significato semantico era cambiato, anzi si era capovolto. Lo snob una sua nobiltà l'aveva: disprezzava l'uomo medio, la cultura tradizionale, i luoghi comuni, l'oleografia del passato. Disprezzava anche i buoni sentimenti o comunque li metteva in gioco. Spesso gli artisti erano definiti snob quando rompevano le regole del consueto. Quello che fu marcato con questo termine con maggiore insistenza degli altri fu Oscar Wilde, un po' per il suo modo di pensare e di scrivere e molto per la sua dichiarata e ostentata omosessualità che gli costò la prigione e l'esilio. Ma anche Dalí, anche Ravel, i surrealisti e molte "avanguardie" furono giudicati esempi di snobismo e perfino Proust, "lo sciocchino del Ritz". Durante il fascismo e la sua cultura muscolare i giornali satirici descrivevano lo snob come un gentleman passatista con le ghette sulle scarpe e il monocolo all'occhio. Adesso però quella definizione è stata sostituita da un'altra: non si dice più snob ma invece radical-chic. Non è un sinonimo, c'è qualche cosa in più ed è una dimensione politica: il radical-chic è di sinistra. Di una certa sinistra. Per guadagnarsi quella definizione deve stupire e spiazzare anzitutto la vera sinistra che, per antica definizione, si identifica con l'ideologia marxista. Togliatti - tanto per dire - non è mai stato neppure lontanamente considerato un radical-chic né Berlinguer, né Amendola o Ingrao. Bertinotti? Lui sì, gli piacciono i salotti, gli piacciono i pullover di cashmere e va spesso in giro con Mario D'Urso che è uno "chic" riconosciuto. Ma i veri radical-chic sono gli amici e i consimili di Camilla Cederna. Dunque stiamo parlando di noi, che fondammo questo giornale 57 anni fa e ne facemmo quello che è ancora oggi, un giornale di ricerca costante della verità, di denuncia delle brutture e delle malformazioni del malgoverno, di difesa dell'etica pubblica e di impegno civile. Accoppiando però, nel linguaggio, nella grafica, nella scelta delle fotografie, una vena di ironia e di autoironia, una leggerezza di stile che nulla doveva avere del sermone da sacrestia. Vedi caso: il partito radicale nacque nelle stanze del "Mondo" e de "l'Espresso" nel 1956, visse sei anni e si sfasciò nel '62. Marco Pannella e i suoi amici, che ne facevano parte, decisero di continuare con lo stesso "logo" del cappello frigio, dandogli però un contenuto più libertario che liberale. I radical-chic sono una definizione coniata dalla destra populista e qualunquista che però ha trovato qualche corrispondenza anche nel marxismo ufficiale. Quando il gruppo de "Il Manifesto" fu espulso dal Pci, c'era contro di loro una vaga ma percepibile aura di puritanesimo luterano contro un'eterodossia che irrideva gli schemi ideologici e amava Lichtenstein, la musica di Schönberg e perfino - perfino - i salotti. Non erano affatto radical-chic quelli del "Manifesto" ma tali li considerò la segreteria del Pci che li buttò fuori. Quanto a cultura i radical-chic sono illuministi e voltairiani, tra i loro personaggi di culto campeggiano Einstein, Keynes e Roosevelt. La definizione di radical-chic all'inizio gli sembrò insultante ma adesso se ne sentono onorati vista la sponda da dove proviene.

Radical choc, scrive Annalena Benini il 15 Aprile 2011 su “Il Foglio”. Alberto Asor Rosa si è sbagliato: pensava di essere a una cena après-concert, in cui ci si ritrova nel proprio ambiente, sicuri di essere compresi nella teorizzazione mondana del colpo di stato. Purtroppo il professore stava sbadatamente scrivendo su un quotidiano, e in questi casi diventa “complicato far capire a chi è fuori dall’ambiente come simili bisogni apparentemente volgari siano assoluti” (lo scriveva Tom Wolfe nel 1970 in “Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”, a proposito della necessità dei rivoluzionari dell’East Side di avere un posto dove andare il fine settimana, in campagna o al mare, di preferenza tutto l’anno, ma necessariamente da metà maggio a metà settembre). L’urgenza di un golpe da salotto è pari, per intensità, almeno all’impresa della ricerca dei domestici (in “Radical Chic” dovevano essere bianchi, per non urtare i sentimenti delle Black Panther durante i party). Sono cose futili e grevi insieme, quindi allarmanti: bisogna pensare intensamente a Mario Missiroli, storico direttore del Corriere della Sera, quando diceva: “In Italia non si potrà mai fare la rivoluzione, perché ci conosciamo tutti”, per non prendere completamente sul serio le incitazioni al golpe contro Silvio Berlusconi di uno scrittore Einaudi. L’idea di avvalersi dei Carabinieri e della Polizia di stato (per congelare le Camere, sospendere tutte le immunità parlamentari e dare alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilire d’autorità nuove regole elettorali), è geniale, perché consente di salire sul cellulare della Polizia e andare alla guerra civile con lo chauffeur, ristabilendo così la più profonda vocazione democratica senza seccature di parcheggio o di tassametro. Ci sarà però il problema di come vestirsi: non si può esagerare con le mise da teatro, troppo frivole, che potrebbero per sbaglio richiamare certe serate berlusconiane, ma non si può nemmeno arrivare vestiti tipo “boccone del povero”, con una qualche orribile accoppiata dolcevita-jeans (data anche l’età veneranda dei golpisti), quindi il consueto abbigliamento accademico è da preferire: un tweed, per esempio, ma se i Carabinieri marciano sul Parlamento dopo mezzogiorno, il tweed è già inadatto. Bisognerà accordarsi per un’ora sobria, ma non da levatacce di operai con le borse sotto gli occhi e cattivi caffè preparati da mogli scarmigliate: le dieci e mezzo del mattino, ecco l’ora perfetta per un golpe, dà un senso di attivismo e di zelo, ma rilassato, un po’ come gli orari delle lezioni all’università. Sarà elettrizzante e romantico (purché a debita distanza dal popolo e dalle provocazioni sulla sovranità dei cittadini e del Parlamento), sarà finalmente una cosa fatta come si deve, senza mezze misure, con la gente giusta, gli sguardi severi, le barbe curate, i baffi bianchi, foto intense nei risvolti di copertina, certi deliziosi cocktail après-golpe. Resta però quel piccolo tarlo, che già impensieriva i radical chic di Tom Wolfe nelle donazioni alle Black Panther: la rivoluzione non è fiscalmente detraibile.

Libri. “Radical Chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista” de La Via Culturale, scrive il 29 aprile 2017 Jaap Stam su "Barbadillo. Il 24 aprile è uscito “Radical Chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista” (ed. La Vela, pp 176, euro 12), l’ultimo libro di Alessandro Catto, blogger su Il Giornale e fondatore del blog “La Via Culturale”. Di seguito pubblichiamo un estratto del libro, che elabora una forte critica verso il pensiero unico. “Populismo, demagogia, fascismo, chiusura mentale, provincialismo: termini che ultimamente vengono utilizzati in maniera dozzinale contro chi cerca di porre un argine al processo di globalizzazione. E’ il paradosso di una democrazia accettata solamente quando corrisponde agli auspici di una classe autodefinita democratica e tollerante ma capace di occupare spazi informativi, tribune politiche e istituzioni in maniera impropria e di impedire un reale e aperto confronto sui rischi del presente. Sono i paradossi di chi, antifascista in assenza di fascismo, in un’astratta idra di internazionalismo del mercato giustifica e promuove le peggiori distorsioni ai processi democratici e ai diritti sociali dei popoli occidentali. In capitoli brevi, ironici e frizzanti si fa luce su un fenomeno, quello liberal, che sta subendo una profonda ridiscussione ma che ancora oggi non è pienamente conosciuto, nemmeno dai suoi contestatori. Il presente volume analizza la nascita, la crescita e lo sviluppo di una sinistra che spesso ha finito con l’adottarne lo stile e i contenuti, astraendosi pure dalla sua missione storica, quella della difesa delle fasce sociali più deboli e del lavoro. Radical Chic è il libro ideale per capire il vero retroterra politico e culturale del pensiero unico politicamente corretto. Dall’istruzione all’economia, dalla storia all’attualità, dalla geopolitica alla cultura, vengono sfatati in modo leggero e divertente tutti i miti pro-global ai quali siamo quotidianamente esposti e le loro pretestuose retoriche, sempre più incapaci di nascondere il distacco tra l’alto e il basso della nostra società, tra chi con il cosmopolitismo imperativo per tutti ci guadagna e chi, ogni giorno, perde diritti, spazi democratici e possibilità di emancipazione a casa propria”.

Ecco “Radical Chic”, il libro contro il pensiero unico politicamente corretto, scrive Alessandro Catto il 3 maggio 2017 su “Il Giornale". Si chiama Radical Chic ed è il nuovo libro de La Via Culturale. Edito dalla casa editrice La Vela, è il libro ideale per capire il vero retroterra politico e culturale del pensiero unico politicamente corretto. Dall’istruzione all’economia, dalla storia all’attualità, dalla geopolitica alla cultura vengono sfatati tutti i miti pro-global ai quali siamo quotidianamente esposti e le loro pretestuose retoriche, sempre più incapaci di nascondere il distacco tra l’alto e il basso della nostra società, tra chi con il cosmopolitismo imperativo per tutti ci guadagna e chi, ogni giorno, perde diritti, spazi democratici e possibilità di emancipazione a casa propria. Populismo, fascismo, chiusura mentale, provincialismo: nel volume si parla anche dell’abuso di questi termini, utilizzati in maniera dozzinale contro chi cerca di porre dei paletti alla retorica della globalizzazione. Il paradosso di una democrazia accettata solamente quando corrisponde agli auspici di una classe autodefinita democratica e tollerante ma capace di occupare spazi informativi, culturali e politici in maniera impropria, impedendo un reale e aperto confronto sui rischi del presente. Nel perenne paravento dell’antifascismo in assenza di fascismo, la storia di una pseudosinistra che spesso ha finito con l’astrarsi pure dalla sua missione storica, quella della difesa delle fasce sociali più deboli e del lavoro. Un libro di 170 pagine suddiviso in brevi e frizzanti capitoletti, di facile lettura e privo di approcci accademici o troppo complessi, fruibile da tutti e capace di fare veramente luce su di un fenomeno, quello liberal e politically correct, così importante nel presente dell’Europa ma ancora poco conosciuto, soprattutto da chi tenta di costruire una alternativa.

Quei radical chic della sinistra da salotto schierati dalla parte dei tassisti del mare…, scrive Franco Busalacchi il 2 maggio 2017 su "I Nuovi Vespri". Sarà perché mio nonno fu assassinato da un fascista, sarà perché mio zio ha fatto la resistenza in Lombardia con in tasca la tessera del PCI firmata da Palmiro Togliatti, ma io a questi nipotini di Bertinotti li manderei tutti, prima dell’alba, a raccogliere pomodoro nelle serre e nei campi in sostituzione di quei migranti il cui arrivo è per loro una benedizione. Sarà perché mio nonno fu assassinato da un fascista e mio zio (suo figlio) fece la Resistenza, muovendosi per tutta la Lombardia con in tasca una tessera del Partito comunista datata 1943, firmata da Palmiro Togliatti e rinnovata nei due anni successivi, rischiando di essere fucilato sul posto se l’avessero beccato; sarà per la conseguente aura che si è respirata sempre in casa mia, ma quando io sento uno di questi nostri comunisti con la barca e la erre moscia, mi incazzo come un animale. Tutti questi radical chic, nipotini di Bertinotti, il quale ancora, tra una rivoluzione in salotto e un’altra, percepisce una cospicua, aggiuntiva indennità come ex Presidente della Camera dei deputati, io li porterei una bella mattina, prima dell’alba, a raccogliere pomodoro nelle serre e nei campi in sostituzione di quei migranti il cui arrivo è per loro una benedizione. Sepolcri imbiancati che fanno del buonismo a buon mercato una bandiera con la quale coprono la loro ipocrisia. Tutti dalla parte dei tassisti del mare che speculano sulle disgrazie altrui. A questo si è ridotto il messaggio del Sol dell’avvenir: “Impossibilitati fare rivoluzione per mancanza tempo, auspichiamo e ribadiamo… Ci vediamo stasera da Giangi”. Ve li immaginate questi manichini azzimati capeggiare una sfilata (non una marcia, ovviamente) contro la Beretta, la Agusta, la Oto Melara, gruppi economici che vendono armi a quelli che sparano sulle popolazioni che sono costrette lasciare i loro Paesi? Per carità! Troppo complicato. “Primavera d’intorno brilla nell’atria e per li vampi esulta. E’ tempo di granite e di brioscine. Al bar si pontifica meglio davanti ad un Cuba libre ornato di un parasole in miniatura.

Se li sentisse Lèon Bloy!

Quel razzismo immaginario dei radical-chic. L’escalation della cacciata degli italiani è talmente evidente che i buonisti replicano solo con la solita accusa ad minchiam di razzismo, scrive Ennio Castiglioni il 28 Aprile 2017 su "Il Populista". Pascale Bruckner ci ha spiegato come esista un “razzismo immaginario”. Per soffocare la libertà, il dibattito si grida subito al razzismo e si trascinano le persone in tribunale come nei regimi totalitari. I Governi e le multinazionali ci vogliono così nascondere come sia in atto un piano per modificare profondamente l’occidente e far sparire gli italiani. Se vi sembra poco…Mentre dalla Libia, dove ci sarebbero tra 700mila e un milione di migranti, continua l’invasione con ben 37mila arrivi nei mesi più freddi dell’anno, il Governo con grande solerzia prepara l’accoglienza. È scritto a chiare lettere nel DEF (Documento di economia e finanza) 2016 l’intento di favorire, piuttosto che arrestare questo esodo mirato. Si cerca di reperire le risorse necessarie a sostenere un flusso migratorio di circa 310mila unità, con un profilo crescente per i prossimi 15 anni. L’escalation della cacciata degli italiani è talmente evidente che si può replicare solo con la solita accusa ad minchiam di razzismo. Se nel 1994 gli immigrati regolari erano 500mila, nel 2016 sono oltre 5 milioni e si vuole consentire l’ingresso ad altri 310mila all’anno per i prossimi 15 anni, nel 2031 ci saranno quasi 10 milioni di immigrati, il 17% della popolazione, mentre chi avesse la fortuna (o la sfiga) di campare fino al 2065 vivrà in un’Italia dove uno su tre sarà immigrato. Ormai le navi delle varie Ong non si limitano più al salvataggio in mare, ma si spingono nelle acque libiche dove regolarmente prelevano i migranti per trasportali sulle coste italiane. Il tutto con la complicità dei canali di informazione ufficiali e con un Governo che si guarda bene dal mobilitare la Marina Militare o la Guardia Costiera. Molti politici italiani, mentre si fingono commossi di fronte alle immagini di morte nel Canale di Sicilia continuano ad essere al servizio delle multinazionali, che versano enormi somme di denaro alle loro Fondazioni. Queste immense società dove il profitto e la speculazione finanziaria hanno ormai oscurato la figura dell’uomo e cancellato ogni questione morale, necessitano di un costante apporto di manodopera a basso costo, di giovani braccia da sfruttare. Se diamo un’occhiata oltre Oceano vediamo ben 97 società del settore tech, Apple, Google, Facebook, Microsoft, Netflix, Snap e così via, che hanno chiesto ai tribunali di bloccare l’esecuzione dei decreti presidenziali, voluti da Donald Trump, per regolare l’immigrazione. Avrebbero potuto avanzare al grido “Non toglieteci gli schiavi!” L’Italia, se non dovesse accadere qualcosa, ad esempio un Governo a guida Salvini, diventerà ben presto un Paese di braccianti africani, di religione islamica, da utilizzare per pochi euro all’ora. Chi dice questo viene accusato di essere uno sporco razzista? Beh, francamente, con la posta in gioco, chi se ne frega!

L’ITALIA DELLE MENZOGNE.

Menzogna e Autoinganno, scrive Igor Vitale il 7 aprile 2015. Nella pratica della menzogna, il mentire a se stessi appare certamente come quella più singolare, tanto che il dibattito sul perché questo accada ha appassionato, e appassiona tuttora, psicoanalisti e psicologi sperimentali, i quali hanno cercato di spiegare questo fenomeno da diversi punti di vista. “L’autoinganno è in primo luogo uno stato nel quale si determina una divergenza tra ciò che il soggetto che mente sa, sia pure a livello inconsapevole, e ciò che egli riconosce” Ciò che crea più sconcerto di tale meccanismo è che “impone di accettare il fatto che una persona creda allo stesso tempo ad una proposizione e alla proposizione che la nega” (De Cataldo Neuberger, Gulotta). Secondo la definizione di menzogna data da Anolli e riportata al paragrafo 1.1, infatti, per mentire a se stessi si va incontro ad un doppio paradosso:

a) “il paradosso statico, poiché un soggetto inganna se stesso soltanto se egli crede e accetta sia p (falso) sia non-p (vero);

b) il paradosso dinamico, poiché il soggetto che si autoinganna ha l’intenzione di inventare una falsa credenza per se stesso che conosce il vero”.

Più semplicemente, il soggetto è contemporaneamente ingannatore e ingannato. Il modello della teoria della scelta razionale risolve questi paradossi partendo dall’assunto che gli individui sono spinti ad abbracciare la scelta che assicura loro il grado più elevato di utilità attesa. L’autoinganno, pertanto, deriva da una debolezza del controllo cognitivo in quanto chi lo pratica non prende in considerazioni le motivazioni più valide, ma quelle maggiormente funzionali a raggiungere i propri scopi e desideri. Anche secondo Freud “l’io inganna se stesso quando fa prevalere il principio di piacere sul principio di realtà”. Ciò che ne consegue è che l’individuo preferisce evitare, consapevolmente o meno, una condizione spiacevole e sceglie pertanto l’informazione menzognera p piuttosto che accettare l’informazione vera non-p. Per fare questo, però, la persona deve ricorrere ad una distorsione del processo di elaborazione delle informazioni e trasformare le proprie credenze e opinioni. Secondo Nardone, il processo di distorsione inizia, ancora prima che nella nostra mente, nelle nostre percezioni in quanto i sensi deformano la realtà già nel momento in cui la percepiamo. Non solo: le percezioni vengono a loro volta influenzate in modo rilevante dagli stati d’animo in cui versiamo nel momento in cui le avvertiamo, ma, al contempo, le reazioni emotive sono innescate dalle percezioni stesse. Ecco allora che il nostro organismo fa sì che le nostre reazioni emotive siano veicolate da qualcosa che non corrisponde al vero, ma che è l’effetto dell’influenza reciproca tra ciò che viene sentito e colui che sente con le proprie caratteristiche funzionali. Pertanto mentire a sé stessi è il risultato di percezioni ambigue e ingannevoli o di emozioni contrastate e imprecise.

Mentire a se stessi con la memoria. Per quanto riguarda l’ambito cognitivo, il primo aspetto del mentire a se stessi riguarda la memoria, che, soprattutto quando si tratta di ricostruire il nostro vissuto e le nostre esperienze, il più delle volte risulta falsata o artefatta a causa dello stato emotivo del soggetto, delle sue credenze e delle sue dinamiche relazionali. Alcuni studi hanno rintracciato tre particolari “propensioni” o bias nella ricostruzione e revisione della nostra storia personale, tutti e tre riconducibili ad una funzione dell’Io intesa come organizzazione della conoscenza al servizio della percezione e del ricordo. Si tratta di:

1. egocentrismo, ovvero assegnarsi una funzione più rilevante rispetto a un evento passato di quanto sia stato realmente. L’autoreferenzialità della nostra memoria è un esempio del bias di egocentrismo: tutti noi tendiamo a ricordare gli eventi ponendoci in una posizione centrale;

2. beneffectance, cioè il percepirsi come responsabili dei risultati desiderabili, ma non di quelli indesiderabili. Studi condotti sulla beneffectance hanno dimostrato come, nello svolgere lavori di gruppo, le persone tendano a credere di aver contribuito in maniera determinante in caso di successo del gruppo, mentre sono portati a sminuire il proprio ruolo in caso di insuccesso. “Una spiegazione […] a questo fenomeno sembra essere che il considerarsi responsabile dei successi e non degli insuccessi sia un meccanismo adattivo che serve a mantenere o migliorare la propria autostima”.

3. conservatorismo, vale a dire la resistenza ai cambiamenti cognitivi come, ad esempio, non cambiare una situazione perché riteniamo erroneamente che le modifiche proposte possano danneggiarci. Il conservatorismo cognitivo serve a preservare strutture di conoscenza preesistenti quali schemi mentali e ricordi. Sono legati al conservatorismo due sottotipi di bias molto importanti: il confirmation bias, o “bias di conferma”, e il rewriting of memory, o “riscrittura del ricordo”.

Con il primo le persone mettono in atto una selezione dei dati che confermano dei giudizi preesistenti nella loro mente. Significa che le persone tendono a cercare indizi che confortano le loro credenze in maniera selettiva, arrivando spesso ad ignorare informazioni anche molto rilevanti. Per “riscrittura del ricordo” si intende quel fenomeno per il quale le persone tendono a riscrivere o a creare dal nulla i proprio ricordi qualora gli vengano passate delle informazioni di cui prima non erano a conoscenza. Dato che percezioni, emozioni e cognizioni sono il frutto di un autoinganno, non possono essere da meno le nostre azioni, le quali, il più delle volte, si basano su dei meccanismi, sempre di autoinganno, il cui ruolo è quello di mantenere il nostro equilibrio fisiologico, psicologico e relazionale. “Freud ci conferma che l’uomo ricorre all’autoinganno per nascondere a se stesso verità e realtà che non avrebbe altrimenti la forza di affrontare. L’autoinganno è, più precisamente, per Freud un meccanismo difensivo mediante il quale l’io si protegge da pulsioni che non è in grado di tenere sotto controllo. Ogni soggetto umano, secondo Freud, utilizza, senza rendersene conto, una serie di meccanismi di difesa […] che mettono l’io al riparo da verità inquietanti, spiacevoli o socialmente disdicevoli, ma il cui prezzo è la falsificazione dell’immagine si sé. I meccanismi difensivi dell’io attenuano per Freud la fatica quotidiana del vivere, contribuendo a sfuggire a sensazioni spiacevoli e ad esperienze di dolore”.

Mentire a se stessi con il comportamento. Gli autoinganni comportamentali spesso sono delle sequenze di comportamenti avviati dal nostro mentire a noi stessi che procedono secondo una logica rigorosa per perseguire un risultato finale. Le forme di autoinganno sono per lo più benefiche, ma se messe in atto in maniera esasperata diventano negative e controproducenti. In altre parole, ciò che prima era funzionale ad uno scopo produce effetti contrari a quelli desiderati. Anche Freud conferma questa tendenza asserendo che “a volte i meccanismi di difesa sono talvolta talmente complicati e a loro volta spiacevoli, da diventare meccanismi patogeni che danno luogo a psiconevrosi”.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell'Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

Il fascismo secondo Giampaolo Pansa. Intervista pubblicata su Il Messaggero di Federico Guiglia. All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino. “Ma quel grido lo sentivo di continuo”, ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. “Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato”, riprende il filo del discorso. “Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo”.

“Il nero nacque dal rosso” è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al suo - suo di Pansa -, edicolante citato in prefazione). Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

“Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte”.

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

“A ogni azione corrisponde una reazione. E’ quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto su loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. E’ un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia”.

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

“La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. E’ proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana”.

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

“Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato “Il Sangue dei vinti”, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea - poi pubblicata da Laterza - sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per De Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui”.

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

“Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte”.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (Scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

"Le menzogne sulla Storia? Ci fanno sentire rassicurati". Cercas racconta le vicende di un impostore che si finse per anni superstite dei lager. Un grande libro sul rapporto tra mistificazione e verità nella memoria collettiva, scrive Stefania Vitulli su "Il Giornale”. Persino quando ha accettato di collaborare con Javier Cercas per scrivere la verità su di sé, Enric Marco si è lasciato andare a qualche menzogna. L'impostore (Guanda, pagg. 406, euro 20), appena uscito in Italia, è l'ultimo romanzo dello scrittore catalano autore de Soldati di Salamina e racconta appunto la storia «vera» di questo mentitore professionista. Marco, oggi novantenne, rifece il trucco alla sua vita quando ancora il costruirsi un alter ego era un'operazione più simile a quella delle spie internazionali che dell'uomo comune che si crea un falso profilo Facebook. Secondo il curriculum che si era inventato, era stato combattente antifascista, oppositore della dittatura di Franco, deportato nel campo di concentramento di Flossenbuerg e quindi, a ottant'anni suonati, detentore della carica di presidente degli Amical de Mauthausen, la più importante associazione spagnola di sopravvissuti ai campi nazisti. Ma il super partigiano era un super ciarlatano e lo scandalo lo colpì appena prima che pronunciasse, appunto a Mathausen, il discorso per i 60 anni dalla Liberazione. Lo studioso che lo smascherò riuscì a dimostrare che non si era cucito addosso solo il campo, ma tutta la Resistenza. Tuttavia è il libro di Cercas (al Festivaletteratura di Mantova domani, ore 18.30 e domenica, ore 15) che, con l'aiuto di questo narciso istrione, demolisce il falso mito frase per frase, icona per icona, in modo così «umano» che immedesimarsi in Marco è un attimo e altrettanto facile infuriarsi con se stessi subito dopo.

Può provare in poche parole a descrivere Enric Marco a chi non lo conosce?

«È una bugia che cammina. Un uomo che ha fatto della sua vita un plagio, dal principio alla fine e che ha continuato per anni a ingannare tutto il mondo. Mario Vargas Llosa lo ha chiamato il più grande impostore della storia e credo abbia ragione».

È un personaggio che ama o che odia?

«Né uno né l'altro. Ho cercato di capirlo - non di giustificarlo - e di presentare il suo caso in tutta la sua infinita complessità. È questo il dovere dello scrittore, verso i suoi personaggi, reali o immaginari che siano».

A chi si è ispirato?

«A nessuno. Marco è così reale che questo è un “romanzo senza finzione”. E lo è perché Marco stesso è una finzione. Sarebbe stato ridondante, e anche letterariamente irrilevante, scrivere una fiction su una fiction. Ho scritto un “racconto reale”, un romanzo in cui verità e menzogna, finzione e realtà combattono un duello mortale».

C'è mai un alibi valido per la menzogna?

«Supponiamo che lei venga a casa mia e mi racconti che un assassino la perseguita. Supponiamo che io le dia asilo. Supponiamo che l'assassino bussi alla mia porta e mi chieda se lei si trova da me. Ecco, in questo caso io ho il diritto - fors'anche il dovere - di mentire. L'esempio è di Benjamin Constant, ma il costrutto famoso è di Kant, che diceva che nemmeno in questo caso si ha diritto a mentire. Nessuno è perfetto».

L'impostore sembra anche un romanzo sui ricordi, sulla memoria. C'è un filo rosso con Soldati di Salamina.

«È come se fosse il negativo di Soldati di Salamina. Soldati parla della necessità di disseppellire il passato repubblicano e assumerlo come proprio. L'impostore della necessità di dissotterrarlo bene, nel modo giusto, di non falsificarlo falsificando noi stessi. Soldati parla di un vero eroe, che dice: No, non me ne vanterò mai. L'impostore di un falso eroe, che si vanta di aver detto No».

Con i suoi romanzi traccia una storia della Spagna del Novecento. Ma a volte sembra quasi che per lei sia più importante usare questa Storia per fondare le basi di una «memoria consapevole».

«Partendo dal presupposto che i miei romanzi non trattano di questioni locali, ma universali, come qualsiasi letteratura degna di questo nome, è vero che a volte racconto una specie di storia alternativa del mio paese. Ma non si tratta di un progetto cosciente, premeditato. Semplicemente mi è accaduto a un tratto di comprendere che il passato è una dimensione senza la quale il presente risulta incomprensibile, che la collettività è una dimensione senza la quale l'individuo risulta indecifrabile. E a proposito della memoria consapevole, è vero soprattutto per L'impostore che vuole contenere tutto il bene e tutto il male della memoria. Le sue trappole, i suoi miraggi. Le sue fragilità e il suo potere ricattatorio».

Il dolore di una vittima potrà mai trovare consolazione nelle giustificazioni di un carnefice?

«No, impossibile. E per questo le vittime non sono obbligate ad ascoltare i boia. Però noi sì. Perché è l'unica forma efficace di lotta contro di loro. Proprio se non siamo vittime dobbiamo dare ai carnefici la nostra attenzione. Anche se è dura».

Quante sono oggi in Spagna o anche in Europa le persone come Enric Marco?

«Non lo so. Però scrivendo il libro ho scoperto una cosa: agli esseri umani la verità non piace, specie se si tratta di verità come quelle sul nazismo o sul franchismo. Ci piacciono le menzogne. Il mondo ha creduto a Marco perché diceva quello che vogliamo sentire. Bugie. Bugie romantiche, sdolcinate, manichee, edulcorate e tranquillizzanti. Come tutte le bugie».

Le grandi bugie.

La Grande guerra e la rivoluzione proletaria. I sindacalisti rivoluzionari dal neutralismo all’interventismo, scrive Fabio Polese su "Il Giornale". Un saggio di Stefano Fabei ricostruisce, a distanza di un secolo, il confronto culturale e dottrinale dei sindacalisti soreliani in occasione dello scontro tra interventisti e neutralisti e rappresenta la clamorosa fine di due miti – quello pacifista e quello internazionalista – che sembravano intramontabili nel sindacalismo rivoluzionario italiano. Da quest’ultimo, che fu l’anima dell’interventismo rivoluzionario, ebbero inizio le turbolenze di un dopoguerra, fatto di sovversivismo e richiami all’ordine, da cui partirono sia il fascismo sia l’antifascismo. Ne La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (in Edibus, 18.00 €) Fabei rappresenta l’alta tensione ideologica di allora e offre un quadro finalmente completo delle sfumature di pensiero e dei vari comportamenti di quei sindacalisti (da Filippo Corridoni ai fratelli De Ambris, da Angelo Oliviero Olivetti a Sergio Panunzio, da Paolo Orano a Edmondo Rossoni e Michele Bianchi, tanto per citare i più noti) che non solo dettero scandalo aderendo alle ragioni della nazione mostrandosi consapevoli di come si potesse essere al contempo nazionalisti e rivoluzionari, ma videro nella la guerra qualcosa di pedagogico, di esaltante e di fortemente sovversivo: imparando a fare la guerra, i lavoratori italiani, delle industrie e delle campagne, avrebbero imparato a fare la rivoluzione. Per un eccesso di entusiasmo e forse per la troppa ingenuità, gli «anarco-sindacalisti» non compresero – ma come avrebbero potuto farlo? – che la loro visione di un autogoverno delle categorie, di una società organizzata in termini sindacali, con una limitata entità politica suprema e molta responsabilità di categoria sarebbe stata cancellata dopo la guerra, quando lo Stato dimostrò come il peso accumulato durante il conflitto, inserendosi profondamente nel tessuto economico, non sarebbe stato abbandonato, anzi. Il Fascismo, nel quale molti sindacalisti rivoluzionari interventisti confluirono, spesso con un significativo apporto sul piano organizzativo e dottrinario, non avrebbe infatti trovato ostacoli nell’affermare, in contrasto con le loro premesse iniziali, un ruolo dello Stato che andava ben oltre il peso del Partito fascista e dei sindacati, trasformati in organismi di diritto pubblico. Fabei giustamente rappresenta il contesto in cui operarono quei sindacalisti che non potevano prevedere gli sbocchi del loro pensiero e delle battaglie da essi combattute prima e durante la guerra. Il secondo semestre del 1914 e i primi mesi del 1915 furono, d’altra parte, un periodo in cui il movimento rivoluzionario in Italia visse uno stato di crisi, dottrinaria, morale e politica, dopo una precedente fase di consolidamento dimostrato, tra il 1912 e il 1914, dall’accresciuto numero di militanti e di consensi attorno alle tesi dei leader più intransigenti della sinistra, come Mussolini, pure lui protagonista di una parallela, e per certi aspetti simile, evoluzione. Scoppiato il conflitto, messi in discussione importanti cardini ideologici, come il pacifismo e l’internazionalismo, peraltro falliti per le scelte compiute dai compagni francesi, austriaci e tedeschi, i nostri sindacalisti soreliani si convinsero che la guerra potesse offrire non soltanto una lezione di pedagogia eroica e rivoluzionaria al proletariato italiano, ma creare, attraverso la sconfitta degli imperi germanico e austro-ungarico, baluardi della reazione e della conservazione, i presupposti per fondare una società più libera e giusta, con al centro il lavoro. Dotato di un’introduzione di Giuseppe Parlato, quello di Fabei è un libro avvincente per la leggibilità e al tempo stesso specialistico; un saggio interessante, data l'originalità dei contenuti, per chi vuole conoscere la storia nazionale dalla vigilia della Prima guerra mondiale alle origini del fascismo.

Rabbia e armi nascoste Così il Pci voleva fermare la democrazia. Molti partigiani non accettarono la vittoria della Dc. La guerra civile non scoppiò solo perché Stalin si oppose, scrive Giampaolo Pansa su "Il Giornale". La guerra civile, in apparenza finita nell'aprile del 1945, non si era affatto spenta. I delitti politici continuavano impuniti. Avevano quasi sempre mandanti ed esecutori di un solo colore: il rosso. Tra i partiti ritornati sulla scena, il Pci era l'unico in grado di dettare legge dovunque. A renderlo forte, e in tanti casi prepotente, provvedeva la rabbia di molti partigiani scontenti per come si era conclusa la Resistenza. Spirava un vento di delusione irosa che sosteneva la necessità di un secondo tempo della guerra interna, questa volta con un obiettivo radicale: la conquista del potere in Italia. Tante bande delle Garibaldi si erano rifiutate di consegnare le armi alle autorità militari inglesi e americane. Nell'Italia settentrionale e centrale stava crescendo il numero degli arsenali clandestini. Tra il 1945 e il 1946 molti depositi venivano scoperti dalle forze dell'ordine, ma era sempre poca cosa rispetto a quelli esistenti. La voglia di una vittoria definitiva divideva persino un partito in apparenza monolitico come il Pci. Anche un leader dal grande carisma come Palmiro Togliatti era costretto a non decidere nulla a causa dell'opposizione di un'ala estremista che sosteneva la necessità di una resa dei conti con gli angloamericani. E di conseguenza con i partiti moderati. Prima fra tutti la Democrazia cristiana. Guidata da un personaggio che la sinistra odiava: Alcide De Gasperi. Dipinto come un servo del capitalismo e un lacchè del Vaticano. L'Italia del triennio 1945-1947 era davvero un'Italiaccia, un Paese sottosopra. Dove poteva accadere di tutto. Persino che qualche gruppo di giovani reduci della Repubblica sociale cercasse di vendicarsi della sconfitta patita e delle angherie che stavano soffrendo per mano dei partigiani rossi. Erano tentativi modesti e destinati a fallire. Ma dimostravano una realtà che pochi erano capaci di vedere: se Mussolini era un cadavere appeso a piazzale Loreto, chi aveva creduto in lui non era scomparso. Nel frattempo la società italiana cambiava, e non sempre in peggio. Dopo aver ottenuto il diritto di votare, nel 1946 le donne si erano presentate in massa alle elezioni per l'Assemblea costituente e nel referendum per la scelta tra monarchia e repubblica. E avrebbero fatto sentire il loro peso nelle prime consultazioni politiche del dopoguerra: quelle del 18 aprile 1948. Fu un passaggio cruciale per la giovane democrazia italiana. Ma anche un azzardo per la Dc e le altre forze moderate che si opponevano al Fronte democratico popolare, l'alleanza fra i comunisti e i socialisti. Una volta superato questo muro, l'Italiaccia si trovò in grado di intraprendere la strada che le avrebbe consentito di diventare un Paese normale. Da quel momento sono trascorsi sessantasette anni. Anche quanti allora erano ragazzi, come nel mio caso, non rammentano più che il 1948 fu ancora un'epoca di guerra. Le condizioni del Paese restavano quelle precarie che ho descritto. Imperava sempre il mercato nero. Vigeva il razionamento per il pane, la carne, la pasta, il latte. Non tutti erano in grado di mettere insieme il pranzo con la cena. Tre anni dopo la fine della guerra, risultarono essenziali gli aiuti alimentari inviati dagli Stati Uniti per favorire la vittoria dello Scudo crociato.

Li ricordo anch'io quei pacchi che ci venivano recapitati a casa. Mia madre non li ha mai respinti. Diceva: «Gli americani ci tirano su il morale chiedendoci soltanto di non votare per i comunisti e i socialisti fedeli a Stalin. Per quello che mi riguarda, ho già deciso: non darò mai una mano al Fronte popolare!». La mamma accettò anche un taglio di stoffa con la cimasa tricolore. E mi confezionò un cappotto marrone. Era un colore che odiavo, ma il tessuto made in Usa si rivelò ottimo e mi tenne caldo per tre inverni. Nella primavera del 1948, mentre il Fronte popolare era sicuro di vincere, la Democrazia cristiana temeva di perdere. In un santuario del Monferrato, De Gasperi incontrò il ministro degli Esteri francese, Georges Bidault, e gli presentò una richiesta che da sola testimoniava l'asprezza dello scontro. E ottenne che, in caso di sconfitta della Dc, la Francia avrebbe accolto come rifugiati politici tutti i dirigenti del suo partito, famiglie comprese. Come era accaduto nel 1946 per l'elezione dell'Assemblea costituente, pure nelle consultazioni del 18 aprile si rivelò decisivo il voto delle donne. Furono le protagoniste della rinascita dopo la guerra. Anche nella vita delle famiglie e nei rapporti di coppia, le loro decisioni prevalevano sempre più spesso su quelle dei maschi. Era una novità sconvolgente che non venne subito compresa. Ma cambiò abitudini e atteggiamenti rimasti gli stessi per secoli. A cominciare dai rapporti sessuali. Per molti uomini fu uno choc scoprire che persino a letto le donne volevano avere l'ultima parola. Il 18 aprile lo Scudo crociato stravinse. De Gasperi rimase alla guida del governo. E fu in grado di superare anche il trauma dell'attentato a Togliatti. Il 14 luglio 1948 poteva segnare l'inizio di una nuova guerra civile. Ma il vertice del Pci sapeva bene che un'insurrezione rossa non era possibile. Lo aveva già spiegato Giuseppe Stalin a Pietro Secchia, il leader dell'ala militarista del partito. Andato a Mosca per incontrare il nuovo zar, quel biellese secco, dal volto sparuto, sempre con i capelli in disordine e l'abito stazzonato, tornò a mani vuote. Il compagno Stalin gli confermò che in Italia la rivoluzione proletaria era nient'altro che un'illusione.

"L’italiaccia senza pace" di Pansa. Delitti politici rimasti senza colpevoli. Pugno di ferro sui fascisti sconfitti. Reduci di Salò che si vendicano. Fanatismi barbarici. Partiti divisi dall’odio. Il potere crescente delle donne, imposto anche nelle storie di sesso. Misteri ed enigmi che diventano incubi. Il primo dopoguerra italiano è stato tutto questo. Un inferno durato tre anni, sino alle elezioni del 18 aprile 1948 e all’attentato a Palmiro Togliatti subito dopo il trionfo di Alcide De Gasperi sul Fronte popolare rosso. Da allora sono trascorsi tanti anni e quasi nessuno rammenta quel tempo feroce. Ma Giampaolo Pansa l’ha vissuto con lo sguardo attento di un ragazzino curioso. E non l’ha dimenticato. Lui ha una tesi: l’Italia di questo 2015 è ancora figlia del primo dopoguerra, dei vizi e delle faziosità che lo inquinavano. Allora i comunisti sognavano di fare un colpo di Stato. Adesso i reduci del Pci rimasti sulla piazza hanno scoperto degli alleati imprevisti: i movimenti che vogliono il nostro distacco dall’Europa. Gli italiani di oggi sono più in frantumi degli italiani di allora. I partiti soffrono di un discredito che nel dopoguerra affiorava già, ma non li paralizzava. Purtroppo non abbiamo un De Gasperi che ci guidi verso una nuova rinascita. Siamo vittime di paure più cattive di quelle che fra il 1945 e il 1948 devastavano i sonni di un paese che aveva ben poco da perdere. Mentre oggi abbiamo il terrore di perdere tutto e di ricadere nella povertà. È questa convinzione che ha spinto Pansa a creare un affresco dal titolo ruvido: L’Italiaccia senza pace. Perché Italiaccia? Perché nel primo dopoguerra eravamo una nazione sottosopra, incapace di ritrovare una condizione di normalità e rapporti umani non inquinati dalla violenza. Si sente dire che il passato annoia, ma di certo non quello narrato da Pansa. Questo suo libro è un’incalzante sfilata di vicende osservate dal basso, dove il privato di tanti protagonisti diventa la spia di un’epoca senza misericordia. L’autore ha scovato nella propria memoria le sequenze di un dramma che nasce da un enigma: chi ha consegnato ai tedeschi l’ebreo Samuele Segre, un direttore di banca ucciso ad Auschwitz? La verità si scoprirà nelle ultime pagine dell’Italiaccia senza pace.

Case, scuole e ospedali distrutti tra strade e ferrovie bloccate Le aziende stentavano a riprendere fiato e a dare stipendi, scrive Mario Bernardi Guardi su “Il Tempo”. Un’"Italiaccia" quella tra il '45 e il '48? Con ogni possibile carità di patria e umana comprensione, siamo d'accordo con Giampaolo Pansa che nel suo ultimo libro la chiama così, raccontando misteri, amori e delitti di un affannato dopoguerra («L'Italiaccia senza pace», Rizzoli, pp. 351, euro 20). Un’"Italiaccia". Dove, dopo cinque anni di guerra, non si riesce a ritrovare "una condizione di normalità, un modo di vivere tranquillo, rapporti non inquinati dalla violenza, notti prive di incubi". Povera "Italiaccia"! Macerie e ammassi di rottami dappertutto. Case, scuole, strutture ospedaliere in gran parte distrutte. Strade, ponti, viadotti, linee ferroviarie spesso non utilizzabili. Aziende che stentano a riprendere fiato. Criminalità politica e delinquenza comune imperversanti. Malattie già sconfitte - come la tubercolosi e la scabbia - che celebrano il loro inquietante ritorno. Prostituzione trionfante. Metropoli, a cominciare da Napoli - raccontata da Malaparte nella "Pelle" con feroce iperrealismo - e trasformate in bordelli a cielo aperto. Povera Italia, poveri corpi, poveri cuori. Malandati, malati, avvelenati. Guerra e guerra civile hanno scatenato le loro furie e se, da una parte, c’è una disperata voglia di dimenticare, dall’altra odi, rancori e desideri di vendetta covano uova di serpente. Pietà l’è morta e continua a morire. Lo sa bene Pansa che sul "Sangue dei vinti", a partire dal libro che reca proprio questo titolo, ha scritto più volte. E più volte ha ricordato i volumi dedicati da Giorgio Pisanò alla guerra civile, con il terribile contrassegno "sangue chiama sangue". Una spirale perversa. I vinti non dimenticano i loro morti. E certe volte, per trovare consolazione, non basta attingere all’archivio della memoria. Bisogna colpire. Così, in una storia raccontata nell’"Italiaccia", c’è un vinto, Luigi, un giovane fascista già sottotenente della Divisione San Marco, che si trasforma in spietato killer, facendo fuori, uno dopo l’altro, e con un misterioso rituale (a ognuno degli assassinati viene messa una mela in bocca), cinque partigiani della "Garibaldi", responsabili dello stupro e della morte di sua madre. Un evento atroce cui aveva fatto seguito il suicidio del padre. Il quale, capitano dell’esercito repubblicano, impegnato sulla frontiera orientale a combattere contro i partigiani di Tito, si era sentito in colpa per non essersi trovato accanto alla moglie e non averla protetta. Tante le storie di quell’Italia sotto sopra e senza pace. Pansa le racconta intrecciandole a quelle di una famiglia ebrea, i Segre Foà, ben radicata nella cittadina piemontese (Casale Monferrato, la "piccola patria" dell’Autore, microcosmo "esemplare" da cui leggere la più vasta storia del Novecento italiano), fino alla proclamazione delle leggi razziali. Allorché, tutt’a un tratto, Samuele, direttore della filiale del Credito Italiano ed Elisa, professoressa di lettere, diventano corpi estranei alla comunità. Peggio: nemici. Guerra e persecuzione razziale infuriano: Samuele ed Elisa, insieme ai loro figli, abbandonano Casale e cercano scampo. Lui morirà ad Auschwitz; lei e i figli torneranno alla loro cittadina, ma come chiusi in una bolla d’aria che li separa dagli altri. Perché se, quando sono stati costretti ad andarsene, la stragrande maggioranza ha fatto finta di non vedere, per non essere compromessa, adesso la solita maggioranza è come disturbata da questi inattesi "spettri": che cosa vogliono? Che cosa pretendono? Quali sofferenze "in più" hanno da esibire rispetto a quelle patite da tutti gli altri? Sarà dura farsi capire e rispettare, senza chiedere elemosine di affetti. Ecco, dal ’45 al ’48, Elisa, i suoi figli, i nuovi amici "seguono" per noi e ci raccontano, dall’osservatorio della piccola città, le vicende dell’Italia nuova. Grava su loro il peso di quello che non si può dimenticare. E che rende complessa la loro "umanità". Appartengono, senza dubbio, alle schiere dei vincitori, ma sono anche dei vinti: nella memoria hanno ferite che non si rimarginano e l’istinto parrebbe invocare in certi momenti decisioni "forti". Nel nome di quel "sangue chiama sangue" che ha ispirato le vendette di Luigi, il giovane fascista "giustiziere". E tuttavia la storia corre, si compiono scelte pubbliche e private, si ragiona sulle idee e sui fatti, si ama e si odia all’insegna di nuove passioni. E si ride e si piange, e la carne, con i suoi appetiti, grida in tutti i modi e imbandisce vicende bollenti, mescolandole alla voglia di tenerezza. Intanto, il lettore "ripassa": il piano Marshall, il Fronte Popolare, la vittoria DC nell’aprile del ’48, l’attentato a Togliatti… "Quante storia, quante facce nella memoria, tanto di tutto, tanto di niente, le memorie di tanta gente", per dirla con le parole di una canzone scritta dall’ex- repubblichino Mario Castellacci per la mitica Gabriella Ferri! E allora ascoltiamo. Impariamo ad ascoltarlo, il tempo.

Quelli che... «il Migliore» era un democratico (solo un po' stalinista). La storia non ha fatto sconti al leader comunista, gli storici invece sì: infatti cercano di rivalutarlo, scrive Giampietro Berti Mercoledì 20/08/2014 su "Il Giornale. Il 21 agosto di cinquant'anni fa moriva a Yalta (Crimea) Palmiro Togliatti, figura primaria del comunismo italiano e internazionale. Se ci si domanda cosa rimane oggi della sua opera, non si può che rispondere in modo negativo. Naturalmente siamo ben lontani da sottovalutare la sua importanza storica, ma essa non presenta alcunché di benefico e di positivo. È stupefacente perciò osservare che, dopo il catastrofico fallimento del comunismo, fallimento a cui anche Togliatti ha dato il suo peculiare contributo, vi sia ancora da parte di alcuni studiosi l'ostinata volontà di rivalutarne il pensiero e l'azione, attivando verso di lui una sorta di storicismo giustificazionista. Non ci interessa demonizzare la figura di Togliatti, però non possiamo non contestare l'esito di questa operazione, che si risolve, per quanto riguarda la seconda parte della sua vita, nell'insostenibile tesi della democraticità del PCI e, appunto, del suo leader, Palmiro Togliatti. Ricordiamo qui la ristampa, con prefazione inedita di Togliatti e il partito di massa (Castelvecchi) di Donald Sassoon; l'epistolario di Togliatti degli anni 1944-1964, La guerra di posizione in Italia (Einaudi), a cura di Maria Luisa Righi e Gianluca Fiocco, con prefazione di Giuseppe Vacca; la nuova edizione della biografia Togliatti di Giorgio Bocca (Feltrinelli), con prefazione di Luciano Canfora; e anche qualche intervento giornalistico, tra cui ricordiamo, nei mesi passati quello di Francesco Piccolo, Rivalutare Togliatti apparso su La lettura , inserto del Corriere della Sera. Il nocciolo comune di questa tesi, sia pur articolata da ogni autore con interpretazioni e sfumature diverse, si riassume nel giudizio secondo cui il comunismo italiano, diversamente da qualsiasi altro comunismo europeo, avrebbe fornito un contributo decisivo alla nascita e al mantenimento della democrazia nel nostro Paese. Ora non c'è dubbio che con la partecipazione alla lotta contro il nazifascismo i comunisti, insieme con altre forze politiche, ebbero il merito di portare l'Italia sulla via della libertà dopo vent'anni di dittatura. Affermare però che essi, a cominciare dallo stesso Togliatti, fossero animati da uno spirito democratico è del tutto fuorviante. In realtà, grazie alla collocazione dell'Italia nell'ambito occidentale, i comunisti furono costretti a rinunciare alla lotta rivoluzionaria contro il capitalismo e contro la società borghese e ad accettare la liberal-democrazia. Rivendicarono perciò, in quanto comprimari artefici della Resistenza, dell'Assemblea Costituente e della successiva Costituzione, la legittimazione democratica del loro partito. Fecero, cioè, di necessità virtù, e dunque non furono dei veri democratici. Rimasero sempre prigionieri di una concezione strumentale del rapporto tra democrazia e socialismo. Vista l'impossibilità di conquistare il potere politico, Togliatti, infatti, avviò la strategia gramsciana diretta a controllare il più possibile una parte della società civile e istituzionale, con una pressante egemonia culturale (università, scuola, editoria, giornali), che si tradusse nella condanna della società liberale e borghese: una riserva di fondo che non venne mai meno. Ecco dunque la «doppiezza» togliattiana, che se da un lato portò il PCI a non sovvertire il regime esistente, dall'altro lo spinse continuamente a predicare la sua trasformazione in senso comunista, senza mai giungere ad una rottura definitiva con l'Unione Sovietica, da cui continuò a ricevere sino all'ultimo anche un ininterrotto aiuto finanziario. È necessario ricordare l'avallo di Togliatti, e di quasi tutti i comunisti italiani, al colpo di Stato in Cecoslovacchia (1948), alla repressione sanguinosa della sollevazione popolare di Berlino Est (1953) e di quella ungherese (1956)? Fino alla fine degli anni Sessanta, pur con alcuni distinguo, i comunisti italiani continuarono a identificare il marxismo con il comunismo e il comunismo con lo stalinismo. Così come Stalin rimandava a Lenin e Lenin rimandava a Marx, allo stesso modo, per converso, il marxismo giustificava il leninismo, tanto quanto il leninismo giustificava lo stalinismo: tranne rarissime eccezioni, tutti i comunisti erano stalinisti, a cominciare proprio da Togliatti. Centinaia di migliaia di libri, di opuscoli, di giornali, di comizi, di manifesti, di volantini, di ritratti, di documenti di partito hanno per trent'anni testimoniato la deferenza verso il dittatore. Questa incapacità di uscire dall'universo stalinista spiega perché non vi sia stata in Italia alcuna Bad Godesberg, vale a dire una socialdemocratizzazione capace di sradicare il PCI dal suo ceppo leninista. Ancora nel 1978, in un'intervista a la Repubblica , Enrico Berlinguer poteva parlare della «ricca e permanente lezione leninista». La «via italiana al socialismo» concepita da Togliatti, vale a dire la pretesa di superare la democrazia liberale con una democrazia superiore, era una strategia destinata al fallimento. Non a caso essa è poi sfociata nel compromesso storico, ovvero nella convergenza «totalitaria» del cattocomunismo, la cui natura era avversa ad ogni ratio e ad ogni ethos liberali. Disegni politici che hanno fatto perdere all'Italia qualche decennio di maturità democratica e che oggi, di fronte alle macerie del comunismo, appaiono per quello che erano: dinosauri convissuti per qualche tempo con la modernità. Pretendere, con le cosiddette «riforme di struttura», di fuoriuscire dal capitalismo mantenendo al contempo la democrazia; di avviare una politica anti-capitalista all'interno di un sistema capitalista, era una quadratura del cerchio che solo chi aveva fatto propria la concezione miracolistica della dialettica (marxista) poteva pensare di sciogliere. Come aveva già profetizzato quarant'anni fa Augusto Del Noce, il partito proletario di massa creato da Togliatti si è trasformato nel frattempo in un radicalismo culturale di massa, i cui quadri dirigenti sono stati salvati ora da un ex democristiano. Come tutti i marxisti, Togliatti nutriva la profonda convinzione di possedere la verità, per cui considerava con grande disprezzo e fastidiosa sufficienza tutti coloro che non erano comunisti. Abbiamo poi visto chi aveva ragione. La storia non ha fatto sconti neanche al «Il Migliore».

La storia compromettente del "compromesso storico". Quarant'anni fa Enrico Berlinguer rilanciò l'idea (che fu di Togliatti nel dopoguerra) della collaborazione fra Pci e Dc. Ma il flirt durò poco. E indebolì entrambi i partiti, scrive Francesco Perfetti Venerdì 27/09/2013 su "Il Giornale". La proposta di un «compromesso storico» fra cattolici e comunisti la lanciò l'allora segretario del Pci Enrico Berlinguer tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre 1973 dalle pagine di Rinascita, la rivista ideologica del partito fondata da Palmiro Togliatti, in tre articoli pubblicati con il titolo generale Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile. Nel Paese latino-americano si era appena consumato il colpo di Stato del generale Pinochet contro Salvador Allende: era stata interrotta traumaticamente la «via cilena al comunismo». Divenuto segretario del Pci nel marzo 1972 dopo esserne stato vice-segretario, Berlinguer si era formato ed era cresciuto politicamente all'ombra di Togliatti e durante la lunga segreteria di Luigi Longo si era rafforzata la sua autorevolezza. Aveva portato avanti la linea del «dissenso» dall'Urss dopo l'invasione della Cecoslovacchia del 1968, ma al tempo stesso aveva negato la possibilità di un abbandono dell'internazionalismo e di una posizione di rottura nei confronti dell'Unione Sovietica. I fatti cileni suggerirono a Berlinguer una proposta politico-strategica che egli rese nota attraverso quegli articoli senza che fosse prima discussa dagli organismi dirigenti del partito. Ciò anche se in maggio sulla rivista Il Contemporaneo, supplemento mensile di Rinascita, era apparso un ampio dibattito sulla «questione democristiana», in cui Alessandro Natta aveva accennato alla necessità di una intesa fra socialisti, comunisti e cattolici e Gerardo Chiaromonte aveva osservato che sarebbe stato difficile per i comunisti governare anche ottenendo la maggioranza assoluta dei voti a causa della estensione e della influenza delle forze avversarie. Ciò non toglie, peraltro, che la paternità dell'idea del compromesso storico, così come venne presentata, sia senza dubbio attribuibile a Berlinguer. Il caso cileno offriva una lezione importante. Dimostrava che l'unità delle sinistre, da sola, non era sufficiente a garantire la governabilità e che bisognava puntare alla collaborazione fra tutte le forze popolari, partito comunista e democrazia cristiana in primis, e quindi a un sistema di alleanze sociali che coinvolgesse ceti diversi. Al fondo, c'era la convinzione che solo così sarebbe stato possibile sbloccare il sistema politico italiano che, di fatto, anche per la sua collocazione internazionale, non consentiva una alternanza. La formulazione della proposta era chiara: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie, e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». In altre parole, Berlinguer metteva in soffitta l'idea della «alternativa di sinistra» e la sostituiva con quella di una «alternativa democratica» che avrebbe consentito riforme radicali evitando il pericolo di derive reazionarie. La proposta poteva sembrare una novità. E come tale alimentò il dibattito politico. Ma non era così. Il filosofo cattolico Augusto Del Noce osservò che essa era «condizionata interamente dalla linea gramsciana» tanto che, riferita al pensiero di Gramsci, si configurava come «offerta» frutto della «constatazione della "maturità storica" per il passaggio dell'Italia al comunismo e per il transito dalla vecchia alla nuova Chiesa». D'altro canto lo stesso Berlinguer precisò che l'offerta di compromesso storico non era una «apertura di credito alla Dc», ma doveva intendersi come «sollecitazione continua» per una trasformazione radicale della stessa Dc che ne valorizzasse la «componente popolare» a scapito delle «tendenze conservatrici e reazionarie». A ben vedere, il discorso di Berlinguer riprendeva, con altre parole e in un contesto diverso, il progetto che, all'indomani del secondo conflitto mondiale, Palmiro Togliatti aveva sintetizzato nella celebre espressione «democrazia progressiva» fondata sulla collaborazione fra le «grandi forze popolari», ovvero comunisti, socialisti e cattolici. Esisteva, per dirlo con Del Noce, una «continuità Gramsci-Togliatti-Berlinguer e delle formule della via "nazionale" e "democratica" e dell'accordo dei partiti di massa». Nella visione berlingueriana il compromesso storico avrebbe dovuto rappresentare lo strumento per «sbloccare» il sistema politico italiano che - in virtù della tacita ma accettata conventio ad excludendum nei confronti del Pci per i suoi legami con Mosca e per la sua monolitica struttura interna di tipo leninista - precludeva ai comunisti l'ingresso nelle stanze del potere. Le opposizioni, più che le perplessità, furono numerose sia all'interno del Pci, dove molti pensavano ancora all'ipotesi della trasformazione del Paese in una «democrazia popolare», sia all'interno della Dc, del Psi e dei partiti laici minori, preoccupati, non a torto, che il compromesso storico si risolvesse nell'incontro fra due «religioni secolari». Comunque sia, alla prova dei fatti il compromesso storico non si realizzò. Gli anni fra il 1974 e il 1978 furono, sì, quelli della grande avanzata elettorale del Pci e del suo ingresso nell'area di potere con l'appoggio esterno al governo monocolore di «solidarietà nazionale» di Andreotti. Ma, al tempo stesso, furono anni - particolarmente difficili anche per l'offensiva del «partito armato» delle Brigate Rosse - che mostrarono come la «strategia dell'attenzione» nei confronti del Pci teorizzata da Aldo Moro fosse sostanzialmente velleitaria. Alla fine proprio il rapimento e l'assassinio di Moro chiusero traumaticamente la strada al compromesso storico. E aprirono una nuova stagione della politica italiana dominata dalla figura di Bettino Craxi e destinata a sua volta a esaurirsi con la fine ingloriosa della prima repubblica sotto i colpi di maglio della «rivoluzione giudiziaria» di Tangentopoli.

L'edificante epopea dei partigiani costruita a tavolino. Le carte dell'istituto "Perretta" svelano in che modo le vicende delle Brigate Garibaldi nel Comasco siano state reinventate a colpi di documenti apocrifi. A rendersene conto gli stessi protagonisti di quelle vicende, scrive Roberto Festorazzi, Martedì 23/02/2016, su "Il Giornale". La storia bugiarda, ossia la ricostruzione artificiosa e mitopoietica del passato, è una sorta di specialità nazionale, almeno dal Risorgimento in poi. Ma esiste una forma di menzogna più sottile, sistemica e dannosa, che procede attraverso la fabbricazione di documenti falsi attraverso i quali elaborare una vulgata edificante per chi compie l'operazione. Un caso da manuale è quello che abbiamo scoperto, compulsando le carte dell'Istituto di storia contemporanea Perretta di Como. Ossia, uno dei capisaldi della sacralizzazione delle vicende resistenziali, per il fatto che questo centro di memoria opera, da quasi quarant'anni, nell'area dove si compirono, in un sol colpo, tre eventi di gigantesca portata, nelle ultime giornate di aprile del 1945: la fine del fascismo, la conclusione della guerra e l'epilogo di Benito Mussolini e dei suoi fedelissimi. Consultando il Fondo Gementi del Perretta ci siamo imbattuti in una lettera esplosiva che mette a nudo i criteri attraverso i quali si è costruita la monumentalizzazione dell'episodio resistenziale. Un documento che dev'essere sfuggito ai censori rossi i quali controllano che nulla, di esiziale, possa sfuggire e capitare dentro i fascicoli che vengono distribuiti in consultazione agli studiosi. Bisogna spiegare anzitutto chi è stato il personaggio oggetto delle mie indagini. Oreste Gementi, milanese, classe 1912, fu il leader partigiano di più elevate responsabilità militari, negli organi di coordinamento interpartitico operanti durante la lotta di Liberazione, nel Comasco. Svolse infatti le funzioni di comandante della Piazza lariana del Cvl (Corpo volontari della libertà). Nonostante il suo rango elevato, su Gementi (nome di battaglia, Riccardo), è caduto un totale oblio, spiegabile con una circostanza molto semplice. Il comandante partigiano ebbe il torto, se così si può dire, di non allinearsi alle direttive del Partito comunista, il quale durante e dopo la Liberazione dettò legge, non soltanto nel Comasco. Tanto per cominciare, Gementi si convinse, sulla base di elementi raccolti già nell'immediatezza dei fatti, che a sparare a Mussolini e alla Petacci non fosse stato l'emissario di Luigi Longo, Walter Audisio, alias colonnello Valerio, ma l'umile operaio comasco Michele Moretti, il partigiano comunista Pietro. E ciò bastava perché il nome di Gementi venisse incluso nella lista di proscrizione stilata dagli apparatik della centrale di disinformacjia rossa concentrata nella triangolazione Pci-Anpi-Istituti storici della Resistenza. Non solo: il comandante Riccardo aveva tale determinazione morale da far spiccare, già nel giugno del 1945, un mandato di cattura contro Michele Moretti per il furto dell'oro di Dongo. Risultato: un mese dopo, il Pci architettò contro Gementi un agguato, che fu sventato solo grazie all'abilità straordinaria della vittima predestinata. Ma veniamo al cuore di questa nostra scoperta. Nel novembre del 1991, l'Istituto storico di Como diede alle stampe un volume di oltre 600 pagine, La 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici attraverso i documenti: si trattava di un racconto della lotta di Liberazione, nel Comasco, attraverso una raccolta delle fonti scritte riferite all'attività della formazione partigiana cui si dovette l'arresto di Mussolini e il fermo della sua colonna, il 27 aprile 1945. Ben 550 documenti (relazioni, direttive, circolari, ecc.), presentati come originali, i quali portavano alla luce la trama organizzativa e l'intera vicenda cospirativa della brigata. Curatore dell'opera antologica era Giusto Perretta, comunista, fondatore e a lungo direttore dell'Istituto comasco di storia del movimento di Liberazione che oggi porta il nome di suo padre, l'avvocato Pier Amato Perretta, un antifascista ferito a morte a Milano da elementi delle Ss e della Legione Muti, nel novembre del 1944.Giusto Perretta, nella nota introduttiva, spiegava che la pubblicazione era frutto di ricerche «effettuate nel 1986-87 presso l'Istituto Gramsci di Roma». Tale scavo archivistico era valso ad arricchire e a integrare la già imponente documentazione in possesso dell'Istituto storico lariano. Ne sortiva una rassegna di materiali che il curatore accreditava come coevi, cioè «compilati e diffusi nel corso vivo della lotta»: in tal modo si sarebbero potute fornire «maggiori garanzie di veridicità» rispetto alle fonti cronologicamente successive. Fin qui le parole di Perretta. Ciò che non è mai trapelato, al riguardo, è la durissima contestazione pervenuta al curatore dell'opera, da parte di Gementi. Il comandante Riccardo, giunto ormai al termine dei suoi giorni terreni, il 10 aprile 1992 confessava, in una riservata-confidenziale, di aver accostato «con molto scetticismo» l'indigeribile repertorio stilato da Perretta, dichiarandosi incapace di «trarne alcun insegnamento», nell'impossibilità pratica di discernere «tra il vero ed il falso». Dove nasceva questo sentimento di somma diffidenza, nell'uomo che ben conosceva la segreta trama di quei lontani fatti della Resistenza, per averli vissuti dall'interno come pochissimi altri? Lo rivelava lo stesso Gementi, tornando con la memoria a una «confidenza fattami da Coppeno nei primi anni dopo la Liberazione, quando i nostri rapporti erano normali e saltuariamente ci incontravamo, ma soprattutto egli mi telefonava per accertarsi su dati e fatti del periodo clandestino». Il riferimento è a Giuseppe Coppeno, lo storiografo ufficiale cui il Partito comunista, già nell'immediato dopoguerra, affidò il compito di costruire, a tavolino, la storia bugiarda. In quale modo? Allestendo una vera e propria officina di fabbricazione di repertori documentari non genuini, allo scopo di produrre la glorificazione del movimento partigiano rosso. Coppeno, nato nel 1920 e scomparso nel 1993, fu un comunista duro e dogmatico che operò, durante la Resistenza, tra Como e Milano, quale cinghia di trasmissione delle direttive del partito dentro le formazioni garibaldine. In realtà, si chiamava Ciappina, in quanto fratello di Ugo Ciappina, un ex gappista che fu tra gli autori della rapina di via Osoppo, avvenuta a Milano, nel 1958. In conseguenza di tale fatto, egli chiese e ottenne di poter cambiare il cognome in Coppeno. Incontrai Ciappina-Coppeno, a Milano, nel maggio del 1992. Andai a casa sua, per intervistarlo. Il personaggio mi raggelò, ma non potevo nemmeno sospettare che si portasse appresso i segreti che Gementi non esitò a denunciare. Che cosa si era lasciato infatti sfuggire, il fratello del bandito Ugo Ciappina, nei suoi colloqui con il compagno di battaglie? Lo racconta lo stesso comandante Riccardo, con questa confessione-bomba: «Coppeno mi aveva confidato che, su richiesta di Gorreri e Fabio, stava costruendo documenti intesi a valorizzare e potenziare l'attività della 52ª, dal settembre '43 alla Liberazione». Dante Gorreri e Pietro Vergani Fabio furono dunque coloro che commissionarono il lavoro al falsario ideologico seriale. Vale la pena di ricordare chi fossero i due personaggi. Gorreri, segretario della Federazione lariana del Pci, e Vergani, comandante lombardo delle Brigate Garibaldi, furono due stalinisti ciecamente devoti al partito. Entrambi, negli anni Cinquanta, vennero rinviati a giudizio per alcuni delitti che insanguinarono il dopo-Liberazione, come quello del capitano Neri (Luigi Canali), leader morale della Resistenza comasca, della staffetta di questi, Gianna (Giuseppina Tuissi), e della giovane Annamaria Bianchi. La clamorosa denuncia dell'esistenza di una centrale della contraffazione, costituisce l'anello mancante di un teorema logico che gli storiografi di impostazione mentale laica, cioè non dottrinale, hanno sempre cercato di dimostrare. Vale a dire: i documenti sui quali è stata intessuta la trama della narrazione resistenziale non convincono. Ora sappiamo perché. I materiali apocrifi costruiti da Ciappina-Coppeno furono il preludio di una colossale opera di elaborazione storiografica mistificatoria che non è ancora cessata. Osserva, del resto, Riccardo che il falsario di partito lasciava, per così dire, le impronte del suo delitto nelle modalità stesse del confezionamento, in sequenza, di documenti in realtà non coevi: quelle carte risultavano infatti essere «dattiloscritti senza firma o con firma a macchina». Chiunque può constatare di persona che è proprio così: il compilatore seriale della storia bugiarda produsse documenti quasi sempre privi di firma autografa, o di altri elementi (come interpolazioni e correzioni manoscritte) che ne attestassero la genuinità sotto il profilo materiale. Autentiche polpette avvelenate, versate poi, in gran parte, all'Istituto Gramsci, dove poi Perretta andò a riesumarle. Istituto Gramsci il quale si fece, a sua volta, ente certificatore dell'autenticità e della sicura provenienza di quelle carte. Il bello è che, nella nota introduttiva al testo, lo stesso curatore compiva un'ammissione che, alla luce della lettera di Gementi, suona alquanto compromettente. «Date le condizioni delle copie originali», infatti, si era proceduto alla «loro ribattitura e riduzione rispettando rigorosamente il testo originale». Insomma, secondo Perretta, era stata effettuata la riscrittura, in forma dattilografica, delle fantomatiche carte originali, prendendo a pretesto le condizioni di cattiva conservazione, e conseguentemente di difficoltosa decifrazione, delle stesse. Ma, se così si fosse fatto, il curatore avrebbe dovuto avvertire quantomeno il dovere metodologico di produrre, in immagine, nelle pagine a fronte di ogni riduzione dattilografica (com'egli la chiama), i testi originali. Cosa che si guardò bene dal fare. Perretta non volle nemmeno spiegare quando, come, e da parte di chi, fosse stata realizzata questa colossale operazione da copisti. Questo autentico ginepraio ci riporta alle considerazioni dubitative di Gementi: a meno di voler per forza seguitare a supporre l'esistenza di veri documenti originali, gli unici originali paiono essere quelli, contrabbandati per tali, la cui matrice ci riporta alla figura di Ciappina-Coppeno e alla sua investitura a falsario di partito. Sorge del resto il sospetto che il Pci assumesse, per così dire, per vizio metodologico generalizzato, la predisposizione di un arsenale documentario realizzato in vitro, con un quadruplice scopo: alimentare il mito della propria forza egemone nel movimento partigiano, silenziare tutte le fonti non allineate con la propria verità di partito, riempire i vuoti narrativi e insieme occultare le degenerazioni violente della Resistenza.

Incoerenze e «copia e incolla» della (falsa) storia partigiana. Come spiega l'ex comandante «Stefano», i documenti artefatti mirano a «presentare la Resistenza come un fenomeno sorto da una volontà pianificata. Ma non fu così», continua Roberto Festorazzi, Mercoledì 24/02/2016, su "Il Giornale".  Mario Tonghini, 93 anni, comasco, è il superstite leader partigiano che operò, durante la Resistenza, a stretto contatto con Oreste Gementi («Riccardo»), che fu comandante della Piazza di Como del Cvl, il Corpo volontari della libertà guidato dal generale Raffaele Cadorna.Gementi, in una lettera del 10 aprile 1992 a Giusto Perretta, fondatore e a lungo direttore dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, accusò Giuseppe Ciappina-Coppeno di aver costruito, nel primissimo dopoguerra, un intero arsenale documentario apocrifo, su richiesta del suo partito, il Pci.Materiale che fu alla base della pubblicazione del volume, di oltre 600 pagine, curato dalla stesso Perretta, e intitolato La 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici attraverso i documenti. Un testo, edito nel novembre del 1991 dallo stesso Istituto storico lariano (oggi intitolato a Pier Amato Perretta, martire antifascista e padre di Giusto), che contiene la raccolta di circa 550 carte presentate come «originali».Tonghini, ex comandante di Brigata, con il nome di «Stefano», convinto anticomunista, ha passato alla lente d'ingrandimento i materiali pubblicati da Perretta, giungendo ad avvalorare in pieno la denuncia del comandante «Riccardo», che fu la più alta autorità militare partigiana nel territorio dove si consumarono l'epilogo del fascismo e la morte di Mussolini. L'operazione di «assemblaggio», in serie, dei documenti, balza evidente da alcuni dati di fatto. In questi testi si osservano anomalie ricorrenti: spesso, i rapporti non sono né datati, né firmati. Il che contraddice una prassi allora corrente, nota Tonghini. Anche alla prova dell'analisi strettamente contenutistica, le carte si rivelano tutt'altro che veritiere. Osserva il comandante «Stefano»: «Esaminando i testi, si coglie la tendenza a far apparire come l'origine delle formazioni scaturisse dalle funzioni di comando. Come se vi fosse una regia organizzativa che le facesse sorgere dal nulla. Ma ciò corrisponde alla visione del Partito comunista, che aveva l'interesse, ex post, a presentare la Resistenza come un fenomeno sorto da una volontà pianificata. Noi invece sappiamo che non fu così. Il movimento di Liberazione nasce con bande spontanee, costituite da uomini e da donne, che si coagulano subito dopo l'8 settembre 1943, sulla base di motivazioni squisitamente patriottiche. Se si va poi a vedere il racconto che emerge, dalle carte, balzano all'occhio contraddizioni macroscopiche. Parlo, naturalmente, per fatti e circostanze che siano a mia diretta e personale conoscenza. Un documento del Comando di raggruppamento delle Brigate Garibaldi, datato 9 settembre 1944 (a pagina 135 del volume), qualifica la nostra formazione autonoma dei Cacciatori delle Grigne operante nel Lecchese e nei cui ranghi esordii io stesso quale partigiano, come appena costituita e da inquadrare. Una cosa da non credere: i Cacciatori delle Grigne nascono già alla metà di settembre del 1943, con le prime riunioni clandestine tenutesi in casa del comandante Lino Poletti». Passiamo alla lettera, datata 11 dicembre 1944, e riprodotta a pagina 369 del volume, che Perretta attribuisce alla mano di Dante Gorreri. Il documento, diretto al capitano «Neri» (Luigi Canali), è completamente inattendibile, perché, in esso, si legge che i superiori vertici del Partito comunista intendevano affidare a Mario Tonghini e al suo compagno partigiano Dino Gaffuri «Walter» la ricostituzione della 89ª Brigata «Poletti», quella dei «Cacciatori delle Grigne».La datazione, anzitutto, non regge, perché, a quell'epoca, Tonghini era da mesi operativo nel territorio di Como, impegnato a fondo nell'organizzazione delle formazioni di pianura e di città. Il foglio, dunque, è sicuramente apocrifo, come ci conferma lo stesso comandante «Stefano»: «Non ho mai ricevuto disposizioni di tal genere: è da escludere che potessi essere rimandato indietro in montagna a ricostituire la Poletti, che avevo lasciato alle mie spalle mesi prima, dopo 5 rastrellamenti condotti contro di noi da tedeschi e fascisti». Va ancora peggio per un secondo documento, pubblicato alle pagine 390 e 391, e datato soltanto quattro giorni dopo il precedente: 15 dicembre 1944.Si tratta di una comunicazione, firmata da «Neri», indirizzata in primis al battaglione «Nannetti» della 52ª Brigata Garibaldi, in cui si annunciano misure di ricostituzione della 89ª Brigata «Poletti» e, al contempo, si invitano Tonghini, «Walter» e altri a raggiungere le formazioni «Ricci» per rifondarle. I nuclei partigiani guidati dal capitano Ugo Ricci, rimasto ucciso in un'imboscata, a Lenno, sul lago di Como, il 3 ottobre 1944, erano sbandati dopo la caduta del loro comandante. Qui si rasenta la follia. Appena quattro giorni dopo le presunte direttive tendenti a dirigere gli sforzi di Tonghini alla ricostituzione della Brigata «Poletti», giunge un ordine contraddittorio, che non contiene alcun riferimento alle motivazioni della revoca delle precedenti disposizioni di impiego operativo. Le aree di destinazione, infatti, non sono affatto contigue: le forze superstiti della formazioni Ricci sono attestate nella zona della Val d'Intelvi, mentre la «Poletti» ha sede nell'altro ramo del Lario, quello lecchese. Vi è però un'ulteriore circostanza che conferma in pieno la fondatezza della denuncia di Gementi. Nel volume curato da Perretta vi sono blocchi di testo che ricorrono, praticamente identici, in più parti. La seconda pagina della già citata relazione del 15 dicembre 1944, si può ritrovare, pari pari, in un documento del 3 dicembre precedente, intitolato «Situazione delle formazioni Ricci» (pagine 332-333). L'unica differenza, però significativa, tra i due testi, è data dal fatto che la versione di pagina 333 «chiude» con la firma del capitano «Neri», mentre quella inserita nella relazione del 15 dicembre (pagina 391) la omette, perché il testo prosegue per un'ulteriore facciata. Si tratta di una prova schiacciante della manipolazione operata dagli assemblatori di materiali. L'officina della contraffazione, insomma, mostra i suoi difetti. Costruisce «blocchi» di testi prefabbricati, veri e propri kit che poi «monta» nei contesti in cui essi appaiono più funzionali. Ne risulta che specialisti del «copia e incolla» erano in azione con decenni di anticipo sulla tecnologia informatica. Non meno sorprendente è una relazione dell'ispettore regionale garibaldino Pietro Terzi «Francesco» alla Delegazione lombarda delle Brigate Garibaldi, riprodotta alle pagine 465 e 466. Vi si riferisce, tra l'altro, dell'avvenuta liquidazione del distaccamento «Tomasich», come di un evento recente. La data riportata sul documento è il 27 febbraio 1945: a quel tempo, il «Tomasich», attestato sul primo tratto dei Monti Lariani, era però caduto da circa un mese! Del tutto priva di verosimiglianza, infine, è una lettera dello stesso «Francesco» al comandante «Riccardo», datata 31 marzo 1945 (la si trova a pagina 501), ossia ben quattro giorni dopo che Gementi era stato arrestato, a Milano, durante una retata in cui era caduto l'intero vertice militare clandestino della Resistenza lariana. Una circostanza, quella dell'inattendibile datazione, la quale obbligherebbe, qualora la si volesse prendere sul serio, a immaginare un inoltro della corrispondenza nelle carceri fasciste. Insomma, da qualunque parte la si voglia considerare, la fabbrica del falso confeziona le pentole ma non i coperchi.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega, scrive Giampaolo Pansa, Domenica 07/10/2012, su "Il Giornale". C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della libertà. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realtà era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile. C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.

Non chiamateli eroi. L’elenco delle ausiliarie uccise dai partigiani dopo che si erano arrese, scrive il 25 aprile 2012 "Quelsi".

Amodio Rosa: 23 anni, assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado.

Antonucci Velia: due volte prelevata, due volte rilasciata a Vercelli, poi fucilata.

Audisio Margherita: Fucilata a Nichelino il 26 aprile 1945.

Baldi Irma: Assassinata a Schio il 7 luglio 1945.

Batacchi Marcella e Spitz Jolanda: 17 anni, di Firenze. Assegnate al Distretto militare di Cuneo altre 7 ausiliarie, il 30 aprile 1945, con tutto il Distretto di Cuneo, pochi ufficiali, 20 soldati e 9 ausiliarie, si mettono in movimento per raggiungere il Nord, secondo gli ordini ricevuti. La colonna è però costretta ad arrendersi nel Biellese ai partigiani del comunista Moranino. Interrogate, sette ausiliarie, ascoltando il suggerimento dei propri ufficiali, dichiarano di essere prostitute che hanno lasciato la casa di tolleranza di Cuneo per seguire i soldati. Ma Marcella e Jolanda non accettano e si dichiarano con fierezza ausiliarie della RSI. I partigiani tentano allora di violentarle, ma le due ragazze resistono con le unghie e con i denti. Costrette con la forza più brutale, vengono violentate numerose volte. In fin di vita chiedono un prete. Il prete viene chiamato ma gli è impedito di avvicinare le ragazze. Prima di cadere sotto il plotone di esecuzione, sfigurate dalle botte di quelle belve indegne di chiamarsi partigiani, mormorano: “Mamma” e “Gesù”. Quando furono esumate, presentavano il volto tumefatto e sfigurato, ma il corpo bianco e intatto. Erano state sepolte nella stessa fossa, l’una sopra l’altra. Era il 3 maggio 1945.

Bergonzi Irene: Assassinata a Milano il 29 aprile 1945.

Biamonti Angela: Assassinata il 15 maggio 1945 a Zinola (SV) assieme ai genitori e alla domestica.

Bianchi Annamaria: Assassinata a Pizzo di Cernobbio (CO) il 4 luglio 1945.

Bonatti Silvana: Assassinata a Genova il 29 aprile 1945.

Brazzoli Vincenza: Assassinata a Milano il 28 aprile 1945.

Bressanini Orsola: Madre di una giovane fascista caduta durante la guerra civile, assassinata a Milano il 10 maggio 1945.

Buzzoni Adele, Buzzoni Maria, Mutti Luigia, Nassari Dosolina, Ottarana Rosetta: Facevano parte di un gruppo di otto ausiliarie, (di cui una sconosciuta), catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza assieme a sei soldati di sanità. I prigionieri, trasportati a Casalpusterlengo, furono messi contro il muro dell’ospedale per essere fucilati. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca. Un partigiano afferrò per un braccio la ragazza e la spostò dal gruppo. Ma, partita la scarica, Maria Buzzoni, vedendo cadere la sorella, lanciò un urlo terribile, in seguito al quale venne falciata dal mitra di un partigiano. Si salvarono, grazie all’intervento di un sacerdote, le ausiliarie Anita Romano (che sanguinante si levò come un fantasma dal mucchio di cadaveri) nonché le sorelle Ida e Bianca Poggioli, che le raffiche non erano riuscite ad uccidere.

Carlino Antonietta: Assassinata il 7 maggio 1945 all’ospedale di Cuneo, dove assisteva la sua caposquadra Raffaella Chiodi.

Castaldi Natalina:Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Chandrè Rina, Giraldi Itala, Rocchetti Lucia: Aggregate al secondo RAU (Raggruppamento Allievi Ufficiali) furono catturate il 27 aprile 1945 a Cigliano, sull’autostrada Torino – Milano, dopo un combattimento durato 14 ore. Il reparto si era arreso dopo aver avuto la garanzia del rispetto delle regole sulla prigionia di guerra e dell’onore delle armi. Trasportate con i loro camerati al Santuario di Graglia, furono trucidate il 2 maggio 1945 assieme ad oltre 30 allievi ufficiali con il loro comandante, maggiore Galamini, e le mogli di due di essi. La madre di Itala ne disseppellì i corpi.

Chiettini (si ignora il nome): Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Collaini Bruna, Forlani Barbara: Assassinate a Rosacco (Pavia) il 5 maggio 1945.

Conti – Magnaldi Adelina: Madre di tre bambini, assassinata a Cuneo il 4 maggio 1945.

Crivelli Jolanda: Vedova ventenne di un ufficiale del Battaglione “M” costretta a denudarsi e fucilata a Cesena, sulla piazza principale, dopo essere stata legata ad un albero, ove il cadavere rimase esposto per due giorni e due notti.

De Simone Antonietta: Romana, studentessa del quarto anni di Medicina, fucilata a Vittorio Veneto in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Degani Gina: Assassinata a Milano in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Ferrari Flavia: 19 anni, assassinata l’ 1 maggio 1945 a Milano.

Fragiacomo Lidia, Giolo Laura: Fucilate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme ad altre cinque ausiliarie non identificate, dopo una gara di emulazione nel tentativo di salvare la loro comandante.

Gastaldi Natalia: Assassinata a Cuneo il 3 maggio 1945.

Genesi Jole, Rovilda Lidia: Torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945. In servizio presso la GNR di Novara. Catturate alla Stazione Centrale di Milano, ai primi di maggio, le due ausiliarie si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante provinciale.

Greco Eva: Assassinata a Modena assieme a suo padre nel maggio del 1945.

Grill Marilena: 16 anni, assassinata a Torino la notte del 2 maggio 1945.

Landini Lina: Assassinata a Genova l’1 maggio 1945.

Lavise Blandina: Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Locarno Giulia: Assassinata a Porina (Vicenza) il 27 aprile 1945.

Luppi – Romano Lea: Catturata a Trieste dai partigiani comunisti, consegnata ai titini, portata a a Lubiana, morta in carcere dopo lunghe sofferenze il 30 ottobre 1947.

Minardi Luciana: 16 anni di Imola. Assegnata al battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco” attestati sul Senio, come addetta al telefono da campo e al cifrario, riceve l’ordine di indossare vestiti borghesi e di mettersi in salvo, tornando dai genitori. Fermata dagli inglesi, si disfa, non vista, del gagliardetto gettandolo nel Po. La rilasciano dopo un breve interrogatorio. Raggiunge così i genitori, sfollati a Cologna Veneta (VR). A metà maggio, arriva un gruppo di partigiani comunisti. Informati, non si sa da chi, che quella ragazzina era stata una ausiliaria della RSI, la prelevano, la portano sull’argine del torrente Guà e, dopo una serie di violenze sessuali, la massacrano. “Adesso chiama la mamma, porca fascista!” le grida un partigiano mentre la uccide con una raffica.

Monteverde Licia: Assassinata a Torino il 6 maggio 1945.

Morara Marta: Assassinata a Bologna il 25 maggio 1945.

Morichetti Anna Paola: Assassinata a Milano il 27 aprile 1945.

Olivieri Luciana: Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Ramella Maria: Assassinata a Cuneo il 5 maggio 1945.

Ravioli Ernesta: 19 anni, assassinata a Torino in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Recalcati Giuseppina, Recalcati Mariuccia, Recalcati Rina: Madre e figlie assassinate a Milano il 27 aprile 1945.

Rigo Felicita: Assassinata a Riva di Vercelli il 4 maggio 1945.

Sesso Triestina: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Silvestri Ida: Assassinata a Torino l’1 maggio 1945, poi gettata nel Po.

Speranzon Armida: Massacrata, assieme a centinaia di fascisti nella Cartiera Burgo di Mignagola dai partigiani di “Falco”. I resti delle vittime furono gettati nel fiume Sile.

Tam Angela Maria: Terziaria francescana, assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale.

Tescari -Ladini Letizia: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Ugazio Cornelia, Ugazio Mirella: Assassinate a Galliate (Novara) il 28 aprile 1945 assieme al padre.

Tra le vittime del massacro compiuto dai partigiani comunisti nelle carceri di Schio (54 assassinati nella notte tra il 6 ed il 7 luglio 1945) c’erano anche 19 donne, tra cui le 3 ausiliarie (Irma Baldi, Chiettini e Blandina Lavise) richiamate nell’elenco precedente. In via Giason del Maino, a Milano, tre franche tiratrici furono catturate e uccise il 26 aprile 1945. Sui tre cadaveri fu messo un cartello con la scritta “AUSIGLIARIE”. I corpi furono poi sepolti in una fossa comune a Musocco. Impossibile sapere se si trattasse veramente di tre ausiliarie. Nell’archivio dell’obitorio di Torino, il giornalista e storico Giorgio Pisanò ha ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del SAF. Cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco (Milano) sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Un numero imprecisato di ausiliarie della “Decima Mas” in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidi, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate. Fonte: "ausiliarie.blogspot.it".

O Bella Ciao, ovvero le gesta eroiche della resistenza. Il massacro dei carabinieri della centrale idroelettrica di Bretto. Avvelenati, torturati e tagliati a pezzi. Sorpresi nel sonno, avvelenati, torturati ed infine tagliati a pezzi. Fu questo il tragico destino di ben dodici giovani Carabinieri, catturati dai partigiani alle Cave dei Predil, nell’alto Friuli. I Carabinieri costituivano un presidio a difesa della centrale idroelettrica di Bretto. Il 23 Marzo 1945 i partigiani presero in ostaggio il Vicebrigadiere Dino PERPIGNANO, comandate dei presidio che stava rientrando negli alloggiamenti, sotto la minaccia delle armi, lo costrinsero a pronunciare la parola d’ordine e, con facilità, una volta entrati nel presidio, catturarono tutti i Carabinieri, gia in parte addormentati. Dopo il saccheggio, i dodici militari furono deportati nella Valle Bausizza e rinchiusi in un fienile dove fu loro servito un pasto nel quale era stata inglobata soda caustica e sale nero. Affamati, inconsciamente mangiarono quanto gli era stato servito, ma, dopo poco, le urla e le implorazioni furono raccapriccianti e tremende. Erano stati avvelenati e la loro agonia si protrasse fra atroci dolori per ore ed ore. Stremati e consumati dalla febbre, Pasquale RUGGIERO, Domenico DEL VECCHIO, Lino BERTOGLI, Antonio FERRO, Adelmino ZILIO, Fernando FERRETTI, Ridolfo CALZI, Pietro TOGNAZZO, Michele CASTELLANO, Primo AMENICI, Attilio FRANZON, quasi tutti ventenni (e mai impiegati in altri servizi tranne quello a guardia della centrale, cui erano stati sempre preposti), furono costretti a marciare fra inesorabili ed inenarrabili sofferenze ed insopportabili sacrifici fino a Malga Bala ove li attendeva una fine orribile. Il Vicebrigadiere PERPIGNANO fu preso e spogliato; gli venne conficcato un legno ad uncino nel nervo posteriore dei calcagno ed issato a testa in giù, legato ad una trave; poi furono incaprettati. A quel punto, i macellai partigiani, cominciarono a colpire tutti con i picconi: a qualcuno vennero asportati i genitali e conficcati in bocca, a qualche altro fu aperto a picconate il cuore o frantumati gli occhi. All’AMICI venne conficcata nel cuore la fotografia dei suoi cinque figli mentre il PERPIGNANO veniva finito a pedate in faccia ed in testa. La “mattanza” terminava con i corpi dei malcapitati legati col fai di ferro e trascinati, a mo’ di bestie, sotto un grosso masso. Ora le misere spoglie di questi Carabinieri Martiri/Eroi riposano, dimenticati dagli uomini, dalla storia e dalle Istituzioni, in una torre medievale di Tarvisio le cui chiavi sono pietosamente conservate da alcune suore di un vicino convento. Si scoprì in seguito, che l’eccidio fu consumato dalle bande partigiane filo-slave a Malga Bala, sulle montagne del Friuli. Fonte: "Dietro le quinte".

Sassuolo, una delle tante stragi effettuate dai partigiani censurata dalle Istituzioni, scrive "Imola Oggi" il 24 aprile 2016. Sassuolo – Una delle tante stragi effettuate dai partigiani nel dopoguerra, totalmente censurata dalle Istituzioni e dagli organi d’informazione “democratici”, di Modena e Reggio. A Sassuolo, nel tardo pomeriggio del 23 aprile 1945 cessavano gli ultimi combattimenti tra tedeschi, che s’andavano addossando sulla sponda del Secchia nel tentativo di attraversarlo, e Alleati che premevano da Sud. I partigiani, moltiplicatisi negli ultimi mesi, si cimentavano alla caccia di tedeschi in fuga e lo testimonierà Ermanno Gorrieri, il partigiano Claudio: “Parte di coloro che impugnavano le armi contro i tedeschi in fuga, erano persone che non avevano praticamente mai fatto niente o quasi niente nel movimento di Resistenza. Non a caso la gente, più tardi li chiamerà ‘i partigiani della domenica’ o ‘del lunedì’ – a seconda della zona – cioè i partigiani entrati in azione solo il giorno della liberazione”. Ma il comandante Claudio dirà anche che “sarebbero esplosi odii e vendette, insanguinando ancora una volta la terra emiliana”. Accadde che quello che restava di un Reparto della Divisione San Marco, arresosi in quel 23 aprile, fu eliminato in modo atroce a Sassuolo, nel cortile del Palazzo Ducale. Una cinquantina di questi prigionieri, fra i quali v’era qualche tedesco, subì una fine raccapricciante, venuta alla luce attraverso la testimonianza d’un ufficiale dell’esercito brasiliano, tra i primi contingenti entrati a Sassuolo e non dal parroco che pure vi assistette, don Zelindo Pellati. Da parte degli esecutori non trapelò, ovviamente, mai nulla e ufficialmente quelle estreme sevizie, non sarebbero mai avvenute. Quei prigionieri furono torturati anche con enucleazione degli occhi e poi uccisi per strangolamento. L’ufficiale in questione era Agostino Josè Rodrigues e la testimonianza è nel suo libro Terzo battaglione (Terceiro batalhao), edito nel 1985, quattordici anni prima che le salme di quegl’infelici fossero scoperte nello stesso luogo da lui indicato: “La piazza dove c’è la chiesa”. Ecco il brano: “Sassuolo segna il nostro primo incontro con la guerriglia partigiana del Nord Italia, uomini coraggiosi ma spietati. Hanno aiutato la causa degli Alleati durante gli anni dell’occupazione tedesca nella regione. Ed ora sono ancor più decisi nell’attaccare senza pietà il nemico. Come Castelvetro, Sassuolo è una pulita piccola città, un piacere per i nostri occhi. La piazza principale, dove è situata la chiesa, segna anche la nostra prima visione di esecuzioni sommarie. Ne avevamo già sentito parlare. Uomini uccisi con delle corde strette intorno al collo. E’ la vendetta imposta ai fasciste dai partigiani. Ci sono molti comunisti tra i partigiani. Ho visto un gruppo di questi con delle bandiere rosse. Dovunque essi vadano compiono esecuzioni sommarie. I partigiani si giustificano dicendo che si tratta di “traditori del popolo”. Ecco perché le camicie nere e i soldati tedeschi iniziano ad arrendersi a noi brasiliani. Sono terrorizzati dalla furia omicida di questi implacabili cacciatori”. Non solo le prime truppe brasiliane entrate a Sassuolo, ma anche il parroco della chiesa di San Giorgio, don Pellati, assistettero alla strage; il sacerdote aveva raccolto i documenti e gli effetti personali di quei disgraziati. Unico testimone di parte neutra egli preferì tuttavia, e fu pusillanime, non divulgare lo scempio cui assistette, né trascriverlo, come avrebbe dovuto, sul libro delle anime, cosicchè esso rimase sconosciuto e inedito fino al 1998, allorquando, durante gli scavi nel cortile del Palazzo Ducale, emersero quei resti. Il giorno del massacro può essere indicato nella settimana compresa tra il 24 aprile ed il primo maggio ’45. I partigiani che entrarono a Sassuolo discendevano dalle località di Casalgrande, Fiorano, Castellarano e Magrete e facevano parte tutti di formazioni comuniste. Il 25 aprile entrò a Sassuolo anche la formazione comandata da Achille, al secolo Giuseppe Ferrari (1919–2013) che con l’incarico di ‘occuparsi’ dei prigionieri, vi rimase almeno una settimana. Lo stesso Palazzo Ducale era divenuto sede di distaccamenti partigiani tra i quali risulta anche la Brigata Stoppa. Nel ’49 la Questura di Modena arrestò l’ex partigiano comunista Domenico Cavalli di Sassuolo: si voleva che rivelasse qualcosa, ma non parlò e fu rimesso in libertà. Nel ’98, all’indomani della scoperta della fossa comune, l’Associazione dei reduci della Divisione Fanteria San Marco presentò denuncia contro ignoti per il reato di strage. La strage di Sassuolo andrà a far parte dell’aneddotica resistenziale di revisione, la quale chiarendo fatti marginali darà rilievo alla storiografia, passo obbligato per raggiungere la Storia. Scriveva Renzo de Felice, l’autorevole storico di sinistra: “tutto quanto detto e scritto sul fascismo è falso, perché la sinistra politica ha nascosto tante verità, tanti delitti, tante vergogne partigiane”. In alcune pagine del citato libro di Bocca, Il Provinciale, si coglie il clima che regnava a Sassuolo nei primi mesi della liberazione. In un imprecisato giorno di maggio egli giunse a Sassuolo e andò alla Camera del lavoro ove trovò riuniti diversi partigiani. Gli dicono – “Di ben so giurnalesta, ma il tuo giornale è un po’ fazista. Quando la finite di menarla con il triangolo della morte”? Qualcuno mi guarda duro, ma mi lasciano andare. Esco da Sassuolo diretto a Formigine e sento dietro il rombo d’una motocicletta. E’ uno di quelli che mi sfottevano, ma adesso mi guarda da amico: – “Scolta me – dice – non passare per Formigine, ti aspettano all’uscita del paese”. (Tratto dal saggio storico sulle atrocità partigiane: “I GRANDI KILLER DELLA LIBERAZIONE” del Prof. Gianfranco Stella).

Le ultime ore di vita di Benito Mussolini in anteprima al Torino Film Festival. La pellicola è una sorta di quello che oggi viene chiamato docufilm, ricostruzione di un fatto reale con attori, scrive Adriano Palazzolo Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Gli ultimi minuti vissuti da Benito Mussolini e Claretta Petacci, prima di essere fucilati. È una storia inedita, raccontata per la prima volta da chi visse in prima persona quei momenti dell'aprile 1945, "Tragica alba a Dongo", il cortometraggio di Vittorio Crucillà presentato oggi in anteprima al Torino Film Festival. Girato nel 1950, il cortometraggio venne bloccato dalla censura e mai distribuito. Ritenuto perso per decenni, è stato ritrovato in una cantina austriaca dai proprietari, la famiglia Paternò di Pinerolo, e restaurato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino presso il laboratorio L'Immagine Ritrovata di Bologna. "Un documento storico, straordinario ed emozionante, che abbiamo restaurato per il suo grande valore di testimonianza", sottolinea il direttore del Museo del Cinema, Alberto Barbera. Una produzione semi-amatoriale, della durata di 38 minuti, girato dal giornalista Vittorio Crucillà, che di cinema ne sapeva poco. "Il suo intento - spiega lo storico Giovanni De Luna - era raccontare un fatto su cui il governo italiano non amava soffermarsi. Andreotti lo bloccò con la censura per ben tre volte. Senza contare che anche la famiglia di Mussolini si era opposta. E così aveva fatto pure il Comune di Dongo, nel comasco, per non venir tacciato di efferatezza". la pellicola è una sorta di quello che oggi viene chiamato docufilm, ricostruzione di un fatto reale con attori. Alcuni di questi ultimi sono gli stessi partigiani che bloccarono il convoglio tedesco che trasportava Mussolini, oltre ai coniugi Di Maria nel cui casolare Mussolini e la Petacci vennero rinchiusi a poche ore dalla morte. I loro primi piani arrivano al cuore dello spettatore di oggi: non dicono una parola, si muovono come degli automi, quasi incapaci di cogliere la grandezza di quelle ore.

Il docufilm (censurato) sulle ultime ore del Duce. "Tragica Alba a Dongo" fu girato nel 1950 con testimoni diretti. E bloccato più volte, scrive "Il Giornale" Martedì 24/11/2015. Si pensava che fosse ormai perduto, un documentario semi-amatoriale inedito, una testimonianza sulle ultime ore di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Ieri Tragica Alba a Dongo è stato presentato al Torino Film Festival, recuperato e completamente restaurato: un cortometraggio di 38 minuti, girato da Vittorio Crucillà nel 1950, che è dedicato proprio alla fine del Duce, agli ultimi momenti sul lago di Como fra il 27 e il 28 aprile del 1945. Il documentario di Crucillà fu fermato dalla censura più volte: «Fu Andreotti a bloccarne la distribuzione, e a più riprese: nel 1950, nel 1953 e ancora negli anni '60» ha spiegato il direttore del Museo nazionale del Cinema di Torino Antonio Barbera. La motivazione, ogni volta, era la stessa: «C'è il rischio di danneggiare moralmente l'immagine del Paese». Perciò gli italiani non hanno mai potuto vedere questo cortometraggio in bianco e nero, che ricostruisce «artigianalmente» gli ultimi episodi della vita di Mussolini, attraverso riprese nei luoghi reali e attori non professionisti: alcuni testimoni degli eventi; altri sono gli stessi partigiani che bloccarono il convoglio tedesco che trasportava il Duce; poi i coniugi Di Maria, proprietari del casolare in cui Mussolini e la Petacci furono rinchiusi prima della morte. Immagini (incluse quelle della fucilazione) che la censura ha considerato, per anni, troppo forti; perfino il comune di Dongo si era opposto alla distribuzione del cortometraggio, per non essere accusato di «efferatezza». Insomma Crucillà, che era un giornalista e non un regista, era riuscito a scontentare tutti: «Il suo intento era raccontare un fatto su cui il governo italiano non amava soffermarsi - ha aggiunto lo storico Giovanni De Luna - Anche la famiglia di Mussolini si era opposta». Dato ormai per perso, il «docufilm» di Crucillà è stato ritrovato in una cantina austriaca di proprietà della famiglia Paternò di Pinerolo e poi restaurato dal Museo nazionale del cinema di Torino, presso il laboratorio L'Immagine ritrovata di Bologna.

"Ecco come ho trovato il Diario inedito del Duce". Il direttore di Storia In Rete spiega in che modo è venuto in possesso di un'agenda del 1942. E perché è plausibile considerarla copia fedele di un originale, scrive Luca Gallesi Sabato 27/06/2015 su "Il Giornale". A settant'anni dalla morte, «il più grande statista del secolo» (copyright Gianfranco Fini) sembra emergere anche come il più prolifico scrittore del '900: oltre ai 45 volumi della sua Opera Omnia, di Benito Mussolini vanno conteggiati i carteggi con Churchill e numerosi diari (veri o presunti) che periodicamente vengono scoperti, compresi quelli riportati dal numero di Storia In Rete oggi in edicola. Il direttore Fabio Andriola spiega di cosa si tratta.

Che origine ha il Diario del Duce pubblicato dal mensile da Lei diretto?

«Appartiene a un collezionista svizzero che l'ha acquistato anni fa da un venditore italiano che non ha nulla a che vedere - mi assicurano - con la persona che vendette altre presunte agende mussoliniane a Marcello Dell'Utri. Probabilmente, proviene dalla diaspora di documenti in possesso della famiglia Panvini cui, pare, vennero affidati dal ministro degli interni della RSI, Paolo Zerbino, poi fucilato a Dongo. Il punto è stabilire se si tratta di un documento originale o di un falso. E, in questo secondo caso, di che tipo di falso: un documento completamente inventato oppure una copia più o meno fedele di un originale?».

Perché il Diario è plausibile?

«Dando per scontato che difficilmente si potrà arrivare a una prova certa in un senso o nell'altro (la storia delle perizie sui Diari è lunga e contraddittoria sia per le perizie tecniche che per quelle che puntano all'analisi interna del testo) ci sono, a mio avviso, alcuni elementi che dovrebbero far riflettere. Uno su tutti: sappiamo che i Panvini fecero fare delle agende degli anni '30 dove poi trascrivere - così dissero fino alla fine - i diari autentici che avevano avuto in custodia. Bene, non solo far fare quelle agende con le precise caratteristiche richieste era costosissimo, ma sarebbe stato inutile fare più copie della stessa annata, visto che per anni si cercò di vendere i diari a vari editori, italiani e stranieri. Che senso poteva avere l'offrire a due diversi acquirenti lo stesso anno? Eppure, per la prima volta nella storia dei Diari di Mussolini, ci troviamo, ora, davanti a due copie dello stesso anno, il 1942: una copia, completa a eccezione delle prime 16 giornate di gennaio, che è quella di cui parla Storia In Rete; e un'altra, di cui abbiamo una dozzina di fotocopie di altrettanti giorni e un testo dattiloscritto. In questo secondo caso, si tratta di materiale offerto in vendita a un quotidiano inglese nel '67 e di probabile provenienza panviniana. Ora, la sorpresa sta nel fatto che, mentre la grafia è evidentemente diversa, i testi coincidono con una particolarità: il testo del diario inedito è più lungo, quello proposto nel '67 è più corto. In pratica il “falsario” non potendo dare alla scrittura la stessa cadenza dell'originale che evidentemente stava copiando, arrivato a fondo pagina e non avendo più spazio per le ultime frasi semplicemente non le trascriveva...».

Che c'è di nuovo nel Diario del '42?

«Più che di novità parlerei di conferme: troviamo un Mussolini sempre più insofferente dei tedeschi, tutt'altro che ottimista sulle sorti della guerra, diffidente verso i suoi, a cominciare da Ciano, ma con un vero e proprio astio per Hitler. È un dittatore ripiegato su stesso che, la notte del 31 dicembre scrive, sottolineandolo: “Ora sotto di me si è aperto il precipizio”».

Cosa differenzia questo Diario dagli altri già pubblicati?

«Dietro questo Diario non ci sono intenti speculativi. Inoltre, a quanto mi risulta, per nessun'altra annata di un diario mussoliniano era mai stata fatta una comparazione su svariate pagine con un'altra copia sicuramente apocrifa. Ed è nelle differenze che indicavo prima che potrebbe esserci quell'errore fatale, “la prova delle prove” che lo stesso De Felice indicava nell'errore del falsario. Un falsario che potrebbe aver avuto di fronte un originale da copiare ma che non sapeva riprodurre fedelmente al 100%, come evidenzia il raffronto tra le due versioni che pubblichiamo. E questo potrebbe portare a riconsiderare anche il materiale pubblicato negli anni passati. Infatti, fra tante teorie abbastanza assurde che si sono accavallate negli anni (dal Mussolini che avrebbe copiato se stesso alla famigliola di Vercelli che si sarebbe scoperta capace di creare ex novo intere annate di diari mussoliniani solo con l'aiuto della biblioteca locale) perché non accettare, almeno come ipotesi, che davvero si provò a copiare qualcosa di già esistente? Da una lettera a un'amica scritta da Amalia Panvini nel '57 emerge lo stupore che la donna aveva provato nel possedere “una cosa di cui nessun altro può pensare di avere il possesso. Di avere una ricchezza che potrebbe sconvolgere la mente a tanti...”. Parole che c'entrano poco con una fredda ed enorme operazione di falsificazione studiata a tavolino».

Perché il Diario è stato nascosto fino ad adesso?

«Ci sono varie ragioni. Una è sicuramente che è in mano a un collezionista e non a uno speculatore, per cui non c'era tutta questa esigenza di pubblicizzarlo. Poi, il riserbo e la scarsa volontà di essere triturato dalla macchina mediatica: la gestione dell'operazione Dell'Utri non è stata particolarmente saggia e ha finito per gettare, oggettivamente, ulteriore discredito e scetticismo su una vicenda che già aveva inanellato diverse “cadute” dagli anni '50. Ma la cosa più curiosa è che, a differenza di altre carte mussoliniane, nessuno contesta che i diari di Mussolini ci siano stati realmente...».

"A NOI!". COSA CI RESTA DEL FASCISMO NELL’EPOCA DI BERLUSCONI, GRILLO E RENZI. Nella lingua italiana c’è una parola che, da più di novant’anni, non è mai passata di moda: “fascismo”. Definisce il Ventennio di Mussolini da cui, già nel ’45, abbiamo preso espressamente le distanze. Eppure da allora non abbiamo mai smesso di utilizzare l’aggettivo “fascista” per bollare uomini politici, movimenti, ma anche gruppi sociali e persino comportamenti comuni. In questo saggio, Tommaso Cerno parte da una semplice osservazione linguistica per riflettere sull’Italia di oggi. Perché continuiamo a usare un termine legato a un periodo storico ormai morto e sepolto? Vuol forse dire che qualcosa, di quel periodo, è rimasto nel modo di essere di noi italiani? Unendo analisi storica e interpretazione dell’attualità, Cerno va alla ricerca di figure carismatiche, scelte politiche e fenomeni sociali che mostrino una matrice comune con l’era del Duce. È solo un caso che Craxi e Berlusconi, come Mussolini, abbiano frequentato una scuola religiosa per poi concludere gli studi in un istituto laico? E, ancora scavando nelle vite dei nostri leader, cosa possiamo capire dal loro rapporto con mogli e amanti? Ma l’analisi di Cerno non si ferma alle biografie: interpreta gli stili di comunicazione, dai comizi al balcone del Duce agli hashtag di Renzi; sfata l’idea che certi comportamenti siano tipici del nostro tempo (che cosa successe dopo il terremoto nel Vulture del 1930? E dopo quello dell’Aquila nel 2009?); individua pregiudizi e forme di discriminazione che portano dal Ventennio all’affare Boffo. E che dire dei disinvolti ribaltamenti di potere, dalla notte del Gran Consiglio del Fascismo a #enricostaisereno? Basato su un’accurata ricerca storica, ma raccontato con ritmo battente, A noi! è un’acuta e originalissima lettura della nostra Storia e del nostro presente. Che ci fa capire chi siamo stati, chi ci ha governato e ci governa. E soprattutto chi siamo, noi italiani.

Ecco "A noi!" di Tommaso Cerno, la storia degli italiani eterni conformisti: dentro di noi il dna del duce. Tommaso Cerno e il popolo del tricolore: sensibile al richiamo dell’uomo forte pronto a rottamare, a predicare bene e razzolare male, soprattutto a non cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “Il Messaggero Veneto” il 19 novembre 2015. Esce in libreria “A noi!” (240 pagine, 19 euro) il libro di Tommaso Cerno che indaga sui conformismi della società italiana e s’interroga su “cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi”. "Un fascistello dormicchia in noi. Subdolo e silente. Ma pronto a saltare fuori quando c’è da prendere posizione, partecipare a una svolta politica o di costume. Perché a quel punto ecco l’irresistibile richiamo dell’uomo forte, dell’urlo della piazza, della rottamaziome di massa. E non basta. C’è qualcosa di piú profondo nel Dna dell’Italietta e che, per esempio, l’ha fatta essere dall’oggi al domani tutta fascista e poi tutta antifascista: il conformismo. L’essere italiani, insomma, prevale su qualunque scelta di campo e la precede, la giustifica, la rende possibile. In un turbinìo di luoghi comuni che ben fotografano l’italico carattere: o Francia o Spagna purché se magna, saltare sul carro del vincitore, predicare bene e razzolare male, si fa ma non si dice...Per raccontare la stagione in cui ci è dato vivere, interpretarne gli umori e trovare un filo che ne leghi le vicende, Tommaso Cerno - giovane e sensibile cronista del dramma Englaro, poi giornalista politico dell’Espresso con brillanti incursioni in tv e oggi direttore del Messaggero Veneto - ha scelto una strada volutamente provocatoria, ma certamente illuminante. Che si fonda su una tesi netta: dal Ventennio gli italiani non sono cambiati, si comportano piú o meno allo stesso modo, e germi del fascismo che ha segnato drammaticamente la nostra storia e condizionato istituzioni, costume, economia, sono arrivati pari pari da allora a oggi, a noi, come con doppio rimando recita il titolo di un pamphlet che deve molto a Longanesi e a Flaiano (“A noi!”, Rizzoli editore). Certo, Cerno sta bene attento a distinguere: c’è stato il fascismo storico, «la dittatura, le leggi razziali, la guerra, i drammi umani e le sciagure militari»; e l’altro, che in questo caso lo interessa di piú perché oggetto della sua indagine: il fascismo degli italiani «un po’ opportunisti che di fronte all’uomo forte salvarono guicciardianamente il proprio “particulare” e si schierarono in un batter d’occhio». E continueranno a fare cosí: «Siamo un popolo di fascisti tra i fascisti, democratici fra i democratici, bigotti fra i bigotti. Siamo un popolo di conformisti», osserva amaramente Cerno che per dare spessore alla sua tesi ripercorre i momenti salienti della piú recente politica italiana. Evidenziando caratteri che si ripetono simili, pur se via via adattati, nei protagonisti di ieri e di oggi. Prendiamo quella certa voglia di decisionismo che percorre da sempre il sogno nascosto degli italiani parallelamente a quello di liberarsi di ogni personale responsabilità. A ben vedere, nota Cerno, c’è un filo che lega l’uomo «delle decisioni irrevocabili» e che voleva fare della Camera un bivacco per i suoi manipoli, il Bettino Craxi che entra a gamba tesa nel teatrino della politica italiana consociativa e compromissoria, il Silvio Berlusconi che s’immagina amministratore delegato dell’Azienda Italia e non convocherà mai un congresso di partito, e il Matteo Renzi che scala il Pd e mette in discussione i poteri costituti di parlamentari e sindacalisti. E l’antipolitica che diventa essa stessa una politica? In fondo, il primo Mussolini fece piazza pulita del linguaggio e del ceto politico d’inizio Novecento; Craxi debuttò liberandosi di parole e ambiguità e finirà processando un Parlamento per mendacio e ipocrisia; Berlusconi ha portato “in campo” i funzionari di Publitalia e Renzi, addirittura, è diventato segretario e premier promettendo la “rottamazione”. E si potrebbe andare avanti, come Cerno fa alla ricerca di una continuità che non registra cesure, proprio come nella pubblica amministrazione e nella magistratura nell’immediato dopoguerra: il delitto politico da Matteotti a Moro; le bombe dal Teatro Diana a Piazza Fontana; le ruberie e la corruzione da famiglie e gerarchi del Regime a Mafia Capitale; i nani e le ballerine dai convegni privati nella sala del Mappamondo al bunga-bunga di Arcore; la violenza del linguaggio razzista, xenofobo, omofobo dai cori della milizia alle piazze di Grillo e Salvini. Fino al trasformismo e al tradimento, cuore dell’italianità, stigmate che ci accompagna da Ciano a Scilipoti. Insomma - è la tesi di questo saggio sincero, dolente e divertente - c’è almeno un elemento comune tra la fine di Mussolini, la caduta di Berlusconi e la defenestrazione di Enrico Letta: le grandi svolte, scrive Cerno, mancano di pathos, avvengono nel Palazzo, ieri per ordini del giorno ieri oggi via tweet, mai per volontà popolare; e i toni sono non da dramma shakespeariano, ma pirandelliano. Dopo di che, gli italiani sono «oggi fascisti, domani antifascisti. Tutti democristiani, poi tutti anti-sistema. E ancora berlusconiani, renziani. In pratica, i soliti equilibristi». Una conclusione amara? Forse sí, ma se non si esagera un po’, non si riflette a fondo. E non si cambia.

Gli italiani? Sono fascisti dentro. Il nuovo libro di Tommaso Cerno in uscita in questi giorni, racconta come la mentalità del Ventennio sia ancora oggi diffusa nella politica, nella società, nella cultura del nostro Paese, scrive Tommaso Cerno il 20 novembre 2015 su “L’Espresso”. Pubblichiamo l’introduzione del libro di Tommaso Cerno, “A noi”, in libreria dal 20 novembre (Rizzoli, pp. 310, € 19). Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia? Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente, l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi. In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare. Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti postfascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà. Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale. Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord. La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti. Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare. Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime - che già provenivano dal passato - si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo. Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

Agli artisti piacciono soltanto i «poveracci» Il triste paternalismo degli intellettuali italiani. Tutto è cambiato, ma siamo ancora inchiodati all'anticapitalismo d'ordinanza, scrive Massimiliano Parente, Domenica 21/08/2016, su "Il Giornale".  A pensarci ti viene il magone. Insomma, la cultura italiana sembra un reportage di Michele Santoro, stretta per decenni tra il poverismo democristiano e quello comunista. Con il risultato che la ricchezza, il benessere, l'imprenditoria, la Brianza, sono rigorosamente bistrattate, dipinte come male assoluto. E dunque, oggi, i Virzì con Il capitale umano, un libro di Lagioia di qua e un Saviano accusatore del Nord di là; poca roba, per carità, ma allevati nel brodino dell'anticapitalismo d'ordinanza. E appena li tocchi urlano ancora: fascista! fascista! Come se poi il fascismo c'entrasse qualcosa con la libera imprenditoria. Gli imprenditori? Tutti palazzinari. Mai avuto una cultura alta, della ricchezza, noi, figuriamoci. Se Proust fosse nato in Italia anziché dei Guermantes avrebbe scritto al massimo di Acitrezza, Alla ricerca del pesce perduto, perché la tristezza, ammettiamolo, inizia con il Verismo. Verismo della povera gente, ci mancherebbe. Anche oggi, a rileggere I Malavoglia, così stilisticamente raffinati, mi viene però una depressione, una claustrofobia, una puzza di pesce, una voglia austro-ungarica da schierarmi per dispetto contro il giovane Törless di Musil. O comunque, almeno, di rivalutare D'Annunzio. Così come il cinema, il nostro cinema, inizia con Vittorio De Sica e Ladri di biciclette, neppure ladri di Ferrari, che sfigati. E dopo tredici anni di neorealismo, ecco un balzo in avanti, arriva Pier Paolo Pasolini, con Accattone, un titolo un programma. Eppure c'è poco da ridere, sono i nostri modelli culturali, esportati in tutto il mondo. Nessuno si stupisce, all'estero, se l'Italia va male, abbiamo sempre avuto un gusto estetico per fare pena. Nella moda facciamo meraviglie, ma poi arriva Saviano per raccontarti che gli imprenditori del Nord sfruttano i cinesi negli scantinati del Sud. Poi, appena c'è un fuoriclasse, non so, un Guido Morselli, lo si mette all'angolo, gli si rifiutano i libri, lo si fa morire inedito. Va da sé, mentre Morselli si suicida sparandosi, un poverista come Pasolini diventa un santino, ma non subito, appena lo ammazzano. Con una morte scenografica molto Cristo dei poveri, insanguinato, impolverato, lui che sapeva, lui che denunciava lo Stato e gli imprenditori, lui che ha pagato per tutti, complotto, complotto! Fascisti! Fascisti! Mentre quand'era vivo i compagni gli davano del pedofilo e lo espellevano dal Pci. Del pasolinismo resta una scuola con due o tre mantra: l'editoriale dell'Io so, l'altro editoriale delle lucciole che sono sparite, mentre i romanzi con i ragazzi di vita e gli operai che se lo succhiano al Pratone della Casilina nessuno se li rilegge più, una noia, una noia, che neppure La noia di Moravia. Moravia, altro comunista, però come tutti ben inserito nei salotti giusti. Come oggi la Maraini, ex moglie e firma del Corriere della Sera, però, attenzione, appena comprato da Urbano Cairo, imprenditore del Nord, un piccolo Berlusconi. Cosa non bella. Cosa da guardare con sospetto. Mi ricordo una conversazione tra Flavio Briatore e il magistrato Luigi De Magistris. Il primo vorrebbe mettere dei campi da golf intorno a Pompei (figata), e alberghi extra-lusso, per valorizzare il luogo, per incrementare il turismo di un certo livello; il secondo rimprovera a Briatore di non aver mai lavorato un giorno in vita sua. Perché essere ricchi significa essere ladri, furbi, disonesti, o giù di lì. Intellettualmente parlando, Flavio ci ha fatto la figura del gigante, De Magistris quella dell'intellettuale italiano medio, fosse stato più calvo sarebbe parso quasi Saviano. D'altra parte il vero tabù è un altro, un pensiero che non si può dire. Tipo che il Nord ha creato l'imprenditoria e il Sud ha creato la mafia. Invece, ogni anno, tanti moralismi straccioni, petulanti, paradossali, come quello del filosofo Georgescu-Roegen sulla «decrescita felice», idea geniale, diventare tutti più poveri, solita solfa, subito fatta propria dal Movimento Cinque Stelle, di stronzate non se ne perdono una. Aggiungiamoci la Chiesa, il poverismo di papa Francesco (in realtà molto cristiano, ma che mette in imbarazzo i cristiani di destra: vorremo mica aprire la porta a tutti gli immigrati?), il denaro sterco del demonio, e la minestra è servita, e come da motto italico o la mangi o salti dalla finestra. Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta, dell'Elmo di Scipio s'è cinta la testa... anche questa, che marcetta demenziale, giusto a Benigni poteva piacere. Alla fine l'unico vero fratello d'Italia è Alberto Arbasino. Che in Fratelli d'Italia, vero capolavoro della letteratura italiana, dichiara, snobbissimo, fin da pagina uno: «tanto mio papà ha più di un milione di franchi al Credit Suisse». Grandissimo Arbasino, presto attaccato dal solito Pasolini con l'epiteto di «fascista! fascista!».

La casta? La inventò Morselli Per attaccare la sinistra italiana. Quarant'anni fa usciva «Il comunista», romanzo (bocciato dall'intellighenzia) in cui l'autore più sfortunato delle nostre Lettere smascherava la brama di potere del Pci, scrive Luigi Mascheroni, Venerdì 12/02/2016, su "Il Giornale". Attaccò letterariamente la casta politica, e fu letterariamente ucciso da quella intellettuale. Guido Morselli (1912-73), bolognese per neppure due anni, varesino per il resto della vita, fu il primo - chi lo avrebbe mai detto? - ad attaccare la «casta», nella fattispecie di sinistra, nello specifico «comunista», in un romanzo terribile pubblicato postumo da Adelphi quarant'anni fa, anno di scarsa grazia 1976. Titolo: Il comunista. Per inciso, un libro la cui ultima ristampa data, se non sbagliamo, 2006.Un libro invece fresco di stampa è Guido Morselli, un Gattopardo del Nord (Pietro Macchione editore) che, alludendo nel titolo alle analogie di destino con l'opera di Tomasi di Lampedusa, raccoglie gli atti dei convegni tenuti nei primi sette anni del premio dedicato all'autore «postumo» per antonomasia. Curato da Silvio Raffo e Linda Terziroli, il volume è una miniera di notizie, «letture» e interpretazioni sullo scrittore rimasto inedito in vita e riscoperto come un maestro del nostro secondo '900 post mortem. Molti i contributi interessanti: un «fantastico» Gianfranco de Turris su Morselli e l'immaginario, la super-esperta Valentina Fortichiari su Guido Morselli: sobrietà, nitidezza, discrezione, Giordano Bruno Guerri su Tutto è inutile. Morselli smentisce se stesso, dove si cita una frase profetica dello scrittore, del 1966: «Nessun partito politico è di sinistra, dopo che ha assunto il potere», e un elegante Rinaldo Rinaldi sulla Filosofia dell'abbigliamento nell'opera di Morselli... Ma soprattutto un irriverente Antonio Armano che firma l'intervento intitolato - appunto - Il comunista: quando Morselli parlava della casta dove si ricostruisce il caso del romanzo più politico dello scrittore di Varese (avendolo effettivamente letto e studiato, cosa che non tutti coloro che ne parlano hanno fatto).E forse Il comunista non fu neppure letto, o fu letto troppo bene, da chi lo bocciò. Come Italo Calvino - la storia è stranota - il quale nel 1965 rifiutando la pubblicazione del romanzo da Einaudi, casa editrice di cui era direttore editoriale, scrisse all'autore che «Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all'interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo inventare». Insomma, non se ne fece nulla. Però l'anno successivo Rizzoli accettò di pubblicare il libro, arrivando fino alle bozze. Ma cambiò improvvisamente direttore editoriale, e il nuovo arrivato, sicuramente senza aver letto Il comunista, annullò tutti i programmi e il romanzo restò impubblicato (di certo piacque al primo dei due editor, che fece il contratto a Morselli, Giorgio Cesarano, già espulso dal Pci, il quale si uccise nel '75, due anni dopo lo scrittore).Comunque, quello che interessa - a dimostrazione di quanto invece Morselli conoscesse il mondo del comunismo italiano, e sapesse prevederne i destini, meglio di Calvino - è la costruzione del romanzo, la trama profetica e il ritratto psicologico del protagonista: un parlamentare del Pci degli anni Cinquanta diviso tra compagna e amante, dentro un partito laico che però brillava per bigottismo, in una Roma malinconica e trafficona, in un'Italia dove «la gente vive di chiacchiere, si consuma in chiacchiere. Tutto finisce in chiacchiere», perso tra inutili discussioni politiche sui massimi sistemi marxisti e piccole beghe di bottega, oscura. È qui che Morselli chiama quella dei parlamentari comunisti «una casta». Una Chiesa che non ammette né eresie né deviazioni. Un gruppo di potere, da cui il protagonista è deluso e insieme attratto e respinto, all'interno del quale dominano arrivismo, tatticismi, egoismo. Dove le utopie comuniste si schiantano contro i miseri tornaconti individuali. Dove prevalgono, al di là dell'ideologia, gli interessi personali e i compromessi «poltronistici». Ciò che Morselli vide dentro il Pci a metà degli anni Sessanta, quando scrisse Il comunista, è esattamente quello che il Paese avrebbe visto da lì a poco dentro se stesso, e tutta la propria classe politica. Difficile che un romanzo del genere, una staffilata contro la casta comunista togliattiana, potesse essere pubblicato da un editore come Einaudi. La casta intellettuale avrebbe provveduto a stopparlo. Un'ultima considerazione. Alla fine del suo saggio Antonio Armano fa notare che Wikipedia, nella biografia di Guido Morselli, inserisce un commento su Il comunista del tutto infondato: sostiene che lo scrittore non riuscì mai a pubblicare e fu boicottato dall'ambiente editoriale perché il romanzo traccia positivamente la figura di un partigiano e allora la Dc demonizzava i partigiani. «Una vera bestialità - spiega Armano - Se Morselli pagò uno scotto ideologico-letterario fu tutt'al più, come dimostra il romanzo e il commento di Calvino, di non essere uno scrittore etichettabile, tantomeno politicamente, di essere libero, di non appartenere a nessuna parrocchia». Un'ultima antipatica appendice internettiana - Wikipedia casamatta gramsciana - della vecchia egemonia culturale comunista. Morselli, che non rideva mai, avrebbe abbozzato una smorfia.

Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere. 

Joseph Stalin si è spento dopo quattro giorni di agonia, scrive Giovanni Artieri il 16 giugno 2014 su “Il Tempo”. Radio Mosca comunica che Stalin è morto alle 21,50 ora di Mosca, pari alle 19,50 ora italiana. L’annuncio è stato dato alle 2,07 (ora italiana), nella trasmissione in lingua russa di una speciale stazione di Radio Mosca. Il Comitato Centrale del partito Comunista, il consiglio dei Ministri e il Presidium del Soviet Supremo dell’Unione Sovietica hanno emanato un comunicato indirizzato a tutti gli iscritti al partito e a tutti i lavoratori dell’URSS. L’annunzio ufficiale dice: «Cari Compagni ed amici, il Comitato Centrale del partito Comunisto dell’Unione Sovietica, il consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica e il Presidium del Consiglio Supremo dell’Unione Sovietica annunciano con profondo dolore, al partito ed a tutti i lavoratori dell’Unione Sovietica che il 5 marzo alle 21,50 dopo una grave malattia, è morto il presidente del Consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica e Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunisto dell’Unione Sovietica, Joseph Vissarionovich Dzougashvili. Il cuore del compagno del compagno Joseph Vissarionovich Dzougashvili, ispirato continuatore della volontà di Lenin, saggio maestro e condottiero del Partito Comunista e del popolo sovietico ha cessato di battere». Dopo aver esaltato l’opera di Stalin il comunicato interpreta il dolore del popolo sovietico, e afferma: «In queste tristi giornate tutti i popoli del nostro Paese si stringono più vicini in una grande e fraterna famiglia sotto la provata guida del partito Comunista, creato ed accresciuto da Lenin e Stalin». Dopo aver esaltato la funzione del Partito nello stato Sovietico, ed aver affermato che l’esattezza della politica del Partito Comunista è stata dimostrata da decenni di lotta il comunicato così prosegue: «Il popolo sovietico sa che la capacità difensiva e la potenza militare dello stato sovietico stanno crescendo e rafforzandosi, e sa che il partito rafforza in ogni modo l’esercito, la marina, e i suoi istituti culturali, mirando al costante progresso della nostra preparazione, allo scopo di poter respingere decisamente qualsiasi aggressione». Infine il comunicato conferma la politica «pacifista» del partito Comunista Sovietico ed esprime sentimenti di fraterna amicizia ai popoli satelliti e ai lavoratori dei paesi capitalisti e coloniali. È stato annunciato che la salma del maresciallo Stalin sarà esposta nella Sala Delle Colonne del Palazzo dei Sindacati di Mosca. Chi è l’erede di Stalin? In materia di successione dei dittatori non si hanno riferimenti sicuri. Mussolini se ne preoccupò vagamente verso il 1932 e ne tenne discorso con il Ludwig in uno dei famosi «Colloqui». Nominò due o tre di coloro che riteneva suoi «discepoli», ma, più tardi, quando un sanguigno tramonto l’avvertì della prossima fine, ebbe il buon senso di dichiarare lui stesso la inutilità di un «erede». Hitler fu più formale; dopo di aver nettamente designato Rudolf Hess, dovette sconfessarlo, quando l’«erede», in preda ad una crisi di coscienza, scappò in Scozzia con un aeroplano da caccia. Il posto di Hess fu occupato da Goering e tenuto, durante tutto il resto della guerra, sino alle settimane dell’assedio di Berlino. Goering, com’è noto scappò prima in Baviera e poi raggiunse gli Alleati sul Mare del Nord. Hitler dal fondo del suo «bunker» corazzato nei sotterranei della Cancelleria, dopo di aver sposato Eva Braun, regolarizzò anche la successione. Goering fu additato all’obbrobbrio dei nazisti come traditore. Capo del moribondo Terzo Reich venne indicato prima Goebbles che rifiutò dichiarando di voler seguire sulla strada del suicidio il Fuhrer; e poi Martin Bormann, ultimo segretario del partito nazional-socialista. Bormann, dopo di aver assistito alla morte di Goebbles e della sua famiglia, di Hitler e di Eva; dopo di aver provveduto al bruciamento dei corpi, uscì dal «bunker» e si perse nelle strade di berlino. La sua sorte è sconosciuta. A Stalin seguita una prassi simile? A egli, come Mussolini e Hitler, indicato un suo successore? Sino ad esso non si sa. Forse non lo ha fatto. L’erede di Stalin è, dunque, il Consiglio Ristretto dei Capi dell’URSS e del Comunismo mondiale noto col nome di Bolitburo. Da questo ristretto senato dovrà uscire il nome del Primo Ministro; a meno che forze esterne, i militari, per esempio, non vogliano intervenire. Stalin, com’è noto, non era il capo dello stato russo, e neppure più segretario del Partito Comunista. A quest’ultima carica che gli era servita dalla morte di Lenin in poi come una leva potente, inflessibile e insostituibile per dominare l’immenso ingranaggio della burocrazia sovietica, egli aveva rinunciato durante la seconda guerra mondiale. Con la vittoria gli era venuto il titolo di Generalissimo delle forze di terra, di cielo e di mare. Era questa la dignità principale sulla quale riposava il controllo della intera vita russa e la sicurezza del suo potere. Come presidente del Politburo Primo Ministro e Generalissimo (qualche settimana fa un giornale comunista francese adoperò addirittura il termine di «Maresciallissimo») Stalin s’era situato ad una quota irraggiungibile. Dall’alto delle sue dignità egli guardava persino il Capo dello Stato, il modesto Shwernik, succeduto al modesto Kalinin: una specie di re al quale non era, e non è dato, nè di regnare, nè di governare. Assai più che dai titoli ufficiali Stalin ripeteva il proprio prestigio dall’essere diventato, traverso una faticosa aggiustatura della storia scritta, traverso centinaia di milioni di rubli spesi in sempre nuove e sempre «aggiornate» edizioni della storia contemporanea, sia russa che del Partito Comunista, il «solo» vero creatore dell’Unione Sovietica. Come Stalin si preoccupasse della storia è dimostrato dalla fortuna politica toccata ad un uomo, il Beria, che oggi si trova allineato nella lista dei suoi successori. Poiché occorreva dimostrare la parte preminente avuta da Stalin nelle rivolte del Caucaso del 1905-07, revocata in circostanziato dubbio dai trotzskisti, l’oscuro funzionario della G.P.U., Laurenti Beria, scrisse un volumetto il cui titolo inglese è «On the History of the Bolscevic Organizzation in Transcaucasia»., di pura e solida apologia (...) (...) Erano gli uomini con i quali Stalin si era trovato faccia a faccia, nel suo lento ma fatale, ma pesante, ma inarrestabile ascendere dalla carica di Segretario del Partito, insignificante mentre vivevano Lenin e gli uomini che avevano prima teorizzata e poi realizzata la rivoluzione; divenuta la piattaforma del potere, quando - morto Lenin - Stalin con una genialità asiatica, lenta e tortuosa, ma fatale operò al «interno» del regime una specie di silenziosa rivoluzione. Sulla trasformazione del Politburo da organo costituzionale sovietico, in strumento della dittatura. Il Politburo era nato durante la guerra civile, dalle necessità urgenti e a volte angoscianti della lotta per la conservazione della rivoluzione di ottobre. Lenin «scelse» un gruppetto di uomini al quale venivano deferite le decisioni di rapida e massima responsabilità. 

Guareschi, un emarginato da Nobel per la letteratura. Nel 1965 l'Accademia di Svezia voleva premiarlo. Per i conformisti di casa nostra invece non era degno di nota..., scrive Daniele Abbiati Mercoledì, 06/01/2016, su “Il Giornale”. Sarà provinciale dirlo, ma molto spesso il Nobel per la Letteratura è un premio al milite ignoto (o quasi). Quando poi si pensi che esiste un esercito di generali, condottieri e in qualche caso autentici eroi del romanzo che non lo hanno vinto, tipo Tolstoj, Proust, Borges e compagnia scrivendo...Un provinciale ben più nobile di noi (da Nobel, appunto...), anzi il provinciale per eccellenza, di penna e di gloria, ahinoi e ahilui quasi tutta postuma avrebbe potuto vincerlo, il premio dell'Accademia Svedese. Lo rivelano proprio gli archivi del sancta sanctorum scandinavo risalenti a mezzo secolo fa, anno di disgrazia (per il Nostro) 1965. Ebbene sì, Giovannino Guareschi figurava nelle nominations, accanto a nomi grossi come Anna Akhmatova, Marguerite Yourcenar, Ezra Pound, Georges Simenon, Giuseppe Ungaretti e molti altri. Il suo sponsor? Mario Manlio Rossi, all'epoca professore di filosofia e letteratura all'Università di Edimburgo. Non a caso, un italiano all'estero. Perché l'Italia di cinquant'anni fa, l'Italia poverella del boom economico e ricca d'inventiva ma governata dai monocolore democristiani, l'Italia della commedia all'italiana, aveva messo la sordina al dramma del papà di Peppone e Don Camillo. In fondo, dieci anni prima era stato in galera per la nota questione del «Ta-pum del cecchino» non gradita a De Gasperi, e dunque non era percepito come uno stinco di santo, nonostante l'intercessione del suo amico parroco. Pensate, in occasione della sua messa al gabbio, durante un'allegra cena conviviale al «Bagutta» di Milano affollato di bella gente, s'era addirittura brindato alla lieta novella, presente fra gli altri, come relazionò Indro Montanelli sul Candido, il sommo poeta Eugenio Montale. «Guadagnati coi libri dei quattrini - ricordava nel '65 Guareschi - ho tentato di fare l'agricoltore e l'oste, con lacrimevoli risultati per me, per l'agricoltura e per l'industria turistico-alberghiera del mio paese. Adesso sono pressoché disoccupato, perché nessuno in Italia, eccettuato un amico di Roma, ha l'incoscienza di pubblicare i miei articoli e disegni politici. Ma io non mi agito e mi limito ad aspettare tranquillamente che scoppi la rivoluzione». Alle Roncole aveva aperto un piccolo ristorante e collaborava con la Paul Film scrivendo testi per i caroselli pubblicitari...Morirà tre anni dopo, Giovannino, il 22 luglio del '68 (22 luglio, come Indro). E Baldassarre Molossi, sulla Gazzetta di Parma, fu tra i pochissimi a ricordarne come si doveva la grandezza: «Giovannino Guareschi - scrisse il 25 luglio - è lo scrittore italiano più letto al mondo con traduzioni in tutte le lingue e cifre di tiratura da capogiro. Ma l'Italia ufficiale lo ha ignorato. Molti dei nostri attuali governanti devono pur qualcosa a Guareschi e alla sua strenua battaglia del 1948 se oggi siedono ancora su poltrone ministeriali, ma nessuno di essi si è mosso. Nessuno di essi si è fatto vivo . Anche Giovannino Guareschi ormai riposa al cimitero dei galantuomini. È un luogo poco affollato. L'abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita di due mani». C'erano infatti Nino Nutrizio, Enzo Biagi, Enzo Ferrari. Gli altri, non pervenuti. L'infarto che si era portato via il deus ex machina di un Mondo piccolo ma anche grande era stato derubricato a lieve infreddatura, giudicando dai titoli di alcune testate. «Malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto», borbottò in stile trinariciuto l'Unità. Ma i cattolici non furono da meno, tutt'altro. Il Nostro Tempo, espressione diretta della curia di Torino, lo omaggiò con l'elegantissimo titolo «Guareschi diede voce all'italiano mediocre». L'articolista, Elidio Antonelli, incominciò così il suo pezzo: «Era un uomo finito». E lo concluse così: «Fu in definitiva un corruttore». Evidentemente, contava di cavarsela con due Ave Maria e un Pater noster. Poco lungimirante, oltre che poco informato, don Lorenzo Bedeschi sull'Avvenire: «Peppone e don Camillo sono premorti al loro autore». Insomma, prima di ringraziare a posteriori l'oscuro professor Mario Manlio Rossi per la candidatura di Giovannino, e prima di chiederci se ce lo siamo davvero meritati, uno scrittore come Guareschi, testimone e custode di un'Italia orgogliosamente provinciale e onesta di qualsiasi colore fosse, il nostro Bernanos al lambrusco, il nostro Turgenev in bicicletta, dovremmo chiederci che cosa abbiamo fatto di male per aver avuto questi tromboni che suonavano lo spartito del regime. Del resto, se le colpe dei padri ricadono sui figli, quelle dei nonni mettono ko i nipoti. Nel '65, il premio Nobel per la Letteratura andò al russo Michail Aleksandrovic olochov, autore di Il placido Don. Il Don sarà anche placido, ma il Po è ancora lì che piange la morte di Guareschi.

Don Camillo bombarolo fa esplodere i comunisti. Avversari sempre, nemici mai. Nelle sceneggiature inedite un'Italia divisa ma rispettosa, scrive Egidio Bandini Domenica, 26/07/2015, su “Il Giornale”. «Al caro amico Guareschi/ sperando che un eventuale quarto/ Don Camillo lo possa compensare/ delle delusioni dei primi tre», firmato: Angelo Rizzoli. Data: 20 ottobre 1955. Questa dedica, che il commendator Rizzoli scrisse di suo pugno sulla copertina dell'opuscolo fotografico dedicato al film Don Camillo e l'onorevole Peppone, pubblicato dall'ufficio stampa della D.E.A.R. Film, basterebbe da sola a far capire, pure al più sprovveduto dei lettori, quali fossero i rapporti fra Giovannino Guareschi e il cinema. La dedica, tra l'altro, suona quanto mai inadeguata perché fu proprio l'eventuale quarto Don Camillo a far andare Giovannino su tutte le furie, sino a dare le dimissioni dal Candido e provocare, indirettamente, la chiusura del settimanale satirico più famoso d'Italia. Ma perché Guareschi cercò, sempre senza successo, di ribellarsi a produttori, sceneggiatori e registi per come venivano tradotti in immagini i suoi racconti di Mondo piccolo? E, soprattutto, perché Giovannino se la prese tanto con quelli che chiamava, poco amichevolmente, i «cinematografari», visto che i film ebbero un successo straordinario, capace di far ricredere chiunque sulla loro validità, al punto che, ancor oggi, a 60 anni di distanza, fanno ascolti da record ogni anno sulle reti televisive nazionali? Occorre procedere con ordine: sin dal 1951 Guareschi scrisse di proprio pugno - meglio, di proprie dita, visto che usava la macchina per scrivere - le sceneggiature originali dei film, su richiesta dello stesso «Commenda» e le scrisse, non solo scegliendo fra i racconti pubblicati sul Candido o nei volumi della serie «Mondo piccolo», ma addirittura inventando nuove storie, nuove situazioni, in grado di reggere la trama di un lungometraggio, dove i protagonisti dovevano essere, sempre e comunque, il pretone e il grosso sindaco della Bassa. L'intento di Guareschi era quello di far giungere agli spettatori lo stesso, identico messaggio che era giunto a milioni di lettori con i racconti della saga di Peppone e don Camillo, come egli stesso scriveva, spiegandone le motivazioni: «In un mondo carico d'odio, la gente sogna di poter vivere lottando, sì, ma in modo che gli uomini, pur rimanendo avversari fierissimi, non diventino nemici. E, all'ultimo momento, la passione politica sia vinta dal buon senso. E l'ultima parola, in ogni conflitto, sia quella della coscienza». Per coscienza, Giovannino intendeva, naturalmente, la voce del Cristo dell'altar maggiore, quella che egli stesso definiva «la voce della mia coscienza». Tutto ciò, evidentemente, urtava con gli intendimenti di Angelo Rizzoli e dei vari registi che si succedettero alla guida dei film: Julien Duvivier per i primi due, Carmine Gallone per il terzo e il quarto, Luigi Comencini per il quinto, l'ultimo girato Guareschi vivente. Sta di fatto che leggendo, come ha fatto il sottoscritto, le sceneggiature originali, scritte da Giovannino per ognuno dei film di don Camillo, si scopre qualcosa di assolutamente nuovo, cinque film mai visti, da immaginare con gli immancabili Fernandel e Gino Cervi nei panni di don Camillo e di Peppone: cinque storie per la maggior parte del tutto inedite, insomma, un Don Camillo scritto da Giovannino Guareschi e che nessuno ha mai letto. Innanzitutto la scaletta, la successione degli episodi, completamente diversa da quella che abbiamo visto anche in questi giorni in tv: ad esempio, il ritorno al paese di don Camillo nel secondo film, che Giovannino aveva immaginato a seguito dell'alluvione e che, invece, nel lungometraggio sceneggiato da René Barjavel arriva giusto alla fine del film. Poi gli episodi stessi, le scene, alcune escluse da registi e sceneggiatori, alcune addirittura girate e non montate all'interno del film, come quella che pubblichiamo, per gentile concessione di Alberto e Carlotta Guareschi, ovvero la scena della «bomba pasquale», realizzata per il film Don Camillo e l'onorevole Peppone e non inserita da Gallone. A provare il fatto la prima locandina del film (non utilizzata) e la foto di scena di don Camillo che solleva la bomba per lanciarla ai piedi di Peppone & Co. Stessa sorte nel quarto film, Don Camillo monsignore, ma non troppo toccherà alla scena del trattore sovietico, inserita a viva forza da Guareschi ne Il compagno don Camillo dal quale, però, Comencini epurò la vicenda del «compagno padre», cui Giovannino teneva moltissimo. A proposito, poi, del film Don Camillo e l'onorevole Peppone, girato mentre Guareschi era in carcere a Parma, è illuminante quanto scriveva, dalle patrie galere, lo stesso Giovannino ad Alessandro Minardi: «Accordo per il 3° Don Camillo da realizzare su soggetto e sceneggiatura di Giovannino Guareschi sotto il titolo: L'on. Peppone ... alle seguenti condizioni: Soggetto, “sceneggiatura base” e dialoghi dovranno essere opera del sign. Guareschi e solo del sign. Guareschi. La lavorazione del film in parola potrà essere iniziata solo e quando la “sceneggiatura tecnica” definitiva, elaborata dal regista, abbia la approvazione del sign. Guareschi. Il film non potrà essere proiettato al pubblico qualora non abbia l'approvazione del sign. Guareschi. Il titolo del film dovrà essere quello proposto dal sign. Guareschi e precisamente L'onorevole Peppone ... Il comm. Angelo Rizzoli, e non il Regista o altri, è responsabile di ogni violazione del presente accordo». Le cose, come sappiamo, andarono in modo diverso, ma Giovannino, nonostante tutto si limitò, dopo aver assistito alla prima del film a «dire alcune cose sgradevoli al signor Gallone». E questo è soltanto un assaggio di ciò che furono i rapporti di Guareschi con il mondo del cinema: un confronto (per non dire un conflitto) fatto di rinunce, prese di posizione, lettere e telegrammi che, davvero, servirebbero a scrivere una storia nella storia, un romanzo di «cappa e spada» con protagonisti Giovannino Guareschi nei panni del moschettiere D'Artagnan, Angelo Rizzoli in quelli di Richelieu e, volta a volta, Julien Duvivier, Carmine Gallone, Luigi Comencini, René Barjavel e gli altri sceneggiatori nelle vesti delle guardie del cardinale, eterni nemici di D'Artagnan e soci. Mancano, però, tre personaggi a questo novello romanzo di Dumas: Athos, Portos e Aramis. Sì, perché nessuno, almeno all'interno di tutto il variegato mondo che girava attorno a Cinecittà, prese mai le difese di Guareschi.

Leo, Curzio, Indro e Giovannino I film girati con la mano destra. Tra il 1943 e il 1963 Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi furono registi della loro prima e unica pellicola, raccontando con originalità momenti cruciali della storia d'Italia, scrive Giancarlo Mancini Domenica 23/08/2015, su “Il Giornale”. Il grande racconto dell'Italia del dopoguerra, anche al cinema, l'hanno realizzato quattro conservatori doc come Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi. Intellettuali che per tutta la vita sono stati indisponibili a raccontare quello che i grandi partiti o i salotti volevano far sapere al grande pubblico. Erano anticomunisti, certo, ma non per questo erano disposti a lesinare critiche ai partiti di governo. Parteggiavano per la borghesia ma verso quella italiana nutrirono perplessità e ne rilevarono le mancanze. I loro film (Dieci minuti di vita, Cristo proibito, I sogni muoiono all'alba e La Rabbia) messi assieme vanno a formare un racconto inedito, scritto con la mano destra anziché con la sinistra, della storia italiana nel ventennio che va dal 1943 al 1963. Si tratta di quattro «opere prime» rimaste tali. Ognuna affronta un nodo nevralgico della nostra storia recente, dalla caduta del fascismo alla guerra civile, dai fatti d'Ungheria con i loro tragici risvolti per la sinistra italiana al boom economico. Snobbati dai manuali di storia del cinema, spesso ignorati dai divulgatori «ufficiali», questi film non solo ci raccontano la Storia con la S maiuscola da un'altra angolazione, ma sono una vera contro-scuola di pensiero libero. Ma come mai questi intellettuali, così impegnati nel giornalismo, nella scrittura, nella comunicazione, decidono ad un certo punto di fare un film? Partiamo da Longanesi, il cui interesse per il cinema inizia molto tempo prima di girare Dieci minuti di vita. Siamo verso la fine degli anni Venti. L'autore del Vade-mecum del perfetto fascista e del motto «Mussolini ha sempre ragione» si concede la libertà di dire che se il fascismo vorrà davvero imporsi come un modo nuovo di vivere e di guardare le cose, se si vorrà completare la rivoluzione iniziata con la Marcia su Roma, allora il regime (e Benito Mussolini in primis) dovrà radicalmente ripensare al ruolo del cinema. Con una serie di articoli pubblicati su L'Italiano, la rivista da lui fondata e diretta, Longanesi avvia una martellante campagna per il rinnovamento del cinema italiano. Scrive Longanesi: «Avete mai visto un film italiano? Vi siete mai accorti che i nostri attori escono dalle risse, dai temporali e dalle battaglie più cruente sempre con l'abito nuovo? Per loro ciò significa “conservare la linea”». Via i dandy alla Gastone, via gli estetismi dannunziani, via gli orpelli, le baracconate da fiera circense, la proposta di Longanesi è orientata verso il cinema dal vero: «Stando alla finestra, mi accorgo che la folla che attraversa la via e si perde in ogni direzione, ha un suo aspetto, una “sua verità” che il cinema assai di rado riesce a mostrarci». La straordinaria capacità intuitiva porta Longanesi a «pronosticare» con parecchi anni di anticipo alcuni dei capisaldi del neorealismo, poetica su cui la sinistra edificherà la propria egemonia, ponendo anche un'ipoteca politica che ha avuto esiti disastrosi per il cinema italiano. Ma le radici del neorealismo, evidentemente, affondano negli anni del regime...La passione di Longanesi per il cinema non si esaurisce, anzi, inizia a scrivere brevi soggetti, collabora con sceneggiatori come Ivo Perilli e Piero Tellini, medita di andare negli Stati Uniti per apprendere i rudimenti della tecnica cinematografica. Insomma, ci sono tutte le premesse per diventare regista, cosa che avviene nel momento più delicato per la vita dell'Italia, del fascismo e di Mussolini. Siamo nell'estate del 1943 e mentre il regime sta crollando a pezzi, Longanesi è finalmente pronto per girare il suo primo e unico film, una satira sull'Italia di quegli anni. Protagonista è un anarchico scappato da un manicomio che, minato un palazzo, vuole osservare come ogni inquilino spenderà i suoi ultimi minuti di vita terrena. C'è il gerarca che si è arricchito in modo abbastanza equivoco, ci sono gli estenuati amanti dannunziani che si crogiolano sul modo migliore per togliersi la vita, c'è il marito che trovata la moglie a letto con l'amante... la lascia nell'appartamento che sta per esplodere. Con la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943 e l'imminente occupazione delle truppe tedesche di Roma, Longanesi decide di fuggire a Napoli, lasciando incompleto il film di cui, dopo varie peripezie, sono sopravvissuti appena 36 minuti praticamente inediti al di fuori di una ristrettissima cerchia di cultori. Ma è un lascito che unito ai suoi scritti cinematografici è oggi fondamentale riscoprire e rivalutare. Passano pochi anni e tocca a Curzio Malaparte, altro intellettuale non etichettabile secondo i rigidi canoni del dopoguerra, raccogliere il testimone lasciato da Longanesi e mettersi dietro la macchina da presa. Dopo aver scritto i suoi due libri più conosciuti (La pelle e Kaputt ), nel 1950 lo scrittore toscano si mette al lavoro su un tema che come pochi altri brucia sulla pelle degli italiani: la guerra civile. L'argomento è tabù, né la Democrazia cristiana al governo né le sinistre hanno voglia di rievocare quei giorni in cui si sono susseguiti i rastrellamenti, le vendette incrociate, i linciaggi, le esecuzioni sommarie, le foibe. Il protagonista di Cristo proibito si chiama Bruno, è appena tornato dalla Russia, al suo arrivo a casa scopre che il fratello è stato fucilato dai fascisti. Da quel momento una sorta di demone della vendetta si impadronisce di lui. Nonostante i genitori lo spingano a dimenticare, Bruno non riesce a mettere da parte il desiderio di conoscere il nome della persona responsabile della morte del fratello. Malaparte non si accontenta di raccontare l'Italia del dopoguerra con i suoi tormenti e le sue ferite; vuole metterne in risalto anche i valori che la possono far rinascere. «È un fatto - dice Malaparte - che il popolo italiano reagisce alla Storia di cui è protagonista in modo molto diverso da quello di altri popoli. Vi reagisce anche sul piano morale oltreché su quello del costume. Coloro che parlano di amoralità del popolo italiano non capiscono l'Italia e gli italiani». Il film è ambientato nella sua Toscana, si vede la piazza di Montepulciano, Cetona, il gioco della croce, un rito antico di secoli dove un vecchio contadino dopo aver a lungo portato la croce cerca tra la folla qualcuno che possa sobbarcarsi il sacrificio di espiare le colpe di tutti. Il significato cristiano del film è in effetti il lascito di quest'opera di Malaparte in cui sacrificio, perdono, compassione sono valori di cui è impregnata la carne viva dei personaggi. Presentata al festival di Cannes del 1951, la pellicola riceve una accoglienza positiva ma questo non la protegge dalle accuse della stampa di sinistra. Infatti, nonostante Malaparte in quegli anni si sia pubblicamente avvicinato al Partito comunista italiano, e in particolare a Togliatti, le riviste capofila del marxismo ortodosso come Cinema nuovo non risparmiano critiche al film e al regista. Pochi sembrano disposti a «perdonare» a Malaparte la libertà di rappresentare un Paese diviso tra chi si illude di poter dimenticare la morte dei propri figli e chi cerca a tutti i costi la vendetta. Passano una decina d'anni ed eccoci al terzo capitolo del nostro racconto. Stavolta è Indro Montanelli a mettersi dietro la macchina da presa. Il film è I sogni muoiono all'alba, realizzato nel 1960 con l'ausilio tecnico di Mario Craveri ed Enrico Gras. La sceneggiatura è tratta da un dramma teatrale scritto dallo stesso giornalista qualche tempo prima e ambientato in un albergo di Budapest durante i giorni della rivolta che nell'ottobre del 1956 venne schiacciata dall'Urss con l'invio dei carri armati. Protagonisti sono quattro giornalisti italiani inviati nella capitale magiara per raccontare quello storico momento e rimasti intrappolati in albergo a causa dell'incrudelirsi degli scontri tra quanti sono rimasti fedeli a Mosca e quanti invece sostengono il programma riformista di Imre Nagy. Il titolo riprende quello di una canzone che i patrioti ungheresi, ostili alle intromissioni di Mosca, cantavano in quei giorni tremendi e crudeli. Sergio, Franco, Alberto ed Andrea non sono solo quattro giornalisti, sono degli uomini con passioni politiche e umane. Mentre discutono, litigano, si accapigliano, vengono rievocati alcuni snodi cruciali del nostro dopoguerra, le epurazioni nei giornali (evento che aveva riguardato lo stesso Montanelli), le delazioni, i tradimenti. Nella capitale ungherese il sogno di molti patrioti sta per scontrarsi con la dura repressione dei sovietici. «Ci avete rintronato la testa con questi sogni ma la volete guardare in faccia questa realtà?», dice ad un certo punto uno dei personaggi. Montanelli non nasconde la simpatia per i rivoltosi ungheresi. Altrettanto sincero, ma impietoso, è il suo giudizio verso le ipocrisie, le reticenze, le bugie di cui molti, sia fra i giornalisti sia fra i militanti del Pci, si servirono per «giustificare» l'invasione dell'Armata rossa. Anche in questo film, come in quelli di Longanesi e Malaparte, Montanelli vuole aiutare lo spettatore a guardare oltre i luoghi comuni e a raccontare quello che sta succedendo davvero, senza accontentarsi delle versioni ufficiali, né delle verità preconfezionate. Quando molti anni dopo un lettore gli chiese come mai avesse deciso di realizzare I sogni muoiono all'alba, il giornalista di Fucecchio rispose così: «Io non mi proponevo di fare un film spettacolare di bombe e sangue, ma soltanto di dimostrare due cose: che quella rivolta non era nata fuori, ma dentro il Partito comunista, e quali effetti aveva sortito sulla coscienza degli osservatori comunisti (parlo, si capisce, di quelli in buona fede) che si trovarono coinvolti in quell'avvenimento». E infatti I sogni muoiono all'alba è importante oggi proprio perché ci aiuta a capire il peso che gli eventi del 1956 hanno avuto nel nostro Paese. Nonostante gli sforzi di Togliatti di giustificare l'intervento sovietico anche in Italia in molti iniziarono a rendersi conto di quello che significava vivere oltre la cortina di ferro. Dentro al Partito comunista serpeggiava un dissenso che esplose pubblicamente e portò alle prime fuoriuscite. Era iniziato il lungo cammino della sinistra italiana verso la verità sui regimi dei Paesi socialisti. L'ultimo tassello della nostra storia è l'episodio de La Rabbia di Giovannino Guareschi. Un film di montaggio in due parti, una affidata a Pier Paolo Pasolini e l'altra, appunto, all'inventore di Don Camillo. Siamo nel 1963, l'anno di massimo splendore della rinascita italiana, in pieno boom economico. Anche in Italia come nel resto del mondo occidentale si sta aprendo l'era del consumo di massa. Frigoriferi, lavatrici, televisori. La sfida all'Unione sovietica si gioca anche sulla capacità delle democrazie occidentali di diffondere il benessere in modo capillare. Dal punto di vista politico siamo in un clima sospeso tra il rinnovamento portato da Kennedy negli Stati Uniti, gli ambigui tentativi di Krusciov in Urss e il crescere di nuove tensioni razziali e politiche. Guareschi osserva con preoccupazione al nuovo mondo nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non ama i giovani che si dibattono freneticamente sulle piste da ballo, la corsa al consumismo, la crisi di istituzioni come la famiglia. Le sue sono le parole di uno scettico radicale: «Tutto è facile. Per farsi una famiglia basta consultare un catalogo di elettrodomestici, c'è una macchina per ogni cosa eccetto purtroppo quella per educare i figli. È facile farsi una famiglia, è facile disfarla. Il benessere che, facendo entrare 13-14 mesi in un anno, ci ha dato il mese corto, ci ha dato anche il matrimonio corto. È l'ora dei miracoli, il miracolo automobilistico, per cui camminare a piedi è diventato un lusso, il miracolo petrolifero per cui dai pozzi emiliani sgorga petrolio russo così l'Italia ha il suo carburante nazionale». Il suo film è una rivisitazione dei grandi rivolgimenti avvenuti dalla fine della guerra al 1963. Guareschi, che è stato imprigionato in un campo di concentramento tedesco, commentando le immagini di piazzale Loreto e il vituperio sui corpi di Mussolini e della Petacci, parla di una «vendetta barbara». Ma non mancano gli affondi pieni di ironia e di sarcasmo, degni dell'inventore di Don Camillo e Peppone, le due maschere simbolo dell'Italia del dopoguerra. A Louis Aragon poeta comunista e stalinista non pentito, Guareschi dice: «Krusciov non gli ha ancora detto quale criminale fosse da vivo l'uomo del Cremlino». Questo film, come gli altri che abbiamo ricordato, non godrà di una eccessiva fortuna al botteghino, forse le verità e le idee di questi quattro grandi intellettuali erano troppo laceranti per l'Italia di quegli anni. La loro lezione di libertà e di coraggio è sempre utile. Per questo sarà giusto ricordare accanto ai loro libri e articoli anche queste quattro opere rimaste per tanto, troppo tempo, nel dimenticatoio.

Piero Buscaroli: l’Italia fa orrore (la Lega meno). I disgusti dell'Indignato Speciale: Fummo fascisti nonostante il Duce. A Budapest c'è il ponte Napolitano. Almirante? Un infortunio. Fini? Uno stupido. Si salva Cota, scrive Stefano Lorenzetto, Domenica 11/04/2010, su "Il Giornale". Per entrare nella casa di Piero Buscaroli a Bologna bisogna piegare il capo, come nella basilica della Natività a Betlemme. Il portone in Strada Maggiore non supera il metro e 50 di altezza. Ci si deve far piccini al cospetto di Dio e Buscaroli, a modo suo, questo è: un dio. Della musica, del giornalismo, della storiografia, della polemica, dell’indignazione. Ed è appunto l’Indignato Speciale a intimorirti, mentre affronti lo scalone che su ogni gradino potrebbe allineare almeno otto persone. Incombe dalla sommità: «Non sarà venuto qui anche lei con l’intenzione di farmi passare per nazista?». L’ultimo è stato un inviato delle pagine culturali della Stampa, «un tipo pieno di capelli gialli, sicuro di sé». Hanno bisticciato subito. «Ha osservato che il libro Beethoven è il mio opus magnus. Ho dovuto correggerlo: guardi che opus è neutro, si dice magnum». Il peggio doveva ancora venire. «Sperava di farmi dire che la mia massima aspirazione era quella di diventare guardiano di Auschwitz. Ma si può? Un vero imbecille. Nel 1943 avevo 13 anni». Non mi è di viatico il ricordo del nostro primo e unico incontro, inizi del 1996, quando, da poco vicedirettore del Giornale, incrociai Buscaroli nella segreteria di redazione. Mi squadrò da capo a piedi: «Tu chi sei? Quello nuovo?». È tornato al lei. «Lo vedremo verso la fine se è degno del tu». Mi sta andando già meglio di Mario Calabresi, il direttore dell’inviato biondo, colpevole di non aver tenuto presente che il padre Luigi fu commemorato da Buscaroli, all’epoca direttore del Roma, il quotidiano di Napoli dell’armatore Achille Lauro, con il conio di una medaglia commissionata allo scultore Francesco Messina (e con una sottoscrizione fra i lettori che raccolse «un bel mucchietto di denari» per la vedova e gli orfani del commissario di polizia assassinato da Lotta continua), e perciò destinatario di una lettera che, fra un «cialtrone» e un «pagliaccio», si chiudeva con un epitaffio: «Senza saluti e tanto schifo». C’era di mezzo Dalla parte dei vinti, il nuovo libro di Buscaroli, Memorie e verità del mio Novecento, 521 pagine di «materie disperatamente difformi», magari non il più caro, certo il più sofferto, «ho fatto diventar matto l’editore, all’ultimo momento volevo sciogliere il contratto, m’è costato un’ischemia moderata, un’ischemia Mondadori», 60 anni ci ha messo a scriverlo, altro che l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo che ne richiese 18, «però non s’azzardi a chiamarlo autobiografia: non lo è». Giovanni Ansaldo, collaboratore della Rivoluzione liberale di Piero Gobetti e poi direttore del Telegrafo di Livorno di proprietà della famiglia Ciano e del Mattino di Napoli, gl’impartì una lezione che non avrebbe mai dimenticato: «Scriva sempre tutto quel che le preme, non ha idea di come faccia presto la memoria a cancellare particolari importanti: bastano 24 ore». Una perizia calligrafica rivelerebbe la datazione originale, se non l’autenticità, di ciò che giorno dopo giorno, notte dopo notte, Buscaroli ha minuziosamente registrato, da cronista, nei suoi taccuini. Su uno appena cominciato, il 12 giugno 1955, si legge un’annotazione di Leo Longanesi: «Me lo riporti, quando l’avrà finito...». Il fondatore del Borghese, che nello stesso anno assunse Buscaroli come inviato speciale, aveva intuito subito che da quelle pagine sarebbe transitata la Storia. Ed eccola qui, la Storia. Paolo Emilio Taviani che nel 1974 convoca a casa propria il nemico Buscaroli, nella speranza di ingraziarsi Giorgio Almirante e assicurarsi i voti del Msi, e gli rivela come se nulla fosse che «insomma, lei dovrebbe intendermi, dico che certe bombe, quelle attribuite alla sinistra, le abbiamo messe noi», noi chi, ministro? la Dc?, «ma no, noi, ministero degli Interni, mi capisce adesso?». La guerra nel Vietnam, seguita per sei estati: «Io parteggiavo per il Sud Vietnam, la Rsi locale, e per il generale Nguyen Cao Ky, che era stato decorato dai francesi in Algeria, un ufficiale con le palle come gli Stati Uniti non l’hanno visto mai, ed ero stupefatto di come le nuove generazioni crescessero bene in quel bagno di turpi guadagni e traffici immondi, di anno in anno vedevo ragazzine sempre più floride, più alte, più sane, più svelte, e giunsi a una conclusione prezzoliniana, disperante per un moralista: il vizio migliora la specie». La rivolta d’Ungheria: «A Budapest uno dei ponti sul Danubio viene ancor oggi chiamato Napolitano, per non dimenticare che nel 1956 il futuro capo dello Stato italiano proclamò come gli invasori sovietici avessero salvato la pace mondiale. Trent’anni ci ha messo a chiedere scusa». Nella casa-museo di Buscaroli, un dedalo, l’unico modo per non perdersi è memorizzare la posizione dei Cesari nei medaglioni appesi sopra gli architravi, dei mobili stile impero, dei pianoforti, dei dipinti («questa è l’ultima tempera su carta di Mario Sironi, me la regalò la figlia, un fascio stilizzato sormontato dalla penna d’oca degli scrittori, nessuno aveva mai fatto caso alla similitudine»), delle foto d’epoca, del sorprendente ritratto di Osama Bin Laden in una cornice d’argento, soprattutto di alcuni dei 10.000 libri che a ogni passo, a ogni corridoio, a ogni anticamera, a ogni stanza ti guidano, ti assediano, ti soffocano. Nell’ultimo salone, quello con le due sedie Biedermeier appartenute a Richard Wagner, c’è il pianoforte Érard del 1856 su cui suonò Johannes Brahms. «Me lo restaurò Fabbrini, lei sa chi è Fabbrini?». Veramente no. «Male, ora glielo spiego, queste cose un giornalista le deve sapere. Angelo Fabbrini era l’accordatore di Arturo Benedetti Michelangeli, tre anni ci ha messo a rifarlo nel suo laboratorio di Pescara, per portarlo su dalle scale c’è voluto una specie di cingolato leggero, con mezza Bologna ferma giù di sotto a guardare». Compirà 80 anni fra qualche mese ed è come se avesse vissuto non una, ma dieci vite. Tutto il mondo gli è ruotato intorno e lui lì, sull’attenti, irremovibile. «Italia nemica, a fondo, sempre. Era la prima cosa che dicevo ai miei figli appena nascevano», tre volte ha ripetuto quel tragico giuramento. Buscaroli non parla: esonda. Il 5 marzo 1970 fu costretta a occuparsene persino la Pravda - a ogni citazione ti sopraffà col suo dinamismo prensile nello scovare a colpo sicuro il ritaglio giusto da migliaia di agende, faldoni, scartafacci - «ecco qua, queste due paroline in caratteri cirillici significano Piero Buscaroli e qui c’è scritto che sono un mascalzone, mi assicura un esperto di interna corporis bolscevichi che il giornale ufficiale del Pcus mai usava riferirsi agli stranieri con nome e cognome». La Verità moscovita quella volta fece un’eccezione, non solo perché Buscaroli aveva denunciato sul Borghese l’intenzione sovietica di smembrare la Jugoslavia, ma perché se lo meritava: non ha mai stretto la mano a un comunista in vita sua, «e se dovevo andare in posti frequentati da canaglie, prima indossavo i guanti». L’unica volta che si lasciò afferrare «due dita in punta», ovviamente guantate, fu da direttore del Roma, quando, durante un processo nella pretura di Castel Capuano, lo ghermì alle spalle «un certo avvocato Iossa, o Fossa, consigliere comunale del Pci, che mi aveva denunciato per conto di una professoressa comunista e cieca e protendeva la mano piatendo 300.000 lire per rimettere la querela: “Direttore, voi siete umano, siete un signore...”». È vero. Il Buscaroli umano, che non t’aspetti, è quello che alla fine dell’intervista decide di poter tornare a darti del tu. Lo stesso che la domenica delle Palme, accompagnato dai familiari, ha voluto «vedere la destinazione finale» a Monteleone di Roncofreddo, «è un bel cimiterino su un poggio», col geometra Zamagni che esaltava l’erigenda tomba di famiglia come «il sarcofago del fondatore» e col per nulla convinto futuro inquilino che raccomandava: «Né Madonnine piangenti, né simboli cristiani», ma non osava contraddire la figlia Beatrice, critica d’arte, che eccepiva: «Guarda babbo che la mamma vuole la croce».

La questione sepoltura non mi sembra attuale.

«Quello che chiamano Dio sa che scherzo mi ha fatto? Sì, insomma, quel qualcuno che tiene la contabilità ha detto: al Buscaroli abbiamo tolto dalla testa molti nomi, ma dopo un minuto e mezzo glieli restituiamo. Per cui ho affinato l’arte di divagare per 90 secondi».

Non la trovo affatto svaporato.

«Fino al 22 luglio, prima dell’ischemia, avevo una memoria nichelata. Mai smarrito un ricordo. Adesso arrivo davanti all’edicola e non mi sovvengo di come si chiama Il Sole 24 Ore. Non posso mica dire: mi dia il giornale rosa dei ragionieri. Aspetto».

Da dove viene la mitologica asprezza del suo carattere?

«Sono aspro quando voglio. Con quelli che non mi piacciono. Con i bugiardi. Con i comunisti».

Piero il Terribile.

«Lasci perdere il titolo del Foglio. Non mi ci riconosco. Semmai passo per eccessivamente accondiscendente. Mia moglie Maria Grazia ogni tanto mi fa l’elenco di quelli che ho salvato».

In che modo vi conosceste?

«Andando a trovare i nostri padri prigionieri nel carcere di San Giovanni in Monte. Neppure Giampaolo Pansa ha un’idea di che cos’è stata la vita di noi appartati, dispersi in tante tane».

«Vae victis». A lei, da vinto, che guai sono toccati?

«I partigiani hanno tentato tre volte di ammazzarmi. La mia unica preoccupazione era morire bene. Quando arriva quel momento, non reagisci. Ti acquatti e aspetti che tutto finisca. Mi salvarono due ufficiali polacchi che odiavano i comunisti. E poi la distruzione della famiglia. Quattro zii morti. Mio padre Corso, insigne latinista, incriminato per un reato inesistente. Era il miglior amico di Dino Grandi (il ministro che preparò l’ordine del giorno di sfiducia al Duce votato nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943, ndr). Da reggente del fascio di Imola non ebbe alcun ruolo nelle rappresaglie. Lo tenevano in galera dal giugno del 1945. Aveva fatto i calcoli: era sicuro di uscire presto. Il direttore del carcere nell’estate del 1948 lo convocò: “Professore, ho una brutta notizia per lei. Sono arrivati i conteggi: le restano da scontare tre anni”. Il babbo aveva una pressione delirante, 260 di massima, allora non esistevano farmaci. Cadde a terra, colpito da paresi. I conteggi erano sbagliati. A fine anno uscì. Tre mesi dopo era morto. Chiesi la revisione del processo. Fu assolto dalla Cassazione nel 1960».

Dino Grandi è la sua bestia nera.

«Il babbo me l’aveva dipinto come un asino che sbagliava persino a scrivere le parole, roba da non passare la licenza elementare. Nel 1918 era innamorato della sorella maggiore di mio padre, Illiria. Questa mia zia, vedova dell’ingegner Gino Cacciari e nonna di Massimo, il sedicente filosofo già sindaco di Venezia, fino all’ultimo cercò di farmi fare la pace con Grandi. Per meglio dire, era il conte Grandi che invocava disperatamente il mio perdono. Ma quello che pensavo di lui glielo misi per iscritto: “Giudico lei, signor conte, come l’altro conte, il genero (Galeazzo Ciano, marito di Edda Mussolini, ndr), e tutti i soci, fucilati e scampati, per quello che avete fatto; e non per aver ‘tradito il Duce’, come ripetono i fascisti cretini, ma per aver consegnato l’Italia al Badoglio, che la consegnò a tedeschi, inglesi e americani. Senza il 25 luglio, signor conte, non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l’infame catena di assassinii che i coglioni chiamano ‘guerra civile’ e fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista. Per questo e solo per questo, signor conte, detesto lei e tutti i suoi soci. Voi avete distrutto anche quanto poteva salvarsi, altro che ‘salvare il salvabile’!”».

Grandi la pensava come Indro Montanelli: quando una guerra appare perduta, il male minore è accordarsi col vincitore.

«Quei due erano uguali. A me il feldmaresciallo Albert Kesselring ribadì invece che se il nemico t’impone una resa senza condizioni, non resta che combattere fino in fondo. La Germania e il Giappone seguirono questa via. Fu il maresciallo Pietro Badoglio ad abbandonare l’Italia nelle mani dei nazisti».

Lei non ha grande considerazione di Montanelli. «Lo stimo poco», si legge in Dalla parte dei vinti.

«Montanelli era la copia di Grandi anche in fatto d’ignoranza. Nell’unica pagina che ho letto dei suoi libri sulla storia d’Italia parla della corona ferrea custodita nel Duomo di Monza chiamandola “monile”. Un’ignoranza da far invidia».

Lo accusa d’aver costruito la sua popolarità su un’intervista con Adolf Hitler mai avvenuta e su una condanna a morte emessa dai nazisti, pure questa inventata.

«Da Montanelli non ho mai imparato nulla, se non che i moderati sono peggiori degli estremisti. Ricordo il giorno in cui mi accolse nella redazione del Giornale, allora alloggiata nel Palazzo dell’Informazione in piazza Cavour a Milano, fatto costruire da Benito Mussolini nel 1938 per Il Popolo d’Italia. Nell’atrio mi afferrò un braccio: “Qui Lui diceva... qui Lui faceva... qui Lui scriveva...”. Ma perché mi stringi il braccio? Che c’entro io? Basta! Lo avete glorificato, tradito, ammazzato. Per il Duce non nutro nessun sentimento, se non la pietà. Ti dirò di più, caro Indro: io sono stato fascista nonostante Mussolini, non per Mussolini».

Vorrebbe farmi credere che Montanelli doveva farsi aiutare da Mario Cervi a scrivere i libri di storia perché da solo non ne sarebbe stato capace?

«Da Cervi, da Roberto Gervaso, da Marcello Staglieno. Io non sono mai caduto nella sua rete. Finché una volta, a colazione al ristorante Bice, gli dissi chiaro e tondo: noi non siamo amici. Mi guardò assorto: “Hai ragione, non lo siamo”. E non siamo amici perché tu sei un traditore nato. Avrebbe voluto che fossi io a scrivergli il coccodrillo. Se lo faccio, ti rovino anche da morto, gli risposi. Invece avevo grande stima per Colette Rosselli, la moglie di Montanelli, che non si capacitava di questi miei impeti d’ira: “Sbagli ad arrabbiarti. Non hai ancora capito com’è fatto? Il suo lavoro, il suo articolo, e basta, non c’è altro”. Sa che cosa mi diceva di lui Leo Longanesi? “Quell’Indro finirà nel piscio”».

Oltre a Longanesi, chi sono stati i fari della sua vita?

«Il filosofo Lorenzo Giusso. Il maestro Ireneo Fuser, che fiutò in me un qualche intuito per l’armonia e il contrappunto e mi avviò allo studio dell’organo. Il pittore Ardengo Soffici. Il professor Giovanni de Vergottini, con cui mi laureai in giurisprudenza: m’inoculò la diffidenza per ogni storiografia che non sia incardinata nel diritto. L’anglista Mario Praz, che m’insegnò a distinguere la linea delle epoche, il bello e il brutto, gli stili. E poi Giuseppe Prezzolini, consigliere di tutti i miei comportamenti, il quale 12 anni prima che un erede putativo (Montanelli, ndr) si appropriasse della sua antica testata, disse all’editore Francesco Zuzic: “Oggi l’unico a poter dirigere La Voce forse è Pierino Buscaroli. Avrebbe un grande difetto, però: la scriverebbe tutta lui”. E infine Vittorio Cini. Che persona, che amico, che galantuomo! Lei lo sa che io non sono mai esistito in nessuna manifestazione ufficiale, mi hanno epurato perfino i musicologi?».

Immagino la loro gelosia per lo spessore, anche in senso fisico, dei suoi libri: 1.180 pagine Bach, 1.358 pagine Beethoven...

«Quando Cini scoprì che non m’avevano invitato a un congresso di studi su Ottorino Respighi che si teneva a Venezia sull’Isola di San Giorgio, casa sua, volle portarmici in motoscafo. Giunto il momento di dare il saluto ai convegnisti nel refettorio benedettino dove un tempo vi era la tela delle Nozze di Cana del Veronese, tagliata a pezzi da quel gran ladrone di Napoleone e oggi al Louvre, Cini si finse afono e cedette la parola a me. E quelli furono costretti ad applaudirmi».

Anche Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera dal 1952 al 1961, le ha voluto bene.

«M’insegnò che il giornalista non deve dare al lettore più di un’idea per volta e, se possibile, neanche quella. Era un fascista furioso. Una sera mi prese la mano e mi fece toccare il suo polso: recava la cicatrice di una sciabolata. “Lo senti? È il segno cesareo!”. Gliel’aveva inferto Mussolini in un duello nel 1921. “Sei il più grande”, mi diceva, “potrei fare la tua fortuna”. E in che modo? Assumendomi al Corriere? “Ma come, c’è già quel disgraziato di Montanelli, mica vorrai diventare il numero 2? No, tu devi andare in galera! Per salvare la patria”. Io gli rispondevo: direttore, questa fogna non la salva nessuno, e poi non ne vale la pena, sull’Italia io ci cago. È questo che mi ha sempre unito a Prezzolini: l’odio e il disprezzo per gli italiani».

Ma lei come diventò fascista?

«Non lo ero neanche nell’estate del 1943. Odiavo il sabato fascista, quelle gite assurde nel contado polveroso intorno a Imola, irreggimentati nelle nostre ridicole divise, la camicia nera col fazzoletto azzurro, la medaglietta di Mussolini, tutte cose che mi facevano schifo. Ce l’ho con l’Italia perché, mentre stavamo perdendo le ultime zolle insanguinate della Tunisia, i nostri istruttori durante le marce ci facevano cantare: “È la Marina / l’arma dei fessi / e l’Aviazione / pulisce i cessi”. La precocità è una dote che si perde col tempo. Compivo 13 anni il 21 agosto. Presi la carta da lettera più bella che trovai in casa e scrissi al federale di Bologna, Alfredo Leati. Mi fece rispondere dalla segretaria che non prendeva in considerazione i pareri di un bambino. Cominciai ad aborrire anche i federali. Venti giorni dopo ero rimasto l’unico balilla moschettiere. Fui promosso avanguardista perché non c’era più nessuno».

Siamo all’8 settembre: il proclama di Badoglio, l’armistizio di Cassibile, la Wehrmacht che occupa l’Italia.

«Come faccio a dirle che cosa furono per noi quei giorni? Non c’era mai stato tedeschismo nella nostra famiglia. Mio nonno Pietro era un socialista umanitario che sognava l’invasione della Svizzera e aveva chiamato Corso il primo figlio maschio perché voleva la restituzione della Corsica all’Italia. Mia madre era una Falorsi, i suoi antenati ghibellini avevano combattuto contro i guelfi nella battaglia di Montaperti menzionata da Dante, e aveva perso due fratelli di 22 e 20 anni sul Pasubio nella Strafexpedition del 1916. Un terzo era caduto nella riconquista della Libia. Le restava solo Carlo, il quarto, ferito due volte in Grecia, medaglia d’argento al valor militare, comandante della Scuola ufficiali di Ravenna. L’8 settembre ero a letto con la febbre. Udii un frastuono di pentole che proveniva dalla strada. Le donne urlavano: “È finita la guerra”. Il mio babbo mormorò: “Non sanno che cosa comincia”. Lo zio Carlo si ritrovò da solo con un pugno di uomini. Tutti i comandi militari erano fuggiti a Ortona Mare. Uno dei suoi soldati, preso dalla disperazione, mirò al collo dello zio e lo uccise con un solo colpo, poi si mise il calcio del moschetto fra i piedi e si sparò a sua volta. Ho odiato l’Italia e gli italiani da allora».

Capisco.

«Pochi giorni dopo al ponte sul fiume Santerno mi venne incontro una sagoma nera da Film Luce, due uomini, uno in sella alla motocicletta, l’altro seduto nel sidecar. “I tedeschi! I tedeschi!”. Tutti scappavano. Io solo gli andai incontro. Lasciai cadere la mia bici e feci il saluto romano. L’ufficiale balzò a terra e rispose col saluto romano. Uno scambio di cortesie da cancelleria del Reich. Ecco, mi guardi in faccia: mi fa ancora tremare quel momento. Fu la mia prima decisione da uomo. In quell’istante io diventai ciò che sono. Mi ero schierato. “Nach Ficarolo?”. Poveracci, s’erano solo persi, cercavano la strada per Ficarolo».

È ancora fascista?

«Fummo italiani. Eravamo fascisti per obbedienza, o familiare, o nazionale, o dinastica. Perciò non accetto che mi si dia del nazifascista o, peggio, del nazista, come ha osato apostrofarmi Massimo Cacciari. Feci condannare in un’unica udienza Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari davanti al tribunale di Roma per una simile affermazione. Esordii: signor giudice, non ho mai avuto bisogno di affidare il mio onore a un magistrato, so difendermi da solo, ma questa volta debbo ricorrere a lei, perché “nazista” non è più un giudizio politico, bensì un marchio demonizzante per cancellare una persona, per ridurla al nulla, è il peggio che si possa dire».

Ma Cacciari non si vergogna a portare al polso l’orologio che apparteneva al fratello della madre, fucilato dai partigiani?

«Me lo sono sempre chiesto. Cesare Momo era un tenente che aveva aderito alla Repubblica di Salò. Il comunistino sostiene che lo zio fu ammazzato durante la guerra. Falso! Venne trucidato dieci giorni dopo il 25 aprile, a guerra conclusa, senza alcuna motivazione militare. La distinzione fra strage e macello non è mia, è nel Dizionario di Niccolò Tommaseo, 1851: “Macello s’applica agli animali. Se è per uomini, indica strage più fiera, viene da rea volontà... Il macello va fino alla crudeltà, alla barbarie”. Fu macello, perché vennero massacrati con crudeltà i già vinti e senz’armi».

Che cosa servirebbe per porre fine alla guerra civile?

«La fine del popolo italiano. Non è degno di sopravvivere. La sconfitta della dittatura ha portato alla guerra permanente e alla tirannia del denaro che sta facendo morire la civiltà. Io credo che l’Occidente entro 20 anni sarà finito».

Non c’è speranza.

«La Lega è l’unica salvezza. Può spazzare via la classe dirigente tarlata che ci tiriamo appresso da decenni. Io non voto, sia chiaro. Ma ieri sera a Otto e mezzo su La7 era ospite Roberto Cota. Be’, ho visto una persona diversa, ho ascoltato un modo di ragionare nuovo. È stata una frustata. In quell’uomo parlava un’autenticità che non riscontro in nessun altro politico».

Non è mai troppo tardi.

«L’Italia è stata una finzione che la monarchia e il fascismo hanno potuto solo parzialmente migliorare. Mussolini ha trovato i Savoia e se li è tenuti, ha trovato gli Agnelli e se li è tenuti, ha trovato la Chiesa e se l’è tenuta, anzi l’ha fatta padrona d’Italia. Il fascismo è stato una delusione totale».

E che cosa pensa di Gianfranco Fini, presidente del Senato, secondo il quale il fascismo fu invece «il male assoluto»?

«Si può usare il pensiero per Gianfranco Fini? L’ho sempre spregiato. La gente non sa quant’è stupido. Però io mi considero più stupido di lui, perché insieme con l’ammiraglio Gino Birindelli volevo rovesciare Almirante, al quale scrissi che reputavo la sua presenza il massimo infortunio che potesse toccare al popolo disperso dei fascisti dopo Mussolini. Fini è il vero figlio di Almirante».

Perché questa disistima per Almirante?

«Per il modo indegno con cui sfruttava il suo ruolo di quasi martire. Mi espulse dal Msi accusandomi di non credere nella socializzazione. Io me ne sono sempre fregato degli operai. Pensavo che la Repubblica sociale italiana dovesse solo difendere il passato».

Incluse le leggi antisemite promulgate nel 1938?

«No. Quelle furono un orrore. Un’idiozia prim’ancora che un’infamia».

Però il titolo della Stampa le metteva in bocca una frase terribile: «Non voglio sapere se questo è un uomo».

«Ma per carità! Ho il volto di un individuo che può aver detto un’enormità simile? Nemmeno un cane risponde così. Non ho letto il libro di Primo Levi, tutto qui».

Il politicamente corretto non sa che cosa sia. Sugli omosessuali dichiarò al Corriere: «Sconsiglierei il termine gay. La destra dovrebbe chiamarli correttamente froci o checche. Andrebbero spediti in campo di concentramento».

«Quello fu l’agguato di una tal Latella (Maria Latella, attuale direttore di Anna, ndr). Stravolse il mio pensiero. Dissi che li consideravo degli infelici costretti a vivere come nei lager. È ben diverso. Io ho paura solo della nebbia, non certo degli omosessuali. Esecro chi vorrebbe ergerli a modelli di vita e costruire l’assetto sociale di una nazione sull’omosessualità».

Per lei i trapianti d’organo sono «macelleria di Stato».

«I medici si sono inventati una morte che non esiste, quella cerebrale. La morte è una sola, sa?».

Si considera un perfezionista?

«Non in tutto. Solo in ciò che m’interessa. Nell’Opera 111 di Beethoven, per esempio. E nella scrittura».

Allora perché in Dalla parte dei vinti ha scritto d’essere stato querelato dalla vedova di Mariano Rumor? Al massimo poteva essere la sorella.

«L’ho sposato postumo».

Si dichiara ateo e antireligioso, però suonava Bach nelle cattedrali. La musica non l’ha avvicinata a Dio?

«Non sono né ateo né antireligioso. Già la parola ateo mi fa venire l’orticaria perché mi ricorda Voltaire. Non credo nel monoteismo ossessivo delle tre religioni di Palestina, nel tonitruare d’insopportabili profeti, nell’imposizione di volontà malconosciute, nello scatenacciare porte d’inferni. Non sono né pro Dio, né senza Dio, anche se l’unico in cui credo è il dio Caso. Non ho mai detto ai miei tre figli di non andare in chiesa. Da me avrete imparato almeno la libertà, gli ripeto sempre. Non ho il senso della religione. Ma credo che sia necessaria come instrumentum regni per tutelare l’ordine e i buoni costumi, un modo per disciplinare i popoli. Dio ci vuole. Guai se tutti smettessero di credere in Dio, saremmo finiti. Meno male che c’è Dio».

Si sposò a Santa Maria delle Muratelle.

«Se è per quello sono anche molto amato dai giovani di Comunione e liberazione. Una volta il cardinale Alfredo Ottaviani mi disse: “Non credi in Dio, ma credi nella Chiesa, che c’è!”. Poi soggiunse: “Tu Dio non l’hai ancora conosciuto. Ma lo conoscerai. E finirai sugli altari”. Sono ancora qui che aspetto».

Le è mai capitato di chiedere scusa?

«Tutti i giorni. Nasco dalla giustizia, non quella dei tribunali. È l’unica cosa che è contata davvero qualcosa nella mia vita».

Come vorrebbe essere ricordato?

«Come un buon padre. Ma come un buon padre sul serio, non solo la domenica». (Si ferma). «Ma poi non vorrei nemmeno essere ricordato».

Requiem per Buscaroli, italiano contro. Intellettuale eretico, "fascista deluso", visse sempre dalla parte dei vinti. Litigando con tutti, scrive Camillo Langone, Martedì 16/02/2016, su "Il Giornale". Litigava con tutti, Piero Buscaroli, litigava anche con i suoi estimatori e quindi ha litigato anche con me che lo avevo intervistato in modalità venerante siccome lo consideravo, e lo considero tuttora, un maestro. Litigava con tutti perché tutti coloro che lo circondavano avevano la grave colpa di essere italiani. E per lui i suoi connazionali erano quanto di peggio l'Europa avesse mai generato: «Trattandosi di italiani, non ci si possono aspettare esiti veloci in materie come l'onore nazionale e la morale» scrive in Dalla parte dei vinti che è uno dei suoi libri importanti, miracolosamente pubblicato da Mondadori. Dico miracolosamente perché nemmeno con gli editori andava d'accordo, ci mancherebbe, e perché non è facile trovare una grande casa editrice disposta a pubblicare un simile giudizio sulla resistenza: «Senza il 25 Luglio non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l'infame catena di assassinii che i coglioni chiamano guerra civile e che fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista». Buscaroli ha odiato gli italiani per oltre settant'anni ovvero dall'Otto Settembre quando appena tredicenne vide disfarsi la nazione. Si trovava a Imola dov'era nato nel 1930 e all'età in cui oggi si ascolta Justin Bieber e si pensa al primo tatuaggio vide morire amici e famigliari e vide tradire Mussolini e Mussolini tradire, o comunque amaramente deludere, e decise di mettersi al fianco del padre Corso, latinista cinquantenne che stoicamente accettò la responsabilità del fascio repubblicano cittadino, scelta che dopo la guerra pagò con anni di carcere. Non la chiamo guerra civile perché altrimenti Buscaroli dall'al di là cataloga come coglione anche me, non la chiamo guerra di liberazione perché non si può chiamare liberazione un'invasione, la chiamo anodinamente Seconda guerra mondiale ed era il tempo delle stragi come quella di Arcevia, paese delle Marche in cui i partigiani comunisti «sterminarono una famiglia di anziane ricamatrici, accusate di essersi fatte ricche col loro lavoro, e quindi nemiche del popolo. Una scena rituale, incredibile e assurda, le anziane cucitrici, i parenti e amici condotti in fila per due a uno spiazzo apposta aperto sulla strada statale, e ivi immolati col dolente assenso del nuovo sindaco e la cittadinanza tutta nascosta, all'italiana, dietro le persiane». Fonte del virgolettato è sempre Dalla parte dei vinti ma di libri ne ha scritti tanti, Buscaroli, e non solo di storia. Era un grande musicologo, anzi, siccome mi sovviene che non voleva essere definito tale mi correggo e lo definisco un grande storico della musica riferendomi al suo libro su Bach, al suo libro su Brahms, al suo libro su Mozart e soprattutto al suo libro su Beethoven che confesso di non avere letto sia perché in quel 2004 ascoltavo Jan Garbarek e Giovanni Lindo Ferretti sia perché la mole, 1.358 pagine, ebbe la meglio sulla mia ammirazione. Paolo Isotta ha definito il gran tomo meraviglioso e questo mi basta, meraviglioso lo sarà senz'altro. Buscaroli aveva studiato organo a Bologna e poi aveva insegnato in vari conservatori, Torino, Venezia, Bologna, trovando il tempo di collaborare col Borghese di Leo Longanesi, uno dei pochi personaggi verso il quale non manifestò mai disprezzo (parlava male perfino di Massimo Cacciari e il perfino non è riferito a un'infondabile intoccabilità intellettuale del filosofo veneziano ma al fatto che, incredibile ma vero, Cacciari era suo cugino). Nei primi anni Settanta fu direttore del Roma, quotidiano che a dispetto del nome veniva pubblicato a Napoli, proprietà del molto controverso e molto autoritario Achille Lauro, a riprova che a Buscaroli davvero non piaceva la vita comoda. In seguito fu critico musicale del Giornale ma io ne scoprii l'esistenza sulle pagine del più seminale dei libri sgarbiani, Dell'Italia, in una sezione dedicata a eccentrici ed esteti quindi tra Franco Maria Ricci, la marchesa Casati e Massimo Listri. Me ne invaghii e corsi a leggere tutto Il poco in quel periodo reperibile in libreria. Ricordo Paesaggio con rovine che aveva un'epigrafe da brivido: «Formica solitaria di un formicaio distrutto / dalle rovine d'Europa, ego scriptor». Parole ovviamente di Ezra Pound e identificazione altrettanto ovvia di Buscaroli, solitario scrittore. E poi La vista, l'udito, la memoria, uscito in una collana molto opportunamente intitolata «La torre d'avorio», dove col suo italiano magistrale impartiva lezioni non solo di storia e di musica, anche di arte. Lo riprendo in mano e ci ritrovo la dedica che mi fece nel buen retiro di Monteleone, sulle colline sopra Cesena. Non scrisse 16 luglio 2002, la data ordinaria, bensì 17 luglio 2.755 u.c. Perché, se ancora non lo si è capito, ieri non è morto un moderno italiano, è morto un antico romano, un uomo che con questa Italia (ma ce ne sono altre?) proprio non poteva andare d'accordo.

Buscaroli, Eco, Magli. Ci sono morti e morti…, scrive Piero Visani il 21 febbraio 2016. Piero Buscaroli, Umberto Eco, Ida Magli: è un febbraio decisamente bisestile per la cultura italiana. Sfortunatamente, è anche assai poco equilibrato, perché si passa dall’esaltazione acritica dell’uno alla “damnatio memoriae” dell’altro, al ricordo vagamente infastidito dell’altro ancora. Non è mia intenzione discutere lo spessore culturale di alcuno dei tre illustri estinti, non ne ho neppure le qualifiche. Mi dispiace solo – e questo è tipicamente italiano – che uno (Eco) muoia da “intellettuale organico”, degno di figurare in una nuova “Accademia d’Italia”; gli altri due muoiano da “underdog” del pensiero, cani sciolti che hanno pagato a carissimo prezzo la loro originalità. Questo fa immediatamente cadere ogni discorso di tipo culturale. Qui, purtroppo, c’è solo politica, la politica totalitaria che accetta un certo tipo di manifestazioni di pensiero e ne boccia irrimediabilmente altre. A mio parere, questo è l’esatto contrario della cultura, perché tutte le manifestazioni del pensiero umano, comunque si manifestino, sono degne del massimo rispetto. Eco aveva espresso posizioni molto radicali in politica, salvo poi finire a cantare le lodi della democrazia totalitaria, ma questo non investe e non può investire il livello qualitativo della sua produzione di pensiero. La cosa vale però anche per Piero Buscaroli e Ida Magli, e invece abbiamo un santo e due reietti. Il che equivale a dire che Ezra Pound e Louis-Ferdinand Céline erano due pessimi scrittori perché fascisti. Nasce il sospetto – non infondato – che spesso si diventi intellettuali celebrati perché organici agli assetti politici del proprio tempo. E’ vero, ma non è una patente culturale, anzi.

Umberto Eco e Ida Magli, considerazioni a margine, scrive Martedì 23 Febbraio 2016, Luigi O. Rintallo su Agenzia Radicale. La morte di due personalità quali Umberto Eco e Ida Magli, spinge a compiere qualche riflessione sulla condizione e sul ruolo svolto dagli intellettuali italianinella società di questi anni. Almeno tre sono gli aspetti da considerare. Il primo concerne la questione dell’autonomia di giudizio e dei modi di espressione della propria militanza politica. Gran parte dell’attività di Umberto Eco si è svolta nell’ambito accademico: autore di saggi che hanno divulgato la semiotica, disciplina prima poco meno che ignota in Italia, egli ha saputo togliere alla figura del professore universitario quella patina di polverosa solennità, contaminando un sapere vasto con la produzione dell’universo mediatico. In questa sua produzione, ha dimostrato acutezza di analisi, spesso anti-conformista, aprendo strade inesplorate e rifornendo allievi e lettori degli strumenti per elaborare un pensiero critico. Detto questo, colpisce come una persona dotata di tutte le capacità intellettuali per esprimere giudizi ponderati, nel descrivere società e politica abbia preferito abbagliare i lettori con fasci di luce monodirezionali che oscuravano il resto e quindi ne falsificavano la percezione complessiva. La cosa può spiegarsi soltanto riferendosi al vincolo esercitato dall’appartenenza, dall’attitudine a schierarsi ereditata dal modello dell’intellettuale organico. L’aver condiviso, con il polo Espresso-Repubblica che ne ospitava gli articoli, la divisione manichea per cui gli avversari sono raffigurati quasi come dei sub-umani, fa calare su Eco il velo di un dubbio irrisolto. A sollevarlo, quel velo, scopriamo quanto pesi il condizionamento dei referenti editoriali, specialmente quando si costituiscono come soggetto politico a tutti gli effetti senza passare per il filtro della normale dialettica democratica. Di ciò si ha un riscontro anche per quel che riguarda Ida Magli. Anche nel suo caso, siamo di fronte a un’autrice che nei suoi studi ha svelato i temi dell’antropologia culturale, scavando in profondità le ragioni della diversità uomo/donna e dando un contributo teorico essenziale al femminismo italiano. Firma prestigiosa de «la Repubblica» negli anni ’70-80, non esitò ad abbandonare quella favorevole tribuna quando la deriva politically correct spinse il giornale a respingere i suoi articoli, che si contraddistinguevano per le posizioni non conformi. Nella logica di contrapposizione manichea, bastò questo fatto per catalogarla automaticamente dall’altra parte della barricata, prescindendo dalla storia di una vita intera: l’ennesima dimostrazione di quali frutti malati abbia prodotto l’avvelenamento dei pozzi della cultura liberale nel nostro Paese. Proprio la denutrizione liberale e, con essa, l’assoluta sordità del mondo intellettuale rispetto a una dimensione individualista e libertaria del vivere sociale, rappresenta il secondo aspetto che va evidenziato. La cultura italiana contiene in sé questa sorta di “buco nero”, per cui è ben difficile scardinare i riferimenti che rimandano da un lato all’egemonia di stampo gramsciano e, dall’altro, ai retaggi del cattolicesimo. Umberto Eco si può dire che ne costituisce la sintesi eccelsa: ex dell’Azione cattolica, approdato nella sinistra prima extra-parlamentare e poi tardo azionista, non è stato mai portatore di un pensiero che fosse per lo meno sfiorato da una visione lontanamente assimilabile a quella del libertarismo. Da parte sua, Ida Magli che pure promosse una consapevolezza nuova delle tematiche di liberazione della donna, ha quindi assunto posizioni anti-europeiste all’insegna di una rivalutazione della dimensione nazionale che mal si concilia con la volontà di riaffermare i diritti della persona universalmente. È pur vero che Ida Magli negli ultimi anni si è battuta per sostenere le parti dei cittadini contro il prevalere delle burocrazie, ma certo è ben difficile che tale difesa possa esercitarsi dentro i confini di un solo Paese. Ultima considerazione riguarda l’assenza, presso gli intellettuali italiani, di una produzione teoretica in proprio. Dai tempi di Croce, non pare si siano più profilati pensatori in grado di dare un’interpretazione complessiva del reale. Abbiamo avuto divulgatori, compilatori e polemisti – come appunto Umberto Eco e Ida Magli – ma finora è mancata la capacità di impegnarsi in una progettualità di ampio respiro.

Il progressismo reazionario di Umberto Eco, ovvero le basi della saggezza del Professore. Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, Eco è stato capace di fare il rottamatore negli anni Sessanta e così come di difendere la tradizione negli anni Duemila. Il segreto: 4 solide basi su cui costruire la propria saggezza, scrive Andrea Coccia su “L’Inkiesta” del 5 Gennaio 2016. Da quando, nel 1963, pubblicò alcuni dei suoi saggi più acuminati nella prima edizione dei Diari minimi ed entrò nell'avanguardistico Gruppo 63, sono passati più di cinquant'anni, e Umberto Eco ha fatto parecchia strada. Ha venduto milioni di libri, ha vinto un premio Strega con uno dei più grandi bestseller di sempre, si è visto assegnare 39 lauree honoris causa da altrettante università sparse per il mondo — da New York a Uppsala — ha tenuto lezioni almeno nel doppio delle scuole, ma soprattutto è entrato a gamba tesa in incontentabili dibattiti. Negli anni Sessanta, in quei dibattiti, ci entrava con il piglio progressista del rottamatore e dell'innovatore, prima sdoganando una bella fetta del pop — da Franti del libro Cuore a Mike Bongiorno — poi decretando contemporaneamente nascita e morte del postmoderno con Il nome della rosa; negli ultimi anni, invece, le sue entrate in scivolata sono state caratterizzate da un piglio un po' più, permettetemi il termine, reazionario, il piglio del censore, quello di chi ammonisce, di chi avvisa che, continuando in questa direzione, ci andiamo a sfracellare. La doppia faccia di Eco, quella progressista degli anni Sessanta e quella censoria degli ultimi anni, potrebbe apparentemente sembrare una contraddizione. Ma il cambio della guardia tra il pensiero avanguardistico giovanile e quello retroguardistico senile, non è affatto un cambio, è semplicemente il risultato della strenua fedeltà del Professore a se stesso e al proprio pensiero, intriso da sempre di filosofia medievale e strutturalismo. Proprio dal quel connubio tra la solidità medievale di un Tommaso d'Aquino e quella moderna di un Vladimir Propp, oggi Eco, che festeggia la veneranda età di 84 anni, è un campione di una sorta di progressismo reazionario. Un'etichetta bizzarra e un po' contraddittoria, le cui basi sono le seguenti, tutte legate tra loro.

A. Metodo. Tra i libri più letti di Umberto Eco, subito dopo Il nome della rosa, c'è un saggio che tutti coloro che hanno frequentato un'università negli ultimi quarant'anni hanno avuto per le mani almeno una volta. Si tratta di Come si fa una tesi di laurea, edito da Bompiani nel 1977. Il segreto di ogni solidità, infatti, sta alla base, ovvero alla struttura, e per costruirla ci vuole metodo. Una lezione che Eco ha appreso proprio dai medievali, e che non si è mai stancato di ripetere.

B. Memoria. Esattamente due anni fa, il 3 gennaio del 2014, Eco scriveva su L'Espresso una lettera a suo nipote in cui si raccomandava l'allenamento della memoria attraverso l'imparare “par coeur” qualsiasi cosa, dalla formazione della propria squadra di calcio fino alla Vispa Teresa, se servisse. Da quando abbiamo tutti un computer in tasca a forma di telefono, tendiamo a non ricordarci più nulla, delegando la nostra memoria a una ricerca su Google. Scrive Eco: «Il rischio è che, siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa». Ha ragione da vendere, e ammetterlo non significa essere un nostalgico dei tempi dell'Enciclopedia Britannica, ma semplicemente sapere quanto conta avere una base solida di nozioni da cui partire.

C. Pertinenza. Il terzo cardine del progressismo reazionario di Eco è la competenza e uno dei fortini di competenza che più strenuamente difende è la grammatica. Una delle ultime sortite sferrate durante una Lectio Magistralis dal Professore per alleggerire l'assedio al fortino grammaticale è stata quella contro l'uso improprio del Tu, ovvero contro la tendenza degli ultimi anni di dare del Tu a chiunque. Un problema che parte dalla grammatica ma che va ad intaccare tutto il cucuzzaro: «Il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati». Memoria, grammatica, pertinenza, competenza. Nel mondo di Eco, ovvero nel mondo della saggezza, tutto si tiene.

D. Competenza. L'ultimo ingrediente della saggezza di Umberto Eco è l'assoluta fedeltà alla competenza, il cui nemico più poderoso, di questi tempi, è proprio quell'internet che spesso il Professore ha attaccato. Ma attenzione, Eco non è di quelli che scambiano il contenuto con il contenitore, e non attacca mai internet in quanto tale, bensì chi su internet ci si perde, chi, pur non sapendo un acca di qualcosa, su quel qualcosa pontifica, o ancor peggio, chi pur non essendo capace di discernere tra una fonte autorevole e una fonte pataccara, affida la costruzione delle basi del proprio pensiero a qualche “scemo del villaggio portatore di verità”. Eco, che nel suo immaginario ha sempre coltivato la fantasia del Complotto, da buon maestro sa che per progredire i maestri servono. E i maestri bisogna saperseli scegliere, se no si resta una flotta di imbecilli che credono a qualsiasi cosa leggono su internet.

La BBC conferma: l’Inquisizione una truffa culturale per colpire la Chiesa. Addio ad uno dei suoi grandi calunniatori, Umberto Eco, scrive il 21 febbraio 2016 antimassoneria. Se oggi pensare al medioevo e alla Chiesa dell’epoca alla maggior parte del popolo poco informato vengono subito in mente roghi, streghe, superstizione e barbarie di tutti i generi lo dobbiamo sicuramente alla massoneria: si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, o almeno quella storia ricca di reticenze, omissioni, spesso di vere e proprie falsità; accuse che si continuano a scagliare anche a distanza di molti secoli. Infatti, una ricerca storica al di fuori dei libri di testo ci dà un quadro chiaro -e del tutto diverso come vedremo- da quello cosiddetto ufficiale. Il 19 Febbraio 2016 se ne va uno dei grandi calunniatori e mistificatori del medioevo e soprattutto, della Chiesa e della Santa Inquisizione. E così Umberto Eco pieno di sè fino all’orlo ha dovuto piegarsi anche lui davanti al ciclo naturale della vita, e alla natura come Dio l’ha creata, a cosa gli è servita tanta superbia se anche lui, “filosofo illuminati”, ha dovuto piegarsi-come i tutti i comuni mortali- alla sua ora? Il suo romanzo “Il Nome della Rosa” è uno dei libri più venduti di tutti i tempi insieme al “Codice da Vinci” di Dan Brown e a “50 sfumature di Grigio”, ciò la dice lunga sui gusti dei lettori occidentali, che sembrano chiedano: “ci vuole meno fede e ci vuole più sesso”. Ateo incallito, Eco ha fatto del suo meglio per trascinare il pubblico mondiale in direzione delle sue vedute personali contro la Cristianità, anche se questo ha significato mentire senza scrupoli. Umberto Eco – intervistato dal Corriere in occasione degli eventi di Charlie Hebdo– si schierò in favore della cancellazione di tutte le religioni, portatrici, secondo lui di odio e di distruzione, appoggiando in pieno il piano di dell’Unica Religione Globale in piena sintonia coi signori del potere e della globalizzazione. Non una parola ovviamente sulle cause reali di questi attentati, -che di islamico, a dir la verità hanno poco o nulla,- ma a questi eventi verranno contrapposti quelli della Santa Inquisizione, come dire? Due false flag a confronto. E fu così che anche Eco ha dovuto chiudere gli occhi e passare dall’aldilà, se abbia invocato la Divina Misericordia– l’unica possibilità di salvezza- non lo sapremo mai, ma sappiamo per certo che le sue menzogne, i suoi romanzi e le sue affermazioni continueranno ad essere riprese dai grembiulini (o massoni senza grembiule) che continueranno a servirsene per attaccare ingiustamente la Chiesa Cattolica e i suoi fedeli.  

Introduzione a cura di Floriana Castro Testo in basso tratto da Appuntiitaliani.com. (Le foto riportate nell’articolo sono tratte dal dalla versione cinematografica de “Il nome della Rosa” di Jean-Jacques Annaud. Raffigurano il falso scenario medievale che si è inculcato nella mente del popolo medio: volti raccapriccianti, torture, donne innocenti accusate e scene di sesso tra presunte streghe e monaci, la più grande mistificazione di tutti i tempi). Finalmente un documentario della BBC, una fonte sicuramente non di parte Cattolica, che smonta il mito sulla Santa Inquisizione con il quale la Chiesa Cattolica è stata calunniata per secoli. Tutto falso signori, è tutto falso. La Chiesa non è quel covo di torturatori sadici depressi e maniaci che ha compiuto stragi, anzi, questa accusa torna al mittente, ossia la propaganda rivoluzionaria francese, i protestanti, gli inglesi anglicani che hanno attaccato la Chiesa Cattolica con accuse infamanti coprendo invece i loro misfatti. Ebbene sì, sono loro i torturatori sadici depressi e maniaci che hanno ucciso e torturato civili soprattutto Cattolici in quanto oppositori dei loro regimi. Basti pensare ai 2 milioni di francesi uccisi dalla massonica Rivoluzione Francese, ai Vandeani trucidati, ai Cattolici perseguitati in Inghilterra, facendo 70.000 vittime. Un clima di terrore quotidiano, ghigliottine, carceri, omicidi e genocidi. Questi sono coloro che accusano gli altri di colpe che invece sono le loro. Forza Cattolici, non fatevi intimidire, la Chiesa non deve chiedere scusa di niente e tantomeno bisogna vivere in soggezione per un presunto passato oscuro. Lo stesso Napoleone, invasa la Spagna, credeva di trovare archivi insanguinati ed invece non trovò niente. Forse avrebbe dovuto indagare sui suoi fratelli a Parigi. Vorrei proporvi questo interessante articolo che riassume i nuovi studi storici sulla cosiddetta leggenda dell’Inquisizione Cattolica, uno dei cavalli di battaglia della Massoneria ma soprattutto del Protestantesimo anglosassone fresco di tradimento nei confronti di Roma ed in competizione con l’egemonia del nascente Impero Spagnolo. Altro interessantissimo documento a supporto dei fatti è il documentario della BBC inglese -fonte sicuramente non di parte Cattolica- che dimostra come i fatti storici siano stati ingigantiti e manipolati in chiave anticattolica dalla propaganda protestante. Naturalmente i cavalieri anticattolici si stracciano le vesti e si inneggiano a difensori della dignità umana solo quando si tratta della storia del Cattolicesimo, dimenticandosi invece delle colpe ben più gravi e maggiori per esempio di Lutero che perseguitò i Cattolici e  fece uccidere 100.000 anabattisti, oppure  degli eccidi  di  Cattolici da parte dell’anglicanesimo, e non dimentichiamo i 2.000.000 di francesi, il 10% della popolazione delle Francia  inclusi i 600,000 Vandeani,  uccisi durante la Rivoluzione Francese, la quintessenza della libertà  e della superiorità anticlericale  ed invece dimostratasi la madre di tutte le dittature. E che dire del Comunismo che fece 100 “milioni” di morti nel mondo, dei quali 30 “milioni” solo in Russia, per i quali però non c’è memoria nè si grida allo scandalo? Per non parlare del genocidio armeno e quello in corso di Cristiani in medio oriente. Nessuna menzione riguardo agli eccidi dell’impero Azteco che sacrificava la popolazione con riti propiziatori  in quantità industriale fino a raggiungere i 30.000 morti ogni anno e che giustamente sono stati travolti dagli spagnoli che hanno letteralmente liberato la popolazione locale da tale tirannia satanica, non solo si vorrà vedere quei territori liberati da quel male, ma si accuserà persino il condottiero spagnolo, Hernan Cortes di inciviltà e barbarie contro quel civile e pacifico popolo. Ma si sà, l’unica liberazione accettabile è quella della dittatura liberale che ha portato guerra in Europa negli ultimi tre secoli ed ora   bombarda civili per esportare la falsa democrazia, nel silenzio totale dei sostenitori degli eroi che avrebbero liberato il mondo dalla millantata tirannia della Chiesa Cattolica

Ida Magli o la fallocrazia spiegata alle femministe, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2016 su "Il Giornale". Dopo Costanzo Preve si spegne un’altra voce fuori dal coro. Ida Magli è morta nella sua casa a Roma, all’età di 91 anni. Ad annunciarlo è stato Giordano Bruno Guerri, vicino alla famiglia, che con lei scrisse anche un libro intervista nel 1996Per una rivoluzione italiana. Molti ora la ricordano per quel trittico anti-globalista (La dittatura europea, Dopo l’Occidente e Difendere gli italiani) che con largo anticipo pose le basi moderne del primato politico sull’economico. Ma la Magli era innanzitutto un’antropologa laureata in filosofia con specializzazione in psicologia medica sperimentale alla Sapienza dove ha insegnato fino al 1988. Studiava l’uomo anche se si è sempre impegnata nella difesa delle donne. Il suo libro più affascinante e meno commerciale risulta infatti La sessualità maschile (Baldini&Castoldi) in cui affrontò il tema centrale del potere confutando le banali teorie femministe che hanno sempre parlato di una società maschilista, senza però spiegarne le origini. “Per capire la nostra cultura dovevo capire i maschi, visto che sono stati loro a costruirla. Questa la strada che ho percorso a ritroso. E alla sommità della risalita ho trovato il pene” scrive. In un breve manoscritto Ida Magli si avventura in una tesi scontata quanto illuminante: al principio della nostra civiltà c’è l’organo sessuale maschile. Così il “fallo” dell’uomo viene analizzato non solo come forza simbolica, ma come organo biologico. Il pene, osserva Ida Magli, si erige, si distanzia in certo senso dal corpo e per giunta proietta la sua essenza all’esterno, amplificando la volontà di potenza dell’uomo. Così l’erezione diventa sinonimo di conquista e il getto dello sperma, uno strumento di dominazione. “Fallocrazia” a parte, il sesso femminile era stato già studiato un secolo prima dal giovane scrittore austriaco Otto Weininger che in Sesso e Carattere distingueva l’uomo dalla donna per la sua genialità (intesa come capacità d’inventare e creare). Sul piano biologico “la vagina riduce il sesso femminile alla riproduzione”, che si traduce su quello simbolico all’imitazione. Questa tesi non vuol essere misogina, bensì una constatazione storicamente verificata (Weininger lo riscontra nella musica, nella pittura, nella scrittura, nella filosofia, nella scienza, nella politica), che tuttavia può essere confutata con delle ovvie eccezioni (Caterina di Russia, Rosa Luxembourg, Evita Peron, Simone Weil, Margherita Hack, solo per citarne alcune). Eppure l’ideologia femminista ha voluto rendere questa eccezione, sinonimo di naturalezza, in una regola inscatolata: le quote rosa. Un’emancipazione in realtà solo apparente nella “grande dittatura finanziaria”. L’antropologa Ida Magli ci ha insegnato che le decisioni politiche si prendono in altre sfere di potere perché i Parlamenti non contano più nulla. Bene, vi siete mai chiesti quante donne lavorano tra la City londinese e Wall Street? Poche, forse nessuna. Tutti quei “burocrati, banchieri e faccendieri” che lavorano dietro le quinte sono uomini e hanno il pene.

Hanno ucciso mediaticamente Ida Magli. Non riceverà, Ida Magli, gli onori mediatici che ha ricevuto Umberto Eco per la sua scomparsa, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 23/02/2016, su "Il Giornale". Chissà come avrebbe commentato i giornali del giorno dopo, se avesse potuto leggerli. Da antropologa di lungo corso e da intellettuale avvezza ai peggiori difetti del culturame, ne avrebbe fatto un interessante caso di studio di quella particolare distorsione del pensiero e della morale che va sotto il nome di razzismo antropologico. Come definire altrimenti la reazione della stampa italiana - silenzio o giudizi di parte - alla morte di Ida Magli? L'Unità e il Fatto Quotidiano: neppure una riga. La Stampa: una breve di sei righe, in cui si sbaglia anche il titolo dell'ultimo libro (Figli dell'uomo. Duemila anni di mito dell'infanzia, Bur), dicendo che uscirà nei prossimi mesi quando invece è in libreria da novembre. Corriere della sera: un fogliettone in cronaca, che gli nega la dignità della sezione Cultura, in cui si dice che «forse ne ha sparata qualcuna un po' grossa» (ma colei che firma il pezzo è una femminista fuori tempo massimo incarognita con chi, come la Magli, di fronte alle violenze imposte alle donne dagli islamici si chiese giustamente «ma come, abbiamo appena incominciato a emanciparci dai nostri veli, dalle nostre velette e ammettiamo che si torni indietro di secoli?»). E la Repubblica - che pure pubblica un bel pezzo di Marino Niola - incentra il ricordo sulla Magli femminista e di sinistra lasciando solo poche righe alla Magli degli anni Novanta-Duemila, quella che per prima prese dure posizioni contro il mondo musulmano e l'Unione europea. Ecco il punto: perché separare un «prima» e un «dopo» (come ha fatto la migliore intellighenzia su Twitter) e non considerare l'intellettuale come unico, con tutte le sue sfumature? E perché (come si sono sfogati in tanti sui social) ricordarla per la sua militanza femminista e poi consegnare le legittime critiche all'islam a una «deriva xenofoba»? È la formula standard del pensiero corretto: chi si azzarda a denunciare il substrato antidemocratico del mondo islamico o manifesta paura per i flussi migratori ormai completamente fuori controllo, è immediatamente tacciato di islamofobia, o ignoranza, o razzismo. Per i politicamente scorretti non c'è posto. Come non c'è stato posto (ancora meno rispetto Ida Magli) per Piero Buscaroli, uno che ha vissuto dalla parte dei vinti tutta la vita, fin da quando aderì, da ragazzo, alla Rsi: non sono bastati libri magistrali di musicologia e una carriera giornalista straordinaria per una «redenzione» agli occhi dei benpensanti. E così, morto settimana scorsa, è stato ignorato da tutti. Uccidere mediaticamente un irregolare del pensiero, o anche due, non è reato.

Umberto Eco e gli Intellettuali partigiani. Morto lo scrittore Umberto Eco. Il semiologo, filosofo e scrittore noto al grande pubblico per "Il nome della rosa" si è spento ieri sera: aveva 84 anni, scrive Chiara Sarra, Sabato 20/02/2016, su "Il Giornale". È morto ieri sera a 84 anni Umberto Eco, semiologo, filosofo e scrittore, noto al grande pubblico soprattutto per i romanzi Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988). Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, nel 1988 aveva fondato il Dipartimento della Comunicazione dell'Università di San Marino e dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell'Università di Bologna e dal 2010 socio dell'Accademia dei Lincei. Eco è autore di molti romanzi di successo, ma anche di saggi di semiotica, linguistica e filosofia. L'ultimo libro, Numero Zero è stato pubblicato nel 2015: ambientato nel 1992, racconta di una redazione di un giornale, ripercorrendo con questo stratagemma narrativo tutte le tappe importanti della storia d'Italia da Tangentopoli a Gladio, passando per P2 e terrorismo rosso. Da ieri sera il ricordo dello scrittore si rincorre sui social, che nonostante la tarda ora in cui è giunta notizia della sua morte, celebrano il grande intellettuale. Sintetico il comunicato di Bompiani: "lutto per la cultura, ci lascia Umberto Eco: Siamo addolorati". Giovanna Melandri aggiunge "Che tristezza la notizia della morte di Umberto Eco. Un grandissimo intellettuale e scrittore, una persona unica e speciale. Mancherà tanto". Anche la cantante Noemi affida le sue sensazioni ai social scrivendo: "Una parte della nostra cultura e letteratura. Ora tocca a noi. Saremo capaci di raccontarci così bene agli Italiani di domani?". "È mancato un grande italiano", nota Ivan Scalfarotto. Ma quello che salta più agli occhi è la quantità di messaggi lasciata da gente qualunque, lettori e studenti formatisi sui suoi libri, che ricordano Eco postando alcune citazioni. La più ricordata è quella che forse meglio rappresenta il motivo per cui uno scrittore non certo facile sia oggi ricordato come una rockstar: "Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni". Profondo cordoglio anche da Matteo Renzi: "Esempio straordinario di intellettuale europeo, univa una intelligenza unica del passato a una inesauribile capacità di anticipare il futuro", sottolinea Renzi, "Una perdita enorme per la cultura, cui mancherà la sua scrittura e voce, il suo pensiero acuto e vivo, la sua umanità", conclude il presidente del consiglio.

Eco, dalla tv ai romanzi fino alle 40 lauree, continua Chiara Sarra. Con la morte di Umberto Eco il mondo della cultura, anche internazionale, perde una delle figure di maggiore importanza. Filosofo e semiologo, fine cultore del Medioevo, padre della semiotica interpretativa, ma anche saggista e professore emerito dell’Università di Bologna. Eco iniziò a interessarsi all’influenza dei mass media nella cultura di massa a partire dalla fine degli anni ’50. Nel 1988 fondò il Dipartimento della Comunicazione dell’Università di San Marino. Dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna. Dal 12 novembre 2010 Umberto Eco diventa socio dell’Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. Figlio di un negoziante, Eco conseguì la maturità al liceo classico "Giovanni Plana" di Alessandria, sua città natale. In gioventù fu impegnato nella Giac (l’allora ramo giovanile dell’Azione Cattolica) e nei primi anni cinquanta fu chiamato tra i responsabili nazionali del movimento studentesco dell’Ac. Nel 1954 abbandonò l’incarico in polemica con Luigi Gedda. Si Laurea in filosofia nel 1954 all’Università di Torino con Luigi Pareyson con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino iniziò a interessarsi di filosofia e cultura medievale, campo d’indagine mai più abbandonato, anche se successivamente e per lunghi anni si dedicò allo studio semiotico della cultura popolare contemporanea e all’indagine critica sullo sperimentalismo letterario e artistico. Nel 1956 pubblicò il suo primo libro, un’estensione della sua tesi di laurea dal titolo Il problema estetico in San Tommaso. Ma è lunga e molto importante la lista dei suoi lavori. Tra i maggiori: nel 1963 pubblica un libro che è diventato nel tempo un classico Diario minimo (Mondadori), volume che raccoglie saggi come Fenomenologia di Mike Bongiorno e Elogio di Franti. E ancora, Apocalittici e integrati (Bompiani) del 1964, altro classico La struttura assente (Bompiani, 1968). Ma la celebrità a livello mondiale arriverà nel 1980 con Il nome della rosa. Un romanzo che farà riscoprire all’Italia e poi al mondo intero, attraverso la formula del giallo, dell’intrigo, del mistero, il meraviglioso mondo medievale. Con Il nome della rosa Eco vincerà il Premio Strega nel 1981 e numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Ma al di là dei premi Il nome della rosa ha rappresentato il desiderio di Eco di dare pari dignità a tutte le forme culturali. Dopo Il nome della rosa, sono arrivati Il pendolo di Foucault (1981), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000). Fino al più recente Numero zero. Nella sua lunga carriera, nel 1954 vince un concorso della Rai per l’assunzione di telecronisti e nuovi funzionari. Con Eco vi entrarono anche Furio Colombo e Gianni Vattimo. Dal 1959 al 1975 fu condirettore editoriale della casa editrice Bompiani. Nel 1962 pubblicò il saggio Opera aperta che ebbe notevole risonanza a livello internazionale e diede le basi teoriche al Gruppo 63, movimento d’avanguardia letterario e artistico italiano. Nel 1961 iniziò anche la sua carriera universitaria che lo portò a tenere corsi, in qualità di professore incaricato, in diverse università italiane: Torino, Milano, Firenze, infine, Bologna dove ha ottenuto la cattedra di Semiotica nel 1975, diventando professore ordinario. All’università di Bologna è stato direttore dell’Istituto di Comunicazione e spettacolo del Dams, poi ha dato inizio al Corso di Laurea in Scienze della comunicazione. Infine è divenuto Presidente della Scuola Superiore di Scienze Umanistiche che coordina l’attività dei dottorati bolognesi del settore umanistico. Nel corso degli anni ha insegnato anche in varie università straniere tra cui UC-San Diego, New York University, Columbia University, Yale, College de France, Ecole Normale Superieure. Nell’ottobre 2007 si è ritirato dall’insegnamento per limiti di età. In tutta la sua lunga carriera Eco ha ricevuto 40 lauree honoris causa da università europee e americane.

È morto Umberto Eco. Filosofo, semiologo e romanziere, aveva 84 anni. Da "Il nome della Rosa" a "Numero Zero", nei suoi libri lo spirito del tempo, scrive il 20 febbraio 2016 Panorama. Umberto Eco scrittore, filosofo e semiologo, aveva 84 anni. La notizia della sua morte è stata data dalla famiglia a Repubblica. Il decesso è avvenuto alle 22:30 di ieri nell'abitazione dello scrittore. Eco era nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932. Tra i suoi maggiori successi letterari Il nome della rosa del 1980 e Il pendolo di Foucault (1988). Il suo ultimo libro, Anno zero, è stato pubblicato lo scorso anno da Bompiani. Nel 1962 Eco pubblica Opera aperta, analisi di testi letterari in termini strutturalisti a partire da Ulisse di Joyce, che fa discutere e diviene uno dei manifesti della neoavanguardia riunita l'anno dopo nel Gruppo '63. Nel 1980 esce invece il romanzo storico medioevale Il nome della rosa, che suscita consensi internazionali, best seller da oltre 12 milioni di copie. Si svolge tra queste due tappe, meno lontane e diverse di quanto possa apparire, il lavoro di Eco, che aveva festeggiato il 5 gennaio scorso gli 84 anni. Da osservatore ironico e semiologo avvertito oltre che creativo, ha dimostrato in ogni occasione di saper cogliere lo spirito del tempo. Il suo Lector in fabula, saggio del 1979 (non a caso periodo in cui stava scrivendo proprio Il nome della rosa), è appunto il lettore che in un testo, in particolare se creativo, letterario, arriva a far interagire col mondo e le intenzioni dell'autore, il proprio mondo di riferimenti, le proprie associazioni, che possono creare una lettura nuova: ''generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui''. Un'"opera aperta" è proprio quella che più riesce a produrre interpretazioni molteplici, adattandosi al mutare dei tempi e trovando agganci con scienze e discipline diverse. Una tesi che apparve dirompente in un paese legato alle sue tradizionali categorie estetiche, diviso tra crocianesimo e marxismo storicista. E il discorso di Eco non riguarda, ovviamente solo la forma, la struttura di un'opera, come intesero molti autori di quegli anni, tanto che poco dopo dette alle stampe La struttura assente, che spostava il discorso sulla ricerca semiologica e le sue interazioni. Così, forse, il tentativo più esemplare nel mettere in pratica le sue teorie, è nel 2004 La misteriosa fiamma della regina Loana, romanzo illustrato con foto di libri e riviste, manifesti, tavole di fumetti, che fanno parte del racconto e contribuiscono a far rivivere l'atmosfera dell'epoca (da fine anni '30 alla guerra) a ogni lettore anche con i propri ricordi. Insomma, anche un romanzo di un personaggio e studioso di questo tipo, attento alla cultura di massa e già autore di paradossali e ironiche pagine su aspetti minori della realtà raccolte in Diario minimo negli anni '60, nasce entro questo spettro di riferimenti con una sapienza, non solo costruttiva e intellettuale. E il successo internazionale, col Nome della rosa, di un saggista raffinato, di uno studioso che aveva debuttato laureandosi sui problemi estetici in San Tommaso, finì per suscitare più polemiche delle sue innovative teorie saggistiche. Se in tanti parlano di ''libro geniale e assai notevole'' come sintetizzava Maria Corti, ecco che per Geno Pampaloni c'era ''difetto di genio letterario'', Francesco Alberoni lo definiva ''libro privo di emozioni'' che deve la sua fortuna all'essere divenuto un feticcio di cultura, mentre Stefano Benni ha ''chiuso a pagina trenta, assalito dalla noia''. Poi verranno gli altri romanzi, altri best seller che ne consolidano la fama e stemperano le astiosità: Il pendolo di Foucault nel 1988, L'isola del giorno prima 1994 e Baudolino 2001, La misteriosa fiamma della regina Loana 2004 e l'anno scorso Il cimitero di Praga. Ancora una volta, attraverso la storia nel XIX secolo del tragico e graduale prosperare di quella falsificazione nota come I protocolli dei Savi di Sion, che ispirerà anche Hitler, un romanzo di ampio intreccio, ricco di erudizione divulgata con eleganza e in quella misura che impegna il lettore comune, ma non troppo, introducendolo con sapienza narrativa in una coinvolgente realtà di idee e storica. Fino all'ultimo romanzo sul mondo dei giornalisti e dell'editoria, Numero Zero, uscito l'anno scorso.

Caro Umberto, ci hai lasciato orfani. Era il maestro assoluto nell'arte di vivere la contraddizione, aveva una rara capacità di conciliare in un modo che sembrava armonioso, antinomie in apparenza inconciliabili. Un intellettuale vero, che difficilmente distingue tra il proprio privato e il pubblico. Ecco perché il potere lo temeva. Ecco perché lo rimpiangeremo, scrive Wlodek Goldkorn il 20 febbraio 2016 su "L'Espresso". Chiunque abbia conosciuto Umberto Eco nel cuore suo, oltre a volergli bene, lo temeva. Ed era bello temerlo. Infatti, Eco, nato il 5 gennaio 1932 ad Alessandria e scomparso la sera del 19 febbraio a Milano, è stato prima di tutto un grandissimo intellettuale, ossia l'uomo che dall'alto del suo sapere e della sua esperienza di vita, giudica e si schiera. Un intellettuale vero, ed Eco era uno degli ultimi al mondo ad appartenere a questa categoria, difficilmente distingue tra il proprio privato e il pubblico. Ecco perché lo temeva non solo il potere, ma anche la cerchia dei suoi conoscenti e amici. In realtà, però, Umberto era un uomo mite. Un po' perché sapeva quanto la rabbia fosse faticosa e inutile, ma prima di tutto perché la sua mitezza era il risultato di una profonda riflessione. Detto brutalmente (e con ammirazione), era il maestro assoluto nell'arte di vivere la contraddizione, aveva una rara capacità di conciliare in un modo che sembrava armonioso, le antinomie in apparenza inconciliabili. Era un accademico (senza di lui niente semiologia) e al contempo autore di testi giornalistici, anzi l'uomo che dentro il mondo dei media sapeva muoversi come se tutta la sua vita professionale si fosse svolta nell'ambito del giornalismo. E basti pensare al suo impegno con L'Espresso, alla Bustina di Minerva. Infatti, qui all'Espresso l'abbiamo sempre temuto. Ma l'abbiamo anche pensato come a uno di noi, però un po' migliore, e più colto di tutti noi messi insieme. Come si diceva, Eco era un grande accademico, ma anche l'uomo che spiegò, fu tra i primi a farlo, quanto la cultura popolare, il fumetto in fattispecie, siano spesso anche dei testi dai forti risvolti filosofici (Charles Schulz, il papà dei Peanuts, per il Nostro era un maestro dell'etica). E ancora, con “Il Nome della Rosa” il semiologo si era trasformato in un romanziere: non un semplice scrittore, ma un autore di bestseller (tradotto in quaranta lingue, 30 milioni di copie vendute). Però, si trattava di un bestseller che non assomigliava a tanto ciarpame che va di moda. “Il nome della Rosa”, contiene considerazioni filosofiche che riportano a Tommaso d'Aquino, Aristotele, Guglielmo d'Ockham; tocca la disputa teologica sulla povertà nella Chiesa (e papa Francesco sembra talvolta uscito dalle pagine di quel libro) e ha una struttura stratificata, che si presta a mille letture e infinite interpretazioni. Affascinato dalla molteplicità dei codici e dei significati, Eco ha dedicato molto tempo ed energie allo studio delle varie teorie di cospirazione; quel modo di interpretare il mondo semplificandolo, dandone una versione che possa spiegare in apparenza tutto, ma che riduce il tutto a una narrazione nichilistica e senza speranza, mentre lui cercava invece il desiderio che poi è fondamento di ogni immaginazione e quindi dell'avvenire (cosa è il futuro se non il frutto della nostra immaginazione?). Per capire quell'universo oscuro e pieno di falsità ha scritto “Il cimitero di Praga”, un romanzo in cui risale alle origini dei “Protocolli dei savi saggi del Sion”, dandone una paternità diversa da quella convenzionalmente accreditata. Ma soprattutto, in questo romanzo spiega come tutte le teorie di cospirazione muovano dalla stessa matrice. Declinata poi secondo codici diversi. Eco era una persona che ci ha insegnato la cosa più difficile da comprendere e accettare: che ogni opera crea un linguaggio nuovo, quindi ogni linguaggio porta con se infinite possibilità di interpretazione. Un intellettuale quindi che ha anticipato il postmodernismo? Sì. Ma poi, al contrario di quanto sopra, Eco era un intellettuale moderno; uno che sapeva quanto abbiamo bisogno, ancora, di categorie, gerarchie, ordine, sapere generale e non solo parziale e frammentario, quanto la conoscenza delle nozioni, dei dati e delle date, della storia e della geografia, fossero importanti. O, se vogliamo, ci ha insegnato che per sovvertire il linguaggio (strumento di potere) bisognava prima di tutto padroneggiare il linguaggio. Sì, per lui padroneggiare era importante. Lo dimostra la sua ultima, estrema impresa: La nave di Teseo, una casa editrice nuova. Oltre la contingenza (la nascita di Mondazzoli) dopo essere stato autore di libri e delle parole, Eco voleva esserne anche il padrone. Nel migliore senso della parola: uno che si gioca il tutto per tutto. Ora la Nave di Teseo sta per salpare. Senza di lui, ma con i suoi libri. Nell'epoca della frammentazione del sapere e della infinita riproduzione delle fonti, Umberto Eco è stato uno degli ultimi intellettuali veri, un uomo che cercava di abbracciare la totalità del sapere. Ci lascia orfani.

Casa Pound contro Eco: "Voleva rieducare gli elettori di destra". Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, pubblica su Facebook un epitaffio polemico nei confronti del noto scrittore deceduto ieri, scrive Francesco Curridori, Sabato 20/02/2016, su "Il Giornale". "È morto uno che firmava appelli alla lotta armata per il comunismo, uno che affermava tranquillamente l'inferiorità culturale degli elettori di destra proponendo una loro "rieducazione"...Stile gulag sovietici per intenderci. Ciao Umberto, prova a fare lo spocchioso con Caronte stanotte". È l'epitaffio postato su Facebook che Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, dedica all'intellettuale Umberto Eco scomparso ieri notte a 84 anni. Al militante che gli fa notare che Ecco fosse comunque un valido scrittore, Di Stefano risponde a muso duro: "Tu per lui eri feccia. Comunque Il giudizio 'artistico' è soggettivo, l'arte non conosce colore politico. Però di fronte alla apologia che lo dipinge come una specie di santo è giusto che si sappia cosa pensava veramente".

Umberto Eco spara a zero: "Internet è la patria degli scemi del villaggio". Lo scrittore massacra i social e tutti quelli che li frequentano. Un'uscita infelice che ci affibbia il titolo di "scemi del villaggio", scrive Sonia Bedeschi, Giovedì 11/06/2015, su "Il Giornale". Un tempo quelli che venivano definiti gli "scemi del villaggio" erano personaggi strani, con difetti in evidenza, stravaganti e anche un po' tonti. Ma si sa, i tempi cambiano, le tecnologie fanno il loro corso e dalla carta stampata dal profumo inconfondibile si è lentamente passati al web: internet e i suoi social. Una novità, uno progresso che fa tremare il noto professore Umberto Eco, tanto da consentirgli di entrare a gamba tesa sulla reale funzione di internet, dei social, e dell'uso che ne fanno gli "scemi" che navigano e frequentano. Questa volta Umberto Eco ci va giù pesante, la sua è una provocazione perché in altre occasioni, pur con grande e ironica severità, il professore aveva criticato la rete ma insieme ne aveva esaltato le potenzialità. Infatti aveva dichiarato "Oltre a custodire la memoria storica, gli strumenti multimediali possono essere dei dispositivi per rinforzare la capacità di ricordare". E fin qua tutto bene. Gli anni passano e ora Eco si trova ad avere la bellezza di 83 anni, e il suo pensiero, su internet e social e' decisamente cambiato, in peggio. "I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Di solito venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel". Insomma l'avvento del web e naturalmente chi ci lavora dentro, stando alle sue parole, rappresenterebbero una vera e propria minaccia per l'umanità, addirittura un danno e magari irreparabile. Eppure ricordiamo al sempre noto professore, che ha ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all’Università di Torino, che dietro al "pericolosissimo" internet esistono persone serie, professionali, che lavorano, che si fanno quotidianamente "un mazzo così". E ora non ci venga a dire che con queste sue sparate non voleva certo generalizzare. Perché dopo queste sue dichiarazioni, ammettetelo, ci sentiamo un po' tutti "scemi del villaggio", perché la consultazione di internet e l'interazione attraverso i social occupano buona parte della nostra giornata. Senza fare troppi danni, anzi in molti casi, quelli che lavorano o passano il tempo sul web, sfornano informazione, e spesso e volentieri attendibile. Continua Eco "Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità", ha osservato invitando i giornali "a filtrare con équipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno". Insomma ci sentiamo, credo, un po' tutti offesi da queste raccomandazioni che suonano come una iniezione di terrore, sospetto e sfiducia. Diciamo allora che ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, dovrebbe stare al passo coi tempi se possibile, dovrebbe accettare l'evoluzione naturale della tecnologia e delle persone. Nessuno di noi naviganti si sente scemo, semplicemente al passo coi tempi. Poi sta a ognuno di noi attivare il buon senso e fare un uso corretto della tecnologia.

Eco, un intellettuale sempre organico (ma solo a se stesso), scrive Vittorio Feltri, Domenica 21/02/2016, su "Il Giornale". La livella arriva per tutti e non ha risparmiato neppure Umberto Eco, morto in casa propria a 84 anni, dopo aver inanellato una serie impressionante di successi editoriali che lo hanno reso famoso nel mondo. Il suo romanzone Il nome della rosa è stato tradotto in un centinaio di lingue e ha venduto 12 milioni (14 secondo qualcuno) di copie, quante ne bastano per arricchire un autore. Se si aggiunge la diffusione notevole di altre sue opere, ad esempio Il pendolo di Foucault, si arriva a una montagna di volumi. Non vogliamo fare i conti in tasca a Eco, ma solo ricordare che egli è stato un intellettuale importante per la cultura italiana del dopoguerra. Non piaceva a chiunque lo avesse letto, ma ciò è normale. Come sempre, anche nel suo caso era ed è la politica a dividere il pubblico tra estimatori e detrattori. Le mode culturali contribuiscono in modo decisivo ad innalzare un uomo ai vertici della considerazione popolare o a farlo sprofondare negli abissi del disprezzo. Umberto è stato bravissimo nella scelta di campo utile a portarlo sull'Olimpo. Pur essendo stato cattolico all'inizio della carriera, non ha esitato a diventare miscredente e a schierarsi a sinistra in tempi in cui i cristiani erano democristiani, cioè gentucola conformista, mentre i laici erano comunisti e quindi degni della massima stima. Non affermiamo che Umberto sia saltato da una sponda all'altra per opportunismo. Probabilmente si è limitato a seguire la propria indole di uomo del giorno. Ma il sospetto rimane, visto che il passaggio da qui a là gli ha giovato parecchio in termini di consenso e di incasso. I laici progressisti negli ultimi 60 anni hanno goduto di grandi agevolazioni: porte aperte, buona stampa, elogi sperticati della corporazione dei cosiddetti intelligenti. Giuseppe Berto, grande scrittore che negli anni Sessanta vinse per sbaglio il Campiello con il Male oscuro, romanzo contro la psicoanalisi, fu dimenticato (e schifato) in fretta, perché genericamente di destra, ossia ostile alle ideologie correnti e di maggior presa nel periodo in cui i suoi libri erano in commercio. Quando tirò prematuramente le cuoia non fu celebrato adeguatamente. Lo stesso dicasi per Giuseppe Prezzolini, snobbato poiché conservatore dichiarato. Vabbè, niente di nuovo né di sensazionale. Eco, a differenza di costoro, condannati al silenzio e all'oblio, seppe inserirsi nel filone giusto riuscendo a suscitare l'attenzione e l'approvazione nei contemporanei affascinati dall'eurocomunismo inventato da Luigi Berlinguer, una teoria fantasiosa eppure in grado di sedurre circa la metà della beota popolazione italiana. Fu bravo a intuire la strada da percorrere per giungere in vetta al gradimento dei cittadini sedicenti illuminati. Ciò non toglie alcun merito allo scrittore alessandrino, anzi accresce la misura della sua abilità di intellettuale (quasi) organico. Umberto non è mai stato contestato da nessuno che avesse i titoli per farlo. Lui stesso a un certo punto confessò che Il nome della rosa, nonostante il boom delle vendite (qualcosa di straordinario) era il suo peggior romanzo. Non saprei dire se avesse ragione o torto; sta di fatto che questo era il suo pensiero, almeno quello manifestato con stupefacente franchezza (a cui sarei portato a non credere). Eco, coerentemente con le posizioni acquisite negli anni della maturità, ha collaborato con l'Espresso e la Repubblica, sui quali ha scritto articoli memorabili, che hanno immancabilmente fatto scalpore. Egli assurse ancor giovane (relativamente) al ruolo di maître à penser, ascoltato e lodato dai compagni di ogni risma. Bisogna dargli atto che non è mai stato banale nelle sue osservazioni. Filosofo, semiologo, linguista e professore universitario, egli fu protagonista di un episodio storico. Dopo aver collaborato assiduamente con Lascia o raddoppia?, il primo programma televisivo della Rai d'antan, Umberto scrisse un saggio clamoroso in cui faceva a pezzi il conduttore della trasmissione: Mike Bongiorno. Un'impennata che rivelava appieno la personalità dello scrittore scomparso, uno che faceva e disfaceva con sorridente e irridente disinvoltura. Ebbi anch'io con lui un garbato scontro. Io sostenni che la destra si era impoverita perché tutti gli intellettuali destrorsi, dal 25 aprile 1945 in poi, si erano trasferiti armi e bagagli nella sinistra, cambiando bandiera senza battere ciglio. Era la verità. Ma Eco mi rispose che i voltagabbana non erano tali in quanto non fascisti, bensì esponenti della destra storica. E avevano semplicemente mutato idea. La sua mi parve una stupidaggine. Ma lui era lui e io ero io. Una replica alla marchese del Grillo. Niente di serio. Vittorio Feltri.

Eco fu il migliore della sinistra che si crede sempre migliore. Incarnò alla perfezione la presunta superiorità antropologica dei progressisti sugli "altri". Rinunciò a capire gli italiani che sognavano una destra liberale preferendo attaccare il mondo berlusconiano, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 21/02/2016, su “Il Giornale”. Nel 2005 Luca Ricolfi scrisse il saggio Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori (Longanesi). Il sociologo analizzava la reazione degli intellettuali, più o meno militanti a seconda dei casi, di fronte all'avanzata del berlusconismo. Già nel 1994, dopo la clamorosa sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, si faceva strada la teoria delle due Italie. Una virtuosa, minoritaria e di sinistra. L'altra avida, corrotta, meschina, maggioritaria e di destra. Una colta, amante della lettura. L'altra ignorante, schiava delle televisioni. Tra i molti esempi di questa mentalità, sorda e cieca innanzi al Paese, felice di crogiolarsi nel pregiudizio, Ricolfi citava anche il professore Umberto Eco. In effetti Eco, nel 2001, su Repubblica aveva teorizzato «al meglio» la superiorità antropologica della sinistra, e diviso i cittadini di destra in due categorie. La prima. L'Elettorato Motivato è composto dal «leghista delirante», dall'«ex fascista», e da tutti coloro che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all'indipendenza dei pubblici ministeri». La seconda. L'Elettorato Affascinato «non ha un'opinione politica definita, ma ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi. Per costoro valgono ideali di benessere materiale e una visione mitica della vita, non dissimile da quella di coloro che chiameremo genericamente i Migranti Albanesi». Marcello Veneziani riassunse in una formula poi ripresa da tutti - incluso Ricolfi - tale modo di vedere le cose: «razzismo etico». Rientrano in questo schema intellettuale, che ha avuto un nefasto influsso sulla vita culturale del Paese, alcune provocazioni del professore: gli appelli contro Berlusconi, lo sciopero dei consumi di prodotti delle aziende di Berlusconi, la promessa (non mantenuta) di abbandonare il Paese in caso di vittoria elettorale di Berlusconi, il paragone tra Hitler e Berlusconi, le rampogne contro il populismo e il fascismo strisciante di Berlusconi. Non sorprende che, a un certo punto, Eco fosse rimproverato da una parte dei suoi compagni di strada (oltre Ricolfi, ricordiamo Franco Cordelli, Erri De Luca, Gianni Vattimo) perché parlava soltanto di Berlusconi, ottenendo l'effetto di renderlo ancora più forte, mentre ignorava le gravi lacune della sinistra. Lui rispose così alle critiche, in un'intervista rilasciata a Dino Messina e pubblicata dal Corriere della Sera: «Guardi, l'Italia nei cinque anni appena trascorsi si è messa sulla strada del declino. Se andiamo avanti così diventiamo definitivamente un Paese da Terzo Mondo. Figurarsi se di fronte a un tale rischio mi metto a parlare della barca di D'Alema, che pure mi permetterebbe di fare delle bellissime battute». Era appena uscito A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico (Bompiani, 2006) una raccolta di saggi sull'era Berlusconi. Al di là dello sdegnato giudizio etico, c'era poco. A Eco, come a molti altri, mancava la curiosità di scoprire davvero chi fossero e cosa volessero i milioni di italiani che speravano in una svolta liberale. La sua ultima avventura editoriale, la fondazione della casa editrice La Nave di Teseo, appena varata insieme con Elisabetta Sgarbi, rispondeva al desiderio di non pubblicare i suoi ultimi libri con la Mondadori della famiglia Berlusconi, che aveva acquistata Rcs Libri, e con essa la Bompiani, il suo editore storico. Venerdì prossimo La nave di Teseo pubblicherà Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, libro che nasce dalle Bustine di Minerva, la rubrica di Eco sul settimanale l'Espresso. Si parlerà anche di politici. Almeno uno, sapete già chi è.

La «Nave» della superiorità antropologica, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 25/11/2015, su "Il Giornale". Ieri è andato in scena, sulle pagine de la Repubblica, l'eterno ritorno dell'anti-berlusconismo, la malattia senile della sinistra rimasta senza idee. Questa volta il bersaglio è Marina Berlusconi, presidente del Gruppo Mondadori. L'occasione per lucidare le armi impolverate è fornita dalla fondazione di una nuova casa editrice, La nave di Teseo. Al timone ci sarà Elisabetta Sgarbi, che ha rassegnato le dimissioni da Bompiani in seguito alla acquisizione di Rcs Libri (e quindi di Bompiani) da parte del Gruppo Mondadori. Una concentrazione, a suo dire, preoccupante perché viatico alla omologazione della proposta editoriale. Con sé, Elisabetta Sgarbi avrà editor e autori provenienti anch'essi da Bompiani: Mario Andreose, Eugenio Lio, Umberto Eco, Sandro Veronesi, Pietrangelo Buttafuoco, Edoardo Nesi e altri. Due giorni fa, da Segrate era filtrato il dispiacere per questa decisione. Elisabetta Sgarbi rifiutava interpretazioni politiche o ideologiche. Meglio la frammentazione o la concentrazione per rilanciare il settore? La qualità è appannaggio dei piccoli editori, dei grandi o di entrambi? A ciascuno le proprie opinioni. A questo punto, in qualunque Paese al mondo, la parola sarebbe passata al mercato, cioè ai lettori. Ma siamo in Italia, e ci ha pensato la Repubblica a trasformare la questione editoriale in questione ideologica, mettendo il cappello su La nave di Teseo. Per accendere le polveri, bastano le parole di Elisabetta Sgarbi, che racconta dal suo punto di vista il rapporto con Marina Berlusconi: «Non ha capito perché ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia editoriale e gestionale». Glossa di Umberto Eco: «Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito». Ieri pomeriggio Elisabetta Sgarbi, in un'intervista al sito IlLibraio.it, ha aggiunto: «Ognuno avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa per tenere la Bompiani unita. Ma se si è proprietari del 100% di qualcosa, non si è tenuti a raggiungere accordi». E ha descritto come «svolti nella più assoluta cordialità» gli incontri con «Ferrari, Ernesto Mauri (soprattutto), e una volta con Marina e Silvio». Secondo indiscrezioni, inoltre, i «fuoriusciti» hanno anche provato a comprare Bompiani. Tentativo non realistico. In ogni caso, l'indipendenza del marchio, all'interno del Gruppo, non è mai stata in discussione come suggerisce la storia delle precedenti acquisizioni di Segrate. Chiedere informazioni a Eugenio Scalfari, pubblicato da Einaudi e omaggiato con un Meridiano Mondadori. Comunque a la Repubblica non importa la ricostruzione dei fatti. Importa solo che Marina di cognome faccia Berlusconi perché questo consente di rilanciare un «grande» classico: la superiorità antropologica della sinistra. Ecco la prosa di Francesco Merlo: «E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione, due donne-capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave, Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca dell'industria culturale più grande e più decaduta d'Italia. E infatti l'una parlava di umanesimo cosmopolita e l'altra di azienda, l'una di autori da allevare e l'altra di vendite che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta con Alfonso Signorini». Sono «donne incompatibili e incomunicabili non per ideologia, ma per antropologia». Esistono dunque due specie. Di là ci sono le persone colte, raffinate, disinteressate; di qua gli ignoranti, i rozzi, gli affaristi. Questa grottesca rappresentazione della realtà perseguita l'Italia da vent'anni, svilendo ogni dibattito. L'industria culturale «più decaduta» è la sinistra che vive di pregiudizi.

Ecco cosa pensiamo di Umberto Eco. Il coccodrillo-verità di Libero, scrive Fausto Carioti il 21 febbraio 2016 su “Libero Quotidiano”. De mortuis nihil nisi bonum. Ma se il defunto è l'intellettuale italiano più noto nel mondo c' è anche l’obbligo della verità. Tutta, inclusa quella sgradevole. L' autore del Nome della rosa è stato tante cose. Politicamente parlando è stato l'intellettuale più autorevole tra coloro che hanno diviso l'Italia in due, per venti lunghissimi anni. Da una parte chi studia, legge (preferibilmente Repubblica e Micromega) e ha una coscienza: l'Italia dei giusti. Dall' altra, l'Italia della barbarie: delinquenti, favoreggiatori di delinquenti, subumani della cultura. In parole povere: tutti coloro che hanno votato per Silvio Berlusconi. Una dicotomia che ha fatto di Umberto Eco il grande teorico della inferiorità etico-culturale degli elettori di centrodestra. Il difetto di Eco non era la sua antipatia viscerale per il Cavaliere, che nel 2006 lo spinse ad annunciare la fuga dall' Italia (figuriamoci) se avesse vinto Berlusconi e che è appartenuta e appartiene a tanti, anche a destra e che spocchiosi non sono (non sempre, almeno). Era invece il disprezzo antropologico dell'intellettuale illuminato per milioni di italiani. Quel «razzismo etico» che gli è costato un giudizio durissimo da un intellettuale di sinistra senza paraocchi come Luca Ricolfi. Il quale, ricordando come si comportò nella seconda metà degli anni Novanta la categoria cui lui stesso appartiene, scrisse sulla Stampa: «Fu proprio in quell' epoca che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l'appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l'accecamento ideologico». Accecamento ideologico: per un intellettuale, cioè per colui la cui identità e professione sono le idee, l'accusa peggiore. È anche quella che dipinge meglio l'Eco degli scritti politici (chiamiamole pure invettive). Dall' appello firmato nel 1971 contro il «commissario torturatore» Luigi Calabresi - padre del direttore di quella Repubblica che ieri commemorava Eco - agli appelli, alle interviste, a certe "Bustine di Minerva" vergate per l'ultima pagina dell'Espresso. L' apice, ma anche la teorizzazione che ha dato dignità a tanti deliri del progressismo italiano (vale la pena di ripeterlo: intrinsecamente razzisti, perché basati sulla superiorità antropologica dell'homo sinistriensis), è proprio l'appello che Repubblica mise in pagina l'8 maggio del 2001. Tonitruante sin dal titolo: «Non possiamo astenerci dal referendum morale». Lì Eco divideva «l'elettorato potenziale del Polo» in due. C' era l'Elettorato Motivato, del quale facevano parte «il leghista delirante», «l'ex fascista» e quelli che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all' indipendenza dei pubblici ministeri». E poi c' era l'Elettorato Affascinato, composto da chi legge «pochi quotidiani e pochissimi libri», persone che «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina». «Che senso ha parlare a questi elettori di off shore», inveiva Eco, «quando al massimo su quelle spiagge esotiche desiderano poter fare una settimana di vacanza con volo charter?». Criminali e gente in malafede, dunque, assieme a ignoranti lobotomizzati dalle televisioni e da un sogno di benessere a buon mercato. Spiriti meschini, paria del suffragio universale, personaggi che nella democrazia illuminista di Eco non avevano diritto alla cittadinanza e probabilmente nemmeno allo status di rifugiato. In quella pagina Eco scrisse anche che, se avesse vinto il Polo, «tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, il Giornale, e via via dall' Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall' Espresso a Novella 2000, sino alla rivista online Golem», sarebbero finiti nelle mani dello «stesso proprietario», ovviamente Berlusconi. Il quale, come noto, avrebbe vinto nel 2001 e nel 2008 per trovarseli tutti contro: la previsione dello scienziato sociale Eco fu falsificata, ma lo status dell'autore non ne risentì. Non avrebbe mai cambiato idea. Ripubblicò il testo del 2001 in una raccolta del 2006 (anno in cui ovviamente scrisse anche l' ennesimo appello in occasione dell' ennesimo «appuntamento drammatico» elettorale) e in quell' occasione difese gli insulti che cinque anni prima aveva distribuito su metà degli italiani, paragonando se stesso agli intellettuali che resistettero al fascismo: «Come se ai loro tempi si fosse imputato (si parva licet componere magnis) ai Rosselli, ai Gobetti, ai Salvemini, ai Gramsci, per non dire dei Matteotti, di non essere abbastanza comprensivi e rispettosi nei confronti del loro avversario». Il fatto che «oggi Umberto Eco a Ventotene ci va - se lo vuole - in vacanza», come ha scritto lo storico Giovanni Orsina, non pareva scuotere le sue certezze. Nel dibattito elettorale, argomentava Eco in quel gennaio di dieci anni fa, «le critiche all' avversario devono essere severe, spietate, per potere convincere almeno l'incerto». Ma allora è questo il compito dell'intellettuale? Insultare, drammatizzare, umiliare il prossimo affinché voti come lui gli dice di fare? Abitante spocchioso dei quartieri alti della Moralità, quando di mezzo c'era la politica Eco non aveva nulla della leggerezza e dell'umanità di un Edmondo Berselli, per restare nella sinistra colta di matrice bolognese. Una vita di successi, lo status di grande maestro universalmente riconosciuto, ma in fondo Eco è rimasto sempre lo stesso di quel saggio che scrisse a 29 anni, in cui Mike Bongiorno era definito «esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità», la rappresentazione di «un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello». Era già tutto lì, nel 1961. Disprezzo per l'italiano medio e accecamento ideologico inclusi. Accecato dall' ideologia, ha sparato ad alzo zero su chi non votava come voleva lui: criminali oppure ignoranti lobotomizzati dalle tv. Il manicheo che teorizzava l'inferiorità etica della destra Umberto Eco nel febbraio del 2011 al Palasharp di Milano chiede le dimissioni di Silvio Berlusconi durante una manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia.

La sinistra uccide la cultura, scrive Francesco Maria Del Vigo il 4 febbraio 2016 su "Il Giornale". Qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato un articolo che in Italia non potrebbe mai uscire. Il senso del pezzo è questo: quasi tutti i docenti dei paesi anglosassoni sono di sinistra e il loro pensiero unico distrugge la cultura e pure gli atenei. Sacrosanto. Pare, stando alle statistiche del foglio economico, che il 60 per cento dei professori americani tifi per i Democratici, contro il 40 per cento del 1989. Risultato? Dalle cattedre universitarie si professa un solo punto di vista. Non c’è dibattito. Si vende una sola idea e la si spaccia per verità. Vado per esperienza personale – quindi fallibile – ma in Italia credo che sia peggio. A naso: il 90 per cento dei docenti universitari – e delle superiori – sono di sinistra. Non solo i docenti, anche chi seleziona e scrive i libri di testo. Vi è mai capitato di leggere i tomi di storia o filosofia delle scuole dell’obbligo? Lasciamo perdere Il giudizio su Mussolini e il fascismo – De Felice nella migliore delle ipotesi è citato come un eretico -, ma pure uno come Nietszche viene trattato come una canaglia. Dalle nostre parti vige ancora l’idea che la cultura sia proprietà della sinistra. Quando i giganti della cultura del Novecento – per esempio – sono stati tutti di destra: fosse fascista, reazionaria, conservatrice, repubblicana, liberista, liberale o monarchica. Mishima, Pirandello, Drieu la Rochelle, Heidegger, Schmitt, Fermi, Gentile, Marinetti, D’Annunzio, Junger, Guenon, Evola, Berto, Cioran, Fante, Balla, Prezzolini, Hamsun, Keller, Comisso, Ionesco, Eliot? (E ho citato solo alcuni nomi, i primi che mi sono venuti in mente. Per leggere qualcosa di più preciso consiglio l’articolo “I grandi scrittori? Tutti di destra” di Giovanni Raboni uscito sul Corriere il 27 marzo 2002). Sono stati di sinistra? Sono stati comunisti? No, e ognuno di loro ha detto qualche cosa che oggi sarebbe incappato nella censura del politicamente corretto. E anche se li fossero stati – comunisti, stalinisti o chissà cosa – non ci sarebbe alcun problema… E lì in mezzo – in questa lista assolutamente incompleta e provvisoria – ci sono froci, drogati, blasfemi e alcolizzati. Perchè ci sono centodestre (titolo di un bellissimo dizionario biografico) che fanno da contraltare al pensiero unico di sinistra. E comunque la cultura non è rossa e neppure nera. Non è islamica, nè cattolica, nè apostolica, nè romana. La cultura è cultura. Punto. A prescindere dal colore e persino dalle follie ideologiche che abbia sostenuto. Non ci sono idee o scrittori che non si possano studiare, discutere e criticare. Non c’è nulla di vietato. Il politicamente scorretto è un’impotenza intellettuale contro la quale al momento non è commercializzato alcun Viagra. Se non quello della libertà intellettuale. Che purtroppo non si compra al supermercato. Ma il problema sollevato dal Financial Times – e qualche settimana fa anche dagli accademici di Oxford – merita di essere trasportato in Italia: il politicamente corretto uccide il dibattito culturale. Perché qui da noi il corpo docenti è ancora più radical e fuori dal mondo che negli USA o in Gran Bretagna. E non ci si può mordere la lingua di fronte a un’idea solo perché farebbe sussultare la Boldrini. Poi ci chiediamo perché i nostri titoli di studio non valgono un accidente… Anzi, studiarsi a memoria le banalità che impongono certi libri di testo è una medaglia al demerito. Uno schiaffo alla libertà di pensiero, al sano diritto all’insofferenza e alla claustrofobia verso tutto cioè che è imposto. Ogni volta che conosco qualcuno che abbia raggiunto i massimo voti negli studi classici mi preoccupo e mi sincero che abbia avuto anche altre evasioni intellettuali. Meglio bigiare una lezione e leggersi in un bar – magari pure con una sigaretta in bocca – una pagina di Max Stirner o di Berto Ricci. Di un anarco libertario o di un socialfacista. Magari per poi smontarli. Roba che tra i banchi è giudicata più pornografica di una gang bang di Sasha Grey. E comunque apre di più la mente un filmato su Youporn di uno dei libri di storia imposto dallo stato nei quali le foibe vengono evase in tre righe scarse. E poi – anche in campo sessuale – D’Annunzio a Fiume aveva già fatto tutto… (Alla festa della rivoluzione, Claudia Salaris, Il Mulino). E ricordatevi: quel barbuto con l’eskimo 2.0, gli occhialoni neri e la moleskine in mano che sta seduto accanto a voi in biblioteca non è un intellettuale: probabilmente è un coglione che manda a memoria testi del sessantotto pensando che siano roba nuova. Il futuro, per ora, non è infondo a sinistra. Lì hanno spostato la discarica delle idee.

«Fare film sul potere è duro Sulla sinistra molto di più», scrive Pedro Armocida, Lunedì 15/07/2013, su “Il Giornale”. «Il racconto della politica al cinema non è un fatto scontato. In Italia non si faceva più dai tempi di Rosi o di Petri». E magari, qualche leader della sinistra sinistrata raccontata da Roberto Andò nel suo vivido Viva la libertà ne avrebbe fatto pure volentieri a meno. E invece il regista siciliano ha portato sul grande schermo la storia raccontata nel suo romanzo d'esordio Il trono vuoto (Bompiani) che qualche mese fa ha avuto un buon riscontro anche al botteghino e ha recentemente ottenuto due David di Donatello (sceneggiatura e attore non protagonista, Valerio Mastandrea) e un Nastro d'argento (sceneggiatura) prima dell'uscita in home video in questi giorni. «Sarà un'altra occasione per verificare l'azzardo dell'idea, la bontà di questo progetto, un tappo sulla politica che si è liberato al cinema». Roberto Andò, classe 1959, palermitano adottato dalla Capitale dove mi accoglie in un elegante appartamento nella Prati più vicina al Vaticano mentre squilla il telefono e all'altro capo c'è proprio Rosi, è un caso atipico di regista. Decine le sue regie teatrali e di opere liriche, poi il cinema con tutto il suo lato più intellettuale e complesso (Viaggio segreto, Sotto falso nome) e le sue passioni d'origine (Il manoscritto del Principe ossia Tomasi di Lampedusa al lavoro su Il gattopardo) mentre ora sembra vivere una nuova elettrizzante dimensione di «leggerezza» - come ama definirla - e di incontro con il pubblico: «Questo film mi ha dato la forza di immaginare con libertà attraverso una struttura non conforme. Mi piacerebbe mantenere questo sguardo. Una volta ho letto un'intervista di Bertolucci in cui, dopo un insuccesso, diceva di essersi posto il problema del pubblico. Tutti i registi dovrebbero farlo. Ora questo desiderio è emerso in me perché quando vuoi parlare del tuo Paese devi entrare in contatto con gli spettatori».

Ma, a sinistra, non tutti sono stati così empatici.

«Bè certo, c'è stato chi come Renzi e Veltroni, peraltro recensori positivi del romanzo su Panorama, mi ha fatto arrivare un'adesione entusiasta. Nel corso del tempo sono venute fuori le anime inquiete della sinistra con Civati con cui sono appena stato al suo politicamp a Reggio Emilia dal titolo proprio W la libertà. Mente l'altra parte è rimasta in imbarazzo. So che Bersani l'ha visto da solo a Piacenza».

E D'Alema?

«Silenzio assoluto».

Uno dei suoi «padri» intellettuali, Leonardo Sciascia, ha sempre cercato di raccontare il potere.

«L'affaire Moro era una specie di processo al palazzo dove la politica è sinonimo d'impenetrabilità, di mistero. Dopo Berlinguer i politici hanno sul volto l'angoscia del potere. Lo cercano ma al contempo vorrebbero fuggirgli. Io sono partito da qui ma in direzione del cambiamento. Il film mette insieme vita e politica e lo spettatore s'immedesima nell'idea che nell'esistenza si possa sempre ripartire».

Come nella sua vita?

«A 19 anni ho scritto il mio primo romanzo. Piacque molto a Sciascia ma lo misi nel cassetto e sta ancora lì. Poi sono andato avanti come in una specie di strabismo attraverso discipline diverse. Mai conforme e sempre anomalo, un po' come Toni Servillo, il protagonista di Viva la libertà e ingiustamente non premiato ai David anche se naturalmente sono contento per Valerio Mastandrea».

Come mai, lei che è così «transmediale», non ha mai fatto tv? 

«Mi è stata proposta varie volte ma la narrazione da noi è molto conformistica. Tutto è giocato sullo struggimento privato. Potrei accettare solo se fossi coinvolto nel progetto fin dall'inizio, dalla sceneggiatura».

Intanto continua con l'opera lirica, la sua passione. Ma è una proposta ancora contemporanea?

«Certo, a Torino all'inizio del prossimo anno farò Il flauto magico. L'opera è straordinaria proprio perché propone un paesaggio che lo spettatore pensa di ritrovare sempre uguale ma la scommessa del regista è di cambiarlo sempre. Come quando in Viva la libertà ho inserito la popolare La forza del destino di Verdi che rappresenta perfettamente il carattere dell'italiano e con cui lo spettatore si riconosce, come se galleggiasse dentro un liquido amniotico».

E il teatro?

«Connesso con l'opera. A Palermo il 23 ottobre con Sette storie per lasciare il mondo con Marco Betta, musicista di Viva la libertà, storie di persone che scompaiono, con la novità che lo spettatore vedrà sul palco su due schermi sette film che sostituiscono il libretto».

Cosa risponde a chi dice che la lirica drena molte risorse dello Stato?

«Conosco bene il mondo dell'opera. Ci vorrebbe molto più coraggio da parte dei sindacati che in questo sono molto conservativi. Ci vuole una scossa perché ci sono cose rinunciabili. Un teatro si apre quando c'è uno spettacolo. Invece i costi fissi sono altissimi».

E il sostegno alla cultura? A Taormina ha lanciato un grido di allarme.

«Sono fiducioso nel ministro Bray ma, come diceva Fellini, non possiamo tollerare di prendere i pugni in faccia. La battaglia sul ripristino del tax credit dimezzato alla produzione dei film è sacrosanta. Lo Stato deve preservare un'idea di civiltà e fare delle scelte strategiche. Poi il singolo artista deve costruirsi il suo percorso. Magari senza troppi aiuti si può trovare in una condizione più giusta e stimolante».

Sciascia: «Scrivo solo per fare politica», scrive il “Il Giornale”, venerdì 05/02/2016. Due modi di intendere l'arte. E anche due modi di intendere la politica. Fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri la stima correva spedita in entrambe le direzioni, ma con prospettive senza dubbio differenti. Il dato emerge dalla pubblicazione, sulla rivista di studi sciasciani Todomodo (Olschki editore), dell'epistolario fra lo scrittore di Racalmuto e il regista romano. Siamo fra il 1966 e il '67 e il tema del confronto è il film A ciascuno il suo, tratto dall'omonimo romanzo. «Ho fiducia - scrive Sciascia l'8 settembre '66 - che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto. Il mio personale rammarico (che tu hai già avvertito e dichiarato: e mi riferisco all'intervista pubblicata sul Popolo) riguarda soprattutto la tua intenzione di non fare un film politico. Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia». Due giorni dopo, ecco la risposta di Petri: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico. Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, Rosello, i notabili, l'Osservatore Romano, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un'opera sulla cui materia di ricerca, prevalga - incomba - una tesi politica, che in questo senso, è propagandistica». Sciascia comprende ma non si adegua, il 2 ottobre successivo: «Nel mio atteggiamento nei tuoi riguardi non c'è stata altra ragione che quella dell'autore di un libro che ritiene di dover lasciare all'autore del film ogni possibile libertà ma evitando accuratamente di diventarne complice». Il 22 febbraio '67 uscì il film di Petri, e il 10 marzo Sciascia resta sulle proprie posizioni: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare, in tutta sincerità, che non c'è stato tra noi alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un'altra cosa». Dieci anni dopo, un altro film di Petri tratto da un libro di Sciascia parrà a tutti decisamente più politico (in senso sciasciano) del primo: Todo modo. Anche questa volta con nel cast Gian Maria Volonté, il più grande attore «politico» d'Italia.

Sciascia, lo scrittore che volle farsi immortale. L’eterno trasformismo. La nascita dell’antipolitica. Il cambio di editori. Una meditazione sull’ars moriendi. L’uscita dei "saggi sparsi" rivela gli aspetti più nascosti dello scrittore siciliano, scrive Piero Melati il 4 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Zolfo. Piombo. Inchiostro. Di queste tre elementi è fatta l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere. Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli, più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica. Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico». Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e poi lo zolfo in oro. Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956 trasformò un comune insegnante in Sciascia, compie sessant’anni. A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno». Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16 miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79, aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani, ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo». Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio. Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo. Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi (con questo stesso titolo) va a pubblicare. Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte: «Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile. Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi». Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò. In un illuminante ritratto di Alberto Savinio, contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea: «Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore italiano di questo secolo».

Sciascia le illusioni di un impolitico. Mai comunista, ma sempre vicino e litigioso con il Pci. Un libro di Emanuele Macaluso. Lo scrittore Leonardo Sciascia in un ritratto di Paolo Galetto, scrive Marcello Sorgi il 12/10/2010 su “La Stampa”. Leonardo Sciascia è diventato un classico, e tutte le sfaccettature della sua complessa personalità artistica, letteraria, intellettuale, sono state ormai sviscerate. Mancava, invece, un’analisi dello Sciascia politico, non solo della sua breve esperienza parlamentare alla Camera con i radicali nel periodo 1979-’83, ma dell’aspetto propriamente e politicamente incisivo della sua opera, in rapporto alla sinistra italiana e in particolare al Pci. A questa lacuna viene ora a porre rimedio il libro di Emanuele Macaluso Leonardo Sciascia e i comunisti (pagg. 160, Feltrinelli), in libreria da domani. Con una tesi che farà nuovamente discutere, a vent’anni dalla scomparsa di uno scrittore già molto discusso in vita. Basandosi sull’amicizia, la conoscenza e la conterraneità durate per quasi mezzo secolo, Macaluso, a lungo dirigente di primo piano del Pci siciliano e di quello nazionale, formula infatti la tesi che Sciascia, pur animato da sincera passione civile, fosse in realtà un impolitico. E che in questa chiave si possano spiegare anche le molte illusioni, e le troppe e repentine delusioni, a cui andò incontro. Sciascia non fu mai comunista, ma nella Caltanissetta della gioventù fu amico di molti comunisti, tra cui lo stesso Macaluso, e portato, come antifascista, ad approssimarsi al Pci. Un Pci che immaginava risolutamente all’opposizione, e nella Sicilia in cui l’alleanza tra mafia e Dc era palpabile, dichiaratamente anti-democristiano. Per lui «potere» e «delitto» erano due entità inscindibili, e in particolare il potere «senza ragioni ideologiche e volto ad assimilare, a degradare e a corrompere perfino le forze che gli si oppongono o che gli si dovrebbero opporre». Una visione così pessimistica, all’inizio degli Anni Settanta, è al centro del Contesto, uno tra i suoi più famosi romanzi, che lo portò diritto in collisione con il Pci. Sciascia aveva intuito, in anticipo sul Berlinguer del «compromesso storico», che la collaborazione con le forze di governo avrebbe portato la sinistra a una degenerazione dei propri valori e dei propri comportamenti. In realtà Sciascia aveva cominciato a prendere le distanze dal partito ancora prima, alla fine dei Cinquanta, ai tempi della famosa «Operazione Milazzo» con cui i comunisti siciliani, alleandosi perfino con il Msi, avevano mandato all’opposizione la Dc. Sul Corriere della Sera era arrivato a definire «di impronta mafiosa» il governo milazzista voluto proprio da Macaluso, che in quegli anni dirigeva il Pci siciliano. Qui salta agli occhi la prima contraddizione dello scrittore, che non nascondeva affatto questo aspetto del suo carattere (volle per sé un curioso epitaffio: «contraddisse e si contraddisse»). Se Sciascia era davvero, e prima di tutto, contrario alla Dc, come non si stancava di ripetere, perché attaccò il Pci l’unica volta che era riuscito a mandarla all’opposizione, e invece, pur restando critico, si schierò con i comunisti al momento del «compromesso»? L’adesione militante (pur senza tessera) dello scrittore alla campagna elettorale del 1975, solo poco tempo dopo le stroncature subite dai giornali e dalla cultura comunista al Contesto, resta inspiegabile per Macaluso, contrario all’accordo con i democristiani soprattutto in Sicilia, dove significava venire a patti con la parte più confinante con la mafia. Eppure, in quell’ambito, Sciascia si muove senza remore: «A chi mi conosce personalmente o attraverso quello che scrivo, appare chiaro che non potevo trovarmi altrove - dice nel discorso che annuncia la candidatura al Consiglio comunale di Palermo, ma rivela la consapevolezza che molti possano non aspettarsela -. Il fatto che io abbia avuto spesso degli attacchi più da sinistra che da destra, da certi luoghi del Pci più che da altri partiti, dimostra che io sono più vicino al Pci che a qualsiasi altro partito». È lo stesso Sciascia che s’è battuto fino ad allora contro le debolezze e le acquiescenze del Pci, che in una famosa polemica con Giorgio Amendola, poi rinnovata con Ugo La Malfa, ha attribuito ai comunisti parte della responsabilità dell’avanzata del Msi e della rinascita di una cultura di destra nel 1972. Ancora, lo stesso Sciascia che aveva criticato i dirigenti comunisti degli Anni Cinquanta, responsabili della svolta milazzista, adesso scopre i «giovani dirigenti» che stanno per allearsi con la Dc paramafiosa di Gioia e di Lima. Ma conoscendone l’integrità morale e l’assoluta buona fede, Macaluso ricorda di aver pronosticato breve durata per quel fragile coinvolgimento, di averne pure parlato con Berlinguer, per metterlo in guardia da una rottura che quando avverrà, di lì a poco, sarà clamorosa. Oltre alla noia delle sedute notturne del Consiglio comunale e all’isolamento che avverte tra i politici di professione, Sciascia, infatti, a un certo punto, si sente usato e preso in giro. Ne verrà un risentimento inesauribile. E un incidente piuttosto imbarazzante tra il segretario comunista e lo scrittore, intanto approdato alla Camera con i radicali. In un pranzo a tre con Renato Guttuso, Berlinguer accennò alla possibilità che le Brigate Rosse, durante il caso Moro, avessero potuto godere di appoggi logistici da parte della Cecoslovacchia. Sciascia utilizzò questa confidenza in Parlamento, nella commissione d’inchiesta sul sequestro. Berlinguer querelò lo scrittore, che a sua volta lo controquerelò, ma fu smentito da Guttuso, schieratosi per disciplina con il leader del partito. Così, oltre al rapporto con il Pci, si ruppe anche l’amicizia tra due grandi siciliani. Gli ultimi anni di Sciascia sono quelli delle famose polemiche sul processo alle Br di Torino, in cui lo scrittore si schierò a favore dei cittadini che si rifiutavano di fare i giurati popolari, condividendone il senso di sfiducia nello Stato, e sui «professionisti dell’Antimafia». Sciascia subì nuovi durissimi attacchi non solo da sinistra, ma dalla parte più militante dei giornalisti, degli intellettuali e della società civile, nonché dai Comitati Antimafia, da cui il Pci non volle mai prendere le distanze per difenderlo. Macaluso descrive un partito ingessato dalla necessità di «non delegittimare la magistratura» e Natta, il successore di Berlinguer, incapace di sviluppare una sua posizione autonoma sui lati oscuri e sugli eccessi del pentitismo. Il racconto della solitudine di Sciascia negli ultimi giorni della sua vita è toccante, come quello dell’addio tra i due vecchi amici. Ma adesso che sono passati vent’anni - conclude l’autore - perché la sinistra non prova a riscoprire Sciascia, sottraendolo all’ingiusta appropriazione che ne sta consumando la destra? 

Leonardo Sciascia, nel 1963 denunciava il cretino di sinistra, scrive il 27 maggio 2009 Iacolare Francesco Saverio. Il grande scrittore siciliano, Leonardo Sciascia, nel 1963 scopriva il verificarsi di un evento senza precedenti: l’ascesi del cretino di sinistra. Fino a quell’epoca, i cretini erano solo di destra.Il grande Leonardo Sciascia diceva: “i cretini di sinistra sono molto più pericolosi di quelli di destra perché alla loro imbecillità si aggiunge il fanatismo per il potere e il disprezzo per il governo”. Sono trascorsi 45 anni e un intellettuale del calibro del prof. Gianfranco Pasquino, molto apprezzato dalla sinistra che conta ha dichiarato:” Alla sinistra riesce bene tenersi stretto il potere”. Accusa il PD di ricusare ogni forma di cambiamento perché quella attuale garantisce, comunque, di conservare il potere che possiede. Pronostica che le prossime elezioni amministrative di maggio di Bologna saranno vinte dal centro destra. Siamo di fronte ad un apparato di mostruosità privo della più elementare forma di dignità. Infatti, la Finocchiaro si dichiara disponibile per la segreteria al posto dell’inutile Veltroni. D’Alema ha la sua televisione e crede di essere il padrone del partito, non sopporta di stare nell’ombra come tale, preferisce il ruolo della prima donna. L’anima comunista non è mai morta nel cretino di sinistra, aveva ragione Leonardo Sciascia. Il momento drammatico di crisi, che offende milioni di italiani nella dignità sociale, è una questione che non appartiene alla sinistra. Essa è sempre contro a prescindere perché non ha cultura di governo, ma solo di potere. In un ‘Italia che vive momenti drammatici di caduta etica e morale, ove l’economia è stata ridotta a squallida operazione finanziaria, priva di produzione reale, solo ricchezza virtuale, la sinistra invece di proporre vie di soluzioni condivise, armata dall’eterno odio, contro chi governa propone lo sciopero generale senza consultare la base, non solo, ma contro la volontà di tutti i sindacati. Questa becera sinistra non è la vera sinistra, questa predica ancora l’odio di classe, nonostante i suoi dirigenti possiedano panfili come Ulisse II e casa a New York. Bravi, Veltroni e D’Alema. Il cretino di sinistra vuole avere sempre ragione. Egli è di una superiorità intellettuale indiscutibile perché ignora l’altro, anzi lo disprezza. La sinistra ha sempre conquistato il potere con l’infallibile arte di fottere il suo interlocutore. Il popolo è sempre stato il paravento sociologico dietro il quale nascondersi compiendo poi le nefandezze del potere. Una sinistra senza dignità che nega perfino il pentimento e la conversione del fondatore del comunismo, che alla fine dei suoi giorni, illuminato dalla Grazia, ha chiesto la presenza di un sacerdote per chiedere il Viatico per l’ultimo viaggio. Questa negazione rappresenta lo sbando totale del cretino di sinistra che abita tra noi. Uno sbandamento provato dall’occupazione delle istituzione che detiene come potere, incapace di governare. I poveri cattolici si sono fatti fagocitare dall’illusione di ciò che non esiste, non si sono ancora resi conto che i loro compagni di viaggio non potranno mai diventare democratici, essi sono privi della cultura dell’alterità, quella cultura che ti permette di riconoscere il volto di chi ti guarda, come il volto del fratello che cerca aiuto. La nostra sinistra non conosce il fratello, conosce il compagno, perché nega l’esistenza del Padre. Oggi cosa resta della sinistra? La squallida ipocrisia di sempre, l’odio per chi non pensa con le loro aberranti categorie mentali, il limite del confronto di chi pensa al di sopra degli schemi, in modo particolare il terrore e la paura con la Trascendenza perché incapaci di un atto di umiltà come quello di Gramsci. L’odio di D’Alema nei confronti di Veltroni è stato evidenziato da E. Scalfari, il quale ha detto che sta lavorando per denigrare il segretario Veltroni. L’amico di merenda di D’Alema, Latorre, accusa Veltroni di praticare una politica fallimentare. Povera sinistra, ma quale sinistra? Quella degli “utili idioti”, una formula inventata da Lenin, ripetuta da Stalin, Gramsci, Togliatti per indicare coloro che dinanzi alla storia hanno firmato un’adesione contraffatta di una stupida disponibilità nel nome del potere. Certo non bisogna cretinizzare tutta la sinistra. Vi sono uomini di grande dignità e intelligenza, questi non vanno confusi con gli attuali qua qua ra qua in cerca del potere. Questi uomini che hanno a cuore la salvaguardia della dignità dei nuovi poveri bisogna rivolgere l’appello di cercare insieme nuove soluzioni possibili per il bene di tutti i bisognosi. Purtroppo la “sensibilità “della ricchezza non incontrerà mai l’ascolto della dignità del povero. Continuare a parlare, oggi, di destra e di sinistra è una grave offesa alle intelligenze a dimensioni planetarie. Noi abbiamo un ferito grave assalito dai briganti sulla strada di Gerico, dobbiamo aspettare il samaritano ,oppure tutti vogliamo essere dei samaritani. Francesco Saverio Iacolare.

Da quello di Sciascia a quello su Twitter, genealogia del cretino moderno, scrive di Guido Vitiello il 19 Novembre 2012 su “Il Foglio”. Non ci sono più i cretini di una volta. Leonardo Sciascia li ricordava quasi con rimpianto: quei bei cretini genuini, integrali, come il pane di casa, come l’olio e il vino dei contadini. La loro scomparsa seguì a breve giro quella delle lucciole, e chissà che tra i due fenomeni non ci sia un nesso misterioso. Poi venne l’epoca della sofisticazione, per gli alimenti come per gli imbecilli: “E’ ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino”, annotava sconsolato in “Nero su nero”. A rendere possibile questa confusione incresciosa, a intorbidare le acque era stata l’improvvisa disponibilità di gerghi intimidatori dietro cui far marciare le banalità più indifese. Sciascia sceglie una data convenzionale, il 1963, anno in cui comincia l’ascesa, a sinistra, di un tipo nuovo di cretino, il cretino “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare”. Si annunciava la stagione d’oro del cretino dialettico, operaista, maoista, strutturalista, althusseriano, insomma il cretino a cui Paolo Flores d’Arcais e Giampiero Mughini avrebbero eretto il monumento del “Piccolo sinistrese illustrato”. Sciascia era persuaso che il più insidioso mascheramento della stupidità fosse la complicazione non necessaria, l’arzigogolo, e scelse per metafora il berretto di Charles Bovary: Flaubert impiega mezza pagina a descriverne la fattura assai composita, per concluderne che in fin dei conti somigliava alla faccia di un imbecille. Altri tempi, altri cretini. Oggi quel tipo lì lo riconosci a vista, i gerghi non gli fanno più da scudo, anzi ne segnalano a colpo d’occhio la cretinaggine, irraggiandola in ogni direzione come l’evangelica lampada sul moggio. Certo, vanta ancora le sue glorie mondane, scrive i suoi trattati, assiepa i suoi vaniloqui, fonda le sue rivistine, raduna attorno a sé i suoi circoletti (pur predicando, magari, di “moltitudini”), ma tutto sommato è facile impedirgli di nuocere. Sono altri, quelli da cui dobbiamo guardarci. Oggi il cretino, a destra come a sinistra, sembra aver ritrovato la sua originaria semplicità e una perversa concisione. Ma attenzione a non confondersi, è una semplicità contraffatta, una sofisticazione di secondo grado: è il segno che la specie si è evoluta per sfuggire agli artigli dei suoi predatori. Il cretino di buon senso è come quelle mele rosse rosse che per evocare un Eden perduto si servono di tutte le diavolerie della chimica. Ti guarda in faccia e ti dice, che so, “la cultura è un bene comune, come l’aria”, e tu temporeggi dietro un mezzo ghigno contratto, e ti sembra così candido che sei quasi sul punto di assentire, di sciogliere la mandibola e ricambiargli il sorriso, e devi aggrapparti con tutte le forze all’albero maestro del tuo intelletto per non soccombere all’incantesimo e capire che sì, probabilmente hai davanti a te un imbecille. E non è il solo da cui stare in guardia, il cretino di buon senso. Se al tempo di Sciascia la strategia per mimetizzarsi era la blaterazione fantascientifica, la proliferazione cancerosa dei gerghi, la zecca sempre aperta delle parole che coniano altre parole, oggi il cretino si rintana nelle forme brevi. Ecco, sarebbe da prendere quel dibattito soporifero tanto caro ai giornali – “Twitter ci rende stupidi?” – e capovolgerne l’assunto: Twitter ci rende intelligenti. C’è in questo qualcosa di prodigioso, e di terrificante: ci sono cretini certificati, abituali, della cui cretinaggine abbiamo prove da riempirci un dossier, che nel giro breve di quei centoquaranta caratteri riescono non si sa come, per un istante, a ricordarci Karl Kraus, Oscar Wilde, o male che vada Giulio Andreotti. Possibile? L’aforisma, il Witz, che un tempo era un’arma formidabile contro la stupidità di tutte le maniere, è diventata il nuovo rifugio degli imbecilli, la freccia più velenosa nella loro faretra. Eppure non c’è granché da fare. Già che la stupidità ci assalta a tradimento, e senza logica, ne consegue, suggeriva Carlo Cipolla nel suo trattatello sul tema, che “anche quando si acquista consapevolezza dell’attacco, non si riesce a organizzare una difesa razionale, perché l’attacco, in se stesso, è sprovvisto di una qualsiasi struttura razionale”. Il meglio che possiamo fare è metterlo nero su nero. Guido Vitiello

L’oblio su Sciascia politico. Non soltanto i rapporti contrastati col Pci, né la sua elezione con i Radicali. Lo scrittore siciliano divise l’establishment con le domande su giustizia e potere, scrive Gianfranco Spadaccia, già segretario, deputato e senatore del Partito radicale, il10 Luglio 2014 su “Il Foglio”. Pubblichiamo stralci della prefazione di Gianfranco Spadaccia a “La memoria di Sciascia”, collezione di saggi e articoli dello scrittore messicano Federico Campbell (1941-2014), appena pubblicata in Italia da Ipermedium Libri. A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa di Leonardo Sciascia, questo libro dello scrittore messicano Federico Campbell ci offre l’occasione di una rilettura critica dell’intera sua opera letteraria e ci invita a una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che essa ha avuto nella letteratura italiana ed europea e nella vita politica e civile del nostro paese. Perché Sciascia è stato durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera scrittore politico. Lo è stato più di qualsiasi altro uomo di lettere del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. Scrittore politico per eccellenza e non certo per i suoi contrastanti rapporti con il Pci o per essere stato per un breve periodo consigliere comunale a Palermo e poi, nella legislatura 1979-1983, deputato Radicale ma perché tutti i suoi libri – non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet ma anche i romanzi e i racconti – sono sempre attraversati dagli interrogativi, dalle gravi questioni etico-politiche che riguardano la vita del paese e il governo della polis: i rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura. E’ strano che questa sua qualità di scrittore politico non si ritrovi fra le molte definizioni che di lui sono state date: da quella, perfino scontata, di “scrittore illuminista” per il suo costante riferirsi ai valori dell’Enciclopedia, e in particolare a Voltaire e a Diderot, a quella discussa di “scrittore barocco” (che Belpoliti riprende da Calvino), a quella singolare che Campbell in questo libro riprende da Bufalino di “scrittore secco” per la sua straordinaria concisione letteraria contrapposta a quella di “scrittore umido” che Bufalino attribuiva ad altri letterariamente più ridondanti scrittori e anche a se stesso. E’ come se gli estimatori di Sciascia ritenessero che la sottolineatura della politicità della sua opera potesse concorrere a offuscarne o a sminuirne in qualche misura la grandezza letteraria. Se fosse così si tratterebbe di una preoccupazione sbagliata perché politicità e qualità artistica e letteraria nell’opera di Sciascia vanno di pari passo e si alimentano a vicenda ma sarebbe anche una preoccupazione inutile perché proprio per la sua politicità ogni suo libro ha profondamente diviso sia l’opinione pubblica sia la stessa società letteraria. E’ forse in base a queste preoccupazioni che Piero Citati, pur riconoscendone la qualità e la grandezza, è giunto ad affermare che dalla sua opera bisognerebbe cancellare “l’ultimo Sciascia (allo stesso modo del primo Calvino)” per essersi esposto troppo nell’agone politico. A Citati però bisognerebbe chiedere dove secondo lui comincia l’ultimo Sciascia: comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia” perché, dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. In altra circostanza ho riconosciuto il mio debito nei confronti di Sciascia per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica fin da quando, giovanissimo, mi imbattei all’inizio degli anni 60 ne “Le Parrocchie di Regalpetra” e in “Morte dell’Inquisitore”, molto prima dunque che le vicende politiche dei tardi anni 70 e dei primi anni 80 ci facessero trovare dalla stessa parte e perfino nello stesso gruppo parlamentare radicale. Il messicano Campbell, che ha studiato e amato lo scrittore siciliano fino al punto di servirsi anche delle sue lenti per leggere alcuni aspetti della realtà del Messico, conosce perfettamente le sue vicende politiche e letterarie e tuttavia, non influenzato dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni italiane che le hanno accompagnate, ci restituisce l’immagine di uno scrittore eretico che in tutta la sua vita si confronta con una realtà siciliana e italiana rimasta, a sinistra non meno che a destra, profondamente controriformista e lo fa seguendo sempre la stessa ispirazione ideale. Ed esprime un’opinione uguale alla mia: “Non c’è opera di Sciascia che non sia politica. E’ un autore politico. E’ uno storico. E’ un romanziere. E’ uno scrittore”. Non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci. E infatti Alberto Asor Rosa ha spinto il proprio dissenso e la propria censura fino al punto di pretendere di cancellarne l’intera opera dalla storia della letteratura italiana. E un mediocre sociologo che non merita di essere citato, assurto per meriti giustizialisti agli onori della politica, dopo le polemiche sulla mafia dei primi anni Ottanta ha sentito il bisogno di coinvolgere nella propria polemica e nella propria condanna anche il “primo” Sciascia del “Giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo”, inventandosi un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei due romanzi con i quali per primo affrontò il tema, fino ad allora negato o misconosciuto, dell’esistenza della mafia e dei rapporti oscuri fra classi dominanti, potere politico e criminalità mafiosa. Con le sue scelte e prese di posizione politiche, ma soprattutto con i suoi libri, Sciascia ha diviso anche il suo campo. E non solo la sinistra, quella sinistra a cui ha fatto sia pure con grande autonomia e spirito critico a lungo riferimento perché in essa si riconoscevano le famiglie dei “carusi” che avevano frequentato le sue lezioni di maestro elementare a Racalmuto e gli operai delle solfare, la cui vita e le cui sofferenze conosceva da vicino per aver frequentato la solfara gestita da suo padre; divise anche il suo campo culturale, l’intellighentia laica, “liberal”, non inquadrata e non inquadrabile negli apparati, sempre oscillante fra il sostegno ai governi centristi o di centro-sinistra e il sostegno offerto al Pci magari attraverso la cosiddetta “sinistra indipendente”. Sciascia, che non amava la parola “intellettuale” a cui preferì sempre quella di letterato o di uomo di lettere, non fu mai, neppure nel periodo di vicinanza al Pci siciliano, intellettuale “impegnato” e tanto meno “organico”. L’unico impegno che concepì, fu nei confronti delle proprie convinzioni e della propria coscienza. Campbell ricorda che, per questo, ebbe come riferimenti Gide che, da comunista, si impegnò nella condanna di Stalin e dello stalinismo e Bernanos che, da cattolico, combatté il sostegno offerto al generale Franco da parte della chiesa cattolica nella guerra civile spagnola. La prima rottura, a lungo maturata tra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 (si pensi alla dedica della “Controversia liparitana” ad Alexander Dubcek, indicato con le iniziali A.D.) fino alla proposta berlingueriana del “compromesso storico”, si manifestò pienamente nei confronti della politica della fermezza e al momento delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale del 1976 ed esplose durante il “caso Moro”. A causa di essa Sciascia divenne l’obiettivo di una feroce campagna polemica da parte del Pci e degli intellettuali più vicini al Pci, che lo indusse nel 1979 ad accettare la proposta di Marco Pannella di presiedere le liste radicali nelle elezioni politiche. Durante tutto questo periodo trovò però al suo fianco, oltre ai radicali, anche personalità come Norberto Bobbio, Dario Fo, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca per citare solo alcuni dei nomi più significativi. Questa coincidenza di posizioni e questa vicinanza politica vennero però meno quando Sciascia, che non era un garantista a senso unico, si trovò a sostenere negli anni 80 gli stessi princìpi che aveva sostenuto al momento del confronto con il terrorismo rosso e nero, per contrastare i poteri eccezionali che vennero invocati nella lotta alla mafia. Non intendo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Questa seconda rottura fu particolarmente dolorosa perché avveniva con personalità della sinistra democratica che ci erano state vicine e ci avevano sostenuto nelle nostre lotte per i diritti civili: Bobbio con i suoi scritti filosofici su socialismo democratico e comunismo aveva influenzato fortemente la nostra formazione, Alessandro Galante Garrone aveva fatto parte con Loris Fortuna della presidenza della Lega Italiana del Divorzio, quando fui arrestato per la disubbidienza civile contro il reato d’aborto uno dei primi telegrammi che mi giunse in carcere recava le firme di Dario Fo e Franca Rame. Le posizioni di Sciascia e dei radicali, condotte in difesa dello Stato di diritto e della legalità democratica in condizioni di minoranza, avevano fatto emergere il persistere all’interno della sinistra democratica, liberalsocialista e azionista e anche all’interno del liberalismo italiano di una componente giacobina che da allora in poi ha fortemente influenzato la politica e la magistratura, imponendo soluzioni che sono state definite “giustizialiste” in contrapposizione al garantismo ma hanno poco a che fare con la giustizia e la legalità, anzi hanno nell’ultimo quarto di secolo largamente contribuito a devastarle. E’ significativo che le aspre polemiche che accompagnarono le due rotture fossero innescate da due falsi, che lungi dall’esprimere il suo pensiero ne rappresentavano al massimo una grossolana estremizzazione. Nel 1977/78 gli fu attribuita una frase – “Né con lo Stato né con le Bierre” – che non aveva mai pronunciata (certo non con le Br, ma – era la legittima domanda – “con quale Stato?”). La seconda rottura fu provocata da un articolo sul Corriere della Sera in cui criticava i criteri improvvisamente modificati per la scelta dei capi delle Procure, che dovevano occuparsi di criminalità mafiosa: gli fu rinfacciata la frase “I professionisti dell’antimafia” che non compariva nel testo del suo articolo ed era invece il titolo scelto dalla redazione del Corriere. In entrambi i casi Leonardo Sciascia, al pari dei Radicali, fu accusato nella migliore delle ipotesi di equidistanza fra lo Stato e le Bierre e fra lo Stato e la mafia ma molti si spinsero oltre fino al punto di ipotizzare una vera e propria contiguità con le prime e con la seconda. Imperdonabili infamie se solo si pensi alla distanza siderale che separava l’illuminista Sciascia e i nonviolenti Radicali dal rozzo e violento stalinismo delle Brigate rosse e al fatto che nei primi anni Sessanta era stato nei suoi romanzi il primo uomo di lettere a occuparsi di mafia e della collusione fra essa e il potere. L’illuminista Sciascia, che si scoprì antigiacobino, semplicemente pensava che contro i tentativi eversivi delle Bierre come contro la criminalità mafiosa lo Stato dovesse combattere in nome del diritto e dei propri princìpi costituzionali senza cedere, a causa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali. Nessuna emergenza può giustificare la sospensione delle libertà individuali come delle garanzie giuridiche e costituzionali, se non a prezzo di un abbassamento dello Stato allo stesso livello dei criminali che deve combattere. Allo stesso modo, durante e dopo il sequestro dell’onorevole Moro, per la sua polemica contro la politica della fermezza fu iscritto d’ufficio nel “partito della trattativa”. In realtà anche a rileggere oggi le parole di Sciascia appare chiaro come fossero rivolte a sollecitare non un cedimento ma una maggiore iniziativa nelle indagini e nei rapporti mediatici nei confronti delle Br, impedita dalla conclamata fermezza della Stato che si traduceva purtroppo in inerzia e nella attesa immobile, fatalistica della morte di Moro. Sciascia infatti non mancò di manifestare la propria opposizione e di denunciare la contraddizione della Dc quando, qualche tempo dopo, i suoi dirigenti accettarono di trattare per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo sequestrato in Campania. E mostrò cosa si dovesse intendere per politica di iniziativa nei confronti delle Br quando contribuì invece con i radicali a creare le condizioni per la liberazione di un altro sequestrato, il giudice D’Urso, che avvenne senza cedimenti, senza concessioni, ma attraverso un’iniziativa politica e mediatica e un confronto polemico condotto sotto gli occhi dell’opinione pubblica grazie ai microfoni di Radio Radicale e ad alcuni giornali e telegiornali che ebbero il coraggio di rompere un assurdo silenzio stampa. Quell’iniziativa, nella quale Sciascia si espose senza riserve, ruppe dunque l’unità corporativa dei giornalisti ma provocò anche una rottura fra i brigatisti in carcere e i terroristi che avevano operato il sequestro, che si rivelò determinante per la salvezza del giudice.

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(…) Sciascia scrisse di sé che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. (…) Quanto al “si contraddisse” sono invece possibili più letture e diverse spiegazioni. (…) Ad esempio a proposito della mafia. Non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti della mafia. Basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima ispirazione e convinzione ideale. E anche se, come ho prima sottolineato, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale Antimafia. “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”. C’è tuttavia per quel “si contraddisse”, io penso, una spiegazione più plausibile e una più intima ragione. “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me – disse a Marcelle Padovani nel libro-intervista La Sicilia come metafora – Prendiamo, ad esempio, la realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo ‘con dolore’ e ‘dal di dentro’: il mio ‘essere siciliano’ soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in ogni siciliano, continuano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Lo stesso avviene per quanto riguarda la donna siciliana: nel mio modo di descriverla e di condannarla c’è anche una condanna di me stesso. Soffro di dover raccontare della donna di Sicilia nel suo ruolo storico, vale a dire come elemento negativo dell’evoluzione della società insulare, nella sua funzione matriarcale, schiacciante e conservatrice, quale ha pesato sui nostri nonni e padri e quale può pesare ancora oggigiorno. Ma nel momento stesso in cui la giudico, io mi sento responsabile della sua condizione, responsabile atavicamente”. (…) Questo non scalfisce in nulla il suo essere, anche, scrittore illuminista. Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità. (…)

Alberto Moravia: «L’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza». Un estratto della lettera uscita nella raccolta (Bompiani) "Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto", che nel 1927 lo scrittore mandò al filosofo Andrea Caffi sulla figura dell’intellettuale e il valore dell’esperienza, scrive “L’Espresso” il 4 febbraio 2016. Il filosofo Andrea Caffi, sodale di Chiaromonte, antifascista - «un uomo di valore, erudito e fantasioso», come lo definì lo stesso Moravia - stimola la riflessione dello scrittore, impegnato nella stesura de Gli indifferenti. Caffi vent’anni più grande è un esempio, per Moravia, e sarà non a caso uno dei pochi a leggere in anteprima l’ultima opera. Della figura dell’intellettuale, del valore dell’esperienza, scrive Moravia in questa lettera (qui in estratto) del 1927, pubblicata da Bompiani nella raccolta Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto – Lettere 1926-1940, da poco in libreria e presentata (venerdì 5 febbraio, a Roma al teatro Argentina) da Dacia Maraini. «Sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale», scrive Moravia, raccontando «la aridità e la mediocrità della vita di Roma». Lo spaventano «l’intellettualismo e gli intellettuali». «Finora in Italia (l’Italia moderna)», scrive, «non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica». «Anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio», continua, salvo poi interrompere così l’analisi: «Lei», scrive a Caffi, «mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare - ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza».

Solda, 1 agosto 1927. Mio caro Caffi (...)Quello che Lei dice su me e sul mio avvenire è molto lusinghiero e certo non potrebbe esser più giusto quel che Lei dice sulla maggiore importanza della vita invece che del lavoro – le sue parole vengono a confermare un concetto che fino a poco tempo fa avevo idolatrizzato e che ora, forse per la aridità e la mediocrità della vita di Roma cominciava a vacillare – del resto per dimostrarLe quanto l’idea della vita e della sua vastità mi sia accetta le dirò che poco tempo fa avevo deciso di abbandonare dopo la pubblicazione del mio romanzo la letteratura e di dedicarmi a qualche occupazione meno artistica – quello soprattutto che mi spaventava era l’intellettualismo e gli intellettuali – finora in Italia (l’Italia moderna) non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica – questo è un grande pericolo: la mia più grande ambizione è non di essere un uomo qualunque ma forse un uomo che nonostante la sua possibile intelligenza non frammetta tra sé e le cose la lente dell’intellettualismo – Come vivere io ancora non so – e certo, finché non avrò qualche scopo più alto che me stesso, quei sacrifici e quelle rinunce di cui Lei mi parla non serviranno a nulla altro se non a far del posto per altre verità – e debbo anche dirle che fino a poco tempo fa il mio più alto ideale umano era l’uomo forte sanguigno e consapevole di Shakespeare o se vogliamo di Balzac – l’uomo completo con tutti i vizi e tutte le virtù – tutto il mio sistema di vita era appoggiato su questo ideale per questo ideale ho fatto diverse e non tutte pure esperienze e perciò quel che a Lei forse era sembrato generosità, non era qualche volta che consapevole e mal intenzionato esperimento – e debbo anche dire che in me c’è ancora una buona dose di irritazione, il resto di una rabbia durata 19 anni – e poi ci sono tante altre cose, le più non belle – anzi posso dire che l’unica cosa che ho di buono è la consapevolezza di questi miei detti difetti – ho visto spesso parecchie persone burlarsi o biasimare senza parerlo le mie vanità e io lo sapevo e le esageravo. Ad ogni modo per ora la questione è di vivere cioè di fare esperienze: certo ora non penso più come due anni fa che l’esperienza sia tutto – ma ne riconosco il valore materiale e documentario... e poi tutte queste sono parole – io ho davanti a me tutte le questioni più dure di conoscenza umana e di elevazione morale e dietro di me solamente qualche piccola vittoria sul tempo e qualche piccolo esperimento – soltanto ecco, tutto è chiaro avanzo e non mi riesce di vedere altra via che quella seguita da tutte le ambizioni – la più grande precarietà è in ogni mia azione – vivo alla giornata e una volta alla settimana almeno sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale – anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio – è terribile non avere alcun appetito, non esser feroce – sentirsi avvolti da una mediocre ovatta – e certo nulla è più ripugnante che certe mie debolezze femminili direi quasi masochiste. Lei mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare – ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza – e se certi sacrifici non fossero sacrifici ma solamente agevoli distacchi? Lei mi dica delle sue condizioni e di quel che conta di fare – e poi dica anche che cosa intende per “singolarità addirittura brutali” che io svilupperei se non rinunciassi alla vanità terrene – e questo sia detto senza alcuna ironia. Arrivederci per oggi. Una stretta affettuosa di mano. Alberto Pincherle. Copyright Bompiani 2015 

Le persone di sinistra sono più intelligenti? Si Chiede su “La mente è Meravigliosa”. “Tutti i giorni la gente si sistema i capelli, perché non il cuore?” Vi sembra una frase intelligente? Queste parole sono state formulate dalla mente di Ernesto Che Guevara, il famoso rivoluzionario. Ci sono molte altre citazioni epiche di questo mito che sono sopravvissute fino ai giorni d’oggi. Ciò ha forse a che vedere con la sua ideologia di sinistra? Uno studio della Brock University sostiene di sì. Lo studio della Brock University nell’Ontario, Canada. Secondo i risultati ottenuti dai ricercatori della Brock University, nell’Ontario, Canada, coloro che sono meno intelligenti già durante l’infanzia sviluppano un’ideologia di destra e tendenze razziste e omofobe, rispetto alle ideologie di sinistra, che sono più aperte e comprensive. Per giungere a questa conclusione, i ricercatori si sono basati su studi condotti negli anni 1958 e 1970 nel Regno Unito. Questi studi analizzarono il livello d’intelligenza di migliaia di bambini tra i 10 e gli 11 anni, che poi risposero a domande di politica una volta raggiunta l’età di Cristo, 33 anni. Tra le domande poste ai bambini ormai adulti, c’erano questioni riguardo i pregiudizi di vivere affianco a vicini di una razza diversa o sulle preoccupazioni che sorgono quando bisogna lavorare con qualcun altro. Altre domande alle quali dovettero rispondere i soggetti riguardavano l’ideologia politica conservatrice, come rendere più severe le pene dei criminali o mostrare ai bambini la necessità di ubbidire all’autorità. Le persone di sinistra sono davvero più intelligenti? Alcune delle conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della Brock University sostengono che i politici conservatori facilitano la nascita di pregiudizi. Basandosi sui risultati delle ricerche inglesi, i ricercatori sostengono che le persone meno intelligenti si localizzano nello spettro della destra politica, perché qui si sentono più sicuri. Secondo i creatori di questo studio, è l’intelligenza innata a determinare il livello di razzismo di una persona, molto più dell’educazione e dell’istruzione. Nemmeno lo status sociale ha un ruolo importante a proposito. Semplicemente affermano che l’ideologia conservatrice è la via giusta per trasformare bambini che hanno difficoltà a ragionare in persone razziste. Le capacità cognitive sono fondamentali per avere una mente aperta. Ciò significa che coloro che hanno capacità cognitive ridotte o molto ridotte tendono ad adottare ideologie conservatrici per la sensazione di ordine che implicano. Questa è un’altra delle conclusioni dello studio. Intelligenza innata. Secondo le ricerche condotte dalla Brock University, tutto ciò significa che l’intelligenza innata ha un ruolo determinante nell’ideologia ultima adottata da un individuo. Questo significa che essere di destra è sinonimo di stupidità? Assolutamente no. Oggigiorno, in tutto il mondo le ideologie politiche sono un po’ ingarbugliate. Niente è più ciò che sembra. Possiamo definire un regime comunista come quello imposto in Corea del Nord di sinistra? Qui, i cittadini si sono abituati a vivere sotto gli ordini di un dittatore che si definisce d’ideologia progressista, ma che manipola i destini di milioni di persone con un pugno di ferro. Esistono altri esempi di paesi in cui si è tentato di stabilire un regime di sinistra e comunista, ma senza successo. Russia o Cuba, per esempio, hanno sofferto terribili repressioni popolari durante la fase della dittatura del proletariato, che alla fine si è trasformata nel mandato di un singolo leader come Stalin o Castro, con accesso limitato alla libertà o al pensiero. Ciò significa che, tra i partiti della sinistra mondiale, c’è gente camuffata che in realtà è di destra? È possibile che nell’ideologia progressista si siano infilate persone poco intelligenti che in realtà sono conservatori? Non esiste una risposta chiara a questo tipo di domande, poiché le ideologie hanno sempre meno peso in un mondo mosso meramente da interessi economici e dei partiti. In realtà, ciò che importa è avere una mente aperta e curiosa. Imparate da tutti coloro che hanno qualcosa da apportarvi nella vita. Se non avete un’intelligenza innata che apra la vostra mente, almeno stimolate la vostra intelligenza emotiva. Siate sensibili a qualsiasi tipo di tendenze e modi di essere e adottate una vita piena e felice. Come diceva Ernesto Che Guevara, se siete in grado di avere capelli splendenti, siete anche capaci di avere un cuore nobile e buono.

Quell'ossessione dello Stato di regolare la nostra vita. In Italia, sul cibo, c'è la stessa ossessione regolamentatrice dell'Unione Sovietica, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". L'idea che si possano, anzi, si debbano, regolamentare i comportamenti sociali, non lasciando il minimo spazio allo spontaneismo individuale e collettivo è l'ossessione di ogni politica. Particolarmente affetto ne è quel filone della politica, eredità del razionalismo settecentesco, che si è storicamente incarnato nella sinistra dopo la Rivoluzione bolscevica e la nascita dell'Unione Sovietica. Ho ritrovato, e osservato, tale ossessione in due Paesi che hanno interpretato la politica da versanti opposti, pervenendo a risultati profondamente diversi. In Unione Sovietica non c'era ambito della società civile che la politica non volesse regolamentare e non regolamentasse. Il risultato era stata l'estrema esasperazione del sistema politico totalitario che aveva soffocato l'intera società civile russa, mentre, di converso, lo spontaneismo sociale promuoveva quella cinese, empirica e sperimentale. In Cina, la convinzione che solo lasciando alla società civile ampi ambiti di autonomia, soprattutto economica, il Paese sarebbe uscito dal dirigismo maoista e decollato verso la modernità e la crescita, ha dato i suoi frutti; oggi, la Repubblica popolare cinese è uno dei Paesi al mondo esemplari di più felice combinazione fra spontaneismo sociale e sviluppo economico, modernizzazione, crescita economica e sociale. Ricordo che, quand'ero in Cina, avevo osservato, e apprezzato lo spirito di iniziativa di certi cinesi, maschi e femmine, che avevano affrontato l'avventura liberista, godendo e approfittando della libertà che la politica lasciava loro di intraprendere e commerciare. Ho ritrovato la stessa ossessione regolamentatrice sovietica, da noi, in Italia, da parte soprattutto di quel filone politico, terreno di sperimentazione, da parte del Partito comunista, che aveva guardato all'Urss come ad un modello da imitare, e, entro certi limiti, da parte della cultura politica e sociale di matrice religiosa, non meno autoritaria di quella comunista. È stata la grande illusione razionalistica prodotta e diffusa dalla Rivoluzione francese con la pretesa di creare, e far crescere, la «società perfetta», dove nulla era lasciato al caso e tutto dipendeva dalla previsione e dalla programmazione politica. Non credo di sbagliarmi dicendo che l'Italia è il Paese al mondo col maggior numero di permessi, licenze, e divieti e anche quello dove queste forme di razionalismo condizionano la società civile e le impediscono di sviluppare autonomamente le proprie potenzialità. Il guaio è che l'ossessione regolamentatrice fa crescere la domanda di regolamentazione, e, quindi, di politica e di burocrazia ogni volta che si rivela inadeguata ad assolvere le funzioni che le sono impropriamente assegnate...Personalmente, sono cresciuto culturalmente all'ombra dell'empirismo anglosassone generatore dell'Illuminismo scozzese che si è distinto dal razionalismo francese proprio grazie al suo scetticismo rispetto alle virtù salvifiche della regolamentazione e della conseguente previsione-programmazione razionalistica. Sono liberale grazie anche a questa formazione culturale della quale sono debitore ad uno dei miei maestri all'Università di Torino di formazione anglosassone e col quale mi sono laureato, Alessandro Passerin d'Entreves, e ho imparato da Norberto Bobbio, l'altro mio grande maestro, a leggere i classici della cultura politica moderna, evitando, allo stesso tempo, di diventare prigioniero del positivismo politico, non meno di quello giuridico, cui era afflitto Bobbio, lui sì convinto erede del razionalismo francese. Grazie a Bobbio, ho letto David Hume e sono entrato in familiarità con l'empirismo anglosassone e l'Illuminismo scozzese. Detesto ogni pretesa previsionale e programmatrice proprio a ragione della loro scarsissima prevedibilità e capacità di programmazione razionale, e coltivo, con l'empirismo, un sano scetticismo sulle capacità razionali dell'uomo. Per intenderci: non vado in giro con la Dea Ragione sulle spalle come amano fare i razionalisti di tutte le tendenze e, in particolare, quelli di formazione transalpina. Ho imparato che il mondo è popolato da individui, ciascuno dei quali persegue i propri fini, con i propri mezzi, che coincidono solo inconsapevolmente con quelli degli altri - attraverso quell'empatia della quale parla Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali - in modo spontaneo ricercando il proprio Utile senza attenersi a calcoli previsionali e programmatici altrui... Se c'è qualcosa - diciamo pure molto! - che non va nella politica italiana è la convinzione si possano regolamentare i comportamenti sociali attraverso permessi, licenze, divieti che, poi, si rivelano l'ostacolo a quello spontaneismo che sta a fondamento della dottrina liberale e della nostra civilizzazione. Mi auguro, come ho scritto recentemente, che Berlusconi faccia iniezioni di empirismo e di liberalismo nella propria cultura politica e in quella di Forza Italia. Ce n'è effettivamente bisogno...

Mille euro al minuto a un comunista. L'ex ministro greco Varoufakis ospite da Fazio per 24mila euro. Il canone serve a questo? Si chiede Alessandro Sallusti su "Il Giornale" del 29/10/2015. Mille euro al minuto. È quanto la Rai ha pagato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco, per sparare pirlate a «Che tempo che fa», il salotto televisivo personale di Fabio Fazio. Ventidue minuti, andati in onda il 27 settembre, che urlano vendetta. Non è la cifra in sé, 24mila euro appunto, più viaggio aereo pagato in prima classe, ma lo sperpero di denaro pubblico. Con in più la beffa che a staccare l'assegno è stato il più moralista dei conduttori tv a favore del più comunista dei politici europei, quello che aveva fatto accorrere ad Atene a osannarlo una nutrita pattuglia della sinistra italiana a inneggiare agli eroi di Tsipras. Lungi da noi cadere nel facile moralismo. Se uno ha mercato è giusto che incassi il dovuto. Non ci formalizziamo. È che non capiamo che mercato possa avere mister Varoufakis, economista messo al bando sia dall'Europa sia dal suo Paese. Lo hanno cacciato e a quanto risulta, nel suo girovagare per tv e salotti di mezzo mondo, noi italiani siamo stati gli unici a pagare per godere del suo verbo. Il che stride con il pianto, anche quello greco, di chi ci governa e lamenta mancanza di liquidità. Si tolgono soldi ai pensionati e poi, via Rai, si sprecano euro con i comunisti chic. Si sfora il debito e il premier si compra un nuovo lussuoso aereo. Si spendono 3 miliardi per l'emergenza immigrati e non c'è un soldo in più per i terremotati dell'Emilia e gli alluvionati della Campania. Se è così che Renzi e i neo-nominati vertici della Rai pensano di usare i soldi di quella nuova tassa occulta che è il canone in bolletta Enel, allora siamo alla truffa. Sanno gli italiani che la Rai spende due dei loro milioni ogni anno per pagare Fabio Fazio? E sanno che Luciana Littizzetto, spalla del conduttore buonista, è ricompensata con ventimila euro a puntata? Credo che a molti verrebbe voglia di farsi staccare la luce da Renzi, piuttosto che vedere buttati così i propri risparmi. Che tanto, per sapere «Che tempo che fa» basta leggere le previsioni o guardare fuori dalla finestra.

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia: Caro Dago, le consuete diatribe su quanto o quantissimo vengono pagate le star televisive sono davvero male impostate. Ci sono personaggi della televisione che marchiano a fuoco il programma da loro condotto. Lo faceva Michele Santoro, bravissimo nel suo genere (che non è il mio); lo fa Barbara D’Urso, irresistibile nei confronti del suo pubblico meridiano (i cui gusti sono distantissimi dai miei); lo fa Massimo Giletti, da anni ostinatissimo nel sorreggere lo “share” della domenica pomeriggio di Rai1. Se qualcuno obiettasse sui compensi di personaggi siffatti, io direi che non sanno di che cosa stanno parlando. Se una trasmissione di quelle che ho nominato fa o faceva due punti percentuali di ascolto in più, erano soldoni che venivano dalla pubblicità e che compensavano alla grande i cachet. La televisione funziona così, e quella pubblica e quella privata. Se paghi lautamente un ospite che ti fa scena e “ascolto” sono soldi spesi benissimo, e sta a zero l’invidia (inevitabile) di gente e scribacchini. Il caso Varoufakis è profondamente diverso. E’ figlio di una di una dinamica completamente diversa. Tanto è vero che solo alla Rai e in una televisione giapponese, il noto motociclista è stato trattato talmente con i guanti: e tanto più se stiamo parlando della Rai, di un’azienda in un cui un comune mortale tratta alla morte se avere trenta euro in più o in meno per una prestazione professionale. I 24mila euro netti (e dunque 50mila lordi) pagati all’ex ministro greco hanno tutt’altra logica. Nascono dalla necessità spasmodica di buona parte del palinsesto di Rai3 di “offrire” qualcosa di sinistra al suo pubblico che ne arde. Che di meglio di uno che da ministro greco faceva l’orgogliosissimo nel momento in cui il suo governo e il suo Paese chiedevano all’Europa i soldi di che sopravvivere sino al giorno dopo in ragione dell’Himalaya di debiti che avevano accumulato. Voi ricordate i commenti di tanti al risultato grottesco del referendum greco, all’annuncio che i greci non ne volevano sapere di pagare i loro debiti. Dio che orgogliosi, commentarono subito alcuni quaquaraquà del pronto intervento ideologico. E chi meglio del motociclista, che è poi un gran rivale di Fabrizio Corona quanto a turgore maschile, poteva rappresentare quell’orgoglio in una delle case madri della superiorità razziale della sinistra, ossia la trasmissione garbatamente condotta su Rai3 da Fabio Fazio? L’ho visto quando Varoufakis si è presentato e seduto. Da soli quella posa e quell’atteggiamento valevano i 24mila euro. Dio che cipiglio, Dio che turgore. Fuffa ideologica, la migliore di tutte. Non ha prezzo perché è una merce che ha un pubblico imponente, non meno grande di quello di Barbara D’Urso. Cappello. Che poi la Luciana Litizzetto abbia in quella trasmissione un cachet di 20mila euro a botta, davvero non so giudicare. Io non ho mai riso una volta nella mia vita alle sue battute. La mia compagna Michela sì, quasi sempre. Non so, davvero non so.

Pansa intervista Pansa su “Libero Quotidiano”: "Devo tutto alla guerra".

Caro Giampaolo, come ti senti adesso che hai compiuto gli ottant' anni?

«Tutto sommato, mi sento bene, a parte qualche acciacco inevitabile alla mia età. Ma il resto funziona e non posso che ringraziare il Padreterno. La testa è ancora lucida e la voglia di scrivere tanta. Devo confessare che il piacere di scrivere, invece di diminuire, con l'età è cresciuto. La mattina mi alzo presto e una delle prime cose che faccio è accendere il computer. Poi mi dedico a un articolo, al capitolo di un mio nuovo libro, a una lettera da inviare a un amico. Impegnarmi ogni giorno in questo esercizio mi gratifica molto. E mi ricorda che sono sempre stato un uomo fortunato».

In che cosa consiste la tua fortuna?

«Prima di tutto, nella data di nascita. Sono un ex ragazzo del 1935. L' essere venuto al mondo in quell' anno mi ha regalato molte opportunità. La prima è stata di vedere con i miei occhi il disastro di una guerra mondiale. È iniziata nel 1940 quando avevo cinque anni ed è finita nel 1945 quando mi avviavo a compierne dieci. Quello che ho visto, sia pure con lo sguardo di un bambino, mi ha insegnato che non bisogna mai lamentarsi di quanto ci accade, perché il peggio può sempre arrivare».

Il tuo ricordo più orribile del tempo di guerra?

«I bombardamenti aerei. Casale Monferrato, la mia città, non era un obiettivo strategico, ma aveva due ponti sul Po, uno pedonale e l'altro ferroviario, abbastanza vicini al centro. A partire dall' estate del 1944, gli apparecchi angloamericani tentarono di distruggerli come avevano iniziato a fare con tutti i ponti della Pianura padana. Nella convinzione che, dopo la liberazione di Roma, la guerra stesse per finire e dunque fosse necessario ostacolare la ritirata dei tedeschi. Il ponte pedonale lo colpirono subito, quello ferroviario mai. Per questo i bombardieri alleati ritornavano di continuo all' assalto».

E allora?

«Allora ho nella memoria lo schianto delle bombe. Un rumore da film degli alieni, che si insinuava dentro di te, si impadroniva del tuo corpo e ti faceva temere di morire. Invece l'andare nei rifugi antiaerei durante la notte, per me era divertente. Può sembrare una bestemmia, lo so. Ma da ragazzino precoce mi sentivo attratto dalle donne sempre un po' discinte. Se qualcuno mi chiedesse quando ho cominciato a osservare l'altro sesso, risponderei: nel grande rifugio della marchesa della Valle di Pomaro, situato a cento metri dal nostro appartamento, un palcoscenico straordinario di varia umanità».

Ma non avevi paura?

«Dopo il primo bombardamento sì, ho provato il terrore di essere ucciso. Poi mi sono abituato. Tanti anni dopo, nel leggere quel che era accaduto in Gran Bretagna, ho compreso che l'Italia, soprattutto nelle piccole città, era stata una specie di paradiso. Gli abitanti di Londra e di altri centri inglesi, come Coventry avevano vissuto l'inferno dei continui bombardamenti tedeschi. Gli inglesi stavano assai peggio di noi. Hanno sofferto la fame, da loro il tesseramento è rimasto in vigore sino agli anni Cinquanta. Noi ce la siamo cavata molto meglio».

Che cosa dicevano i tuoi genitori della guerra?

«La consideravano un castigo di Dio e speravano che finisse presto. Ma non hanno mai lasciato trasparire le loro paure con me e a mia sorella Marisa. Mio padre Ernesto, classe 1898, da giovanissimo si era sciroppato gran parte della Prima guerra mondiale, nel Genio radiotelegrafisti della III Armata, quella del Duca d' Aosta. E aveva visto gli orrori di quel conflitto. Gli inutili assalti alla baionetta, i cadaveri straziati dalle cannonate, i tanti feriti, i mutilati, i soldati con la malaria e il colera abbandonati in lazzaretti di fortuna. Era un uomo buono e pessimista, rimasto orfano di padre da bambino, insieme a cinque tra fratelli e sorelle. Mia madre Giovanna, invece, era una donna ottimista. Aveva un negozio di mode in centro, guadagnava tre volte lo stipendio di papà, operaio guardafili delle Poste. Insieme mi hanno insegnato come si deve stare al mondo».

Quando hai scoperto che ti piaceva scrivere?

«Alla conclusione della terza media. Eravamo nell' estate del 1947 e avevo dodici anni e mezzo, poiché nelle elementari avevo fatto insieme la quarta e la quinta. Come premio per un'ottima pagella, papà mi regalò una macchina per scrivere di seconda mano: una Underwood del 1914, fabbricata in America. Ho imparato subito a usarla e mi sono accorto di avere una vocazione: quella di diventare un giornalista. Cominciai presto a collaborare al settimanale della mia città, Il Monferrato. Non mi pagavano, però mi lasciavano fare. Quando sono andato all' università di Torino, a Scienze politiche, ho dedicato tutto il mio tempo alla tesi di laurea. L'argomento era la guerra partigiana tra Genova e il Po. L' avevo iniziata per partecipare a un concorso indetto dalla Provincia di Alessandria. Divenne un malloppo pazzesco, di ottocento pagine».

E che cosa accadde?

«Mi laureai con il massimo dei voti e la dignità di stampa. Era il luglio del 1959 e avevo 23 anni e nove mesi. Nel novembre del 1960 la mia tesi vinse il Premio Einaudi che mi fu consegnato dall' ex capo dello Stato, Luigi Einaudi, nella sua villa di Dogliani, con una cerimonia solenne. Quel premio convinse il direttore della Stampa, Giulio De Benedetti, a convocarmi per capire che tipo ero. Il nostro incontro durò meno di un quarto d' ora. E lui mi assunse, come in seguito fece con altri giovani laureati. Voleva svecchiare la redazione, così mi venne detto».

Un altro colpo di fortuna…

«Sì. Ma anche il risultato di una serie di circostanze che non riguardavano soltanto me. Quando iniziai a lavorare alla Stampa era il gennaio 1961. L' Italia era appena uscita del suo primo boom economico. I grandi quotidiani andavano a gonfie vele. A insidiarli non esisteva la televisione e meno che mai il maledetto web. Vendevano molte copie, raccoglievano tanta pubblicità, avevano la cassa piena di soldi».

Condizioni oggi irripetibili...

«Non c' è dubbio. Gli stipendi erano più che buoni, compresi quelli dei redattori alle prime armi. In compenso bisognava lavorare, o ruscare come diciamo noi piemontesi. Dieci ore di presenza dalle due del pomeriggio a mezzanotte. Nessuna settimana corta. Un rigore assoluto, garantito dai capi servizio, a loro volta onnipotenti. De Benedetti era un dittatore indiscusso. Quando entrava nella grande sala della redazione, tutti ci alzavamo in piedi. Soltanto quando Gidibì ringhiava: "Signori, seduti!", il lavoro riprendeva».

Fammi un esempio del rigore della «Stampa»…

«Eccone uno. Lavoravo da parecchio al notiziario italiano, quando Carlo Casalegno, il giornalista assassinato nel 1977 dalle Brigate rosse, mi chiese una recensione per la terza pagina, quella culturale. Riguardava un libro appena uscito in Italia: Il giorno più lungo di Cornelius Ryan, sullo sbarco alleato in Normandia nel giugno del 1944. La scrissi e la riscrissi con il cuore in gola. La consegnai al direttore e Gidibì la tenne nel cassetto per una settimana. Poi mi convocò e ruggì: "Questa non è una recensione, ma una cattiva cronaca dello sbarco in Normandia". Quindi iniziò a stracciarla in pezzi sempre più piccoli. E li fece nevicare sotto gli occhi».

Poi hai lasciato la «Stampa». Come mai?

«È un altro esempio della fortuna che assisteva un ragazzo del 1935. Negli anni Sessanta, un direttore che apprezzava il tuo lavoro aveva il potere assumerti da un giorno all' altro. Una circostanza irreale se guardiamo ai giorni nostri. Italo Pietra, allora direttore del Giorno, nel 1964 mi offrì un contratto da inviato speciale. Mi chiese: "Dove vuoi essere mandato in servizio: a Voghera o nel Golfo del Tonchino dove sta per cominciare una guerra che si estenderà al Vietnam?". Da monferrino sveglio risposi: "A Voghera, direttore". Pietra sorrise: "Risposta esatta. Ti assumo. Ecco il contratto da firmare. Se dicevi il Tonchino, non ti avrei mai assunto"…».

Quanto sei rimasto al «Giorno»?

«Sino alla fine del 1968. Poi Alberto Ronchey, il successore di Gidibì, mi rivolle alla Stampa, sempre come inviato. La mia base era Milano, una metropoli sconvolta dalla violenza e dagli attentati. Cortei militanti a tutto spiano, l'omicidio dell'agente di polizia Annarumma, la strage di Piazza Fontana, la fine oscura dell'anarchico Pinelli, l'arresto di Valpreda, i primi segni di vita delle Brigate rosse. Ho imparato a conoscere l'Italia, un paese ingovernabile, travolto dall' estremismo politico».

Se non sbaglio, nel 1973 sei passato al «Messaggero» dei Perrone…

«Sì, a fare il redattore capo, un mestiere che non era il mio. Ma la fortuna continuò ad assistermi. Piero Ottone mi volle al Corriere della sera. Ci rimasi sino al 1977, poi Eugenio Scalfari mi assunse a Repubblica, nata l’anno precedente. Rimasi con Barbapapà un'infinità di tempo. Quindi andai all' Espresso con Claudio Rinaldi, ero il suo condirettore. Nel 2008 lasciai il gruppone di Scalfari e mi arruolai nel Riformista di Antonio Polito. Di lì sono passato a Libero, dove sto con grande soddisfazione mia e, spero, del direttore Maurizio Belpietro e dell'editore Giampaolo Angelucci».

In tanti anni di professione, immagino che tu sia stato costretto ad affrontare non poche delle emergenze che hanno tormentato l'Italia. Quale di loro ricordi?

«Almeno tre. La prima è il terrorismo, soprattutto quello delle Brigate Rosse. Oggi non ce ne ricordiamo più, ma è stata una seconda guerra civile durata quasi un ventennio. Con un'infinità di morti ammazzati, centinaia di feriti, allora si diceva gambizzati, e un delitto che ricordo come fosse avvenuto ieri: il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Tuttavia l'aspetto peggiore, e infame, di quel mattatoio fu il comportamento di una parte importante della borghesia di sinistra. Eccellenze della cultura, dell'università, del giornalismo, delle professioni liberali. E della politica comunista e socialista. Per anni negarono l'esistenza del terrorismo rosso. Sostenevano che si trattava di fascisti travestiti da proletari. Soltanto qualcuno ha fatto ammenda di quella farsa tragica. Ma pochi, per non dire pochissimi. Molti pontificano ancora e si considerano la crema dell'Italia».

E la seconda emergenza?

«È la corruzione, un cancro che intacca, con una forza sempre più perfida, partiti, aziende, pubblica amministrazione. È un virus che si estende anno dopo anno. Ha avuto un picco al tempo di Mani Pulite o di Tangentopoli. Era il 1992 e allora sembrò che le indagini del pool giudiziario di Milano avessero la meglio. Invece era soltanto una pausa breve. Infatti tutto è ricominciato alla grande. Devo dire la verità? L' Italia è una repubblica fondata sulla mazzetta. Non può consolarci il fatto che tante nazioni siano uguali a noi».

La terza emergenza?

«È il discredito sempre più devastante che ha mandato al tappeto il sistema politico italiano. Per anni ho seguito da vicino e ho raccontato la crisi dei nostri partiti. Li ho visti ammalarsi, peggiorare, arrivare vicini all' estinzione. Adesso mi sembrano malati terminali. Molte parrocchie politiche sono già morte. E altre moriranno. Alla fine resteranno in piedi soltanto pochi personaggi, i più scaltri, i più demagoghi. È facile prevedere che saranno loro a comandare in Italia».

Stai pensando a Matteo Renzi, il nostro presidente del Consiglio?

«Certo, penso al Fiorentino, ma non soltanto a lui. Renzi oggi comanda e temo che continuerà a comandare per parecchio tempo. Avremmo bisogno di un nuovo De Gasperi, ma l'Italia del 2015 è messa peggio di quella del 1948. Allora eravamo un paese senza pace, alle prese con tutti i guai del dopoguerra. Ma avevamo fiducia in noi stessi, voglia di rinascere, capacità di sacrificio, entusiasmo politico, anche faziosità all' ennesima potenza. Oggi siamo una nazione di morti che camminano, non parlano, non si occupano di quello che un tempo veniva chiamato il bene pubblico. Prevale la paura di diventare sempre più poveri».

Come vedi il futuro dell'Italia?

«Buio e tempestoso. Adesso qualche gregario di Renzi dirà che sono un vecchio gufo menagramo, ma è proprio il personaggio del Fiorentino a indurmi al pessimismo. Non è un leader politico poiché non ha la statura intellettuale e umana per esserlo. È soltanto l'utilizzatore finale di una crisi antica della Casta dei partiti, cominciata molti anni fa. Renzi sta dominando su uno scenario di macerie. A lui interessa soltanto il potere. Non è un generoso come sanno esserlo i veri numero uno. È un piccolo demagogo, egoista, vendicativo, che si è circondato di una squadra di yes man incompetenti, pronti a obbedirgli e a seguirlo fino a quando resterà in sella. Nessuno lo scalzerà dalla poltrona e lui seguiterà a vincere per abbandono di tutte le controparti».

Nemmeno il centrodestra riuscirà a scalzare Renzi?

«Ma non raccontiamoci delle favole! Il centrodestra mi ricorda l'ospizio dei poveri della mia città. Sono convinti, o fingono di esserlo, che soltanto loro abbatteranno il Fiorentino. Ma è un pio desiderio, nient' altro. In realtà tutti i capetti di una volta si combattono per spartirsi il poco che è rimasto dell'impero di Silvio Berlusconi. Giocano con il pallottoliere e, sommando una serie di piccoli numeri, si illudono di sconfiggere Renzi. Il loro futuro è persino più nero di quello italiano. Ce lo conferma la crisi drammatica del Cavaliere. Ha un anno meno di me e nel 2016 taglierà il traguardo degli ottanta. Gli auguro di conservare la villa di Arcore e di non sentire che un giorno, all' alba, bussa alla sua porta qualche scherano di Renzi con un'ordinanza di sfratto».

Sei certo che gli oppositori attuali di Renzi non siano in grado di fermarlo?

«Forse potrebbe farcela un'alleanza che oggi sembra una chimera. Quella fra Grillo, Salvini, la Meloni e quanto resta di Forza Italia. Ma nel caso molto improbabile che questo asse prenda forma, chi può esserne il leader? Viviamo in un'epoca che considera la figura del capo un fattore indispensabile per contendere il potere politico, con la speranza di conquistarlo. Però dove sta il nuovo leader del centrodestra? Io non lo vedo».

E del centrosinistra che cosa mi dice?

«Che sta peggio del centrodestra. Quando esisteva ancora la Democrazia cristiana, un anziano deputato doroteo di Caltanissetta mi disse: "Il mio partito ricorda la masseria dello curatolo Cicco: il primo che si alza, pretende di comandare". Non rimpiango di certo la scomparsa del Pci, ma la sua fine ha lasciato un vuoto enorme. Si sta realizzando una profezia del vecchio Pietro Nenni: rischiamo di diventare una democrazia senza popolo. È quello che accade in Italia, pensiamo al grande numero di elettori che non vanno più alle urne».

Nella prima e nella seconda Repubblica tu hai votato sempre a sinistra, se non sbaglio…

«Sì, ho votato per il Pci, per il Psi e per i radicali. Poi non sono più andato a votare, da quando ho scoperto la vera natura della sinistra italiana. Me ne sono reso conto del tutto nel 2003, dopo aver pubblicato il mio libro dedicato a quanto era accaduto dopo il 25 aprile 1945: Il sangue dei vinti. Un lavoro minuzioso, che non ha mai ricevuto una smentita o una querela. Posso definirlo una prova di revisionismo storico da sinistra? Eppure la sinistra italiana, in tutti i suoi travestimenti, mi ha maledetto. E non ha smesso di sputarmi addosso nemmeno quando si è resa conto che quel libraccio aveva un successo enorme. A tutt' oggi ha venduto un milione di copie».

Tu fai il giornalista dal 1961, ossia da cinquantaquattro anni. Ha ancora senso questo nostro mestiere?

«Penso di sì, anche se è diventato una professione proibita ai giovani. Nessuno li assume, i compensi per chi vuole iniziare sono minimi. Ma io sono difeso dalla mia età. A ottant' anni mi protegge un antico imperativo del filosofo tedesco Immanuel Kant. Recita: fai quel che devi, avvenga quel che può».

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: appesero Mussolini perché mancava la tv. Vi siete mai domandati perché nell’aprile 1945 il vertice del Pci decise di appendere a Piazzale Loreto i cadaveri di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e di qualche gerarca della Repubblica sociale? Con il trascorrere degli anni, ne sono passati ben settanta, gli storici e i politici hanno offerto molte spiegazioni di quella scelta barbara che qualche leader della Resistenza, come Ferruccio Parri, il numero uno del Partito d’Azione, definì come un esempio ributtante di «macelleria messicana». Ma tutte le ipotesi sono, o sembrano, aperte e spesso in contraddizione. Credo che esista un’unica certezza. La decisione venne presa da Luigi Longo e da Pietro Secchia, i comandanti delle Brigate Garibaldi nell’Italia da liberare. Dopo aver interpellato il leader del Partito comunista, Palmiro Togliatti, ancora fermo a Roma. Ma perché la presero? Gli storici propendono per un’ipotesi: era l’unico modo per dare sfogo alla rabbia di una parte dei milanesi che voleva vedere il Duce accoppato e appeso come una bestia da squartare. Uno spettacolo che serviva anche a spargere il terrore tra i fascisti repubblicani ancora in libertà. Tuttavia in questi giorni emerge un’altra spiegazione, assai bizzarra. La propone un giornalista che cerca di farsi strada nel terreno impervio della guerra civile. È Aldo Cazzullo che l’ha presentata nella propria rubrica su Sette, il periodico del Corriere della Sera. La sua tesi è la seguente. Nell’Italia del 1945 non c’era la televisione. Per far sapere che il Duce era morto, non esisteva altro modo che mostrarlo appeso ai rottami del distributore di Piazzale Loreto. Conosco bene Cazzullo. È un bravo giornalista, sempre attratto dalla storia contemporanea. Era accanto a me a Reggio Emilia nell’ottobre del 2006 quando venni aggredito da una squadra arrivata da Roma su mandato di Rifondazione comunista per impedire un dibattito su un mio libro revisionista. Il comportamento di Aldo fu esemplare. Invece di scappare dall’Hotel Astoria come fece qualcuno, se ne rimase lì tranquillo, aspettando che la buriana finisse. Subito dopo cominciammo a discutere. Adesso ha pubblicato con Rizzoli una storia della Resistenza. Il suo lavoro dovrebbe dimostrare che la guerra partigiana non fu soltanto un affare dei comunisti. È una verità conosciuta da sempre. Allo stesso modo sappiamo che l’attore principale della nostra guerra civile fu il Pci, grazie alle bande Garibaldi, le più numerose, le meglio armate e le più combattive. È curioso che a ricordarlo sia proprio il sottoscritto, autore di un libro come Il sangue dei vinti. Quel lavoro rivelava la sanguinaria resa dei conti sui fascisti sconfitti. Attuata dopo il 25 aprile 1945 quasi sempre dai partigiani rossi. Il sangue dei vinti venne messo all’indice da tutta la pubblicistica di sinistra. Si disse persino che l’avevo scritto per ingraziarmi Silvio Berlusconi. In compenso il Cavaliere mi avrebbe fatto ottenere la direzione del Corriere della Sera! L’insieme delle vendette ebbe come spettatori entusiasti, e talvolta come esecutori, anche tanti italiani che per vent’anni erano stati fascisti e avevano applaudito i discorsi di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia. Ecco un’altra verità che non amiamo ricordare. Non piace neanche a Cazzullo. Lui arriva a definirla «la solita tiritera». Ma non è così. La grande folla accorsa a piazzale Loreto, per sputare sui cadaveri di Mussolini e della Petacci, nei venti mesi della guerra civile si era ben guardata dall’uscire di casa. Osservata con uno sguardo neutrale, la Resistenza fu una guerra condotta da un’esigua minoranza di italiani che si opposero a un’altra minoranza anch’essa esigua, quella dei fascisti decisi a combattere l’ultima battaglia di Mussolini. Questi potevano contare sul sostegno determinante dell’esercito tedesco. Mentre i partigiani avevano soltanto l’appoggio cauto degli angloamericani che risalivano la penisola con grande lentezza. Negli anni successivi al 1945, il Pci seppe sfruttare con accortezza il proprio predominio sul fronte antifascista. «La Resistenza è rossa» divenne lo slogan più urlato nelle celebrazioni del 25 aprile. In due parole descrivevano una realtà. Certo, a resistere c’erano anche militari, sacerdoti, suore, internati in Germania, partigiani cattolici e monarchici. Ma la massa critica, diremmo oggi, era costituita dalle Garibaldi. Le bande del Pci erano le uniche ad avere una strategia a lungo termine: quella di iniziare un secondo tempo destinato alla conquista del potere. E fare dell’Italia un satellite di Mosca. I comunisti furono anche gli unici a giovarsi subito di una storiografia di parte. Basta ricordare Un popolo alla macchia, il libro firmato da Longo, ma scritto su commissione da un altro autore. E la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, corretto in più parti dallo stesso Longo. Insieme a questi interventi di marketing, ci fu la conquista dell’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani, che vide l’espulsione dei cattolici e dei capi del Partito d’Azione, primo fra tutti Parri. Oggi, nell’anno di grazia 2015, si scopre che soltanto una minuscola pattuglia dei maturandi, appena il 2,5 per cento, sceglie il tema sulla Resistenza. Perché stupirsene? La crisi della memoria resistenziale è in atto da molto tempo, strozzata dalla retorica, da un’infinita serie di menzogne e dall’opportunismo cinico delle sinistre. Ed è diventata il sintomo più evidente della crisi culturale di quel mondo. Esiste un succedersi implacabile di stagioni politiche. Per prima c’è stata la fase staliniana. Poi quella togliattiana. Quindi la berlingueriana. Chi ha visto l’ultima puntata di Michele Santoro dalla piazza di Firenze, si è reso conto che Enrico Berlinguer viene ancora ritenuto un santo da venerare. Infine il caos legato alla dissoluzione dell’Unione sovietica ha prodotto la svolta di Achille Occhetto e la scomparsa formale del Pci. La mazzata decisiva è venuta nel 1992 da Tangentopoli. Una parte della sinistra, quella di Bettino Craxi, è morta. Mentre i resti del Partitone rosso si sono dispersi in tante piccole parrocchie. Adesso, nel giugno 2015, la crisi culturale è diventata identitaria. Racchiusa in una domanda: chi è di sinistra oggi in Italia? Certo, esiste il Partito democratico, ma è un’accozzaglia di politici, di programmi, di stili di vita e di idee, tutti avvolti in una nebbia che impedisce definizioni credibili. Secondo un intellettuale dem come Fabrizio Barca, autore di un’analisi che ha richiesto mesi di indagini, il Pd è anche un partito zeppo di robaccia criminale. Non mancano i militanti e i dirigenti onesti. Però l’insieme ricorda la folla di Piazzale Loreto che osserva con gli occhi sbarrati non il cadavere di un dittatore, bensì quello di una storia politica. Durata per decenni, ma oggi finita per sempre. Per ultimo ecco l’enigma di Matteo Renzi, il premier di un’Italia che, nel mondo globalizzato del Duemila, non sa più dove dirigersi. Il Chiacchierone di Palazzo Chigi è di sinistra, di destra, di centro o un renzista autoritario e clientelare? Per ritornare a Cazzullo che osserva Piazzale Loreto, oggi la televisione esiste. Ma è in grado soltanto di diffondere ansia, incertezze e non poca paura. Giampaolo Pansa.

"Questa vecchia Italia non è un Paese per giovani storici". L'autore di molti libri fuori dal coro lancia l'allarme: "Se non sei una firma nota, non pubblichi. E le Fondazioni pendono a sinistra", scrive Gianfranco de Turris su “Il Giornale”. La crisi generale si ripercuote in molte crisi particolari. Una di esse è la crisi dell'editoria che purtroppo non è una vuota e interessata lamentela ma una triste realtà, come dimostrano le statistiche che registrano un calo vertiginoso di lettori. Luciano Lucarini, che con la casa editrice Pagine ha al proprio attivo molte riviste di livello universitario, ha deciso di rilanciare una sua testata, Historica , che oggi con il nome di Nova Historica e la direzione di un comitato direttivo di cui è presidente il professor Giuseppe Parlato, è certamente qualcosa di appetibile nell'asfittico panorama delle riviste accademiche. Abbiamo posto alcune domande a Giuseppe Parlato, docente di Storia contemporanea alla Università degli Stati Internazionali di Roma di cui è stato rettore quando si chiamava Università S. Pio V, autore di saggi come La sinistra fascista (Il Mulino, 2000), Fascisti senza Mussolini (Il Mulino, 2006), Mezzo secolo di Fiume (Cantagalli, 2009) e Gli italiani che hanno fatto l'Italia (Eri-Rai, 2011).

Professor Parlato, da docente universitario in Storia contemporanea, come vede la condizione dello storico oggi?

«Per un certo verso, oggi è più facile fare lo studioso di storia, grazie alla tecnologia che ha abbreviato i tempi di lavoro; penso alla comodità, ad esempio, di avere gli atti parlamentari visibili on line da casa, mentre una volta occorreva andare in biblioteca. Per un altro verso, invece, è più difficile, perché la tecnologia riduce l'interpretazione libera, articolata e complessa a favore di quella semplificata e, al limite, banalizzata. In ogni caso, oggi è più facile l'adesione al politicamente corretto, che è l'interpretazione prevalente su internet».

Qual è oggi, secondo lei, il rapporto dei giovani con la storia?

«Si tratta di un rapporto, anche qui, ambiguo. Da un lato i giovani cercano la storia, non si accontentano delle vecchie interpretazioni. Dall'altro, invece, quelli che vorrebbero occuparsene trovano problemi inediti. Nelle università i fondi per la ricerca si sono ridotti e, in ogni caso, è privilegiata la cultura scientifica e tecnica, quella “utile” e spendibile, rispetto a quella umanistica. Le case editrici pubblicano libri ormai a spese degli autori, soprattutto se sono giovani e non ancora famosi. Le riviste scientifiche si sono ridotte di numero e quindi le possibilità di pubblicare sono più scarse. La situazione è ancora più difficile per quei giovani che non appartengono organicamente alla cultura politica della sinistra; infatti uno dei pochi aiuti rimasti alla ricerca è dato dalle Fondazioni culturali, che in maggioranza fanno riferimento alle tradizioni culturali della sinistra. Poche sono quelle di centro, mentre la destra latita, a causa del disinteresse che i suoi capi politici hanno tradizionalmente dimostrato verso la cultura».

Le riviste che trattano di contemporaneità oggi in Italia non sono molte...

«Credo che lo spazio ci sia per una rivista diversa dalle altre, come riteniamo possa essere Nova Historica . La principale differenza è quella della confluenza di tre profili scientifici, la storia politica contemporanea, quella economica e quella delle istituzioni politiche, rappresentata dalla presenza dei quattro direttori, Simona Colarizi, storia contemporanea alla Sapienza, Gaetano Sabatini, storia economica a Roma Tre, Francesco Bonini, storia delle istituzioni politiche alla Lumsa della quale è anche rettore».

Per concludere. È in discussione al Parlamento una cosiddetta «legge sul negazionismo» al grido (di comodo): ce lo chiede l'Europa. Molti studiosi di orientamenti assai diversi hanno sollevato perplessità, dubbi e addirittura allarmi. È veramente qualcosa di necessario e indispensabile? Ci sono pericoli concreti per la ricerca storica svincolata da condizionamenti?

«Il provvedimento ha avuto un iter complesso e faticoso. Prima in commissione sembrava che potesse essere approvato in pochi giorni: il politicamente corretto sembra trovare tutti d'accordo. Invece, proprio gli storici che sono stati ascoltati dai parlamentari hanno espresso - come già negli scorsi anni - perplessità forti e anche opposizioni alla natura del provvedimento, che condanna non soltanto la propaganda di negazionismo o “riduzionismo”, ma anche l'espressione di idee in merito, confezionando una verità ufficiale che offende le vittime che dovrebbero essere tutelate e che penalizza la libera ricerca storica. In aula il provvedimento ha subito diverse modifiche in senso positivo. Ma tali miglioramenti non sono stati sufficienti a fugare il dubbio che questo provvedimento, mentre condanna severamente il reato di propaganda di negazionismo o di “riduzionismo”, condizioni pesantemente la stessa ricerca storica, sancendo per legge una “verità” che non può essere oggetto di revisione. E, si sa, la storia o è revisione o non è».

L’OLOCAUSTO COMUNISTA.

PER NON DIMENTICARE: L’INGIUSTIZIA VIENE DA LONTANO.

Armenia (1915): 1.400.000 (70%) morti

Holodomor (1932-33): 7.000.000 (25%) morti

Shoah (1941-45): 5.200.000 (50%) morti

Persecuzione dei serbi in Jugoslavia(1941-1945): 1.000.000 morti

Cambogia (1975-79): 1.800.000 (40%) morti

Ruanda (1994): 800.000 - 1.000.000 (70-80%) morti

Bosnia (1992-95): 100.000 - 120.000 (6%) morti

America (dal 1492): Da 50 a 114 milioni 80%

Sud Italia (dal 11 maggio 1860): 1.200.000 morti su 7.500.000 abitanti 16%

* La percentuale è calcolata rispetto al gruppo vittima potenziale.

Genocidio dei nativi americani. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per genocidio dei nativi americani, detto anche genocidio indiano, olocausto americano (in inglese American Holocaust o Indian Holocaust) o catastrofe demografica dei nativi americani, si intende il calo demografico e lo sterminio dei nativi americani (detti anche indiani d'America, pellerossa o, nel centro-sud America, indios e amerindi), avvenuto dall'arrivo dei bianchi alla fine del XIX secolo, periodo in cui, si ritiene che un numero tra i 50 e i 100 milioni di nativi morirono a causa dei colonizzatori, come conseguenza di guerre di conquista, perdita del loro ambiente, cambio dello stile di vita e soprattutto malattie contro cui i popoli nativi non avevano assolutamente difese, mentre molti furono oggetto di deliberato sterminio, poiché considerati barbari. Per altri la cifra supera i 100 milioni di morti in 500 anni, fino ad arrivare a 114 milioni. Diversi sono i motivi, anche se principalmente la causa fu l'obiettivo di impossessarsi delle terre e delle ricchezze dei nativi, spesso giustificando in maniera ideologica o pratica gli stermini; gli stessi nativi aztechi e inca, che praticavano sacrifici umani, spesso però si erano convertiti al cristianesimo e avevano abbandonato questi riti, ma nonostante ciò erano considerati esseri inferiori e spesso da schiavizzare e la stessa sorte toccò ai nativi pacifici. Nel Nordamerica morirono meno nativi che nel resto del continente, ma l'impatto fu più devastante a causa del numero più esiguo. Nel 1890 rimanevano 250.000 individui, e si stima che l'80 % (1 milione) fosse stato sterminato nel crollo demografico tra il 1600 e il 1890. Per questo si suole parlare di genocidio dei nativi americani o genocidio indiano, nonché di etnocidio. Nativi e soprattutto meticci costituiscono però ancora una gran parte della popolazione sudamericana, mentre sono una piccola minoranza nel nord. Il Nuovo Mondo conobbe nel corso del XVI secolo un notevolissimo crollo demografico della popolazione indigena del continente, principalmente dovuto alla diffusione di patologie non curabili quali il vaiolo, l'influenza, la varicella, il morbillo. Queste patologie vennero inconsciamente portate con sé dagli europei e dai loro animali, quando sbarcarono e si stabilirono nel nuovo continente, e poi utilizzate anche in maniera conscia, come armi. Si trattava di malattie pressoché inesistenti in America: mentre le popolazioni di Europa, Asia e Africa avevano sviluppato anticorpi specifici contro di esse, gli indiani si trovarono del tutto inermi di fronte ad esse. Pertanto, questi si ammalarono rapidamente e morirono senza poter fare niente. Si stima che tra l'80% ed il 95% della popolazione indigena delle Americhe perì in un periodo di tempo che va dal 1491 al 1550 per effetto delle predette malattie. Circa un decimo dell'intera popolazione mondiale di allora (500 milioni circa) fu decimato. La prima malattia che si diffuse nel Nuovo Mondo fu causata da una germe dell'influenza dei suini ed ebbe inizio nel 1493 a Santo Domingo e decimò la popolazione (da 1.100.000 a 10.000); nel 1518 comparve il vaiolo ad Hispaniola che si propagò dapprima in Messico, poi in Guatemala e nel Perù; la malattia destabilizzò l'impero inca favorendo la campagna di conquista di Francisco Pizarro ed il massacro della popolazione. Dopo il devastante passaggio del vaiolo e dei conquistadores, fu la volta del morbillo. I metodi di sterminio e segregazioni attuati contro i nativi nordamericani, secondo lo studioso John Toland, vennero presi a modello (assieme al genocidio armeno e altri stermini o forme di razzismo come l'apartheid o il razzismo contro i neri e le minoranze negli Stati Uniti) da Adolf Hitler nell'attuazione dell'Olocausto contro ebrei, rom e altre minoranze etniche e politiche e, in generale, della politica razziale nella Germania nazista. Per lungo tempo lo sterminio dei nativi venne ignorato o sottovalutato dalla storiografia ufficiale, perlomeno fino alla metà del XX secolo. Fin dopo i primi viaggi di Colombo gli spagnoli organizzarono nelle isole caraibiche degli insediamenti stabili e dei governatorati coloniali come a Cuba. Il primo, però, ad organizzare una spedizione di conquista verso la terraferma fu Hernán Cortés. Egli il 18 febbraio 1519 con undici navi, poche decine di cavalli e alcuni pezzi d'artiglieria, partì da Cuba verso l'odierno Messico. Dopo aver sostato sull'isola di Cozumel e aver costeggiato lo Yucatan, fondò sulla costa messicana la piazzaforte di Veracruz. Da lì si mosse alla conquista dell'Impero Azteco e nell'arco di pochi mesi, sfruttando le rivalità e conflittualità tra le varie popolazioni facenti parte dell'impero, entrò a Tenochtitlán, la capitale azteca. L'anno successivo, però, egli dovette lasciare la città per fronteggiare l'attacco mossogli da un altro spagnolo, Pánfilo de Naváez, mandato dal governatore di Cuba Diego Velázquez de Cuéllar, che l'anno prima aveva sconfessato Cortés. Respinto de Naváez, il conquistador dovette rifugiarsi a Tlaxcala, città a lui fedele, a seguito di una ribellione scoppiata nel giugno del '20. Ripresosi e riconquistato il terreno perduto, Cortés entrò definitivamente a Tenochtitlan che ribattezzò Mexico (13 agosto 1521). L'imperatore Montezuma, divenuto un fantoccio nelle mani degli spagnoli, venne assassinato dal suo popolo (o forse dagli spagnoli stessi.), mentre suo fratello Cuitláhuac gli successe per breve tempo, morendo di vaiolo. Infine, il cugino Cuauhtémoc divenne l'ultimo sovrano a difendere la capitale e l'impero, prima di cadere in battaglia. Nei decenni successivi si susseguirono missioni sempre più spesso militari in Centro America, finché dal 1522 le brame dei conquistadores si rivolsero verso un regno sito tra gli altopiani andini e del quale giungevano notizie abbastanza precise sulla sua prosperità e le sue ricchezze minerarie: l'impero inca. Pasqual de Andagoya fu il primo ad arrivare fino a sud dell'attuale Colombia a Puerto de Pinas. Fu però il condottiero e hidalgo spagnolo Francisco Pizarro ad organizzare nel '32 il viaggio di conquista dell'impero inca. Partito da Panama alla fine del '30 con tre navi e quasi centottanta uomini giunse a Túmbez nell'aprile dell'anno dopo. Una volta che ebbe costituito il primo insediamento spagnolo sulla costa pacifica sudamericana (San Miguel de Piura), ripartì alla volta del Biru. Approfittando della guerra civile tra i due fratellastri Atahualpa e Huáscar e utilizzandoli come pedine del proprio disegno strategico, Pizarro soggiogò gli incas, si impossesso dell'ingente tesoro imperiale e spostò la capitale da Cuzco a Villa de los Reyes, ossia l'odierna Lima. Gli anni successivi furono turbolenti, poiché presto gli indigeni si ribellarono al giogo spagnolo guidati da Manco Capac, l'imperatore imposto da Pizarro in sostituzione di Huáscar, da lui precedentemente sostenuto contro Atahualpa (fatto giustiziare da Pizarro), e anche perché tra il condottiero e Diego de Almagro, che lo aveva seguito, nacquero rivalità sfociate in una guerra tra fazioni. La situazione rimase tale anche con i successori dei due, finché nel 1572 il viceré Francisco de Toledo riuscì a catturare e giustiziare l'ultimo imperatore inca Túpac Amaru e a dare una sistemazione definitiva al suo Vicereame. Tra queste due spedizioni, ne furono organizzate di numerose tra il 1522 e il 1526 che portarono all'esplorazione e conquista dell'Honduras, del Guatemala, del Messico meridionale di Tepic e nel '29 nel territorio degli indios chichimecas nel Messico nordoccidentale, che rimase una regione instabile per le ribellioni degli indigeni fino al '600 inoltrato. Lo stesso Cortés organizzò quattro viaggi tra il 1532 e il '39 nello specchio d'acqua che ancora oggi porta il suo nome: Mar de Cortés o Golfo di California. I territori spagnoli del Nuovo Mondo furono organizzati secondo un sistema di tipo feudale. Ai conquistadores la corona spagnola concedeva appezzamenti di terra più o meno grandi (leencomiendas). Il feroce sfruttamento delle popolazioni native provocò un enorme crollo demografico. Furono sterminati così, ad esempio, la maggior parte dei nativi dei caraibi, presto sostituiti dagli schiavi africani, come manodopera a basso costo. I conquistadores si organizzavano in bande armate per conquistare i territori ancora non colonizzati, le loro spedizioni erano chiamate entradas (incursioni), affidate a loro dalla corona e che li rendeva governatori e comandanti generali allo stesso tempo (il cosiddetto adelantado). Il loro potere, però, non era assoluto. Vennero ridotti in schiavitù moltissimi nativi e vennero utilizzate le ricchezze del loro territorio fertile e dal sottosuolo ricchissimo, favorendo di fatto lo sviluppo economico in tutta l'Europa, e non solo in Spagna e Portogallo. I maggiori sostenitori e beneficiari di questa politica di sfruttamento furono infatti il Regno Unito, Spagna, Portogallo Francia e i Paesi Bassi. Sostanzialmente, i colonizzatori crearono un continente dal quale attingere oro, argento (utilizzando la manodopera dei nativi ridotti in schiavitù) e prodotti agricoli da monocolture (installate bruciando le foreste e le coltivazioni presenti prima dell'arrivo di Colombo). Uno dei motivi principali dell'arretratezza era il contrasto allo sviluppo industriale locale operato dalle potenze coloniali. Questa portava le colonie a vendere in Europa materie prime a prezzi bassissimi (ad esempio metalli e fibre tessili), per poi comprare prodotti lavorati (ad esempio armi, tessuti, attrezzature) dagli stessi paesi europei. La gran parte di tali ricchezze si riversavano, quindi, nei paesi produttori di tali beni. Nel 1781 verrà soffocata nel sangue la rivolta dell'ultimo grande capo nativo prima dell'era moderna, Túpac Amaru II. Anche con la fine della schiavitù, nel 1888, la mortalità dei lavoratori era sempre altissima e le proprietà – terriere e non – erano tutte divise tra pochissime famiglie ricche. Di fatto era ancora più conveniente assumere con contratti temporanei tutti i disperati che non potevano trovare cibo che gestirli come schiavi. Successivamente si aggiungerà lo sfruttamento neocoloniale, rivolto anche contro gli stessi ispanici dagli Stati Uniti e dalle multinazionali, e la distruzione di parte della foresta Amazzonica, con la scomparsa di molte tribù di cacciatori-raccoglitori. Sarà solo verso la fine del XX secolo, che gli indios riusciranno, in alcuni paesi come la Bolivia, a ritrovare un certo potere politico e rappresentanza, migliorando le loro condizioni di vita. All'inizio del Cinquecento, mentre gli spagnoli dilagavano nella parte centrale e meridionale del continente, altri europei presero a esplorare le coste atlantiche della sua parte settentrionale. Così fecero l'Inghilterra (con Giovanni Caboto e Sebastiano Caboto) e la Francia (per mezzo di Giovanni da Verrazzano). A quel tempo a nord del Rio Grande si stima che la popolazione indigena non superasse i 12 milioni di persone, riunite in tribù poco numerose e non unite le une dalle altre. I nativi americani, appartenenti alle tribù Algochine e Cherokee, praticavano un'agricoltura rudimentale e si spostavano con le canoe lungo i fiumi. Fra il XVI e il XVII secolo sorsero in Florida, nel New Messico e in California le prime colonie degli spagnoli che provenivano dall'America centrale. Più a nord, i francesi si inoltrarono nel bacino del San Lorenzo dove si stanziarono nelle città di Québec e Montréal. Da qui i francesi penetrarono nell'interno, verso i Grandi Laghi e successivamente verso sud nel bacino del Mississippi, fino a raggiungere la sua foce, dove fondarono la città di La-Nouvelle Orléans (New Orleans). Si ebbero anche guerre con indiani alleati degli inglesi e altri dei francesi. Furono i britannici che richiesero gli scalpi dei nemici uccisi ai nativi, che prima d'allora non aveva questa pratica. Prima di queste guerre, raramente gli indiani erano stati ostili (escludendo il massacro indiano del 1622), e spesso avevano permesso gli insediamenti in cambio di fucili e altri oggetti, non avendo il concetto di proprietà privata. Ben presto però, fra tutti i coloni, prevalsero gli inglesi che giunsero a dominare l'intera fascia costiera, dove un po' alla volta si formarono 13 colonie, il nucleo fondamentale di quelli che un secolo più tardi divennero gli Stati Uniti d'America (1776). I primi tentativi di colonizzare l'America settentrionale non ebbero un grande successo, dato che i nativi americani non si adattavano minimamente ad essere assoggettati come manodopera e il clima non favoriva gli insediamenti. Dopo alcuni tentativi falliti, il primo insediamento inglese stabile fu costruito nell'odierna Virginia e prese il nome di Jamestown. Gli inglesi partirono dalla costa più vicina all'Europa (la East Coast) respingendo progressivamente le popolazioni indigene verso ovest (il cosiddetto Far West). Alcuni politici e intellettuali, come Thomas Jefferson (che paragonò la capacità oratoria del capo Logan/Tah-gah-juta a quella di Demostene e Cicerone), erano interessati alla cultura dei nativi, ma ben presto sorsero i primi conflitti. I nativi più combattivi e più numerosi, come i Sioux e gli Apache, si opposero con le armi, ma gli inglesi e gli americani avrebbero risposto con violenza ancora superiore, spesso ignorando i trattati e massacrando anche donne, vecchi e bambini inermi, come nel massacro di Sand Creek, ad opera di John Chivington, e nel massacro di Wounded Knee. La vittoria più importante dei nativi fu nella battaglia del Little Bighorn, dove Cavallo Pazzo, con l'aiuto di Toro Seduto, annientò il generale George Armstrong Custer e il suo reggimento 7º cavalleria. I capi che resistettero di più furono i celebri Cochise, Toro Seduto e Geronimo; tra gli altri celebri capi di questo periodo si ricordano Piccolo Corvo, Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa, Capo Seattle, Capo Giuseppe, Uomo-Teme-I-Suoi-Cavalli, Pioggia Sulla Faccia; alla fine delle guerre in nordamerica (XIX secolo) i nativi rimasti saranno rinchiusi nelle riserve, e otterranno i pieni diritti civili e politici solo nella seconda metà nel XX secolo. Il generale William Tecumseh Sherman fu uno dei maggiori esecutori delle stragi ai danni degli indiani, assieme a Philip Henry Sheridan, sostenitore dello sterminio esplicito dell'etnia nativa, al punto che gli viene attribuita la frase secondo la quale "l'unico indiano buono è l'indiano morto" (in realtà pronunciata dal deputato James M. Cavanaugh). Anche gli indiani nativi del Canada, Prime nazioni, Inuit, Métis, subirono dei massacri e una consistente riduzione di numero da parte dei coloni britannici e francesi, con episodi collegati all'assimilazione culturale protrattisi fino alla seconda metà del XX secolo. "Guerre indiane" è il nome usato dagli storici statunitensi per descrivere la serie di conflitti prima con i coloni, principalmente europei, e poi con gli Stati Uniti, in opposizione ai popoli nativi del Nordamerica. Alcune delle guerre furono provocate da una serie di paralleli atti legislativi, come l'Atto di rimozione degli indiani (primo significativo atto di pulizia etnica contro i nativi nordamericani), unilateralmente promulgate da una delle parti e potenzialmente considerabili alla stregua di guerra civile. I sioux e gli apache, scacciati anche dall'est, allo stremo della sopportazione, reagirono violentemente attaccando e uccidendo anche civili (come negli "attacchi alla diligenza"), in risposta alle stragi indiscriminate ordinate dai generali statunitensi contro i loro accampamenti, e alla colonizzazione forzata dei loro territori. Allora il presidente Ulysses S. Grant si rivolse a Sheridan, sotto la spinta dei Governatori delle pianure, ed egli ebbe carta bianca. Successivamente diverrà comandante in capo dell'esercito al posto di Sherman. Nella campagna d'inverno del 1868–69 attaccò le tribù dei Cheyenne, dei Kiowa e dei Comanche nelle loro sedi invernali, tagliando loro rifornimenti e bestiame e uccidendo ognuno che avesse resistito, conducendo i sopravvissuti indietro nelle loro riserve. Questa strategia proseguì finché i nativi onorarono i trattati che erano stati costretti a sottoscrivere (tuttavia saranno gli stessi bianchi che non li rispetteranno, in futuro). Il dipartimento di Sheridan portò a compimento anche la Red River War, la Ute War e la Black Hills War, che provocarono la morte del suo fido subordinato Custer. Le incursioni dei nativi proseguirono negli anni settanta del XIX secolo e finirono ai primi degli anni ottanta, allorché Sheridan divenne il comandante generale dell'esercito statunitense. Precedentemente vi erano state già sanguinose rivolte come nelle grandi pianure; il numero di Sioux morti nella grande rivolta del 1862 (detta "guerra di Piccolo Corvo", dal capo che la guidò) rimane non documentato ma dopo la guerra 303 nativi furono accusati di assassinio e rapina dai tribunali statunitensi e successivamente condannati a morte. Molte di queste condanne vennero commutate ma il 26 dicembre 1862 a Mankato, in Minnesota, si andò a consumare quella che ad oggi rimane la più grande esecuzione di massa nella storia degli Stati Uniti, con l'impiccagione di 38 Sioux. Nel 1863 i bianchi catturarono il vecchio capo apache Mangas Coloradas; i soldati lo torturarono, prima di ucciderlo, decapitarlo e mutilarlo inviando il teschio all'est, al museo Smithsonian; quest'atto era considerato intollerabile dagli indiani, non solo per l'efferato omicidio, ma anche perché, nella religione apache, un morto decapitato era costretto a vagare senza mai trovare la pace. Fu allora che gli apache, sotto la guida di Cochise, genero del capo ucciso, cominciarono a uccidere e mutilare i bianchi, prendendo spesso gli scalpi. Questi fatti furono utili alla propaganda contro i nativi, cosicché la stragrande maggioranza del popolo appoggiava e partecipava agli stermini dei "barbari pellerossa", spesso ignorando che le vendette erano state causate dai crimini precedenti perpetrati dei bianchi. Furono anche messe taglie e premi per chi uccideva più indiani. The treachery of Lt. Bascom is still remembered by the Chiricahuas' descendants today—they remember it as "Cut the Tent.". Era raro che un guerriero indiano uccidesse donne e bambini dei nemici in guerra, e quando avveniva era per rappresaglia, mentre spesso i soldati lo facevano per affrettare l'estinzione delle tribù native. Si diffuse un'ampia letteratura, fiorente già dal 1700, poi culminata nel cinema western, in cui gli indiani venivano rappresentati come violenti e malvagi per natura. Nel 1864, durante la guerra di secessione americana, avvenne una delle battaglie indiane maggiormente degne di infamia, denominata non a caso il Massacro di Sand Creek. Una milizia locale, al comando di John Chivington (il quale sosteneva l'eliminazione dei nativi, e che essi andavano «scalpati tutti, grandi e piccoli»), attaccò un villaggio cheyenne ed arapaho situato nel sud-est del Colorado ed uccise e mutilò indistintamente uomini, donne e bambini. I soldati, molti di loro ubriachi, stuprarono le donne e fecero il tiro al bersaglio con i bambini. Gli indiani di Sand Creek avevano avuto la rassicurazione dal governo degli Stati Uniti che avrebbero vissuto tranquillamente nella loro area, ma ciò che causò il massacro fu il crescente odio bianco nei confronti dei nativi. Essi avrebbero voluto trattare la pace, ma i loro ambasciatori, spesso sventolanti la bandiera bianca (tra di essi una bambina di sei anni, durante la battaglia), furono abbattuti a vista, e l'accampamento attaccato a tradimento, mentre i guerrieri maschi giovani erano in gran parte assenti (i 3/4 delle vittime furono vecchi, donne e bambini). Pochi opposero una resistenza, peraltro inutile. I prigionieri vennero tutti fucilati, comprese le donne incinte, e pochi furono i superstiti. Chivington fece prendere gli scalpi di molti nativi, e molti soldati asportarono parti di organi genitali per usarli come ornamenti; Chivington farà esibire gli scalpi in pubblico come trofei a Denver. I morti furono tra 60 e 200 nativi e 24 militari. Vi furono anche alcuni soldati che si rifiutarono di partecipare al massacro. I successivi congressi diffusero un appello pubblico contro altri simili carneficine nei confronti degli indiani, ma esso non fece presa nel popolo. Gli indiani della zona, tra cui alcuni superstiti cheyenne, poco inclini a combattere d'inverno e meno bellicosi degli apache, organizzarono un gruppo di 1600 uomini e reagirono saccheggiando alcuni villaggi e distruggendo alcune piste, nonché uccidendo molti coloni e soldati. Nel 1875 l'ultima vera guerra Sioux scoppiò quando la corsa all'oro nel Dakota arrivò alle Black Hills (Colline Nere), territorio sacro per i nativi americani. L'esercito statunitense non precluse ai minatori l'accesso alle zone di caccia Sioux, ed inoltre quando venne chiamato ad attaccare delle bande indiane che stavano cacciando nella prateria, come loro concesso dai precedenti trattati, rispose immediatamente. Più tardi, nel 1890, nella riserva settentrionale dei Lakota, a Wounded Knee nel Dakota del Sud, il rituale della "danza degli spiriti" portò l'esercito a tentare di sottomettere i Lakota. Durante l'assalto vennero uccisi più di 300 nativi americani, per la maggior parte anziani, donne e bambini. Alla notizia dell'assassinio di Toro Seduto, che ormai aveva deposto le armi e lavorava in un circo, la tribù di Miniconjou guidata da Big Foot (Piede Grosso) partì dall'accampamento sul torrente Cherry per recarsi a Pine Ridge, sperando nella protezione di Nuvola Rossa. Il 28 dicembre furono intercettati da quattro squadroni di cavalleria del reggimento agli ordini da Samuel Whitside, che aveva l'ordine di condurli in un accampamento di cavalleria sul Wounded Knee. 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, accampati e circondati da due squadroni di cavalleria e sotto tiro di due mitragliatrici. Il comando delle operazioni fu preso dal colonnello James Forsyth e l'indomani gli uomini di Piede Grosso, ammalato gravemente a causa di una polmonite, furono disarmati. Coyote Nero, un giovane Miniconjou sordo, tardò a deporre la sua carabina Winchester, fu circondato dai soldati e, mentre deponeva l'arma, partì un colpo a cui seguì un massacro indiscriminato. Il campo venne falciato dalle mitragliatrici e i morti accertati furono 153. Secondo una stima successiva, dei 350 Miniconjou presenti, ne morirono quasi 300. Venticinque soldati furono uccisi, alcuni probabilmente vittime accidentali dei loro compagni. Dopo aver messo in salvo i soldati feriti, un distaccamento tornò sul campo dove furono raccolti 51 indiani ancora vivi, quattro uomini e 47 tra donne e bambini, presi prigionieri. Tuttavia, già molto prima di questo evento erano già state eliminate le basi per la sussistenza sociale delle tribù delle Grandi Pianure, con lo sterminio quasi completo dei bisonti negli anni 80, dovuto ad una caccia indiscriminata, spesso effettuata proprio per colpire i nativi, che si nutrivano dei bisonti cacciati, ma in quantità minori tali da non estinguerli. Le guerre, che spaziarono dalla colonizzazione europea dell'America del XVIII secolo fino al massacro di Wounded Knee e alla chiusura delle frontiere USA nel 1890, risultarono complessivamente nella conquista, nella decimazione, nell'assimilazione delle nazioni indiane, e nella deportazione di svariate migliaia di persone nelle riserve indiane. Gli eventi trattati costituiscono una delle basi della discriminazione razziale su base etnica, e del problema del razzismo che affliggerà gli USA fin a tutto il XX secolo. Basandosi sulle stime di un censimento del 1894, lo studioso Russel Thornton ha estrapolato alcuni dati essenziali: in particolare, dal 1775 al 1890 almeno 45.000 nativi americani e 19.000 bianchi avrebbero perso la vita. La stima include anche donne, vecchi e bambini, poiché i non-combattenti spesso perivano durante gli scontri di frontiera, e la violenza dei combattimenti non permetteva di risparmiare, né da una parte né dall'altra, le vite dei civili. Calo demografico forzato, emarginazione, segregazione razziale continuarono negli Stati Uniti e nel Canada nella prima e nella seconda metà del XX secolo. Progressivamente, a partire dagli anni '60-'70 consapevolezza civile, pacifismo, un crescente movimento originatosi dalle controculture beat e poi hippy, le lotte per i diritti civili, e soprattutto i movimenti a favore dei cittadini afroamericani, etnia numericamente rilevante in seguito allo schiavismo, mutuarono una visione sempre più condivisa da buona parte della popolazione a favore dei pari diritti di ogni gruppo etnico. I nativi nordamericani, ormai numericamente esigui, contribuirono alla presa di coscienza con azioni di protesta e denuncia degli abusi. La cultura mainstream testimoniò questi cambiamenti nella musica, nella letteratura, nel cinema, ad esempio traslando dal film western classico sullo stile di sentieri selvaggi alwestern revisionista sullo stile di soldato blu, uno dei primi western a schierarsi dalla parte degli Indiani d'America non più descritti come selvaggi sanguinari destinati alla sottomissione o allo sterminio. In Canada emersero i fatti relativi alle scuole residenziali indiane, celebrità e storici nordamericani sposarono la causa dei nativi con azioni di rilevanza pubblica. Una parte degli indiani verrà decimata ancora con la sterilizzazione, spesso coatta, attuata con l'inganno o le minacce, che coinvolgerà 85.000 uomini e donne nativi. La maggior parte degli indiani sopravvissuti visse poi nelle riserve indiane (inizialmente veri campi di concentramento, poi ghetti e luoghi di residenza), dove poterono mantenere i loro costumi, anche se molti si trasferirono nelle città, ma ben pochi ricoprirono ruoli importanti, perlomeno fino a tempi moderni. Theodore Roosevelt diede un simbolico riconoscimento a Geronimo, permettendo all'anziano capo di cavalcare in abiti tribali durante la parata inaugurale del suo mandato presidenziale (1905). Nel 1924 i nativi furono autorizzati a integrarsi e venne loro concesso il diritto di voto, anche se furono soggetti ancora alla segregazione razziale che colpì anche i neri e tutti i non bianchi fino alla firma del Civil Rights Act del 1964 da parte del Presidente Lyndon Johnson, in cui furono rimosse le leggi razziste e anticostituzionali dei singoli stati. Si sono anche avute numerose proteste dalla metà del XX secolo in poi, da parte dei nativi e dei loro simpatizzanti, per il mancato rispetto dei trattati e delle loro richieste politiche e sociali, come l'occupazione di Wounded Knee nel 1973 e la simbolica marcia su Washington. Sempre nel 1973, l'attore Marlon Brando, sostenitore della causa dei nativi, rifiutò di ritirare il premio Oscar ricevuto per la sua interpretazione de Il padrino in segno di protesta, mandando al suo posto una giovane attivista di origine apache, Sacheen-Littlefeather ("Piccola Piuma"), che lesse un comunicato dell'attore. Nel 1980 gli Oglala/Sioux ottennero 100 milioni di dollari per la perdita del territorio delle Black Hills ma i risarcimenti furono rari; talvolta alcuni gruppi di nativi ebbero l'uso di terre, un tempo a loro appartenute, in maniera esclusiva e la licenza per aprire i cosiddetti "casinò indiani". Nel 2007 alcuni Lakota/Sioux, appartenenti ad una frangia minoritaria dell'American Indian Movement e guidati da Russell Means, hanno chiesto la secessione della loro "nazione", comprendente cinque stati federati, dagli Stati Uniti. Tra i motivi della protesta anche il fatto che nella loro comunità vi sarebbero condizioni di vita nettamente inferiori rispetto a bianchi, ispanici e anche molti afroamericani: vi è infatti un'alta percentuale di suicidi tra gli adolescenti, di 150 volte superiore a quella statunitense, una mortalità infantile cinque volte più alta e una disoccupazione che tocca cifre altissime; sono inoltre molto diffusi la povertà, l'alcolismo e la tossicodipendenza, nonostante i programmi governativi volti - almeno formalmente - a tutelare i nativi varati nel corso degli anni. In seguito a questa azione politica e dichiaratamente nonviolenta, è stata proclamata la nascita di uno Stato non riconosciuto, la Repubblica Lakota. La segregazione razziale negli Stati Uniti riguardò sia nativi sia afroamericani che altre minoranze per lungo tempo, e anche molti che si pronunciavano contro (come Teddy Roosevelt) ne erano sostenitori in pratica; furono emanate leggi razziali molto severe in alcuni stati del sud, che precorsero quelle della Germania nazista, escludendo i meticci anche di quarta o quinta generazione (proprio come accadeva ai mulatti) dalla comunità bianca, previa analisi genealogica: « Ad accomunare le due situazioni è in ogni caso la violenza dell'ideologia razzista. Theodore Roosevelt può tranquillamente essere accostato a Hitler. Al di là delle singole personalità conviene non perdere di vista il quadro generale: "Gli sforzi per preservare la purezza della razza nel Sud degli Stati Uniti anticipavano alcuni aspetti della persecuzione scatenata dal regime nazista contro gli ebrei negli anni trenta del Novecento". Se poi si tiene presente la regola per cui nel Sud degli Stati Uniti bastava una sola goccia di sangue impuro per essere esclusi dalla comunità bianca, una conclusione si impone: "La definizione nazista di un ebreo non fu mai così rigida come la norma definita the one drop rule, prevalente nella classificazione dei neri nelle leggi sulla purezza della razza nel Sud degli Stati Uniti".» Quanti fossero i nativi prima della colonizzazione europea delle Americhe è difficile da stabilire: le cifre dell'entità dello sterminio sono ancora al centro di un ampio dibattito storiografico. Secondo le ultime ricostruzioni si tratterebbe del 90% della popolazione indigena morta in meno di un secolo. Secondo quanto afferma lo studioso David Carrasco: «Gli storici sono stati in grado di stimare con una certa plausibilità che nel 1500 circa 80 milioni di abitanti occupavano il Nuovo Mondo. Nel 1550 solo 10 milioni di indigeni sopravvivevano. In Messico vi erano circa 25 milioni di persone nel 1500. Nel 1600 solo un milione di indigeni mesoamericani erano ancora vivi» Le cause di una tragedia di così ampie dimensioni sono molteplici: gli stermini perpetrati dagli invasori, le guerre intestine sovente aizzate da questi ultimi per rendere più facile la conquista con la politica del divide et impera, le nuove malattie, i lavori forzati in stato di semi-schiavitù e non ultimo il senso di smarrimento e di perdita di senso dovuto all'annientamento della loro fede e delle loro tradizioni che portarono talvolta a suicidi di massa. La colonizzazione del Nord e del Sud America presenta delle differenze: i conquistadores spagnoli erano prevalentemente degli avventurieri o degli sbandati che non avevano trovato fortuna in patria. Alcuni praticarono lo stupro sistematico ma i più si unirono con donne indigene di rango superiore e diedero origine alla numerosa popolazione di meticci (mestizos) del Centro e Sud America. Al contrario, gli inglesi arrivavano nel Nuovo Mondo già organizzati in nuclei familiari e questo non favorì l'integrazione della popolazione. Una tattica comune a tutti gli invasori fu la denigrazione dell'avversario: i nativi furono descritti come esseri bestiali, dediti alle più turpi attività, seguaci del demonio e privi di qualsiasi elemento culturale. Queste idee trovarono terreno fertile negli uomini dell'epoca e furono un motore formidabile di motivazione per i conquistadores e le potenze coloniali. Specialmente i sacrifici umani provocavano un profondo disgusto che giustificava ai loro occhi lo sterminio di quelle civiltà. D'altra parte si sottovalutavano le peculiarità culturali e materiali delle civiltà e dei popoli incontrati. Alcuni studiosi ritengono che ci furono numerosi tentativi di occultamento, quasi fino a giorni nostri, di gran parte dei documenti prodotti dai nativi e in alcuni casi persino delle rovine archeologiche. Fu proprio questo, ad esempio, il destino del resoconto del cronista indigeno quechua Guamán Poma de Ayala. Nella sua Primer nueva corónica y buen gobierno, lettera di protesta indirizzata al re Filippo III di Spagna, ripercorre la storia del suo popolo e si lamenta per il destino attuale. Guamán Poma si ritiene testimone oculare dell'ultimo pachacuti, la distruzione che avviene alla fine di ogni ciclo cosmico secondo la mitologia quechua. Il cronista descrive lo stato di caos e le atrocità subite dal suo popolo e sollecita il re ad intervenire per ristabilire una situazione di buen gobierno. Per centinaia di anni di questo straordinario libro non si è saputo nulla, finché l'opera non è stata ritrovata in un archivio a Copenaghen nel XX secolo. Sorte analoga dovette affrontare il cosiddetto Codice Fiorentino, cioè l'ultima redazione, l'unica bilingue (spagnolo e nahuatl) della Historia universal de las cosas de Nueva España, scritta da fra Bernardino de Sahagún. La tattica dell'occultamento e della sistematica umiliazione si è rivelata relativamente semplice con le culture del Nord America perché si presentavano essenzialmente come popolazioni con tradizioni orali e con modi di vita che prevedevano spostamenti pendolari in seguito ai movimenti delle mandrie da cacciare.

Il genocidio dei nativi americani e degli africani: 1607-1890. Tratto da “Il libro nero degli Stati Uniti d’America”. Stima dei civili morti: 90 milioni!!! Tra i genocidi compiuti dagli Usa prima della Seconda guerra mondiale vogliamo citare solo i due che ci sembrano più significativi: lo sterminio dei nativi americani (gli “indiani”) e il massacro del popolo filippino. Tralasciamo, invece, la Guerra di secessione anche se, a detta degli storici, è stata la guerra civile più sanguinosa della storia umana. Sarà un caso? Gli inglesi arrivarono a Jamestown nel 1607. Dal 1610 iniziò lo sterminio dei nativi americani che proseguì fino al 1890, anno in cui il settantesimo cavalleggeri dell’esercito nordamericano massacrò la popolazione Lakota, nel Sud Dakota. Assetati di oro, argento c pellicce, i bellicosi cow-boys a cavallo, armati di fucili, ebbero, gioco facile contro, popolazioni pacifiche che erano armate solo di archi e frecce, e non conoscevano la polvere da sparo, il denaro e la proprietà privata. Voglio riportare qui un brano, che descrive molto bene il lungo calvario attraversato dai nativi dopo essere venuti in contatto con i conquistatori europei: “Dopo lo storico sbarco del 1492, per anni l'Europa, lacerata da sanguinose guerre di religione, non si mostrò molto interessata al nuovo continente. Successivamente la bramosia di possesso, il mito dell'oro, l'interes­se verso nuove terre, la passione per le pregiate pellicce, l'imperativo missionario di "mettere il nuovo continente sotto la protezione di Dio” e il fascino dell'avventura, rappresentarono un micidiale cocktail distruttivo. Ben presto l'insieme di questi elementi si tradusse in atrocità e oscenità di ogni tipo. Una miscela esplosiva che rese via via sempre più manifeste le peggiori disposizioni dell'uomo. Quel misto di avventura e ingordigia funse da propulsore e spinse verso occidente i grandi velieri. Il destino dei nativi americani e delle loro antiche culture (e probabilmente del mondo intero) era segnato: la presunta "civiltà” europea, boriosa e dispotica, ne aveva decretato l'epilogo”. Ma com'è potuto accadere? E cos’è successo realmente? Da dove è scaturita tanta ferocia? Di chi sono le maggiori responsabilità? Si poteva evitare lo sterminio? Ridurre i patimenti? La gran massa di film western descrive la realtà dei fatti oppure fa mistifica? Si può pensare a una verità storica? Se sì, qual è? Tuffiamoci in questa impresa, tentiamo insieme un'analisi...E’ solo agli inizi del 1600 che si colgono i primi segnali di una vera e propria aggressione. Il mercato delle pellicce che giungevano dal continente appena “scoperto” alimentò ben presto, e a dismisura, le vanità degli europei, e fece aumentare così vertiginosamente la richiesta di queste pregiate mercanzie. I furbi avventurieri sbarcati nel Nuovo mondo, cominciarono così a barattare con gli “indigeni del posto” oggetti di scarsissimo valore con pregiate pelli di lontra, e i propri vestiti rabberciati destinati alla pattumiera con le stupende pelli di castoro faticosamente procurate dagli “indiani”. L'America diventa il grande magazzino di pellicce per l’Europa. Agli indiani il compito di riempirlo. Gli europei inoltre fecero conoscere ben presto ai “selvaggi” l'inebriante acquavite - che usavano per stordirli prima delle “trattative” – nonché altre “magiche cose” con le quali cercavano di ingannare gli ingenui abitanti del luogo. I furbi mercanti del vecchio continente fecero di questi espedienti preziosi alleati. La trappola illusoria del vantaggioso baratto disorientò ben presto alcuni fra gli “indiani” più scriteriati. Diverse comunità, che mai avrebbero pensato di dover affrontare, una situazione simile, si trovarono impreparate nel dover lottare contro questo mistificatorio nemico. Il nuovo nemico “rapiva la mente” degli stolti e giungeva a volte sino ad essere più forte del sacro rispetto per la veneratissima Madre di tutte le cose: Madre Natura. Un sacro rispetto, punto focale della cultura indiana, che ogni indiano aveva ben radicato dentro di se, almeno sino a quell’infausto incontro con l’uomo bianco. Madre Natura, prodiga di frutti benedetti, Madre natura, amorosa dispensatrice di ogni bene, Madre Natura, madre di tutti gli animali, anche di quelli da cacciare e uccidere, per reale bisogno, in “confronti” leali e senza inutili sprechi. L’ingannevole rete tessuta dai bianchi arrivò a disorientare, anche se solo temporaneamente, l'ignaro pellerossa che giunse ad affermare: “Il castoro fa le cose per bene: sa fare le pentole, le accette, le lesine, i coltelli ...”. Questo nuovo e ingenuo, slogan coniato dai nativi rende oggi bene l'idea dei “vantaggi” che inizialmente derivarono dal commercio delle pellicce; vantaggi fatali però, che decretarono la condanna a morte di tutte le culture locali. Gli indiani non potevano immaginare che, adottando il pensiero degli europei, avrebbero messo in moto l'ingranaggio, destinato in breve tempo a stritolarli senza alcuna pietà. Gli uroni, gli irochesi e gli indiani delle coste nordoccidentali cercarono di affrontare il disorientamento legato a questa nuova “mania della negoziazione” e dettarono delle regole; ammisero il commercio con i bianchi (purché sobrio e misurato) e l’arricchimento di alcuni componenti della collettività. Il profitto derivante dagli interscambi, però, non doveva generare disuguaglianze, ne marcare differenze di sorta con gli altri membri della comunità; rimaneva perciò decisa mente in vigore il principio della redistribuzione, che anzi doveva essere ulteriormente, rafforzato e sviluppato con nuovi criteri. Ma l’europeo, che primeggiava in astuzia, impose senza indugio l’introduzione di nuovi sistemi commerciali. Le virtuose consuetudini “socio-economiche”, ancestrali per le comunità indiane, finirono così per essere gradualmente distrutte. L’introduzione successiva di nuove e mirate mercanzie snaturò totalmente il modo di vivere indiano e ne segnò definitivamente la caduta. La caccia, il commercio e la distorsione culturale mutarono radicalmente il sistema di vita e l’alimentazione delle tribù che giunsero così a dipendere completamente dagli scaltri europei. Allo stesso modo dell'arricchimento di uno ai danni dell'altro e delle disuguaglianze fra uomini, anche la proprietà fu un principio che sfuggi completamente al nativo, che non riuscì mai a comprendere come si potesse pretendere di acquistare cose che appartenevano a tutti come alberi, fiumi, prati, spiagge o laghi... ma il problema non infastidiva per nulla il bianco, poiché quasi mai si parlava di “comprare”: per lui le nuove terre, erano abbandonate e non sfruttate, e la Bibbia stessa affermava che Dio li aveva guidati in quei luoghi. L’illusione del nuovo vantaggioso rapporto con il bianco però cedette, presto il passo ai reali obiettivi dell’invasore, i nuovi arrivati palesarono le loro vere intenzioni e iniziarono così i maltrattamenti, i “selvaggi” furono trattati come schiavi, si abusò delle loro donne, le trattative non furono più rispettate. Così i poveri malcapitati, terrorizzati e increduli, per sottrarsi alla presenza dei bianchi, si ritirarono nelle foreste interne. Alla iniziale generosità dei nativi, dunque, i bianchi, popolo eletto di Dio, cui era stata affidata “la divina missione”, risposero con avidità e maltrattamenti d'ogni tipo, e non si fecero alcuno scrupolo poiché gli indigeni erano considerati “crudeli, selvaggi, barbari e figli di Satana”. (…) La decimazione delle popolazioni native non avvenne solo con armi più avanzate, ma anche con l’esportazioni delle malattie occidentali per le quali i bianchi conquistatori erano vaccinati. Per un certo periodo l’esercito americano fece addirittura strage di bisonti delle grandi pianure per togliere agli indiani la loro principale fonte di sostentamento e indurli alla resa e alla fame. (…) Il genocidio degli indiani venne accompagnato dalla tratta degli schiavi che venivano costretti a lavorare nelle terre dove prima vivevano i nativi. Una macabra geografia dello sterminio e della schiavitù sostenne la nascente industria occidentale. Dai porti dell’Inghilterra partivano navi che strappavano e sequestravano i neri dall’Africa per ridurli in schiavitù nelle piantagioni americane. Da lì le navi, piene di cotone, salpavano di nuovo l’oceano per rifornire la madrepatria della preziosa materia prima, con la quale si producevano manufatti tessili a buon mercato che, esportati in Estremo Oriente, riducevano il Bengala, la regione più ricca e sviluppata dell’India, alla fame più nera, all’attuale Bangladesh. Nel 1860 si contavano negli Stati Uniti ancora 4 milioni di schiavi. Gli schiavi non morivano solo in schiavitù, ma anche di schiavitù. 2 milioni morirono di stenti o di maltrattamenti, durante il loro trasferimento o durante la loro prigionia. (…) Tratto da: "Il libro nero degli Stati Uniti d'America".

A chi giova la tesi della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico? Scrive Costanzo Preve il 2 settembre 2011.

1. Faccio riferimento a due pagine del Corriere della Sera del 31 agosto e del 1° settembre 2011, con interviste di Stefano Montefiori a Pierre Nora e Claude Lanzmann, e commento dell’intellettuale di regime Pierluigi Battista. Essi si indignano per il fatto che sui manuali francesi di storia la parola “Shoah” sia stata sostituita da termini come genocidio, sterminio ed annientamento, perché temono che dietro questa vaga terminologia ci sia una strategia non certo di “negazionismo”, ma anche soltanto di relativizzazione e di “banalizzazione” (termine usato in Francia) della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico. Il lettore intenda bene. Qui non si ha a che fare con una giusta, legittima e sacrosanta reazione alle tesi “negazioniste”. Qui si intende affermare la tesi mistico-religiosa della cosiddetta Unicità e Imparagonabilità del genocidio ebraico. Si è dunque all’interno di quella costellazione ideologica che a suo tempo Domenico Losurdo definì “giudeocentrismo”, che in quanto tale non ha nulla a che fare con la giudeofilia né con la giudeofobia (termine da preferire a quello di antisemitismo, visto che anche gli arabi musulmani sono semiti). A chi giova questa follia? Non certamente alla memoria storica per le vittime innocenti. Certamente non alla prevenzione di crimini di questo tipo, prevenzione che sarebbe molto più facilitata dalla comparabilità e dall’analogia storica piuttosto che da una mistica unicità. E allora a chi giova?

2. Leggo che la parola “Shoah” in ebraico significa catastrofe, ed indica il genocidio degli ebrei ad opera dei nazisti. E’ preferito al termine “Olocausto” per le implicazioni religiose di quest’ultima parola. Nella lingua armena il termine corrispondente a Shoah, olocausto e genocidio è connotato come Metz Yeghern (Grande Male). Si può visitare il memoriale a Erevan, così come lo Yad Vashem in Israele. Nessun armeno si inquieterà se per caso il termine di genocidio non viene connotato come Metz Yeghern. Ciò che conta è che il genocidio armeno sia riconosciuto come tale, ma gli armeni non pretendono l’Unicità. Perché gli ebrei la pretendono?

3. Una risposta cerca di darla la giornalista ebrea israeliana Amira Hass (Cfr. “Internazionale” n. 582, marzo 2005). Scrive la Hass: “Non ho guardato alla televisione la cerimonia per l’inaugurazione del nuovo museo dell’Olocausto a Gerusalemme. Per quanto potesse essere commovente ascoltare testimonianze così simili a quelle dei miei genitori, ho preferito vedere un film. Non volevo assistere al modo in cui lo stato di Israele ha sfruttato la storia della mia famiglia e del mio popolo per una grande campagna di pubbliche relazioni … la morte di sei milioni di ebrei è la più grande risorsa diplomatica di Israele”. Non si poteva dire meglio. Esattamente come Amira Hass, quando cominciano alla televisione le cerimonie sulla Memoria cambio immediatamente canale, e spero che questa onesta ammissione non venga presa per una manifestazione di antisemitismo latente, inconscio, eccetera. Riconosco totalmente il “fatto” del genocidio ebraico. Riconosco le tesi storiografiche sulla distruzione dell’ebraismo europeo. Come molti della mia generazione, mi sono formato moralmente su “Se questo è un uomo” di Primo Levi. E’ quasi umiliante dover ribadire queste ovvietà. Non sopporto, e ho il diritto di non sopportarlo, la cerimonializzazione religiosa della legittimazione del sionismo fatta passare per rispetto della memoria storica. E tuttavia, l’impostazione di Amira Hass non mi convince del tutto. Possibile che tutto questo ambaradan sia rivolto solo a legittimare la costruzione di numerose colonie sioniste in Cisgiordania, la cacciata di contadini palestinesi e la distruzione dei loro ulivi? Non si spara con un cannone contro una mosca. Ci deve essere dell’altro. Vediamo cosa, ma prima apriamo due parentesi.

4. A fine Ottocento, la corrente filosofica chiamata “storicismo” stabilì la differenza fra discipline dette nomotetiche e discipline dette idiografiche. Le discipline nomotetiche (fisica, chimica, biologia, eccetera) stabiliscono “leggi” matematizzabili e sperimentabili, e quindi falsificabili, nei rapporti tra fenomeni. Le discipline idiografiche (storia, storiografia, eccetera) indagano il particolare storico irripetibile (in greco idion), per cui ogni avvenimento è unico e fa storia a sé. In questa sede non ci interessa discutere se e in che misura gli storicisti avessero ragione o torto contro i loro avversari positivisti e marxisti positivisti. Qui interessa solo ricordare che ogni fenomeno storico per principio è unico, e quindi idion. Anche il genocidio ebraico, come del resto quello armeno, è quindi unico, in quanto avvenuto con modalità uniche (ad esempio il carattere industriale delle deportazioni e l’accompagnamento ideologico razzista, eccetera). Ma non è questa l’unicità storiografica cui vanno in cerca Nora e Lanzmann, ed il loro schiavetto ideologico Battista. Per costoro Unico significa Superiore a qualunque altro, Imparagonabile, così come per i religiosi Mosè, Gesù e Maometto sono unici e imparagonabili. A chi giova?

5. A suo tempo, mi sono occupato analiticamente del genocidio degli armeni, che ho studiato con cura (Cfr. “Eurasia”, 3, 2009). Non ho qui lo spazio per motivarlo, ma assicuro il lettore che si tratta di un genocidio al 100%, qualunque siano le categorie e i parametri concettuali usati per definire il fenomeno. Il testo principale di riferimento è quello di Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno, Guerini e Associati, 2003. Anche molti storici turchi concordano con la tesi del genocidio, fino a poco tempo fa ancora punita per legge in Turchia. Ebbene, c’è anche un testo di un certo Guenter Lewy (Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso) che con mille artifici sofistici estratti dalla storiografia turca (lingua che peraltro Lewy non conosce, come non conosce l’armeno – immaginiamoci uno storico americanista che non legge l’inglese!) nega in tutti i modi che ci sia stato un genocidio armeno, e parla solo di massacro o di serie di massacri. Che cosa succederebbe se uno storico europeo negasse il genocidio ebraico, e concedesse soltanto che ci sono stati una serie di massacri? Si griderebbe all’antisemitismo e si farebbe anche appello a leggi contro il negazionismo. Invece questo signore può scrivere quello che vuole ed essere pubblicato da Einaudi, semplicemente perché gli armeni non sono protetti dalla diffamazione. Si può andare avanti così? A mio avviso no. Vittime possono diventare a lungo termine gli ebrei stessi. La palese adozione di due pesi e due misure non può che ingenerare fastidio, irritazione, ed infine rivolta contro il Politicamente Corretto. Oggi il Politicamente Corretto dispone di un vantaggio basato sul silenziamento conformistico e totalitario di tutte le voci dissenzienti, ma questo non potrà durare per sempre. Ma arriviamo al cuore del problema.

6. Ho ricordato poco sopra che secondo ebrei onesti ed illuminati come Amira Hass o l’americano Norman Finkelstein, il genocidio ebraico è ideologicamente utilizzato per legittimare non solo il sionismo in sé (fu anche una tesi di Roger Garaudy, ingiustamente accusato di antisemitismo), ma anche la continua violazione del diritto internazionale (insediamenti in Cisgiordania, eccetera). Questo mi sembra ovvio, e può essere negato soltanto dal cinismo, dalla malafede e dalla disinformazione. E tuttavia, non sta ancora qui il cuore della tesi religiosa della Unicità Imparagonabile. Ci può aiutare il corsivista del Corriere della Sera Pierluigi Battista. Non dimentichiamoci che il Corriere della Sera, in piena continuità tra Ferruccio De Bortoli e Paolo Mieli, è stato all’origine della santificazione dell’anti-islamismo di Oriana Fallaci, fenomeno simile (anche se ovviamente non eguale, idion) alle campagne anti-ebraiche di Giovanni Preziosi degli anni Trenta in cui si scrisse che, anche ammesso che i Protocolli dei Savi di Sion fossero un falso commissionato dalla polizia zarista, questo non conta nulla, perché il contenuto resta vero! Scrive Battista, nel contesto della sua approvazione dello sdegno di Nora e Lanzmann: “Il rimpicciolimento simbolico di Auschwitz è l’esito doloroso e paradossale di un’Europa che dimentica facilmente l’orrore da cui è venuta”. Riflettiamo su questa frase assiro-babilonese, basata sulla concezione assiro-babilonese (e nazista) di responsabilità collettiva, lontanissima dalla concezione greca di responsabilità individuale (ogni persona ha infatti un’anima propria, psychè). Di quale Europa va cianciando Battista? Personalmente ho 68 anni, essendo nato nel 1943, e non mi considero assolutamente responsabile per l’orrore hitleriano e per altri orrori consimili. Io non vengo da nessun “orrore”, per usare il linguaggio ieratico di Battista. Ognuno è responsabile solo per le proprie azioni. Gli ultimi nazisti vivi sono novantenni. Solo chi è condannato all’ergastolo ha scritto: “Fine Pena, Mai”. Quando finirà l’espiazione per l’Europa? Settant’anni non sono sufficienti? I mongoli a Baghdad ottocento anni fa hanno passato a fil di spada mezzo milione di persone. Forse che sbarcando a Ulan Bator devo ricordarlo al doganiere facendogli abbassare il capo? Lo scopo di Battista è quello di inchiodare per sempre l’Europa al suo presunto “peccato originale”, in modo che venga punita in saecula saeculorum con le basi nucleari americane e con la perdita di ogni indipendenza politica e culturale. Fatto che con la memoria storica propriamente detta non ha nessun rapporto. Torino, 2 settembre 2011.

Costanzo Preve è un filosofo e saggista italiano, frequente contributore alla rivista “Eurasia”.

Il giorno della memoria non c’è per gli altri genocidi. Dagli armeni ai gulag, dai cambogiani a Rwanda e Srebrenica. Quanti massacri subiti dai cristiani che nessuno ricorda, scrive il 27 gennaio 2016 Marco Castoro. Il giorno della memoria è sacro. Serve a ricordare gli orrori dell’Olocausto e dei campi di concentramento. Un martirio di 6 milioni di ebrei. La pagina più brutta del Novecento. Una tragedia che non deve essere mai dimenticata. Ma quello subito dagli ebrei non è l’unico genocidio compiuto a danno di innocenti. Uomini, donne e bambini colpevoli solo di appartenere a una razza, a un’etnia o di essere dissidenti. Di Hitler nella storia ce ne sono stati diversi. Proviamo a dare un’occhiata solo all’ultimo secolo, tralasciando gli eccidi compiuti dagli Antichi Romani, dagli Egiziani, dagli Ottomani, dai grandi imperatori, dai barbari e dai conquistadores come Cortés nei confronti di indigeni, aztechi e indios in primis. Il secolo comincia con il genocidio del popolo armeno di fede cristiana. Deportazioni in massa, oltre un milione e mezzo di morti uccisi dai turchi, seppure Erdogan non abbia mai ammesso il massacro. Anzi ogni qualvolta che uno Stato ha provato a ricordarlo si è rischiato l’incidente diplomatico. I russi eliminati durante la dittatura comunista di Stalin sono stati 20 milioni. Il genocidio dei gulag. I cristiani hanno pagato a caro prezzo nel mondo la scelta di abbracciare la fede del Vangelo. Anche in Cina a inizio Novecento il tributo di vittime fu elevato durante la ribellione dei Boxer. Ma i cristiani uccisi in Senegal furono ancora di più. Quasi 2 milioni a causa del blocco imposto dal governo di Khartum all’arrivo degli aiuti umanitari destinati al Sudan meridionale. Sono stati i regimi dittatoriali a compiere stragi di interi popoli. Hitler e Stalin hanno avuto diversi emulatori. Tra purghe e lavori forzati si stimano almeno 48 milioni di cinesi caduti sotto il regime di Mao. Un milione i comunisti indonesiani eliminati sul finire a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70. Tra il 1975 e il 1979 il regime di terrore voluto dai Khmer rossi di Pol Pot fu responsabile di un milione di cambogiani morti. L’America Latina ha un’alta percentuale di morti anche con i regimi del Novecento, non solo sotto i colpi dei conquistadores. Un milione i desaparecidos delle dittature militari a fine XX secolo. Negli ultimi anni non potremo mai scordare quanto accaduto in Rwanda, Burundi, Iraq e a Srebrenica. Guerre tra tribù indigene e i vergognosi eccidi criminali compiuti sugli iracheni da Saddam Hussein e dal generale serbo Ratko Mladic durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina nei confronti dei musulmani bosniaci. Una data, l’11 luglio del 1995, che in pochi ricordano perché non c’è nessun giorno della memoria per questo eccidio. Come per tutti quelli che hanno visto il martirio dei cristiani.

GENOCIDIO DEL POPOLO MERIDIONALE ITALIANO. No al negazionismo per il genocidio del popolo meridionale, scrive Pietro su "Medioevo sociale" il 19 ottobre 2013. Se si fa una legge sul negazionismo (che io non condivido ma anzi avverso) chiedo che dovrà comprendere la tutela di porrajmos cioè dell'olocausto dei rom-sinti che non dovrà essere negata o sottovalutata. Non è accettabile la dottrina della cosiddetta unicità del Male Assoluto che riguarderebbe soltanto la Shoah. Il Male assoluto si è riversato sugli ebrei ma anche sui rom e su tantissimi altre persone. Inoltre chiedo che venga incluso l'eccidio che l'Esercito Italiano fece nel Sud Italia dal 1861. Perirono un milione di meridionali che, rapportato alla popolazione di oggi, è come se uccidessero tre milioni di persone. Nel grande genocidio della popolazione meridionale spicca il massacro di PonteLandolfo dove i Sabaudi uccisero 400 persone per rappresaglia. 40 bersaglieri erano stati uccisi in battaglia. Uno ogni dieci come alle Fosse Ardeatine. Hitler non si è inventato niente. Il lager di Fenestrelle con la scritta: Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce" che non è altro che l'anticipazione della scritta di Auschwitz: Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi). A fenestrelle molti meridionali vi lasciarono la vita dopo inenarrabili sofferenze dissolti nella calce viva. Il nazismo è nato in Piemonte nella Casa Savoia...

11 maggio 1860: inizia lo sterminio del Popolo Duosiciliano. Non erano mille, erano 702, scrivono Salvatore Brosal e Duccio Mallamaci su "Onda Sud" l'11 maggio 2015. Violenti malfamati, protetti militarmente dagli Inglesi e finanziati dalla massoneria mondiale ebraica, che ancora oggi finanzia terroristi, tagliatori di teste e cannibali dell'Isis e di Al Qaeda! Quegli avventurieri di allora avevano a capo un Criminale di nome Giuseppe Garibaldi, ladro di cavalli, a cui avevano mozzato le orecchie in Argentina perché beccato in flagranza di reato. Un'orda barbarica, dunque, scese dal Piemonte. "Parlavano una strana lingua e bestemmiavano in continuazione! Donne stuprate, uomini e bambini uccisi e trucidati! Interi paesi bruciati e rasi al suolo! Ogni ricchezza venne saccheggiata..." i crimini commessi da detta legione straniera dei massonici ebraici rothschildiani avventurieri provenienti dal Piemonte, dalla Lombardia, ma anche dall'Inghilterra, Francia, Ungheria, Polonia, Stati Uniti, Canada e perfino Turchia, contro il popolo meridionale, sono INENARRABILI: e furono talmente EFFERATI che ancora oggi vengono taciuti. Altro che fratelli d'Italia!... Fisicamente e moralmente non siamo nemmeno parenti alla lontana con simili canaglie. Quante menzogne, quanti massacri... e quanto sangue e quante lacrime hanno versato i nostri padri, le nostre madri ed i nostri antenati, e quante ne stiamo ancora versando ancora oggi per questa "Italia" falsa, bugiarda e criminale, che è completamente all'opposto della vera nostra Italia. Tu che conosci la verità sei pregato di divulgarla, e di farla conoscere a tutti. Cerca le verità sepolte e riportale alla luce e falle rivivere nella mente e nel cuore tuo e di tutti i tuoi cari. Divulgale a chi le ignora. Il Regno delle due Sicilie era il terzo Stato più ricco ed avanzato al mondo. L'Unità massonica ebraica rothschildiana d'Italia distrusse la vera e migliore Italianità ed il buon rapporto fra tutti gli stessi Italiani di buona volontà. Prima dell'Unità da noi ci si cibava di Bellezza fra arte e cultura in quei palazzi, che erano i più belli d'Europa. Francesco II di Borbone profetizzò che non ci sarebbero rimasti neanche gli occhi per piangere. Francesco II di Borbone profetizzò che non ci sarebbero rimasti neanche gli occhi per piangere. Infatti è e sarà così con questa maledetta falsa Unità, da ora e per le generazioni a venire. Il Regno delle Due Sicilie e la Serenissima Repubblica di Venezia, distrutti nel 1861, insieme alla Sardegna. La Dalmazia e l'Istria distrutte alla fine del secondo conflitto mondiale, l'italianissima Corsica data in pasto alla ferocia degli aguzzini massonici ebraici rothschildiani francesi, Briga e Tenda e la Contea di Nizza cedute alla stessa Francia. L'isola di Malta assoggettata alla massoneria ebraica inglese. Tutto ciò dimostra che la classe dirigente massonica, ebraica rothschildiana, in Italia, come in Inghilterra, come in Francia e come in tutto il resto del mondo, allora come adesso e come sempre, ha seminato, semina e seminerà solo morte e desolazione. Fece, fa e farà sempre versare tanto sangue innocente per i suoi lerci e criminali interessi. A suo tempo, l'Invasione armata distruttrice, la conquista militare violenta e lo sfruttamento coloniale e schiavistico portarono al disastro ed allo sterminio la buona parte del Popolo Duosiciliano: Infatti, su quasi 7,5 milioni di abitanti di allora:

- Dal 1860 al 1875, quasi 50.000 giovani e forti, la meglio gioventù del Sud, militari del Regio Esercito del Regno delle Due Sicilie, furono sterminati non soltanto sui campi di battaglia, ma ancor più numerosi nei feroci campi di concentramento e sterminio come Fenestrelle, e tantissimi altri situati per lo più in Piemonte, ma sparsi anche per tutto il resto d'Italia!

- Inoltre, dal 1860 al 1980, nel giro di 20 anni, con la guerra al brigantaggio furono massacrati, passandoli per le armi e carcerandoli brutalmente più di 100.000 civili. Complessivamente furono sterminate 1,2 milioni di persone, a causa di fame, freddo, malattie e persecuzioni causate soprattutto con:

- La legge marziale, che spesso veniva proclamata per intere regioni, impediva alla gente di uscire anche solo per procurarsi da vivere e, o recarsi al lavoro fuori paese o anche solo fuori casa.

- La legge Pica, tirannica e sanguinaria, istigava ad uccidere anche per semplici sospetti, contadini, pastori, vecchi, donne e bambini, impedendo loro di recarsi liberamente a procurarsi da vivere lavorando nelle campagne o sulle montagne. Non si poteva più andare fuori casa portando armi, anche insignificanti, come coltelli da cucina per tagliare il pane, falci, tridenti ed altri arnesi simili da lavoro. Era vietato perfino portare con sé anche cibo. Chi veniva sorpreso con vivande al seguito, veniva fucilato senza processo, col pretesto che detto cibo fosse per i briganti. I boscaioli, ad esempio, non potevano usare neanche l'ascia per i loro soliti lavori.

- La coscrizione militare obbligatoria aveva sottratto, al sostentamento delle famiglie, i giovani che erano indispensabili per i lavori di ogni genere nei campi e nelle officine, costringendoli a 5 e 10 anni di ferma nelle caserme, tenendoli semincarcerati o impegnati sul terreno nella barbara guerra senza fine contro i propri conterranei che si erano dati al brigantaggio. Tanti e tanti giovani del Sud furono fatti morire a decine di migliaia nelle varie guerre irredentiste, imperialiste e coloniali in Italia e dappertutto nel resto del mondo.

- La criminale ed affamatrice "tassa sul macinato" aveva portato i prezzi delle granaglie e delle altre derrate alimentari più popolari, come il pane, a livelli proibitivi per la popolazione sempre più artificiosamente impoverita e ridotta in miseria ed alla fame vera e propria.

- Tutto l'oro e l'argento del Banco di Stato di Napoli e del Banco di Stato di Sicilia, per un valore di circa 450 milioni di ducati, fu confiscato, razziato senza rimborso, portato ed utilizzato solo per gli interessi dei boss massoni ebrei rothschildiani nel triangolo industriale di Torino, Milano-Genova, creato "ex novo" nel nord Italia, dove prima non c'era assolutamente nessunissima attività economica industriale avanzata.

- Le industrie di stato minerarie, estrattive, siderurgiche e militari di Mongiana, Ferdinandea e Bivongi, le industrie di stato meccaniche e ferroviarie di Pietrarsa, i cantieri navali statali di Castellammare di Stabia, furono chiuse, smontate, rubate, razziate, portate via per essere rimontate più a Nord, specie a Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo sempre nell'interesse dei pochissimi che se ne erano impossessati con la prepotenza e l'inganno.

- I beni della chiesa che ammontavano allora a circa due terzi di tutti i beni immobili del paese, furono confiscati e svenduti ad una borghesia avida e senza scrupoli, che a differenza della chiesa stessa che si accontentava al massimo di piccole decime, sfruttava invece i contadini ed i pastori fino al midollo, senza neanche dar loro la possibilità di avere di che mangiare per sé e per la propria famiglia.

- La maggior parte del popolo, che lavorava la terra, da proprietario divenne colono e schiavo, proletarizzato dal nuovo dittatoriale Stato, che si chiamava Regno d'Italia, ma che era, ed è ancora adesso, il principale nemico del Popolo Italiano, in particolare del Popolo dell'Italia del Sud.

- In sostanza di fronte a tanta miseria, a tante morti, a tante persecuzioni ed odiose angherie, la scelta che il nuovo e tirannico Stato massonico ebraico rothschildiano, in accordo criminale con la massoneria ebraica rothschildiana globale, diede al Popolo Duosiciliano solo questa scelta: "Brigante!... o... Emigrante!"... per cui...

- Dal 1860 fino al 1875 andarono via dalla nostra terra 4 milioni di persone.

- Dal 1860 fino al 1914 ne andarono via 18 milioni.

- Dal 1860 fino ai nostri giorni ne sono andate via 36 milioni, e stanno continuando ad essere costrette, da politiche volutamente antipopolari, ad emigrare ancora adesso a centinaia di migliaia ogni anno. Si tenga presente che la popolazione meridionale attuale ammonta a 35 milioni in Italia, di cui una parte notevole vive anche al nord. In conclusione, questa particolare Unità d'Italia, voluta nell'esclusivo e fazioso interesse di una classe dirigente massonica, ebraica, rothschildiana, criminale, usuraia, estorsiva, razzista, assassina e nemica del Popolo Italiano in generale e del Popolo Italiano Meridionale in particolare, è stata un vero e proprio crimine contro l'umanità, tale e quale come l'attuale Unione Europea che, guarda caso, viene portata avanti a presente proprio dalle stesse identiche forze massoniche, ebraiche rothschildiane del 1860 e di quasi tutti i periodi successivi che arrivano fino ai nostri giorni, con gli stessi metodi diabolici e le stesse caratteristiche criminali di ieri, di oggi e di sempre. La lotta contro l'attuale dittatura e tirannia antipopolare massonica ebraica rothschildiana che adesso si spaccia per "europea", tale quale come una volta si spacciava per "italiana", è in realtà una lotta contro lo stesso nemico principale di sempre dei nostri antenati e di tutti i popoli d'Europa e del mondo intero, ad eccezione, ovviamente, dell'unico e solo "divino popolo eletto" del satanico Rothschild! Vi è quindi un'importantissima ed essenziale continuità di identità culturale, sociale, etnica e storica tra la classe dirigente che oppresse e sterminò i nostri padri ed i nostri antenati dal 1860 in poi e quella classe dirigente attuale, contro cui dobbiamo fare i conti ancora adesso proprio noi, perché anche a presente, essa di nuovo vuole opprimere e sterminare non solo noi stessi ma anche i nostri figli, nipoti e pronipoti per tenere il mondo tutto per sé e per la propria "divina eletta progenie". Questa cognizione, allora, della lotta senza tregua, che si è svolta e si svolge e si svolgerà sempre di generazione in generazione tra noi ed i nostri tradizionali talmudici e diabolici nemici principali di sempre, deve spingerci ad essere più preparati idealmente e materialmente per potere resistere e contrattaccare in maniera più adeguata contro il nemico principale di sempre, senza più commettere le ingenuità e gli errori dei nostri pur amatissimi padri ed antenati, onde potere finalmente vincere e ribaltare positivamente e completamente una volta per tutte, o per lo meno per un bel pezzo, la nostra situazione e quella del nostro popolo nel suo complesso. (Salvatore Brosal - Duccio Mallamaci)

I Savoia e il Massacro del Sud, di Antonio Ciano scrive Rocco Biondi il 21/09/2012. Al Piemonte non interessava per niente l’Unità d’Italia. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche. Per avvalorare questa affermazione Ciano apre il suo libro con delle tabelle statistiche. Nel 1860, anno dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, le monete di tutti gli Stati italiani ammontavano complessivamente a 668,4 milioni, dei quali ben 443,2 (66,31% del totale) appartenevano al Regno delle Due Sicilie; il Regno di Sardegna/Piemonte ne possedeva solo 27,0 milioni. Dal primo censimento del Regno d’Italia, tenutosi nel 1861, risulta che nelle province napoletane e siciliane la popolazione occupata nell’industria era 1.595.359, nell’agricoltura 3.133.261, nel commercio 272.556, mentre in Piemonte, Liguria e Sardegna (messi insieme) era rispettivamente di 376.955 (industria), 1.501.106 (agricoltura), 119.122 unità (commercio). La città più popolosa era Napoli con 447.065 abitanti, Torino di abitanti ne aveva 204.715, Roma 194.587. Nella Conferenza Internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale. Oggi – scrive Ciano nel suo libro – abbiamo due Italie, una del Nord ed una del Sud, una ricca ed una povera. Rispetto al 1860 si sono invertiti i ruoli. Il Nord ha rubato tutto al Sud, che fu invaso militarmente e colonizzato. Ora è tempo di cambiare. Il Sud ha bisogno di liberarsi del colonialismo instaurato dalla borghesia del Nord; ha bisogno di liberarsi del sistema fiscale impostogli dal Piemonte nell’Ottocento; ha bisogno della sua piena autonomia per far sprigionare la fantasia imprenditoriale dei suoi abitanti. Ma il Sud prima di separarsi dovrà chiedere al Nord il conto dei danni subiti, che sono tanti. Il libro di Ciano, scritto nel 1996, conserva ancora oggi la sua validità e la sua freschezza d’invettiva contro i soprusi compiuti dai Piemontesi per imporre con la forza agli abitanti del Sud una unità non voluta e non sentita. Il 1861 è un anno che ogni Meridionale deve ricordare, non per la pseudo unità imposta con la forza, ma perché quell’anno i Savoia iniziarono il massacro del Sud. Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, scrive Ciano, un milione di contadini furono abbattuti; anche se i governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno doveva sapere. Il brigantaggio fu un grande movimento rivoluzionario e di massa, che lottò contro l’invasione piemontese. I briganti furono partigiani che difendevano la loro patria, la loro terra, il loro Re Borbone e la Chiesa cattolica. Dovevano essere annientati perché si opponevano alle mire colonialistiche dei piemontesi. Generali ed ufficiali piemontesi furono dei criminali di guerra, che praticarono lo sterminio di massa. I contadini dovevano essere fucilati; imprigionarli non era conveniente, perché, se in galera, lo Stato doveva provvedere al loro sostentamento. Il Sud sta pagando ancora lacrime e sangue. L’ultimo Re Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse: “Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”. Nel 1861 il Sud è stato invaso dalle truppe piemontesi, ed oggi, anche se in modo diverso, continua ancora ad essere invaso. Scrive Ciano: «Una volta i generali savoiardi fucilavano i nostri contadini, oggi, massacrano le nostre menti con le televisioni i cui proprietari sono i liberal massoni di ieri. Non è cambiato niente». E’ giunto il momento – scrive ancora Ciano – di dire basta e di chiamare a raccolta tutti i meridionali sensibili e orgogliosi. E’ il momento di compattarci, di rivalutare la nostra storia, di processare l’invasione piemontese del 1860-61, di processare coloro che fucilarono, imprigionarono, deportarono un milione di contadini del Sud etichettandoli briganti. Più amara della sconfitta è stata la falsa storia raccontata dai prezzolati sabaudi, scrive Lucio Barone nella prefazione del libro. Tutto ciò che apparteneva al Piemonte veniva glorificato e tutto ciò che era borbonico veniva additato al pubblico disprezzo. Ispiratrice e suggeritrice della politica italiana di quegli anni fu la massoneria inglese, che aveva come obiettivo la costituzione di un nuovo ordine mondiale che non prevedeva più la presenza della Chiesa cattolica. Per l’Italia questo compito fu assegnato al Piemonte e a casa Savoia. Alla massoneria, infatti, appartenevano i cosiddetti padri della patria che diedero vita alla cosiddetta unità d’Italia: Giuseppe Mazzini, Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi. “Nord ladro” è il titolo del capitolo che introduce la rassegna delle grandi opere industriali presenti nel Sud prima dell’unificazione al Piemonte. La Campania nel 1860 era la regione più industrializzata del mondo. Il Reale Opificio meccanico e politecnico di Pietrarsa, con i suoi mille operai specializzati, era il fiore all’occhiello dell’industria partenopea; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive. In Castelnuovo operava la Real fonderia con 500 operai, a Torre Annunziata la Real Manufattura delle armi con 500 operai, a Castellamare il Cantiere Navale con 2.000 operai. A Mongiana in Calabria erano presenti le Ferriere, con 1.500 operai e stabilimenti a Pazzano e Bigonci; quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa. Sempre in Calabria, nello Stabilimento metalmeccanico di Cardinale, 200 operai specializzati producevano 2.000 quintali di ferro. Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). In Puglia, a Lecce, Foggia, Spinazzola, vi erano officine che producevano macchine agricole. Ma quasi in ogni paese del Sud nacquero piccole industrie, che costituirono il nerbo dell’economia del Regno delle Due Sicilie. Di notevole importanza erano le industrie per la lavorazione del cuoio e per la produzione di colori, della pasta alimentare, delle maioliche, di vetri, cristalli, cappelli, acidi, cera, corallo, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali. Nel 1860 – scrive Ciano – i settentrionali scannarono il Sud. Oggi, che non c’è più niente da scannare, paghi chi non ha mai pagato, paghi il Nord che ha sempre rubato. Il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, deportati; 20 milioni di emigranti le cui rimesse sono state dilapidate dal Nord; tutti i risparmi dei Meridionali rapinati dal Nord. E i pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri, sperando di poter continuare a mettere un velo sull’intelligenza umana, di voler continuare a nascondere le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberal massoni di ieri e di oggi; e soprattutto vogliono farci dimenticare che il Sud era ricco e che il Nord era pezzente. La parte centrale del libro è dedicata alla descrizione dei massacri operati dai piemontesi nei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi oggi in provincia di Benevento, distanti fra loro circa 5 chilometri. Nel 1861 il primo aveva 5 mila abitanti ed il secondo 3 mila; oggi il numero degli abitanti sia nell’uno che nell’altro paese è dimezzato. Come in un diario vengono annotati e commentati i tragici avvenimenti che portarono nell’agosto del 1861 alla distruzione dei due paesi. Per capire con quale spirito i piemontesi erano venuti nel Meridione, basta leggere il contenuto di un bando che un capitano dei bersaglieri piemontesi aveva fatto affiggere per le vie di un paese. Eccolo: «1) Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato. 2) Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato. 3) Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per le campagne con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato. 4) Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisare il sottoscritto, verrà considerato nanutengolo o come tale fucilato». I piemontesi vennero ad imporre la loro inciviltà con i fucili. E i meridionali si opposero. Preferirono la macchia al nuovo padrone piemontese, preferirono gli stenti, i sacrifici, la morte. Pontelandolfo, Casalduni, Campolattaro insorsero, abbatterono le insegne savoiarde ed issarono nuovamente le bandiere borboniche. In quei giorni caldi di agosto, il Sud era quasi libero dal gioco piemontese. Le truppe sabaude venivano regolarmente battute dai partigiani-briganti. I popoli meridionali – scrive ancora Ciano – sono sempre stati civili, non hanno mai invaso territori altrui e sono diventati belve quando hanno visto insidiate le loro donne e la loro libertà. Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. Una compagnia, composta da quaranta bersaglieri e quattro carabinieri, fu mandata a ristabilire l’ordine piemontese a Pontelandolfo. Anche per l’inesperienza del loro comandante Bracci, furono tutti fucilati. In un sommario processo furono giudicati colpevoli per aver invaso un regno pacifico senza dichiarazione di guerra e per aver fucilato migliaia di contadini e di giovani renitenti alla leva piemontese. Erano le 22,30 dell’11 agosto 1861. La rappresaglia piemontese scattò rabbiosa. Un generale piemontese sentenziò: «Per ogni soldato ucciso moriranno cento cafoni». Una prima colonna di piemontesi, composta da 900 bersaglieri, si diresse verso Pontelandolfo, un’altra colonna, composta da 400 uomini, si diresse verso Casalduni. Era l’alba del 14 agosto 1861. E cominciò la mattanza. Spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. Diedero fuoco a tutte le case. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla, saccheggi. Il massacro durò l’intera giornata. Non si è mai saputo quanti furono i morti di Pontelandolfo, di Casalduni e degli altri paesi vicini. Certamente furono migliaia. E così i piemontesi fecero l’unità d’Italia. Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 2a Ediz. Ottobre 1996, pp. 256.

Sapevate che da noi ci fu un genocidio? La tesi di Pino Aprile nel nuovo libro «Carnefici» Viaggio in un Risorgimento crudele e feroce tra idee e commenti, scrive Lino Patruno il 2 giugno 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ora la conferma: fu genocidio. Sappiamo cosa avvenne qualche anno fa, quando Pino Aprile lo scrisse per la prima volta nel suo libro bestseller Terroni sull’unità d’Italia. Una sollevazione della casta accademica che tentò di ridicolizzarlo perché addirittura parlò di metodi nazisti ai danni del Sud. Ma che dice, come osa. Ora non solo lo ripete. Non solo titola esplicitamente il suo nuovo libro Carnefici (Piemme, pag. 465, euro 19,50). Ma ci aggiunge tutte le prove. Aggiunge cioè quanto nessuno storico di professione si è finora degnato di cercare ma che c’era. E che getta una luce ancòra più cupa e inquietante su quel Risorgimento accompagnato da tante trombe ma da poca verità. Un lavoro improbo, come era prevedibile e come dimostrano le pagine sofferte anche per il lettore tra una mole immane di documenti. Perché non è che tu vai alla caccia di qualcosa di molto compromettente e indegno per i vincitori e lo trovi così. Fra archivi reticenti allora e più inaccessibili di Fort Knox ora. Fra manomissioni, cancellazioni, alterazioni, reticenze per camuffare quella che fu fatta passare per una liberazione del Sud quando fu invece una feroce occupazione militare. Con sprezzo di ogni rispetto dei diritti umani. E l’aggravante che avveniva non contro un nemico ma contro un popolo altrettanto formalmente italiano. Bisognava fare l’Italia, è vero. Ma per farla, secondo Aprile, l’odio e l’arbitrio andarono ben al di là di ogni raffronto tranne quello, appunto, del nazismo. Perché centinaia di migliaia di italiani del Sud furono fucilati, uccisi, incarcerati, deportati, torturati oltre che derubati. E le cifre dicono che non fu solo lotta al brigantaggio. Ma un metodo applicato sempre e ovunque. Una unità nata in un dolore che non risparmiò nessuna famiglia meridionale. Che è rimasto nella loro vita come un sottofondo che le segna ancòra oggi. E che svela un segreto terribile per un Paese che non ha voluto finora aprire la porta della sua stanza della vergogna. Dal 1765 alla sua caduta, nel Regno delle Due Sicilie la popolazione era sempre cresciuta. Negli ultimi cinquant’anni, di 50mila l’anno. In sei anni fra il 1862 e il 68, invece, i morti superarono i nati. Ma il dato più impressionante è che mancano all’appello di qualsiasi censimento e di qualsiasi conto incrociato non meno di 600mila persone (un milione secondo la rivista Civiltà cattolica): che fine hanno fatto? Una su dieci. Come se fossero scomparse le attuali città di Bari, Taranto e Brindisi. E, fatte le proporzioni, come se oggi sparissero dal Sud 2 milioni di abitanti. Non c’era ancòra in quegli anni l’emigrazione che fu l’unica alternativa alla miseria un paio di decenni dopo. Non erano morti di brigantaggio né di scontri militari conosciuti. Quei 600mila furono fatti sparire. Non può essere altro, scrive Aprile, che la somma di ciò che non si è mai saputo: arbitrarie stragi segrete, fucilazioni non registrate, finiti di stenti in carcere senza che se ne seppe più nulla, svaniti in campi di concentramento senza lasciare tracce, volatilizzati in sconosciuti luoghi di deportazione. O scomparsi per suicidi indotti dalla disperazione. Compresi quei 5mila militari all’anno dichiarati morti per misteriose cause indipendenti dal servizio, poco meno di tutti gli italiani vittime nelle guerre di indipendenza. E’ stato questo il prezzo della cosiddetta liberazione. Del «supremo bene» della nuova patria senza neanche il coraggio della verità. Desaparecidos come nelle più atroci dittature contemporanee. Ma senza una plaza nella quale le madri li potessero invocare. E senza una sanzione per i responsabili anzi onorificenze per il buon lavoro fatto. Un genocidio, insiste Aprile, se genocidio è lo sterminio di massa pianificato da uno Stato. Se genocidio è la cancellazione di una economia, di una cultura, di una gente e della sua colpa di appartenere a un gruppo nazionale diverso. Quando ci si poteva arrivare senza il «necessario dolore» se non fosse stata anche una non necessaria umiliazione di sangue e di disprezzo per i vinti. Ai quali poi si è inferta l’ulteriore condanna del silenzio. Così le tombe di chi vinse sono archi di trionfo. E per gli sconfitti neanche un ceppo di ricordo. Ma si può fare la pace soltanto facendo la pace con la storia, la vera storia, come ha scritto lo scrittore turco Hasan Cemal memore del negato sterminio degli armeni da parte del suo Paese. La pace fondata sulla giustizia che ancòra manca in Italia. Anche perché prima o poi la storia racconta. E se non è la storia, come dicevano i nostri vecchi, quando una cosa nessuno te la vuole dire, allora la terra si crepa, si apre. E parla. Un giorno, conclude Aprile, in uno o l’altro luogo del martirio, arriveranno migliaia di terroni, ognuno con una pietra o un fiore. E li lasceranno lì da soli, se gli italiani non volessero farlo insieme. E su ogni mattone, il nome di un paese distrutto, e ogni fiore per ogni giovane vita andata. Per diventare poi nomi di strade e piazze, per avere una data sul calendario. Unico modo per rifare davvero l’Italia, per riparare al «supremo sacrificio» con cui non fu fatta allora.

Il Sud è una colonia interna: 32 domande per chi non ci crede, scrive Francesco Pipitone il 15 settembre 2014 su "Vesuvio On line". Questo non è articolo, non è un testo tradizionale in cui cerco di spiegare la mia visione di uno o più fatti, un insieme di parole atte a dimostrare una tesi. Leggerete una serie di domande rivolte a chi non ci ascolta, a chi ci liquida come raccontatori di frottole, di nostalgici di un tempo che è andato e non c’è più, un tempo dove il Mezzogiorno d’Italia era indipendente ed era fautore della propria sorte. L’Unità d’Italia era un passo da compiere, o forse no, non è questa la cosa essenziale: essa è avvenuta, inutile pensare a quale sarebbe la situazione odierna senza le azioni militari nell’allora Regno delle Due Sicilie, tuttavia dopo oltre 150 anni è innegabile che un’identità nazionale non ci sia, che non ci sia un popolo italiano veramente unito. “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, è questa una delle frasi dove si scorge maggiormente il supremo errore, quello di voler manipolare alcuni milioni di persone e renderli un corpo unico, quello di aver fatto una nazione senza i propri abitanti – dovevano essere gli italiani a fare l’Italia, non il sangue. A prescindere dalle trame della storia, dal 1861 ad oggi l’operato delle classi dirigenti italiane via via susseguitesi hanno fatto scelte che hanno portato alla prosperità di una parte della penisola a scapito dell’altra e, come da titolo, ecco 32 domande (ma sarebbero potute tranquillamente essere di più) per chi non crede che il Sud sia una colonia interna:

1) Qual è l’area più ricca del Paese?

2) Dove sono più aeroporti?

3) Dove sono più treni?

4) Dove arriva l’Alta Velocità?

5) Dove sono più autostrade?

6) Dove funzionano meglio i trasporti pubblici?

7) Dove sono più scuole?

8) Dove vengono offerti più servizi ai cittadini?

9) Dove si trovano più asili nido?

10) Dove c’è meno disoccupazione?

11) Il Sud ha i due terzi delle coste italiane, perché non vengono costruite infrastrutture?

12) Emigrano di più i Meridionali o i Settentrionali?

13) Sapevi che prima dell’Unità il Sud non aveva mai conosciuto l’emigrazione come fenomeno?

14) In quale parte del Paese c’è una migliore copertura ADSL?

15) Dove hanno sede legale le maggiori imprese italiane?

16) Lo sai che il 94% di quello che spendi va al Nord?

17) Lo sai che più del 90% dei fondi della cassa per il Mezzogiorno è stato dirottato alle grandi aziende del Nord?

18) Quando si parla del Sud in giornali e TG nazionali, quali sono i temi affrontati?

19) Lo sai che prima dell’Unità Napoli era principale città italiana?

20) Lo sai che Garibaldi si pentì di aver conquistato le Due Sicilie?

21) Lo sai che secondo dati ufficiali, Milano, Roma, Torino, Bologna e Firenze sono più pericolose di Napoli? In questa classifica Napoli è 36esima, le altre città elencate sono tra le prime sette posizioni.

22) Lo sai che al Nord, secondo dati ufficiali, vengono fatti più incidenti stradali? Perché al Sud si paga molto di più per l’assicurazione?

23) Lo sai che la spazzatura della Terra dei Fuochi proviene quasi tutta dal Nord?

24) Lo sai che la Pianura Padana è la zona più inquinata d’Europa? Perché i Media non ne parlano come per la Terra dei Fuochi?

25) Lo sai che in Basilicata c’è il petrolio, viene estratto, e l’unica cosa di cui “beneficiano” i Lucani sono inquinamento e tumori?

26) Lo sai che vogliono trivellare l’Irpinia nonostante sia una zona altamente sismica, oltre a essere un punto cruciale dove scorre l’acqua che arriva nelle case di milioni di persone che abitano tre regioni?

27) Lo sai che anche in Calabria sono stati sotterrati rifiuti, e il disastro potrebbe essere maggiore rispetto alla Terra dei Fuochi?

28) Lo sai che in Basilicata si sono verificati dodici incidenti nucleari, e sono stati riscontrati livelli di radioattività simili a quelli di Fukushima?

29) Lo sai che a Gela, in Sicilia, la percentuale di neonati nati con malformazioni è almeno sei volte superiore alla media nazionale? È una zona di raffinerie come tutta la Sicilia, ma, guarda un po’, la benzina costa più che al Nord.

30) Hai mai sentito i media nazionali parlare dell’Ilva di Taranto e del gruppo Riva? Se sì, quanto approfonditamente?

31) Perché lo Stato Italiano ha posto il segreto, negli anni Novanta, sul disastro nella Terra dei Fuochi?

32) Ti bastano queste domande a farti riflettere, o sei ancora convinto che dire che il Sud è una colonia interna non abbia fondamento alcuno?

I Bersaglieri in festa a Palermo. E le centinaia di palermitani scannati nel 1866? Scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri" il 29 maggio 2016. Certo che le autorità cittadine di Palermo non hanno molta memoria storica. Hanno invitato i Bersaglieri a festeggiare in città – non si capisce bene che cosa – proprio nell’anno in cui noi ricordiamo i 150 anni della ‘Rivolta del Sette e mezzo’, quando le truppe dei Bersaglieri, al comando del generale Raffaele Cadorna, per conto dei Savoia, repressero nel sangue una giusta rivolta contro i predoni piemontesi che stavano affamando la Sicilia. Dei bersaglieri ricordiamo anche le stragi di Genova e, soprattutto, la strage di Pontelandolfo e Casalduni. Dal 23 al 29 Maggio Palermo – oggi è l’ultimo giorno di questa ‘festa’ – con il coinvolgimento delle istituzioni locali, sindaco in testa ed autorità militari, tra sfilate, manifestazioni, esibizioni di fanfare, annulli postali, inaugurazioni di monumenti commemorativi e corse a passo di carica che hanno assordato la città, si è svolto il 64° Raduno Nazionale dei bersaglieri. Si tratta quegli stessi bersaglieri eredi e discendenti di quei militari che, nel 1866, esattamente 150 anni fa, in occasione della "Rivolta del Sette e Mezzo" (una rivolta puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale), uccisero centinaia di palermitani per conto di casa Savoia! Insomma, un bel modo per ricordare, a Palermo, la "Rivolta del Sette e mezzo!". Le cronache raccontano che, nel reprimere la rivolta, i bersaglieri agli ordini del generale Raffaele Cadorna – che nel nome del re galantuomo mise in stato d’assedio Palermo – attraversando a passo di carica la città e, con le baionette innestate, misero a ferro e a fuoco la capitale della Sicilia, massacrando ed uccidendo centinaia e centinaia di rivoltosi e quanti capitavano loro a tiro. Del resto, i nostri “eroi” bersaglieri non si comportarono meglio – anzi si comportarono peggio – quando, ancor prima dei fatti di Palermo del 1866, nell’Aprile del 1849, agli ordini del generale Alfonso La Marmora, fondatore qualche anno prima del corpo, furono mandati dal re “galantuomo” a reprimere la rivolta di Genova che voleva rendersi indipendente dal Regno di Sardegna. In quell’occasione il corpo speciale dei bersaglieri fece di tutto e di più. “In quei drammatici giorni la soldataglia sabauda si abbandonò alle più meschine azioni contro la popolazione civile, violentando donne ed uccidendo padri di famiglia e fratelli che si opponevano allo scempio, sparando alle finestre alla gente che vi si affacciava e correndo per le strade al grido: Denari, denari o la vita, a cui fecero seguito irruzioni e predazioni. Neppure i luoghi sacri vennero risparmiati e le argenterie razziate; i prigionieri, anche quelli che si erano arresi, vennero uccisi o stipati in celle anguste e costretti addirittura a dissetarsi della propria urina. Così scriveva l’allora re di Sardegna, Vittorio Emanuele, per ringraziarlo, al comandante dei bersaglieri La Marmora: “Mio caro generale vi ho affidato l’affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio”. I genovesi, che “i piemontesi non potevano fare di meglio”, se lo ricordarono e non dimenticarono per lungo tempo le barbarie, i saccheggi e le ruberie commesse dai fanti piumati a danno della loro città e avendo memoria di tutto questo fu per lungo tempo consuetudine che le famiglie genovesi non inviassero i figli a prestare servizio militare nei bersaglieri. Solo qualche anno fa i genovesi hanno consentito al corpo dei bersaglieri di potere mettere piede nella loro città. Ma quello che superò tutti in barbarie ed atrocità si verificò il 4 agosto del 1861, quando il generale Enrico Cialdini, sempre in nome del re galantuomo, si rese protagonista – insieme con il corpo speciale di Bersaglieri agli ordini del Maggiore Negri – della strage di Pontelandolfo e Casalduni, di due paesi della provincia di Benevento. Saprete certo quello che fecero i nazisti per rappresaglia nell’estate del 1944 a Marzabotto e Sant’anna di Stazzena definito dal mondo civile un crimine contro l’umanità. Ebbene, i bersaglieri di Cialdini a Pontelandolfo e Casalduni, per rappresaglia, fecero anche di peggio di quello che fecero i nazisti 83 anni dopo. I nazisti, in quel lontano Agosto del 1944, uccisero e massacrano gli abitanti di Marzabotto e di Sant’Anna lasciando però in piedi le abitazioni dei due paesi. I bersaglieri, a Pontelandolfo e Casalduni, dopo avere ucciso e massacrato tutti gli abitanti – uomini, vecchi, donne e bambini – non lasciarono alcuna abitazione in piedi bruciando tutte le case dei due paesi. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di risparmiarle) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate appunto come avevano fatto 12 anni prima a Genova i bersaglieri di Alfonso La Marmora. “Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora”. Così scriveva il maggiore Negri per rendicontare a Enrico Cialdini la conclusione dell’eccidio. E saranno poi i bersaglieri di Emilio Pallavicini a ferire sull’Aspromonte il “disubbidiente” Giuseppe Garibaldi nell’agosto del 1862 e a rendersi protagonisti, a loro volta, dell’eccidio di Fantina (un paesino della provincia di Messina) in cui furono trucidati senza pietà alcuni volontari in fuga dall’Aspromonte che avevano avuto la sventura di seguire il nizzardo. Non va dimenticata, in questo lungo corollario di orrori, la repressione della rivolta che va sotto il nome della “Rivolta dei Cutrara” effettuata a Castellammare del Golfo il 1 gennaio del 1862 dai bersaglieri del generale Quintino che, oltre a trucidare vecchi e donne, misero al muro e fucilarono una bambina di solo nove anni, Angelina Romano. E poi ancora che dire di un’altra strage dimenticata, compiuta dal corpo dei bersaglieri ad Auletta, un paese in provincia di Salerno, nel luglio del 1861, dove furono uccisi ed imprigionati centinaia e centinaia di cittadini. L’elenco delle stragi dimenticate in cui furono tristemente protagonisti i fanti piumati è molto lungo e potrebbe continuare. Per una maggiore e più puntuale informazione al riguardo vi rimando alla lettura del libro di recentissima pubblicazione di Pino Aprile che, nel descrivere e documentare gli eccidi che furono compiuti nel Sud del paese agli albori dell’Unità d’Italia e in cui i bersaglieri furono tristemente protagonisti primari, non poteva scegliere titolo migliore Carnefici – Ecco le prove. Ecco perché, alla luce di tutti questi eccidi e massacri perpetrati agli albori dell’Unità d’Italia e nel nome del re galantuomo, ai bersaglieri di oggi che ritualmente celebrano i loro i raduni, come in questi giorni a Palermo, mi sento di dare il mio sommesso consiglio: ossia quello di ritrovare la memoria dei crimini contro l’umanità commessi nel Sud e in Sicilia dai loro antesignani. Sarebbe a questo punto opportuno che, tra feste, celebrazioni, sfilate e commemorazioni trovassero pure il tempo di chiedere scusa per i tanti eccidi e crimini commessi in passato dal “glorioso” corpo dei bersaglieri. Iniziando a chiedere scusa alla città di Palermo che, come già ricordato, fu teatro, nel Settembre del 1866 della "Rivolta del sette e mezzo" dove furono commessi, al pari di altri paesi del Mezzogiorno, eccidi e massacri e dove in questi giorni di Maggio si svolge il 64° raduno dei Bersaglieri. Palermo aspetta ancora queste scuse.

Carnefici di Pino Aprile. Pino Aprile, giornalista, già vicedirettore di Oggi, e pugliese d’origine, ritorna ad un tema già affrontato in precedenza, quello del conflitto tra Nord e Sud. Con Carnefici, ritorna all’ultima pagina di Terroni in cui aveva spiegato ai lettori come centocinquant’anni non fossero stati sufficienti a risolvere il problema di un divario tra regioni del Nord e del Sud Italia. Ma se così è stato, è accaduto perché non si è voluto risolvere l’eterna questione meridionale: troppi interessi la caratterizzano da sempre. Le Due Germanie, pur divise da un muro, in vent’anni sono tornate ad essere una sola Germania. Perché in Italia questo non è accaduto? Partendo da questo grande interrogativo, Pino Aprile continua una fredda analisi della situazione. Carnefici è un’analisi di una sorta di rapporto di dipendenza che si è creato tra Nord e Sud, rendendo il meridione assolutamente succube del settentrione. Si diventa dipendenti dei propri carnefici e così è accaduto ad una parte d’Italia che non può far altro che fare la parte della vittima, mentre il Nord si diverte a prendere il ruolo di chi comanda, di chi lavora meglio e in modo più efficace. La verità non è questa, sono solo maschere che ci si abitua a portare. Questo ce lo ricorda Pino Aprile in Carnefici.

«Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove». È il cuore di un celeberrimo atto d’accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera. Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”. Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, Terroni, che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un’incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l’ordine di grandezza che emerge dall’incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l’Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L’Italia “liberata” è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l’organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie. Sono atrocità degne della ferocia dell’Isis. Per molto meno, sono stati processati e condannati ufficiali e gerarchi nazisti. Ma in Italia, invece, agli autori di quei crimini di guerra sono andate medaglie, promozioni e, talvolta, piazze e strade dedicate in quegli stessi paesi che insanguinarono. Monumenti ai carnefici. Con pagine di rara potenza, appassionate e documentate, forte di reperti e fonti che per troppo tempo sono stati celati, Pino Aprile svela il vero volto di molti dei presunti eroi della storia Patria, ed evidenzia le ripercussioni di questa tragedia negata e cancellata. È questa la sua opera fondamentale, la più sconvolgente e ambiziosa. Quella dopo la quale davvero non si potrà più dire: io non sapevo. "Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove". È il cuore di un celeberrimo atto d'accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul "Corriere della Sera". Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero "meridionali". Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, "Terroni", che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un'incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l'ordine di grandezza che emerge dall'incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l'Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L'Italia "liberata" è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l'organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie.

“Carnefici”: l’indicibile genocidio dei meridionali. Il nuovo libro di Pino Aprile, scrive Raffaele Vescera il 7 maggio 2016.  Se le parole sono pietre, il termine genocidio è un macigno. Pesante da scagliare per chi lo lancia, difficile da digerire per chi lo riceve. Ancora più greve se la parola genocidio, come fa Pino Aprile nel suo nuovo libro “Carnefici”, viene usata per definire l’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie al Piemonte. Annessione, tale è stata, non unità, visto che gli stessi re sabaudi, conquistando il Sud con inenarrabili atrocità, si vantavano di aver allargato il Regno del Piemonte, piuttosto che aver fatto l’Italia. Allora, se di macigno si tratta, proviamo a dargli una misura, un peso: che cos’è un genocidio, e quando è consentito l’uso di questa parola? Perché lo sterminio degli Ebrei è stato immediatamente definito come un genocidio nella stessa Germania che l’ha compiuto, mentre quello degli Armeni, a distanza di un secolo, è ancora negato dallo Stato turco, che processa chi ne parla? La storia, com’è noto, la scrivono i vincitori, se in Europa avesse vinto la follia di Hitler, lo sterminio di sei milioni di esseri umani, sarebbe stato sminuito, negato e rimosso dalla storiografia ufficiale, e i partigiani sarebbero ancora oggi chiamati “banditen”, come i resistenti all’occupazione del Sud, prima ai francesi e poi ai piemontesi, sono chiamati briganti, lazzari, sanfedisti, straccioni. Hitler ha perso, e per gli ebrei c’è giustizia storica. Gli Armeni hanno perso, e per il milione di Armeni sterminati in Turchia, non c’è verità. Pino Aprile c’informa che la definizione di “genocidio” si deve all’avvocato polacco Raphael Lemkin, la cui famiglia fu coinvolta nell’Olocausto, dai nazisti: si intende per genocidio un «piano coordinato di azioni differenti che hanno come obiettivo la distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali attraverso la distruzione delle istituzioni politiche e sociali, dell’economia, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali o della religione, della libertà, della dignità, della salute e perfino della vita degli individui non per motivazioni individuali ma in quanto membri di un gruppo nazionale». Il Mezzogiorno d’Italia in seguito all’occupazione violenta dell’esercito piemontese, subì tutto questo? Lo stesso Antonio Gramsci, un secolo fa, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.” Tuttavia, nonostante le significative dichiarazioni di alcuni tra i maggiori uomini di cultura, di ieri e di oggi, quali Paolo Mieli e altri, la storiografia ufficiale, gestita dai baroni universitari di scuola liberal-massonica, negano, seppure al loro interno molte crepe si siano aperte. La loro critica al cosiddetto revisionismo del Risorgimento, nel migliore dei casi, è quella dell’insufficienza di prove documentali sull’enorme numero dei morti di parte meridionale, da noi quantificato in centinaia di migliaia, nei peggiori dei casi parlano di “pura invenzione”, poiché, pur ammettendo un piccolo numero di morti in campo meridionale, le atrocità sarebbero state commesse da parte dei briganti, piuttosto che da quella piemontese. Come mettere sullo stesso piano chi difende la propria terra e un invasore straniero? Analizziamo le condizioni del genocidio definite da Lemkim. Il libero Stato delle Due Sicilie fu privato delle sue istituzioni politiche e sociali, sostituite non da nuove ma da quelle già in uso in Piemonte, lo stesso accadde per la sua economia, fu distrutto il tessuto industriale e mercantile del Mezzogiorno per favorire la crescita di quella del Nord. Altresì distrutta la cultura e la dignità dei Meridionali, che pur appartenendo ad un popolo faro di civiltà da tre millenni, si videro bollati dai conquistatori come selvaggi e incivili, letteralmente “peggio degli affricani”, con due effe, come gentilmente ci descrivevano gli arroganti e vieppiù incolti ufficiali piemontesi nei loro grossolani rapporti, e come tuttora siamo classificati con epiteti insultanti. Stesso disprezzo ha subito la nostra lingua e il nostro sentimento di appartenenza ad uno Stato, quello del Regno di Napoli, in auge da sette secoli, dagli svevi di Federico II alla dinastia dei Borbone, riconosciuto nel mondo come civilissimo, tenendo conto dei canoni del tempo, si capisce. Tutto questo è stato ampiamente indagato e dimostrato mediante vasta documentazione da storici ed economisti, lo stesso Pino Aprile ce ne dà conto nel suo best seller Terroni, un saggio che, nelle sue sconvolgenti rivelazioni sulle atrocità compiute dall’esercito piemontese in dieci anni di guerra di conquista del Sud, mascherata da guerra al brigantaggio, ha cambiato la stessa percezione identitaria dei Meridionali, favorendo un processo di autostima. Ma tutto ciò viene giustificato dai risorgimentalisti come il prezzo da pagare al “progresso” al nuovo mondo che avanzava. Chissà se la raccontano allo stesso modo agli indiani d’America sopravvissuti allo sterminio operato dai nostri “civilissimi” bianchi. Manca però l’ultimo passo, quello decisivo per giustificare l’uso della definizione genocidio, ovvero quello della privazione della salute e della vita degli individui, non in quanto colpevoli di qualcosa, ma perché appartenenti ad un gruppo nazionale. Al di là dei singoli episodi di atrocità compiuti contro i cosiddetti briganti e contro l’inerme popolazione, va dunque dimostrato che da parte sabauda vi fu un piano preordinato di sterminio. Il nuovo saggio di Pino Aprile “Carnefici” colma la lacuna con una poderosa mole documentale, rintracciata attraverso minuziose ricerche archivistiche, sui singoli episodi di sterminio ma soprattutto sugli scompensi demografici, risultanti dalla comparazione dei censimenti di prima e dopo l’unità d’Italia. Su una popolazione di poco più di sette milioni di persone, a distanza di pochi anni mancava all’appello quasi mezzo milione di abitanti, in tempi in cui nessuno emigrava dal Sud, cui va aggiunta la mancata crescita demografica, in una terra la cui popolazione cresceva regolarmente da sempre. Con i “nati mancati” Il numero dei “desaparecidos” sale a circa il dieci per cento della popolazione meridionale. E’ come se di colpo oggi sparissero dal Sud due milioni di abitanti. La seconda volta che vi fu decrescita della popolazione al Sud accadde a causa della prima guerra mondiale, combattuta più di tutto dai meridionali usati come carne da macello, combinata con l’epidemia spagnola. La terza volta è oggi, in virtù dell’avanzato stato di impoverimento e disoccupazione del Mezzogiorno. Certo, se si sommano i morti delle fucilazioni immediate “sul campo” ai paesi distrutti per rappresaglia con lo sterminio dei loro abitanti, anche donne, bambini e anziani, alla carcerazione di un numero enorme di uomini, detenuti senza accusa e senza processo e lasciati morire di stenti e malattie nelle patrie galere, come lo stesso Crispi dovette ammettere, e alle deportazioni dei militari dell’esercito borbonico, per i quali, riempiti i lager subalpini come Fenestrelle, si cercava “una landa desolata in Patagonia”, i conti dello sterminio tornano. Non ci fu famiglia meridionale che non fu coinvolta dal massacro, anche quella mia, e quella vostra. Senza contare i milioni di uomini successivamente emigrati nelle Americhe per sfuggire alla miseria e alle vessazioni provocate dal nuovo Stato italiano. Il nuovo lavoro di Pino Aprile, di 468 pagine, edito da Piemme, è dunque un libro “necessario” affinché nessuno possa più negare o possa dire “io non sapevo”. Fu genocidio, ora ci sono le prove, e tanto basti affinché il popolo meridionale presenti il conto dei misfatti allo Stato italiano. I morti non si possono certo restituire alla vita, ma la loro dignità sì. C’è un solo modo per farlo: lo stato italiano riconosca il genocidio e chieda scusa ai Meridionali, come lo stato americano ha fatto con i suoi abitanti originari. Senza verità non ci può essere Unità, un paese civile non si può fondare sulla menzogna. Si cambino i testi scolastici e si formino i giovani sul rispetto della Storia e dei loro padri.

Giuseppe Garibaldi, mercenario dei due mondi. Scritto da Alessandro Lattanzio, il 24/6/2011 su “Aurora”. Per mettere un pietra tombale sul mito di Garibaldi. I festeggiamenti per il 200° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, e per il 150° anniversario dallo sbarco a Marsala e dalla proclamazione della cosiddetta Unità d’Italia, pur con tutto lo stantio corteo di corifei e apologeti, non hanno suscitato dibattiti né analisi sul processo di unificazione dell’Italia. Questi eventi non sono diventati occasione per affrontare i nodi della storia italiana, o meglio italiane. Niente di niente. Neanche gli atenei o le accademie, né ricercatori e né docenti, hanno avuto il coraggio di affrontare, in modo serio e complessivo, la natura del processo storico italiano che va dall’Unità ad oggi. Anzi, il General Intellect italiano, a ennesima dimostrazione della sua subalternità e del suo provincialismo, ha solo prodotto qualche raccolta di ‘memorie’ dei garibaldini, veri o presunti poco importa, spacciandola come lavoro storico e di analisi storica. Nulla di più falso, poiché ogni vero storico sa che la memorialistica è altamente inaffidabile; e l’Italia è la patria delle ‘memorie’ scritte per secondi fini politico-personalistici. Inoltre, voler costruire la storia patria raccogliendo le memorie di una parte sola, che ha una memoria… appunto parziale, ha più il sapore dell’opera di indottrinamento e della retorica, piuttosto che della onesta e disinteressata ricerca storica. Capisco che in questi anni di disfacimento nazionale, di contestazione dell’Italia quale nazione unica, e dell’italianità quale sentimento patriottico, alcuni settori ideologicamente e strumentalmente legati al cosiddetto risorgimento sentano il bisogno di ravvivare un patriottismo nazionale che almeno salvaguardi la concezione, attualmente propagandata nelle scuole e nei media, che si ha della storia italiana. Soprattutto proprio quella riguardante il periodo della costituzione della sua statualità unitaria. Ma il fatto è che, con il riproporsi di schemi patriottardi e di affabulazioni devianti, non si renda proprio un buon servizio neanche alla storia dell’Italia. La figura di Giuseppe Garibaldi, in tal caso, è centrale; non in quanto super-uomo o eroe di uno o più mondi. Ma in quanto strumento di forze superiori, ma non sto parlando della Storia con la S maiuscola, ma più prosaicamente di mercati, risorse, capitali, commerci, banche e finanza, ecc. Insomma, delle regole e dinamiche dettate dai rapporti di forza tra potenze coloniali, tra i nascenti imperialismi, l’equilibrio tra potenze regionali e mondiali. E in questo contesto deve essere inserita, appunto, la figura di Garibaldi. Lasciamo agli affabulatori e agli annebbianti i raccontini sull'eroe dei due mondi e sul Cincinnato di Caprera. Partiamo, quindi, dall’analizzare il ruolo e la posizione dell’obiettivo principe della più notoria spedizione dell’avventuriero nizzardo: la Sicilia. La Sicilia, granaio e giardino del Regno di Napoli (o delle Due Sicilie), oltre ad avere una economia agricola abbastanza sviluppata, almeno nella sua parte orientale, ovvero una agrumicoltura sostenuta e avanzata, necessaria ad affrontare il mercato internazionale, sbocco principale di tale tipo di coltura; possedeva una forte marineria, assieme a quella di Napoli, tanto da essere stata una nave siciliana la prima ad inaugurare una linea diretta con New York e gli Stati Uniti d’America. Marineria avanzata per sostenere una avanzata produzione agrumicola destinata al commercio estero, come si è appena detto. Capitalismo, altro che gramsciana arretratezza feudale. Ma il fiore all’occhiello dell’economia siciliana era rappresentata da una risorsa strategica, all’epoca, ovvero lo zolfo. Lo zolfo e i prodotti solfiferi, erano estremamente necessari per il nascente processo di industrializzazione. Lo zolfo veniva utilizzato per la produzione di sostanze chimiche, come conservanti, esplosivi, fertilizzanti, insetticidi; oltre che per produrre beni di uso quotidiano, come i fiammiferi. Era insomma il lubrificante del motore dell’imperialismo, soprattutto di quello inglese. Con la rivoluzione nella tecnologia navale, ovvero la nascita della corazzata, e la diffusione delle ferrovie in Europa, e non solo, ne fanno montare la domanda e, quindi, la necessità di sempre maggiori quantità di acciaio, ferro e ghisa. Perciò, i processi produttivi connessi richiedono sempre più ampie quantità di zolfo; cosi come la richiedono l’economia moderna tutta, industriale e commerciale. Tipo quella dell’Impero Britannico. La Sicilia, alla luce dei mutamenti epocali che si vivevano alla metà dell’800, diventa un importante obiettivo strategico, un asset geo-politicamente e geo-economicamente cruciale. Difatti l’Isola possedeva 400 miniere di zolfo che, all’epoca, coprivano circa il 90% della produzione mondiale di zolfo e prodotti affini. Come poteva, l’Isola, essere ignorata dai centri strategici dell’Impero di Sua Maestà? Come potevano l’Ammiragliato e la City trascurare la posizione della Sicilia, al centro geografico del Mediterraneo, proprio mentre si stava lavorando per realizzare il Canale di Suez? La nuova via sarebbe divenuta l’arteria principale dei traffici commerciali e marittimi dell’Impero Britannico. Come potevano ignorare tutto ciò i Premier e i Lord, gli imperialisti conservatori e gli imperialisti liberali, i massoni e i missionari d’Albione? Come? E come potevano dimenticare che, all’epoca, il Regno di Napoli e le marinerie di Sicilia e della Campania, marinerie mediterranee, fossero dei temibili concorrenti per la flotta commerciale inglese? Come potevano? Il General Intellect dell’imperialismo inglese, il maggiore dell’epoca, non poteva certo ignorare e trascurare simili fattori strategici. Loro no. Semmai a ignorarlo è stato tutto il circo italidiota dei cantori del Peppino longochiomato e barbuto. Tutti i raccoglitori di cimeli garibaldineschi, più o meno genuini, non hanno mai avuto il cervello (il cervello appunto!) di capire e studiare questi trascurabili elementi. La Sicilia è terra di schiavi e di africani, barbara e senza storia, non vale certo un libro che ne spieghi anche solo il valore materiale. Così vuole la vulgata dei nostrani storici accademici; o di certe ‘storiche’ contemporanee venete che, invece delle vicende dell’assolata terra triangolata, preferiscono dedicarsi alle memorie della masnada di mercenari vestiti delle rosse divise destinate, non a caso, agli operai del mattatoio di Montevideo. Tralasciando la biografia e gli interessi dei fratelli Rubattino, che attuarono quella vera e propria False Flag Operation detta Spedizione dei Mille, giova ricordare che Garibaldi, dopo la riuscita missione (covert operation), venne accolto presso la Loggia Alma Mater di Londra. Vi fu una festa pubblica, di massa, che lo accolse a Londra e lo accompagnò fino alla sede centrale della massoneria anglo-scozzese. La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito scrisse un testimone diretto dell’evento. Un tal Karl Marx. Giuseppe Garibaldi venne scelto da Londra, poiché si era già reso utile alla causa dell’impero britannico. In America Latina, quando gli inglesi, tramite l’Uruguay, favorirono la secessione della provincia brasiliana di Rio Grande do Sul dall’impero brasiliano, alimentandola guerra civile in Brasile, Garibaldi venne assoldato per svolgere il ruolo di raider, ovvero incursore nelle retrovie dell’esercito brasiliano. Il suo compito fu di sconvolgere l’economia dei territori nemici devastando i villaggi, bruciando i raccolti e razziando il bestiame. Morti e mutilati tra donne e bambini abbondarono, sotto i colpi dei fucili e dei machete dei suoi uomini. Durante quelle azioni, Garibaldi ebbe la guida delle forze navali riogradensi. “Il 14 luglio 1838, al comando della sua nave, la Farroupilha, affrontò la navigazione sull’Oceano Atlantico, ma a causa del mare in tempesta e dell’eccessivo carico a bordo, la Farroupilha si rovesciò. Annegarono sedici dei trenta componenti dell’equipaggio, tra cui gli amici Mutru e Carniglia; il nizzardo fu l’unico italiano superstite.” Dimostrando, così, il suo vero valore sia come comandante militare, che come comandante di nave. Per la sua inettitudine e crudeltà, tanti di coloro che lo circondavano morirono per causa sua. Il compito svolto da Garibaldi rientrava nella politica di intervento coloniale inglese nel continente Latinoamericano; la nascita della repubblica-fantoccio del Rio Grande do Sul, rientrava nel processo di controllo e consolidamento del flusso commerciale e finanziario di Londra verso e da il bacino del Rio de la Plata; la regione economicamente più interessante per la City. Escludere l’impero brasiliano dalla regione era una carta strategica da giocare, perciò Londra, tramite anche Garibaldi, al soldo dell’Uruguay, provocò la guerra civile brasiliana. La borghesia compradora di Montevideo era legata da mille vincoli con l’impero inglese. Ivi Garibaldi svolse sufficientemente bene il suo compito. Divenne un bravo comandante militare, sia grazie ai consigli di un carbonaro suo sodale, tale Anzaldo, e sia perché si trovò di fronte i battaglioni brasiliani costituiti, per lo più, da schiavi neri armati di picche. Facile averne ragione, se si disponeva della potenza di fuoco necessaria, che fu graziosamente concessa dalla regina Vittoria. Ma alla fine la guerra fu persa, e nel 1842 Garibaldi si rifugiò in Uruguay, dove ottenne il comando della insignificante flotta locale. “Il diplomatico inglese William Gore Ouseley lo assolda assieme ad altri marinai per fare razzie e impedire i traffici marini degli stati latinoamericani. Erano tutti vestiti con camicie rosse.”  Tentò di pubblicare il Legionario Italiano, ma la sua distribuzione venne vietata in Uruguay: si era attirato l’odio della popolazione locale; per i continui massacri di inermi cittadini veniva visto come il demonio. E’ grazie agli articoli di quel giornale, da lui stesso pubblicato, che nacque la leggenda dell’Eroe dei due mondi. Tra l’altro, l'anticlericale Garibaldi, nel 1847 scrisse al cardinal Gaetano Bedini, nunzio in Brasile, per “offrire a Sua Santità (Pio IX) la sua spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa cattolica” ricordando “i precetti della nostra augusta religione, sempre nuovi e sempre immortali” pur sapendo che “il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. La sua proposta di mettersi al soldo del cupolone venne respinta. Qualche anno dopo, l’eroe dei due mondi venne richiamato a Londra, distogliendolo dal suo ameno lavoro: il trasporto di coolies cinesi, ovvero operai non salariati, da Hong Kong alla California. La carne cinese era richiesta dal capitale statunitense per costruire, a buon prezzo, le ferrovie della West Coast. Garibaldi si prodigava nel fornire l’‘emancipazione’ semischiavista agli infelici cinesi, in cambio di congrua remunerazione dai suoi presunti ammiratori yankees. Coloro che richiesero l’intervento di Garibaldi, in Sicilia, effettivamente furono due siciliani, Francesco Crispi e Giuseppe La Farina. Crispi venne inviato a Londra, presso i suoi fratelli di loggia, per dare l’allarme al gran capitale inglese: Napoli stava trattando con una azienda francese per avviare un programma per meccanizzare, almeno in parte, le miniere e la produzione dello zolfo. Il progettato processo di modernizzazione della produzione mineraria siciliana, avrebbe alleviato il popolo siciliano dalla piaga del lavoro minorile semischiavistico delle miniere di zolfo. Ma i baroni proprietari delle miniere, stante l’alto margine di profitto ricavato dal lavoro non retribuito, e timorosi che l’interventismo economico della ‘arretrata amministrazione borbonica’, potesse sottrarre loro il controllo dell’oro rosso, decisero di chiedere l’intervento britannico, allarmando Londra sul destino delle miniere di zolfo. Non fosse mai che lo stolto Luigi Napoleone potesse controllare il 90% di una materia prima necessaria alle macchine e alle fornaci del capitale imperiale inglese. Tutto ciò portò alla chiamata alle armi del loro eroe dei due mondi. E i ‘carusi’ delle miniere solfifere devono ringraziare Garibaldi, e i suoi amici anglo-piemontesi, se la loro condizione semischiavista si è protratta fino agli anni ’50 del secolo scorso. Le due navi della Rubattino, della Spedizione dei Mille, arrivarono a Marsala l’11 maggio 1860. Ad attenderli non vi erano unità della marina napoletana o una compagnia del corpo d’armata borbonico, forte di 10000 uomini, stanziata in Sicilia e comandata dal Generale Landi. In compenso era presente una squadra della Royal Navy, la Argus e l‘Intrepid, posta nella rada di Marsala, a vigilare affinché tutto andasse come previsto. I 1089 garibaldini, di cui almeno 19 inglesi. In realtà, erano solo l’avanguardia del vero corpo d’invasione; tra giugno e agosto, infatti, sbarcò in Sicilia un’armata anglo-piemontese di 21000 soldati, per lo più mercenari anglo-franco-piemontesi, che attuarono, già allora, la tattica di eliminare qualsiasi segno di riconoscimento delle proprie forze armate. Il corpo era costituito, in maggioranza, da carabinieri e soldati piemontesi, momentaneamente posti in congedo o disertori riarruolati come volontari nella missione d’invasione, e anche da qualche migliaio di ex zuavi francesi, che avevano appena esportato la civiltà nei villaggi dell’Algeria e sui monti della Kabilya. Anche nei pressi di Pachino, sbarcò un piccolo corpo di spedizione garibaldino, costituito da 150 uomini, che trasportavano in Sicilia i quattro cannoni acquistati a Malta dagli sponsor inglesi dell’invasione. Inoltre, erano presenti dei veri e propri volontari/mercenari, finanziati per lo più dall’aristocrazia e dalla massoneria inglesi; si trattava di un misterioso reggimento di uomini in divisa nera, comandati da tal John Dunn. Infine, i 21000 invasori furono protetti da ben quaranta tra vascelli e fregate della Mediterranean Fleet della Royal Navy. Il primo scontro a fuoco, tra garibaldini e l’8.vo battaglione cacciatori napoletani, del 15 maggio, si risolse ufficialmente nella sconfitta di quest’ultima. Fatto sta che nella breve battaglia di Calatafimi, a fronte delle perdite dell’esercito napoletano, che ebbe una mezza dozzina di feriti, i garibaldini vennero letteralmente sbaragliati, subendo circa 30 morti e 100 feriti. In realtà, nella mitizzata battaglia di Calatafimi, i soldati napoletani che cozzarono con l’avventuriero Garibaldi dovettero sì abbandonare il campo, ma perché il comandante di Palermo, generale Landi, aveva loro negato l’invio di rifornimenti e di munizioni, costringendo la guarnigione borbonica non solo a smorzare l’impeto con cui affrontarono i garibaldini, ma anche ad abbandonare il terreno, quindi, lasciando libero Garibaldi nel proseguire l’avanzata su Palermo. L’armata di Landi, di circa 16000 uomini, era accampato nei pressi di Calatafimi, ma il generale napoletano preferì ritirarsi e rinchiudersi a Palermo. A Palermo, il 28 maggio 1860, dopo due gironi di scontri presso Porta Termini, nell’allora periferia della capitale siciliana, contro un centinaio di soldati napoletani, i garibaldini entrarono in città. Il comandante della guarnigione borbonica, Generale Lanza, sebbene avesse il comando di ben 24000 uomini e fosse sostenuto dall’artiglieria della pirofregata Ercole, li fece invece asserragliare nel palazzo del governatore, e quando parte delle truppe napoletane respinsero i garibaldini, arrivando a cento metri dal posto di comando di Garibaldi, ricevettero l’ordine di ritirata dal Lanza stesso, che l’8 giugno decise di consegnare la città agli anglo-garibaldini. Contribuì alla decisione, probabilmente, la consegna da parte inglese di un forziere carico di piastre d’oro turche. La moneta franca del Mediterraneo. Il 31 maggio, a Catania, sebbene i garibaldini occupassero la città, nell’arco di ventiquattrore vennero sloggiati dalle truppe napoletane comandate da Ruiz-Ballestreros. Ma anche costui ricevette l’ordine di ritirata dal comandante della piazza di Messina, generale Clary, che a sua volta, col pieno appoggio del corrotto e fellone ministro della guerra di Napoli, Pianell, abbandonò Messina il 24 luglio. Rimase a resistere la cittadella, che cadde quando cedette anche Gaeta. L’avanzata dei garibaldini, rincalzati dal corpo d’invasione che li seguiva, incontrò un ostacolo quasi insormontabile presso Milazzo. Qui, il 20 luglio, la guarnigione napoletana impose un pesante pedaggio ai volontari di Garibaldi. Infatti la battaglia di Milazzo ebbe un risultato, per Garibaldi, peggiore di quella di Calatafimi. A fronte dei 120 morti tra i napoletani guidati dal Colonnello Beneventano del Bosco, le ‘camicie rosse’ al comando del primo luogotenente di Garibaldi, Medici, subirono ben 800 caduti in azione. La guarnigione napoletana si ritirò, in buon ordine e con l’onore delle armi da parte garibaldina! Ma solo quando, all’orizzonte sul mare, si profilò una squadra navale anglo-statunitense, con a bordo una parte del vero e proprio corpo d’invasione mercenario, e dopo che la pirocorvetta ex-napoletana Veloce, ribattezzata Tukory, al comando del disertore Amilcare Anguissola, bombardasse parte delle truppe napoletane schierate sulla spiaggia. Inoltre, le navi napoletane, lasciarono che il corpo anglo-piemontese sbarcasse alle spalle della guarnigione nemica di Milazzo. Va sottolineato che i vertici della marina borbonica, come quelli dell’esercito napoletano, erano stati corrotti con abbondanti quantità di oro turco e di prebende promesse nel futuro regno unito sabaudo. Così si spiega il comportamento della marina napoletana, che alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, sequestrò una nave statunitense carica di non meglio identificati soldati (i notori mercenari), ma che subito dopo la rilasciò. Così come, nello stretto di Messina, la squadra napoletana (pirofregata Ettore Fieramosca, pirocorvette L’Aquila e Fulminante) evitò di ostacolare, ai garibaldini, il passaggio del braccio di mare, permettendo a Garibaldi e a Bixio, a bordo dei piroscafi Torino e Franklin (battente bandiera statunitense), di sbarcare il 18 agosto, a Mileto Porto Salvo, in Calabria. La guarnigione di Reggio si arrese senza sparare un colpo, mentre il generale napoletano Briganti venne fucilato a Mileto dalla sua truppa, per fellonìa. Dal reggino in poi, fu una corsa fino all’entrata ‘trionfale’ a Napoli, dove Garibaldi fece subito assaggiare il nuovo ordine savoiardo: i suoi ufficiali fecero sparare sugli operai di Pietrarsa, poiché si opponevano allo smantellamento delle officine metalmeccaniche e siderurgiche fatte costruire dall'arretrata amministrazione borbonica. Certo, il regno delle Due Sicilie era fu reame particolarmente limitato, almeno sul piano della politica civica, ma nulla di eccezionale riguardo al resto dei regni italiani. Di certo fu che la monarchia borbonica, dopo il disastro della repressione antiborghese della rivoluzione partenopea del 1799, avviò una politica che permise il prosperare, nell’ambito della proprio apparato amministrativo e di governo, degli elementi ottusi, malfidati e corrotti. Condizione necessaria per poter perdere, in modo catastrofico, la più piccola delle guerre. In seguito ci fu la battaglia del Volturno, già perduta dai borbonici, poiché presi tra due fuochi: i mercenari di Garibaldi a sud e l’esercito piemontese a nord. E quindi l’assedio di Gaeta e Ancona, e poi la guerra civile nota come Guerra al Brigantaggio. Una guerra che costò, forse, 300000 vittime. Prezzo da mettere in relazione con i 4000 morti, in totale, delle tre Guerre d’Indipendenza italiane. Solo tale cifra descrive la natura reale del processo di unificazione italiana. La Sicilia, in seguito, venne annessa con un plebiscito farsa; poi nel 1866 scoppiò, a Palermo, la cosiddetta Rivolta del Sette e mezzo, che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti si riscattò dalla sconfitta di Lissa, subita qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Poco dopo esplose, a Messina, una catastrofica epidemia di colera, la cui dinamica stranamente assomigliava alla guerra batteriologica condotta dagli yankees contro gli indiani nativi d’America. Migliaia e migliaia di morti in Sicilia. Tralasciamo di spiegare il saccheggio delle banche siciliane, che assieme a quelle di Napoli, rimpinguarono le tasche di Bomprini e di altri speculatori tosco-padani, ammanicati con le camarille di Rattazzi e Sella; la distruzione delle marineria siciliana; lo stato di abbandono della Sicilia per almeno i successivi 40 anni; la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori siciliani; l’emigrazione epocale che ne scaturì. Infine un novecento siciliano tutto da riscrivere, dall’ammutinamento dei battaglioni siciliani a Caporetto alle vicende del bandito Giuliano, uomo forse legato al battaglione Vega della X.ma MAS, e che fu al servizio degli USA e del sionismo; per arrivare alla vicenda del cosiddetto Milazzismo e a una certa professionalizzazione dell'antimafia (che va a braccetto con quella di certo antifascismo) dei giorni nostri. Garibaldi, una volta sistematosi a Caprera, aveva capito che la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, non gli avrebbero perdonato ciò che gli aveva fatto. Rendiamoci conto di una cosa; Garibaldi non agiva in quanto massone, ma in quanto agente dell’impero inglese. Tra l’altro come afferma Lucy Riall, Garibaldi era una aderente alla setta cristologica di Saint Simon. Ora, come spiega benissimo lo Storico dell’Economia Paul Bairoch, la setta cristologica (nemica del papato) guidata dal guru Saint Simon, aveva come scopo occulto il favoreggiamento dell’imperialismo londinese. Nel saggio di Bairoch, Economia e Storia Mondiale Garzanti, a pag. 38 si può leggere: “Quel che i protezionisti francesi (…) chiamarono Coup d’état fu rivelato da una lettera di Napoleone III al suo ministro di stato. Ciò rese pubblici i negoziati segreti, che erano cominciati nel 1846, con l’incontro a Parigi tra Richard Cobden (apostolo inglese del libero scambio, legato all’industria inglese) e Michel Chevalier, seguace di Saint Simon e professore di economia politica. Il trattato commerciale tra Inghilterra e Francia venne firmato nel 1860 (notare la data), e doveva durare 10 anni. Fu trovato il modo di eludere la discussione al parlamento (francese), che probabilmente sarebbe stata fatale per il progetto di legge. Perciò un gruppo di teorici riuscì a introdurre il libero scambio in Francia e, di conseguenza, nel resto del continente, contro la volontà della maggior parte di coloro che guidavano i diversi settori dell’economia. La minoranza a favore del liberoscambismo, che era energicamente sostenuta da Napoleone III (un vero utile idiota, NdR), il quale era stato convertito a questa dottrina durante le sue lunghe permanenze in Inghilterra e che vedeva le implicazioni politiche del trattato. Il trattato anglo-francese, che fu rapidamente seguito da nuovi trattati tra la Francia e molti altri paesi, condusse a un disarmo tariffario dell’Europa continentale… Tra il 1861 e il 1866, praticamente tutti i paesi europei entrarono in quella che fu definita ‘la rete dei trattati di Cobden’.” Garibaldi, seguace della setta di SaintSimon, a sua volta legata ai circoli dominanti inglesi, effettuò l’azione contro il Regno delle Due Sicilie, con il preciso scopo sia di possedere un’Isola (la Sicilia) strategica sia sul piano geo-economico che geo-strategico, ma anche di eliminare un concorrente, Napoli, che aveva le carte in regola per non cadere nella rete di Cobden. Il resto, sulle gesta di Garibaldi, dell’assassino schiavista Nino Bixio, ecc., è solo fuffa patriottarda italidiota.

Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive “Cumasch”. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc.. La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.

La legge Pica del 1863, ovvero la “licenza di uccidere i meridionali”, scrive Giovanni Pecora. Secondo il re sabaudo Vittorio Emanuele II dall’Italia meridionale si “alzava un grido di dolore” che lui, notoriamente di buon cuore e generoso, non poteva non ascoltare. E così mandò avanti Garibaldi con i suoi Mille improbabili liberatori che, a suo avviso, sarebbero bastati per accendere il fuoco della ribellione al tiranno Borbone. Ed in effetti all’inizio fu così, e molti cittadini di idee liberali accolsero Garibaldi come un angelo liberatore, mentre molti ufficiali dell’esercito borbonico, precedentemente comprati dall’opera di intelligence posta in essere segretamente da Cavour, facevano in modo che i soldati di re Francesco II non ostacolassero in alcun modo l’invasione e gli insorti. Bastarono poche settimane per far comprendere ai liberali ed al popolo meridionale che Garibaldi non veniva a portare la libertà, ma semplicemente a sostituire un re con un altro re. Ma ormai era troppo tardi, perchè a consolidare la conquista del Regno delle Due Sicilie erano già arrivati i bersaglieri ed i fanti dell’esercito piemontese, che prima sparavano e poi controllavano chi avessero davanti, fossero anche donne, bambini o vecchi inermi. Per la retorica risorgimentale i “fratelli d’Italia” ci abbracciavano per liberarci dal medioevo borbonico. Francamente già posta in questi termini sembrerebbe più un’amara barzelletta che altro, visto che per mille versi il Regno delle Due Sicilie era almeno vent’anni avanti rispetto al resto d’Italia, Piemonte compreso. E questo era ed è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare le pubblicazioni del tempo ed i documenti originali, e non i libri falsificati dalla retorica risorgimentale. Ma a volte, proprio per evitare che appaia un racconto di parte, è addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che scrivono e dicono testi che non possono certamente essere definiti “filo-meridionalisti”.

I FATTI. Nel 1863, dopo già ben due anni erano passati di presunti “baci ed abbracci” con i meridionali liberati, il clima era talmente “idilliaco” qui al Sud che il governo neo-italiano ha dovuto far promulgare al re sabaudo lo stato d’assedio per le regioni meridionali, autorizzando così la sospensione delle leggi civili ed il passaggio al codice penale di guerra. Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abruzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.

E ci vollero ben ancora almeno sette anni per piegare definitivamente tutte le sacche di resistenza dei partigiani lealisti al re Borbone sulle montagne abruzzesi, lucane, campane, pugliesi, calabresi, e siciliane. Basterebbe questo per capire l’enorme montagna di menzogne che ha accompagnato per 150 anni la storia del risorgimento italiano. Altro che “fratelli d’Italia”… Poi ci testimonianze – involontarie – che veramente sono al di sopra di ogni sospetto, come ad esempio quelle tratte dal sito dell’Arma dei Carabinieri, “fedelissima” per definizione al re Savoia. Ecco cosa si legge nel sito ufficiale dell’Arma: “La legge Pica permise la repressione senza limiti di qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato d’assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone, complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte marziale. Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto di diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi“. Non c’è bisogno di alcun commento, mi pare. Vediamo allora cosa invece scrive Wikipedia, l’enciclopedia online, a proposito della legge Pica: “La legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento della Destra storica e fu promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge fu più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era porre rimedio al brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza.

Contesto preesistente. Il provvedimento legislativo seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d’assedio nelle province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862. Con lo stato d’assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell’autorità militare al fine di reprimere l’attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall’esercito, senza formalità di alcun genere. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». Per contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più l’applicazione della pena di morte per i reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l’obiettivo di colmare questo “vuoto”, sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari.

Brigantaggio e camorrismo. La legge Pica, il cui titolo era Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, si attesta come la prima disposizione normativa dello stato unitario in cui viene contemplato il reato di camorrismo. Oltre ad introdurre il reato di brigantaggio, infatti, la legge 1409/1863, disciplinò in tema di ordine pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse della nascente criminalità organizzata. Inoltre, la legge Pica introdusse, per la prima volta, la pena del domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti, come antesignana dell’ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che caratterizzerà il XX secolo. Legiferando, però, su proto-mafie e brigantaggio attraverso un’unica norma, il parlamento italiano accostava impropriamente il mero banditismo all’attività di brigantaggio politico propria della resistenza partigiana antiunitaria e legittimista.

Le disposizioni normative. In applicazione della legge Pica, dunque, venivano istituiti sul territorio delle province definite come “infestate dal brigantaggio” (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863) i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Le pene comminate ai condannati andavano dall’incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre coloro che non si opponevano all’arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio. La legge prevedeva, inoltre, la condanna al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, fino ad un anno di reclusione. Nelle province definite “infette”, venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d’arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l’iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d’accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata. La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa. Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo assente sull’isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare, l’obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l’occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di “responsabilità collettiva”.

Contesto sociale e politico. Già durante la fase di discussione, fu avanzata l’ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì investire nell’impiego delle forze armate. In generale, infatti, la lotta al Brigantaggio, impegnò un significativo “contingente di pacificazione”: inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell’allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila. Dunque, nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal proposito, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva:  «Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti». La legge Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali: per effetto della legge 1409/1863 e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Nonostante tale rigore, la legge Pica non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi: l’attività insurrezionale e il brigantaggio, infatti, perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.

CONCLUSIONE.

L’agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele venne affisso in tutte le città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge Pica contro il “brigantaggio”. Praticamente l’autorità militare assumeva il governo delle province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora più  acre e feroce di quanto non fosse stata fin allora. La legge Pica rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché il cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale Militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva essere stroncata “col ferro e col fuoco!”. Per effetto della legge Pica, a tutto il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55, ai lavori forzati a vita 83, ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi 576, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe fino all’inverosimile“. (Ludovico Greco,”Piemontisi, Briganti e Maccaroni” – Guida Editore, Napoli, 1975).

Renzi si indigna: «Un regalo squallido». Però i veri antisemiti stanno a sinistra. Il premier condanna l'iniziativa con un tweet ipocrita Ma il 25 aprile la Brigata ebraica fu cacciata dal corteo, scrive MMO, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". «Trovo squallido che un quotidiano italiano regali oggi il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio affettuoso alla comunità ebraica. #maipiù». Così Matteo Renzi su Twitter va all'attacco del Giornale per la scelta di regalare il Mein Kampf con il primo volume della collana sulla storia del Terzo Reich. Ma il cinguettio del premier suona ipocrita, considerato che proprio nella sinistra italiana c'è un problema irrisolto - e difficilmente dichiarato - con l'antisemitismo, come testimoniano le puntuali quanto vergognose contestazioni della Brigata ebraica ai cortei del 25 aprile (salutati al grido di «assassini» e «fascisti» a Milano poco più di un mese fa), per dirne una.

Il capogruppo di Forza Italia di Quarrata Ennio Canigiani ci scrive (La voce di Pistoia del 22 aprile 2016): "Si resta sbalorditi difronte alla notizia diffusa ieri dalla stampa secondo cui un coro di 50 bambini della scuola elementare Casa degli Angeli Custodi di Agliana, canterà l’inno partigiano 'Bella Ciao' durante le celebrazioni del 25 aprile, in programma all’auditorium di Pistoia. Niente in contrario a cantare una canzone che evoca le gesta di eroici partigiani se questa viene intonata da un gruppo di nostalgici combattenti, ma far cantare una canzone che certamente è un simbolo politico di parte a dei bambini per di più di una scuola che si rifà alla dottrina cristiana, è veramente incredibile. La guerra di liberazione ci riporta ormai a un’epoca triste che ha visto lo stesso popolo italiano diviso e lacerato al suo interno, una pagina violenta e triste della nostra storia. Oggi, a distanza di 70 anni, c’è bisogno di un ricordo e di valori condivisi, non è accettabile che vi sia chi ancora profonde ideologie a mani piene, usando dei piccoli innocenti e riaprendo vecchie ferite. Un ultimo pensiero va alla scuola elementare degli Angeli Custodi di Agliana: possibile che una istituzione cattolica come essa è, non abbia trovato una canzone diversa per celebrare questo avvenimento? Tra le centinaia di canzoni di ispirazione cristiana, non ce n'era una che inneggiasse alla fratellanza e all’amore?".

Olocausto provocato dai Nazisti e dai fascisti? Una menzogna a metà. Si censura la parte riguardante i comunisti. Dustin Hoffman choc: "I miei parenti ebrei uccisi dai comunisti". Nel corso di uno show, il premio Oscar ha scoperto il tragico passato della sua famiglia ucraina, vittima della polizia sovietica e dei gulag, scrive Eleonora Barbieri, Sabato 12/03/2016, su "Il Giornale". «Questa è una storia terribile, non è una bella cosa da raccontare ai bambini...». Sarà anche per questo che Dustin Hoffman ha dovuto aspettare fino a 78 anni, per scoprire la verità sulla storia della sua famiglia. Su quel nonno e quei bisnonni di cui suo padre Harry non gli aveva mai parlato, sui quali aveva come eretto un muro. Dietro quel muro c'era la tragedia di un popolo e di un mondo, e anche di una famiglia intera e di un ragazzo in particolare: perché il nonno Frank e il bisnonno Sam Hoffman sono stati sterminati in Russia, anzi in Unione Sovietica, nei primi anni dopo la Rivoluzione; e la bisnonna, Libba, è stata imprigionata in un gulag per cinque anni, prima di riuscire a fuggire e arrivare sull'altra sponda dell'oceano, prima in Argentina e poi, finalmente, a Ellis Island. Era il 1930, Libba Hoffman aveva già 62 anni. I referti medici dicono: affetta da «demenza senile». La donna aveva perso il braccio sinistro, era quasi cieca. Era sopravvissuta a un campo di sterminio, di quelli che servivano a punire i nemici della Rivoluzione. Perché i signori Hoffman erano ebrei. Oggi Hoffman lo dice: «Sono ebreo... Sì, sono ebreo». Ha scoperto tutto grazie a una trasmissione televisiva della Pbs, Finding Your Roots, letteralmente «Scoprendo le tue radici». Ed è stato in diretta, l'altra sera, mentre il conduttore Henry Louis Gates Jr gli raccontava che cosa avevano scoperto sulla sua bisnonna coraggiosa e indistruttibile, che l'attore si è messo a piangere: «Loro sono sopravvissuti perché io fossi qui». La bisnonna Libba era, semplicemente, «un'eroina». Una donna che a 53 anni aveva visto sparire, nel giro di pochi mesi, il figlio e il marito. Era andata così: Frank Hoffman si era già trasferito in America, a Chicago, dall'Ucraina, il suo paese d'origine. Però poi gli erano arrivate le notizie di quei pogrom, quei massacri in cui finivano gli ebrei, ed era accaduto anche a Belaya Tserkov, la sua città. Perciò Frank Hoffman, che in America aveva una vita e anche un figlio (cioè il padre di Dustin Hoffman) era tornato a casa, per salvare i suoi genitori. Tempo di rimettere il piede in patria ed era sparito. Qualche mese dopo, lo stesso destino era toccato al padre Sam. Entrambi erano stati arrestati e poi uccisi dalla Ceka, la polizia segreta dei bolscevichi. Libba non si era data per vinta. Come racconta un trafiletto in un giornale russo del 1921, Libba aveva cercato di corrompere un agente della Ceka, probabilmente per sapere qualcosa del destino del marito e del figlio: e così era finita in una campo di concentramento. Anche se aveva già più di cinquant'anni, Libba era riuscita a sopravvivere. Il lavoro duro, le sofferenze, le condizioni di vita estreme non l'avevano piegata, nonostante tutto. Era fuggita in Argentina. E poi era arrivata in America, a Chicago, dove era morta nel 1944, a 76 anni. Di tutto questo, di questa storia di sacrifici e dolore e separazioni che è intrecciata a una storia molto più grande e altrettanto terribile, Dustin Hoffman non sapeva niente. «Mio padre era ateo» ha raccontato l'attore. Di ebraismo non si parlava, di religione non si parlava in casa sua. Non si parlava, soprattutto, della famiglia paterna, con la quale «non c'erano rapporti» (i suoi si erano trasferiti a Los Angeles). Oggi lui prova a capire. Quelle lacrime che significano? Commozione, certo. «Orgoglio», come ha detto lui, per una donna, la sua bisnonna, che ha dato la vita e anche di più per essere libera, e non si è lasciata piegare dall'orrore, dalla dittatura, dalla perdita dei suoi amori. Anche affetto per il padre, quello che aveva eretto un muro di dimenticanza: «Forse era semplicemente che non voleva fare sapere ai bambini, alla famiglia, perché è tutto così atroce. Magari mio padre, chi lo sa, ha pianto, si è aggrappato alle gambe di suo padre, gli ha gridato: Ti prego, papà, non andare... Povero papà». Oggi, dice Hoffman, «a chi mi chiede: chi sei?, rispondo: sono un ebreo». Certe parole vanno esibite, «portate sulla manica». Bisogna «fare un annuncio», scoprirle, come certe verità di famiglia, anche se non sono delle belle favole da raccontare ai bambini.

"Questa è la democrazia dei rossi, non ci fate ridere ma pena". A scriverlo su Twitter l’1 marzo 2016 è Matteo Salvini dopo la contestazione a Bologna da parte dei soliti "rossi" che hanno appeso il manichino che lo ritrae con tanto di maglietta verde padano a testa all'ingiù come Mussolini.

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

IL GIORNO DEL RICORDO DEGLI SMEMORATI.

Mattarella condanna le foibe. Ma l'eccidio ancora divide. Il capo dello Stato commemora la strage. La Appendino prima nega i cortei, poi è costretta a fare dietrofront, scrive Gian Maria De Francesco, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". «Anche le foibe e l'esodo forzato furono il frutto avvelenato del nazionalismo esasperato e della ideologia totalitaria che hanno caratterizzato molti decenni nel secolo scorso». Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua dichiarazione in occasione del Giorno del ricordo, che si celebra oggi, ha speso belle parole per commemorare l'eccidio dei nostri connazionali giuliano-dalmati da parte delle milizie titine. Anzi, ha fatto di più evidenziando come le foibe facciano «parte, a pieno titolo, della storia nazionale e ne rappresentino un capitolo incancellabile, che ci ammonisce sui gravissimi rischi del nazionalismo estremo, dell'odio etnico, della violenza ideologica eretta a sistema». Il capo dello Stato ha voluto ribadire senza se e senza ma che la mattanza della Venezia Giulia deve far parte della memoria condivisa degli italiani proprio contro coloro che bollano ancor oggi quelle vittime come «fascisti che dovevano essere giustiziati» o che cercano di minimizzare la portata dell'evento. Nelle parole di Mattarella, però, hanno pesato anche i fatti di Macerata e la montante insofferenza verso l'ondata migratoria la cui pessima gestione ha reso difficile la convivenza nelle nostre città. Il presidente della Repubblica, ovviamente, ha voluto volare alto, sintetizzando con l'espressione «nazionalismo estremo» l'insieme delle cause di violenze e discriminazioni su base etnica. A farne le spese, purtroppo, non è solo il Giorno del ricordo che squarcia il velo agiografico della lotta partigiana (i titini, infatti, avevano l'appoggio di collaborazionisti italiani) cercando di costruire l'utopia di una memoria condivisa, ma anche una certa idea di patriottismo. Oggi l'ideologia comunista e «internazionalista» è un cimelio rispettato e venerato. Non altrettanto può dirsi del sentimento di amor patrio. E non solo perché la Venezia Giulia, insieme a Trento, era il lascito della vittoria italiana della Grande Guerra, ma perché nel 2018 potrebbe essere altrettanto decisivo celebrare un'«italianità» intesa non come folclore ma come amor patrio. Quello dei caduti nelle foibe, infatti, non era meno sincero di quello delle vittime delle stragi nazifasciste. E, invece, ieri è toccato assistere a una sequela di episodi imbarazzanti. Il sindaco M5S di Torino, Chiara Appendino, ha prima negato e poi concesso l'autorizzazione ad alcune manifestazioni con il risultato che estrema destra e antifascisti sfileranno ognuno per conto proprio. La stessa cosa accadrà a Roma dove, però, il sindaco Raggi organizzerà una cerimonia in Campidoglio. A Milano, invece, il sindaco Giuseppe Sala non sarà alla commemorazione e invierà l'assessore alla Partecipazione, il radicale Lorenzo Lipparini. «Neanche quest'anno il Comune poserà il monumento alle vittime delle foibe e agli esuli: è da tre anni che li prende in giro», ha chiosato il consigliere regionale Fdi, Riccardo De Corato. Situazioni che fanno il paio con l'autorizzazione negata dalla città pisana di Pontedera a un comizio elettorale di Fratelli d'Italia, giudicata a torto da alcuni una formazione incostituzionale anziché un partito uguale gli altri. «Resta la sensazione che ci siano caduti e cerimonie di serie B», ha chiosato ieri il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, denunciando «troppe distrazioni, troppe sottovalutazioni e intollerabili iniziative negazioniste». Se si giustifica il cortocircuito logico nazionalismo-razzismo-fascismo, se si collegano le foibe con Macerata, se si continua a pensare che le idee giuste stiano da una parte sola, quella che predica accoglienza e integrazione (e poi non vuole i migranti nella radical chic Capalbio), non solo si tradisce il ricordo di 20mila vittime e di 250mila esuli, ma si alimenta quella guerra civile strisciante che dura da 70 anni.

Perché il loro è ancora un olocausto di serie B? Scrive Giannino Della Frattina, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". È storia dolorosissima e piuttosto nota, ma mai abbastanza ricordata quella di una terribile edizione dell’Unità, il quotidiano che per decenni si è vantato già nella testata di essere stato fondato da Antonio Gramsci e che in quell’uscita in edicola del 30 novembre 1946, scriveva: «Ancora si parla di “profughi”: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi». L'«alito di libertà», secondo i compagni dell'Unità, era quello degli aguzzini del maresciallo Tito la cui pulizia etnica veniva bonariamente definita «avanzata di eserciti liberatori», mentre «gerarchi, briganti neri» erano definiti gli italiani costretti a fuggire dalle torture e dalla morte nell'orrore delle foibe. Una terribile follia, quella dei giornalisti comunisti (che almeno allora avevano il coraggio di definirsi tali), della quale nessuno ha mai nemmeno sentito il bisogno di chiedere scusa. Una delle pagine più disgustose della sinistra italiana che fa il paio con il Treno della vergogna, quello che nel 1947 portò ad Ancona gli esuli scappati da Istria, Quarnaro e Dalmazia. Con i ferrovieri che lo ribattezzarono «treno dei fascisti» e lo presero a pietrate alla stazione di Bologna. Tanti anni sono passati, il comunismo è stato sepolto dagli stessi comunisti che oggi sono i primi a vergognarsene e agli esuli istriani e dalmati è stata dedicata per legge il Giorno del ricordo. Ma il loro rimane lo stesso un olocausto di serie B. Nessuno oggi dice più che si sono meritati quelle morti orribili e neppure che erano tutti fascisti, ma insomma un po' di pregiudizio resta. Ed è facile dimostrarlo, basta pensare alle cerimonie per ricordare il loro sacrificio e l'orrore comunista. Troppo spesso i sindaci di sinistra (come a Milano Giuliano Pisapia) non ci vanno molto volentieri o addirittura non ci vanno proprio, preferendo inviare al loro posto un delegato del Comune. Un modo per far morire di nuovo i loro cari, per rubargli un'altra volta casa, affetti e patria abbandonati in una notte per evitare lo sterminio che è toccato a tanti di loro o lo strazio delle carni che ha fatto di Norma Cossetto il simbolo eterno di quelle sevizie. Perché le parole (non dette) possono ferire quanto le pallottole. Ci pensi quest'anno il sindaco Giuseppe Sala. Questi nostri fratelli hanno giù sofferto abbastanza per il solo fatto di essere italiani. I comunisti non ci sono più, loro invece ci sono ancora. Con tutto il loro orgoglio.

GLI ORRORI DELLE FOIBE, LA MEMORIA CONDIVISA CHE MANCA. Scrive Saverio Paletta il 9 febbraio 2018 su "L'Indygesto.it". I titini commisero verso gli italiani gli stessi crimini compiuti verso molti jugoslavi, avversari o non politicizzati. Guerra antifascista? Proprio no, è solo ciò che vuol fare credere una certa sinistra, vecchia, becera ed estrema. Ma il ricordo dei profughi giuliano-dalmati deve essere una memoria condivisa. Non può restare una prerogativa della destra e uno spot neofascista. Sanremo, evidentemente, ci ha distratti un po’ tutti. Altrimenti ci saremmo accorti che nell’agenda politica c’è il dibattito sul giorno del ricordo dedicati ai profughi giuliano-dalmati, istituito 14 anni fa su iniziativa dell’allora deputato di An Roberto Menia (l’unica iniziativa seria che si ricordi di lui in quasi 20 anni di attività parlamentare, iniziati nel Msi e terminati in Fli). Ci saremmo accorti che quest’iniziativa (sacrosanta) anziché stimolare la riflessione e aprire un dibattito serio in direzione di una memoria condivisa, sta prendendo una piega sbagliata. Anzi, due pieghe assurde, una peggiore dell’altra. Da un lato assistiamo ai tentativi degli scampoli della destra radicale, eredi degli eredi, sicuramente poveri e un po’ degeneri, del Msi, di appropriarsi ancora del ricordo dei tragici eventi di cui furono vittime gli italiani che vivevano nella parte orientale dell’Adriatico.

Dall’altro lato siamo costretti a rivivere i rigurgiti di antifascismo di certa autonomia, che non perde occasione per scadere nella caricatura. Come se ricordare le foibe, chi c’è morto dentro e chi è scappato per paura di finirci fosse ancora una cosa di destra. Come se negare le foibe, e quindi la dignità ai morti e ai profughi, fosse un atto di difesa della democrazia e di estremo omaggio alla Resistenza. Fa davvero male apprendere dell’aggressione subita a Pavia il 7 febbraio dai cittadini che partecipavano alla manifestazione organizzata dall’associazione Recordari ad opera dei consueti “autonomi” (in questo caso anche dal cervello). E fa male sapere che, mentre ancora buona parte dell’opinione pubblica (soprattutto di sinistra) tace o nicchia, molti gruppi di destra radicale inondano le testate giornalistiche e il web di comunicati in cui annunciano questa o quell’altra iniziativa dedicata ai profughi di quasi ottant’anni fa. Come se quei profughi fossero ancora roba loro. Segno che la memoria, nel nostro Paese, collassa per eccesso e non per difetto. È la memoria miope, a sinistra, di chi non sa o non vuole vedere lontano e non ha la lungimiranza di scavare nella propria memoria e di frugare nei propri armadi per fare pulizia di quelle cose imbarazzanti che ancora ci sono e della paccottiglia ideologica che non serve più. È la memoria presbite di chi, a destra, non sa guardarsi attorno e non si accorge che il mondo è cambiato e covare odi non serve più. Certo, questo difetto visivo ha delle giustificazioni importanti. È vero, ad esempio, che per oltre quarant’anni il Msi è stata l’unica forza politica che abbia coltivato, con orgoglio e con coraggio (e, ovviamente, col calcolo politico di chi cerca consensi) la memoria di quella tragedia. Ma emanare una legge e istituire il giorno del ricordo non può e non deve significare sancire una verità di parte. Perché quei morti non hanno colori né orientamenti ma meritano tutti il rispetto che deve essere attribuito alle vittime di una violenza di massa. Come fu violenza di massa quella subita dagli ebrei. Come fu violenza di massa quella subita, nell’Europa dell’Est, da intere popolazioni. Come è violenza di massa quella che oggi cerca facili bersagli negli “altri” e nei migranti e che a stento le istituzioni riescono a trattenere. E allora val la pena riflettere su un dato. Ma per riflettere occorre, innanzitutto, cambiare le parole e, se proprio serve, puntare il dito su chi - per passione ma anche per calcolo - vuole che le parole restino quelle che abbiamo letto e ascoltato per mezzo secolo e continua a insistere su concetti come “fascismo” e “antifascismo”. Lo fanno ancora alcune fazioni dell’Anpi e dell’associazionismo partigiano. Se scaviamo a fondo, ci accorgiamo tra gli italiani giuliano-dalmati, quelli che scapparono e quelli che morirono, i fascisti erano una minoranza. Ma ci accorgiamo anche che i fascisti c’erano pure tra i croati e gli sloveni. Se scaviamo un altro po’, ci accorgiamo che, anche nel complessissimo mondo slavo dell’epoca i comunisti erano una minoranza e che nell’antifascismo slavo c’erano anche gli anticomunisti, come i monarchici di Draza Mihailovic, che furono anch’essi liquidati dai titini. Ma se scaviamo ancora di più, scopriremo una verità più elementare: il lato destro dell’Adriatico, in cui nel giro dei primi trent’anni del XX secolo c’erano state trasformazioni politiche epocali, era una polveriera di tensioni etniche, covate a lungo e spesso stuzzicate ad arte dagli imperi, asburgico e ottomano, che avevano governato quell’area. E tra queste etnie in conflitto c’era anche quella italiana. Intendiamoci: erano in conflitto, per ovvie questioni di potere e ricchezza, le élite, non la gente comune, che si limitava a condurre la propria vita, senza odiare più di tanto, come dimostra ancora il numero di famiglie “miste” e “multietiniche” che hanno saputo resistere a più di un secolo di odi. Ecco, con gli occhiali, rigorosamente bifocali, di questa consapevolezza si può vedere meglio. E allora le categorie di fascismo e antifascismo fanno un passo indietro e lasciano il posto alla verità terra terra di uno Stato, la Jugoslavia di Tito, armato fino ai denti e tutelato da Mosca, che aveva iniziato una guerra di annessione contro l’Italia, che invece in quel momento era una nazione perdente, per sottrarle porti importanti e territori ricchi. Lo Stato di Tito si fece largo a spallate sui cadaveri di qualche milione di slavi (divisti tra tutte le etnie) e a danno di circa mezzo milione di italiani: i 350mila profughi, l’imprecisato numero di massacrati e infoibati e quelli costretti ad assimilarsi. Ce n’è abbastanza per coltivare una politica dell’odio, no? Ma di questa politica dell’odio i popoli non sono colpevoli. Le colpe sono un’esclusiva di chi attizza e continua ad attizzare l’odio attraverso l’incitazione e la rimozione, che è spesso, a sua volta, un’incitazione sotto mentite spoglie. Quest’ultimo è il caso di una fetta, purtroppo ancora consistente, di certa intellighentsia italiana, che non è solo miope ma anche strabica. Ci riferiamo a quell’intellghentsia che continua a coltivare un mito acritico della Resistenza, che fu una storia grande e complessa, ma non una favola. Ma peggio ancora fanno gli epigoni di quest’intellighentsia, troppo a lungo egemone: identificano la guerra di liberazione con le istanze di una sua sola parte: quella che coltivava, in maniera più o meno inconsapevole, altri progetti totalitari che, non trovando troppo sbocco in politica, sono ristagnati nella cultura, avvelenandola fatalmente. Come meravigliarsi, allora, se il ricordo di una tragedia, anziché pacificare gli animi, diventa divisivo? Intanto, godiamoci Sanremo: qualche canzone d’amore, con questi chiari di luna, male non fa. Saverio Paletta

Nel Giorno del Ricordo delle foibe i centri sociali marciano lo stesso a Macerata, scrive "Il Secolo d'Italia" giovedì 8 febbraio 2018. Il sindaco di Macerata Romano Carancini, del Pd, ha chiesto che torni la calma in città. Stop a tutte le manifestazioni, rosse e nere. In particolare sabato era prevista una giornata bollente con in piazza la manifestazione nazionale antifascista voluta dall’Anpi e il corteo dei centri sociali. L’Anpi, con rammarico e lamenti vari, ha accolto l’appello, ma i centri sociali sono intenzionati a prendersi la piazza nonostante i divieti della questura. L’appuntamento già fissato alle 14,30 alla stazione del capoluogo marchigiano non è stato annullato. Il loro programma politico è chiaro e sbandierato in rete, nei network radiofonici e nei comunicati dei vari collettivi: impedire a “fascisti e razzisti” l’agibilità fisica.  “La lotta contro fascismo e razzismo – si legge nel comunicato del centro sociale Sisma di Macerata – è azione quotidiana, è ricostruzione costante delle condizioni che ne determinano l’inagibilità fisica, politica e culturale nelle nostre città e nelle nostre piazze”. Un programma che rievoca gli anni duri dello scontro di piazza, gli anni di piombo. All’epoca era il Msi a fare le spese di questo atteggiamento. Oggi sono le varie formazioni del centrodestra e gruppi estremisti come CasaPound e Forza Nuova.

Da sottolineare che sabato è anche il Giorno del Ricordo, quello che dovrebbe vedere l’intero Paese unito nell’omaggio agli italiani infoibati e che invece si vorrebbe capovolgere in una giornata per alimentare altro odio sociale e politico. La manifestazione degli antagonisti è dunque confermata, nella pagina Fb dell’iniziativa si legge infatti: “Nessuno può sospendere una manifestazione che in pochissimi giorni ha ricevuto appelli, adesioni ed inviti alla partecipazione da tante realtà sociali e singoli cittadini, a livello locale, come a livello nazionale. Per questa ragione confermiamo la manifestazione nazionale contro il fascismo e il razzismo di sabato 10 febbraio. Vi aspettiamo”.

Si guardi cosa ancora pensano i comunisti.

Foibe, la lunga marcia del revisionismo storico, scrive Angelo d’Orsi il 9.2.2018 su “Il Manifesto". Il revisionismo ha compiuto una lunga marcia, a partire dagli anni Sessanta, tra Francia, Germania, Italia, essenzialmente. In Italia ha riscosso notevole fortuna, e ha riguardato essenzialmente la vicenda del comunismo e del fascismo: alla squalificazione del primo, ha corrisposto, in contemporanea, il recupero del secondo. Il processo ricevé una formidabile accelerazione con «la caduta del Muro», e l’immediata sentenza di morte autoinflittasi dal Partito comunista, quando si accettò non soltanto il terreno dell’avversario ma la sua tesi di fondo: la intima natura maligna, del comunismo. Tale revisionismo estremistico toccò punte clamorose dopo l’avvento di Berlusconi, e lo «sdoganamento» della destra «postfascista» e il suo ingresso in area governativa. Il giudizio riduttivo sulla Resistenza, la banalizzazione e la successiva demonizzazione del partigianato, in specie comunista, l’equiparazione tra repubblichini e combattenti per la libertà, la retorica della memoria condivisa, e così via, condussero alla celebrazione del «sangue dei vinti». Il revisionismo giungeva così alla sua fase estrema, il «rovescismo». E qui si pone la «questione foibe», lanciata da un programma televisivo nei primi anni ‘90. Una vicenda drammatica della storia dell’Europa che tentava di risollevarsi dalla catastrofe della guerra scatenata dal nazifascismo, finiva in show ma, nella disattenzione degli apparati culturali della democrazia, generava rilevanti esiti politici e persino giuridici. Da capitolo della storia la foiba diventava un marchio propagandistico: il luogo, il simbolo, la bandiera da agitare in ogni situazione, come in passato si fece con l’Ungheria del 1956, o la Cecoslovacchia del 1968. La foiba fu il nome del martirio subìto da centinaia, migliaia, decine di migliaia (l’andamento delle cifre è grottesco) di italiani «colpevoli solo di essere italiani». Non si vuole sottovalutare la questione dell’esodo forzoso dei connazionali dalle terre del Nord-Est, che comunque va tenuta distinta da quella delle foibe. In passato, studiosi come Enzo Collotti e Giovanni Miccoli ci misero in guardia però dalla necessità di non sottovalutare il nesso tra foibe e risposta ai crimini del fascismo. Ma già da allora apparve difficile opporsi all’«operazione foibe». La foiba diventò un tabù: l’invito a riconsiderare scientificamente il problema veniva bollato con l’etichetta di «negazionismo». E nelle foibe venivano affossate le colpe della nazione italiana, che anzi ne usciva con una sorta di lavacro che le restituiva l’innocenza. La foiba diventava, al contrario, il trionfale verdetto sulle irredimibili colpe del comunismo. La storia, invece, che ci dice? Che il 1945, con le sue tragedie e le sue atrocità, fu la conseguenza di una politica italiana all’insegna di un razzismo antislavo (la «barbarie» di quella gente), fin dalla stessa origine del Regno dei serbocroati e degli sloveni, verso la fine della Grande guerra. Nell’Italia dannunziana la «Vittoria mutilata», l’impresa fiumana, furono base culturale dell’ondata antislava, che giunto Mussolini al potere, sedimentò nella pretesa di sottoporre la Jugoslavia al «protettivo» controllo italiano, tanto meglio se si fosse potuto frammentare l’unità di quei popoli faticosamente raggiunta. Il fascismo non arretrò davanti alla pulizia etnica, che nella Seconda guerra assunse le tinte fosche di una violenza inaudita, nella quale gli italiani fascisti non furono inferiori ai tedeschi nazisti. Noi fingiamo di dimenticarlo, o semplicemente lo ignoriamo; ma come si poteva pretendere che quei popoli dimenticassero? Le foibe, di cui si è volutamente e grottescamente esagerato numero e portata, sono la risposta jugoslava: e i primi a servirsi di quelle cavità per i «nemici» peraltro furono gli italiani. E il più delle volte erano tombe naturali in cui in guerra si dava sepoltura ai morti, sia le vittime di combattimenti, sia persone giustiziate, accusate di crimini di guerra: in quella situazione vi furono probabilmente anche innocenti infoibati. Ma ridurre tutta la vicenda a questo è esempio di profonda disonestà intellettuale e di un pesante uso politico della storia, tanto meglio se i fatti vengono direttamente «adattati» all’obiettivo perseguito. Che fu più chiaro, con l’istituzione, nel marzo 2004 (II governo Berlusconi), con voto condiviso dal centrosinistra, di una legge istitutiva del «Giorno del ricordo» («dell’esodo degli italiani dalle terre dalmato-giuliane dei “martiri delle foibe”»). Sabato 10 febbraio ne discutiamo in un convegno a Torino. In proposito mi limito qui a ricordare quanto scrisse un testimone d’eccezione, Boris Pahor, che giudicò che quella legge «monca, unilaterale, parla del ricordo italiano, tralascia il ricordo altrui», ossia della parte jugoslava, specificamente slovena, che ha subìto un’ampia gamma di crimini e nefandezze da parte italiana.

DALLE FOIBE A GLADIO. ECCO COME NACQUE L'ANTICOMUNISMO IN ITALIA. Scrive Saverio Paletta il 10 febbraio 2018 su “L’indygesto.it". Parla Giacomo Pacini, storico delle organizzazioni paramilitari segrete. Nazionalisti? «Sicuramente, ma, non sembri un paradosso, erano per certi versi più nazionalisti gli jugoslavi, partigiani prima e militari subito dopo, a cui si contrapponevano». Possiamo definirli patrioti? «Certamente. Perché nella brigata partigiana Osoppo, c’era di tutto: cattolici (la maggioranza) giellini, repubblicani, laici. E avevano in comune due dati: la provenienza dall’Esercito, quindi una certa preparazione militare, e l’antifascismo». Parla Giacomo Pacini. Toscano doc, storico e saggista, Pacini è uno studioso esperto di servizi segreti e organizzazioni paramilitari, a cui ha dedicato alcuni importanti volumi, tra cui Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana (Prospettiva Editori, Roma 2008) e Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991 (Einaudi, Torino 2014). L’argomento della conversazione che segue è la nascita di Gladio, il più importante (e l’unico davvero conosciuto) organismo Stay Behind in Italia. Una nascita avvenuta nel cuore della Resistenza nel momento più tragico della fine della Seconda guerra mondiale: l’invasione jugoslava dei confini orientali, col contorno di stragi di civili che ne conseguì. Al punto che oggi, dopo anni di rimozioni, c’è chi parla di pulizia etnica a danno degli italiani. Gladio, com’è noto anche grazie alle ricerche di Pacini, nacque dalla brigata Osoppo. Poi, come conseguenza della politica jugoslava, soprattutto della sua influenza sul Pci (e quindi sulla brigata comunista Garibaldi), iniziò a diventare altro. Cioè una struttura segreta armata, anche a causa delle violenze subite dagli italiani.

È corretto parlare di pulizia etnica?

«Io non mi impegnerei a dare una risposta a un tema storiografico ancora troppo dibattuto. Tuttavia si può affermare una cosa: la resistenza jugoslava rispetto alla resistenza comunista italiana era più incline a saldare l’aspetto etnico nazionale con quello marxista rivoluzionario. In parole povere, di sicuro gli jugoslavi erano più nazionalisti dei comunisti italiani e perseguivano una politica annessionista».

Quindi l’antifascismo funzionò anche da copertura per operazioni di pulizia etnica?

«Sì, ma nella misura in cui è legittimo parlare di pulizia etnica alla luce dei risultati della storiografia recente. I partigiani titini colpirono molti italiani che non erano stati fascisti né avevano avuto particolari legami politici. Ma l’aspetto ideologico dell’antifascismo, che fu un collante tra la resistenza slava e parte di quella italiana, ebbe un suo peso autonomo. A ciò si deve aggiungere anche il ruolo forte di Mosca, che fino a un certo punto, cioè fino alla rottura tra Stalin e Tito, teneva le redini del discorso. L’analisi da fare è più complessa. Al netto di tutto, resta comunque un dato incontrovertibile: per gli jugoslavi la resistenza e la lotta antifascista furono anche occasioni per risolvere a loro favore frizioni etniche plurisecolari».

Non solo nei confronti degli italiani.

«Certo, anche i croati e gli sloveni filofascisti o legati a progetti politici non jugoslavisti ebbero ripercussioni pesanti. Il panslavismo fu anche un processo di nazionalizzazione violenta».

Torniamo alla vicenda di Gladio e della brigata Osoppo e dei rapporti di quest’ultima con la brigata Garibaldi.

«Gli osovani, così si chiamavano i militanti della Osoppo, erano in prevalenza cattolici, tuttavia fino a un certo punto collaborarono con i garibaldini».

Poi il legame si spezzò.

«La diffidenza tra cattolici e comunisti c’era anche prima, ma la rottura iniziò a delinearsi a partire dall’ottobre 1944, in seguito all’incontro tra Palmiro Togliatti e Milovan Gilas, durante il quale Togliatti diede il via libera alla collaborazione tra i garibaldini e i partigiani del IX Korpus sloveno».

Una collaborazione che, in realtà, era una vera e propria subordinazione. In pratica, i comunisti fecero da quinta colonna.

«In quella fase storica fu così, purtroppo. Ma val la pena di ricostruirne in sintesi i passaggi salienti. Tutto inizia da una lettera inviata nel settembre 1943 da Edvard Kardelj a Vincenzo Bianco, delegato da Togliatti presso il Fronte di liberazione sloveno. In questa missiva Kardelj ordina la subordinazione della brigata Garibaldi al IX Korpus. Ancora oggi fa una certa impressione un passaggio piuttosto esplicito di questa lettera, in cui l’esponente titino afferma: «Difficilmente comprendo perché alcuni di voi insistano sul tema dell’italianità»».

I vertici del Pci come la accolsero?

«Rimasero perplessi: Longo e perfino Secchia, ad esempio, temevano che questa disposizione di tipo militare ma sostanzialmente politica avrebbe creato spaccature all’interno della Resistenza. Come di fatto avvenne. Alla lettera seguì l’incontro, a Bari, nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 1944 tra Togliatti e Gilas, a cui partecipò Kardelj. Quest’ultimo redasse il verbale della riunione, in cui affermava che il segretario del Pci non aveva messo in discussione «che Trieste spetti alla Jugoslavia»».

Forse perché, visto che l’iniziativa jugoslava aveva la benedizione di Mosca, non c’erano troppe alternative.

«Anche questo, certo. Va detto che non siamo in possesso della versione di questi colloqui di Togliatti anche se è nota una ulteriore lettera che egli inviò a Bianco il 18 ottobre in cui definiva positivo l’accordo con gli jugoslavi e sosteneva che il Partito Comunista doveva partecipare attivamente «alla organizzazione di un potere popolare in tutte le regioni liberate dalle truppe di Tito»».

Insomma, Togliatti cedette su tutta la linea. Ma era davvero d’accordo?

«A livello tattico sì. A livello strategico, invece, anche lui temeva che l’occupazione slava avrebbe alienato molti consensi ai comunisti».

Comunque i dissidi tra osovani e garibaldini iniziano proprio in seguito al via libera di Togliatti.

«Inevitabilmente. La scelta della Garibaldi di porsi alle dipendenze del IX Corpus costituì uno snodo cruciale nella storia della Resistenza nel Nord-Est e sarebbe stata foriera di pesanti conseguenze per il futuro della regione».

Può farsi risalire a questa fase l'idea primigenia che avrebbe poi portato alla creazione di Gladio?

«Diciamo che fu in quel momento che tra gli osovani cominciò a radicarsi la convinzione che la propria missione non si sarebbe esaurita con la sconfitta del fascismo e che, anche a guerra finita, si doveva restare armati contro un nuovo nemico: il comunismo».

Anche perché l’accordo Togliatti-Gilas non fu l’unico trauma.

«Infatti: il 7 febbraio 1945 ci fu l’eccidio di Porzus, in cui 17 osovani furono passati brutalmente per le armi dai garibaldini. A quel punto il dissidio divenne ostilità aperta; nella memoria collettiva degli osovani la strage di Porzus (partigiani che uccido altri partigiani) divenne un qualcosa di indelebile e, insieme ai successivi quaranta giorni di occupazione slava di Trieste, costituì un momento chiave nel processo che portò alla decisione di creare il complesso delle strutture anticomuniste di tipo Stay Behind»

Al punto che gli osovani, in nome dell’italianità, tentarono di accordarsi con i marò del principe Borghese?

«Si può oggi affermare con ragionevole certezza che ci fu più di un contatto. Per esempio; se il pretesto per la strage di Porzus fu un presunto incontro tra il capo osovano Bolla e uomini di Borghese in realtà mai avvenuto, è vero che di una possibile collaborazione tra osovani e marò della Decima si era discusso fin dal gennaio 1945 in un incontro riservato svoltosi a Vittorio Veneto fra il capitano Manlio Morelli della stessa X-mas e il comandante osovano Verdi (Candido Grassi). Quel progetto rimase però lettera morta. Un estremo e documentato tentativo di accordo tra Osoppo e X-mas vi fu a fine febbraio 1945 con la mediazione di Antonio Marceglia, già capitano di vascello della marina militare e noto per essere stato tra gli affondatori delle corazzate inglesi Queen Elizabeth e Valiant. Marceglia (detto in estrema sintesi) fu inviato nei territori del nord su disposizione del controspionaggio americano per preservare gli impianti del triangolo industriale dai tedeschi in ritirata e per cercare di operare al fine di favorire proprio un'intesa fra reparti dell'esercito di Salò in disfacimento, uomini della Decima e, appunto, le brigate Osoppo. L'obiettivo era creare una sorta di fronte italiano che avrebbe dovuto combattere in funzione sia antinazista, sia anticomunista e difendere l'italianità della regione da qualunque forza straniera. Ma fu tutto inutile, perché in una relazione che scrisse a fine febbraio, Marceglia sostenne che la Xmas era ormai troppo malridotta, soffriva di una eccessiva dispersione nel territorio e comunque molti dei suoi uomini non avrebbero accettato di collaborare con una formazione partigiana, seppur anticomunista. Cosa che, almeno stando ai documenti di cui disponiamo, Borghese avrebbe invece avallato».

Il peggio sarebbe arrivato con la fine della guerra.

«Fu il terzo trauma. Il primo maggio 1945 gli jugoslavi entrarono a Trieste e, come noto, vi rimasero per 40 giorni. Furono giorni terribili per i triestini, molti dei quali subirono le stesse violenze capitate agli istriani e agli abitanti della parte orientale della Carnia. In quell’occasione, c’è da dire, iniziò a maturare anche la rottura all’interno del Pci tra i fedeli alla linea jugoslava e quelli che, al contrario, presero posizione a favore dell’italianità».

I titini miravano all’annessione di Trieste.

«Miravano certamente ad annettere più territorio italiano possibile. Anche questa fretta di giungere a una conclusione spiega le violenze nei riguardi della popolazione. In ogni caso, l’occupazione jugoslava fu uno shock profondissimo per molti triestini e fece definitivamente maturare, negli osovani, l’idea di proseguire la propria attività antislava anche dopo la guerra. Infatti, a partire dal ’46, la Osoppo rinacque come struttura segreta, sotto il comando del colonnello Luigi Olivieri».

Ma anche nel campo comunista si verificò una cosa simile.

«Sì, nella storia degli organismi segreti anti-titini operanti nel Nord-Est fino ai primi anni cinquanta, vi è anche il particolare caso di gruppi armati facenti capo al rappresentante dell'ala filo-sovietica del Partito Comunista del Tlt, Vittorio Vidali, uno stalinista fedele a Mosca, già combattente nella guerra civile spagnola. Questi gruppi si tenevano in contatto coi servizi segreti militari italiani e si dichiaravano pronti a prendere la difesa dell’Italia in caso di un’altra invasione jugoslava. È una storia, questa, per certi versi ancora tutta da scrivere».

Un trauma anche per loro.

«Indubbiamente. A dare ancora più solidità a questa sorta di patto segreto anti-slavo arrivò poi la nota risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948 che sancì lo strappo fra Stalin e Tito. La spaccatura in seno ai comunisti della regione divenne a quel punto insanabile con l'ala filoslava capeggiata da Babic che uscì dal partito e fondò il cosiddetto Fronte Popolare italo-slavo. In seguito a ciò, nella Zona B sotto controllo slavo, i titini diedero inizio a una dura persecuzione verso quei comunisti istriani schieratisi su posizioni cominformiste o che avevano dimostrato sentimenti italiani. Diego De Castro (nel dopoguerra rappresentante diplomatico italiano presso il Governo Militare Alleato) ha raccontato che in quei mesi, in alcuni incontri riservati che ebbe con Vidali, questi promise che non avrebbe esitato a mettere a disposizione uomini armati qualora fosse stato necessario fermare le mire titine».

Ma a questo punto la Osoppo era già una struttura segreta consolidata di cui la Democrazia cristiana e alcuni settori militari conoscevano l’esistenza.

«E nel 1956 divenne Gladio. Ricordo che allora era ministro della Difesa l’ex partigiano Paolo Emilio Taviani».

Ma quale peso effettivo ha avuto Gladio nella storia repubblicana?

«Fu essenzialmente un deterrente. Questa struttura, inserita nel progetto Stay Behind della Nato, non fu mai operativa, perché per fortuna non ce ne fu mai bisogno. Certo, i membri di Gladio si addestravano per tenersi pronti, ma l’unico episodio bellico oggi conosciuto avvenne proprio lungo il fronte orientale e prima della nascita di Gladio. Fu un breve scontro armato coi soldati jugoslavi a Topolo, un piccolo villaggio di confine, subito dopo le elezioni del ’48».

Nel 1990 Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio e fornì una lista parziale dei suoi componenti.

«Ci si interroga ancora oggi sui motivi per cui Giulio Andreotti fece quella rivelazione e soprattutto con quelle modalità. Fu un caso unico in tutto l’Occidente. È parere ormai unanime che egli volesse tentare la corsa al Quirinale e, per farlo, cercò, anche attraverso la rivelazione di Gladio, di ingraziarsi il Pci, ma è anche vero che dando in pasto all'opinione pubblica Gladio consentì di tenere nascoste altre strutture, diverse e distinte da Gladio e che verosimilmente potrebbero aver avuto un ruolo in alcune vicende oscure della storia d'Italia».

Però a Gladio fu attribuito di tutto. Soprattutto gli si attribuì un ruolo determinante negli episodi più oscuri della strategia della tensione.

«A quasi trent’anni dalla rivelazione di Gladio, c’è un dato ormai certo: non è spuntata una prova di un suo coinvolgimento in attività eversive. Gladio, che fu composta essenzialmente da partigiani antifascisti, fu una struttura segreta a orientamento anticomunista. E questo anticomunismo si coagulò nel confine orientale d’Italia attorno alla paura del pericolo jugoslavo, una paura che continuò a lungo, soprattutto a Trieste». (a cura di Saverio Paletta)

Le altre Gladio e le altre stragi: conversazione con Giacomo Pacini, su "Parentesi Storiche" del 27 agosto 2017. A cura di Enrico Ruffino, Venezia. Giovane storico non accademico, tra i più apprezzati nel panorama nazionale, Giacomo Pacini è anche uno degli studiosi più disponibili al dialogo. Capita spesso che se hai qualche dubbio, non riesci ad associare un volto ad una persona, un fatto ad un evento, lui è sempre lì pronto a sciorinarti vita, morte e miracoli di un personaggio, associarlo ad un evento, inquadrarlo in una storia più grande. Si può dire che Pacini è una enciclopedia vivente, una risorsa preziosa per un paese che naviga nei meandri delle mezze verità, che viaggia sulla linea d’onda di ricostruzioni poco accurate che, spesso o volentieri, tralasciano alcuni scenari. Oggi gli abbiamo chiesto della sua più recente fatica, Le altre Gladio (Einaudi, 2015). Il nuovo libro di Giacomo Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia, 1943-1991 (Einaudi, 2016), ma anche di lavori in corso, appena abbozzati, per i quali non ha mancato di darci ricostruzioni preziose. Un’intervista che va letta interamente per capire cosa accade nella nostra, martoriata prima Repubblica. 

Voglio iniziare con una provocazione: sei di destra o di sinistra?

«E io voglio evitare di cavarmela con la scontata risposta: “Ma oggi cosa sono destra e sinistra?” Diciamo che mi sono sempre riconosciuto in un’area definibile di sinistra, ma mi piacerebbe una sinistra che, accanto ai pur fondamentali diritti civili, si ricordasse degli altrettanto importanti diritti sociali.  Altrimenti non ti devi stupire se vinci ai Parioli e perdi nelle periferie».

Naturalmente la provocazione non era fine a se stessa, era finalizzata al tuo lavoro su le altre gladio. Le poche critiche che hai ricevuto per quell’imponente ricerca sono provenute da sinistra, la quale ti ha additato una certa propensione al “filo-atlantismo” o “propagandismo di destra”. Personalmente, non riesco a capire perché, a fronte di un dispendioso lavoro di archivio, si cerchi ancora di valutare le grandi questioni con criteri politici. Quindi, ti domando: a cosa credi sia dovuto questo atteggiamento?

«Premesso che qualsiasi recensione, anche la più negativa, se fatta in buona fede va sempre accettata, in questo caso stiamo davvero parlando di un qualcosa di minimale. Nello specifico, una “studiosa” in una recensione on-line ha sostenuto che l’aver parlato di un alto numero di morti nelle foibe mi equiparerebbe, appunto, a certi “sfegatati propagandisti” (di destra naturalmente). Non solo, ella ha addirittura scoperto che per il mio libro mi sarei ispirato nientemeno che a un articolo uscito sulla rivista di destra Area nel 1997 (quando ancora facevo le superiori). Che dire? E’ chiaro che non si può che sorridere. Diciamo che alla recensitrice non è andato giù soprattutto il secondo capitolo del libro (e viene il sospetto abbia letto solo quello) dove trattavo dei presupposti ideologici delle organizzazioni Stay Behind, ricostruendo, tra le altre cose, la storia dell’insanabile contrasto che si creò tra i partigiani comunisti delle brigate Garibaldi e i partigiani cattolici e liberali delle brigate Osoppo. Nel farlo, inevitabilmente, ho dovuto trattare di tragedie come le foibe, la strage di Porzus o i cosiddetti quaranta giorni di occupazione slava di Trieste (dei quali secondo l’autrice della recensione “da un punto di vista storiografico” non sarebbe accettabile parlare). Tutto questo non è piaciuto. Me ne faccio una ragione, in fondo il libro ha avuto un tale numero di recensioni positive su gran parte della stampa nazionale e su riviste scientifiche da lasciarmi stupito e (bando alla falsa modestia) inorgoglito, considerando che è stato un lavoro molto impegnativo anche perché svolto in totale autofinanziamento, senza nemmeno un centesimo di sostegno pubblico. Per cui ci mancherebbe non accettare delle recensioni negative».

E più in generale?

«Più in generale, diciamo che è vero che parte della storiografia ha avuto, e parzialmente ha ancora, difficoltà a studiare sine ira et studio un fenomeno complesso come l’anticomunismo. Che in Italia ha avuto degenerazioni terribili e penso di averne scritto in abbondanza. Per esempio, perdona l’antipatica autocitazione, personalmente credo di aver contribuito a portare alla luce uno dei documenti più eloquenti (come lo ha definito Vladimiro Satta commentandolo nel suo libro I nemici della Repubblica) circa l’interesse del servizio segreto militare nell’attuare azioni di provocazione contro la sinistra. Si tratta di una relazione del cosiddetto Ufficio Rei del Sifar risalente al settembre 1963 e nella quale, in coincidenza con la nascita del primo governo organico di centrosinistra, si programmavano appunto in modo esplicito azioni mirate per danneggiare il Pci. E altro potremmo citare»

Mi saltano in mente le parole di Aldo Giannulli che in più occasioni ha sostenuto che si è ben studiato l’antifascismo ma mai bene l’anticomunismo. Tuttavia non ti sembra un po’ riduttivo quest’interpretazione in chiave tutta anticomunista?

«La storia dell’anticomunismo in Italia può davvero essere ridotta solo a una questione di bombe e stragi? E si può sul serio sostenere che da Portella della Ginestra in poi tutto debba sempre e comunque essere inserito nello scenario secondo il quale fascisti a libro paga dei servizi segreti venivano utilizzati per creare tensione e favorire un colpo di stato anticomunista? La risposta mi sembra ovvia; no. Se nessuno può negare che più di una volta il Pci abbia difeso le istituzioni e la democrazia pagandone anche un caro prezzo, è altrettanto vero che il quarantennio democristiano non può essere descritto solo come una sorta di catena di complotti per fermare la democratica ascesa del Pci stesso. Tutto questo non solo non corrisponde al vero, ma ha anche impedito alla sinistra di elaborare fino in fondo una seria riflessione su quanto, dal 1948 a gran parte degli anni settanta, abbia indirettamente pesato nel mancato ricambio della classe dirigente al potere la dicotomia tra l’inserimento del Pci in una democrazia occidentale e il suo legame mai pienamente scisso con l’Urss. Quella che (mi rendo conto, in modo un po’ semplicistico) viene solitamente chiamata “doppiezza”. Sinceramente, mi sembrano considerazioni perfino banali, ma talvolta chi ha ancora la testa rivolta al Novecento fatica a accettarle».

Infatti, il tuo libro va in tutt’altra strada.

«Come mi è capitato di dire in alcune presentazioni, il mio libro è stato un tentativo (naturalmente non sta a me dire se riuscito) di ricostruire la storia legale e non legale della lotta anticomunista in Italia. Ma evitando giudizi categorici o perentori e per questo se al termine della lettura chi ritiene che la lotta anticomunista in Italia sia stata solo una sequela di bombe e stragi e chi, al contrario, nega che tale lotta abbia conosciuto anche simili degenerazioni, rimarrà deluso, credo che il libro avrà raggiunto uno dei suoi obiettivi. 

Attorno a Gladio (quale Gladio, poi?) è stata costruita una grande “tragediografia”. E’ stata assunta, un po’ come la P2, a grande deus ex machina della tragedia repubblicana.

«Quando nell’ottobre 1990 Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio scoppiò una vera e propria bufera politica. Per mesi la vicenda riempì le prime pagine di tutti i giornali (nei due anni successivi è stato calcolato che furono scritti oltre 3000 articoli) alimentando infiniti dibattiti che culminarono in una richiesta di “impeachment” mossa contro il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. D’altronde, le illazioni che per anni erano circolate intorno all’esistenza di un servizio segreto parallelo che operava nell’ombra sembravano aver trovato un riscontro ufficiale e improvvisamente Gladio diventò la chiave per capire ogni mistero della storia d’Italia, dalle stragi, ai tentati colpi di stato, agli omicidi politici. Oggi sappiamo che non era così; Gladio era una porzione di un sistema di sicurezza molto più complesso e articolato che ho cercato di ricostruire nel mio libro, intitolato appunto Le Altre Gladio».

Cos’era Gladio?

«Nello specifico, la Gladio (o Stay Behind italiana) era un’organizzazione segreta che fu creata nell’autunno 1956 e che essenzialmente aveva il compito di attivarsi in caso di invasione del territorio italiano da parte di un esercito straniero (nella fattispecie ovviamente le truppe del Patto di Varsavia). Fino ai primi anni 70, la dottrina militare italiana era imperniata sul concetto della cosiddetta Difesa Arretrata e Manovra in Ritirata, che, in estrema sintesi, voleva dire il lasciare volutamente, all’inizio delle ostilità, una parte del territorio nazionale in mano all’avversario ingaggiando combattimenti non per arrestare il nemico ma per rallentarne l’avanzata e logorarlo al fine di poter arretrare le proprie forze e sistemarle in posizioni più idonee da dove poi doveva partire la controffensiva. Da qui l’importanza del ruolo di Gladio, divisa in 5 cosiddetta Unità di Pronto Impiego (Upi), che allo scoppio delle ostilità avrebbero dovuto raggiungere le zone del confine orientale loro assegnate e dare inizio alla lotta partigiana proprio in quella parte di territorio nazionale lasciata volutamente sguarnita ed in cui l’esercito invasore doveva essere, diciamo così, impantanato e poi bloccato. Questa tattica mutò nel 1972 allorché furono varate da Shape (comando supremo delle potenze alleate in Europa) nuove tecniche di guerra non ortodossa e, per quanto riguarda l’Italia, fu adottata la dottrina della cosiddetta Difesa Avanzata, che in sostanza voleva dire una difesa ancorata, fissa, appoggiandosi ai rilievi montuosi lungo la frontiera alpina e una difesa mobile nella fascia di pianura tra Udine e l’Adriatico.  In fondo, se ci pensiamo bene, di per sé Gladio non aveva nulla di veramente originale. Addirittura dai tempi delle guerre napoleoniche esistevano strutture di questo tipo, contigue alle forze armate e capaci di utilizzare tecniche di guerriglia contro un eventuale esercito che avesse invaso il proprio territorio. Gladio, in particolare, traeva la sua origine da similari organizzazioni armate a carattere segreto che erano state attive durante la seconda guerra mondiale nei territori occupati dai tedeschi. Alla base della nascita di Gladio stava poi anche l’idea che la Guerra Fredda avrebbe cambiato per sempre il modo di combattere, ossia che non ci sarebbe più stato soltanto un canonico conflitto militare tra eserciti, ma che, appunto, la cosiddetta guerra di guerriglia avrebbe assunto un’importanza sempre maggiore».

Quanto Gladio, in quel 1990, era spendibile politicamente?

«Una questione mai del tutto chiarita è perché Andreotti nel 1990 decise di rivelare, con quella modalità, l’esistenza di Gladio. Naturalmente la fine della Guerra Fredda aveva ormai reso superflua quella struttura (che peraltro nel corso degli anni ottanta aveva subito molti cambiamenti interni), ma quello di renderne nota l’esistenza fu ugualmente una decisione improvvisa, avvenuta a totale insaputa, per esempio, dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga (che conosceva Gladio dal 1966, anno in cui divenne sottosegretario alla Difesa) o della stessa Nato. Certamente Andreotti lo fece perché pressato dalla magistratura, che da tempo era alla ricerca di una organizzazione segreta, della cui esistenza, come accennato, si vociferava da anni (dai tempi del caso dell’inchiesta sulla cosiddetta Rosa dei Venti del giudice istruttore padovano Giovanni Tamburino). Ma si è anche spesso sostenuto, probabilmente con più di una ragione, che Andreotti lo fece per lanciare una sorta di ponte alla sinistra e ottenerne quantomeno una non ostilità in vista della futura nomina a Presidente della Repubblica per la quale all’epoca egli sembrava il naturale candidato. Poi, come noto, gli eventi dei primi mesi del 1992 cambiarono completamente le carte in tavola».

Ci sono dei passaggi nella storia dell’Italia repubblicana che sono stati completamente omessi sia dal discorso pubblico che, ancora più grave, dalla storiografia stessa. Uno di questi è il ruolo che il terrorismo palestinese ha assunto in Italia. Pochi ricordano le stragi palestinesi (entrambe all’aeroporto di Fiumicino in anni diversi) e si trovano ben poche (nessuna che io conosca) che analizzino l’altro terrorismo. Non pensi che Gladio possa essere stato un parafulmine per rimuovere anche questa storia? Oltre che per coprire le altre organizzazioni paramilitari, quelle “illegali”? Insomma, come spieghi la rimozione dal discorso pubblico del ruolo del terrorismo palestinese in Italia?

«Che Gladio sia servita come parafulmine di altre strutture, realmente coinvolte in alcune oscure vicende della storia italiana, è un’ipotesi che ho cercato di sviluppare nell’ultima parte del libro e che credo abbia trovato un riscontro assolutamente positivo. Quanto al terrorismo palestinese e alla scarsa attenzione a esso dedicata, io allargherei la questione. Naturalmente non bisogna generalizzare, ma, con le dovute e lodevoli eccezioni, va detto che la storiografia non sempre ha brillato per dinamismo e innovazione e ha oggettivamente accumulato dei ritardi (che finalmente cominciano a essere colmati) su molte delle vicende post-1945, non solo sul terrorismo palestinese. Per dire, allorché si parla del ruolo dell’Italia nella Guerra Fredda capita che lo si studi ancora quasi esclusivamente nel contesto del conflitto est-ovest, ignorando il fondamentale scenario mediterraneo. Ossia, il conflitto, per così dire, “nord-sud” per l’approvvigionamento delle risorse petrolifere.  Anche per questo vicende come, appunto, le stragi palestinesi di Fiumicino (o casi come quello dell’aereo Argo 16) sono ancora quasi del tutto ignoti. Ci aggiungerei un’altra vicenda; quanti per esempio, anche tra autorevoli storici dell’Italia Repubblicana, conoscono la storia della scomparsa della nave Hedia, affondata nel Mediterraneo nel marzo 1962?  Ne ha parlato qualche tempo fa Mimmo Franzinelli. Fu una vera e propria Ustica dei mari, morirono 19 italiani e un gallese e recenti ricerche hanno evidenziato che con quel mercantile venivano trasportati clandestinamente verso l’Algeria aiuti per i ribelli del Fronte di Liberazione Nazionale. E potremmo continuare; è proprio la storia della diplomazia parallela che l’Italia condusse nel Mediterraneo che attende ancora di essere conosciuta nella sua interezza».

Volevo arrivare al “Lodo Moro”. Innanzitutto, è esistito o non è esistito? E se si, che ruolo ha assunto?

«Il Lodo Moro è una verità storica acclarata. Naturalmente ancora molto materiale documentale dovrà emergere prima di avere un quadro esaustivo, ma sulla esistenza di un patto di non belligeranza tra l’Italia e la galassia palestinese non vi sono più dubbi. Sulla base del materiale oggi disponibile, si evince che i primi contatti tra funzionari dei Servizi segreti italiani e emissari palestinesi avvennero a fine 1972 nell’ambito di una trattativa che portò alla liberazione di due militanti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp) arrestati nel precedente agosto per aver nascosto un ordigno in un mangianastri portato inconsapevolmente su un aereo israeliano da due turiste inglesi. Fu però con il ritorno di Aldo Moro al ministero degli Esteri nell‘estate 1973 che il patto prese davvero forma. In particolare dopo l’arresto avvenuto a Ostia nel settembre 1973 di 5 palestinesi trovati in possesso di missili Strela che intendevano usare per abbattere un aereo israeliano. Nell’ambito delle complesse trattative che portarono alla loro liberazione (e che coinvolsero anche la Libia) l’Olp si impegnò ufficialmente a non effettuare più azioni di guerra sul suolo italiano. Tuttavia le frange più estremiste della galassia palestinese non accettarono quell’intesa e si resero responsabili della strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973. Fu solo dopo quella tragedia che il cosiddetto Lodo Moro cominciò a diventare qualcosa di davvero strutturato e funzionante, grazie soprattutto al fondamentale lavoro di mediazione svolto del colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi a Beirut, funzionario dei Servizi molto legato a Aldo Moro».

Credi che in futuro, come per esempio ha sostenuto il magistrato Rosario Priore, il Lodo Moro possa consentire di riscrivere parti della storia italiana?

«Riscrivere la storia è un’affermazione molto impegnativa. Diciamo che certamente consentirà di rileggere parte della storia della politica estera italiana degli anni settanta. Ti faccio un esempio; il 23 gennaio 1974 Moro di fronte alla Commissione Esteri del Senato pronunciò uno dei suoi discorsi più appassionati in favore dei palestinesi, affermando che essi non stavano cercando assistenza, ma una patria ed era perciò assolutamente necessario che finisse l’occupazione israeliana dei territori. Un intervento che, come dimostrano alcuni dispacci giunti dai nostri ambasciatori dalle capitali arabe, fu molto apprezzato e elogiato in gran parte del Medio Oriente. Con l’apparente paradosso che alcuni giorni dopo, quando Moro si trovava in visita al Cairo, fu lo stesso ministro degli Esteri egiziano, Ismail Fahni, a fargli presente che era andato perfino oltre nel suo sostegno all’Olp e che la questione di una patria per i palestinesi andava affrontata solo quando ci sarebbero state le condizioni opportune. Grazie al materiale documentale di cui oggi disponiamo, possiamo con ragionevole certezza affermare che quel discorso Moro lo pronunciò proprio nel contesto delle trattative riservate di quei giorni e che dovevano portare alla messa a punto definitiva del Lodo. Fu, in qualche modo, un segnale all’universo palestinese della reale disponibilità italiana, al fine di evitare che si potessero ripetere tragedie come quella di Fiumicino del precedente dicembre 1973. Questo è un esempio di cosa intendo quando affermo che i documenti sul Lodo Moro ci possono consentire di avere una ricostruzione più ampia della storia della politica estera italiana. Sono argomenti di cui ti parlo qui in modo sintetico, ma che spero in futuro di poter trattare ampiamente in un saggio specifico».

Le foibe della memoria, scrive il 9 febbraio 2018 Luigi Iannone su "Il Giornale". Le foibe sono una profondità carsica nella nostra memoria collettiva. Un vuoto popolato di fantasmi reali e presunti che si rincorrono e mai hanno la forza necessaria per palesarsi. Quando fu istituito il Giorno del ricordo l’intento era chiaro: fare in modo che non vi fosse alcun silenzio su fatti accertati e tenuti nascosti per troppo tempo, e si ricordasse il sacrificio di tutti gli uomini, le donne e i bambini colpevoli solo di essere italiani. E invece tutto è diventato sulfureo come la polvere e il buio di quelle cavità nelle rocce. Financo le alte cariche dello Stato, come capitato anche in anni recenti, si dimenticano di celebrare con dignità e piena consapevolezza un tale abominio. Qualche citazione, una frase di circostanza negli abituali e noiosi discorsi preparati dagli uffici stampa o da asettici ghostwriter, e nulla più. In realtà, quello che accade ai primi di febbraio di ogni anno, è vergognoso e disperante. Il dibattito si accende ma prende una piega laterale e sbagliata, ponendo questo tema con sofisticata scaltrezza ad una parte consistente dell’opinione pubblica che già di suo poco sa e poco vuole sapere. E pur tuttavia, la questione viene sempre presa per il verso sbagliato. E così c’è sempre qualche mente illuminata dell’Anpi che cerca di circoscrivere il fenomeno in parametri ristretti o addirittura negarlo; chi, pur riconoscendo una tale vergogna, indirettamente costruisce plausibili motivazioni di politica estera, di rancore bellico; chi mette in mezzo i fascisti e la loro precedente violenza e via così. La vicenda di Simone Cristicchi di qualche anno fa risulta ancora paradigmatica. Il suo spettacolo Magazzino 18 ebbe tanti e tali impedimenti, manifestazioni contro e attacchi di vario genere, nemmeno si fosse peritato di declamare con orgoglio e fierezza le pagine più tetre del Mein Kampf. E invece stava rappresentando fatti accaduti alcuni decenni fa e che hanno visto, purtroppo, tanti nostri connazionali essere assassinati per il solo fatto di appartenere ad una comunità. Ma la sua vicenda è una delle tante che si sommano in lungo e in largo sul nostro territorio. Come la squallida routine impone, anche quest’anno l’andazzo pare infatti simile. Frotte di nostalgici di ogni schieramento che deviano l’interpretazione dei fatti su binari poco consoni alla verità, l’associazione dei partigiani che nel migliore dei casi fa "buon viso a cattivo gioco" oppure, per fortuna in casi isolati, ancora nega l’evidenza, e alte cariche istituzionali che, con malcelata fatica, riescono a profferire qualche parola solo poche ore prima del 10 febbraio svelando così una adesione al contesto generale di commemorazione più imposta da obblighi istituzionali che da reale e partecipato dolore. Le foibe restano una cavità che squarcia ancora la nostra memoria e da essa fanno capolino i fantasmi di tutta la storia recente che è in larga parte a servizio delle piccole beghe politiche e di mestieranti della cultura. A distanza di tanti decenni non si riesce a dare un senso a quel dolore e a rivolgere una solidale e collettiva preghiera per quegli innocenti, senza incomprensibili distinguo o paventate e inconsapevoli giustificazioni. E fin quando il nostro Paese non si scollerà di dosso i cascami di una dialettica politica sempre combinata con la falsa e capziosa storiografia sarà preda degli spasmi di ogni sorta di radicalismo e mai potrà porre la parola ‘fine’ su questa interminabile, penosa e logorante guerra civile.

Il ricordo per vincere il silenzio sul dramma di esuli e infoibati. A partire dal 2005, ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriano-dalmati, scrive Marianna Di Piazza, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Oltre 10mila italiani torturati e uccisi nelle foibe. Più di 300mila quelli scappati dalla loro case per sfuggire alla violenza dei partigiani di Tito. Ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo e per non dimenticare questa drammatica pagina della nostra storia, siamo andati nei luoghi dove si è consumata la tragedia all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Sul Carso triestino, la foiba di Basovizza, pozzo minerario scavato agli inizi del 1900, è diventata il simbolo di tutte le atrocità commesse dai partigiani jugoslavi. "In quest'area gli uomini di Tito hanno realizzato un massacro veramente immane. Uno strumento di terrore con il quale il maresciallo costruiva il suo nuovo Stato rivoluzionario comunista sul sangue versato da italiani, sloveni e croati", ha dichiarato il presidente della Lega Nazionale, Paolo Sardos Albertini.

Le foibe. Le foibe sono delle cavità naturali presenti sul Carso, l'altipiano alle spalle della città di Trieste e dell'Istria. Alla fine della Seconda guerra mondiale, i partigiani di Tito le utilizzarono per scaricare al loro interno migliaia di persone. Spogliate e legate l’una con l’altra con un fil di ferro stretto ai polsi, le vittime venivano schierate sugli argini delle cavità. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Coloro che non morivano sul colpo, erano condannati a soffrire per giorni. Furono circa 10 mila gli italiani infoibati, ma anche 150mila sloveni e 900mila croati finirono vittime del maresciallo Tito. "Nel territorio di Trieste ci sono decine di foibe. Ma oltre confine, in Slovenia, vengono continuamente scoperte nuove foibe con cadaveri all'interno", ha spiegato Albertini.

Le vittime. "Con lo strumento delle foibe, si volevano eliminare le persone che avrebbero potuto dare fastidio al nuovo Stato comunista jugoslavo", ha affermato il presidente Albertini. "Le truppe di Tito, entrate a Trieste, avevano con loro un elenco delle persone che andavano infoibate. Il meccanismo delle foibe era finalizzato a creare una situazione di terrore. E il terrore è tale anche se colpisce in maniera assolutamente casuale". A Basovizza una lapide ricorda l'infoibamento di un gruppo di finanzieri. Prelevati dai partigiani titini con la scusa di dover essere sottoposti ad alcuni controlli, gli uomini sono stati invece infoibati. Pochi giorni prima avevano partecipato all'insurrezione di Trieste contro i tedeschi. "Questa è stata la loro colpa", ha raccontato Albertini. Ma le foibe non sono state l'unico strumento di repressione titino. Migliaia di persone sono state deportate nei campi di concentramento comunisti di tutta la Jugoslavia. "Mia mamma ha cercato mio padre per anni", ha sussurrato con dolore Annamaria Muiesan, esule di Pirano. "Si è fatta portare più volte vicino ai campi, ma non lo ha mai trovato". La donna, dopo essere scappata da bambina insieme alla madre e alla sorella, ha raccontato della mattina in cui hanno portato via suo padre: "I collaboratori dei titini hanno fatto irruzione in casa nostra. Da quel momento non ho più rivisto mio papà".

La foiba n.149. A guerra finita, il primo maggio 1945 Tito entra a Trieste. Per oltre un mese le forze jugoslave si abbandonano alle violenze, in quelli che a oggi sono ricordati come i "40 giorni del terrore". I partigiani portano i prigionieri, con i vagoni merci, fino alla foiba di Monrupino, meglio conosciuta come foiba 149 (guarda il video). Pochi, difficili passi lungo la scarpata, poi la condanna a morte: le vittime vengono fatte precipitare nel baratro. Secondo alcune stime, in questa foiba hanno trovato la morte circa 2.000 persone.

Quei rastrellamenti partigiani rimasti nascosti per 75 anni. Inedita testimonianza sui giorni dopo l'armistizio: «A Sussak fecero sparire un migliaio di corpi trasformandoli in sapone», scrivono Serenella Bettin e Fausto Biloslavo, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". I partigiani di Tito portavano in una cartiera i «nemici del popolo» con un furgone della polizia italiana, che avevano sequestrato, per ridurli letteralmente a pezzi in barbare esecuzioni. Poi si disfacevano per sempre dei resti nel vicino saponificio, come i nazisti.

La testimonianza inedita. L'orrore perpetrato vicino a Fiume subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 viene rivelato per la prima volta da un'inedita testimonianza scritta anni fa e mai resa pubblica, in possesso del Giornale. La mattanza di prigionieri croati o italiani andò avanti per giorni, come in altre parte dell'Istria, dove i partigiani jugoslavi assunsero il controllo fra il settembre ed il novembre 1943 nella prima ondata delle foibe. «Questo fatto che ora vado a raccontare sembra inverosimile e lo dico come lo ebbi a sapere» scrive l'autore dell'inedita violenza alle porte di Fiume, che nel 1943 aveva poco più di vent'anni e faceva il servizio militare a Sussak, a pochi chilometri dal capoluogo del Quarnaro. Al Giornale ha chiesto di restare anonimo perché, sembra incredibile, ma dopo 75 anni continua ad avere paura. I testimoni di questa terribile storia delle violenze titine furono disarmati diversi giorni dopo l'8 settembre e trasferiti a Pola dai tedeschi, che dopo un mese ripresero il pieno controllo dell'Istria con altrettanta brutalità. «Quando fummo concentrati nel campo sportivo militare fuori della città di Pola, mi sentii chiamare venendomi incontro il carabiniere Moscatello (che era accantonato a Sussak, nda) - si legge nella testimonianza scritta - Piuttosto agitato mi disse: Ti ricordi Hai presente che il giorno dopo l'armistizio dell'otto settembre per due giorni si vedeva passare diverse volte e per tutto il giorno un va e vieni del furgone nero della Polizia Italiana?». A Sussak si era insediato il comando del II corpo d'armata Slovenia-Dalmazia del nostro esercito. Nel vuoto provocato dall'8 settembre i partigiani occuparono il centro abitato per una settimana fino alla controffensiva tedesca. E molti soldati italiani allo sbando rimasero sul posto. Il testimone ancora in vita ricorda che «andai al comando e dietro la scrivania del colonnello era seduto il capo dei partigiani, figlio dell'oste del paese». In poco meno di un mese i partigiani di Tito dichiararono l'annessione dell'Istria alla futura Jugoslavia cominciando a perseguitare chi rappresentava l'Italia. Maestri, funzionari pubblici, agenti di sicurezza e loro congiunti furono prelevati e uccisi. Gli italiani trucidati risultarono almeno un migliaio, ma anche i croati poco allineati con Tito, non solo militari, erano condannati ad una brutta fine. Nel 1943 il carabiniere Moscatello raccontò al testimone ancora in vita, che il cellulare della nostra polizia sequestrato dai partigiani andava a prelevare i nemici del popolo e «...velocemente entrava nello stabilimento della cartiera...» di Sussak. Il carabiniere confidò al commilitone «che di nascosto entrò nella cartiera... e assistette a una cosa impressionante». Dal furgone della polizia «appena entrato facevano scendere le persone all'interno e le ammazzavano facendole immediatamente a pezzi». Brutali esecuzioni sommarie, ma sapendo che ben presto sarebbero tornati i tedeschi in forze, i partigiani non volevano lasciare tracce di cadaveri infoibati o fosse comuni. «Moscatello ebbe anche a vedere che poi i pezzi venivano messi sulle cassette di legno per essere trasportate con il carretto nell'adiacente saponificio - si legge nella testimonianza scritta - passando per un piccolo ponticello in legno attraversando il fiume Eneo». I resti umani venivano fatti sparire per sempre trasformandoli in saponi. Il carabiniere testimone della mattanza potrebbe essere Venanzio Moscatello, classe 1910, scomparso da tempo. Fra il 1942 e 1943 è stato in servizio al comando italiano Slovenia-Dalmazia a Sussak, come dimostrano gli attestati militari. Purtroppo anche il figlio è morto, ma il Giornale è riuscito a recuperare una foto del carabiniere. Il commilitone che raccolse la sua terribile rivelazione nel 1943 lo ha riconosciuto: «È lui senza dubbio». E nel suo scritto ricorda come il testimone sia scampato alle esecuzioni nella cartiera della morte vicino a Fiume: «Moscatello mi disse che inorridito, sempre di nascosto si ritirò non potendo fare niente. Se lo avessero visto avrebbe certamente fatto la stessa fine».

Le pagine sulle foibe (che non scandalizzano i benpensanti). Pagine sulle foibe, sui Marò da buttare nelle cavità carsiche, sugli "idoli delle foibe" e così via. Sul web la pacificazione nazionale appare lontana, scrive Francesco Boezi, Venerdì 09/02/2018, su "Il Giornale". Il web, si sa, è un luogo colorito: si trova di tutto. Perfino pagine apertamente satiriche sulla tragedia delle foibe. Una, forse in modo meno ironico, è intitolata: "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe". Basta scorrere un minuto con il mouse per comprendere il taglio dato allo spazio social in questione: "Come fu che i nostri Marò vollero entrare in politica e si scavarono la foiba con le loro mani" recita la foto di un post condiviso dalla pagina "Libri vintage per l'infanzia". Satira, certo, su quella che dovrebbe essere riconosciuta pacificamente come una tragedia nazionale. E sui Marò del caso dell'Enrica Lexie, che in qualche modo vengono etichettati a simbolo politico di destra, quindi passibili di scherno e risibilità. "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie" è il nome di un'altra di queste pagine facilmente reperibile su Facebook. "Quest'anno le foibe non se l'è inculate nessuno... questa precarietà esistenziale non risparmia proprio nulla", si può leggere nel primo post visibile (almeno per chi non ha cliccato "mi piace"), risalente al 12 febbraio 2014. E subito dopo un murales recitante la seguente scritta: "Tu mi porti su e poi mi lasci cadere #foibe". Satira, evidentemente. Condivisa questa volta da "Anti Rac (Ama la Musica Odia il Razzismo)". In un post del 10 febbraio 2014, quindi durante Il Giorno del Ricordo, si trova scritto: "Anche Dante ha parlato del dramma delle foibe, poi non dite che non ci sono le fonti "Tanto gentile e tanto onesta pare la foiba mia quand'ellla altrui vi salta, ch'ogne lingua devan tremando muta e li occhi no l'ardiscon di guardare". Gli eccidi ai danni della popolazione italiana residente in Venezia Giulia, in Istria e in Dalmazia, quindi, "canzonati" alla maniera dell'Alighieri. L'autore, certamente, avrà voluto rendere omaggio in modo post-datato agli infoibati.

Poi, ancora, c'è la pagina "E i marò is the new "E le foibe?". In questo caso viene ripreso un famoso siparietto dell'attrice Caterina Guzzanti che, nei panni di una militante di Casapound, incalzata dall'intervistatore, ripeteva sempre la medesima frase sulle foibe. "E i marò", dunque, sarebbe in qualche modo diventata l'unica argomentazione rimasta a disposizione di un militante di destra. Oppure, a seconda delle interpretazioni, l'unica conosciuta. Un'altra pagina curiosa è "Tirare fuori a caso le foibe nei commenti". Qui gli inghiottitoi carsici sono finiti, attraverso un fotomontaggio, sui bigliettini dei Baci Perugina. Infoibamenti e dolcezze, insomma. Più difficile, invece, dedurre il collegamento pensato tra il titolo di "Idoli delle foibe", l'ennesima di queste pagine, e i personaggi selezionati per i post pubblicati: Fabrizio Corona, Enzo Salvi, Alvaro Vitali e così via.

I lettori, sicuramente, ricorderanno la chiusura di "Scl", che faceva (e fa) "satira non di sinistra". I contenuti elencati nelle circostanze citate, invece, sembrano non indignare i benpensanti e i cosiddetti controllori del web. Nessun appello pubblico, almeno sino ad ora, è stato fatto per rimuovere alcuni di questi contenuti. Se la "satira" non provoca scandalo in chi la recepisce, del resto, non sarebbe tale. E "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe", in particolare, è un'espressione trovata in una di queste pagine ovviamente tutelata dal diritto alla libertà di espressione. Oppure no?

Ecco il saggio per comprendere la ferocia dei miliziani di Tito. «Foibe» documenta con precisione la pulizia etnica anti italiana, scrive Matteo Sacchi, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Le violenze compiute dai partigiani titini in Istria, Dalmazia, e in molte altre zone della Venezia Giulia sono state a lungo ignorate dalla storiografia. Quando sono tornate a essere oggetto di discussione, anche perché le violente pulizie etniche dei conflitti nella ex Jugoslavia hanno reso impossibile ignorare i precedenti, il tema è stato rapidamente politicizzato. Le formazioni politiche vicine al mondo comunista hanno spesso cercato di minimizzare ciò che per anni avevano contribuito a nascondere sotto il tappeto. Quelle di destra hanno cercato di «monetizzare» politicamente il proprio merito di aver lottato per mantenere in vita il ricordo di ciò che era toccato in sorte a questi italiani scomodi, di confine. Esiste invece la necessità di una indagine degli eventi rigorosa e il meno possibile di parte. Ecco perché da oggi troverete in edicola con il Giornale il saggio scritto da Raoul Pupo e Roberto Spazzali: Foibe (pagg. 254, euro 8,50 più il prezzo del quotidiano). Il volume inquadra con chiarezza, mettendo a disposizione del lettore i fatti, anche con un gran numero di documenti. E con le parole, proprio a partire da «Foibe». Inutili le discussioni su quante siano state le persone realmente gettate nelle cavità carsiche. «Quando si parla di foibe ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme provocarono alcune migliaia di vittime». È in questo senso ampio che va considerato il dramma commemorato oggi nel Giorno del ricordo. Quelli perpetrati sul bordo degli inghiottitoi carsici sono solo alcuni degli eccidi perpetrati. Ciò ha contribuito a rendere particolarmente sterile il dibattito sul numero degli uccisi. Più interessante è riflettere su quale fu la metodica delle violenze, concentrate soprattutto nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Le violenze furono caratterizzate da un preciso odio etnico. Le vittime non furono soltanto esponenti del regime fascista, come spesso è stato detto da parte jugoslava. Come spiegano Pupo e Spazzali, già subito dopo l'8 settembre «vennero fatti sparire i rappresentanti dello Stato, come podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali». Una precisa volontà di «spazzare via chiunque ricordasse l'amministrazione italiana». Poi la strage si estese ai possidenti terrieri e anche ai partigiani italiani non disposti a farsi assimilare. I dati sono anche più chiari per la primavera del 1945. I campi in cui vennero inviati i prigionieri italiani, come quello di Borovnica, erano sostanzialmente strutturati per liquidarne il più possibile. E che di nuovo si trattasse di un preciso piano di occupazione e pulizia etnica lo provano le subitanee e spietate iniziative contro membri dei Cln di Gorizia e Trieste. Uccidere i partigiani italiani che davano segno di autonomia. Se a questa equazione «italiano = fascista» sponsorizzata dall'alto si sommano gli odi personali e lo spazio lasciato alla criminalità comune, si capisce l'entità delle violenze e del terrore che provocarono. L'ultima parte del libro è poi dedicata specificatamente ai luoghi, con mappe che indicano la collocazione delle foibe.

Rivelazioni. Istria 1946: a Vergarolla fu vera strage, scrive Lucia Bellaspiga, giovedì 12 giugno 2014 su "Avvenire". Il 18 agosto del 1946 è una domenica e a Vergarolla, la spiaggia di Pola, migliaia di polesi sono radunati per le gare di nuoto e l’anniversario della Pietas Julia, la società nautica cittadina, di chiaro orientamento patriottico. In quel momento gli eccidi e le foibe hanno già insanguinato Istria, Fiume e Dalmazia, ma da un anno a Pola un governo militare angloamericano protegge la città dai titini intanto che a Parigi le grandi potenze ancora discutono sul suo destino e ridisegnano i confini adriatici. Quel giorno, dunque, la popolazione assiste a una gara sportiva di forte valore filoitaliano, tantissimi sono i bambini, il caldo ha attratto nel bel mare istriano almeno duemila persone. È lì tra loro che alle 14.10 un’esplosione gigantesca letteralmente polverizza decine e decine di corpi (i soccorritori dovranno recuperare i poveri resti sugli alberi fino a grande distanza). Sulla sabbia giacevano da mesi residuati bellici che però erano stati disinnescati e più volte controllati dagli artificieri inviati dalle autorità anglo-americane: «Ormai facevano parte del paesaggio, ci stendevamo sopra i vestiti o mettevamo la merenda al fresco sotto la loro ombra», testimoniano oggi i sopravvissuti. Eppure qualcuno aveva riattivato quegli ordigni per farli esplodere esattamente quel giorno. Oggi possiamo scriverlo senza paura di essere smentiti dai negazionisti, che per decenni hanno parlato di 'incidente', perfino di autocombustione: a 70 anni dalla strage, due studi in contemporanea sono stati commissionati a storici super partes dal Libero Comune di Pola in Esilio (Lcpe, l’associazione che raccoglie tutti gli esuli da Pola) e dal Circolo Istria di Trieste, e le conclusioni cui i due storici sono addivenuti, pur divergendo su alcuni aspetti, concordano su un punto inconfutabile: fu strage volontaria. «È già un risultato epocale – commenta Paolo Radivo, direttore dell’Arena di Polae consigliere del Lcpe –: da molti anni ogni 18 agosto ci rechiamo a Vergarolla, oggi Croazia, per celebrare i nostri morti insieme alla comunità degli italiani rimasti a Pola». Lo scorso agosto l’onorevole Laura Garavini del Pd ha mandato un ampio messaggio e annunciato un’interrogazione parlamentare: «Era la prima volta». Aria nuova anche in Regione Friuli Venezia Giulia, dove la presidente Debora Serracchiani (Pd) inviò un suo contributo sulla mattanza che «per le modalità subdole con cui fu perpetrata e per la cortina di silenzio e travisamenti che a lungo la avvolse è uno degli episodi più cupi del dopoguerra». Se già qualche anno fa dagli archivi di Londra erano trapelati i primi indizi di un attentato volontario, tali elementi non erano ancora sufficienti. Così nei mesi scorsi William Klinger, massimo studioso italiano di Tito, si è recato negli archivi di Belgrado, mentre l’altro giovane storico, Gaetano Dato, ha consultato quelli di Zagabria, Londra, Washington e Roma. Sì, perché ciò che emerge chiaramente da entrambi gli studi è che per capire cosa avvenne su quella spiaggia bisogna guardare agli scenari mondiali: Vergarolla è il crocevia della storia moderna post bellica, la palestra in cui nasce la guerra fredda. «Klinger ha il merito di inserire la strage nella più generale politica aggressiva jugoslava contro l’Italia sconfitta ma anche contro i suoi stessi alleati anglo-americani», spiega Radivo. Già all’indomani della strage partirono due inchieste, una della corte militare e l’altra della polizia civile alleate, non a caso intitolate “Sabotage in Pola”, cioè nettamente orientate a negare l’incidente fortuito. Klinger non prova la responsabilità diretta della Ozna («negli archivi di Belgrado non ci sono i dispacci dell’epoca, l’ordine tassativo era di distruggere all’istante qualsiasi istruzione ricevuta »), ma racconta il contesto, la spietatezza della polizia di Tito, che controllava buona parte del Pci italiano e soprattutto in quel 1946 stava alzando il tasso di violenza in un crescendo di azioni, tant’è che sia gli americani che gli inglesi in documenti scritti lamentano col governo jugoslavo «le attività terroristiche e criminali». Inoltre sempre Klinger nota come all’epoca la stampa jugoslava desse conto di ogni minimo avvenimento, eppure non dedicò una sola riga a una strage terrificante: un silenzio quantomeno sospetto. Gaetano Dato spiega nei dettagli le dinamiche dell’esplosione: «Scoppiarono una quindicina di bombe antisommergibile tedesche e testate di siluro che erano state disinnescate, ma che con l’ausilio di detonatori a tempo furono riattivate». Dato avverte però che nella sua ricerca sceglie di «mettere da parte le memorie» dei testimoni, perché teme che «involontariamente selezionino una parte di verità, cancellando o modificandone altre», ma questo rischia a volte di essere il punto debole del suo lavoro di storico, che lascia aperte tutte le ipotesi: «Se devo dire la mia personale opinione – ci dice – fu una strage jugoslava, ma non posso tralasciare altre piste: quella italiana, con gruppi monarchici o fascisti che stavano organizzando la resistenza contro Tito, e quella di anticomunisti jugoslavi». Ma di entrambe, ammette, non ci sono prove. «È vero che all’epoca c’erano ancora italiani che intendevano combattere in difesa dell’italianità – commenta Radivo –, ma Vergarolla certo non aizzò i polesi a sollevarsi, anzi, ne fiaccò per sempre ogni istanza». Secondo Radivo, dunque, per comprendere i mandanti occorre vedere i risultati, «e questi furono la rinuncia a combattere per Pola italiana, con la fine di ogni manifestazione da quel giorno in poi, e mesi dopo la partenza in massa con l’esodo, ormai visto come unica salvezza. Ed entrambi i “cui prodest?” portano alla Jugoslavia». D’altra parte un’escalation di azioni precedenti hanno sbocco naturale proprio nei fatti di Vergarolla: nel maggio del ’45, già in tempo di pace, la nave Campanella carica di 350 prigionieri italiani da internare nei campi di concentramento titini cola a picco contro una mina e le guardie jugoslave mitragliano in acqua i sopravvissuti; pochi mesi dopo a Pola esplodono altri depositi di munizioni in centro città; nel giugno del ’46 militanti filojugoslavi fermano il Giro d’Italia e sparano sulla polizia civile; 9 giorni prima di Vergarolla soldati jugoslavi  assaltano con bombe a mano una manifestazione italiana a Gorizia; la domenica prima della strage una bomba fa cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio: sarebbe stata un’altra carneficina... per la quale bisognerà attendere il 18 agosto. Negli archivi di Londra un documento attesta la «volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva». Non scordiamo che il 17 agosto del ’46, il giorno prima, a Parigi si era chiusa la sessione plenaria della Conferenza di pace e stavano iniziando le commissioni per decidere sui confini orientali d’Italia: era una data topica e i giochi non erano ancora chiusi. «I polesi potevano ancora sperare che la città venisse attribuita al Territorio Libero di Trieste, sogno sfumato solo un mese dopo, il 19 settembre»: le istanze di italianità erano ancora vive e i titoisti dovevano annientarle.

Strage di Vergarolla: quando si usava il tritolo per cacciare gli italiani, scrive Marco Fornasir il 18/08/2016 su "Il Giornale". La strage di Vergarolla, avvenuta domenica 18 agosto 1946, è forse la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Volutamente nascosta per oltre cinquant’anni, viene finalmente portata alla luce in tutti i suoi aspetti grazie al libro del direttore de L’Arena di Pola Paolo Radivo. Un’esplosione potente squarciò la spiaggia di Vergarolla alle 14:15 di domenica 18 agosto 1946. La terra tremò per una vasta area e i vetri delle case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Sessantaquattro sono le vittime identificate e sepolte, ma circa cento persone furono spazzate via da quello che ancor oggi a fatica viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente. Quell’esplosione, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe anche lo stesso effetto di quelle bombe micidiali. Si può dire che l’attentato di Vergarolla, come avvenne in Giappone, costrinse la popolazione alla resa: in quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in Istria e in Dalmazia. L’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante di una ancora acerba Repubblica Italiana, magari sotto forma di enclave. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali e da allora ci fu un lento e inesorabile abbandono di ogni speranza, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo. A settant’anni di distanza, dopo alcuni libri che hanno riacceso le luci su quel grave e criminale episodio, è stato realizzato finalmente uno studio approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia. Il volume è: La strage d Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore Libero Comune di Pola in Esilio – LCPE), l’autore è il direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Inoltre è stato realizzato, sempre con il contributo determinante dell’LCPE, il documentario di Alessandro Quadretti L’ultima spiaggia. Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo. Ambedue sono importanti strumenti per capire cosa è effettivamente successo in quella tragica domenica d’agosto. Il corposo volume di Radivo conta ben 648 pagine ed è uno studio completo sulla vicenda, il documentario riporta anche le testimonianze dei pochi testimoni sopravvissuti, forse l’ultima occasione di sentire dalle voci di chi c’era la verità dei fatti. Ma chi non ha mai sentito parlare di questa strage, per intenderci più sanguinosa di quella della stazione di Bologna, ha necessità di alcuni particolari e di inquadrare i fatti nel periodo storico. Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisire anche l’italianissima Pola nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (dal 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) e la Conferenza della Pace di Parigi era in corso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» In questo contesto si svolsero quella domenica di agosto le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni, compresa la squadra del Centro Sportivo Proletario, filo-jugoslava, che vinse una delle gare e lasciò la zona verso l’ora di pranzo. Al momento dell’esplosione (14:15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie. A esplodere furono degli ordigni (di vario genere, per lo più bombe di profondità) che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Erano 12, 28 o 32, a seconda dei documenti del Governo Militare Alleato, e non potevano assolutamente esplodere da soli. Tanto che i ragazzini vi salivano a cavalcioni e le signore vi stendevano ad asciugare i teli da mare e i costumi da bagno. Per esplodere quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. E la testimonianza di Claudio Bronzin, all’epoca un ragazzino, squarcia il muro di silenzio: ricorda che sua zia Rosmunda vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa. Il risultato della strage fu impressionante: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio, di uno dei figli del dottor Micheletti fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una quarantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti. Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per molte altre stragi più recenti). Il nome che ricorre più frequentemente è quello di Ivan (Nini) Brljafa, un partigiano dell’Istria interna che a Pola ebbe poi anche qualche incarico locale dal governo jugoslavo. Brljafa si suicidò nel 1979 in seguito alla scoperta di un tumore ai reni, ma pare che lasciò un biglietto in cui confessava di aver agito su ordine di Albona (sede all’epoca di un comando dei servizi segreti jugoslavi). Altri testimoni raccontano che il giorno dopo il massacro due polesani avrebbero festeggiato insieme ai due attentatori in una trattoria di Monte Castagner, mentre dieci giorni dopo quattordici polesani brindarono alla strage in un’osteria di Monte Grande. Ma anche qui nessuna pistola fumante. Però, grazie al libro di Radivo che compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze, sono venuti alla luce numerosi elementi, soprattutto per quello che riguarda i movimenti delle truppe alleate e delle truppe titine in zona subito prima dell’attentato. E anche ciò che avvenne subito dopo viene esaminato in profondità. Inoltre vengono messi a fuoco molti dettagli che riguardano i soccorsi dopo l’esplosione, l’assistenza ai feriti e il penoso momento dei funerali cittadini. Tra tutti emerse la figura del dottor Geppino Micheletti (cugino del noto filosofo goriziano Carlo Michelstaedter) che operò consecutivamente fino a tarda sera tutti i feriti gravi, anche dopo aver saputo che i suoi figli Carlo e Renzo erano stati spazzati via dall’esplosione. Solo a tarda sera si recò a Vergarolla alla ricerca dei resti di uno dei due. Fu decorato con la medaglia d’argento al valor civile. Lui rimase a Pola fino al settembre 1947, quando partì per l’esilio, dicendo che mai avrebbe potuto curare qualcuno con il sospetto di curare un criminale coinvolto nella strage.

Da quanto detto non si può che arrivare al negazionismo sulle foibe.

Al Magazzino 18 sembrava di stare ad Auschwitz. Parla il coautore dello spettacolo teatrale. Bernas: "Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale", scrive Gabriele Antonucci su “Il Tempo”. «La storia non deve essere di nessuno, ma la verità deve essere di tutti». Così il giornalista e scrittore Jan Bernas, esperto di geopolitica e di storia, ha spiegato l’urgenza artistica della genesi di «Magazzino 18», spettacolo scritto insieme a Simone Cristicchi. Un’idea accarezzata per vent’anni dal regista Antonio Calenda, che ha trovato finalmente compimento grazie ai fortunati incontri con Cristicchi e con Bernas, contattato dal cantante dopo aver letto il suo libro «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani». Lo spettacolo, dopo il trionfale debutto a Trieste, ha ricevuto grandi consensi in tutta Italia per l’equilibrio del testo, la sensibilità di Cristicchi e la regia emozionante di Calenda. «Magazzino 18» diventerà un libro, che uscirà a febbraio per Mondadori, corredato dalle foto realizzate dall'autore all’interno del silos dove sono ancora accatastati i beni lasciati dagli esuli italiani in fuga. Per Bernas entrare al Magazzino 18 «è stata un’esperienza incredibile, mi ha ricordato l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz. Prima di tutto è necessario un permesso speciale per entrare. Una volta dentro, sono rimasto colpito da un salone enorme, pieno di sedie accatastate una sopra l’altra. Dietro ognuna è riportato il nome e il cognome del proprietario. Una stanza è piena di giocattoli, un’altra di libri, registri e perfino di lettere d’amore. Fa venire i brividi». Quanto alle polemiche sullo spettacolo, l’autore se le aspettava, «ma non così forti, violente e preconcette. Le critiche più odiose sono quelle che sono arrivate prima che lo spettacolo andasse in scena o, dopo il debutto, da chi non l’aveva neanche visto. In "Magazzino 18" non diamo colpe, è semplicemente un atto di educazione alla memoria». Per Jan la parola foiba non è soltanto un tabù, ma «una semplificazione simbolica di una vicenda molto più complessa e articolata. Le foibe, in realtà, sono la punta dell’iceberg, visto che in quel periodo tanti italiani sono morti di crepacuore, chi a seguito dell’internamento, chi morto dentro, rimanendo a Pola o a Fiume». Sono state numerose le difficoltà nello scrivere un testo che affrontava una materia così delicata. «»È stato più duro che scrivere un libro. Quando devi raccontare sopra un palcoscenico avvenimenti così poco conosciuti non puoi dare nulla per scontato, né dal punto di vista storico né da quello drammaturgico. Devi condensare una vicenda complessa in meno di due ore». Sulle accuse di revisionismo, lo scrittore mostra di avere idee chiare: «Se per revisionismo intendiamo che per la prima volta in Italia viene rappresentato a teatro un argomento così occultato, allora lo è. Se con quel termine indichiamo una mistificazione storica a favore di una sola parte, non lo è certamente. È stato difficile realizzare uno spettacolo equilibrato: sarebbe stato molto più facile scrivere un testo di parte». Bernas si è accostato all’esodo degli italiani dalla Jugoslavia fin da giovanissimo. «Quando ero al liceo già mi interessavo di storia. Un giorno chiesi alla mia insegnante: "Come mai sono partiti tutti quegli italiani dall'Istria?" "Perché erano tutti fascisti". Non mi sono accontentato di quella secca risposta e ho iniziato una ricerca di molti anni che mi ha condotto a visitare quei luoghi, a conoscere e a intervistare decine di esuli». Grandi emozioni gli ha riservato la prima dello spettacolo a Trieste, dove era stata allarmata perfino la Digos per il rischio di scontri tra opposte fazioni politiche: «Quella sera c’era una tensione molto forte, ma l’applauso di un quarto d’ora con il pubblico in piedi, gli anziani esuli in lacrime che ci hanno abbracciato, l’inno nazionale cantato alla fine da tutta la sala sono stati i migliori regali che io, Cristicchi e Calenda potessimo ricevere».

Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell’esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti? Si chiede Federico Guiglia su “Il Tempo”. Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell’orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal ’43 al ’47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un’intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l’anatema di «propaganda anti-partigiana» per lo spettacolo profondo e delicato, esattamente com’è lui, dedicato all’esodo di trecentocinquantamila connazionali. Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola «colpa» d’essere italiani. Senza dimenticare l’esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi. Dunque, è stata un’epopea triste. È stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell’ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all’estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L’Australia, il Canada, l’America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell’universo. Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro. Chiedevano e chiedono solo «giustizia». Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un’italianità esemplare: gente che non protestava, che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subìti, che non s’inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient’altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d’essere arrivati così tardi a «comprendere» e a «condividere» la vicenda. È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo «Magazzino 18», andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L’artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell’esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall’altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato. Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile. La verità non può far male, neanche settant’anni dopo. Neanche quand’è raccontata con forza e dolcezza per non dimenticare.

Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo. È vittima della sua stessa disinformazione? Scrive  Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Quei massacri di migliaia di italiani a fine guerra sui confini orientali sono stati nascosti e negati talmente a lungo da apparire quasi una leggenda. Forse per questo Achille Occhetto, ex segretario del Pci, che con il suo partito ha contribuito a far credere che non esistessero, afferma candidamente in un’intervista: “Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la svolta della Bolognina. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza”. D’altronde è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani, maestri nella propaganda e nel distorcere la verità. E perciò può essere rimasto vittima della sua stessa disinformazione se ha scoperto un pezzo di storia solo nel 1989. Oppure continua a mentire come hanno fatto i suoi compagni per quasi mezzo secolo, raccontando che gli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia non erano semplici italiani in fuga dalle stragi comuniste ma fascisti che scappavano per i loro misfatti. Un messaggio che aveva già fatto presa nel 1947. C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi  si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento. Ma è stato impossibile seppellire la memoria: troppi profughi, troppi testimoni e quella destra che alimenta i ricordi. E poi c’è Trieste, che Occhetto conosce bene, città decorata con la medaglia d’oro al valore militare dal capo dello Stato, nella cui motivazione c’è scritto “…subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria…”. Tutti sapevano delle foibe, anche se era scomodo e sconveniente parlarne. Per questo motivo facciamo fatica a credere che il prode Achille l’abbia saputo così tardi. Fosse stato per il Pci, probabilmente non se ne sarebbe mai parlato, ma per fortuna è stato sconfitto dalla storia. E al grande libro dei fatti è stata aggiunta quella pagina strappata.

Pianse Achille Occhetto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, seppellì il Partito comunista italiano dando vita al Pds, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Può sembrare incredibile, ma è lo stesso Occhetto quello che oggi si commuove per lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” con il quale Simone Cristicchi ha messo in scena le foibe e l’esodo istriano, giuliano e dalmata. Quei drammi che proprio la sinistra italiana, per molti decenni, non ha voluto vedere per non dover fare i conti con sé stessa e perché ottenebrata dall’ideologia, adesso inteneriscono colui che pose la prima pietra per la costruzione della sinistra postcomunista.

Occhetto, come giudica lo spettacolo di Cristicchi?

«Davvero molto bello. Trasmette un grande pathos per via di vicende drammatiche nelle quali i torti e le ragioni non stanno tutti da una parte. Si è lontani da una visione manichea. Anche se da un punto di vista della vicenda storica, infatti, nel grande capitolo del ’900, tra fascismo e antifascismo le colpe stanno dalla parte del primo, occorre dire, e nello spettacolo di Cristicchi ne ho trovato traccia, che lo stalinismo ha “macchiato” le idealità dello stesso antifascismo».

Dunque Cristicchi, nel raccontarci che gli esuli non erano fascisti ma italiani che fuggivano da una dittatura, ha usato un metro di giudizio oggettivo?

«Non c’è dubbio. Cristicchi ci dice che, al di là delle affermazioni ideologiche con le quali si combattono delle battaglie politiche, ci furono anche molti antifascisti che si ingannarono, perché non capirono fino a che punto si stava vivendo il dramma di un popolo e non uno scontro fra nostalgici del fascismo e non, come invece una certa propaganda cerca di far vedere».

C’è chi a Cristicchi vorrebbe togliere la tessera onoraria dell’Anpi.

«Un’iniziativa totalmente sbagliata. Il pezzo teatrale di Cristicchi inquadra tutta la vicenda nel torto storico fondamentale del fascismo. L’autore ci dice, fin dall’inizio, che se non ci fosse stato quel tipo di guerra e soprattutto quel tipo di odio nazionalistico che aveva suscitato le reazione dell’altra parte, probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto. Poi, naturalmente, mette in evidenza come anche la sinistra allora non capì fino in fondo quel dramma umano. Non fummo messi nelle condizioni di vedere che cosa realmente accadeva, di capire il reale dramma che si nascondeva oltre i pretesti ideologici».

“Magazzino 18” ha provocato uno “strappo” fra quanti sostengono che il negazionismo è da respingere sia a “destra” che a “sinistra”, e quanti continuano a ritenere che il male del fascismo non è uguale a quello, spesso definito “presunto”, compiuto ai danni degli esuli. Foibe comprese.

«Non si può negare la drammatica realtà delle foibe. Forse ci furono degli antifascisti jugoslavi onesti che rimasero impigliati in quelle vicende, si possono fare delle analisi articolate quanto si vuole, ma il dato di fatto è indubbio».

Per decenni questo capitolo della nostra storia è rimasto sconosciuto.

«Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza».

Com’è stato possibile?

«Di fronte a una storia del ‘900 segnata dai gradi delitti e dalla conculcazione delle libertà da parte del nazifascismo, probabilmente si è cercato di non vedere, e di non ricercare, qualche cosa che poteva addolorarci. Il fatto che quella ricerca venisse poi svolta dalla parte fascista, ha provocato una reazione di tipo ideologico dall’altra parte. Il merito dello spettacolo di Cristicchi, ecco perché mi stupisco di certe posizioni, è che ha portato una vicenda drammatica e umana lontano dal furore degli opposti ideologismi, per ricollocarla nella sua drammatica realtà storica».

Lei ha pianto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, sancì la fine del Pci, ora si commuove assistendo alla messa in scena dell’esodo istriano. Se lo sarebbe mai immaginato?

«Ogni fatto umano, raccontato nella sua tensione reale, è destinato a commuovere. Non penso sia una commozione che fuoriesca da quell’orizzonte morale e ideale per cui mi sono commosso leggendo il Diario di Anna Frank o le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Ho ritrovato, sotto un segno diverso, lo stesso dramma pagato da innocenti».

La «guerra civile culturale» in Italia non è mai finita, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Se intorno a un cantante che mette in scena la «verità storica» sull’esodo istriano, giuliano e dalmata che «condannò» migliaia di italiani alla fame, alla sete e alla morte, si produce ancora uno «squarcio storico», allora siamo ancora lontani da una «storia condivisa». Con «Magazzino 18» andato in scena a Trieste, Simone Cristicchi racconta la verità stabilita dai documenti storici. La verità di italiani, non di fascisti, in fuga dalle «speciali purghe» titine e in cerca dell’agognata libertà. Una verità che a quanto pare può essere raccontata solo dopo una preventiva revisione del «copione» da parte dei «depositari» della verità. E se da una parte la onlus Cnj ha annunciato di aver raccolto qualche centinaio di firme di aderenti all’Anpi per chiedere che a Cristicchi venga ritirata la tessera onoraria dell’associazione dei partigiani, dall’altra c’è chi, fra i rappresentanti dei partigiani, nello spettacolo storico-teatrale di Cristicchi vede una ventata di verità. È il caso di Elena Improta, vicepresidente Anpi Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulla vicenda.

La vicenda Cristicchi ha riaperto una ferita che in realtà non si era mai chiusa. Che posizione ha l’Anpi sulla polemica innescata da «Magazzino 18»?

«Le posizioni nell’associazione non sono univoche. Mi sono informata, ho letto tutto e poi ho parlato con persone che hanno visto lo spettacolo di Cristicchi. Si tratta di iscritti al Partito democratico, persone che hanno avuto parenti deportati ad Auschwitz. Gente, insomma, vicina alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Ebbene, tutti mi hanno riferito che in quello spettacolo non hanno trovato assolutamente nulla di sconvolgente e che si tratta di una polemica assolutamente ideologica. Cristicchi ha solo voluto evidenziare che vanno condannate tutte le forme di violenza che hanno segnato la nostra storia. Non ci possiamo più nascondere».

Qualcuno, come la onlus Cnj, vorrebbe addirittura togliere la tessera onoraria dell’Anpi al cantante per aver ricordato le foibe e il destino di quegli esuli.

«Quelle associazioni e quegli esponenti territoriali dell’Anpi che hanno sottoscritto l’appello contro Cristicchi per il ritiro della tessera perché nel suo spettacolo ha ricordato le foibe, mi sembrano fuori dal mondo. Non c’è nulla di sconvolgente in quelle dichiarazioni. Ricordare quello che furono le foibe non è uno scandalo e nulla toglie al valore della Resistenza e alla lotta partigiana. Se memoria dev’essere, si ricordi tutto. È arrivato il momento di riconoscere che chi scappava da Tito non era fascista, ma cercava la libertà come la cercavano i nostri partigiani. Mi chiedo se chi ha rilasciato certe dichiarazioni abbia realmente visto lo spettacolo di Cristicchi. Il "negazionismo" va condannato a 360 gradi, anche quello sulle foibe».

C’è chi nell’Anpi ha una posizione molto rigida e si accoda alla richiesta di Cnj.

«Le opinioni di chi persegue rigidamente i valori dell’Anpi sono univoche nel senso che ricordano solo la violenza fascista, riconoscono e condannano solo quella, non quella delle foibe. Sto parlando della parte "conservatrice" che fa riferimento o che è vicina ai Comunisti italiani e a Rifondazione comunista. Sbagliano e lo ripeto. Ricordare le foibe non vuol dire negare la Resistenza o la lotta partigiana».

Accanto a Elena Improta c’è Mario Bottazzi, ex combattente partigiano ora nel comitato provinciale dell’Anpi romana. Va oltre, Bottazzi, e si chiede perché non si debbano ammettere nell’Anpi anche persone legate alla destra più moderna e antifascista. Sul «caso Cristicchi» abbiamo sentito anche Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi che si chiede: «Chi, come e quando ha deciso di dare la tessera ad honorem a Cristicchi? In ogni caso l’Anpi toglie le tessere solo in casi eccezionali, solo in presenza di gravissimi fatti di indegnità». Sottolinea, il presidente dell’Anpi, che «si occuperà della cosa, lo farà la sezione locale, per verificare di che spettacolo parliamo e di questa tessera ad honorem. Sarà una verifica seria e non improvvisata». E poi prosegue: «In genere sono per rispettare le manifestazioni d’arte, prenderle per quelle che sono e poi discutere. Certe cose non si affrontano a picconate, vanno rispettate. Se poi uno fa uno spettacolo per negare l’esistenza delle camere a gas, allora ci si arrabbia. Se invece affronta qualcosa che è ancora oggetto di discussione, è diverso». Infine Smuraglia ammette che su quegli esuli italiani in fuga da una dittatura perché in cerca della libertà e non in quanto fascisti, «è arrivato il momento di discutere seriamente, di affrontare l’argomento nelle sedi opportune».

Cristicchi: "Canterò e reciterò le foibe. E già mi insultano". Il cantautore porta a teatro il dramma giuliano-dalmata: "A 50 anni di distanza è ancora un argomento scomodo", scrive Francesco Cramer  su “Il Giornale”.

Perché questo tema?

«Per emozionare e illuminare delle storie rimaste al buio».

Di cui pure lei sapeva poco?

«Pochissimo. A scuola il dramma degli esuli istriani e dalmati non viene raccontato».

Eppure lei ha fatto studi umanistici.

«Liceo classico a Roma. Ma, come molti, da ragazzino davanti alla targa "Quartiere giuliano-dalmata" mi chiedevo chi fosse il signor Giuliano Dalmata».

Un capitolo di storia che dovuto studiare da solo?

«Sì. Ringrazio la mia curiosità e la mia sete di sapere».

Quando è nata l'idea dello spettacolo?

«Un anno fa, in una libreria di Bologna, mi ha colpito un libro di Jan Bernas: "Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani". L'ho divorato».

Poi?

«Ho contattato l'autore su facebook: "Dobbiamo parlarci...". Siamo diventati amici e abbiamo cominciato ad approfondire la cosa».

Da lì è partita l'idea di raccontare a teatro le storie narrate nel libro?

«Sì. Poi ho chiesto di poter visitare il Magazzino 18 di Trieste, inaccessibile al pubblico. Lì ho varcato la porta della tragedia».

Il Magazzino 18: l'immenso deposito di cose mai ritirate dagli esuli istriani.

«Impressionante la tristezza di quel luogo. C'è di tutto: quaderni di scuola, posate, bicchieri, armadi e sedie; montagne di sedie».

Da qui il titolo dello spettacolo: Magazzino 18. Cosa vedremo a teatro?

«Le vicende umane di una pagina nera e dimenticata, attraverso il personaggio principale: un archivista del ministero degli Interni inviato al magazzino a mettere ordine».

E attraverso gli oggetti emergeranno le storie vere?

«Sì, in sei o sette brani con altrettante canzoni. Tutti episodi drammatici e commoventi».

Ci anticipi qualcosa.

«Ci sarà la storia della tragedia dei comunisti di Monfalcone, partiti per la Jugoslavia per costruire il "Sol dell'avvenire". Solo che dopo il loro arrivo Tito ruppe con Stalin e venne accusato di deviazionismo. Per i comunisti di Monfalcone non ci fu scampo: furono considerati nemici e molti finirono nel gulalg di Goli Otok-Isola calva».

Una faida tra compagni.

«Certo. Un sopravvissuto racconta: "Sono stato utilizzato come utile idiota della storia e ho contribuito a far andar via i miei connazionali. Solo dopo ho capito"».

Lei sa che raccontare queste vicende è politicamente scorretto?

«Lo so bene. Su twitter e facebook sono arrivati i primi insulti. Qualcuno mi ha pure dato del traditore».

Traditore? E perché?

«Perché il mio spettacolo "Li romani in Russia", dove racconto il dramma dei soldati italiani inviati dal Duce sul fronte sovietico, mi ha affibbiato la patente di uomo di sinistra».

Invece?

«Invece a me interessa raccontare cose accadute. La verità è che siamo un Paese ancora intossicato dall'ideologia; che tanti danni ha fatto nel passato. Tra cui strappare alcune pagine di storia del nostro popolo».

Che lei vuole riattaccare.

«Certo. La mia vuole essere un'opera di educazione alla memoria. Per non dimenticare. Mai».

Cristicchi: «Io e la mia compagnia siamo stati insultati». Il cantante parla dalla sua pagina Facebook e risponde a chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. Simone Cristicchi prende la parola in prima persona. E lo fa dalla sua pagina Facebook. Il cantautore romano risponde a chi lo contesta. A chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18» (che dovrebbe andare in onda in seconda serata il 10 febbraio su Rai1) perché colpevole di essere antipartigiano. Cristicchi è un artista coraggioso e non si fa intimorire dalle minacce. Neppure da chi ha chiesto la sua espulsione dall’Associazione Nazionale Partigiani. «La tessera mi è stata donata dall’Anpi stessa nel 2010 come attestato di riconoscenza per lo spettacolo con il Coro dei Minatori di Santa Fiora - ha scritto Cristicchi sul suo Facebook - A quanto mi risulta, qualche mese fa la richiesta è già pervenuta all’Anpi, che ha risposto "No" al ritiro della tessera. Ora un’oceanica folla (un centinaio di firmatari) ci sta riprovando, con la benedizione del CNJ, che continua a violare leggi sulla privacy pubblicando mie corrispondenze private sul loro sito». Ma Cristicchi denuncia anche veri e propri episodi di violenza e intimidazione subìti negli ultimi mesi. «Senza pensare al fatto che io e la mia compagnia abbiamo subìto insulti e una sospetta ruota squarciata durante il tour in Istria - conferma il musicista - Bel modo di esporre le proprie idee! Complimentoni». Alla lunga prende il sopravvento la rabbia e la voglia di mettere in luce le contraddizioni del movimento. «Detto questo, se da una parte è deludente constatare cotanta presunzione, sono quasi contento che stiano uscendo allo scoperto questi atteggiamenti, le loro critiche campate in aria e la valanga di menzogne sul mio spettacolo. Così mostrano il loro vero volto, in fondo non così diverso dagli estremisti di destra che loro si vantano di "combattere". Si. Indossando le magliette "I love foiba". Da antifascista, sono schifato da tutto ciò. La tessera gliela rispedisco io! In posta prioritaria. Altrimenti, senza tante chiacchiere, si facciano loro uno spettacolo con la loro "sacrosanta" verità. In fondo, ma molto in fondo, siamo un paese democratico, no?»

Cristicchi racconta le foibe "Ora mi danno del fascista". Il cantautore porta in scena un musical sugli orrori dei comunisti titini e l'esodo degli italiani dalmati. "Sfido l'estrema sinistra: venite a vedermi", scrive di Simone Paliaga su “Libero Quotidiano”.

«"Chi è Giuliano Dalmata?" si chiede in una battuta del musical, confondendo due aggettivi per un nome e cognome, il funzionario inviato da Roma a catalogare il materiale dei profughi italiani provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia. Probabilmente questi sono gli stessi pensieri che balzano alla mente quando a Roma ci si imbatte nel Villaggio giuliano dalmata», ci racconta Simone Cristicchi. In questi giorni che la parola negazionismo rimbalza ovunque il cantante si trova a Trieste per inaugurare il Salone del libro dell’Adriatico Orientale Bancarella (17-22 ottobre con oltre cento incontri) e per togliere il velo a una storia negata e dimenticata da anni. Si tratta di un altro negazionismo di cui pochi si ricordano: l’esodo di 300 mila italiani dalle terre italiane di Istria e Dalmazia alla fine della Seconda guerra mondiale a causa dell’occupazione jugoslava e con il beneplacito inglese. Per riportarlo al centro dell’attenzione al Politeama Rossetti di Trieste il 22 ottobre, con repliche fino al 27, verrà presentato in anteprima nazionale lo spettacolo di Simone Cristicchi e Jan Bernas Magazzino 18, per la regia di Antonio Calenda.

Cristicchi, prima che le venisse in mente di scrivere il musical sapeva di questo episodio storico?

«Vagamente. È un argomento che non si studia a scuola. L’ho conosciuto attraverso un libro che ho trovato a Bologna. Si tratta di “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” (Mursia) di Jan Bernas  che poi è diventato il coautore del musical. Tra quelle pagine ho trovato testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esodo, il controesodo di molti monfalconesi poi andati in Jugoslavia e finiti a Goli Otok… Questi fatti nessuno li conosce».

Che cosa è il Magazzino 18?

«Mi trovavo a Trieste per fare delle ricerca sulla Seconda Guerra mondiale e ho sentito dell’esistenza di un deposito dove si trovano accatastate le masserizie degli esuli, il Magazzino 18. Dopo un po’ di traversie sono riuscito a visitarlo. E mi è sembrato di rivedere Ellis Island, l’isola dove gli emigrati italiani venivano tenuti in una sorta di quarantena prima di poter sbarcare negli Stati Uniti».

Perché ha pensato di ricavare uno spettacolo dalle vicende dell’esodo?

«Perché è una storia che merita di essere raccontata. Non è stato un lavoro di poco conto. Tra ricerche e scrittura mi ci è voluto un anno di fatiche. Prima ho cominciato a lavorare al testo e poi ne sono uscite anche le canzoni… Si tratta di un musical civile con una scenografia imponente, un coro, un’orchestra. Un lavoro che senza l’aiuto del teatro stabile non avrei potuto realizzare».

Cosa ha provato quando è entrato per la prima volta nel Magazzino 18?

«Avevo l’impressione di trovarmi in un luogo quasi sacro… era ricolmo degli oggetti degli italiani che erano stati costretti a lasciare le loro terre in Istria e Dalmazia. Mobili, poltrone, attaccapanni, tutto insieme. I numeri della tombola si trovavano a fianco di un cuscino. Su ogni sedia era appiccicato il nome del proprietario… era come se questi oggetti parlassero. Avevo l’impressione si essere immerso in una atmosfera fiabesca. In questo magazzino era finito il contenuto di un’intera città. È per questo che ho deciso di ambientare il musical dentro quelle pareti, dentro quel Magazzino».

La canzone che lo racconta ha scatenato una valanga di polemiche…

«Quando l’ho pubblicata sono rimasto colpito dalla quantità di critiche dell’estrema sinistra che mi sono piombate addosso. Se prima per i temi che toccavo mi consideravano di sinistra a un tratto sono diventato un fascista. Io invece sono un artista, voglio raccontare storie. Non mi interessano questi giochi politici. Mi sento libero di occuparmi delle storie che voglio. Più mi attaccano e più io mi incaponisco. Sfido queste persone che mi accusano. Spero vengano a teatro e si ricredano. Nel testo non c’è niente di revanscista. È equilibrato e intende raccontare un pezzo dimenticato della nostra storia di italiani».

Chi ha strumentalizzato questa vicenda penalizzandone la diffusione?

«La strumentalizzazione politica è stata fatta dall’estrema destra come dall’estrema sinistra. Negli anni Settanta gli uni lo hanno impiegato come mezzo di propaganda mentre a sinistra provavano a giustificarlo. Ma il giustificazionismo è pericoloso. Si può finire con avallare qualsiasi cosa».

Cosa ha provato la gente non ideologizzata… quella che non sta né da una parte né dall’altra?

«Una reazione di vergogna. Un po’ quella che ho provato io quando ne sono venuto a conoscenza per la prima volta. Ci si chiede come sia possibile che questa tragedia sia stata rimossa dalla nostra attenzione, che se ne trovino scarse tracce anche nei manuali scolastici…».

Ha intenzione di continuare in questo filone artistico?

«Certo. È un linguaggio ideale per raccontare la nostra storia. Il teatro civile attira un pubblico di intellettuali mentre la musica  è più coinvolgente. Dai bambini agli anziani, tutti possono godere dello spettacolo e imparare qualcosa sulla storia italiana. E se dovesse funzionare questo spettacolo potrei anche continuare, magari occupandomi del Risorgimento».

Foibe: il giorno del ricordo. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».

Foibe, la verità dopo tanto silenzio, scrive Aldo Quadrani su “Viterbo Post”. Il Circolo Reale riportò alla luce la tragedia nel 1997. Gabbianelli la ricordò. Il 10 febbraio, l’Italia celebrerà il giorno del ricordo una ricorrenza civile nazionale istituita con legge del 30 marzo 2004 per non dimenticare le migliaia di Italiani trucidati dall’odio comunista, gettati nelle cavità carsiche, chiamate foibe. Nella nostra città, ma anche in gran parte d’Italia, di questo dramma non se ne ebbe notizia per tanti anni, grazie anche alla connivenza di una certa politica. Dobbiamo arrivare al 6 novembre 1997 quando il Circolo Reale della Tuscia in un pubblico convegno portò alla ribalta questo doloroso evento ed in quella occasione emerse la proposta di dedicare un pubblico sito a questi martiri. Ma si dovette attendere sino al 1999 e precisamente il 16 ottobre, giorno in cui venne intitolata la piazza esterna a Porta Faul ai “Martiri delle Foibe Istriane” grazie alla determinazione dell’allora sindaco Giancarlo Gabbianelli e dell’ allora assessore Antonio Fracassini. Chi era presente forse ancora ricorda la toccante e bellissima cerimonia con tante testimonianze di profughi e parenti di infoibati. Ma anche Viterbo dette il suo contributo di sangue come scoprì, a seguito di indagini, l’allora consigliere comunale Maurizio Federici: il ventenne Carlo Celestini conobbe la tremenda fine della sua vita in un Foiba e a lui fu dedicato il cippo che a tutt’oggi si erge nella piazza. Purtroppo i viterbesi, anche della provincia, che perirono in siffatte condizioni furono molti, come accertarono in seguito lo stesso Federici coadiuvato da Silvano Olmi. Con la nascita della festività nazionale c’è ora un Comitato denominato “10 febbraio” che magistralmente porta avanti annualmente il ricordo dei nostri martiri. Quest’anno la commemorazione avverrà con due giorni d’anticipo, domenica 8 febbraio alle ore 11,30 presso il Piazzale Martiri delle Foibe Istriane, per dar modo ai nostri Cittadini di poter partecipare e ricordare chi morì per la sola colpa di essere Italiano.

E allora le foibe? Si chiede Adriano Scianca su “Il Primato Nazionale”. È capitato una volta a chi scrive di telefonare, per ragioni professionali, a una delle tre maggiori università romane a ridosso della Giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Alla domanda su quali iniziative avesse preso l’ateneo per ottemperare agli obblighi di legge che prevedono pubbliche iniziative in occasione del 10 febbraio, il funzionario dell’università, sensibilmente imbarazzato, si affrettò a precisare: “Guardi, noi abbiamo anche un dipartimento di studi ebraici”. Al che fu chiaro che il passacarte di turno confondeva la Giornata del ricordo (10 febbraio) con il Giorno della Memoria (27 gennaio) e che evidentemente no, la sua università non aveva organizzato alcuna iniziativa per ricordare i connazionali trucidati nelle cavità carsiche. Volendo, l’aneddoto evidenzia anche una stortura nel rapportarsi alla stessa commemorazione del 27 gennaio (che c’entra il fatto di ricordare l’Olocausto con il fatto di avere un dipartimento di studi ebraici?), ma non infieriamo ulteriormente. A quanto pare, il ricordo è una cosa più complicata di quanto qualcuno immaginasse. Non basta istituire una giornata ad hoc per riattivare una memoria interrotta, se non si va a lavorare sulle ragioni di quella interruzione. Certo, magari la Rai domani sera trasmetterà “Il cuore nel pozzo”, la melensa fiction cerchiobottista in cui non si parla di comunisti e in cui gli esuli cantano “O sole mio”, tipico canto del confine orientale. Ma il ricordo vero è un’altra cosa e la classe intellettual-mediatica italiana si guarda bene dall’accostarvisi, in quanto erede spirituale di chi infoibò, torturò, stuprò, cacciò i nostri connazionali, di chi non li fece sbarcare nelle stazioni a cui approdavano dopo l’esodo, di chi gettava il latte destinato ai neonati affamati in terra, con gesto di scherno e sadismo, di chi ha imposto che per anni sulle foibe cadesse un velo di vergognoso silenzio. E dopo aver lasciato per anni il ricordo in mano a un pugno di patrioti solitari, che hanno tenuto viva la memoria per anni in mezzo all’indifferenza complice, oggi si denunciano quei pochi perché strumentalizzerebbero la storia. Non scordiamo, del resto, che poco tempo fa una mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata per meriti familiari in prima serata, poteva lanciare il tormentone “E allora le foibe?” (cosa semplicemente inconcepibile in relazione a ogni altra grande tragedia del Novecento) come a sottolineare che chi ha a cuore il martirio delle terre del confine orientale è forse troppo invadente, insistente, petulante, dovrebbe darsi una calmata. Come se di foibe si parlasse in continuazione, come se l’argomento avesse ormai stancato, fosse un fatto assodato, come se non se ne potesse più. E forse, per alcuni, è così. Perché le foibe ricordano la loro eterna colpa e quindi quel nome è per loro insopportabile. Un motivo in più per continuare a pronunciarlo: e allora le foibe?

Il 10 febbraio, data della ratifica dei trattati di pace del 1947, si ricordano gli eccidi in Istria e Venezia-Giulia. 10 febbraio 2015. A 70 anni dai massacri del 1945, scrive Edoardo Frittoli su “Panorama”. La serie di eccidi noti come i massacri delle foibe possono essere divisi in due distinti periodi: gli "infoibamenti" del settembre-ottobre 1943 e le stragi del 1945, che in alcuni casi si protrassero fino al 1947. Non si conosce esattamente ad oggi il numero esatto delle vittime. La storiografia attuale comprende una forbice stimata tra i 5000 e i 12.000 morti. Al di là degli approcci ideologizzati dalla letteratura del dopoguerra e del silenzio sotto il quale passarono gli anni della Guerra Fredda e della Jugoslavia "non allineata" di Tito, sembrano essere all'origine dei massacri una serie di gravi concause, alcune risalenti a decenni antecedenti i fatti. Le popolazioni della Venezia-Giulia, dell'Istria e della Dalmazia a cavallo tra il secolo XIX e il XX  erano caratterizzate dalla dualità etnico-linguistica italiana e slava. Quest'ultima, originariamente rurale, si trovava in una posizione socio culturale più bassa rispetto agli italiani, che costituivano una sorta di borghesia urbanizzata. Tra la fine dell'800 e la Grande Guerra i movimenti nazionalisti slavi, specie in Dalmazia, furono apertamente sostenuti dall'Impero Asburgico in funzione anti-italiana. La vittoria del 1918 portò all'occupazione di tutta la Venezia Giulia, dell'Istria e dalla Dalmazia. Quest'ultima fu alla fine negata all'Italia dalla "Dottrina Wilson", e Roma ottenne solo Zara e alcune isole. Da questa situazione tra gli irredentisti italiani nacque il mito della "vittoria mutilata", ripresa totalmente dal fascismo che si affacciava al potere. Dopo il 1922 inizia il processo di "fascistizzazione" attraverso la proibizione dell'uso delle lingue slave, l'esclusione dalle cariche pubbliche dei cittadini di origine non-italiana e la conseguente attribuzione a soli cittadini italiani dell'istruzione pubblica. Con l'aggressione italo-tedesca del 1941 la geografia di Slovenia, Croazia e Dalmazia fu riscritta. L'Italia procedette all'annessione di Lubiana e gran parte dell'attuale Slovenia. La Croazia passò sotto il regime filofascista di Ante Pavelic. Gli eventi bellici fecero poi precipitare la situazione. Nel 1943 i partigiani jugoslavi erano impegnati nella lotta contro i tedeschi e gli italiani quando arrivò l'8 settembre e il conseguente sbandamento del Regio esercito. Proprio a seguito dell'armistizio si colloca la prima ondata di assassinii legati alle foibe. Nei mesi precedenti, la lotta antipartigiana condotta dagli italiani e dagli alleati tedeschi aveva portato ad alcuni gravi episodi di repressione, sfociati in veri e propri massacri tra la popolazione civile. In Croazia Ante Pavelic, alleato dell'Asse, perseguì violentemente i partigiani, gli ebrei e gli zingari. Parecchi prigionieri sloveni erano stati portati nel campo di concentramento di Gonars, in Friuli. Così come i partigiani jugoslavi furono internati da Pavelic nel campo di concentramento di Jasenovac. All'indomani del' 8 settembre parte del territorio istriano era caduto in mano ai partigiani jugoslavi, i quali compilarono liste di presunti collaborazionisti del regime fascista, che comprendevano frequentemente nomi estranei alle istituzioni nazifascisteo all'esercito. Spesso si trattava di civili italiani ritenuti "in vista" dalla popolazione slava. Gli arrestati, condotti a Pisino, furono fucilati e infoibati. Altri massacrati nelle miniere della zona. Si trattava di circa 600 persone, trascinate e gettate nelle foibe spesso ancora vive, legate tra loro da un filo di ferro collegato a pesanti massi. Nel dicembre 1943 i tedeschi riprendono l'Istria, nell'offensiva che porterà i territori della Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia a costituire la cosiddetta zona d'Operazioni del Litorale Adriatico (OZAK) di fatto annessa al Terzo Reich. Qui cominciarono ad operare a fianco dei tedeschi i reparti italiani della RSI (Guardia Nazionale Repubblicana, il reggimento Alpini "Tagliamento", reparti delle Brigate Nere) che si macchiarono di ulteriori tragici episodi di repressione. Ad appesantire il bilancio contribuirono i bombardamenti alleati della zona costiera e l'avanzata dei titini che tra l'autunno del 1944 e la primavera del 1945 riconquistarono la Venezia-Giulia puntando rapidamente su Trieste. L'arrivo degli uomini di Tito segnò la fine anche per gli italiani che avevano fiancheggiato gli jugoslavi nella lotta contro fascisti e nazisti. La polizia segreta di Tito, l'OZNA, comprese negli elenchi dei nemici dello stato comunista di Jugoslavia anche molti elementi facenti parte del CLN. La furia vendicatrice degli uomini di Tito si riversò anche su elementi del clero locale che non si erano macchiati di collaborazionismo. Nella primavera del 1945 furono sterminati nelle foibe migliaia di persone, non solo italiane, non solo membri delle milizie fasciste del Litorale Adriatico. Anche gruppi di Sloveni che si opponevano alla futura Jugoslavia comunista, anche membri di formazioni politiche "non allineate" quali gli Autonomisti istriani, i cui vertici furono barbaramente assassinati. Neppure i membri della Resistenza italiani di ritorno dai campi di concentramento furono risparmiati. Alla tragedia si aggiunse tragedia in quanto i titini, vicini alla vittoria finale, parevano non limitarsi all'acquisizione territoriale della Venezia-Giulia. Essi ritenevano che la vittoria militare coincidesse con quella della rivoluzione sociale comunista. La classe borghese in quelle zone era tradizionalmente identificata con la popolazione italiana tout court , al di là delle appartenenze politiche. Nei mesi del caos che precedettero la fine della guerra molte furono anche le morti dovute a rappresaglie locali, vendette personali o questioni legate a beni e proprietà. Particolarmente cruenta fu la situazione di Trieste e Gorizia all'arrivo dei titini.  Oltre alla eliminazione fisica e all'occultamento nelle foibe del Carso, molti furono gli italiani e in genere gli oppositori di Tito ad essere internati nel terribile lager di Borovnica, nel quale i prigionieri furono massacrati dopo orribili torture fisiche. Sembrava in sostanza che la rappresaglia in quelle zone non si sarebbe arrestata con la fine della guerra, ma che sarebbe proseguita al fine di garantire il nuovo stato jugoslavo contro ogni tipo di opposizione. Cosa che in Italia non si verificò in quanto la Resistenza non si identificherà mai, come in Iugoslavia, con una nuova realtà nazionale (La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia) in continuità con il movimento resistenziale. Il massacro di migliaia di vite umane nella profondità delle foibe fu messo a tacere praticamente subito. L'inizio della Guerra Fredda vide le mire del maresciallo Tito ridimensionate con la costituzione del TLT di Trieste (zona libera). Nel 1948 poi avviene lo strappo tra Belgrado e Mosca. Sia il PCI che il governo ritennero prudente non riaprire la questione delle foibe.  Il governo e le istituzioni per evitare di affrontare la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in un contesto internazionale molto teso. Così come ambiguo rimarrà l'atteggiamento dei comunisti italiani tra il 1945 e il 1948. Questi avevano avvallato l'ingresso dei titini nella Venezia Giulia, acconsentito a tutte le rivendicazioni territoriali jugoslave dal 1945 in avanti. Fino al 1948, anno della rottura tra Stalin e Tito e alla ratifica dei trattati di pace a Parigi il 10 febbraio 1947. Poi il grande silenzio internazionale ha coperto per decenni le imboccature delle depressioni carsiche e il loro contenuto di morte.

La tragedia delle Foibe: 60 anni di silenzio. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali. Scopriamoli insieme, scrive Nicolamaria Coppola su “Quotidiano Giovani”. È stato un tabù per decenni: non una riga sui libri di scuola, nessuna pubblicazione storica nel grande circuito editoriale, niente commemorazioni ufficiali. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali: innanzitutto la necessità, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, del blocco occidentale di stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica; cause politiche dal momento che il PCI non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale; un silenzio da parte dello Stato Italiano che voleva sorpassare tutto il capitolo della sconfitta nella guerra da poco conclusasi. Solo in quest'ultimo decennio il dramma delle foibe è tornato alla ribalta, e nonostante le polemiche ideologiche si è cominciato a fare luce sulla tragedia. Dal 2005 si commemorano, nella “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio, le vittime dei massacri delle foibe, ma sono ancora pochi gli Italiani che sanno effettivamente di cosa si tratti e cosa abbiano rappresentato per la generazione del dopoguerra. Secondo un sondaggio commissionato dall'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, solo il 43% dei nostri connazionali sa cosa siano le foibe e ancora più bassa è la percezione sul significato dell'Esodo giuliano-dalmata (22%). Il 46% dei giovani ha una cognizione abbastanza chiara della tragedia, ma i dubbi e le incertezze sono ancora tanti. Le foibe sono delle cavità naturali con ingresso a strapiombo presenti sul Carso, la zona montuosa compresa tra Trieste, la Slovenia, l'Istria e la Dalmazia, usate per occultare i cadaveri di un numero non preciso di persone. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i partigiani comunisti di Tito gettarono- infoibarono - in queste profonde voragini migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive, colpevoli o di essere italiane o di essere contrarie al regime comunista. La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l'Italia guidata dal Generale Badoglio e le truppe anglo-americane: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Li consideravano “nemici del popolo”, accusandoli sia di non essere comunisti e, quindi, ostili a Tito, sia, soprattutto, di aver contribuito, allorquando il regime fascista impose in tutto il Venezia Giulia una violenta politica di snazionalizzazione, all'eliminazione delle minoranze serbe, croate e jugoslave in quella regione. Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba: qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. La violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito, al grido di «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale», si scatenarono di nuovo contro gli italiani, e a cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. L'ondata di violenza non risparmiò neppure le popolazioni slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo, le quali, oltre che infoibate, vennero deportate nelle carceri e nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Borovnica. Questa carneficina, che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti, finì il 9 giugno 1945, quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan che prevedeva due zone di occupazione, la A e la B, dei territori goriziano e triestino, confermate dal “Memorandum di Londra” del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli Italiani, però, durò almeno fino al 1947, soprattutto nella parte dell'Istria più vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava. Secondo lo storico Enzo Collotti, parlare delle foibe significa «chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari e sociali concentratesi, in particolare, nei cinque anni della fase più acuta della Seconda Guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria». Le foibe sono state il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. «Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale», ha sintetizzato lo storico triestino Roberto Spazzali. «Chi non ci stava, veniva eliminato».

IL SILENZIO SULLE FOIBE: UN GENOCIDIO CELATO DA OMBRE, scrive Giuseppe Papalia su “Secolo Trentino”. Foibe. Probabilmente a molti questa parola direbbe ancora poco se l’argomento non fosse stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica, istituendo una giornata della memoria, meritata quanto agognata e ancora oggi criticata e strumentalizzata dalle diverse fazioni politiche che ne recriminano l’accaduto. Il 10 febbraio di ogni anno, infatti, si ricorda questo terribile genocidio ancora impresso nella mente di molti, di quell’Italia del dopoguerra travolta dalla miseria e dalla fame. Di quel paese coinvolto in una crisi identitaria radicale, non solo politica ma quasi metafisica. In cui la guerra e la persecuzione erano solo i sintomi di una guerra ormai ultima, la prova, che negli anni a venire avrebbe gettato una luce cruda su quanto accaduto. Quella luce che in molti oggi sembrano non voler riesumare, nonostante i corpi riesumati in quelle fosse furono circa 11000, comprese le vittime recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi. Una riflessione scaturisce in merito a quella storia vissuta eppure dimenticata dai più, impressa tuttavia nelle menti delle generazioni che l’hanno vissuta sulla loro pelle l’8 settembre del 1943, quando i territori istriani, giuliani e dalmati, dapprima sotto l’influenza tedesca, venivano in seguito occupati dai partigiani comunisti di Tito. Titini che, comunemente ai partigiani comunisti italiani, non solo nutrivano il progetto di avanzare in un paese ormai stremato e inerme (segnato dalla caduta del fascismo) recriminandone la conquista territoriale, ma addirittura rivelarono ben presto quell’odio etnico che li animava. L’intenzione di “de-italianizzare” i territori occupati con metodi terribili fu presto svelata. Metodi che nulla avevano da invidiare a quelli nazisti adottati nei confronti di popoli innocenti e che nulla centravano con i fatti accaduti nell’Europa della grande guerra e dei crimini di guerra. Così, occorre oggi ricordare, che Italiani senza particolare distinzione di sesso, età o fazioni politiche, erano prelevati e poi eliminati con l’unica colpa forse, di non aver partecipato attivamente a piani espansionistici di Tito, che costrinse ben 350000 persone a  fuggire dalle loro terre e altre 11000, a essere uccise con modalità di una ferocia inaudita. Nella sola foiba di Basovizza, furono rinvenuti 2000 cadaveri. Nonostante in molti abbiano portato il tema alla considerazione dell’opinione pubblica, sorge spontanea una riflessione. Possibile che solo ora, dopo settantanni di macabra storia celata e quasi dimenticata, se non addirittura strumentalizzata a piacere dalle diverse fazioni politiche, possiamo ritenerci soddisfatti dell’istituzione di una giornata della memoria e (addirittura) dell’uscita di un film sull’avvenimento di tale fatto?  E pensare che la cinematografia e tutte le varie ricorrenze istituite ad hoc, non si sono fatte aspettare più di tanto per quel che concerne la Shoah. Per quale motivo? Che le foibe fossero meno importanti? O probabilmente perché nonostante tutto, ancora oggi, le foibe non sono ancora entrate nella cosiddetta “memoria condivisa” di un popolo (quello italiano) che ne fu vittima oltre che carnefice? Come scrisse il grande giornalista Indro Montanelli, “sicuramente il silenzio sulle foibe oggi si spiega facilmente, considerando che la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, la quale apparteneva certamente al comunismo slavo e di cui era succube e ne curava gli interessi. Di questo quindi non si poteva parlare poiché della morte di tante persone ne risentiva la coscienza. Ammesso che ce ne fosse una, in nome di una resistenza che altro non era che una guerra civile tra italiani stessi.” Forse occorrerà domandarsi cosa, al cospetto dei quei tragici avvenimenti, viene oggi ricordato nell’immaginario collettivo comune. Di quel macabro periodo in cui tutto pareva che fosse quasi un nodo, che prima o poi sarebbe certo venuto al pettine.

Foibe: anche decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi, scrive “Imola Oggi”. Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe. Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo. La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954. Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia. Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri. Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30. Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200. Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il ”Giorno del Ricordo”, per conservare la memoria della tragedia delle foibe. Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito. Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre. Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite. Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe. Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio. La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati. Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio. Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”. In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino. A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione. Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie. Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi. Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati. Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”. Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.

Crimini titini: cinquanta i sacerdoti infoibati, da Bonifacio a Bulesic, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia”. È stato solo con la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, per iniziativa del deputato triestino Roberto Menia, che la maggioranza degli italiani ha saputo cosa successe alla frontiera nordorientale negli anni Quaranta. Ventimila gli italiani uccisi, infoibati, oltre 350mila le popolazioni che dovettero forzosamente abbandonare l’Istria e la Dalmazia spinti dalla furia dei partigiani comunisti di Tito. Fu un genocidio in piena regola, che ha rispettato tutti i canoni: prima lo sterminio indiscriminato delle popolazioni residenti in un determinato territorio, tanto da costringere i superstiti ad abbandonarlo, poi l’occupazione di quel territorio e la confisca – meglio: il ladrocinio – delle terre e delle case ai proprietari legittimi. Ferite queste, insieme con gli assassinii di massa, che non sono mai state rimarginate. Tra gli infoibati, ossia le persone gettate, spesso vive, nelle depressioni carsiche chiamate foibe, ci furono persino sacerdoti. E anche questo è stato appreso recentemente, poiché per decenni su quella vicenda calò una pesantissima cortina di silenzio con la complicità del debole governo democristiano che non voleva dispiacere alla Jugoslavia ma che soprattutto non voleva rinunciare all’apertura a sinistra, che poi realizzò. Sembra che i sacerdoti assassinati in questo modo siano stati non meno di cinquanta, alcuni dei quali a tutt’oggi sconosciuti e alcuni dei quali di cui non è mai stato trovato il corpo. Come accadde per don Francesco Bonifacio, torturato e assassinato dai titini, che è stato proclamato beato il 4 ottobre 2008 nella chiesa di San Giusto a Trieste da Benedetto XVI. 62 anni dopo i fatti. Francesco Bonifacio era nato nel 1912 a Pirano, oggi in Slovenia, e per la sua bontà era stato soprannominato el santin. Nel 1946 era cappellano a Villa Gardossi, un grosso comune agricolo nell’entroterra, e fu lì che fu sorpreso da quattro “guardie popolari”, nome dietro cui si nascondevano i feroci assassini titini, i quali lo derisero, poi picchiarono selvaggiamente,lo lapidarono, lo spogliarono e lo finirono a coltellate prima di gettarlo in una foiba, detta di Martines, che non lo ha mai più restituito. Il fratello, che lo cercò immediatamente avendo saputo che cosa fosse successo, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie. Molti anni dovettero passare prima che si facesse luce sulla vicenda. Vennero fuori i testimoni che raccontarono le atrocità di quelle ultime ore. Ma la cortina di silenzio era già scesa, di lui non si parlò più per anni. Nel 1957 il vescovo di Trieste, Santin, avviò la causa di beatificazione, ma la pratica restò ferma per 40 anni, a riprova del fatto che sulla foibe doveva calare il silenzio per sempre. Solo Benedetto XVI, recentemente, ha avuto il coraggio di dichiarare Bonifacio ucciso in odio alla Fede. A Bonifacio si è aggiunto, nel settembre del 2013, il nome di Miro Bulesic, assassinato dai partigiani rossi nell’agosto del 1947 nell’Istria settentrionale. Bulesic è stato beatificato nell’Arena di Pola nel corso di una commovente cerimonia, nel corso della quale si è appreso che nelle diocesi croate negli anni Quaranta furono trucidati ben 434 sacerdoti, tra secolari e regolari, più altri 24 morti per le torture e le sevizie in carcere. Quel 24 agosto 1947, nel corso delle cresime nella chiesa di Lanisce, esponenti comunisti irruppero nell’edificio di culto, distrussero tutto, misero a ferro e fuoco la chiesa stessa e bastonarono selvaggiamente don Miro, gettandolo contro il muro e alla fine sgozzandolo con un coltello. Il responsabile, individuato, fu poi assolto. Ma la mattanza dei religiosi era cominciata molto prima: nel settembre 1943 i partigiani jugoslavi di notte sequestrarono don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, e lo gettarono nelle carceri del castello di Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo qualche giorno venne portato Lindaro insieme con altre 43 persone, legate insieme col filo spinato, e colpito da raffiche di mitra e gettato in una cava di bauxite. Quando don Angelo fu riesumato si vide che gli assassini gli avevano messo sulla testa una corona di spine fatta di filo spinato. Tra i sacerdoti uccisi e infoibati vanno ricordati anche don Alojzij Obit del Collio, che scomparve nel gennaio del 1944, don Lado Piscanc e don Ludvik Sluga di Circhina, assassinato insieme con altri 13 loro parrocchiano nel febbraio dello stesso anno, don Anton Pisk di Tolmino, scomparso e poi verosimilmente infoibati ad ottobre 1944, don Filip Tercelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel gennaio 1946 e successivamente scomparso, don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946, e molti altri rimasti ancora senza nome.

 “Rosso Istria”, a rischio il film sulle foibe?, scrive Marco Minnucci su “Il Giornale”. Rosso Istria, il dramma del confine orientale del dopo guerra è il titolo del lungometraggio del regista Antonello Belluco, presentato a fine gennaio a palazzo Moroni, Padova. Il film sarà prodotto da Venice Film ed Eriador Film, sostenuti dalla Regione Veneto, con il suo fondo del cinema e dell’audiovisivo, con la collaborazione del Comune di Padova, della Treviso Film Commission e dell’ANVG (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Il capoluogo veneto sarà il teatro delle riprese che punteranno l’obiettivo sul 1943 anno in cui, per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, si consuma la tragedia per mano dei partigiani di Tito spinti da una furia anti-italiana. Che il lungometraggio metta in risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente violentata e uccisa nel 1943 dai partigiani titini, è già scritto nel titolo, infatti era proprio Istria Rossa (il rosso è relativo alla terra ricca di bauxite dell’Istria) il titolo della tesi di laurea che Norma Cossetto stava preparando nell’estate del 1943 con il suo relatore, il geografo Arrigo Lorenzi. La Cossetto girava in bicicletta per i paesi dell’Istria, visitando luoghi, biblioteche, chiese, alla ricerca di archivi che le consentissero di sviluppare la sua tesi di laurea, che purtroppo non vedrà mai la luce perchè la studentessa verrà massacrata per la sola colpa di essere italiana. Non è un tema nuovo per Belluco, figlio di esuli, che già a novembre dello scorso anno era uscito con il film Il segreto di Italia, sulla strage compiuta dai partigiani nel 1945 a Codevigo; un film che non aveva mancato di suscitare aspre polemiche, che videro in prima fila l’ANPI di Padova. Chissà se anche in questa “opera seconda” Belluco inciamperà in quelle operazioni di boicottaggio che hanno rallentato e impedito la distribuzione del film nelle sale cinematografiche? Questa volta Belluco non sarà solo, poiché a dargli manforte ci sarà la collaborazione del cantautore Simone Cristicchi, anche lui presente alla conferenza padovana; l’autore di “Magazzino 18” sarà il compositore delle musiche che accompagneranno “Rosso Istria”. Quella tra Belluco e Cristicchi è una solidarietà artistica che, prima di sfociare in questa collaborazione, era già stata esternata dal cantautore romano sulla sua pagina Facebook con un post in cui sottolineava le similitudini tra l’ostruzionismo che aveva colpito il suo “Magazzino 18” e il “Segreto di Italia” e concludeva con questo messaggio d’ incoraggiamento: “Per fortuna, esiste una forma di promozione che nessuno può censurare. Si chiama “passaparola”. E allora…in bocca al lupo Antonello, e coraggio!” Non resta che augurarci che questa volta si faccia silenzio in sala ma, soprattutto, che ci sia una sala.

Io, minacciato per il mio spettacolo sulle Foibe”, scrive in un a intervista a Simone Cristicchi  “Il Giornale”.

In questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con “Magazzino 18″, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?

«Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza».

È una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?

«Lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso».

Non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…

«Da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente».

La tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto “Ti regalerò una rosa”. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?

«Probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento».

Che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?

«Non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto».

Tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF?

«Il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di “Magazzino 18″, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso».

Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata. Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Cos'era accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da sinistra faceva l'opposizione. Soltanto un nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. La Storia non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto. Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no, agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani. In una intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro: «Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti italiana. Dunque, due protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati. E poi gli esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da dare ai bambini. Alla gente che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva il Migliore, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia. I liberatori comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la «Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia: adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle prove di dialogo con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

«QUEL SILENZIO ASSORDANTE SULLE FOIBE». Il comunismo e il terrore, l'intervento del Nuovo Psi di Qualiano su “Interenapoli”. Qual è il vero motivo di sessanta anni di silenzio sulle foibe? Chi ci ha guadagnato da questo silenzio? Quante carriere, politiche, universitarie, sono state costruite da questi assordanti silenzi? L’accesso agli archivi di Mosca, un tempo segreti, ha consentito la stesura di un bilancio delle vittime del comunismo spaventoso, addirittura quattro volte superiore a quello delle vittime del nazismo: il più colossale caso di carneficina politica della storia. A tutt’oggi c’è ancora chi ritiene improponibile un accostamento dei due regimi rifacendosi alla differente ispirazione iniziale: mentre il nazismo fu una dottrina dell’odio e i suoi crimini,pertanto prevedibili e legati alla sua stessa essenza, il comunismo è spesso considerato una dottrina di liberazione, di amore per l’umanità e i suoi delitti considerati a mo’ di errori, incidenti, deviazioni. Tale argomentazione è a dir poco artificiosa in quanto prevedeva in entrambi i casi lo sradicamento di una parte della società. L’utopia di una società senza classi e l’illusione di una razza pura esigevano l’eliminazione di individui che si riteneva,ostacolassero la realizzazione del progetto. Per questo il richiamo all’umanità del comunismo è servito spesso a dare una legittimazione superiore all’uso del “terrore”. Il principio umanitario della politica consiste nel non considerare nessun uomo superiore moralmente ad un altro. Il nazismo è considerato il regime più criminale del secolo, mentre il comunismo in virtù dell’alleanza dello stalinismo con le principali democrazie mondiali ne ha ricavato spesso un credito morale che non ha mai cessato di sfruttare: l’antifascismo. In virtù di questo valore i crimini comunisti sono diventati un indiscutibile strumento di legittimazione. Contrapporre la democrazia al fascismo permise al sistema comunista di presentarsi come “democratico” in quanto antifascista. In tale contesto si inserisce la complicità del comunismo italiano che in Italia ha peccato di gravi menzogne e di una palese incapacità di attuare un vero processo revisionistico. La volontà di palesare una superiorità morale del “comunista” rispetto agli altri non comunisti ha portato all’atteggiamento del PDS durante il periodo di tangentopoli che ha comportato la eliminazione di una intera classe dirigente nazionale. Il cinismo comunista fu accompagnato, insieme alla liquidazione a all’infoibamento di una intera classe dirigente ad un trasformismo mal celato complice un uso parziale della Giustizia che certamente non esaminò con eguale severità i finanziamenti illeciti di ogni partito, compresi i finanziamenti moscoviti all’ex partito comunista. La ragione del fallimento del tentativo degli “ex” comunisti di usurpare il socialismo liberale e la politica di Craxi risiede proprio nella incapacità di ripensare alla propria storia, ripudiando gli errori commessi e scavando fino infondo la tragedia e i crimini del comunismo. E’per questo che la riabilitazione della figura di Bettino Craxi non può venire da Fassino e dal DS. L’Europa dei totalitarismi e dell’uomo moralmente superiore all’altro uomo, perché politicamente diversi deve restare dietro di noi ma non può essere né dimenticata, ne sottaciuta perché non dobbiamo e non possiamo dimenticare. Il ricordo di ciò che copre di vergogna l’essere umano può impedire di ripercorrere la stessa strada dell’odio. La nostra gioventù è figlia di quei mali e deve diventare testimone dei valori della democrazia e della tolleranza. La tendenza al regime trova sviluppo dove c’è ignoranza e laddove non vengono insegnati i valori di una vita libera. Mafia, camorra e terrorismo dovrebbero essere sperati da anni, mentre a Scampia e in tutta la provincia di Napoli si muore e si uccide tutti i giorni e la corruzione riesce a trovare ampi spazi anche nelle istituzioni Il pluralismo culturale è stato il protagonista dello sviluppo politico, sociale ed economico del nostro paese e dell’intera Europa. “Le vittime della violenza non hanno colore politico”, è ciò che spesso si ascolta da chi forse cerca un alibi dimenticando che proprio l’odio politico ha provocato quelle vittime.

E non basta. Cristicchi contestato a Firenze durante lo spettacolo sulle foibe. Una cinquantina di persone sul palco contro «Magazzino 18» sull’esodo istriano del 1947. Il cantante: “Nessuno dei manifestanti ha visto la rappresentazione”, scrive “La Stampa”. «Nessuno dei manifestanti ha ritenuto fosse importante assistere in prima persona a ciò che erano venuti a contestare per scoprire se stavano dicendo o no la verità». Così il cantante Simone Cristicchi, sulla sua pagina Facebook, ha commentato la contestazione di giovedì sera al Teatro Aurora di Scandicci, dei gruppi «Noi saremo tutto» e «Firenze antifascista» prima del suo spettacolo «Magazzino 18» sull’esodo istriano del 1947. Una cinquantina di persone sono salite sul palco e hanno esposto lo striscione con la scritta «La storia non è una fiction. Non ricordiamo tutto» davanti a circa 800 persone accorse per l’evento. «Abbiamo rivendicato - si legge in una nota del movimento - la volontà di non trasformare la storia in una fiction. Questa volta a giocare sporco è Simone Cristicchi, che con il suo spettacolo mette in scena il peggior revisionismo storico volto a legittimare il nazionalismo italiano anti-slavo». Sul posto sono arrivate diverse pattuglie dei carabinieri ma i contestatori se ne erano già andati, senza creare ulteriori problemi. «Lo spettacolo - ha detto Patrizia Coletta, direttore di Fondazione Toscana Spettacolo - racconta pezzi di vita di una storia controversa, trattata da Cristicchi con molta delicatezza e rispetto dei vari punti di vista. Non è uno spettacolo di parte». «Dispiace solo che tra il pubblico - ha scritto il cantante sulla sua pagina Facebook - ci siano stati molti esuli, offesi oltremodo da questa ridicola pagliacciata». Al riguardo è intervenuto anche Giovanni Donzelli, Presidente del Gruppo regionale di Fratelli d’Italia, esprimendo «solidarietà all’autore e a esuli». «L’irruzione di ieri - si legge in una nota di Donzelli - allo spettacolo di Cristicchi sulle Foibe avvenuta a Scandicci è disumana, non doveva essere consentita».  Le polemiche non si placano e rimbalzano in Rete. Ma Cristicchi tira dritto e ribadisce: «Surreale che io debba dare delle spiegazioni a della gente che nemmeno ha avuto il buongusto di vedere lo spettacolo. No? E comunque - per questi “ultimi arrivati” - sono mesi che scrivo e rilascio interviste su Magazzino 18. Facile prendersela con me. Idea! Perché non provate a porre le vostre rimostranze direttamente agli esuli istriani fiumani e dalmati? Avreste il coraggio di guardarli in faccia?».  

Lo sfogo di Cristicchi: «Vado sul palco con la Digos in sala». «Spero che una cosa del genere non accada mai più». L'artista ancora scosso dalla contestazione subìta l’altra sera a Scandicci dal suo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. «Spero che una cosa del genere non accada mai più». Simone Cristicchi è ancora scosso dalla contestazione subìta l’altra sera a Scandicci dal suo «Magazzino 18». Per venti minuti lo spettacolo è stato sospeso e i contestatori sono saliti sul palco srotolando uno striscione con la scritta: «La storia non è una fiction». Le foibe, dunque, continuano a far paura e a scatenare dure reazioni. Stasera, intanto, Cristicchi sbarcherà al Teatro Vittoria di Roma con «Mio nonno è morto in guerra». Lo spettacolo è diverso ma la cornice storica resta la seconda guerra mondiale. Cristicchi afferma di stare tranquillo. Quello che lo preoccupa è il clima di tensione respirato a Scandicci. «Si è sfiorata la rissa - racconta l’artista - Mi è dispiaciuto soprattutto per gli anziani presenti in sala. Uno di loro stava per avere un infarto. È stato un gesto violento nei confronti degli spettatori che hanno pagato il biglietto». Il cantante svela anche un retroscena della serata toscana. «Mi ha colpito la reazione di una vecchia esule istriana - prosegue - Si è alzata per andare a parlare con i contestatori. Alcuni di loro le hanno risposto che la signora non conosce la storia». Anche per fare chiarezza, in questi giorni viene pubblicato da Mondadori il libro «Magazzino 18 - Storie di esuli», in cui compaiono stralci del testo non compresi nella messinscena. «Il libro è importante perché aggiunge altri aneddoti sull’intera vicenda - spiega Cristicchi - Il testo teatrale è stato arricchito con l’aiuto di altri testimoni. Storie che non hanno trovato spazio nello spettacolo teatrale. Ci sono le vicende legate alla Risiera di San Sabba. È una storia che parla di dolore e ogni dolore ha la sua dignità». A chi lo accusa di non parlare dei crimini commessi dai nazifascisti o di criminalizzare la resistenza, Cristicchi risponde: «Ho puntato i riflettori anche sul processo di italianizzazione e sui crimini compiuti durante la seconda guerra mondiale. Senza contare che nello spettacolo definisco la lotta di liberazione sacrosanta, necessaria e giusta. Quello che non faccio è giustificare le foibe. Porto sul palco le parole degli esuli». Come se non bastasse, tutta questa attenzione nei confronti di «Magazzino 18» costringe lo spettacolo di Cristicchi ad andare in scena ogni sera con la Digos in sala. «Ogni sera è la stessa cosa con le forze dell’ordine che presidiano i teatri - prosegue - L’altra sera a Scandicci ho recitato con grande nervosismo. Anche ieri sera a Bergamo c’era la polizia e la Digos. Se penso che cose del genere non sono accadute neppure in Slovenia o a Trieste. Gli sloveni hanno fatto addirittura commenti positivi». La serata di oggi si avvicina. Al Teatro Vittoria di Roma andrà in scena «Mio nonno è morto in guerra». Stesso protagonista ma, probabilmente, minori tensioni. «Non sono preoccupato - conclude Cristicchi - Nello spettacolo di Roma ci sono anche storie di partigiani e della resistenza». In attesa di lunedì 10 febbraio, quando la Rai manderà in onda «Magazzino 18». Chissà che nel Giorno del Ricordo Cristicchi non accetti anche l’invito del Consiglio comunale di Firenze e partecipi alla seduta.

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell'Olocausto perpetrato dai nazisti tedeschi. In Italia di questo evento ne parlano tutti abbastanza, a volte anche a sproposito. Giusto per essere diverso io parlo degli altri olocausti.

Bisognerebbe andare a vedere ogni volta se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. E di questo parlarne con i leghisti e con chi nel profondo del suo cuore è razzista.

Parliamo delle foibe e la cultura rosso sangue della sinistra comunista.

La senatrice di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone chiede che non si nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con altri della richiesta di una commissione d'inchiesta sulle stragi del '43. «Oggi celebriamo un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia che toccò il nostro popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro, dell’Istria, della Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò per loro l’abbandono della propria terra – terra italiana, finita nel territorio della ex Iugoslavia – ma soprattutto sopruso, devastazione, morte. In quelle fosse comuni c’è un pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia cui più dobbiamo rispetto. Furono oltre 10.000 gli italiani che trovarono una morte orribile in quelle orribili fosse per mano dei partigiani nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani colpevoli di essere italiani, mentre gli altri venivano strappati via dalle loro case e dalle loro terre, costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni, eppure restando determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di questi italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto senza distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali, agricoltori, pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri, poliziotti e finanzieri servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del dopoguerra compiuti contro migliaia di inermi ed innocenti al confine orientale dell’Italia furono un vero crimine contro l’umanità, al pari di altri stermini compiuti e che ancora oggi vengono perpetrati in altre parti del mondo. Fu una guerra civile; e il furore ideologico e le vendette personali diedero vita alla pagina più triste della storia italiana. In questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che hanno vissuto un duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria casa vedendo trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con indifferenza e in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale avevano sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di porre rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di identità culturali di lingua e di tradizioni che non possono essere cancellate. Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante sia trascorso così tanto tempo, il tempo necessario per ristabilire l’oggettività storica, il racconto di quei tragici avvenimenti non si trovi per nulla, o quanto meno non sia sufficientemente riportato nei libri di scuola dei nostri figli. Perché? Cosa dobbiamo ancora nascondere?»

Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile.

Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo.

C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi  si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento.

E quello che è successo nel risorgimento e dell’unificazione dell’Italia di cui ha festeggiato i primi centocinquant’anni di vita nel 2011, chi ne parla?

Ma è stato sempre così. Le future generazioni non devono dimenticare. Tutti noi non dobbiamo dimenticare.

Milano, mozione leghista a Palazzo Marino: "Mettete al bando i partiti comunisti". Il documento è stato presentato dai consiglieri comunali Bastoni, Lepore e Iezzi: "E' arrivato il momento di equiparare per difetto i crimini compiuti dal comunismo a quelli commessi dal nazismo", scrive Oriana Liso su “la Repubblica” Il consigliere leghista Massimo Bastoni Una mozione non si nega a nessuno. I consiglieri comunali ne depositano sugli argomenti più disparati, spesso su temi molto distanti dalle questioni legate alla vita della città. Massimiliano Bastoni, Luca Lepore e Igor Iezzi, tre consiglieri comunali della Lega Nord a Palazzo Marino, hanno deciso di occuparsi della "messa al bando dei partiti comunisti": si intitola così la mozione che hanno depositato due giorni fa, chiedendo che il consiglio comunale di Milano impegni il sindaco e la giunta a "intervenire presso le sedi opportune (parlamento e governo) per sollecitare la messa al bando di quei partiti italiani che richiamano simboli e si rifanno a dottrine comuniste". La spiegazione di questa richiesta è molto articolata. E ha come premessa che "sono ormai passati 26 anni dalla caduta dei regimi comunisti dell'Europa centrale e orientale e che il crollo delle dittature rosse ha rappresentato la fine di un incubo per alcune popolazioni che finalmente hanno potuto assaporare il gusto della democrazia e della libertà". Per i tre consiglieri del Carroccio (manca soltanto la firma del capogruppo Alessandro Morelli) va combattuta la "nostalgia del comunismo", ideologia che "è stragista e si alimenta tramite una feroce dittatura costruita su principi demagogici". Poi citano i morti causati dal comunismo, "circa 100 milioni di vittime tra esecuzioni, decessi nei campi di concentramento, vittime della fama e delle deportazioni", un numero che "è decisamente superiore a quello dei morti dell'ideologia nazista, e ricordano che il Consiglio d'Europa, nel 2006, ha approvato la risoluzione 1481 sulla condanna internazionale dei crimini del comunismo. Ma i consiglieri del Carroccio (ormai sempre più alleato elettorale di Forza Nuova) esaminano anche il comunismo italiano, ricordando che "è stato fiancheggiatore del Pcus sovietico, che ha aggredito e offeso gli esuli istriani e che ha sterminato un numero spaventosamente grande di italiani completamente innocenti e senza alcun processo, negli anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale, e ha venduto la libertà del nostro paese ai soviet" e che, infine, "ha generato e mantenuto una rivoluzione sotterranea e perenne che a sua volta ha generato il terrorismo rosso". Per tutte queste ragioni, insomma, ritengono che "sia giunta ormai l'ora, anche in Italia, di equiparare per difetto i crimini compiuti dal comunismo (male peggiore del XX secolo) a quelli commessi dal nazismo. E che quindi sia "necessario mettere al bando tutti i partiti italiani che richiamo e si rifanno a questa metastatica cancrena ideologica, seminatrice di vessazioni, di terrore e di morte in molte parti del mondo". Al bando, quindi, potrebbero finire Rifondazione, ma anche il Partito comunista (guidato da Marco Rizzo). Mozione depositata: bisognerà vedere se e quando verrà messa in calendario per la discussione in aula.

Non chiamateli eroi. L’elenco delle ausiliarie uccise dai partigiani dopo che si erano arrese, scrive “Quelsi”.

Amodio Rosa: 23 anni, assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado.

Antonucci Velia: due volte prelevata, due volte rilasciata a Vercelli, poi fucilata.

Audisio Margherita: Fucilata a Nichelino il 26 aprile 1945.

Baldi Irma: Assassinata a Schio il 7 luglio 1945.

Batacchi Marcella e Spitz Jolanda: 17 anni, di Firenze. Assegnate al Distretto militare di Cuneo altre 7 ausiliarie, il 30 aprile 1945, con tutto il Distretto di Cuneo, pochi ufficiali, 20 soldati e 9 ausiliarie, si mettono in movimento per raggiungere il Nord, secondo gli ordini ricevuti. La colonna è però costretta ad arrendersi nel Biellese ai partigiani del comunista Moranino. Interrogate, sette ausiliarie, ascoltando il suggerimento dei propri ufficiali, dichiarano di essere prostitute che hanno lasciato la casa di tolleranza di Cuneo per seguire i soldati. Ma Marcella e Jolanda non accettano e si dichiarano con fierezza ausiliarie della RSI. I partigiani tentano allora di violentarle, ma le due ragazze resistono con le unghie e con i denti. Costrette con la forza più brutale, vengono violentate numerose volte. In fin di vita chiedono un prete. Il prete viene chiamato ma gli è impedito di avvicinare le ragazze. Prima di cadere sotto il plotone di esecuzione, sfigurate dalle botte di quelle belve indegne di chiamarsi partigiani, mormorano: “Mamma” e “Gesù”. Quando furono esumate, presentavano il volto tumefatto e sfigurato, ma il corpo bianco e intatto. Erano state sepolte nella stessa fossa, l’una sopra l’altra. Era il 3 maggio 1945.

Bergonzi Irene: Assassinata a Milano il 29 aprile 1945.

Biamonti Angela: Assassinata il 15 maggio 1945 a Zinola (SV) assieme ai genitori e alla domestica.

Bianchi Annamaria: Assassinata a Pizzo di Cernobbio (CO) il 4 luglio 1945.

Bonatti Silvana: Assassinata a Genova il 29 aprile 1945.

Brazzoli Vincenza: Assassinata a Milano il 28 aprile 1945.

Bressanini Orsola: Madre di una giovane fascista caduta durante la guerra civile, assassinata a Milano il 10 maggio 1945.

Buzzoni Adele, Buzzoni Maria, Mutti Luigia, Nassari Dosolina, Ottarana Rosetta: Facevano parte di un gruppo di otto ausiliarie, (di cui una sconosciuta), catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza assieme a sei soldati di sanità. I prigionieri, trasportati a Casalpusterlengo, furono messi contro il muro dell’ospedale per essere fucilati. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca. Un partigiano afferrò per un braccio la ragazza e la spostò dal gruppo. Ma, partita la scarica, Maria Buzzoni, vedendo cadere la sorella, lanciò un urlo terribile, in seguito al quale venne falciata dal mitra di un partigiano. Si salvarono, grazie all’intervento di un sacerdote, le ausiliarie Anita Romano (che sanguinante si levò come un fantasma dal mucchio di cadaveri) nonché le sorelle Ida e Bianca Poggioli, che le raffiche non erano riuscite ad uccidere.

Carlino Antonietta: Assassinata il 7 maggio 1945 all’ospedale di Cuneo, dove assisteva la sua caposquadra Raffaella Chiodi.

Castaldi Natalina:Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Chandrè Rina, Giraldi Itala, Rocchetti Lucia: Aggregate al secondo RAU (Raggruppamento Allievi Ufficiali) furono catturate il 27 aprile 1945 a Cigliano, sull’autostrada Torino – Milano, dopo un combattimento durato 14 ore. Il reparto si era arreso dopo aver avuto la garanzia del rispetto delle regole sulla prigionia di guerra e dell’onore delle armi. Trasportate con i loro camerati al Santuario di Graglia, furono trucidate il 2 maggio 1945 assieme ad oltre 30 allievi ufficiali con il loro comandante, maggiore Galamini, e le mogli di due di essi. La madre di Itala ne disseppellì i corpi.

Chiettini (si ignora il nome): Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Collaini Bruna, Forlani Barbara: Assassinate a Rosacco (Pavia) il 5 maggio 1945.

Conti – Magnaldi Adelina: Madre di tre bambini, assassinata a Cuneo il 4 maggio 1945.

Crivelli Jolanda: Vedova ventenne di un ufficiale del Battaglione “M” costretta a denudarsi e fucilata a Cesena, sulla piazza principale, dopo essere stata legata ad un albero, ove il cadavere rimase esposto per due giorni e due notti.

De Simone Antonietta: Romana, studentessa del quarto anni di Medicina, fucilata a Vittorio Veneto in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Degani Gina: Assassinata a Milano in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Ferrari Flavia: 19 anni, assassinata l’ 1 maggio 1945 a Milano.

Fragiacomo Lidia, Giolo Laura: Fucilate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme ad altre cinque ausiliarie non identificate, dopo una gara di emulazione nel tentativo di salvare la loro comandante.

Gastaldi Natalia: Assassinata a Cuneo il 3 maggio 1945.

Genesi Jole, Rovilda Lidia: Torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945. In servizio presso la GNR di Novara. Catturate alla Stazione Centrale di Milano, ai primi di maggio, le due ausiliarie si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante provinciale.

Greco Eva: Assassinata a Modena assieme a suo padre nel maggio del 1945.

Grill Marilena: 16 anni, assassinata a Torino la notte del 2 maggio 1945.

Landini Lina: Assassinata a Genova l’1 maggio 1945.

Lavise Blandina: Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Locarno Giulia: Assassinata a Porina (Vicenza) il 27 aprile 1945.

Luppi – Romano Lea: Catturata a Trieste dai partigiani comunisti, consegnata ai titini, portata a a Lubiana, morta in carcere dopo lunghe sofferenze il 30 ottobre 1947.

Minardi Luciana: 16 anni di Imola. Assegnata al battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco” attestati sul Senio, come addetta al telefono da campo e al cifrario, riceve l’ordine di indossare vestiti borghesi e di mettersi in salvo, tornando dai genitori. Fermata dagli inglesi, si disfa, non vista, del gagliardetto gettandolo nel Po. La rilasciano dopo un breve interrogatorio. Raggiunge così i genitori, sfollati a Cologna Veneta (VR). A metà maggio, arriva un gruppo di partigiani comunisti. Informati, non si sa da chi, che quella ragazzina era stata una ausiliaria della RSI, la prelevano, la portano sull’argine del torrente Guà e, dopo una serie di violenze sessuali, la massacrano. “Adesso chiama la mamma, porca fascista!” le grida un partigiano mentre la uccide con una raffica.

Monteverde Licia: Assassinata a Torino il 6 maggio 1945.

Morara Marta: Assassinata a Bologna il 25 maggio 1945.

Morichetti Anna Paola: Assassinata a Milano il 27 aprile 1945.

Olivieri Luciana: Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Ramella Maria: Assassinata a Cuneo il 5 maggio 1945.

Ravioli Ernesta: 19 anni, assassinata a Torino in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Recalcati Giuseppina, Recalcati Mariuccia, Recalcati Rina:  Madre e figlie assassinate a Milano il 27 aprile 1945.

Rigo Felicita: Assassinata a Riva di Vercelli il 4 maggio 1945.

Sesso Triestina: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Silvestri Ida: Assassinata a Torino l’1 maggio 1945, poi gettata nel Po.

Speranzon Armida: Massacrata, assieme a centinaia di fascisti nella Cartiera Burgo di Mignagola dai partigiani di “Falco”. I resti delle vittime furono gettati nel fiume Sile.

Tam Angela Maria: Terziaria francescana, assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale.

Tescari -Ladini Letizia: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Ugazio Cornelia, Ugazio Mirella: Assassinate a Galliate (Novara) il 28 aprile 1945 assieme al padre.

Tra le vittime del massacro compiuto dai partigiani comunisti nelle carceri di Schio (54 assassinati nella notte tra il 6 ed il 7 luglio 1945) c’erano anche 19 donne, tra cui le 3 ausiliarie (Irma Baldi, Chiettini e Blandina Lavise) richiamate nell’elenco precedente. In via Giason del Maino, a Milano, tre franche tiratrici furono catturate e uccise il 26 aprile 1945. Sui tre cadaveri fu messo un cartello con la scritta “AUSIGLIARIE”. I corpi furono poi sepolti in una fossa comune a Musocco. Impossibile sapere se si trattasse veramente di tre ausiliarie. Nell’archivio dell’obitorio di Torino, il giornalista e storico Giorgio Pisanò ha ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del SAF. Cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco (Milano) sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Un numero imprecisato di ausiliarie della “Decima Mas” in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidi, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate.

Esecuzioni, torture, stupri Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega, scrive Giampaolo Pansa su "Il Giornale". C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.

Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo. Le onorificenze concesse dal governo per celebrare le vittime delle Foibe. Tra i commemorati decine di repubblichini, di cui 5 accusati di uccisioni, torture e saccheggi, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Medaglie di onorificenza «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» per circa 300 combattenti di Salò (tra cui almeno 5 criminali di guerra accusati di avere torturato e ucciso a sangue freddo). Partiamo dall’inizio. Le decorazioni sono state concesse dai governi a partire dal 2004 in memoria delle vittime delle foibe come previsto dalla legge istitutiva del Giorno del Ricordo. La promosse l’esecutivo Berlusconi su proposta di un gruppo di parlamentari: in prevalenza Fi e An, ma non mancavano esponenti Udc e del centrosinistra. Oltre alla conservazione della memoria, il testo disciplina la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». Ovvero, nel periodo che va dall’8 settembre a metà del 1947, a seguito di «torture, annegamenti, fucilazione, massacri, attentati in qualsiasi modo perpetrati». Con queste «maglie» assai larghe, tra i commemorati sono stati inseriti profili controversi. Stando almeno a carte provenienti dalla Jugoslavia ma anche dall’Italia. Nell’elenco di coloro che hanno ricevuto quello stemma «in vile metallo» - così lo definisce il provvedimento che alla Camera venne approvato con soli 15 voti contrari e all’unanimità al Senato - compaiono cinque nominativi che secondo i documenti conservati a Belgrado, presso «l’Archivio di Jugoslavia», sono «criminali di guerra». Gente che - anche prima dell’8 settembre, raccontano quelle carte - a seconda dei casi ha ucciso e torturato civili italiani e jugoslavi, ammazzato a sangue freddo, incendiato case, saccheggiato, ordinato fucilazioni di partigiani e segnalato gente da spedire nei lager in Germania. Si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi e del prefetto Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). I primi tre, raccontano fonti diverse, sia italiane sia slave, «scomparsi» o «dispersi» a partire dai primi giorni del maggio 1945, verosimilmente gettati nelle foibe. Il quarto «ucciso da slavi». Il quinto «infoibato». Il sesto, prefetto a Zara (occupazione nazista, amministrazione Rsi) catturato dai partigiani di Tito e fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Uno scenario, questo dei combattenti Rsi ricordati dalle medaglie, emerso per caso dopo che lo scorso 10 febbraio al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori - ucciso il 18 febbraio 1944 «in un agguato organizzato dai partigiani titini, quelli con cui stava combattendo aspramente da mesi» per stare alle parole del figlio Renato - per mano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio è stata dedicata la medaglia del Giorno del Ricordo. All’Anpi e in altre associazioni antifasciste si sono accorti però che Mori era sì un bersagliere. Ma repubblichino (il neologismo coniato da Radio Londra). Circostanza di cui si appreso solo dopo che dal comune di Traversetolo, nel Parmense, dove il soldato era nato, il sindaco ha deciso di revocare la dedica di una strada al bersagliere di Salò inizialmente passata nell’indifferenza. Da qui in poi, polemiche a non finire. A seguito delle quali è arrivato il mezzo ripensamento di Delrio che in un tweet ha chiarito che «se la commissione che ha vagliato centinaia di domande ha valutato erroneamente, il riconoscimento dovrà essere revocato». Appunto: una decisione che potrebbe essere presa già lunedì 23, quando il gruppo di esperti (10 in tutto: tra cui rappresentanti degli studi storici della Difesa, degli Interni e della Presidenza del consiglio e da storici delle foibe) prenderà in mano il dossier Mori. Che però potrebbe rivelarsi il meno problematico. L’elenco aggiornato dei riconoscimenti circa 300 persone. Solo alcuni solo civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri - i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti - militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi. Al pari di poliziotti e finanzieri. Militi, volontari nella Guardia Nazionale Repubblicana. Fascisti «idealisti e patrioti» come il capitano Mori che - è il ricordo del figlio - risulta «essersi opposto ai rastrellamenti ordinati dai tedeschi: lui combatteva i titini, non gli italiani». Ma nella lista ci sono almeno 5 criminali di guerra, secondo quanto stabilito dalla giustizia jugoslava. Il carabiniere Bergognini - era l’8 agosto 1942 - partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto. Vicende, queste delle efferatezze commesse dai fascisti medagliati, ricostruite da due storici in lavori diversi: Milovan Pisarri (italiano che vive a Belgrado) e Sandi Volk (italiano della minoranza slovena). Pisarri - lavori sulla Shoah e uno in uscita sul Porrajmos, l’Olocausto dei nomadi - ha raccolto i dossier sui criminali di guerra italiani studiando documenti a Belgrado, all’Archivio Jugoslavo. Scuote la testa, ora: per le mani si è ritrovato non solo le accuse basate sulle testimonianze delle vittime. Ma anche « fascicoli in italiano, ordini e disposizioni provenienti soprattutto dall’esercito regio in rotta nei Balcani». Materiale «ancora da studiare, importantissimo». Volk si è invece occupato del conteggio dei repubblichini commemorati nel Giorno del Ricordo. «Con quelli di quest’anno si arriva a 300. Il 90 per cento apparteneva a formazioni armate al servizio dei nazisti dato che il Friuli dopo l’8 settembre era divenuto “Zona d’Operazioni Litorale adriatico”, amministrata direttamente dai tedeschi e non facente parte della Rsi». Le formazioni fasciste «non potevano avere nemmeno le denominazioni che avevano a Salò ed erano alle dirette dipendenze dell’apparato nazista». L’elenco asciutto delle motivazioni racconta tanto: anche di scelte devastanti, meditate, che legano caso, ideali ed eroismo. Quella del carabiniere Bruno Domenico, ad esempio. Che l’8 settembre (il giorno dell’armistizio, dunque Salò deve ancora nascere) nella stazione dell’Arma di Rovigno, in Istria, «rifiuta di consegnare le armi ai partigiani comunisti italo croati». Lo incarcerano assieme ad altre 16 persone: e di lui non si sa più nulla. Almeno 56 sono i finanzieri di Salò medagliati per il Ricordo. I loro nomi compaiono sul sito delle Fiamme Gialle: tutti dispersi, verosimilmente uccisi da «partigiani titini» o «bande ribelli». Spiccano le storie del maresciallo Giuseppe D’Arrigo: viene a sapere che la brigata che comanda è stata interamente catturata. Al che indossa la divisa e raggiunge i titini, per stare vicino ai suoi uomini trattandone magari la liberazione. Ma viene fucilato il 3 maggio 1945. La stessa sorte toccata a Giuseppe D’Arrigo che si unisce ai partigiani jugoslavi intenzionato a combattere i tedeschi: ma pure lui viene passato per le armi. Ennio Andreotti viene catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre. In qualche modo si libera il 1° settembre 1944. Da questo giorno risulta disperso. «Fu presumibilmente catturato dai partigiani titini e soppresso».

Foibe, le 300 medaglie a fascisti Salò. La rabbia dell'Anpi: «Inammissibile. Legge sul Ricordo da sospendere». L'associazione dei partigiani: le onorificenze sono state concesse applicando la legge «in contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Indagine sui dossier, continua Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Quelle 300 medaglie concesse dai governi in carica dal 2004 ai 300 combattenti di Salò per il «Giorno del Ricordo» dedicato alle vittime delle Foibe? Un fatto «grave e inammissibile» secondo l'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia). Le onorificenze sono state date applicando la legge - (la 92 del 2004 che ricorda le Foibe) - «in netto contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Per questo occorre sospendere gli effetti del provvedimento, revocare i fregi già concessi dopo aver avviato «un'indagine accurata». La vicenda è emersa dopo che si scoperto che una delle medaglie date «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» era per un bersagliere della Repubblica Sociale di Salò, il capitano Paride Mori. «Un fascista idealista che non si è macchiato di nessuna colpa» è la testimonianza del figlio. Nell'elenco dei medagliati — circa 300: nella quasi totalità militari della Repubblica sociale di Salò — compaiono però altri nomi. Imbarazzanti assai. Soprattutto quello di un criminale di guerra sia per la giustizia italiana che quella jugoslava: ovvero il prefetto di Zara Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone. Catturato dai partigiani di Tito, venne fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Stando inoltre a carte provenienti da Belgrado, dall'«Archivio di Jugoslavia» - l'archivio di Stato della ex Jugoslavia - ci sono altri quattro criminali di guerra tra i medagliati della foibe: si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi. Colpevoli, a seconda dei casi, di saccheggi, uccisioni a sangue freddo, torture. Le parole dell'Anpi sono tranchant: «Nessun riconoscimento – né per questa legge né per altre – può essere attribuito a chi militò per la Repubblica Sociale Italiana, in nome di una presunta pacificazione. Non c’è nulla da “pacificare”; c’è solo da rispettare la storia e la Costituzione, nata dalla Resistenza». Per questo la richiesta alla Presidenza del Consiglio è perentoria: bisogna «sospendere temporaneamente l’applicazione della legge sul Ricordo - (che, in sintesi, regola celebrazioni e consegna delle medaglie) e dar luogo a una indagine accurata sulle concessioni passate». Richiesta per cui l'associazione partigiana «svolgerà ogni azione necessaria». Parole, quelle dell'Anpi, cui si associa anche Giovanni Paglia, deputato di Sel, per il quale la consegna delle medaglie a «criminali di guerra riconosciuti» basterebbe a «rivedere l'intero impianto della legge e nel frattempo a liquidare l'attuale commissione» che ha valutato le richieste delle onorificenze. «Intanto, tuttavia, potrebbe bastare farla riunire - conclude Paglia - e farle adottare i provvedimenti dovuti a tutela della nostra memoria».

Foibe, le medaglie ai fascisti vanno “ritirate”. Ecco chi processa il Giorno del Ricordo, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Dopo le polemiche sulla medaglia al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori prosegue l’offensiva culturale contro la legge che istituisce la Giornata del Ricordo norma che prevede anche la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». La polemica contro Paride Mori fu sollevata dall’Anpi ed ora il Corriere rincara la dose, sottolineando che sono 300 i casi di onorificenze accordate a "Fascisti" da riconsiderare. 300 medaglie ai fascisti che non vanno giù agli storici contro le foibe. “L’elenco aggiornato dei medagliati per il Ricordo comprende più di 1000 persone – scrive Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera"  – Molti di questi sono civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri – i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti – militari inquadrati nelle formazioni di Salò”. Fulloni sostiene poi che nell’elenco delle medaglie “sospette” ci sarebbero anche 5 “criminali di guerra”. Ma chi lo ha stabilito? La giustizia jugoslava, e tanto gli basta.  Ma ancor di più Fulloni prende per oro colato le affermazioni dello storico Milovan Pisarri, il quale si sarebbe preso la briga si spuntare uno a uno i nomi degli ex militi Rsi che hanno ricevuto le onorificenze. In pratica si tratta di uno storico talmente super partes da definire la legge che istituisce la Giornata del Ricordo un episodio di “revisionismo di Stato” e non gli va giù che la Repubblica nata dalla Resistenza possa addirittura “premiare” dei fascisti. Un’offensiva contro la Giornata del Ricordo. Dei combattenti della Rsi che hanno ricevuto onorificenze da quando c’è la legge sulle vittime delle foibe (2004) si è occupato anche un altro storico molto “imparziale”: si tratta di Sandi Volk, uno che sostiene che la ricostruzione delle vicende delle foibe è viziata da “mistificazione” ideologica al servizio del neoirredentismo di destra. Si comincia con il dare spazio alle tesi di chi vorrebbe ancora occultare la verità sulle foibe per arrivare dove? Magari a chiedere di sopprimere la legge sulla Giornata del Ricordo?

Via la medaglia al fascista Mori. Grazie all’Anpi rivive l’odio di 70 anni fa, continua Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Insignito di una medaglia alla memoria nel giorno del Ricordo, il 10 febbraio, quando l’Italia rende omaggio alle vittime delle foibe, il fascista Paride Mori è oggi al centro di un’anacronistica polemica che, per i catacombali testimoni del decrepito antifascismo, dovrebbe imbarazzare Palazzo Chigi e la presidente della Camera Boldrini. Mori non fu una vittima degli infoibatori comunisti (morì in un agguato dei partigiani il 18 febbraio del 1944) ma comunque un italiano valoroso, che fece parte del Battaglione Mussolini dei bersaglieri che dopo l’8 settembre del 1943 difese il territorio italiano dall’invasione delle truppe di Tito. Opera assai meritoria ma non abbastanza per la parte che dalle infamie del maresciallo Tito fatica a prendere le doverose distanze. In un libro la storia e la vita di Paride Mori. Come racconta Alberto Zanettini in un libro dedicato a Paride Mori era il 9 settembre 1943 quando a Verona “alcuni ufficiali decisero di formare un Battaglione di Bersaglieri volontari, intitolato a “Benito Mussolini”, al quale aderirono in breve tempo, circa quattrocento uomini, il più giovane aveva 15 anni e il più anziano ne aveva 60 … il tenente Paride Mori era tra questi volontari”. “Per circa 20 mesi sopportarono le imboscate, la fame, il freddo, in numero molto inferiore al nemico, stimato ad uno a dieci, ma nonostante ciò resistettero e riuscirono a mantenere saldi alcuni confini nazionali che altrimenti sarebbero passati in mano alle orde comuniste di Tito. Poi il 30 aprile del 1945, a guerra finita, i bersaglieri si arresero ai partigiani di Tito con la garanzia di aver salva la vita e di poter raggiungere da subito le proprie case. Ma i comunisti di Tito non mantennero fede alle promesse, i bersaglieri furono imprigionati, torturati e fatti morire di fame e di stenti, i cadaveri, invece di seppellirli, li gettavano nelle buche che servivano da latrine per i prigionieri. I pochi sopravvissuti fecero rientro in Italia il 27 giugno 1947”. Che Mori non fosse un sanguinario nazista si evince dalle lettere alla moglie e al figlio, cui scriveva: “Come vedi io faccio il bravo soldato e servo la Patria con le armi ben salde nel pugno e tu devi fare il bravo ragazzo amando l’Italia, perlomeno quanto l’ama il tuo Papà e prepararti a servirla quando sarai grande”.

REVISIONISMO STORICO.

Revisionismo storiografico. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Che cosa è la storia se non un gioco su cui tutti si sono messi d'accordo?» (Napoleone Bonaparte, Memorie). Nel settore accademico della storiografia, il revisionismo è il riesame critico di fatti storici sulla base di nuove evidenze o di una diversa interpretazione delle informazioni esistenti, considerando tutte le parti politiche e sociali in causa come testimoni importanti. L'uso negativo del termine revisionismo si riferisce invece all'illegittima manipolazione della storia per scopi politici, quali il negazionismo dell'Olocausto. Inoltre occorre non confondere il revisionismo a tutti gli effetti con lapseudostoria, il revisionismo politico, il negazionismo e le teorie del complotto.

Savoia, l’adesione al fascismo non cancella i meriti della dinastia. Esce una nuova edizione del saggio «Casa Savoia nella storia d’Italia» in cui Luigi Salvatorelli demolisce ogni aspetto della Casa Reale. Un giudizio forse eccessivo, scrive Giuseppe Galasso il 21 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il destino dei Savoia tra gli storici ha finito con l’essere infelice quanto il loro destino politico, deciso dal referendum che nel 1946 instaurò in Italia la Repubblica. Non è accaduto spesso che una casa reale, perduto il trono, abbia conservato un aplomb e una dignità regale, quali che ne fossero le prospettive di un ritorno in auge. L’esilio di Umberto II fu dignitoso, in Portogallo, dove cento anni prima si era già ritirato il nonno di suo nonno, Carlo Alberto. Per i figli di Umberto — dalle vicende amorose di Beatrice a quelle di vario genere e di assai dubbia qualità dell’erede Vittorio Emanuele, per non parlare del figlio di quest’ultimo, Emanuele Filiberto, con la sua notorietà televisiva — non è stato così. Luigi Salvatorelli, «Casa Savoia nella storia d’Italia» (Edizioni di Storia e Letteratura, con un’introduzione di Gabriele Turi, pp. 126, euro 12). Tutto ciò non toglie che la Casa di Savoia resti in Europa una delle famiglie reali, in trono o non più in trono, di più antica ascendenza storica. Per l’Italia, in particolare, essa ha rappresentato per 6 o 7 secoli un protagonista fra gli altri della storia del Paese. In ultimo, dal 1848 in poi e fino al 1946, con l’unificazione e con la loro promozione a re d’Italia, i Savoia divennero addirittura un punto nodale della storia nazionale. Il che indusse buona parte degli storici italiani a costruire un profilo della storia nazionale radicalmente inficiato da un doppio errore di prospettiva. Il primo era che la storia d’Italia, in particolare dal Mille in poi, si fosse svolta all’insegna univoca ed evidente di un destino fatalmente unitario. L’unità avrebbe rappresentato la logica motrice della storia italiana, i cui vari periodi, manifestazioni e protagonisti dovevano essere rappresentati e giudicati a seconda del loro contributo alla realizzazione della fatale unità del Paese. Il secondo era che quale interprete del supposto destino unitario si raffigurava, fin da quando se ne può parlare, più o meno dal Mille, per l’appunto la Casa di Savoia. Annidati sulle loro rocche alpine del versante francese e di quello italiano, i conti e poi duchi di Savoia erano venuti facendosi strada nella Valle del Po, dalle Alpi al Ticino, adottando decisamente, dopo una iniziale incertezza e duplicità, la direttrice padana, e quindi italiana, della espansione alla quale miravano. Così, nel Cinquecento avevano trasferito la loro capitale da Chambery a Torino, avevano adottato l’italiano quale lingua ufficiale e diplomatica e avevano continuato la loro marcia padana in uno sforzo consapevolmente volto ad assicurare all’Italia e agli italiani l’indipendenza dagli stranieri, dominanti per secoli nella penisola. Appena poi si era parlato di «risorgimento», i Savoia se ne erano fatti portabandiera e la denominazione di «padre della patria» adottata per Vittorio Emanuele II aveva perciò sancito con un doveroso riconoscimento storico-politico la millenaria missione assolta da Casa Savoia. Contro entrambe queste prospettive insorse nel 1944, in un opuscolo al quale non mancò un largo ascolto, Luigi Salvatorelli (Casa Savoia nella storia d’Italia, ora riedito dalle Edizioni di Storia e Letteratura, con introduzione di Gabriele Turi). Nelle sue pagine i Savoia sono rigorosamente dipinti come una dinastia di mediocri personalità, caratterizzate da un’insaziabile avidità di nuovi domini, da un mai smentito opportunismo nel cercare di soddisfarla, da una costante meschinità dei calcoli politici ispirati da un tale criterio di azione, dalla più completa indifferenza alle direzioni geografiche e a ogni possibile motivazione ideale o anche soltanto ideologica dei loro disegni espansivi. Collocati sul crinale delle Alpi, e legati all’ambito franco-borgognone, si erano concentrati sull’Italia solo perché il consolidamento della monarchia francese e la stabilizzazione della confederazione svizzera avevano drasticamente sbarrato ogni varco per un’espansione oltralpe. Per Salvatorelli, insomma, nulla, invero, i Savoia avevano avuto a che fare con le ragioni intime e, per così dire, sorgive della storia d’Italia; con il travagliato processo di maturazione ideale e culturale, prima ancora che politico, al quale diamo il nome di Risorgimento, e nel quale essa si era inserita solo in ultimo, secondo le sue tradizioni di opportunismo, ma senza un’adesione intima o un impulso proprio e genuino. Molte delle deficienze e delle meschinità della storia dello Stato unitario nato dal Risorgimento erano dipese da questo rapporto surrettizio fra la nuova Italia e la vecchia dinastia. La finale acquiescenza, solidarietà e complicità col fascismo, che aveva sovvertito il regime liberale e calpestato le già faticate e faticose libertà fino ad allora conquistate, aveva costituito la prova del nove dell’egoismo dinastico e, insieme, della inguaribile meschinità storico-politica dei Savoia, di cui Vittorio Emanuele III era stato il degno rappresentante. Come già detto, Salvatorelli aveva scritto in un momento di grande, accesa passione politica. La liquidazione dei Savoia rappresentava un obiettivo politico a sé, al di là della stessa scelta di allora fra monarchia o repubblica. Un discorso sui Savoia nella storia d’Italia poteva essere un buon contributo per orientare su una larga base storica la scelta degli italiani nel 1946. La genesi politica dell’opuscolo e gli intenti polemici di Salvatorelli rendono, quindi, conto dell’asprezza dei suoi giudizi, per cui sembra quasi, a volte, che sul trono sabaudo non si succeda via via una serie di sovrani fatalmente diversi ma segga sempre lo stesso Savoia. Molti episodi e aspetti delle vicende sabaude non ricevono un apprezzamento persuasivo. In linea generale, appare difficile accogliere il giudizio di sostanziale estraneità dei Savoia alle radici e alle logiche della storia d’Italia. Già almeno dal secolo XIII in poi l’Italia appare il teatro principale della loro storia, ed è semmai il trasferimento della loro capitale a Torino tre secoli dopo ad apparire un atto tardivo rispetto a un orientamento emerso già da tempo, per quante incertezze o ritorni si siano poi avuti nel seguirlo e realizzarlo. E, in sostanza, è facile constatare che le mende rintracciate nei Savoia si ritrovano pure in qualsiasi altra dinastia o Stato italiano prima dell’unificazione. Invece, la scelta costituzionale del 1848, con l’accettazione di una prassi politica molto lontana da quelle anteriori, fu solo dei Savoia, né la finale, tenace adesione e complicità fascista può portare a una totale vanificazione del precedente ruolo dei Savoia nella storia italiana, in particolare del Risorgimento. Con tutto ciò l’opuscolo del Salvatorelli non rimane soltanto un documento della battaglia politica combattuta in Italia fra il 1943 e il 1946 pro o contro la monarchia. L’autore era troppo storico di vocazione e buon conoscitore della storia italiana per fare delle sue pagine tutte solo un atto di accusa. Il suo rifiuto di vedere la storia d’Italia come marcia progressiva e univoca verso un fatale destino di unità è irrefutabile, e bisogna dire che tuttora non tutti gli storici italiani mostrano di averlo davvero e in tutto assimilato. E altrettanto irrefutabile è la sua demitizzazione della storia sabauda, con la congiunta riduzione delle sue dimensioni a quelle di uno Stato italiano, giunto solo nel Seicento a un ruolo comparabile a quello che da secoli esercitavano Milano e Roma, Firenze e Napoli, Genova e Venezia, e con una tradizione dinastica non illustrata da personalità di particolare fascino storico e personale né prima né dopo l’unità italiana.

La lunga marcia revisionista dei vinti. 25 aprile. In Italia, il «crollo del Muro» è stato l’episodio usato per demonizzare l’antifascismo. E per equiparare i «rossi» ai «neri», scrive Angelo d'Orsi il 25 aprile 2015 su “Il Manifesto”. Che il 1989 abbia cambiato la carta geopolitica del mondo è acclarato, al di là dei giudizi di merito. Non è altrettanto evidente che quell’evento – il cosiddetto «crollo del Muro», e i susseguenti avvenimenti sino allo scioglimento dell’Urss alla fine di dicembre 1991 – comportò conseguenze culturali rilevanti, a loro volta foriere di esiti politici. Prima fra tutte, l’ondata revisionistica, che ha attaccato tutto il plurisecolare ciclo rivoluzionario, dalla Bastiglia, alla Rivoluzione d’Ottobre, al biennio rosso post Grande guerra, sino alla rivoluzione antifascista, cercando sistematicamente di svilirne il significato prima e poi di ribaltare il giudizio storico su ciascuno di questi eventi. Ribadiamo intanto la distinzione tra revisione e revisionismo. La prima è una pratica ineludibile della ricerca storica, ossia la correzione, l’aggiunta, l’integrazione sulla base di nuovi documenti, o del perfezionamento delle tecniche della ricerca, o, infine, della capacità soggettiva dei singoli studiosi di porre domande nuove; mentre il revisionismo è un orientamento culturale, che nasce sul terreno della storiografia, si allarga, e, progressivamente, si trasforma in una ideologia politica. Se in Francia il revisionismo ha preso di mira soprattutto la Grande Révolution del 1789, in Italia e Germania, le potenze sconfitte nella Secondo conflitto europeo, esso ha affrontato essenzialmente il nodo «fascismo, antifascismo, Resistenza». In Germania Ernst Nolte non attese l’89, aprendo la controversia sul cosiddetto «passato che non passa», volta a durare a lungo, che, nelle sue intenzioni, doveva cancellare il senso di colpa dei tedeschi, rovesciando la frittata: la colpa originaria era dei bolscevichi, a cui semplicemente il nazismo aveva dato una risposta, per la quale l’Europa tutta doveva esprimere gratitudine, anziché riprovazione, a Hitler, a dispetto dei suoi «eccessi», condannabili, per aver fermato il comunismo. Anche il padre del revisionismo di casa nostra, Renzo De Felice, aveva avviato per tempo il proprio cammino, fin dal primo volume della sua monumentale biografia di Mussolini, a metà degli anni Sessanta. Da allora fu una corsa in discesa, prima verso il giustificazionismo, poi verso una vera e propria rivalutazione del fascismo. Se confrontiamo le due principali esternazioni pubbliche dello storico l’Intervista sul fascismo, del 1975, e Rosso e nero, del 1995, capiamo bene la fuoruscita del revisionismo, dalla storiografia alla politica. In quei vent’anni v’è, appunto, lo spartiacque del 1989: il «crollo»; in Italia, la Bolognina. La battaglia contro l’asserita «egemonia» della sinistra aveva segnato intanto un primo punto a suo favore con la pubblicazione di un’opera importante di uno studioso di fede democratica, con un passato partigiano, Claudio Pavone, Una guerra civile, che appare nel 1991. Benché quel grosso volume parlasse di tre distinte guerre, quella di liberazione nazionale, quella sociale, ossia di classe, e, infine, la guerra civile, fu quest’ultima a cancellare le altre due, con la destra che gongolava: «Noi lo dicevamo! Fu una guerra civile… Avete dovuto attendere che fosse un nome “di sinistra” a scriverlo, per crederci?». Ovviamente l’utilizzo del libro di Pavone si limitava pressoché esclusivamente al titolo, sebbene l’autore spiegasse che quello era soltanto il sottotitolo, mentre il titolo da lui proposto all’editore (Bollati Boringhieri), era Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Si trattò comunque di un’apertura di credito, sia pure involontaria, verso quell’ambigua espressione («guerra civile»), che ha senso fino a un certo punto: era evidente, ad esempio, che la guerra sociale era anche una guerra civile, e che comunque enfatizzare il concetto implicava l’idea che vi fosse un’equa divisione di forze e altresì una equiparabile legittimità dei combattenti. Mentre così non era né sul primo piano, né sul secondo. L’uso ideologico del libro di Pavone produsse effetti direttamente politici. Luciano Violante, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera (aprile 1996), accreditò i «ragazzi di Salò». Marcello Pera, ancor prima di diventare presidente del Senato, sostenne che era tempo di finirla con la «Repubblica nata dalla Resistenza». Insomma, a dispetto degli studi rigorosi portati avanti da storici seri, fu il revisionismo a prevalere, con lavori di seconda o terza mano, e soprattutto sui media. Diventò una moda la polemica contro la «vulgata antifascista», insistendo sul carattere minoritario dei resistenti, sulla distinzione tra fascismo e nazismo, e soprattutto menando furiosi colpi ai comunisti italiani, colpevoli «a prescindere». Infine cominciarono a circolare due parole d’ordine: la «morte della patria» (l’8 settembre ’43) e la «zona grigia», divenendo presto uno stucchevole mantra. Se con la prima si dava il colpo decisivo allo stesso avvio della Resistenza, insinuando che la patria vera fosse quella monarco-fascista, con l’altra, la «zona grigia», si lodavano gli italiani che non si schierarono, che avevano come unico scopo sopravvivere, indifferenti alla contesa tra «rossi» e «neri». I revisionisti distribuirono «equamente» torti e ragioni: nasceva la retorica della «memoria condivisa», in nome di una «pacificazione» adeguata al clima postcomunista e neoliberale. Era ormai avviata la contronarrazione della Resistenza. L’antifascismo, tanto più se di matrice comunista, era sul banco degli imputati. La lotta armata veniva additata come un insieme di azioni inutili, quando non addirittura controproducenti. Poi, la polemica revisionistica investì le «vendette» del post-25 aprile. Il soffermarsi sui «crimini» dei partigiani (idest, comunisti), implicava una totale disattenzione ai contesti: in Italia, come altrove, all’indomani della fine del conflitto, vi furono regolamenti di conti spiegabili alla luce degli eventi e dei contesti. Invece, ora della lotta partigiana rimaneva soltanto il sangue: quello dei vinti, per riprendere il titolo del primo volume di Giampaolo Pansa, che da allora diede avvio a una saga antiresistenziale; il suo successo fu una prova della raggiunta egemonia del revisionismo, nella sua forma più estrema, il «rovescismo». L’anti-Resistenza divenne un prodotto a fini commerciali, oltre, e forse prima ancora, che politici. Il punto di non ritorno in questa vicenda fu l’istituzione, nel marzo 2004 con voto condiviso, del «Giorno del ricordo»: la narrazione delle foibe, divenne il cuore della costruzione di un senso comune antiresistenziale, anti-antifascista e soprattutto anticomunista. Sbaglierebbe a considerare tutto ciò un fenomeno italiano. E ancor più se pensasse che si tratta di materiale per la futura storia della cultura. Basti uno sguardo all’Europa, dove accanto alla rinascita di movimenti politici di destra estrema, o dichiaratamente neofascisti e neonazisti, abbiamo potuto vedere in questi ultimi anni prese di posizione istituzionali agghiaccianti, a partire dalle ultime polacche, che hanno negato addirittura il ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione del Campo di Auschwitz; o alla legislazione ungherese che sta non solo «riscrivendo» la storia del paese, a uso di un’affiliazione ideologica al più estremo neoliberismo, ma sta applicando misure punitive verso coloro che abbiano avuto qualsiasi tipo di connessione col comunismo; o, ancora all’Ucraina, dove addirittura i neonazisti sono al potere, accanto a forze «liberali», con la connivenza di Usa e Ue, e si vietano addirittura i simboli del comunismo, e immagino, presto si riaccenderanno i roghi dei libri. Un elenco di miserie intellettuali che sono tuttavia vittorie politiche. E tutto ciò, ricordiamolo, è anche esito del revisionismo, scatenato, nella sua ultima versione «rovescista», precisamente dal crollo del 1989. Oggi celebrare il 70° della Liberazione dovrebbe implicare forse innanzi tutto l’avvio di una controffensiva culturale. Vogliamo provarci?

COME I COSIDDETTI VINCITORI BOLLANO I REVISIONISTI.

Dal revisionismo al rovescismo. La Resistenza (e la Costituzione) sotto attacco. Pubblichiamo un capitolo dal volume "La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico", a cura di Angelo del Boca (Neri Pozza Bloom, pag. 384, € 20), scrive Angelo d’Orsi. Nell’ottobre 2006, il giornalista Giampaolo Pansa pubblicava un volume che avrebbe dovuto essere legato strettamente al precedente, fortunatissimo Sangue dei vinti, un’opera beneficiata da uno spettacolare lancio del sistema mediatico, con notevolissime, immediate ricadute sul piano politico. Se quel libro voleva essere la rivelazione di fatti tenuti nascosti per sei decenni – tale il messaggio che sostanziò la campagna propagandistica – i successivi del medesimo autore, apparivano quasi dei metalibri, complemento polemico rispetto al primo, stazioni di una personale via crucis dell’autore: lo scrivano – il «pennarulo», per dirla en napolitain – travestitosi da studioso di storia, sfidava i professionisti della ricerca, non soltanto producendo un risultato di enorme successo, e, grazie a esso, ergendosi a loro accusatore, con sonori squilli di trombe e roboanti rulli di tamburi di guerra. L’imputazione? Essere professionalmente non all’altezza del compito, e addirittura nascondere per fini ideologici, o peggio, spinti da conformismo politico (vittime o complici; magari i soliti «utili idioti» della vecchia propaganda anticomunista), nei confronti del «politicamente corretto», ossia della «verità di partito», o quanto meno «di parte»; essi, nella requisitoria di Pansa, avrebbero per decenni nascosto la vera, intera verità di cui pure erano o potevano essere a conoscenza. Non casualmente, dopo avere polemizzato, già nelle aspre tenzoni legate al Sangue dei vinti, contro l’angusta pedanteria di professori che pretendevano addirittura l’indicazione delle fonti su cui egli aveva «lavorato», l’autore andava rivendicando la propria formazione storica, avvenuta all’Università di Torino, con una tesi sulla Resistenza nelle sue zone, l’Alessandrino. Ho detto via Crucis, in quanto in realtà tutta l’operazione-Pansa, oltre ad avere un significato, prima di tutto, bassamente commerciale, era una delle tante rese dei conti che nel sottobosco intellettuale italiano si andavano consumando relativamente ad appartenenze o a militanze nell’area vicina o contigua alle forze politiche della tradizione operaia, socialista, comunista. Insomma, «revisionando» i risultati della ricerca sulle «questioni scottanti» legate alla Resistenza, e ancor piú al post 25 aprile, l’autore sembrava esercitare il suo commiato, aspro ed egolatrico, dalla sinistra, accusata di essere, in sostanza, disonesta, retrograda, succube dell’occhiuto, nefasto esercizio dell’egemonia gramsciano-togliattiana. Un tema assai caro a una sovrabbondante pubblicistica, passata dall’era craxiana a quella berlusconiana, che, via via piú convinta della giustezza della battaglia contro la pretesa egemonia comunista, ne ha fatto una sorta di leitmotiv. Benché, con eccesso di malizia, forse, vi fu chi sospettò allora che le ambizioni di Pansa fossero di tipo politico, o di giornalismo «che conta» (direzione Corriere della Sera, ad esempio), in realtà il giornalista Pansa era parte – divenuta subito prediletta dai media di area di centrodestra – di una non piccola, anche se non estesa, conventicola: i rovistatori della Resistenza, che hanno la specialità, o endogena, o insufflata dalla committenza politico editoriale, di raschiare nelle pieghe della storia, per snidare il nascosto, ma soltanto se questo sia passibile di uso politico e mercantile, e, soprattutto, se questo «nascosto» emani odore di putrescenza, o sia in grado, appunto, di rovesciare, ribaltare, le acquisizioni storiografiche: ossia la «storia di sinistra», quella che De Felice e i suoi adepti bollarono, con sussiegoso disdegno, come «vulgata antifascista», e poi, semplicemente, «vulgata». E poiché nella maggior parte dei casi la putrescenza è assente, la si inventa, o meglio si condisce con il proprio putridume interiore i fatti, a partire da una impostazione che, come è stato osservato, è prima che anticomunista, «anti-antifascista». Non casualmente, fu sempre pratica corrente di De Felice di non citare mai i lavori dei suoi antagonisti, cioè coloro che venivano deietti nell’inferno della storiografia «ideologica», ossia «di sinistra»: il che, a prescindere dai contenuti della querelle, costituisce già un errore di prospettiva. La storiografia non può essere individuata come «di destra» o «di sinistra», ma soltanto come buona o cattiva, vale a dire seriamente fondata, o meno. Insomma, l’accusa di ideologismo, proveniente dalla sponda revisionistica, andrebbe semplicemente ribaltata su chi la scaglia. E, in ogni caso, appare segno di debolezza – oltre che di insopportabile arroganza – il voler evitare di confrontarsi con ipotesi interpretative e impostazioni metodologiche diverse dalle nostre.

Dunque, eccoci alla ricerca sistematica della storia «nascosta», la storia «negata», la storia «menzognera», la storia «sequestrata», la storia «violentata»…, ossia la storia che mostrerebbe (questa la reductio ad unum) il ruolo nefasto, esercitato appunto dal Partito comunista italiano, e dai tanti suoi utili idioti, gli intellettuali «organici», espressione con cui nel disinvolto quanto grottesco lessico revisionistico, vengono etichettati tutti coloro che al PCI erano stati legati, anche indirettamente, coloro che pubblicavano presso casa Einaudi, oltre che sotto le insegne canoniche delle Edizioni Rinascita e, poi, degli Editori Riuniti. L’idea sottesa a questo tipo di atteggiamento e di procedura, è – se vogliamo nobilitarli – che la storia fino a un certo momento sia stata «ostaggio» della cultura di sinistra, a sua volta egemonizzata dal PCI. Costoro, gli intellettuali (non solo gli storici) di sinistra, sotto l’occhiuta regia di Togliatti e, in seguito, del togliattismo, sarebbero stati «i padroni della memoria». Via via che il clima politico generale andava cambiando, e diveniva un fatto concreto lo «sdoganamento» del neofascismo (ormai, nella versione corrente, «postfascismo»), tra gli anni Ottanta e i Novanta, ossia tra Craxi e Berlusconi, i revisionisti prendevano coraggio, occupavano spazi (in particolare si segnalano le pagine, non solo quelle culturali, del Corriere della Sera, foglio in cui ha imposto la linea, su queste tematiche, Ernesto Galli della Loggia), e facevano proseliti, nella loro crociata, che, oltre che anti-antifascista, sostanzialmente era anticomunista, o meglio ancora, in termini piú generali, antirivoluzionaria (benché il termine possa apparire desueto). Il revisionismo ha posto sotto attacco, in effetti, a partire dagli anni Sessanta, tutto il ciclo delle rivoluzioni, da quella Francese a quella Bolscevica, fino alla Resistenza, nella quale fu presente, come una componente importante, l’istanza rivoluzionaria, di un cambiamento epocale, e di un sovvertimento sociale a favore delle classi subalterne. Associandosi all’anticomunismo, questo revisionismo, anche nella versione estrema, portato avanti da giornalisti, ma anche da storici, giungeva a sostenere che tutto quello che sappiamo in merito a fascismo, antifascismo, Resistenza, è menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull’occultamento; responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un particolare accanimento su Togliatti, presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare l’arte speciosa del rovesciamento, e come ispiratore delle trame storiografiche negatrici della verità, infine rimessa a posto dai Pansa e sodali, i vendicatori della storia. Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire una «verità alternativa». E piú si urlano le verità alternative, piú esse sono costruite in modo plastico, condite possibilmente da eros e thanatos, piú si allarga il bacino d’utenza. Piú i libri smerciano le copie, piú aumentano i «passaggi» televisivi (con un rapporto di reciproco beneficio tra l’una cosa e l’altra), piú il ceto politico se ne occupa, e un prodotto cartaceo diviene strumento di lotta politica. Non è un caso che il successo dell’«operazione Pansa» sia stato preparato da un lungo lavorio, che parte almeno dagli anni Ottanta, volume dopo volume della mastodontica biografia mussoliniana di Renzo De Felice. Che De Feliceabbia dei meriti, è fuori discussione, ma che il suo lavoro avesse anche un fine politico, è altrettanto indubbio, e del resto lo stesso studioso si è incaricato con prese di posizione pubbliche, specie nelle due note interviste, rilasciate a distanza di un ventennio, di trarre risultati politico-ideologici a una ricerca presentata sempre come «disinteressata». E senza quel lavoro, e quegli impulsi ideologici, il revisionismo all’italiana non avrebbe avuto cittadinanza. De Felice, dunque, a partire dai primi anni Sessanta, quando venne allo scoperto come studioso del fascismo, aveva reiteratamente etichettato il proprio metodo nei termini classicamente positivistici del minatore che scava nelle latebre del passato, portandone alla luce i tesori (i documenti), aggiungendo, ad abundantiam, di essere assolutamente «obiettivo», dimenticando l’avvertenza salveminiana: «lo storico che si dichiara obiettivo o è uno sciocco, o un uomo in malafede, quasi lupo travestito da agnello». Salvemini invitava alla «probità»: dichiarare le proprie passioni, innanzi tutto, e prendere «le contromisure nei loro confronti». Il che significa essere onesti, sul piano intellettuale, e rigorosi sul piano del metodo. Ma, nella biografia del duce, contraddicendo il proprio assunto, fin dal primo volume (1965), De Felice aveva operato un pieno ricupero alle glorie patrie del figlio del fabbro romagnolo, sconnettendo, nel prosieguo del lavoro, il cattivo nazismo dal fascismo («che non era poi cosí male», come si espresse, all’ingrosso, uno dei grands commis di questo apparato ideologico, Giuliano Ferrara), usando (e abusando) la categoria della «modernizzazione» oltre che, ovviamente, di quella del «consenso». Categorie che, nell’analisi del fascismo sono del tutto lecite, ma da usarsi con cautela. E senza enfatizzare né l’una, né l’altra; soprattutto, senza recidere i nessi tra fascismo (movimento e regime) e l’uso della violenza, della sopraffazione, dell’intimidazione. E il sostegno a Mussolini giunto da poteri non propriamente modernizzatori come il Vaticano. Ma ritorniamo a Pansa, e al revisionismo, inteso come teoria e pratica della revisione programmatica, che sarebbe giunto alla sua estremizzazione, il rovescismo, agli inizi degli anni Duemila, ma che aveva palesato già vent’anni prima il suo obiettivo, che ancor prima che culturale era direttamente politico; ad ogni modo, esso non si collocava affatto nell’alveo delle problematiche storiografiche, né aveva un intento conoscitivo. A seguito di una intervista (al Corriere della Sera), in cui De Felice invitava a lasciar cadere la retorica dell’antifascismo, vi fu chi – Alessandro Galante Garrone, tra i primissimi – comprese quale fosse il punto d’arrivo, di un combinato disposto, che metteva accanto, come pezzi di una batteria, revisionismo (pseudo)storiografico e proposte politico istituzionali (erano gli anni della annunciata Grande Riforma, della vaticinata Seconda Repubblica). L’obiettivo di tanto fuoco, in vero, era la Costituzione Repubblicana, cui si voleva metter mano, per un «adeguamento», che ricordava, nella sostanza, la medesima operazione che in termini storiografici si pretendeva di compiere rispetto al ventennio fascista e al biennio resistenziale. Tra De Felice, in specie l’ultimo De Felice, e Pansa, il rapporto sussiste ed è indiretto; fra i due esiste naturalmente una distanza siderale, ma il nesso v’è, e il secondo non sarebbe pensabile senza il primo. Diretta invece la filiazione dal primo degli pseudostorici della Resistenza chiamata sbrigativamente «guerra civile», il giornalista repubblichino Giorgio Pisanò; ma Pansa s’inseriva nel solco tracciato da divulgatori disinvolti quali Arrigo Petacco, Silvio Bertoldi, e un nugolo di altri che non sempre hanno avuto il beneficio del grande successo di pubblico, ossia del massiccio sostegno mediatico. Proprio tale successo, impossibile del resto in epoca preberlusconiana, faceva di Pansa, a partire dal 2003, il principe dei rovistatori. L’obiettivo perseguito da costoro è, come dicevo, la ricerca del sensazionale, o ancora meglio del maleodorante, del putrescente: e, se non c’è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte in prima pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico, senza le cautele minime di qualsivoglia studioso, poco importa. Se gli autori di libri di tal fatta, vendono, troveranno editori disposti a scommettere su di loro, giornali, radio e televisioni pronti a parlarne, e un pubblico abilmente stuzzicato e quindi incuriosito, non dei fatti, cosí come si sono effettivamente svolti, ma delle notizie (il giornalismo attuale ci ha abituato a una perfetta disconnessione fra le due parole, un tempo legate consequenzialmente: le notizie come la fotografia e radiografia, quando si va un po’ oltre i dati empirici, dei fatti accaduti). Quel pubblico, in sostanza, viene convogliato verso il misterioso, verso il segreto, verso il maligno, verso l’erotico, verso il sadico, verso il macabro: ossia verso ciò che suscita attenzione di massa, che eccita interesse della radio e soprattutto della televisione; ebbene allora il risultato è conseguito. Del resto, l’obiettivo massimo – raggiunto da Pansa– è che la propria opera diventi un film o uno sceneggiato TV. Ho affermato che la filiazione del Pansa «storico» della Resistenza e del primissimo dopoguerra, ci porta a un attivista neofascista, già militante della RSI, giornalista e politico nel MSI (di cui fu rappresentante al senato per un ventennio), Giorgio Pisanò. Nella sua febbrile attività volta a screditare l’antifascismo, e a riabilitare il duce, e il fascismo in generale, costui negli anni Cinquanta pubblicava un’opera a suo modo capitale, che fissava lo stilema interpretativo della Resistenza nei termini di guerra civile. A tale fonte a dir poco inquinata, si abbeverarono i rovistatori di cui sopra, Pansa per ultimo, ma con maggiore dovizia. Ma vediamo chi è il revisionista numero uno, in fatto di «storiografia» sulla Resistenza, Giorgio Pisanò. Ci affidiamo a una fonte inequivoca, un suo libro autobiografico-memorialistico. La decisione di restare nel campo repubblicano (la RSI, insomma) dopo l’8 settembre, viene motivata dall’autore come difesa della «sua dignità di italiano» e de «l’onore della bandiera» di fronte al «rovesciamento di fronte» del Regno (12). Fu il 27 aprile 1945, il giorno in cui l’autore dichiara di aver incontrato per la prima volta i partigiani (salvo smentirsi quando racconta di essere stato catturato da un partigiano durante una missione di spionaggio nell’agosto 1944: Ero affascinato. Finalmente li vedevo. Lontani, ma li vedevo. Per tutto il periodo della guerra civile non li avevo mai incontrati, tranne quei due, feriti, nell’ospedale di Grosio, pochi giorni prima. Ma quelli erano bloccati in un letto e mi erano sembrati solo due poveri ragazzi spauriti. Raccontarlo oggi che, a sentire le loro storie e a vedere i loro film, si potrebbe giustamente ritenere che i partigiani noi li avessimo dappertutto, anche sotto il letto, può sembrare assurdo. Eppure avevo girato il territorio della RSI in lungo e in largo, di giorno e di notte, ero stato al fronte, avevo superato le linee attraverso zone partigiane, avevo anche partecipato a rastrellamenti, ma i partigiani non li avevo proprio mai visti. Dunque, presenza evanescente, quella partigiana. O se si vuole, poiché non si facevano vedere, v’era da sospettare che non esistessero. E quando finalmente si materializzano, rivelano la loro pochezza. Ponte Valtellina era sí in mano ai partigiani. Ma appena ci videro, scapparono via. Non ci fu nemmeno bisogno di sparare. Quei pochi che furono raggiunti dai nostri ragazzi, gettarono le armi a terra e alzarono le braccia. Vennero liquidati a calci nel sedere. Nonostante questo brillantissimo successo militare, il 28 aprile la colonna fu costretta alla resa dalla caduta della RSI e del duce, fucilato quello stesso giorno. Pisanò e camerati fatti prigionieri furono trasferiti nel carcere di Sondrio: Novemila metri tra una folla urlante, che inveiva, ci sputava addosso, ci aggrediva a ogni passo. Noi eravamo i delinquenti, noi gli assassini, noi i traditori, noi che indossavamo ancora il grigio verde e avevamo avuto per bandiera un tricolore, quel tricolore che non vedevo piú perché attorno a me c’erano solo bandiere inglesi, americane, e bandiere rosse, un uragano di bandiere rosse. In carcere, Pisanò e gli altri hanno modo di meditare. Non certo autocriticamente. L’apologetica del fascismo e del duce ha avuto inizio: La visione di Mussolini appeso per i piedi ci tormentava tutti. Ne parlammo a lungo. Cercammo di immaginare che cosa poteva avere sofferto moralmente e fisicamente negli ultimi istanti della sua vita quell’uomo che per tanti anni aveva lottato e lavorato nell’illusione di fare grande e potente il popolo italiano. E nel valutare l’immensità della tragedia vissuta e sofferta da lui, ognuno di noi poté concludere che il proprio dramma personale, al confronto, era ben poca cosa. Durante la detenzione di Sondrio molti dei prigionieri vengono giudicati dal Tribunale del Popolo e poi giustiziati o condannati a lunghe pene detentive: I processi celebrati davanti alla Corte d’Assise di Sondrio vennero considerati un vero e proprio spettacolo. La folla si accalcava per vedere le belve in gabbia e per ascoltare gli sproloqui oratori di tanti bravi signori che, fascistissimi fino al giorno prima, ora si agitavano per accusare i loro camerati di ieri delle colpe piú ignobili e infamanti. L’autore evita accuratamente qualsiasi analisi delle condanne del Tribunale, dei fatti per cui gli imputati erano alla sbarra, delle procedure, avvalorando, senza onere di prova, la tesi delle uccisioni sommarie di «onesti» fascisti. Lo schema che sarà fatto proprio da Pansa è tutto qui. L’onere della prova spetta al lettore, semmai, non certo all’autore (in un dibattito pubblico al rimprovero mossogli da chi scrive di non indicare le fonti della sua «ricostruzione», costui rispose: «Professore, ma lei non si fida?». E alla risposta ovviamente negativa, replicò con una singolare proposta: inviare i dieci migliori allievi a fare ricerca sui luoghi di cui egli si era occupato per verificare se il suo racconto fosse o meno attendibile…). Pisanò, grande e ineguagliato modello per Pansa, avendo svolto attività spionistica, fu oggetto dell’attenzione non solo degli inglesi (che lo arrestarono), ma altresí della magistratura italiana: ma l’imputato non le riconosce titolo a giudicarlo, giacché si tratta di italiani, come lui; e come lui hanno perso la guerra. Dunque – questa la logica del revanscista Pisanò – non possono giudicare altri italiani. Nel finale del libro, affiora il lato buono, quello conciliazionista, o delle «memorie condivise», tema ed espressione entrate in circolazione sull’onda lunga del revisionismo soft negli ultimi dieci-quindici anni. Quando ripenso a quei giorni, mi domando se gli antifascisti abbiano mai compreso l’enorme errore commesso nel volerci perseguitare in quella maniera. E sono costretto a rispondermi che, evidentemente, non se ne resero conto né allora né dopo. Loro, è chiaro, furono succubi delle loro paure, dei loro incubi ventennali, della loro stessa propaganda; ci vollero considerare tutti in blocco una banda di criminali, di pazzi furiosi, di avventurieri prezzolati, di poveri dementi dal cervello offuscato. Non capirono, o non vollero capire, che quelle centinaia di migliaia di italiani che si erano stretti intorno a Mussolini chiedendo solo di combattere per riscattare l’onore della patria, erano stati mossi da un impulso ideale, da un senso di ribellione, da una volontà di rinnovamento che non avevano alcun precedente nella nostra storia. Non capirono che noi giovani, specialmente noi giovani, ci eravamo battuti perché avevamo visto nella Repubblica sociale, nelle nuove leggi, nei suoi ordinamenti, la possibilità di ricostruire una nuova Italia e una nuova Europa. Non capirono che noi ci eravamo battuti per una Italia che ancora doveva sorgere. […] Se solo uno di quei cervelloni tornati alla ribalta ci avesse detto: «Ragazzi, vi siete battuti in buona fede. Avete perso. Possiamo tentare di realizzare insieme, anche sotto forme diverse da quelle che vi erano state indicate, quel mondo nuovo che avevate sognato», ebbene, sono certo che quel tale ci avrebbe raccolti intorno a lui, pronti a rimboccarci le maniche per ricostruire l’Italia. Eccoci, insomma all’apologetica dei «ragazzi di Salò», destinata ad ampia fortuna politica. Il revisionismo rovescistico sulla Resistenza e sul processo che porta alla Repubblica, attraverso la Carta Costituzionale, se non nasce direttamente dal revanscismo nostalgico, gli si collega e a esso attinge: è, in sostanza, un figlio, magari spurio, del neofascismo. Le contiguità, piú che le affinità, emergono chiaramente con un’altra opera data alla luce dallo stesso Pisanò, in sodalizio familiare, a distanza di decenni, l’opera piú vicina ai pretesi scoop di Pansa, dedicata a quello che ormai è divenuto usuale chiamare «triangolo della morte». Su quest’opera, lasciando cadere tutta la sovrabbondante produzione antecedente di Pisanò, vale la pena soffermarsi, brevemente, anche perché le rivelazioni pansesche sono relative essenzialmente al post 25 aprile, precisamente come il racconto autobiografico. La tesi degli autori è che la frattura tra fascisti e antifascisti non comunisti «non sarebbe sfociata, solo per volontà di costoro, nella barbarie e nelle efferatezze della guerra civile», in quanto «consapevoli dell’esito finale del conflitto (vittoria scontata degli Alleati) ed erano entrambi propensi ad un passaggio dei poteri il piú possibile indolore»; di conseguenza la spirale di violenza è da imputare alla «compagine di terroristi» che sarebbe stata scatenata dal PCI. In tale quadro, la provincia di Reggio Emilia diventa il laboratorio in cui il PCI «sperimentò con maggior successo, fra il 1943 e il 1945, l’azione rivoluzionaria tendente a trasformare l’Italia, uscita sconfitta dalla guerra, in una repubblica popolare di tipo sovietico». Nella ricostruzione dei Pisanò, i fascisti tentano in ogni modo di evitare risposte violente e rappresaglie (e quando avvengono, esse vengono attribuite immancabilmente ai tedeschi) alle efferatezze dei terroristi rossi, che molto spesso si rivelano essere ladri e briganti sotto mentite spoglie. Il PCI si distingue per il cinismo con cui ricorre alla violenza pur di raggiungere i suoi obiettivi rivoluzionari; a tali scopi i dirigenti comunisti cercano in ogni maniera di far precipitare l’Italia in una guerra civile che nessuno vuole (meno che mai i fascisti) in modo da avere un terreno fertile per la loro azione politica eversiva. Come nel caso dei fratelli Cervi, il PCI persegue crudelmente chiunque al suo interno non sia allineato alle strategie della dirigenza; dalla ricostruzione di questa vicenda, paradigmatica per gli autori, si scoprono le macchinazioni dei rossi che portarono all’eliminazione dei fratelli Cervie di altri partigiani. Il momento del dominio comunista sulla sponda antifascista della guerra civile scavalca le categorie della politica e, per quanto ammantato di frenesia rivoluzionaria, assume anche i contorni di un momento di follia al potere. In questa parte del libro dedicata ai Cervi, estremamente dettagliata, non esiste nota o riferimento alcuno. Una delle poche fonti richiamate viene presentata in questo modo: Ciò che stiamo per rivelare non è scritto su nessuno degli innumerevoli libri che la storiografia antifascista ha prodotto per decenni per alimentare il mito dei Cervi. È scritto, però, in una testimonianza raccolta dagli autori di questo libro e rilasciata loro da uno dei pochi componenti l’UPI (Ufficio politico investigativo) della questura di Reggio sopravvissuti al 25 aprile. È una testimonianza (riferita esclusivamente a vicende accadute nel Reggiano durante la guerra civile) che si compone di 80 cartelle (62 manoscritte e 12 dattiloscritte) che gli autori custodiscono nel loro archivio, e che quindi rendono in parte pubblica rispettando la volontà del testimone a mantenere l’anonimato. Naturalmente le fonti autentiche (tra cui la testimonianza dello stesso Alcide Cervi) e le versioni documentate dell’«impareggiabile storiografia stalinista applicata alla guerra civile» vengono rigettate senza pietà. Ovviamente, non facendo ricorso ad alcuna analisi documentale o metodologica. Altri casi di «epurazioni» interne alla Resistenza e d’irresponsabili azioni terroristiche; quest’ultime finiscono col coinvolgere i civili nelle rappresaglie tedesche. Ma la provincia di Reggio nonostante l’azione terroristica dei guerriglieri si mantenne sempre disciplinata e operosa, compatibilmente con l’eccezionalità del momento, agli ordini delle autorità repubblicane, potendo contare inoltre su un numero altissimo di aderenti alla RSI. E questo grazie alla instancabile attività di Giovanni Caneva […]. Caneva, infatti, cercò anche di attenuare con ogni mezzo gli orrori della guerra civile, intervenendo quasi sempre per impedire l’esecuzione di partigiani catturati e condannati a morte. Le azioni violente dei partigiani continuarono oltre il 25 aprile del 1945; a dimostrazione gli autori citano «venti episodi presi a caso fra migliaia dello stesso tipo, che provano il clima di “giustizia sommaria” instaurato dai comunisti». L’infiltrazione comunista nel reggiano era diventata tale, nel dopoguerra, da arrivare a un vero controllo sulla polizia di Stato. Mentre in Parlamento il PCI sedeva «responsabilmente» a livello periferico manteneva il suo apparato militare impiegandolo segretamente per i suoi scopi; il PCI, sostengono gli autori, in un affondo politico, negli anni Settanta avrebbe continuato su questo doppio binario utilizzando le Brigate rosse in luogo dei partigiani. Nella provincia di Modena, invece, si manifestò subito e piú concretamente «una vera reazione anticomunista in seno all’antifascismo» grazie a una consistente presenza democristiana nel «mare rosso» della Resistenza. Ciononostante, «scomparso di scena il fascismo senza l’arrivo delle truppe alleate, anche da una Resistenza “bipolare” (almeno sulla carta) come quella modenese, sarebbe potuta scaturire solo una “repubblica dei soviet”». Nel Modenese erano attivi anche altri partiti (Partito d’azione, PSIUP), ma il mito dell’antifascismo «unitario», insomma, naufragò subito. Di fronte ai comunisti che andavano dritti per la loro strada, sfruttando fino in fondo lo stato di guerra per puntare alla rivoluzione di classe, gli esponenti degli altri partiti, posti nella necessità di esprimere un progetto politico capace di rifondare lo Stato oltre il fascismo superando la politica marxista, denunciandone il pericolo e smascherandone la sfida filosovietica lanciata con le armi, chinarono chi piú chi meno la testa e si piegarono, fingendo di starci, al gioco dell’«unità ciellenista» targata Mosca. Per debolezza o per viltà, l’antifascismo non comunista rinunciò a esprimere «una valida e chiara alternati va sottratta all’ipoteca comunista», condannandosi cosí a essere «non solo succube ma anche zimbello della strategia del PCI». Guardando alle istituzioni repubblichine, gli autori – ça va sans dire – esprimono apprezzamento per l’operato delle autorità politiche (in specie i podestà) e della burocrazia della RSI: altro che «canaglie». Se mai il fascismo venne onorato nel momento supremo della tragedia è evidente che lo fu an che e soprattutto da questi oscuri addetti alla macchina statale, che si erano formati durante il ventennio di Mussolini e che rimasero al loro posto fino all’ultimo, facendosi massacrare e dando una testimonianza di senso del dovere e dello Stato che meritava da tutti gli italiani, nei decenni successivi, un riconoscimento un po’ piú degno del solo che moltissimi di loro ebbero allora: esecuzioni sommarie e fosse senza nome sparse sull’Appennino. Se si apprezza la Repubblica Sociale, la Repubblica di Montefiorino, l’interessante esperimento di democrazia spontanea, dal basso, scaturita dalla lotta partigiana, non può che esser additata all’esecrazione. Essa «visse la sua breve stagione all’insegna della megalomania e della “giustizia popolare”, ossia della follia sanguinaria. Tutto, sulla carta, venne ingigantito ed enfatizzato. Con una sola eccezione: le violenze di ogni genere, le uccisioni e le stragi indiscriminate eseguite in nome della “giustizia proletaria” che, purtroppo, anticiparono il “triangolo della morte”». E, esercitando i comunisti non solo il dominio militare, ma l’egemonia, era quasi ovvio che quel «clima di “repubblica popolare”», «contagiò» i non comunisti. Fu un’orgia di sangue. Bastonature, «predazioni», rapine, sequestri, stupri, uccisioni, fucilazioni di massa, sevizie, efferatezze di ogni genere furono il vero elemento caratterizzante della «liberazione» di Montefiorino, preludio alla «liberazione» dell’Emilia. […] Ma la cornice nella quale avvenne il fenomeno […] fa assomigliare l’esperimento molto piú all’incubo di un manicomio criminale che all’effervescenza di un laboratorio politico. In chiusura, come nella parte sul Reggiano, il catalogo degli orrori: l’elenco di «altre cento storie maledette». Reggio, Modena, ed ecco il terzo corno del triangolo, Ferrara. Rispetto ai precedenti le vicende sono meno approfondite «poiché quest’opera vuole fornire soprattutto gli elementi essenziali per una corretta rilettura storica e politica di quel periodo e poiché le province di Reggio Emilia e Modena risultano emblematiche al riguardo». Dopo l’8 settembre il Ferrarese, grazie al fascismo repubblichino («repubblicano», per gli autori), visse nella calma piú assoluta alcune settimane. Ma tanta tranquillità non poteva essere bene accetta dai comunisti. Questi ultimi, infatti, grazie alla loro esperienza rivoluzionaria, erano in grado di valutare l’importanza strategica del possesso politico di una provincia come quella di Ferrara, «serbatoio umano» di prim’ordine con i suoi 160.000 braccianti agricoli, ed entrarono ben presto in azione. Da qui il PCI s’impegnò, come altrove, a far saltare tutte le ipotesi di tregua tra antifascisti non comunisti e fascisti. Ottenuta la guerra civile, i partigiani si diedero al massacro e ai regolamenti di conti come nelle altre provincie anche dopo il 25 aprile. Da ultimo, nella parte finale del libro, è trattata la provincia di Bologna: il triangolo diventa quadrangolo, a dispetto del titolo dell’opera. La vastità del dramma causato dalla guerra civile in provincia di Bologna eguaglia, per numero di vittime e di atrocità, quella registrata in provincia di Modena, lasciando al Bolognese solo un triste primato, la piú terribile rappresaglia eseguita dai tedeschi sul territorio italiano: Marzabotto. Questa tragedia «cominciò a maturare fin dai primi mesi del 1944 allorché la “brigata” comunista “Stella rossa” cominciò a dar segni di vita», impegnando le truppe tedesche nella zona. «Chi fece le spese della situazione fu, come al solito, la popolazione civile, abbandonata dai partigiani rossi alla mercé delle truppe rastrellatrici». Durante il rastrellamento nazista di Marzabotto i partigiani non fecero nulla per difendere la popolazione e anzi, quando non erano impegnati negli omicidi degli elementi non graditi alla dirigenza comunista, si diedero alla fuga verso i territori controllati dagli alleati. Nei processi successivi alla strage il PCI si impegnò, attraverso un «largo spiegamento di testimoni falsi», a nascondere le responsabilità della «Stella rossa». Qui siamo davanti a un altro leitmotiv revisionistico: le colpe dei partigiani, vale a dire da un canto la loro irresponsabilità (eseguire attentati contro i nazisti e i saloini, non curandosi delle conseguenze: il caso di via Rasella, come si sa, è l’esempio emblematico; e proprio su di esso una menzogna clamorosa è diventata moneta corrente sui giornali e alla televisione, con personaggi incuranti dei documenti, che ripetono e ribadiscono la responsabilità degli attentatori); dall’altro canto, i partigiani vengono regolarmente accusati di essere vili. Insomma, gente che lancia il sasso e nasconde la mano, pronta a mettersi in salvo, lasciando alla mercé del nemico i civili inermi. In appendice al volume, dulcis in fundo, si ha una lista di tutte le vittime menzionate nel testo, senza beneficio di prova alcuna. Del resto, i documenti, le fonti, la letteratura critica, il metodo, le tecniche della ricerca… che saranno mai? I Pisanò forniscono, in definitiva, senza saperlo, fin dagli anni Cinquanta, un repertorio perfetto del «metodo» revisionistico, a cui si abbevereranno i tanti rovistatori della Resistenza, i quali rientrano in una categoria piú ampia, che sembra inesauribile. Ora – sia detto una volta per tutte, benché per gli specialisti si tratti di un’ovvietà – esiste una differenza essenziale tra la revisione, momento irrinunciabile del lavoro del ricercatore storico, e il revisionismo, che definisco come l’ideologia e la pratica della revisione programmatica. Se l’una ha un valore eminentemente storiografico, l’altro si colloca in un ambito sostanzialmente politico: qual è infatti il compito dello storico? Quello, nobile e problematico, di accertare la verità dei fatti, sulla base dei documenti («pas de documents, pas d’histoire»: senza documenti non c’è storia, ci ha insegnato la grande tradizione metodologica francese), i quali vanno opportunamente trattati, onde accertarne l’autenticità, la provenienza e la veridicità (esistono documenti autentici che raccontano frottole e documenti falsi che dicono verità), opportunamente «interrogati» e «sollecitati», e infine interpretati. In tal modo, sulla base della scoperta di nuove fonti – documenti fino ad allora sconosciuti – o del perfezionamento di tecniche di ricerca, o dell’emergere di sensibilità nuove, si procede a quell’incessante lavoro di «revisione», che è anima del lavoro storiografico. La conoscenza che cosí si può rag giungere è il prodotto collettivo di individui singoli e di intere generazioni; tutti coloro che fanno ricerca possono portare i loro mattoni a questo edificio, correggendo, integrando il già costruito, o facendo salire il livello della costruzione, piano dopo piano. Il revisionismo vuole invece pregiudizialmente «revisionare», possibilmente ribaltare, le conoscenze acquisite, partendo dal presupposto che quello che abbiamo appreso finora siano «bugie»: sintomatico in tal senso il titolo del Pansa che ha fatto seguito alSangue dei vinti, o di pamphlet tanto di studiosi come Piero Melograni, o di mestieranti come Sandro Fontana, nei quali troviamo una serie di grottesche «rivelazioni» partorite tutte dalla fertile inventiva degli autori: la tesi di fondo è che la storia, intesa comehistoria rerum gestarum, è zeppa di «bugie». E perché mai? Semplice: perché la verità è stata «sequestrata» o addirittura «imprigionata» dalla cultura di sinistra, egemonizzata dal PCI, gramscian-togliattiano. E finalmente, in epoca liberata dall’egemonia della sinistra, le menzogne vengono smascherate, e cadono i «miti», grazie precisamente, prima alla meritoria opera di ricercatori coraggiosi, non soggetti al ricatto di partito, o alle pressioni della cultura dominante, o non corrivi alla «vulgata». Cosí il defeliciano Pasquale Chessaspiega la «vulgata»: È nel «legittimismo» antifascista, visto dall’angolazione ciellinista e partigiana, l’origine di quella vulgata storiografica che ha tramandato l’immagine politica della Resistenza come lotta di popolo contro il nemico nazifascista, escludendo dal perimetro della memoria condivisa la Resistenza come «guerra civile» in luogo del piú politicamente corretto «guerra di liberazione nazionale». L’introduzione nella storia «ufficiale» del concetto di «guerra civile», sebbene puramente descrittivo, rifletteva infatti un’imbarazzante equivalenza politica fra i «ribelli» e i «ragazzi di Salò», un’improponibile simmetria morale. Secondo questo ennesimo giornalista con aspirazioni da storico, la storiografia e la memorialistica «partigiana» sono da sempre impegnate in una «straordinaria partita per il controllo della Resistenza»; partita «viva ancora oggi, per stabilire un nesso irresolubile fra la Resistenza e la Repubblica dei partiti fondata sulla Costituzione antifascista. Che la storiografia, in questa storia, abbia finito per giocare un ruolo politico, è il discrimine teorico individuato da Renzo De Felice nella cosiddetta vulgata». E Chessa, naturalmente, sponsorizza la memoria condivisa, la storia completa, e respinge la polemica antirevisionistica, con grande semplicità, o forse con semplicismo, quasi ingenuo. «Le memorie di partigiani e saloini sono rimaste finora separate, incomunicabili, senza mai potersi incrociare nella ricostruzione storica della molteplicità di guerre che hanno attraversato il paese nel pieno degli anni Quaranta». E in modo del tutto corrivo ai modi e agli stessi tic verbali dell’ondata postdefeliciana, l’autore parla di «storia dei vincitori», accusandola non solo di aver praticato la rimozione di un passato indicibile sommerso dalla necessità politica di legittimare l’antifascismo, e con esso il PCI, nella nuova storia del paese, quanto l’uso calunnioso del concetto di revisionismo storico che sovrappone i risultati della nuova ricerca storiografica con la maschera del nemico. Dichiarando di rifiutare la richiesta della «storia condivisa», respinge altresí l’idea della «memoria divisa» (alludendo per esempio a Sergio Luzzatto), l’autore asserisce la necessità di «cercare la strada per arrivare a una storia completa» (Pansa parlerà di «completismo») che sappia raccontare i fatti cosí come sono accaduti piuttosto che sottometterli alle ricostruzioni volute dalla politica e dall’ideologia e financo dalla morale e dall’etica». La guerra partigiana dunque deve diventare – o ritornare a essere – «guerra civile», come categoria interpretativa fondamentale. Guerra civile: ma l’operazione è stata già compiuta con il libro di Claudio Pavone. Allora (siamo agli inizi degli anni Novanta), tanti poterono esclamare: l’avevamo sempre detto! Qui un’osservazione si impone: pur essendo coscienti che l’editore (Bollati Boringhieri) per ragioni, come suol dirsi, «squisitamente editoriali», operò un’inversione fra sottotitolo originario (Saggio sulla moralità della Resistenza) e titolo del libro di Pavone (Una guerra civile), va tuttavia rilevato che quel titolo appariva comunque corrivo alla nuova aura storiografica, culturale, politica. E come tale fu usato – naturalmente, non piú che il titolo, sia per la mole impegnativa del volume, sia perché comunque l’autore aggiungeva alla guerra civile due altri conflitti: quello sociale (la Resistenza come moto di liberazione dei subalterni) e quello nazionale (italiani contro stranieri occupanti). Se uno storico proveniente dall’area della sinistra, già partigiano, ha etichettato il biennio ’43-45 nei termini di guerra civile, vuol proprio dire che avevamo ragione noi: cosí argomentato dai rovistatori. Nella corsa ad accaparrarsi la primazia nell’uso di quell’espressione, e nella valanga revisionistico-rovescistica che seguí alla pubblicazione dell’opera di Pavone– una sintesi magistrale, peraltro – non ci si interrogò sul senso stesso di «guerra civile»: anche se fosse, come fu, in parte, nel senso letterale, di conflitto intestino fra connazionali, lo scontro tra partigiani e repubblichini – guerra civile, appunto – quale lo scandalo? Le guerre civili sono guerre solitamente provviste di motivazioni piú forti, piú «convincenti», e, in definitiva, sono piú lecite moralmente di qualsiasi altro conflitto armato. Il libro di Pavone, invece, grazie anche alla provenienza politica dell’autore, divenne la prova provata che quella era stata «soltanto» una guerra civile; ossia, un’oscenità inammissibile. La cui colpa, come si constatò dallo tsunami di pubblicazioni (di giornalisti-storici) e dichiarazioni (di politici), ricadeva nella sostanza sui comunisti, che avevano irretito i partigiani, di cui si minimizzava l’entità numerica e soprattutto il significato militare della loro azione; anzi, si arrivò a rovesciare addirittura i meriti in demeriti. E le stragi nazifasciste vennero tutte interpretate come (legittime, in fondo) reazioni alle provocazioni dei partigiani (comunisti), ai loro attacchi scriteriati, alle loro inutili azioni: inutili come inutile fu tutta la guerriglia antifascista del ’43-45. L’Italia, naturalmente, fu liberata dagli Alleati. Oggi il revisionismo è diventato moneta corrente, ormai nella sua versione estrema, quella rovescistica. Il «rovescismo», infatti, può essere definito la fase suprema del revisionismo. Quest’ultimo filone è il cavallo di battaglia di Pansa, la sua gallina dalle uova d’oro. Senza alcun rispetto per i piú elementari principi del lavoro storiografico, egli sta ormai perseguendo da anni un sistematico rovesciamento di giudizio sul ’43-45. Naturalmente, ciò non sarebbe possibile senza editori che sollecitano libri di tal genere, libri che rovescino quello che si sa… altrimenti chi comprerebbe un altro libro sulla Resistenza? Bisogna almeno sostenere che i comunisti hanno nascosto – nell’ipotesi piú benigna – una fetta della Resistenza: i comunisti intesi come classe politica, ma anche i comunisti intesi come storici e intellettuali. Dunque, ecco farsi strada la Resistenza cancellata o negata; quella dei non comunisti; un filo che sarebbe poi stato dipanato fino ai primi anni dell’immediato post 25 aprile, sempre insistendo sulla tesi che i comunisti hanno schiacciato i non comunisti, quand’anche loro alleati nella guerra di Liberazione. Dall’alto delle loro centinaia di migliaia di copie, i rovescisti irridono agli accademici pignoli, magari «invidiosi» del loro successo, i quali – niente di meno – vorrebbero le note a piè di pagina. Ma le note non sono altro che la possibilità offerta al lettore di verificare quello che scriviamo, se non vogliamo rimanere nel regno della fiction: chi ci legge deve poter fare il nostro stesso percorso, al limite andando a frugare negli stessi archivi dove noi abbiamo lavorato, e controllare se ci siamo inventati i documenti, o li abbiamo alterati… Per i rovescisti questa è inutile noiosaggine professorale. Dobbiamo fidarci del loro intuito, o – come Pansa procede – delle loro ricostruzioni fatte sulla base di racconti altrui, o di «travaso» di libri in altri libri. Cosí Benedetto Croce, che molti decenni or sono denunciava le «pseudostorie». Nulla di nuovo sotto il sole, in un certo senso. Per raccontare la storia non basta scrivere, perdipiú con il ricorso furbesco a un piano di comunicazione che mescola l’invenzione narrativa (se cosí vogliamo chiamarla) e la pretesa di «raccontare i fatti»: per tal via ogni contestazione di metodo e di merito è impossibile. L’autore ha la risposta pronta. Se lo cogli in fallo, egli può sempre rispondere che la sua è «libera ricostruzione», e che non si può pretendere l’esattezza. Da questo punto di vista, almeno, il buon Pisanò era meno ambiguo. Ma veniamo all’analisi sia pur succinta del primo libro rovescistico di Pansa, direttamente ispirato nelle fonti, nel metodo, e nel risultato da Pisanò e compagnia. Come già accennato, siamo davanti a un’operazione scientificamente inaccettabile. Nulla ha a che fare con le criti che che a siffatte opere sono state mosse in nome della political correctness, a cui invece l’autore ha facilitato la strada con una serie di dichiarazioni e di interventi all’inizio soltanto sgradevoli, poi davvero grevi, anche se va detto che egli fu «provocato» da alcuni attacchi assai polemici, i quali forse hanno avuto il torto di confondere il discorso storiografico con quello del sospettato fine politico e/o personale dell’autore. È ovvio che lo studioso di storia non debba preoccuparsi dei possibili utilizzi politici del suo lavoro, ai quali egli è estraneo; non deve chiedersi «a chi giova?», perché la verità giova a tutti; e dunque se il suo lavoro è indirizzato, come dovrebbe, alla ricerca della verità, egli non può fermarsi davanti a questioni di opportunità, di interessi, di convenienze. La verità è un grande edificio collettivo, a cui ciascun ricercatore, in ogni epoca, in ogni parte del mondo, può recare il suo piccolo o grande mattone; e la costruzione procede per aggiustamenti successivi, correzioni, revisioni, sulla base di nuove fonti che nel corso del tempo si rendono disponibili, ovvero grazie al perfezionamento delle stesse tecniche di ricerca; o, infine (in realtà, innanzi tutto), sulla base della capacità che ciascuna generazione, ciascun singolo studioso, ha di porre domande ai documenti, di sollecitare problematicamente la storia. Non occorrono titoli accademici per fare questo; e dunque Pansa che, come ricordato, ha studi storici nel suo passato remoto, e ha avuto buoni maestri (politicamente ineccepibili: Guido Quazza innanzi tutti gli altri), non deve essere maltrattato perché non siede in cattedra. Cosí come non deve essere attaccato anche quando si giudichi il suo libro «utile al nemico»; ciò naturalmente non impedisce inquietanti interrogativi sul momento politico in cui il libro apparve, caratterizzato da goffe riabilitazioni del fascismo e da sciagurate minimizzazioni della Resistenza, con tentativi di equiparazione di partigiani e repubblichini, con le dubbie proposte di celebrazione dei morti, e cosí via. L’autore, piuttosto, va messo sotto accusa, storiograficamente parlando, per altre ragioni, squisitamente inerenti il mestiere di storico. Trattasi di mestiere che richiede un bagaglio di metodo e uno strumentario tecnico che Pansa a dispetto della vantata ascendenza quazziana, non ha affatto, neppure in minima misura. Egli avverte il lettore che tutto è vero, che tutto è documentato, che tutto è stato riscontrato. Peccato che nessun elemento venga fornito in tale direzione. La disonestà del libro consiste proprio in questo: che ha la pretesa di essere uno studio storico, ma ha l’alibi della letteratura. E in tal modo l’autore si costruisce una sorta di barriera difensiva preventiva. In effetti, il libro è costruito in maniera ambiguamente narrativa, con due personaggi, l’autore, che come in un metaracconto si presenta in veste di ricercatore della verità storica, e un personaggio – l’unico di fantasia, precisa Pansa– che svolge il ruolo di Virgilio che accompagna Dante nell’Inferno della Resistenza, o meglio del post 25 aprile. Livia, tale il nome del personaggio, è una bibliotecaria che guida il «noto giornalista» nella sua indagine, e in un gioco delle parti che viene piuttosto stucchevolmente ripetuto capitolo dopo capitolo, nel libro si passano in rassegna una serie di casi, specie nell’Italia settentrionale, di «vendette» – parola-chiave del racconto, parola che implica un evidente giudizio di (dis)valore – perpetrate dai vincitori (i resistenti) ai danni dei vinti (i repubblichini), il cui sangue (come il titolo indica senza esitazioni: il sangue in copertina è stato un indubbio elemento di richiamo per una larga fetta di pubblico) viene appunto versato, anche quando, come si suggerisce o si dichiara sovente nelle pagine di Pansa, si tratti di sangue innocente. Nella sua pretesa di mostrare, come egli ha dichiarato ripetutamente, «l’altra faccia della medaglia», l’autore finisce per dare un’immagine del partigianato assai simile a quella della peggiore pubblicistica neofascista e nostalgica fin dai primi anni del post 1945. Non a caso una parte cospicua delle fonti, che vengono menzionate nel corso delle conversazioni tra la bibliotecaria e il giornalista che si vuole anche storico, sono appunto di quel genere. Pisanò, ripeto, è il fiume: Pansa è uno dei rivoli che ne discende. E il libro di Pansa, che vorrebbe ristabilire una «verità negata», si riduce a quell’accennato travaso da altri libri, senza alcuna verifica sull’attendibilità dei racconti in essi contenuti. E quando in numerosi casi appaiono discrepanze tra una fonte e un’altra, l’autore sceglie sulla base di «ritengo», «mi pare», «sembrerebbe». Nell’insieme, il risultato confonde due piani: la moralità degli individui e quella della causa per la quale essi combattono. È evidente, e noto, che tra i partigiani e tra gli stessi antifascisti vi furono personaggi moralmente discutibili (per usare un eufemismo) e fra i saloini vi furono giovani in buona fede, i migliori dei quali, peraltro, si avvidero piú o meno per tempo dell’errore che stavano commettendo e passarono dall’altra parte. Ma sulla differenza e la distanza tra la causa degli uni (la liberazione d’Italia, e per larga parte dei resistenti anche un suo rinnovamento politico e sociale) e quella degli altri (il fascismo e la sudditanza alla Germania hitleriana) non vi possono essere dubbi su quale fosse la parte giusta. Del resto tutti i casi qui proposti – una serie di nomi di uomini e donne fascisti, o sospetti tali, uccisi, talora barbaramente, dopo il 25 aprile, da uomini e donne della Resistenza, o sospetti tali, in una galleria degli orrori, in cui c’è del vero, sia ben chiaro – sono tappezzati di formule vaghe, di asserzioni che possono essere accettate in una chiacchierata in poltrona fra amici, non stampate in un libro che, questa l’aggravante, si propone (ça va sans dire) di «far luce su una pagina buia della nostra storia». E mentre è calcata la mano sulla crudeltà dei partigiani che perpetrano le loro nefandezze, quella mano diventa lieve quando si accenna alle cause scatenanti di tali azioni. Sembra emergere tutt’al piú, come sfondo, l’eterna nequizia degli esseri umani, la loro ferinità che altro non aspetta che un’occasione quando non addirittura un pretesto per scatenarsi. E il contesto storico in cui quei fatti (anche dandoli per accertati) avvennero? Nulla o quasi. Anzi, di tanto in tanto, emerge la «colpa» dei comunisti, che soffiano sul fuoco, che incitano alla «mattanza» (la parola ricorre piú volte): comunisti che per libidine vendicativa dietro la quale s’indovina una strategia del terrore per condizionare gli sviluppi della vita italiana, lasciano fare, proteggendo gli assassini, o fanno essi stessi in prima persona. Ora, la storiografia seria su questo drammatico (ma quanto importante per noi tutti!) periodo della storia italiana, che non ha dovuto aspettare le «ricerche» di Pansa per produrre risultati, oltre a mettere in luce gli elementi costitutivi della situazione (come dimenticare il biennio di orrore, quello sí di sangue e di morte, della RSI? Come parlare di «vendetta» o di «mattanza» senza tener conto di quello che l’ha immediatamente preceduta?), ha al contrario sottolineato la prudenza della leadership comunista, a cominciare da Palmiro Togliatti. E anche se ci sono stati momenti iniziali, le giornate immediatamente successive al 25 aprile, in cui si lasciò fare, giustificando gli indubbi eccessi – Pansa ha ripetutamente sottolineato la citazione di Giorgio Amendola che legittimava il furore giacobino – d’altro canto non v’è dubbio che si sia trattato di un fenomeno, che, opportunamente storicizzato, rivela caratteri in qualche modo di inevitabilità, dato appunto il contesto; e i suoi numeri furono limitati, rispetto ad analoghe situazioni di «rivalsa» dei vincitori sui vinti. Si aggiunga che (Pansa non ci offre alcun elemento nuovo) la situazione era oggettivamente di difficilissima governabilità e gli stessi comandi alleati ebbero la netta sensazione che molti di quei delitti – giacché delitti vi furono – erano privi di qualsiasi motivazione politica, a cui invece erano attribuiti. Infine, secondo uno stile proprio di suoi colleghi che si pongono a far «storia», e che ormai si può chiamare la storia secondo Porta a Porta (il programma TV dove imperversa un altro “gigante” della verità storica e ormai anche della pubblica opinione) egli premette al suo racconto una precisazione che ci informa sulla esiziale concezione opinionistica della storia: «Dopo tante pagine scritte, anche da me, sulla Resistenza e sulle atrocità compiute anche dai tedeschi e dai fascisti, mi è sembrato giusto far vedere anche l’altra faccia della medaglia». Il problema è che la storia non è un confronto di opinioni, non è il salotto televisivo, la storia non è un tavolo da ping-pong (di’ la tua che poi dico la mia); la storia è affar serio, che si fa in modo scientifico e ha il solo scopo di accertare la verità, seguendo tecniche consolidate. Con una premessa sottintesa che deve essere quella dell’onestà intellettuale (un documento scomodo, una verità inquietante per la mia parte politica non deve essere rimosso o corrotto o ignorato…): qui ancora dovrebbe ricorrere il richiamo a Salvemini, con il suo incitamento alla «probità»: dichiarare le proprie passioni, e prendere le contromisure nei loro confronti. Che significa innanzitutto lavorare sui documenti e lavorare correttamente, secondo le regole del metodo storico. All’accusa di revisionismo, Pansa inizialmente rispose, in svariate interviste, con un altro «ismo», di cui possiamo ritenere sia l’inventore: il già accennato «completismo» (salvo però scrivere nell’avvertenza che il suo «non pretende di essere un racconto completo e non lo è»). Il suo libro aveva la pretesa di riempire i buchi della storia, buchi che naturalmente sarebbero intenzionali: la sinistra, egemone in storiografia (?), succube dei diktat del Partito comunista, avrebbe «rimosso», «censurato», «negato». In seguito, in modo via via piú aggressivo fino a diventare becero e volgare, il giornalista ormai coccolato da una larga parte dei media, e dello stesso sistema politico, ma diventando via via beniamino della destra, che dal suo lavoro ha tratto linfa per spingersi ad attaccare i fondamenti dell’Italia repubblicana, con disegni di legge, ora (provvisoriamente?) accantonati, di equiparazione giuridica, anche ai fini del trattamento di quiescenza, dei combattenti dell’una e dell’altra parte. Beffardamente, nel messaggio indirizzato «Al lettore», con cui si apre il volume, l’autore afferma pacato che il proprio intento «era di costruire un libro sereno». Basti leggere, ad apertura casuale, per rendersi conto di quanta serenità spiri tra le pagine di Pansa: non ho spazio qui per procedere, ma chi voglia è invitato ad assaggiare quelle pagine. E dopo Il sangue dei vinti, dopo La Grande Bugia (le maiuscole sono nell’originale), Pansa dà alle stampe un terzo volume nel quale il narciso si presenta nei termini della vittima. Il percorso a ben vedere è consequenziale. La verità è stata nascosta per decenni; sono i comunisti ad averla nascosta; arrivano gli Zorro della storia, e svelano «l’altra faccia», che ovviamente gronda sangue; ma allora una cortina di ferro si leva contro di loro, ostracizzandoli, demonizzandoli, scomunicandoli. Sono i «professori», gli «intellettuali», almeno quelli veteromarxisti, gramsciani fuori moda, togliattiani impenitenti, che ancora seguono vecchi schemi, o subiscono antiche censure, e si fanno censori a loro volta. Il comunismo è morto, ma i suoi effetti (attraverso la perniciosa arma dell’egemonia), sono ben presenti e vivi, insomma. Ed ecco costoro farsi nientemeno che «gendarmi della memoria»: essi tengono ben chiusa sotto chiave la memoria della guerra civile, pretendendo di avere l’esclusiva di parlarne. Come se, appunto (il modello talk show), la storiografia fosse un campo di opinioni. Ed ecco la grande bouffe di «verità scomode» che il nostro intrepido eroe porta allo scoperto, incurante del pericolo della scomunica. O peggio. Del resto il volume secondo e terzo della tetralogia (Pansa ha un illustre predecessore in Benedetto Croce!), sono dedicati al resoconto di recensioni, presentazioni, boicottaggi organizzati da codesti gendarmi; ma la morale è che la verità si afferma malgrado tutto questo, e lo dimostrano le centinaia di migliaia di copie che si sono smerciate di questi tomi. In ogni caso, il leitmotiv è la Resistenza come «mito», costruito ad arte dai comunisti, e protetto nel corso del tempo, nascondendo le migliaia di morti inutili che specie dopo il 25 aprile si sarebbero prodotte. E come per le Foibe, e la fobia da foiba, come è stato scritto, su cui si è scatenata da un ventennio una campagna sistematica di menzogne (e mezze verità, che sono menzogne ancora piú dannose), Pansa dà le cifre, del tutto arbitrarie, conteggiando intorno ai ventimila ammazzati nella «resa dei conti», dopo la caduta del fascismo. Una «mattanza», appunto, che non solo non corrisponde alle sole cifre attendibili a disposizione (moltiplicandole per 10 o 15), ma dimentica, o finge di dimenticare i contesti in cui le violenze avvenivano, e che nella gran parte dei casi erano esecuzioni comminate dai Tribunali del Popolo. Un fatto anche vero, estratto dal contesto che lo ha generato, perde ogni significato e valore probatorio. Ma tant’è. Pansa ha imboccato una strada che lo porta a diventare, alla fine, il paladino del revisionismo estremo, ma via via in termini piú bolsi, autistici, grottescamente autoapologetici quanto volgarmente ingiuriosi verso i co siddetti «gendarmi». Precisiamo, comunque, che è ben vero che sul tema della «resa dei conti», vi siano state reticenze, è noto; e ampiamente spiegato, nell’ambito della vicenda non soltanto storiografica e culturale, ma politica dell’Italia repubblicana. Quelle reticenze sono in parte spiegabili non con l’intento di nascondere i morti, ma semmai di sottacere il ruolo di Palmiro Togliatti artefice di un perdono generalizzato su cui molto è stato eccepito, anche recentemente, in termini piuttosto aspri. Ossia, il condono togliattiano va esattamente contro la tesi dei comunisti assassini programmatici. In definitiva, come non ricordare che non da ieri la storiografia sulla Resistenza e sullo stesso fascismo ha avviato un processo di radicale rinnovamento? Di esso cui il libro di Claudio Pavone, già richiamato qui, nei primi anni Novanta era l’esito e non certo l’avvio, che invece si colloca tra gli anni Sessanta e Settanta. E polemizzare oggi sulla storia che «nasconde» la verità – dunque anche sui limiti della Resistenza e dell’antifascismo – perché condizionata dal comunismo, è ridicolo. Ricerche come quella di Hans Woller hanno già detto pacatamente, e seriamente, documentatamente, quello che v’era da dire sul tema. E opere collettive quali l’Atlante storico della Resistenza o il Dizionario della Resistenza, che nascono direttamente o indirettamente dal lavoro di scavo condotto nei decenni dalla rete degli Istituti Storici locali del Movimento di Liberazione in Italia, sono assai lontane da opere pur meritorie, ma in cui l’agiografia era robustamente presente come la pur preziosissima e meritoria Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza. Il problema è che la storia, quella vera, mira precisamente alla maggiore esattezza possibile, in quanto scienza, il cui compito è avvicinarsi in uno sforzo continuo alla verità. I rovescisti vogliono fare colpo, vendere libri, far parlare di sé. E ci riescono: proprio nella misura in cui annunciano che la loro verità è diversa, è altra, è il rovescio di quella assodata. Quel che è grave è, al di là della falsificazione della storia (e in particolare di una storia che ha fondato il nostro presente, per quel che di buono è rimasto in esso, sul piano istituzionale) il risultato complessivo, per cosí dire «teorico» del loro «lavoro»: una totale perdita di significato della storia, e la nascita di una specie di senso comune nel quale c’è posto per tutti, trasformando l’arena della ricerca in un infinito talk show, una situazione in cui la ricerca diventa opinione (avete detto la vostra, ora diciamo la nostra), e tutte le opinioni hanno la medesima legittimità. Tutto viene equiparato, e le ragioni degli individui sono confuse con le ragioni delle cause per cui si battono. Norberto Bobbio rivolse a De Felice e ai suoi adepti una domanda che rimase senza risposta: «E se avessero vinto loro?». Se avesse prevalso il nazifascismo, insomma? Davvero la causa dei resistenti può essere equiparata a quella dei «ragazzi di Salò»? Il «sangue dei vinti»?! E quello dei partigiani? E quello degli italiani mandati al macello da Mussolini? V’è chi sostiene, in buona fede, che oggi non sia piú il caso di stare a distinguere. Un già richiamato giornalista fedelissimo dell’armata defeliciana ha scritto di recente, in un’opera illustrata, non ignobile, peraltro: Come testimoniano le memorie sia postume sia coeve, chi sceglierà di combattersi nella guerra fratricida ha visto nell’8 settembre il giorno tanto della nemesi quanto della rivelazione. Poco importa in sede storica distinguere, con un criterio etico o politico, le ragioni ignobili dalle motivazioni nobili, contrapporre la spinta ideale alla necessità materiale. Perché, senza arrivare a un appiattimento di tutte le posizioni, nella leggenda delle origini della guerra civile il caso si coniuga con il destino, lo stato di necessità con le spinte ambientali, le tendenze dell’animo con le scorciatoie esistenziali, il retroterra culturale e le inclinazioni caratteriali. Eppure quelle lanciate a guisa di provocazione da Bobbio sono domande che lasciano indifferenti i rovescisti, i quali anzi, dal successo commerciale, mediatico e politico del loro piú recente eroe (Pansa), hanno ricavato nuovo vigore: Pansa, dal canto suo, inserendosi in un altro fortunato filone pseudostorico (quello accennato della «denuncia» delle bugie della storia, ossia degli storici «di sinistra», ossia «comunisti»), è passato dalla «ricostruzione fattuale» alla polemica verso i suoi «avversari», dai quali naturalmente non ha accettato di essere demolito sul piano storiografico, e l’ha «buttata in politica», soluzione comodissima, ben nota. E preso da una sorta di ybris ha prodotto i successivi indigeribili centoni autoreferenziali, insultanti verso persone e falsificatori verso i fatti. Risposte all’insegna di un’aggressività che hanno messo allo scoperto accanto alle debolezze metodologiche, quelle caratteriali dell’autore; il quale, in un imbarazzante crescendo, si è spinto fino all’autobiografismo esplicito, in chiave autoapologetica (ovvio!), sfidando platealmente il pubblico degli storici di professione: il successo ha suscitato il classico delirio di onnipotenza, voltato in pura provocazione. E con orgoglio si è proclamato, nell’ultimo (per ora) capitolo della sua saga personale, Il revisionista. Mentre nei precedenti la foto dell’autore occupava l’intera ultima di copertina, qui egli è asceso agli onori della prima. L’idea, anzi l’ossessione di fondo, dei revisionisti è accanto a quella volta a «rivedere», quella di raccontare l’altra faccia della storia, quella nascosta (la storia come la luna, insomma), e, così, di colmare vuoti che sono politici: nel senso che i soliti comunisti avrebbero impedito che si scavasse, si accertasse e, infine, che si raccontasse. Giornalisti, scrittori, poligrafi, e qualche studioso professionale giunto spesso per vie imperscrutabili a cattedre universitarie, si sono dati un gran da fare in tale direzione. Per esempio, un testimone con doti da narratore, Carlo Mazzantini, oltre a un romanzo memorialistico su Salò (dall’evidente tratto apologetico), che ha avuto un notevole successo, ci ha regalato un’altra opera, dove il testimone si fa, ahinoi, anche storico, con risultati imbarazzanti. Anche lui, Mazzantini, canonicamente, si propone di riempire «un vuoto di venti anni», «riempirlo non di condanne o di lodi, ma di uomini, di presenze umane, di sentimenti, entusiasmi, dedizioni e anche di calcoli, di opportunismi e di viltà». Retroterra è, classicamente, il consenso totale degli italiani al regime prima della dichiarazione di guerra di Mussolini: consenso totale e partecipato tranne che per «una esigua minoranza di uomini integerrimi che il fascismo non era riuscito a catturare. […] Di quelli ostinati, tetragoni che anche se tutti dicono sí, loro continuano a scuotere il capo e dire no. […] Ma questi non erano l’Italia»; ma l’Italia «che il fascismo aveva conquistato e dalla quale era stato conquistato» era un’altra, dove «io e i miei coetanei eravamo nati, e altro non avevamo conosciuto, e nella quale sono compresi anche coloro che “dopo”, o anche in quel momento, dissentivano o dissentirono, ma non fecero niente per manifestare quel dissenso». E su questo almeno parzialmente all’autore si può dare ragione. Ma il suo filo lo conduce altrove: Si può allora condannare cosí senza appello, come pura dabbenaggine e incoscienza quella esaltazione guerresca, del popolo italiano di allora […]? Cosí come sarebbe giusto dire che solo per leggerezza e ingenuità, quel popolo si sia gettato nelle braccia del tiranno, mosso solo da vanità e ambizione personale? No. Quell’Italia del 10 giugno del ’40, cosí turgida di spiriti nazionalisti, percorsa, fra sventolio di bandiere e fracasso di fanfare, da ondate di orgoglio, non si era abbrancata dietro il suo Capo senza ragioni. Perciò la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. Per noi patriottelli di diciassette, diciotto anni, fu il trauma di un meteorite che aveva centrato la terra. Il crollo di un mondo. La cancellazione del pianeta in cui eri nato. Tutto quello che c’era, tutto quello che eri stato, che avevi vissuto, tutto ciò che ti era stato insegnato e ti connotava permettendoti di tenerti in piedi insieme agli altri, era stato spazzato via. E adesso tu che fai? Chi sei? Dove vai? Con chi stai? No, non credo che i giovani di oggi possano capire. Quella caduta fu vissuta da migliaia di giovani come un fatto personale, un’offesa diretta a ognuno di essi: l’assassinio proditorio del padre. Conseguentemente, l’8 settembre si manifestò in quei ragazzi «il disgusto di quanto era accaduto, di quanto avevamo vissuto sulla nostra pelle, di quanto ci aveva lacerato dentro. […] Di fronte a questo, noi, quei ragazzi, dicemmo con disperazione: No». Un pugno di eroi, insomma, che si oppone allo sfascio in nome del vero fascismo: «solo con quei compagni potevi usare liberamente anche quelle parole che nello sfacelo, nella miseria che avevi attorno suonavano assurde, risibili – fedeltà alla parola data, onore, dignità militare». Poi l’esecrabile, l’inimmaginabile: la guerra civile. «Mai immaginato di poterci scontrare con altri italiani. Che ci fosse gente che avrebbe scelto di “passare al nemico”. E spararci addosso». E qui ha inizio il tema caro ai rovistatori degli ultimi decenni: i crimini, prima, durante e dopo il biennio ’43-45: crimini, naturalmente, addebitabili tutti, o quasi tutti, agli antifascisti, e tra loro, essenzialmente, ai comunisti. Sicché dopo «tutta la catena degli agguati, le imboscate, le rappresaglie, le esecuzioni sommarie, gli incendi», ecco «il massacro post bellum. La resa dei conti». E il buon Mazzantini non trova di meglio che citare il titolo del libro di Pansa, rendendo un omaggio untuoso all’autore: «Insomma Il sangue dei vinti. Che un uomo coraggioso e onesto, ma che solo la sacra unzione dell’antifascismo ha reso attendibile, ha potuto raccontare dopo cinquantotto anni essendo creduto». Non manca l’atto d’accusa ai comunisti, egemoni nel movimento partigiano (presentato nei soliti termini piú che riduttivi): tra le loro colpe quella inestinguibile di aver giustiziato il duce, che invece avrebbe dovuto avere un processo regolare. Tanto piú che non sarebbe corretto «accollare poi a Mussolini la illegalità diffusa, il radicalismo, le atrocità del periodo repubblichino». Egli è inerte e assente, e non conta nulla. E cosa accadde allora, nel territorio della RSI? Una «guerra fratricida», «guerra per bande da una parte e dall’altra», condotta da «capi locali, nuovi capitani di ventura, che decidono e agiscono di propria iniziativa». Quella guerra fratricida sarebbe continuata, riemergendo per esempio negli anni di piombo, «in cui gli eredi spirituali di quell’Uomini e no e della “rossa primavera” proclameranno che “ammazzare non è reato”». Mazzantini ritiene che il 25 aprile non sia data di tutti, e non sia una buona data, in sostanza. Della ricorrenza si è occupato, nell’anno del sessantennale, uno storico di professione, di area di centrodestra, con un repertorio di memorie della Resistenza, interessante, ma dalle linee non chiarissime, che comunque può fornire qualche spunto sulla genesi di revanscismi postfascisti e revisionismi rovescistici; anche se, al riguardo, sono da leggere le precedenti pagine di Sergio Luzzatto, ferocemente (e giustamente) critico delle tesi delle «memorie condivise», pur senza fare sconti alla parte che della Resistenza si è fatta interprete privilegiata. Ma, come ha scritto lo stesso studioso, recensendo uno dei tanti Pansa: Naturalmente, è vero che la Resistenza ha avuto i suoi lati oscuri. È vero che la Liberazione ha avuto le sue pagine nere. È vero che il PCI ha avuto le sue doppiezze. Ma appunto, queste sono cose che gli storici seri sono venuti studiando e scrivendo da almeno quindici anni. È per merito loro, non certo per merito di Pansa e del circuito mediatico dei suoi ammiratori, che noi possiamo coltivare adesso un’idea antiretorica della Resistenza. E che ci possiamo sentire tanto piú debitori verso chi la Resistenza ha avuto il coraggio di fare, vincendo l’ignavia e consegnandoci un’Italia libera. Che l’attacco alla Resistenza, e all’antifascismo, e in vero alla stessa fondazione della Repubblica, con quel suo straordinario documento fondativo che è la Costituzione scritta nel 1946-47, provenga da un manipolo di mestieranti della penna, è non solo fastidioso, ma offensivo, proprio per la mancanza di serietà nel loro modo di procedere. Si legga, in conclusione, cosa scrive un altro giornalista (casualmente anch’egli del Corriere della Sera), aduso a incursioni storiografiche, nella premessa a un suo libro di «denuncia» degli orrori del comunismo…Sono tutte storie vere. Nel senso che i luoghi, la maggior parte dei nomi e delle situazioni corrisponde a fatti precisi. Ma sono anche tutte false, dal momento che una storia non puoi raccontarla basandoti soltanto su un documento, altrimenti la tradisci. Bisogna fare in modo che ognuna abbia una sua forma, tocchi un suo culmine drammatico, altrimenti dopo tanti anni non potrebbe mai riuscire ad attraversare il muro dell’indifferenza e del silenzio. Fiction mischiata alla ricostruzione. Con quali criteri? Sulla base di quali fonti? E con quanto fondamento? Insomma, nel clima di deriva pseudostorica, tutto si può dire, impunemente. Non è «storia», ma sul mercato del senso comune conta infinitamente di piú. E contro di essa, oggi, si tenta non solo di resistere, ma, finalmente, di passare al contrattacco; il volume in cui compaiono queste mie considerazioni rapsodiche, ne è un segnale incoraggiante.

Non potendolo più scomunicare, i media hanno fatto passare sotto silenzio il ventesimo dalla morte. De Felice, ignorato dalla sinistra. Anche se è stato il più grande storico del fascismo, scrive Gianfranco Morra su "Italia Oggi” il 31 maggio 2016. Venti anni fa, il 25 maggio, moriva Renzo De Felice, il nostro più grande storico del fascismo.

Ma chi lo ricorda ancora? Sia il fascismo che il comunismo sono scomparsi, ma la cultura egemone è ancora piena dei luoghi comuni della sinistra e non gli può perdonare l'onestà intellettuale e il pathos morale, che lo hanno indotto a rompere la cappa di piombo della «vulgata marxista», di quegli intellettuali del Pci che lo perseguitarono per tutta la vita. Con una accusa ridicola: è un «revisionista» (un termine staliniano!). Ma cosa aveva fatto di male? La storiografia, se vuole essere vera, non può che essere un continuo revisionismo. La ricerca della verità storica, sempre ardua, è ostacolata dalle ideologie, che, quando trionfano, fossilizzano in schemi artificiali e accademici la ricchezza e la complessità degli eventi, ne fanno delle polpette propagandistiche per una scuola di regime. Come era anche l'università di Roma, quando vi insegnò negli anni duri della crescita del Pci e della contestazione studentesca, sino alla precoce scomparsa nel 1996, a 67 anni. Questo ex-comunista «traditore», aperto da Chabod e Croce al liberalismo, fu perseguitato non solo nei suoi studi, la sua abitazione subì un attentato incendiario. Come Socrate, divenne per il Pci (lui diceva «la baracca resistenziale») un «corruttore dei giovani». Timido e un po' balbuziente, fu eroicamente fedele alla sua missione: «lo storico può contestare tutto e tutti, ma solo dopo aver capito; il fascismo va rivisitato, ristudiato, con maggiore distacco e serenità critica possibile». E con una fatica immane di ricercatore negli archivi egli riuscì a penetrarlo a fondo. Certo, anche le sue opere, come tutte, sono discutibili e revisionabili, ma sempre documentatissime e spassionate. Negli otto volumi di Mussolini e il fascismo (oltre 7000 pagine!) l'analisi, rigorosa ed estenuante, prevale sulla sintesi, quasi volesse lasciare al lettore le conclusioni. Ma altre opere, brevi e di larga divulgazione (come Intervista sul fascismo del 1975 e Rosso e nero del 1995), hanno dato delle chiavi importanti per un giudizio globale su questo movimento «rivoluzionario», che era stato scelto dagli italiani con le elezioni. Nato a sinistra come «socialismo nazionale» e anticlericale, doveva trasformarsi in un «regime» concordatario che guardava a destra, con tutti i suoi apparati e istituzioni, liturgie e spettacoli, manipolazione della scuola e dell'informazione, culto della personalità e nazionalizzazione delle masse. Di fatto fu sostenuto dalla quasi totalità degli italiani fra il 1929 e il 1936, compresa gran parte degli intellettuali che si redimeranno nel Pci. Il Duce mirava certo al totalitarismo, evidente nella sua pretesa di «creare un uomo nuovo», ma ne fu frenato da tre poteri forti: la monarchia, la Chiesa e l'industria. Cosa che non accadde a Hitler e Stalin. Il fascismo fu un regime autoritario e tirannico, un totalitarismo cercato e mancato, che solo quando quei tre poteri entrarono in crisi rispolverò la rivoluzione nella Repubblica Sociale, ormai nelle mani dei tedeschi occupanti: «tra fascismo italiano e nazismo le differenze sono enormi» (Intervista). Era naturale che contro di lui si scatenasse l'inquisizione comunista, quella «mentalità di intolleranza, sopraffazione ideologica, squalificazione dell'avversario, che l'antifascismo ha ereditato dal fascismo» (ivi). Non giovò a De Felice, l'atteggiamento dei gruppi postfascisti, che ne tessevano gli elogi, in quanto cercavano di leggere nelle sue pagine una legittimazione del Msi, quando invece fu sempre e decisamente antifascista. Ma non lo fu per calcolo o, peggio ancora, per mestiere, lo fu per convinzione interiore. Oggi sia il fascismo che il comunismo appartengono al passato. Ma gli atteggiamenti di fanatismo politico e di lettura ideologica della storia non sono perciò finiti. Si pensi alla recente polemica tra la Boschi e l'Anpi, o all'indignazione degli antifascisti per la mostra di Salò sulle sculture del Ventennio. E ancor più alla difesa, per metà sentimentale e per metà comica, dell'antifascismo, della resistenza e della Costituzione per indurre a votare no al referendum. Nella speranza di vietare ogni innovazione in una situazione politica tanto sfasciata e paralitica. Esattamente come De Felice lamentava che facevano i comunisti: «Il discorso sul fascismo è fatto in termini squisitamente politici, con uno schematismo e una carica demoniaca» (ivi). Non solo con lui. Accadde anche ad un altro storico di quegli anni, Armando Saitta, antifascista del Partito d'Azione e cattedratico a Pisa. Autore di un diffusissimo manuale di storia per le scuole medie superiori, venne inquisito e condannato dal Nuovo Santo Uffizio. Nel 1975 l'Editrice La Nuova Italia apportò arbitrariamente delle modifiche «politicamente corrette» nella ristampa dell'ultimo volume sulla storia contemporanea. Massimo Fini disvelò la truffa su L'Europeo e Saitta fece causa all'editore Tristano Codignola per questi «falsi a favore del conformismo di sinistra». E la vinse.

Il revisionismo? C’è quello buono e quello cattivo...Ridimensionare i bombardamenti di Dresda è accettabile. Ma toccare Cefalonia è scandaloso. E perché non riconoscere l'oltraggio di Piazzale Loreto? Scrive Gianfranco de Turris, Martedì 4/05/2010, su "Il Giornale". Il 28 aprile Stefania Craxi ha dichiarato: «Trascorso il 65° anniversario della liberazione, non vi è stato nessuno ad aver avuto il coraggio politico e l’onestà intellettuale di compiere un gesto simbolico e importante volto a restituire agli italiani la verità della loro storia: recarsi a Piazzale Loreto per un atto di cancellazione dell’atroce oltraggio inflitto al cadavere di Mussolini». Parole che avrebbero dovuto provocare interventi di politici e intellettuali, e che invece sono state confinate in un trafiletto anonimo sui quotidiani, a parte le accuse di provocazione e revisionismo. Eppure Stefania Craxi ha avuto il coraggio di ripetere quanto il revisionista per eccellenza, Giampaolo Pansa, mi disse in un’intervista sei anni fa: non potendo esistere alla fine di una guerra civile una «storia condivisa», vi sia almeno una «storia accettata» da ambo le parti, sicché Ciampi vada a deporre una corona di fiori a Piazzale Loreto come atto di conciliazione nazionale, sul luogo della oscena «macelleria messicana», come la definì Ferruccio Parri. La proposta cadde nel silenzio. Affermare che non è vero che il 25 aprile è una ricorrenza nazionale fatta propria da tutti come vuole l’ufficialità, non è revisionismo revanscista ma semplice constatazione dei fatti. Una riconciliazione nazionale non può avvenire se non si riconoscono anche gli errori e gli orrori della fazione vincente oltre che di quella soccombente. Come si fa? Si prenda esempio da quanto è avvenuto nei giorni scorsi fra Russia e Polonia. Dopo 70 anni la Russia ha desecretato i documenti in cui Beria, il capo della NKVD, dava l’ordine di fucilare 25mila militari e civili polacchi. Dopo anni di negazioni ufficiali, la Russia ammette una verità che già da tempo era accertata. È così che si giunge a una riconciliazione fra due popoli. In Italia un passo in questa direzione non è stato mai effettuato e nessuna ammissione «ufficiale» è stata fatta da parte dei politici nei confronti degli eccidi, accertati anche da sentenze, compiuti dai partigiani dopo il 25 aprile. Chi li documenta è uno sporco revisionista che infanga «l’onore della resistenza». Nei suoi alti discorsi il presidente Napolitano dice molte cose oneste, eccetto questa. Egli si reca sui luoghi di tanti eventi collegati alla guerra civile, eccetto su quelli che hanno avuto come martiri militari della RSI. Questo non sarebbe revisionismo, termine che del resto non viene sempre respinto a priori si badi bene, ma accettato quando fa comodo. Infatti, siamo proprio sicuri che gli storici ortodossi siano aprioristicamente contrari a qualsiasi revisionismo in sé? Oppure che, al contrario, accettino il deprecabile revisionismo solo quando fa comodo? Vediamo. Un primo esempio riguarda l’orrore delle foibe. Il dato inoppugnabile è che nei crepacci carsici vennero gettati migliaia di italiani, proprio perché italiani. È questa la storia accertata, l’«ortodossia». Chi vi si oppone con tesi giustificazioniste sia sul numero dei morti che sulle intenzioni di quella che fu una vera «pulizia etnica» anti-italiana, è dunque un «revisionista». Ad esempio, libri come Operazione foibe di Claudia Cermigoi (Kappa) o Foibe. Una storia d’Italia dello sloveno Joze Pirjevec (Einaudi). Ma questo è un revisionismo ben accetto dagli storici di sinistra. Altro esempio. Una commissione di storici tedeschi dopo molti anni di indagini ha stabilito che i morti causati da tre giorni di incursioni dei bombardieri alleati su Dresda (13-15 febbraio 1945) non furono tra i 100 e i 250mila, come si era scritto sinora, ma «appena» 25mila. Cifra senza dubbio enorme, ma non come la precedente. La commissione ha frugato nelle anagrafi, nei registi cimiteriali, fra le testimonianze ecc., ma avrà calcolato il numero dei profughi tedeschi delle regioni orientali che si erano ammassati a Dresda e che nessun registro elencava? Non si sa, ma la nuova cifra è stata ben accetta dagli storici ortodossi, senza alcuna indignata accusa di revisionismo perché si basa su documenti e lava in parte l’onta dei bombardamenti terroristici ordinati dal maresciallo inglese Harris, “il Macellaio” Harris, per colpire deliberatamente la popolazione e fiaccarne il morale. Però, insulti e ostracismi si sono avuti nei confronti di Massimo Filippini che nei suoi vari libri sui fatti di Cefalonia, ha potuto dimostrare sulla base di documenti inediti, che i tedeschi non fucilarono migliaia di soldati italiani (almeno 9000 come si è sempre scritto), ma «solo» 250 ufficiali (tra cui suo padre) e che meno di 2mila furono invece i caduti italiani nella battaglia sull’isola contro la Wehrmacht dopo l’8 settembre. Questo invece sì, che è revisionismo «cattivo», perché fa cadere un mito. Ovvia conclusione: non è il «revisionismo» in sé che fa straparlare certi politici e certi storici, ma solo quello che sconvolge la vulgata imposta dalla cultura della sinistra ortodossa (ma ormai anche da certa destra neo-antifascista). Invece, un altro tipo di «revisionismo» viene accettato senza problemi perché la rafforza, oppure edulcora eventi sino a quel momento indifendibili.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI RENZO DE FELICE.

Facciamo il partito per governare l'Italia, scrive Benito Mussolini il 9 ottobre 1921 (pubblicato il 30/08/2016 su "Il Giornale"). "Il fascismo, o meglio quella parte di fascismo che pretende di fare della politica, dimostrerà dunque - dopo avere avuto in dispregio sommo le nominologie e i nominalismi ed aver avuto il coraggio di chiamarsi rivoluzionario e reazionario, democratico ed aristocratico - dimostrerà dunque di essere schiavo di folle terrore davanti a una parola: «partito»? Siamo davanti a una parola diabolica che non bisogna impiegare? Siete pregati, cari contraddittori, di non riportarvi al 1919, poiché il confronto mancherebbe di ogni qualsiasi serietà. Nel 1919, il fascismo si riduceva ad un pugno, veramente un pugno, di uomini di tutti i partiti: c'erano socialisti, repubblicani, anarchici, sindacalisti, democratici. In queste condizioni, il fascismo, raccogliendo uomini di tutti i partiti, non poteva essere che un antipartito. È di un'evidenza cristallina. Ma in questi due anni di tempestose battaglie è accaduto nel fascismo un fenomeno di esodo di taluni elementi, un fenomeno di entrata, quasi invasione, di altri. C'è stato un travaglio formidabile di selezione in mezzo a noi. Gli avvenimenti precipitavano a poco a poco le situazioni. Avendo il fascismo, sin dal 1919, preso netta posizione contro la politica estera rinunciataria, ci fu un primo esodo: quello dei democratici wilsoniani. Successivamente, avendo il fascismo osteggiato taluni scioperi politici di ferrovieri e impiegati statali, se ne andarono dalle nostre file tutti gli elementi che non avevano potuto bruciare i ponti dietro il loro passato di sovversivi più o meno estremi. Naturalmente gli elementi che si perdevano da una parte, si riguadagnavano dall'altra. Non si può affermare che questo travaglio di chiarificazione sia compiuto, mentre è in corso la crisi provocata dal trattato di Roma; ma è certo che oggi il vecchio conglomerato del 1919 è scomparso e il fascismo è venuto via via assumendo una sua precisa e inconfondibile individualità. Rendersi conto di questo processo, che ha avuto conseguenze nell'organizzazione interna dei Fasci (si sono costituite ovunque le Federazioni provinciali, si sono ovunque elaborati degli statuti, si sono diffusi i distintivi, ecc., ecc.), significa convincersi che il partito è già un fatto compiuto, forse già troppo compiuto e che è puerile ostinarsi a negare questa vivente realtà. Un altro elemento della situazione da porre nel dovuto rilievo è il seguente. Il fascismo non ha limitato la sua azione al campo strettamente politico-militare, ma ha straripato nel campo economico-sociale, tentando di creare un movimento sindacale e cooperativo. Questo movimento perirà se il fascismo non si darà l'organizzazione di partito. La nostra profezia è facile perché i segni abbondano. La ragione fondamentale - e trascuriamo le minori altre, come quella del fascismo parlamentare - del partito è questa: quando un movimento da contingente - qual era il fascismo nel 1919 - diventa trascendente; quando assume caratteri di finalismo, esso diventa partito. O altrimenti decade e muore. Io comprendo l'antipatia per la parola «partito», poiché essa, specie in Italia, suscita impressioni di chiesuola, di inquisizione, di dogmatismo e di camorra; ma quest'antipatia non basta a giustificare un atteggiamento di pregiudiziale opposizione. Partito pur si chiamava quel Partito d'Azione, che, durante il Risorgimento, mantenne viva, colla vita e colle opere, la fede nella redenzione nazionale; partito non aveva timore di definirsi quel Partito della Destra Storica, che tracce così profonde ha lasciato dal '60 al '70 nella storia italiana. Noi abbiamo il torto di guardare solamente ai partiti socialisti o ai democratici. Ci fa ribrezzo il demagogismo dei primi e l'inconsistenza degli altri. Ma ecco, proprio in Italia, un partito, quello Repubblicano, che ha un secolo di vita ed è certamente, per il glorioso e sanguinoso contributo dato alla causa italiana dal 1821 al 1918, degno di ogni rispetto e ammirazione; il che aumenta il nostro rammarico di vederlo accodato, sotto le suggestioni dell'ora, a quel sovversivismo antieducativo che Giuseppe Mazzini, a suo tempo, acerbissimamente fustigò. Signori, che vi aggrappate ad una pregiudiziale, quella dell'antipartito ad ogni costo, siete pregati di considerare che il partito non è sempre e necessariamente un soffocatore dell'ideale. Lo spirito fascista, se esiste, non evapora costringendolo nel partito. Al contrario! Il bolscevismo - idea che ha infiammato milioni di uomini in ogni parte del mondo - è diffuso, sostenuto, predicato da un «partito», organizzato e sottoposto ad una disciplina ferrea. Il clericalismo, quando ha voluto «agire» nella storia contemporanea, si è dato anima e corpo di partito. Credere che la bellicosità fascista debba soffrirne, è assurdo. Gli altri partiti, dai comunisti ai cattolici, hanno costituito le loro squadre d'azione, di difesa e di avanguardia, copiando il fascismo. Se questo è stato possibile in partiti più o meno antifascisti, perché non dovrebbe essere possibile nel fascismo divenuto partito? Nella natura e nella storia, si va sempre da un indistinto ad un distinto; da un amorfismo caotico ad una differenziazione sempre più precisa. Più si sale nella scala, e più ciò risulta evidente. Individualità significa differenziazione. Più è sviluppato l'organismo e più è differenziato. Il fascismo non può sfuggire a questa legge di bronzo e non deve quindi nutrire ansie e preoccupazioni di natura squisitamente misoneistica e conservatrice-reazionaria, ostinandosi a chiamarsi «movimento» quando è già «partito», ostinandosi in un'ambiguità ormai insostenibile. Il partito è un gesto di coraggio. È un segno di giovinezza e di vitalità. È un fatto di fede, poiché dimostra che il fascismo può accingersi ad un lavoro positivo in vista del raggiungimento di mediati e immediati ideali; e questo smentirà in pieno tutti coloro che non ci ritengono dotati di altre virtù all'infuori di quelle d'ordine pugilistico. È tempo di tracciare il solco di divisione attorno alla nostra città quadrata. Questo e non altro è il partito. Questo significa salvare il fascismo in ciò che ha di vivo e immortale e prepararlo al compito supremo di domani: il governo della nazione. 9 ottobre 1921".

La deriva fascista. Da rivoluzione a conservazione. Gli studi di Renzo De Felice mostrano come la classe dirigente fiancheggiatrice del regime ne erose la carica innovativa, scrive Francesco Perfetti, Sabato 16/01/2016, su "Il Giornale". Man mano che Renzo De Felice si avvicinava alla conclusione della sua opera su Mussolini e sul fascismo, ne apparivano sempre più evidenti la forza innovativa e la carica dirompente rispetto ai discorsi sviluppati fino ad allora dalla storiografia. Non si trattava di questioni di poco conto: il carattere «rivoluzionario» della cultura e della personalità di Mussolini; la coesistenza del «fascismo movimento» e del «fascismo regime» con anime diverse e per certi versi opposte; la dimensione e la durata di un massiccio «consenso» anche di fronte alla guerra; il carattere più autoritario che totalitario del regime; il riconoscimento di profonde differenze tra fascismo e nazionalsocialismo e via dicendo. A tali conclusioni De Felice era pervenuto proprio perché aveva relegato in soffitta i discorsi ideologici sul fascismo. Un grande studioso di storia della storiografia, Walter Maturi, scrisse, riferendosi alla prima fase di studi di De Felice, quella relativa al periodo rivoluzionario tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, che questo «giovane d'ingegno vivo e acuto» aveva «molto mordente critico» ed era «intransigente come un domenicano» pronto a fulminare con critiche impietose quanti usassero a sproposito il termine «giacobino». L'osservazione coglieva nel segno non tanto nella descrizione di un De Felice intellettualmente polemico e rissoso, quanto nella caratterizzazione di uno studioso che, già ai suoi esordi, rifiutava l'uso acritico di termini nella fattispecie, «giacobino» al di fuori del loro significato originario. Uno dei risultati più importanti della ricerca storiografica di De Felice sul fascismo è stato l'aver reinserito a pieno titolo quel periodo nella storia d'Italia sgombrando il campo da tutti i discorsi che tendevano a presentarlo come un momento inspiegabile di follia collettiva. Il fascismo, com'egli ben dimostrò, aveva avuto origine dal primo conflitto mondiale e dalla crisi del dopoguerra: una crisi caratterizzata dalla scissione tra «paese reale» e «paese legale», dall'ideologizzazione delle masse, dal tracollo di modelli culturali tradizionali e dalle spinte di forti processi di mobilitazione sociale. Il ventennio fascista, nell'analisi di De Felice, si sviluppò all'insegna di una dialettica tra il «vecchio» fascismo, quello «premarcia» e intransigente, desideroso non solo di partecipare alla gestione del potere ma di porsi come alternativa al sistema, e la vecchia classe dirigente tradizionale e «fiancheggiatrice», che non voleva sovvertire radicalmente il sistema, ma rafforzarlo e rivitalizzarlo secondo una ammodernata versione del sonniniano ritorno allo Statuto. Durante il ventennio, dunque, il fascismo, nella forma, riuscì a fascistizzare la classe dirigente fiancheggiatrice, ma, nella sostanza, quest'ultima finì per privare il fascismo della sua carica rivoluzionaria, trasformandolo in proprio strumento e facendolo rientrare, per usare le parole di De Felice, «in larga misura nell'alveo della tradizione conservatrice». Nell'ultima fase della parabola storica del ventennio, peraltro, l'equilibrio su cui si reggeva quel compromesso andò incrinandosi. Ci furono, quindi, la guerra e la catastrofe con tutto quello che esse comportarono. Il popolo italiano, poi, si trovò, coinvolto nella guerra civile, a vivere un vero e proprio dramma tra fascisti e partigiani. Le pagine dedicate da De Felice a questo capitolo della crepuscolare vicenda storica del fascismo sono tra le più belle, intense e significative di tutta la sua opera. Lo sono sia perché sfatano miti consolidati, sia perché offrono le chiavi per una migliore comprensione del futuro politico del Paese all'indomani del conflitto. Premesso che la Resistenza era stata un «grande evento storico» che nessun revisionismo avrebbe mai potuto negare, De Felice ne ridimensionò la leggenda che voleva presentarla come un movimento popolare di massa, ricordando che le sue fila, a eccezione di alcune limitate zone, si ingrossarono soltanto alla vigilia della capitolazione tedesca, quando cioè la vittoria degli Alleati era cosa certa. Ma, soprattutto, smontò la «vulgata» storiografica resistenziale. Questa, secondo lo studioso, era stata costruita per ragioni ideologiche, allo scopo cioè di «legittimare la nuova democrazia con l'antifascismo», ed era stata utilizzata per scopi politici al fine di «legittimare la sinistra comunista con la democrazia». La verità, secondo De Felice, è che comunisti e azionisti nella convinzione che l'Italia postfascista non dovesse avere nulla a che fare non soltanto con l'Italia fascista ma anche con quella liberale e prefascista nutrivano propositi realmente rivoluzionari. La Resistenza, in altre parole, veniva concepita come il vero, e forse unico, fatto rivoluzionario della storia dell'Italia unitaria. Il che spiega diverse cose. In primo luogo spiega perché le formazioni militari politiche di orientamento comunista e azionista guardarono male le altre componenti della Resistenza, cioè sia le formazioni autonome, sia quelle che avevano preferito porsi sotto il patronato di cattolici e liberali per sottrarsi alle inframmettenze e alla sotterranea ostilità dei partiti di sinistra. In secondo luogo spiega perché il Pci sostenesse con energia il proposito dell'unità della Resistenza a guida comunista: la «democrazia progressiva» teorizzata da Palmiro Togliatti era a esso funzionale. Secondo De Felice i comunisti italiani, pur in quella contingenza, erano al servizio di Mosca: per loro la «svolta di Salerno», ovvero la politica di collaborazione con la monarchia dopo il rientro di Togliatti dall'Urss, così come la teoria della «democrazia progressiva» non erano altro che mosse tattiche. La scelta del terrorismo, del tutto priva di utilità sul piano militare, era funzionale alla strategia comunista proprio per riaffermarne il ruolo egemonico all'interno di una Resistenza che sempre più finiva per caratterizzarsi come «guerra di classe» e non come «movimento nazional-patriottico». Il terrorismo, secondo De Felice, serviva soprattutto a provocare la reazione dei fascisti e dei tedeschi e quindi a suscitare l'indignazione popolare e a scoraggiare ogni tentativo di pacificazione. Esso, poi, serviva a creare attorno ai Gap comunisti che lo usavano contro obiettivi simbolici è il caso dell'assassinio di Giovanni Gentile «un alone di forza e di onnipotenza» e ad esaltare «agli occhi della gente l'attivismo, l'efficienza e lo sprezzo del pericolo dei comunisti» rispetto alla «passività» delle altre componenti della Resistenza. Il lungo percorso storiografico effettuato da De Felice con la sua ricerca su Mussolini iniziato con lo studio della crisi dell'Italia liberale all'indomani della prima guerra mondiale e proseguito con la ricostruzione delle vicende del ventennio fascista e l'analisi della catastrofe del regime trova, così, la sua conclusione alle soglie dell'Italia repubblicana. Lasciando al lettore tutti gli elementi necessari per formulare un giudizio etico-politico.

Il regime fascista? Fu una rivoluzione non conservatrice. Renzo De Felice per primo studiò a tappeto anche i documenti del Ventennio. E arrivò a conclusioni "eretiche" per la sinistra, scrive Francesco Perfetti, Sabato 28/11/2015, su "Il Giornale". In uno dei suoi ultimi corsi universitari era il gennaio 1991 Renzo De Felice, raccontando agli studenti come e perché aveva cominciato a interessarsi di fascismo, parlò del proprio stato d'animo di studioso alle prime armi. Si era ritrovato ad ascoltare dai suoi maestri discorsi carichi di passionalità e a leggere opere che sembravano, tutte, scritte da una generazione troppo partecipe degli eventi. Gli era sembrato di assistere non a un dibattito storiografico ma a un confronto tra posizioni personali: «Ricorderò sempre che a me giovane neolaureato, che cominciava a muoversi in questo ambiente di studi storici la discussione sulla prima guerra mondiale (dalla quale discendeva poi la discussione sul fascismo) apparve come una discussione fra protagonisti. Sembrava che ci si trovasse nella stessa situazione del 1914-1915. Anche studiosi di notevole statura cercavano, sì, di trovare addentellati di tipo storico, ma in realtà discutevano come avevano discusso fra loro nel 1914-1915. Erano tipici fino ad apparire a noi più giovani, che li ascoltavamo, quasi come macchiette due storici, Luigi Salvatorelli e Piero Pieri, uno neutralista giolittiano, l'altro interventista democratico. Le loro discussioni assumevano subito toni estremamente eccitati, che, per un verso, spiegano l'impatto che ancora avevano certi problemi e quanto erano tuttora sentiti, e, per un altro verso, mostrano il collegamento che più o meno correttamente, non nella sostanza ma nella forma, veniva stabilito fra le vicende della prima guerra mondiale e il sorgere del fascismo in Italia. Ma, al di là di questo, quelle discussioni mostravano l'impossibilità di fare effettivamente la storia di un periodo non ancora concluso: a quell'epoca la prima guerra mondiale era finita da decenni e anche la seconda si era conclusa, il fascismo e il nazismo erano stati sconfitti, tuttavia non si poteva dire che, nella seconda metà degli anni quaranta e negli anni cinquanta, il periodo storico che aveva caratterizzato l'Europa, oltre che l'Italia, per trenta e più anni, fosse un periodo concluso». La nascita della nuova Italia, democratica e antifascista, costruita sul mito legittimante dell'«unità della Resistenza» a guida comunista, non aveva segnato, se non in apparenza, la chiusura di un ciclo storico: del fascismo non era lecito né opportuno parlare se non in termini generali e con un giudizio aprioristicamente negativo. La voglia di conoscere la verità aveva spinto il giovane storico a dedicarsi allo studio della vicende contemporanee che ancora facevano discutere i suoi maestri. Del fatto che l'impresa non fosse facile egli era consapevole come, ancora, ribadì ai suoi studenti in quella ricordata conversazione: «Credo che sia inevitabile che un periodo storico non possa essere visto dai contemporanei, da coloro che lo hanno vissuto anche quando si tratta di storici di grande valore in una prospettiva effettivamente di tipo storico. Finché il periodo non è chiuso, finché non si è aperta una nuova fase storica, è molto difficile affrontare certi problemi con quel minimo di oggettività che, bene o male, è sempre necessario per chi voglia fare storia, per chi voglia affrontare la ricostruzione in termini storici della realtà di un periodo e quindi offrirne una spiegazione in termini storici». Quando cominciò a interessarsi di fascismo De Felice fu subito guardato con sospetto. Come era mai possibile che un giovane studioso volesse affrontare un tema tabù, come quello del fascismo, del quale, in fondo, non si poteva e non si doveva che dir male? Come era possibile, poi, che egli decidesse, per la prima volta, di prendere in considerazione documenti archivistici, memorie, materiali, insomma, ufficiali di parte fascista? Queste domande, retoriche all'apparenza, erano, in realtà, il frutto di una mentalità antistorica, cresciuta e cullata all'insegna dell'ideologia, una mentalità che rifiutava l'idea stessa che il fascismo, «male assoluto», potesse essere preso in considerazione come un «problema storico». De Felice, come avrebbe ricordato Piero Melograni, pur vivendo in un paese nel quale «egemonizzavano il mondo della cultura» ebbe «la fortuna di non vivere in una nazione comunista, altrimenti non sapremmo quale sarebbe stato il suo destino»: del resto soltanto l'intervento nel momento di più intensa aggressione mediatica e politica alle sue tesi, in particolare quelle sul «consenso» del paese al fascismo di un comunista della statura di Giorgio Amendola lo salvò da un vero e proprio linciaggio. Eppure, sempre per usare le parole di Melograni, il fatto stesso di «vivere in una nazione fortemente ideologizzata rese il suo lavoro difficile e al tempo stesso appassionante» dandogli, in un certo senso, «la soddisfazione di comportarsi come un eroe della verità in un mondo in cui questi eroi erano davvero pochi». Per la prima volta, suscitando scandalo, De Felice utilizzò, quei documenti di parte fascista che i sostenitori della «vulgata» ritenevano «intoccabili». Pur sottoponendoli al vaglio critico proprio di uno studioso cresciuto sui banchi della grande storiografia italiana, De Felice ne sostenne la rilevanza nella presunzione che per capire un fenomeno storico fosse necessario analizzarlo «dall'interno» e non guardarlo con le lenti della ideologia. Tale approccio consentì a De Felice di leggere criticamente tutta la precedente letteratura storiografica sul fascismo. Ma gli consentì, anche, di giungere a conclusioni, ormai generalmente acquisite, sul collegamento, per esempio, fra la genesi del fascismo e lo sconvolgimento, non soltanto politico ma anche morale e psicologico, provocato dalla Grande Guerra. E gli consentì, ancora, di far capire come e perché il consenso al regime oltre che al suo capo sotto forma di «mussolinismo» abbia potuto radicarsi e durare a lungo. Uno dei punti emersi dal lavoro di De Felice e, comprensibilmente, irritante per l'egemonica cultura storiografica gramsci-azionista, fu proprio sulla base dell'analisi della fenomenologia del consenso la conclusione che il fascismo rappresentava un tipo di regime diverso rispetto a quelli conservatori e autoritari. Questi ultimi, infatti, avevano sempre teso a demobilitare ed escludere le masse dalla partecipazione attiva alla vita politica «offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentato nel passato» cui veniva «attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche recente parentesi rivoluzionaria». Il fascismo, invece, puntò a suscitare in esse «la sensazione di essere costantemente mobilitate, di avere un rapporto diretto con il capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e contribuire non a una mera restaurazione di un ordine sociale di cui sentivano tutti i limiti e l'inadeguatezza storica, bensì a una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine sociale, migliore e più giusto di quello preesistente e, soprattutto, mai sperimentato prima». Conclusioni innovative, certo, e storiograficamente rivoluzionarie ma inoppugnabili.

La storia libera dall'ideologia Ecco il fine del "revisionismo". Il fascismo fu un fenomeno contiguo al leninismo in cui convivevano movimento e regime. La Resistenza? Coinvolse la minoranza del Paese, scrive Giampietro Berti, Venerdì 06/11/2015, su "Il Giornale". La storiografia, per natura, non può che essere revisionista, se per revisionismo s'intende il continuo esame dei giudizi precedenti a fronte delle nuove acquisizioni della ricerca. Ciò è banale. Come aveva giustamente sentenziato Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, dato che ogni generazione rilegge il passato in base al presente. Poiché questo muta - cioè mutano i valori, gli interessi, gli orientamenti - allora non può non mutare anche il giudizio storico. Ha scritto Marc Bloch: «il passato è, per definizione, un dato non modificabile, ma la conoscenza del passato si trasforma e si perfeziona incessantemente». Premettiamo queste elementari considerazioni alla nostra riflessione sul revisionismo storiografico di Renzo De Felice perché egli era sostanzialmente concorde con tali premesse. A più riprese affermò infatti che la ricerca storiografica doveva rimanere «estremamente aperta a tutte la più varie suggestioni interpretative e pronta a non scartare aprioristicamente nessuna ipotesi». Si dimostrava perciò molto tiepido verso ogni forma di generalizzazione astratta incline a filosofeggiare sulla storia, mentre era propenso ad un lavoro storico fondato su una minuziosa e scrupolosa ricerca. Questa doveva essere fondata sulle fonti - soprattutto inedite - in grado di portare sempre più avanti la conoscenza storica, la quale doveva attenersi soprattutto alla successione cronologica degli eventi, rifiutando una spiegazione causale; insomma, un'indagine la più neutra possibile. Quando intraprese la sua grande ricerca sul fascismo lo stato dei lavori risultava profondamente condizionato da un giudizio politico radicalmente negativo e da una condanna morale senza appello. Le interpretazioni maggiori possono essere riassunte così: il fascismo era stato una parentesi, una «malattia morale» (interpretazione liberale: Croce); il fascismo era stato l'«autobiografia della nazione» (interpretazione democratico-radical-progressista: Gobetti); il fascismo era stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista (interpretazione marxista: Gramsci, Togliatti, ecc.). Insomma in tutti i casi la ricerca storica sul fascismo discendeva dai canoni politici e morali dell'antifascismo. Ora De Felice, consapevole della complessità e anche dell'eterogeneità del fenomeno, voleva rifuggire da ogni idea generalizzante; intese, invece, avviare degli studi in grado di portare il fenomeno fascista «ad una misura esclusivamente storica», sottraendolo ad ogni preoccupazione di altro genere e ad ogni sistematicità». Precisò che la sua ricerca non perseguiva «finalità politiche che non competono allo storico». Il suo voleva essere un approfondimento critico, escludendo che ciò portasse «a una sorta di revisionismo storiografico» diretto «alla riabilitazione del fascismo e del suo capo». Naturalmente non possiamo non osservare -per inciso- che questa separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore diventa di difficile attuazione quando si affrontano i problemi storici, dal momento che i fatti sono sterminati e il compito degli storici consiste, per l'appunto, nel decidere innanzitutto quali sono importanti e quali no. E con ciò gli stessi storici immettono, inevitabilmente, un giudizio di valore. Di qui l'ovvia conclusione, e cioè che lo storico sceglie i suoi fatti. Detto questo, entriamo nel merito delle più importanti acquisizioni della ricerca defeliciana, sottolineando, per quanto ci riguarda, che essa ha dato un contributo fondamentale a quel giudizio storico di natura liberale che valuta sostanzialmente equivalenti i totalitarismi rossi e neri. Il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario che affondava le sue radici nella tradizione giacobino-blanquista -dunque di sinistra- e ciò lo rendeva per certi versi contiguo al leninismo. In tutti i casi la sua natura eclettica non era classificabile come un fenomeno puramente reazionario, ma piuttosto come un insieme di componenti socialiste, corporative e nazionali e questo lo differenziava alquanto dalle dittature di destra. Aveva lo sguardo rivolto al futuro perché voleva forgiare l'«uomo nuovo», diversamente dal nazismo il cui sguardo era rivolto al passato, dato che intendeva ripristinare l'«uomo ariano». Mussolini rimase sempre, in sostanza, un rivoluzionario, anche quando il fascismo passò da «movimento» a «regime». Certamente il fascismo fu anche una reazione al movimento operaio e socialista sostenuta da una parte del padronato, ma la sua vera natura non va ricercata nella piccola borghesia, ma nell'avvento dei ceti medi volti a spodestare la vecchia classe dirigente; il suo totalitarismo risultava imperfetto perché non riuscì ad eliminare la monarchia e, soprattutto, la Chiesa (di qui la sua diversità dal comunismo e dal nazismo), anche se una maggiore accentuazione totalitaria può essere registrata nella seconda metà degli anni '30. Ovviamente il fascismo, il nazismo e il comunismo erano costitutivamente propensi alla creazione di una società organica, la cui profonda natura andava ravvisata senz'altro nel rifiuto della modernità laica, edonistica e individualistica prodotta dal capitalismo ed espressasi ideologicamente nella «democrazia dei moderni» costituita sulla divisione liberale fra sfera pubblica e sfera privata. Sebbene inizialmente confuso e contraddittorio, il fascismo espresse una sua specifica identità ideologica e una sua cultura. Esso però fu indisgiungibile dal mussolinismo e ciò spiega le diverse fasi biografiche della sua storia, così come vengono presentate anche dai titoli dei vari volumi defeliciani: il rivoluzionario, il fascista, il duce, l'alleato. Vi fu un sostanziale consenso al regime, specialmente dopo il Concordato. Il consenso era riscontrabile più nei ceti popolari che nella borghesia. Il razzismo si manifestò tardi e va visto più come un fatto di importazione, che come un elemento costitutivo. La Resistenza coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una «zona grigia». Questo non significava assolutamente sottovalutare la sua importanza, né tantomeno disprezzarla. La Resistenza, affermò De Felice, «era stata un grande evento storico». Come si vede, siamo di fronte a un rovesciamento delle precedenti interpretazioni. Soprattutto per la storiografia di sinistra -di gran lunga maggioritaria- era inaccettabile che il fascismo avesse avuto una originaria matrice rivoluzionaria di sinistra, che godesse di un ampio e innegabile consenso, che la Resistenza, infine, non potesse essere considerata propriamente un fenomeno popolare. Di qui le interminabili polemiche contro il suo lavoro e la sua persona, che oggi appaiono per quello che furono: faziose, ideologiche e prive, in gran parte, di vera sostanza storica. Qualunque sia il giudizio che si vuole dare su De Felice, la ricerca storiografica sul fascismo da allora non poté più prescindere dalla sua opera (gigantesca).

Sangue, insulti, risate. Ecco il "film" dell'orrore di Piazzale Loreto. Uno scioccante e in parte inedito dossier fotografico nel libro di Garibaldi e Moriconi, scrive Rino Cammilleri, Sabato 13/08/2016, su "Il Giornale". «Voi italiani esto brava gente», dice il partigiano russo al colonnello Sermonti nel film del 1965. Sarà. L'attuale buonismo cattocomunista confermerebbe l'immagine, ma la verità è che abbiamo il Peccato originale pure noi. Come tutti. L'intellettuale romeno Mircea Eliade, viste le foto di piazzale Loreto, ci qualificò di «servi» e «traditori». Non aveva visto la fotina pubblicata poco tempo fa su queste stesse colonne a corredo di un articolo di Matteo Sacchi sulla «pista americana». Data 28 aprile 1945 e mostra gli abitanti del borgo di Azzano in posa, sorridenti, donne e bambini compresi, accanto alla larga macchia di sangue che colava dal camion pieno di cadaveri di fascisti crivellati. Cioè, quelli ammazzati a Dongo con Mussolini e la Petacci. Quando i corpi furono portati a Milano e appesi per i piedi alla pompa di benzina di Piazzale Loreto, qualcuno aveva già provveduto a togliere le mutande alla Petacci, così che lo spettacolo risultasse più suggestivo. Fu un prete, don Giuseppe Pollarolo, a fermare pietosamente con una spilla di sicurezza la gonna di Claretta, interrompendo lo strip-show. Un teatrino tra lo splatter e il burlesque che fece schifo perfino all'antifascista e capo partigiano Ferruccio Parri, il quale coniò il celebre termine «macelleria messicana». Indro Montanelli, invece, ebbe a dire che se lui fosse stato messicano avrebbe rigettato tale definizione. Lui l'aveva vista, quell'expo milanese, con gente che sputava sui morti e ci orinava sopra. E aggiunse, molti anni dopo, di ancora vergognarsi di «appartenere a gente capace di simili infamie». Cioè, italiani. Perché quella, disse, «fu una classica giustizia di piazza italiana». Fu un altro prete, il Beato cardinale arcivescovo di Milano, Ildefonso Schuster, a intervenire affinché quei quarti di carne appesi fossero tolti alla vista. Dovette insistere più volte, arrivando a minacciare di farlo di persona, ma solo con gli Alleati (stranieri) riuscì nel suo intento di pietà cristiana. Due giornalisti, Luciano Garibaldi e Emma Moriconi, rievocano l'episodio in un libro pieno di foto e particolari inediti o poco noti, Mussolini. Sangue a Piazzale Loreto (Herald Editore, pagg. 200, euro 18). Perché proprio là? La storia è risaputa. In quel luogo un vecchio graduato tedesco veniva con un furgoncino a distribuire latte alle mamme milanesi, nonché farina e qualcosa da mangiare a gente che stringeva la cinghia da ormai troppo tempo. Lo chiamavano «il Carlùn» e i rifocillati avevano avuto l'umanissimo torto di affezionarsi a quel pacioccone che strideva con l'immagine dell'occupante straniero e spietato. Così, l'8 agosto 1944 una bomba stile via Rasella mandò all'altro mondo lui, il latte e tutti quelli che in quel momento si affollavano attorno al suo furgone. Theodor Saewecke, colonnello della Gestapo, andò in bestia e pretese l'applicazione della rappresaglia decimale: quindici morti, centocinquanta fucilati. Mussolini stesso fece pressioni su Hitler e questi consentì a ridurre la proporzione alla scala 1:1. Due giorni dopo, nel medesimo piazzale, 15 partigiani vennero passati per le armi dagli uomini della Brigata Muti. Ma il Cln Alta Italia se la legò al dito. Preso e sparato Mussolini, 15 gerarchi dovevano accompagnarlo nel Walhalla, in ricordo dei 15 di Piazzale Loreto. E vendetta fu fatta, come sappiamo, il 29 aprile 1945. Solo che dei «quindici gerarchi» solo alcuni erano gerarchi. Uno, per esempio, era un aviatore, il capitano Pietro Calistri, a cui era stato dato uno strappo sul camion dell'ex Duce. E poi c'erano il fratello di Claretta, Marcello, nonché l'ormai pensionato Achille Starace. I due autori del libro hanno voluto riportare all'inizio un brano in reverente memoria di tutti i caduti della guerra civile, sia quelli della Resistenza che quelli della Rsi. Auspicando una «vera e necessaria» riconciliazione nazionale. Dopo 71 anni buonsenso vorrebbe che fosse il caso, finalmente. Neanche i nostalgici di Napoleone resistettero tanto. Ma non in Italia. Qui ci vuole un braccio di ferro istituzionale per impedire che, ancora nel 2016, vengano assegnate medaglie d'oro a responsabili di stragi inutili e perpetrate su inermi a guerra finita. Italiani, brava gente. Peccato che sia dai tempi di Romolo e Remo che si scannano tra loro.

La storia libera dall'ideologia. Ecco il fine del "revisionismo". Il fascismo fu un fenomeno contiguo al leninismo in cui convivevano movimento e regime. La Resistenza? Coinvolse la minoranza del Paese, scrive Giampietro Berti, Venerdì 06/11/2015, su "Il Giornale". La storiografia, per natura, non può che essere revisionista, se per revisionismo s'intende il continuo esame dei giudizi precedenti a fronte delle nuove acquisizioni della ricerca. Ciò è banale. Come aveva giustamente sentenziato Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, dato che ogni generazione rilegge il passato in base al presente. Poiché questo muta - cioè mutano i valori, gli interessi, gli orientamenti - allora non può non mutare anche il giudizio storico. Ha scritto Marc Bloch: «il passato è, per definizione, un dato non modificabile, ma la conoscenza del passato si trasforma e si perfeziona incessantemente». Premettiamo queste elementari considerazioni alla nostra riflessione sul revisionismo storiografico di Renzo De Felice perché egli era sostanzialmente concorde con tali premesse. A più riprese affermò infatti che la ricerca storiografica doveva rimanere «estremamente aperta a tutte la più varie suggestioni interpretative e pronta a non scartare aprioristicamente nessuna ipotesi». Si dimostrava perciò molto tiepido verso ogni forma di generalizzazione astratta incline a filosofeggiare sulla storia, mentre era propenso ad un lavoro storico fondato su una minuziosa e scrupolosa ricerca. Questa doveva essere fondata sulle fonti - soprattutto inedite - in grado di portare sempre più avanti la conoscenza storica, la quale doveva attenersi soprattutto alla successione cronologica degli eventi, rifiutando una spiegazione causale; insomma, un'indagine la più neutra possibile. Quando intraprese la sua grande ricerca sul fascismo lo stato dei lavori risultava profondamente condizionato da un giudizio politico radicalmente negativo e da una condanna morale senza appello. Le interpretazioni maggiori possono essere riassunte così: il fascismo era stato una parentesi, una «malattia morale» (interpretazione liberale: Croce); il fascismo era stato l'«autobiografia della nazione» (interpretazione democratico-radical-progressista: Gobetti); il fascismo era stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista (interpretazione marxista: Gramsci, Togliatti, ecc.). Insomma in tutti i casi la ricerca storica sul fascismo discendeva dai canoni politici e morali dell'antifascismo. Ora De Felice, consapevole della complessità e anche dell'eterogeneità del fenomeno, voleva rifuggire da ogni idea generalizzante; intese, invece, avviare degli studi in grado di portare il fenomeno fascista «ad una misura esclusivamente storica», sottraendolo ad ogni preoccupazione di altro genere e ad ogni sistematicità». Precisò che la sua ricerca non perseguiva «finalità politiche che non competono allo storico». Il suo voleva essere un approfondimento critico, escludendo che ciò portasse «a una sorta di revisionismo storiografico» diretto «alla riabilitazione del fascismo e del suo capo». Naturalmente non possiamo non osservare -per inciso- che questa separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore diventa di difficile attuazione quando si affrontano i problemi storici, dal momento che i fatti sono sterminati e il compito degli storici consiste, per l'appunto, nel decidere innanzitutto quali sono importanti e quali no. E con ciò gli stessi storici immettono, inevitabilmente, un giudizio di valore. Di qui l'ovvia conclusione, e cioè che lo storico sceglie i suoi fatti. Detto questo, entriamo nel merito delle più importanti acquisizioni della ricerca defeliciana, sottolineando, per quanto ci riguarda, che essa ha dato un contributo fondamentale a quel giudizio storico di natura liberale che valuta sostanzialmente equivalenti i totalitarismi rossi e neri. Il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario che affondava le sue radici nella tradizione giacobino-blanquista -dunque di sinistra- e ciò lo rendeva per certi versi contiguo al leninismo. In tutti i casi la sua natura eclettica non era classificabile come un fenomeno puramente reazionario, ma piuttosto come un insieme di componenti socialiste, corporative e nazionali e questo lo differenziava alquanto dalle dittature di destra. Aveva lo sguardo rivolto al futuro perché voleva forgiare l'«uomo nuovo», diversamente dal nazismo il cui sguardo era rivolto al passato, dato che intendeva ripristinare l'«uomo ariano». Mussolini rimase sempre, in sostanza, un rivoluzionario, anche quando il fascismo passò da «movimento» a «regime». Certamente il fascismo fu anche una reazione al movimento operaio e socialista sostenuta da una parte del padronato, ma la sua vera natura non va ricercata nella piccola borghesia, ma nell'avvento dei ceti medi volti a spodestare la vecchia classe dirigente; il suo totalitarismo risultava imperfetto perché non riuscì ad eliminare la monarchia e, soprattutto, la Chiesa (di qui la sua diversità dal comunismo e dal nazismo), anche se una maggiore accentuazione totalitaria può essere registrata nella seconda metà degli anni '30. Ovviamente il fascismo, il nazismo e il comunismo erano costitutivamente propensi alla creazione di una società organica, la cui profonda natura andava ravvisata senz'altro nel rifiuto della modernità laica, edonistica e individualistica prodotta dal capitalismo ed espressasi ideologicamente nella «democrazia dei moderni» costituita sulla divisione liberale fra sfera pubblica e sfera privata. Sebbene inizialmente confuso e contraddittorio, il fascismo espresse una sua specifica identità ideologica e una sua cultura. Esso però fu indisgiungibile dal mussolinismo e ciò spiega le diverse fasi biografiche della sua storia, così come vengono presentate anche dai titoli dei vari volumi defeliciani: il rivoluzionario, il fascista, il duce, l'alleato. Vi fu un sostanziale consenso al regime, specialmente dopo il Concordato. Il consenso era riscontrabile più nei ceti popolari che nella borghesia. Il razzismo si manifestò tardi e va visto più come un fatto di importazione, che come un elemento costitutivo. La Resistenza coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una «zona grigia». Questo non significava assolutamente sottovalutare la sua importanza, né tantomeno disprezzarla. La Resistenza, affermò De Felice, «era stata un grande evento storico». Come si vede, siamo di fronte a un rovesciamento delle precedenti interpretazioni. Soprattutto per la storiografia di sinistra -di gran lunga maggioritaria- era inaccettabile che il fascismo avesse avuto una originaria matrice rivoluzionaria di sinistra, che godesse di un ampio e innegabile consenso, che la Resistenza, infine, non potesse essere considerata propriamente un fenomeno popolare. Di qui le interminabili polemiche contro il suo lavoro e la sua persona, che oggi appaiono per quello che furono: faziose, ideologiche e prive, in gran parte, di vera sostanza storica. Qualunque sia il giudizio che si vuole dare su De Felice, la ricerca storiografica sul fascismo da allora non poté più prescindere dalla sua opera (gigantesca).

Così iniziò il linciaggio di De Felice. Il suo studio sul Duce dimostrò il consenso degli italiani al regime. Gli intellettuali di sinistra non glielo perdonarono, scrive Claudio Siniscalchi, Mercoledì 04/11/2015, su "Il Giornale". «Non penso sia esagerato sostiene Emilio Gentile affermare che Renzo De Felice è forse lo storico italiano del Novecento più noto in Italia e nel mondo». Non c'è nulla di esagerato. È la verità. Così come è incontrovertibile un'altra verità. Lo storico italiano più importante del Novecento è stato vittima di un'ostilità a tratti feroce, prolungata, che non si è placata neppure con la morte. Lo scontro fra la storiografia di sinistra e De Felice prende avvio con il 1965, data della pubblicazione del primo tassello della biografia di Mussolini: il «rivoluzionario». Tesi troppo innovativa per l'epoca. Mussolini un «rivoluzionario»? Ma scherziamo! La «vulgata antifascista», come De Felice definiva la storiografia dominante di stampo marxista, spesso collaterale al Pci, avvertì immediatamente il pericolo. Nel ventennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, il Partito comunista aveva esercitato una egemonia sulla cultura italiana, riuscendo a condizionare anche larghi settori della cultura cattolica e liberal-democratica. Era giunto il momento di scardinare questa «vulgata». E De Felice la scardinò. Pezzo a pezzo. Lo fece attraverso migliaia di pagine dattiloscritte, battendo i tasti di una vecchia Olivetti portatile. Lavorando come un monaco, unendo artigianato e arguzia, la ridusse in poltiglia. Innanzitutto sotto il peso dei suoi volumi su Mussolini, sempre più densi, ai quali si unirono altre pubblicazioni e iniziative collaterali, e con l'aggiunta del suo magistero intellettuale. Il fuoco di sbarramento contro De Felice partì da subito. All'inizio assunse la fisionomia del fuocherello. Ma mentre la biografia di Mussolini cresceva a dismisura, diventando mastodontica, le fiammelle si trasformavano in incendio. Contro di lui si scatenò una campagna pubblicistica, storiografica, universitaria, politica tambureggiante e aggressiva. Al primo volume del Mussolini De Felice ne fece seguire altri due: stavolta sul «fascista» (1966-1968). Il punto di non ritorno arrivò con il 1974, anno della pubblicazione del primo volume di Mussolini «il duce», dedicato agli «anni del consenso» (1929-1936). Un tomo di novecentocinquanta pagine zeppe di documenti e note, corredato da una corposa appendice. L'obiettivo storiografico di De Felice era «comprendere» il fascismo non «condannarlo». Per la «vulgata» la questione del «consenso» era vitale. Gli italiani non avevano mai espresso alcun «consenso» nei confronti di Mussolini, che si era impossessato del potere con la forza e l'inganno. Occorreva reagire, poiché stava aprendosi la breccia decisiva. Dopo 10 anni di ricerche attorno al pianeta Mussolini, il vento delle polemiche investì De Felice. E lui giocò d'anticipo. Un altro mattone della storia del fascismo e dell'Italia fascista era stato piazzato. Ma per mettere definitivamente le carte in chiaro aveva bisogno di uno strumento agile. Lo trovò nell'intervista sul fascismo rilasciata ad un brillante storico americano, Michael A. Ledeen. Un volumetto essenziale 115 pagine uscito presso Laterza nel luglio del 1975. Una bomba! Un successo editoriale, a dicembre giunto alla quinta edizione. Le «vestali della vulgata» persero il controllo, riempiendo le pagine dei giornali di indignati commenti. Si poteva far finta di ignorare, o rintuzzare blandamente, la tesi che il fascismo fosse un regime «rivoluzionario». Ma la questione del «consenso» era troppo. Il sociologo Franco Ferrarotti su Paese sera rimproverò De Felice di considerare il fascismo un capitolo concluso del Novecento. Grave errore, perché De Felice con la sua idea di «fascismo marmorizzato» non vedeva le diramazioni politiche e le relative conseguenze politiche sull'Italia del 1975. Trattare il fascismo asetticamente, alla maniera di De Felice, era un errore. L'interpretazione defeliciana venne bollata da Leo Valiani, sul Corriere della sera, di insensibilità morale. Paolo Alatri sul Messaggero imputò a De Felice incompetenza storiografica. Il colpo più duro lo assestò Nicola Tranfaglia. Su Il giorno scrisse che nell'intervista De Felice sosteneva tesi pericolose, capaci di indurre nelle giovani generazioni gravi guasti. La rivista Italia contemporanea promulgò addirittura un appello contro la «storiografia afascista» e il «qualunquismo storiografico» di De Felice, «ritenendoli indizio di un orientamento storiografico e culturale che ormai scopre apertamente i suoi risvolti politici, travasando nel campo storiografico le strumentalizzazioni della teoria degli opposti estremismi». Insomma, per farla breve, dietro le tesi di De Felice si nascondevano oscure mire politiche. A partire dalla riabilitazione storica del fascismo. In realtà De Felice metteva nero su bianco verità oggi consolidate. Ma che all'epoca erano, per il settore dominante della cultura storica e politologica italiana, insopportabili. De Felice divenne così il mostro da abbattere; l'intellettuale da emarginare. Nasce da lì, da quell'astiosa polemica, il ritratto del pericoloso «revisionista». Lo «scandaloso biografo» di Mussolini subì contestazioni di ogni genere. Giornali, riviste, saggi, cattedre universitarie: tutto venne impiegato contro De Felice. Chi scrive è stato suo studente nei primi anni '80 a Scienze politiche all'Università La Sapienza di Roma, e ricorda il diffuso fastidio di molti studenti, le frequenti interruzioni delle lezioni con domande polemiche, fogli e cartelli denigratori nelle bacheche, sino alle aperte contestazioni. Ormai gravemente malato lo storico subì un attentato incendiario nella sua casa di Roma, a Monteverde. La schiera degli avversari di De Felice era composita. E rumorosa. Ma De Felice non se ne preoccupò. Il prestigio suo e delle sue ricerche cresceva in Italia e all'estero. Quello intellettuale e morale dei suoi avversari si sbriciolava. A rileggere certe sciocchezze scritte su De Felice viene da sorridere. Sotto le macerie del crollo del comunismo c'è rimasta la «vulgata», le sue bugie e la sua arroganza. Dopo l'intervista sul fascismo De Felice iniziò ad intervenire su due piani: quello solito della ricerca sui documenti; e quello della presenza mediatica. Lo fece con l'intervista a Giuliano Ferrara per il Corriere della sera nel 1987; con il libro Rosso e Nero con Pasquale Chessa nel 1995; con l'appoggio incondizionato a François Furet per il suo saggio Il passato di un'illusione nel 1995. Scatenando sempre risposte astiose, ma sempre più prive di credibilità. Oggi De Felice è un «classico», un «maestro», un intellettuale da ammirare per l'impegno nella difesa del proprio lavoro e della propria indipendenza. Balbuziente, De Felice non balbettò mai al cospetto dei suoi avversari. La qualità della ricerca ha fatto diventare giustamente Renzo De Felice lo storico italiano più importante del XX secolo. Ma un ruolo essenziale lo hanno avuto anche il coraggio e l'onestà intellettuale.

Renzo De Felice ha battuto sul campo l'egemonia di sinistra. La sua battaglia contro le letture ideologiche del passato ha segnato in profondità l'Italia. I suoi studi sono una pietra miliare, scrive Francesco Perfetti, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale". A vent'anni dalla prematura scomparsa di Renzo De Felice, il 25 maggio 1996, il lascito dello storico che ha legato il suo nome al rinnovamento degli studi sul fascismo è ancora attuale. La sua battaglia per liberare la ricerca storica dai condizionamenti ideologici ha prodotto frutti e ha inciso in profondità sul tessuto della società civile anche se, periodicamente, ricompaiono vecchie e logore tesi che, soprattutto su certi argomenti, sono il frutto della pertinace volontà di utilizzare la storia per fini di natura politica. Quando, verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso, De Felice, dopo essersi a lungo occupato delle vicende dell'Italia napoleonica e giacobina, decise di studiare la figura di Benito Mussolini e il regime fascista, la situazione della storiografia tanto italiana quanto internazionale sull'argomento era ancora largamente condizionata dalla passione politica. Erano trascorsi venti anni o giù di lì dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, ma la cultura politica del Paese e quindi anche, in particolare, la ricerca storiografica era tributaria dell'egemonia radical-marxista che aveva imposto quella che lo studioso, in seguito, avrebbe definito icasticamente una «vulgata», cioè a dire una lettura ufficiale della storia d'Italia in funzione legittimante della repubblica «democratica e antifascista». In questo quadro il fascismo era visto come un «blocco unitario» che, per i liberali, testimoniava della «malattia morale» che aveva colpito l'Europa e, in particolare, l'Italia all'inizio del secolo, mentre, per i marxisti, rappresentava una specie di «controrivoluzione preventiva» innescata dalle forze reazionarie mobilitate contro il pericolo della rivoluzione. Non mancava, poi, chi lo interpretava, con un approccio denigratorio di tutta la storia nazionale, come il punto di arrivo dei difetti, dei vizi, delle tare che si erano stratificati sulla storia di un Paese che, per dirlo con Piero Gobetti, non aveva conosciuto la forza rigeneratrice della Riforma protestante. A Renzo De Felice, che si era formato alla scuola di Delio Cantimori e di Federico Chabod, tutti questi discorsi interpretativi non potevano che apparire astratti e inadatti a penetrare nel fondo di un fenomeno storico complesso e irriducibile a unità. Del resto, per una personalità come la sua, al fondo profondamente liberale una personalità che era stata vaccinata contro le tossine ideologiche del marxismo proprio da un brevissimo periodo di impegno politico nelle file del Pci le spiegazioni dei fatti storici in chiave politica, e soprattutto in chiave di legittimazione del potere, erano, oltre che fuorvianti, anche eticamente scorrette. Verso la conclusione dei suoi studi sul fascismo, alla vigilia della sua scomparsa, De Felice illustrò il meccanismo attraverso il quale la «vulgata», che aveva il proprio punto di forza nell'idea della «unità della Resistenza» a guida comunista, divenne il principio legittimante della «repubblica antifascista» e sanzionò, di fatto, una egemonia culturale radical-marxista. Al di là del progetto politico, e delle sue conseguenze sulla società italiana, questa «vulgata» era falsa, sia perché tendeva a negare o sottovalutare il rilevante contributo alla lotta contro il fascismo da parte di forze non comuniste, sia perché presupponeva che il fascismo fosse una realtà unitaria, un blocco compatto, quasi un Moloch reazionario, privo di cultura e nemico della cultura, amante della violenza per la violenza. Non è un caso che De Felice, in una celebre intervista rilasciata a un quotidiano e destinata inevitabilmente a suscitare un'ondata di polemiche, abbia sottolineato l'opportunità di togliere dalla carta costituzionale le norme, ormai desuete, che riguardavano il fascismo e il carattere antifascista della Costituzione. Era un modo sia per riaffermare la necessità di una separazione fra storia e politica sia per ribadire la convinzione che, morto e sepolto il fascismo come evento storico, i valori della libertà e della democrazia erano ormai entrati a far parte del patrimonio culturale della popolazione. Era, ancora, un modo per richiamare l'attenzione sul fatto che la legittimazione del potere non può, né deve, essere costruita attraverso l'uso strumentale e politico della storia. Negli anni durante i quali si occupò del fascismo un trentennio circa De Felice smontò, poco alla volta e pezzo per pezzo, l'impostazione storiografica della «vulgata». Inserì il fascismo nel quadro della profonda trasformazione della società italiana prodotta dalla guerra mondiale e lo presentò come un movimento presto diventato punto di attrazione e di riferimento dei ceti medi emergenti alla ricerca di una rappresentanza politica che fosse equivalente al loro peso nella vita politica e sociale del Paese. Analizzò la composizione dei fasci di combattimento, prima, e del Pnf, poi, studiò le biografie dei suoi esponenti, ne sviscerò idee e programmi facendo vedere come il fascismo, sin dalle origini, avesse diverse, e talora contraddittorie, anime. Vi confluirono, infatti, in una sintesi singolare che non avrebbe potuto esistere senza la Grande Guerra, uomini provenienti dall'interventismo rivoluzionario e dall'interventismo nazionalista, di sinistra e di destra per così dire, che si ritrovarono insieme nella difesa e nella rivendicazione dei sacrifici compiuti in guerra. Altro che movimento unitario! Passando, poi, allo studio della storia del regime, quale andò costruendosi e realizzandosi gradualmente dopo la svolta autoritaria seguita al delitto Matteotti, De Felice tratteggiò il conflitto latente tra le varie anime del fascismo, ricostruì in dettaglio il dibattito teorico che accompagnò le principali scelte legislative in campo istituzionale, ripercorse le vicende della politica estera italiana nel gioco delle grandi potenze del tempo, individuò e descrisse i meccanismi di costruzione del consenso che toccò il suo apice durante la prima metà degli anni Trenta. E, dopo, raccontò la crisi del regime e la guerra civile. Il tutto, sempre, con estremo equilibrio e senza indulgere alle passioni politiche. Man mano che uscivano i volumi della biografia di Mussolini (che, in realtà, era una vera e propria storia del fascismo) e le numerose ricerche collaterali, molti luoghi comuni accreditati sia dalla politica sia da una storiografia succube della «ragion politica» crollarono, tra moti di protesta e di indignazione, come castelli di carta. E, oggi, anche molti dei suoi avversari del tempo sono stati costretti a rivedere le loro posizioni e a considerare, comunque, l'opera storiografica di Renzo De Felice come un punto d'arrivo della ricerca storica. La lezione di De Felice è, prima di tutto, metodologica. Uno degli ultimi, se non proprio l'ultimo, esponente della grande tradizione storiografica italiana che coniuga lo «storicismo» di stampo idealistico con il «realismo storiografico», De Felice si è preoccupato di «capire» il fascismo senza, naturalmente, simpatizzare con esso: lo ha fatto studiandolo, per così dire, anche «dall'interno» attraverso l'analisi dei documenti, pur ufficiali, e la memorialistica. La sua finalità era, insomma, quella di comprendere e spiegare il fascismo e la sua natura ricostruendone le fasi e la storia complessiva. La sensibilità storiografica di De Felice lo portò a fare tesoro degli stimoli provenienti anche dalla grande letteratura internazionale, sia storica che sociologica e filosofica: dagli studi di Gino Germani sulla mobilitazione sociale a quelli di Juan J. Linz sull'autoritarismo e sul totalitarismo, dalle osservazioni di Augusto Del Noce sul carattere filosofico della storia contemporanea ai lavori di George L. Mosse sulla «nazionalizzazione delle masse» e sull'importanza della storia culturale fino alle grandi opere di François Furet sulle metamorfosi dell'illusione rivoluzionaria e via dicendo. Il tutto, naturalmente, nella convinzione che il compito dello storico sia quello non di servire una qualunque ideologia politica, ma di raccontare come i fatti si sono realmente svolti.

L'ostilità per De Felice? Un esempio sinistro di uso politico della storia, scrive Francesco Perfetti, Sabato 21/11/2015, su "Il Giornale".  Il termine «revisionismo» ha una lunga storia. Divenne popolare grazie a Eduard Bernstein, il quale lo utilizzò nel 1899 per sostenere la necessità di rivedere le tesi di Marx messe in crisi dal mancato verificarsi delle condizioni che avrebbero dovuto portare al crollo del capitalismo. Venne subito condannato dai sacerdoti dell'ortodossia marxista ed entrò a far parte del lessico marxista come un'ingiuria infamante. Dopo la rivoluzione russa e la costruzione del «paradiso terrestre», venne utilizzato per liquidare quanti mettevano in dubbio il primato ideologico di Lenin. Durante il «terrore» staliniano, l'accusa di «revisionismo» non fu solo infamante: trasformò l'avversario in «nemico oggettivo», in criminale irrecuperabile da eliminare per il futuro della società comunista. Nel corso di un faccia a faccia con Norberto Bobbio, Renzo De Felice sintetizzò questo processo ricordando come all'origine dell'uso negativo del termine «revisionismo» ci fosse stato proprio il comunismo: «Sono le polemiche fra le varie correnti del pensiero marxista che l'hanno fatto diventare un'offesa mortale. Chiunque metteva in discussione la linea vincente del partito, chiunque pretendeva di discutere i fondamenti della teoria marxista diventava automaticamente un pericolo politico. Per questo revisionismo è diventato un termine spregiativo. Chi non ricorda il revisionista Bernstein o il rinnegato Kautsky? Il momento cruciale fu costituito dalla vittoria dei bolscevichi sui menscevichi, che portò con sé la critica a tutti i socialismi che non riconoscevano la supremazia ideologica del partito di Lenin. Con Stalin il revisionismo diventa addirittura un crimine contro lo stato guida, il comunismo in un paese solo, l'internazionalismo proletario». De Felice non si curò mai troppo della definizione di «storico revisionista» che i suoi avversari gli avevano cucito addosso per demonizzarlo e ottenerne l'emarginazione dalla comunità storiografica. Ma fece bene a rammentare le origini del «revisionismo» perché, in tal modo, smascherò il carattere ideologico dell'accusa di riscrivere la storia stravolgendo o capovolgendo risultati e interpretazioni acquisite. Che l'accusa fosse ideologica è evidente, quanto meno perché intendeva preservare la purezza di una vulgata storiografica, cioè un'interpretazione «canonica» o ufficiale della storia, debitrice, nell'Italia repubblicana e antifascista, dell'egemonia culturale marxista e azionista. La sua virulenza si vide nel linciaggio morale cui venne sottoposto lo studioso e nella richiesta di allontanarlo dalla cattedra. Poco importa che molte delle sue tesi dalla distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento all'individuazione del ruolo dei ceti medi emergenti, dal riconoscimento dell'esistenza di un consenso diffuso alla precisazione delle differenze tra fascismo e nazionalsocialismo siano, ormai, patrimonio acquisito della più avvertita storiografia internazionale. Poco importa che alcuni di coloro che, all'epoca, furono tra gli «aggressori» neghino l'aggressione pur ribadendo la «pericolosità» delle tesi dello studioso che avrebbero avuto una implicita valenza politica portando sia alla riabilitazione e rivalutazione del fascismo sia allo «sdoganamento» culturale e politico dell'estrema destra e alla sua legittimazione. Quel che conta è che De Felice venne arruolato d'imperio nelle schiere revisioniste, senza curarsi della sua insofferenza per tale etichetta. Più volte egli fece notare come la sua storiografia non si muovesse alla ricerca di «assurdi revisionismi». Sosteneva che «qualsiasi storico è un revisionista», come lo fu Tito Livio rispetto a Polibio, ma solo nella misura in cui «comincia il suo lavoro dal punto in cui sono arrivati i predecessori, per completare e modificare, aggiungere e cambiare, chiarire e approfondire». Nel suo caso, la ricostruzione del fascismo non aveva «niente di revisionistico», si limitava a «riempire buchi nello studio dei fatti» con lo studio di documentazione prima sconosciuta o ignorata: «per lungo tempo ci si è basati su un numero limitato di fonti e testimonianze. A un certo punto si è sentita la necessità di andare più a fondo, di entrare dentro la realtà del fascismo, che fino ad allora veniva presentato come una monade compatta. Così si è capito che al contrario essa fu fatta di tante cose: uomini, gruppi di interesse, situazioni storiche in evoluzione, idee e utopie. Solo sulla base di questi dati reali oggi si può cominciare a giudicarlo e criticarlo». La posizione di De Felice è chiara. Cionondimeno i nemici accostarono al suo nome e alla sua opera quell'aggettivo «revisionista» che lo ha notato con ironia Sergio Romano «conteneva una nota di biasimo, era pronunciato a bocca storta e suggeriva implicitamente ai lettori la stessa cautela che i preti raccomandano ai loro allievi nel momento in cui debbono autorizzare la lettura di un libro interdetto». L'utilizzazione dell'aggettivo «revisionista» per l'opera di De Felice fu un esempio paradigmatico di «uso politico della storia» effettuato in malafede. Anche perché i guru della sinistra radical-marxista dimentichi che i discorsi di tipo «revisionista» avevano avuto origine dalle loro parti con i piagnistei di Piero Gobetti e Antonio Gramsci sul Risorgimento tradito o incompiuto crearono un'assurda e ambigua comunità ideale di «revisionisti» nella quale inserirono, indistintamente e senza discernimento critico, da una parte, i «negazionisti» che sostenevano l'irrilevanza dell'Olocausto o mettevano persino in dubbio i campi di sterminio nazisti, e, dall'altra parte, studiosi come Ernst Nolte, François Furet, Andreas Hillgruber, Zeev Sternhell, oltre a Renzo De Felice. Questi ultimi erano studiosi veri che hanno consentito alla storiografia, ognuno a suo modo, di fare salti di qualità. Eppure anche per essi, secondo De Felice, la qualifica di «revisionista» avrebbe dovuto essere usata, per dir così, con le molle. Era stato accreditato, infatti, un «concetto generale» di «revisionismo» responsabile di una surrettizia demolizione dei valori etici dell'antifascismo e della Resistenza. Su di esso De Felice si limitò ad osservare: «questi discorsi sul revisionismo come entità unitaria, come una specie di mostro che ha come obiettivo la distruzione di tutta una serie di valori etici, culturali, politici dell'antifascismo, francamente non mi convincono». E aggiunse: «questo revisionismo unico e indirizzato a comuni obiettivi è un argomento del tutto polemico, non ha un fondamento». Ma i professionisti della crociata anti-defeliciana hanno continuato a brandire come un'arma, nei confronti del biografo di Mussolini, l'accusa di «revisionismo». Senza rendersi conto che si trattava, ormai, di un'arma spuntata.

Così De Felice ha battuto l'ideologia. "Mussolini e il Fascismo" ha aiutato il Paese a cambiare e a ripensare il suo passato recente, scrive Francesco Perfetti, Sabato 14/11/2015, su "Il Giornale". Una volta, già al culmine della sua notorietà e al centro delle polemiche, Renzo De Felice affermò che il difetto maggiore della storiografia contemporaneistica italiana era quello di essere affetta da una sindrome di eccessiva sicurezza. Aggiunse, con una battuta, che lo storico non deve rimanere attaccato come un'ostrica al suo guscio se non vuole trasformarsi in un teologo o in un politico. Lo storico precisò non dovrebbe fornire interpretazioni precotte da sottoporre all'adorazione del pubblico, ma dovrebbe invece procedere ad acquisizioni continue senza curarsi del fatto che tali acquisizioni possano rivelarsi scomode e mettere in discussione giudizi storiografici apparentemente consolidati. Poche battute che a leggerle come devono esser lette sono una garbata lezione di metodologia storiografica. De Felice si era già scontrato, agli inizi della sua carriera di studioso, quando si occupava di giacobinismo italiano e di albori di Risorgimento, con i custodi di una «verità storica rivelata» che, nella fattispecie, si rifaceva alla forte tradizione storiografica giacobina e marxista sulla Rivoluzione Francese e sulle sue conseguenze: una tradizione egemone nella cultura politica italiana (e, forse, anche europea) del tempo. Le sue ricerche sul triennio giacobino in Italia, apparse in piena guerra fredda e tutt'altro che in linea con la versione ufficiale radical-marxista del fenomeno, scatenarono un vero e proprio putiferio. Talune sue affermazioni vennero considerate eresie politicamente «pericolose» soprattutto laddove finivano per sottolineare il carattere utopistico e messianico di alcuni filoni radicali dell'illuminismo e per suggerire una sorta di ideale continuità fra la «democrazia diretta» di Rousseau e la «democrazia totalitaria» del ventesimo secolo. L'ostracismo contro De Felice fu massiccio e, se di esso non v'è memoria al di fuori degli ambienti accademici, ciò fu dovuto al fatto che l'argomento attorno al quale si concretizzò, il giacobinismo italiano, era un tema elitario. Le cose, com'è noto, cambiarono a partire dalla metà degli anni sessanta, quanto De Felice scelse, come peculiare terreno d'indagine, il fascismo: un argomento, cioè, che si riallacciava per certi versi agli studi precedenti, ma che a distanza di qualche decennio, appena, dalla fine del regime e in un paese nel quale l'antifascismo era stato scelto come valore fondante della carta costituzionale era comprensibilmente delicato. Fino ad allora, del fascismo, si avevano visioni molto diverse, talora suggestive e cervellotiche, comunque tutt'altro che «storiche» nel senso proprio del termine. Aveva avuto successo, sia pure elitario, la cosiddetta interpretazione «liberale», quasi prerogativa esclusiva dell'alta cultura europea, secondo la quale il fascismo sarebbe stato la «malattia morale» che aveva colpito la civiltà europea. Accanto ad essa s'era diffusa la cosiddetta interpretazione «marxista» la quale, pur attraverso diversi e tortuosi percorsi argomentativi, concludeva nell'idea che il fascismo fosse il «canto del cigno», l'ultimo sussulto cioè della declinante e fatiscente civiltà capitalista, ovvero, se lo si preferisce, una «controrivoluzione preventiva» per ritardare l'inevitabile trionfo del comunismo. E poi c'era stata quella «interpretazione radicale» che aveva presentato il fascismo come la cartina di tornasole rivelatrice delle tare ereditarie e dei difetti stratificatisi nella storia del Paese. Si potrebbe proseguire a lungo e De Felice, in effetti, l'avrebbe fatto, più avanti, in un volume, intitolato Le interpretazioni del fascismo, che metteva a confronto queste e altre visioni del fenomeno, tutte peraltro parziali. Di fronte a tutti questi approcci, De Felice si rese conto che del fascismo cosa esso fosse realmente stato, quale rapporto avesse davvero avuto con Mussolini e via dicendo si riusciva a capire ben poco. Ogni discorso interpretativo si rivelava inadeguato a cogliere una realtà cangiante. De Felice fu colpito da una affermazione di Angelo Tasca scrittore, storico e polemista ma anche militante politico tra i fondatori del partito comunista poi divenuto feroce antistalinista secondo la quale «definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia». Questa affermazione, contenuta in un bel libro di Tasca dal titolo Nascita e avvento del fascismo, De Felice la fece sua, assumendola come guida per ricostruire, del fascismo, in dettaglio gli avvenimenti, le idee, i propositi. Si trattava di una precisa scelta metodologica, alla quale De Felice sarebbe rimasto incrollabilmente fedele. Uno studioso che ne fu amico oltre che collega, Piero Melograni, disse che, con tale scelta, De Felice si era liberato dall'ideologia ed era diventato un filologo a tempo pieno. Ecco le sue parole: «Alcuni furono cavalieri dell'ideologia, ma Renzo De Felice fu un cavaliere della filologia. La filologia è la ricerca della verità, mentre l'ideologia è la ricerca delle illusioni. La ricerca arricchisce le nostre conoscenze se ha come fine la verità. L'ideologia, al contrario, tende a difendere un castello, molto spesso un castello in aria, ci impoverisce e fa regredire la conoscenza. Per questa ragione porrei De Felice dalla parte del progresso e dei progressisti, mentre definirei i suoi avversari reazionari». Al di là di quel tono, volutamente ma garbatamente, provocatorio, la battuta di Melograni sul connotato anti-ideologico della ricerca storiografica di De Felice è esatta. Come, pure, è esatta un'altra sua osservazione: «De Felice, quando è stato storico del fascismo e dell'antifascismo, ha aiutato tutti a cambiare, sia nella destra, sua nella sinistra». Meglio, e più lapidariamente, non si poteva sintetizzare il lascito morale ed etico-politico, oltre che storiografico, di Renzo De Felice.

La deriva fascista. Da rivoluzione a conservazione. Gli studi di Renzo De Felice mostrano come la classe dirigente fiancheggiatrice del regime ne erose la carica innovativa, scrive Francesco Perfetti, Sabato 16/01/2016, su "Il Giornale". Man mano che Renzo De Felice si avvicinava alla conclusione della sua opera su Mussolini e sul fascismo, ne apparivano sempre più evidenti la forza innovativa e la carica dirompente rispetto ai discorsi sviluppati fino ad allora dalla storiografia. Non si trattava di questioni di poco conto: il carattere «rivoluzionario» della cultura e della personalità di Mussolini; la coesistenza del «fascismo movimento» e del «fascismo regime» con anime diverse e per certi versi opposte; la dimensione e la durata di un massiccio «consenso» anche di fronte alla guerra; il carattere più autoritario che totalitario del regime; il riconoscimento di profonde differenze tra fascismo e nazionalsocialismo e via dicendo. A tali conclusioni De Felice era pervenuto proprio perché aveva relegato in soffitta i discorsi ideologici sul fascismo. Un grande studioso di storia della storiografia, Walter Maturi, scrisse, riferendosi alla prima fase di studi di De Felice, quella relativa al periodo rivoluzionario tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, che questo «giovane d'ingegno vivo e acuto» aveva «molto mordente critico» ed era «intransigente come un domenicano» pronto a fulminare con critiche impietose quanti usassero a sproposito il termine «giacobino». L'osservazione coglieva nel segno non tanto nella descrizione di un De Felice intellettualmente polemico e rissoso, quanto nella caratterizzazione di uno studioso che, già ai suoi esordi, rifiutava l'uso acritico di termini nella fattispecie, «giacobino» al di fuori del loro significato originario. Uno dei risultati più importanti della ricerca storiografica di De Felice sul fascismo è stato l'aver reinserito a pieno titolo quel periodo nella storia d'Italia sgombrando il campo da tutti i discorsi che tendevano a presentarlo come un momento inspiegabile di follia collettiva. Il fascismo, com'egli ben dimostrò, aveva avuto origine dal primo conflitto mondiale e dalla crisi del dopoguerra: una crisi caratterizzata dalla scissione tra «paese reale» e «paese legale», dall'ideologizzazione delle masse, dal tracollo di modelli culturali tradizionali e dalle spinte di forti processi di mobilitazione sociale. Il ventennio fascista, nell'analisi di De Felice, si sviluppò all'insegna di una dialettica tra il «vecchio» fascismo, quello «premarcia» e intransigente, desideroso non solo di partecipare alla gestione del potere ma di porsi come alternativa al sistema, e la vecchia classe dirigente tradizionale e «fiancheggiatrice», che non voleva sovvertire radicalmente il sistema, ma rafforzarlo e rivitalizzarlo secondo una ammodernata versione del sonniniano ritorno allo Statuto. Durante il ventennio, dunque, il fascismo, nella forma, riuscì a fascistizzare la classe dirigente fiancheggiatrice, ma, nella sostanza, quest'ultima finì per privare il fascismo della sua carica rivoluzionaria, trasformandolo in proprio strumento e facendolo rientrare, per usare le parole di De Felice, «in larga misura nell'alveo della tradizione conservatrice». Nell'ultima fase della parabola storica del ventennio, peraltro, l'equilibrio su cui si reggeva quel compromesso andò incrinandosi. Ci furono, quindi, la guerra e la catastrofe con tutto quello che esse comportarono. Il popolo italiano, poi, si trovò, coinvolto nella guerra civile, a vivere un vero e proprio dramma tra fascisti e partigiani. Le pagine dedicate da De Felice a questo capitolo della crepuscolare vicenda storica del fascismo sono tra le più belle, intense e significative di tutta la sua opera. Lo sono sia perché sfatano miti consolidati, sia perché offrono le chiavi per una migliore comprensione del futuro politico del Paese all'indomani del conflitto. Premesso che la Resistenza era stata un «grande evento storico» che nessun revisionismo avrebbe mai potuto negare, De Felice ne ridimensionò la leggenda che voleva presentarla come un movimento popolare di massa, ricordando che le sue fila, a eccezione di alcune limitate zone, si ingrossarono soltanto alla vigilia della capitolazione tedesca, quando cioè la vittoria degli Alleati era cosa certa. Ma, soprattutto, smontò la «vulgata» storiografica resistenziale. Questa, secondo lo studioso, era stata costruita per ragioni ideologiche, allo scopo cioè di «legittimare la nuova democrazia con l'antifascismo», ed era stata utilizzata per scopi politici al fine di «legittimare la sinistra comunista con la democrazia». La verità, secondo De Felice, è che comunisti e azionisti nella convinzione che l'Italia postfascista non dovesse avere nulla a che fare non soltanto con l'Italia fascista ma anche con quella liberale e prefascista nutrivano propositi realmente rivoluzionari. La Resistenza, in altre parole, veniva concepita come il vero, e forse unico, fatto rivoluzionario della storia dell'Italia unitaria. Il che spiega diverse cose. In primo luogo spiega perché le formazioni militari politiche di orientamento comunista e azionista guardarono male le altre componenti della Resistenza, cioè sia le formazioni autonome, sia quelle che avevano preferito porsi sotto il patronato di cattolici e liberali per sottrarsi alle inframmettenze e alla sotterranea ostilità dei partiti di sinistra. In secondo luogo spiega perché il Pci sostenesse con energia il proposito dell'unità della Resistenza a guida comunista: la «democrazia progressiva» teorizzata da Palmiro Togliatti era a esso funzionale. Secondo De Felice i comunisti italiani, pur in quella contingenza, erano al servizio di Mosca: per loro la «svolta di Salerno», ovvero la politica di collaborazione con la monarchia dopo il rientro di Togliatti dall'Urss, così come la teoria della «democrazia progressiva» non erano altro che mosse tattiche. La scelta del terrorismo, del tutto priva di utilità sul piano militare, era funzionale alla strategia comunista proprio per riaffermarne il ruolo egemonico all'interno di una Resistenza che sempre più finiva per caratterizzarsi come «guerra di classe» e non come «movimento nazional-patriottico». Il terrorismo, secondo De Felice, serviva soprattutto a provocare la reazione dei fascisti e dei tedeschi e quindi a suscitare l'indignazione popolare e a scoraggiare ogni tentativo di pacificazione. Esso, poi, serviva a creare attorno ai Gap comunisti che lo usavano contro obiettivi simbolici è il caso dell'assassinio di Giovanni Gentile «un alone di forza e di onnipotenza» e ad esaltare «agli occhi della gente l'attivismo, l'efficienza e lo sprezzo del pericolo dei comunisti» rispetto alla «passività» delle altre componenti della Resistenza. Il lungo percorso storiografico effettuato da De Felice con la sua ricerca su Mussolini iniziato con lo studio della crisi dell'Italia liberale all'indomani della prima guerra mondiale e proseguito con la ricostruzione delle vicende del ventennio fascista e l'analisi della catastrofe del regime trova, così, la sua conclusione alle soglie dell'Italia repubblicana. Lasciando al lettore tutti gli elementi necessari per formulare un giudizio etico-politico.

Così il regime fascista diede voce (politica) alla piccola borghesia. I ceti medi emergenti non avevano mai avuto una vera rappresentanza: ci pensò Mussolini a fornirgliela, scrive Francesco Perfetti, Sabato 12/12/2015, su "Il Giornale". Nella celebre Intervista sul fascismo, rilasciata nel 1975 allo storico americano Michael Arthur Ledeen, Renzo De Felice sintetizzò la sua posizione interpretativa sul fascismo propriamente detto, quello italiano, e sul «fenomeno fascista», in generale. Il linguaggio divulgativo e la stessa tecnica dell'intervista consentirono allo studioso il quale, dopo la pubblicazione di Gli anni del consenso 1929-1936, stava già lavorando al tomo dedicato a Lo Stato totalitario 1936-1940 di fissare alcuni punti fermi cui era giunta la propria ricerca e di sottolinearne così, sia pure implicitamente, la portata rivoluzionaria in campo storiografico. Le tesi contenute nell'intervista, infatti, dimostravano l'inconsistenza delle conclusioni di gran parte della storiografia precedente che, condizionata da una visione ideologica e moralistica, partiva dall'idea che il fascismo fosse stato soltanto un movimento brutale e violento, incolto e nemico della cultura, profondamente reazionario. La distinzione operata da De Felice tra fascismo movimento e fascismo regime modificava tutti quei discorsi che presupponevano la convinzione che il fascismo fosse un fenomeno unitario da valutarsi en bloc. Essa, infatti, non soltanto enucleava fasi o momenti della vicenda storica del fascismo ma ne individuava e caratterizzava le componenti. Il fascismo movimento rappresentava «una costante della storia del fascismo», un «filo rosso» che collegava il marzo 1919 all'aprile 1945 ed esprimeva «quel tanto di velleità rinnovatrice, di interpretazione di certe esigenze, di certi stimoli, di certi motivi di rinnovamento». Esso insomma, individuava «la vitalità del fascismo» laddove il fascismo regime ne costituiva «per certi aspetti la negatività» in quanto risultato della politica di un Mussolini capo del governo, che faceva «del fatto fascismo solo la sovrastruttura di un potere personale, di una dittatura, di una linea politica». Dalla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime discendeva, poi, l'idea della esistenza di una componente rivoluzionaria di sinistra all'interno del fascismo, retaggio del sindacalismo rivoluzionario e dall'influenza di questo su Mussolini e su parte del nucleo dirigente del movimento fascista. Questo fascismo movimento era, secondo De Felice, «in gran parte l'espressione di ceti medi emergenti» ovvero di quei ceti che, «essendo diventati un fatto sociale», cercavano di ottenere peso, potere e partecipazione politica. Man mano che si andavano ingrossando le sue file e pur aprendosi a tutti gli ambienti sociali, il fascismo si era caratterizzato sempre più «in senso piccolo-borghese». In tal modo esso era diventato «il più importante punto di riferimento e di attrazione per quei settori della piccola borghesia che aspiravano ad una propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, settori che non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie né la capacità né la legittimità di governare, e, sia pur confusamente, contestavano anche l'assetto sociale che essa rappresentava». Ancora più dirompente di questa analisi centrata sulla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime apparve il discorso sulle differenze tra fascismo e nazionalsocialismo: discorso non solo indigesto ma eretico per quanti volevano vedere nei due regimi manifestazioni di un medesimo fenomeno e consideravano l'alleanza italo-tedesca come un esito obbligato. Per De Felice c'era, tra i due movimenti o regimi, una differenza di natura si potrebbe ben dire culturale: il nazionalsocialismo guardava al passato remoto, al recupero della tradizione dei valori germanici in contrapposizione al mondo moderno; il fascismo faceva propria l'idea di «progresso» e postulava la creazione di un «uomo nuovo». Non era una differenza da poco: il fascino di Sigfrido e degli eroi della mitologia nordica contrapposto alle seduzioni della modernità e dell'utopismo rivoluzionario. C'erano, ancora, differenze profonde sul ruolo del partito, perché il fascismo perseguì la depoliticizzazione del Pnf e la sua subordinazione allo Stato, mentre il nazionalsocialismo si fondò proprio sulla preminenza del partito sullo Stato. Infine c'era una diversità nel grado di realizzazione del totalitarismo, dal momento che il regime nazionalsocialista fu uno Stato totalitario nel senso proprio del termine, mentre quello fascista non perse mai alcuni caratteri dello Stato di diritto. Tutto ciò spiegava anche come e perché Mussolini e il fascismo (o gran parte di esso) non avessero nutrito grande simpatia per Hitler e il suo movimento, almeno fino a quando, dopo la guerra di Etiopia e la guerra di Spagna, la situazione internazionale aveva finito di fatto per imporre una sorta di «rovesciamento delle alleanze», peraltro non da tutti ben digerito. Prima di allora, l'attività diplomatica dell'Italia fascista si era mossa, pur con una diversità di «stile», lungo le linee direttrici dell'Italia postunitaria e liberale. Del resto, la «politica del peso determinante», teorizzata da Dino Grandi per indicare la necessità che l'Italia dovesse far valere il suo «peso specifico» nella bilancia dei rapporti internazionali, altro non era se non una traduzione aggiornata della classica «pendolarità» della politica estera italiana dell'età postrisorgimentale. L'Italia fascista, insomma, era più proiettata verso la ricerca di accordi e di collaborazione con i suoi alleati all'epoca della Grande Guerra, in particolare con la Gran Bretagna, che non con i nazionalsocialisti, come si era potuto verificare in più occasioni, a cominciare dall'invio delle divisioni italiane al Brennero all'epoca della crisi per il primo e non riuscito tentativo di Anschluss. Questa lettura della politica estera del fascismo proposta da De Felice nella sua opera principale non poteva, naturalmente, che apparire eretica a quanti, storici e non, sulla base di una semplificazione ideologica, si ostinavano a leggere la storia del fascismo come quella di una dittatura incolta e brutale votata inevitabilmente alla guerra per la guerra. Ma era (ed è, tuttora) una lettura aderente ai fatti e capace di spiegare, per esempio, la logica ma anche i limiti, le illusioni, le ingenuità e, quindi, il fallimento dell'idea mussoliniana di imbarcarsi furbescamente nel 1940 in una «guerra parallela» cioè in una guerra «breve» da combattersi non «con» i tedeschi né «per» i tedeschi ma «a fianco» dei tedeschi.

Il viaggio solitario di De Felice nel Paese del "tutti a casa". Lo studioso capì per primo che fu l'andamento delle vicende belliche, non l'antifascismo, ad allontanare la nazione dal regime fascista, scrive Francesco Perfetti, Sabato 19/12/2015, su "Il Giornale". Dall'ultimo scorcio degli anni '80, mentre stava preparando i volumi dedicati a Mussolini l'alleato, Renzo De Felice cominciò a riflettere sempre più sul tema della nazione. Voleva capire in qual modo potesse essere maturato il processo di delegittimazione del regime che, iniziato prima della guerra con la stipula dell'alleanza con la Germania e l'adozione della politica razziale, aveva portato alla catastrofe. Si rese presto conto che determinante, ai fini del tracollo, era stato il cattivo andamento delle operazioni belliche: ben poco, infatti, aveva pesato l'antifascismo. Il regime aveva cominciato a vacillare quando si era diffusa la convinzione - sull'onda delle pessime notizie militari che continuavano a giungere e soprattutto a seguito dei bombardamenti alleati sulle principali città italiane - che le sorti del conflitto erano ormai segnate. Si succedettero, a cascata, il collasso del fronte interno, la crisi militare e politica del luglio 1943, la caduta di Mussolini, la costituzione del governo Badoglio, l'armistizio e il trauma dell'8 settembre 1943.Proprio questa data assunse, agli occhi di De Felice, un valore simbolico, di catastrofe nazionale destinata a riflettersi sul futuro del Paese anche in epoca post-fascista. Quel giorno divenne per lui una cartina di tornasole rivelatrice della debolezza etico-politica del popolo italiano: allora si consumò la «morte della patria» e iniziò un processo di «svuotamento del senso nazionale». Si vide, infatti, come la maggioranza del Paese - dalla borghesia agli operai - non optasse, se non in minima parte, per precise scelte politiche o di impegno civile, ma cercasse di non rimanere coinvolta e di non prendere una posizione chiara attestandosi in una sorta di «zona grigia», preoccupata di sopravvivere alla tempesta. Era stato, forse per primo, un grande giurista e fine scrittore, Salvatore Satta, in un saggio intitolato De Profundis, a parlare, con riferimento all'8 settembre, di «morte della patria» e quindi, implicitamente, di morte della nazione, nella misura in cui la nazione identifica il vincolo di appartenenza a una realtà etico-politica. Poi, a sottolineare l'entità dello sbandamento morale e del disastro materiale, erano venuti il cinema si pensi a Tutti a casa di Comencini e la letteratura. Le pagine, per esempio, ciniche e sofferte, dedicate da Curzio Malaparte nel romanzo La pelle alla giornata dell'8 settembre sono inquietanti, con quella rappresentazione plastica di ufficiali e soldati i quali, alla notizia dell'armistizio, facevano a gara «a chi buttava più eroicamente le armi e le bandiere nel fango». Una rappresentazione conclusa da Malaparte con l'amara e moralistica riflessione: «è certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti sono capaci di perderla». Per De Felice il giorno dell'armistizio, l'8 settembre 1943, diventò «la data simbolo del male italiano», la data che rimetteva in discussione «il carattere stesso di un intero popolo». Quel trauma non aveva avuto precedenti. L'altra data tragica della storia contemporanea italiana, quella della sconfitta di Caporetto, era stata riassorbita dal Paese e dalla classe dirigente e si era annullata nella grande offensiva finale di Vittorio Veneto. Nel caso dell'8 settembre le cose si svolsero altrimenti. Erano venuti meno, secondo De Felice, gli «anticorpi» perché «il monopolio fascista del patriottismo», realizzato con l'identificazione del «primato della nazione col primato del regime», aveva minato fin dalle origini quella «mitologia della nazione» creata da Mussolini e precipitata il 25 luglio. Il fascismo-regime aveva puntato sulla carica emotiva del sentimento nazionale come strumento per «accelerare la nazionalizzazione delle masse, per omogeneizzare la borghesia, per integrare nello Stato fascista quei ceti che erano stati esclusi dallo Stato liberale, per alimentare il consenso in pace e la mobilitazione in guerra». Il disastroso andamento del conflitto, prima, e la disfatta militare, poi, travolsero, insieme al regime, anche l'idea di nazione «come valore unificante di tutti gli italiani». Questa analisi di De Felice che collega l'idea della «morte della patria» all'indebolimento etico-politico del Paese si connette alle riflessioni dello studioso sulla crisi dell'idea di nazione e alle sue considerazioni sulla crisi funzionale della democrazia nella società contemporanea, in particolare nell'Italia post-fascista. Nel dopoguerra si affermò una vulgata storiografica, preoccupata di «legittimare con la vittoria antifascista il nuovo Stato» e «depurare dai veleni del nazionalismo la politica del dopoguerra e la ricostruzione democratica». La guerra fredda aggiunse alla dicotomia fascismo-antifascismo quella comunismo-anticomunismo. Tutto ciò ostacolò in Italia la costruzione di una democrazia compiuta basata sul confronto fra destra e sinistra, sull'alternanza fra moderati e progressisti, sul ricambio delle classi dirigenti. La democrazia italiana nacque, insomma, bloccata. Per questo De Felice, alla metà degli anni '90, poco prima della morte, riconobbe che in Italia si registrava una situazione di «crisi di democrazia» non tanto, com'era avvenuto in epoca pre-fascista e fascista, nel senso che i «valori democratici» fossero contestati, ma nel senso che la democrazia italiana non assolveva a tutte «le nuove necessità del paese». Pur rimanendo «sempre l'unico sistema valido», per lui, essa andava riformata perché non riusciva a tenere «il passo con la situazione, con il progresso tecnologico, con lo sviluppo economico, con la necessità di rapide decisioni, con il tecnicismo di scelte efficaci». La prima cosa da fare sarebbe stato, però, il recupero del sentimento della nazione. A chi gli obiettava che l'idea di nazione era stata surrogata, dopo l'8 settembre 1943, dal cosiddetto «patriottismo della Costituzione» come fondamento della nuova repubblica democratica, De Felice rispondeva che «senza la Nazione non ci può essere Costituzione» perché i valori che danno corpo e sostanza al «patriottismo della Costituzione» sono espressi non da un'astrazione giuridica ma dalla storia, dalla cultura, dalle vicende del Paese. Il sentimento nazionale, l'idea di nazione, era dunque, per De Felice, la premessa essenziale e ineludibile per un'autentica e compiuta realizzazione dello Stato democratico. Discendono da qui le affermazioni, contenute in particolare negli ultimi tomi dell'opera su Mussolini e il fascismo, su natura e significato della Resistenza, sul rapporto tra antifascismo e Resistenza, sulle origini del sistema partitocratico italiano, sulla prima repubblica. Affermazioni che non erano dettate da retropensieri di natura politica, ma concludevano un lungo, coerente e sofferto itinerario di ricerca storiografica, che ha sempre avuto presenti i temi di nazione e democrazia.

Quella guerra civile che venne travestita da "guerra di classe". Altro che "secondo Risorgimento", la Resistenza non fu un movimento di massa, scrive Francesco Perfetti, Giovedì 24/12/2015, su "Il Giornale". L'ultimo tomo dell'opera di Renzo De Felice su Mussolini e il fascismo fu pubblicato postumo nel 1997 con il titolo La guerra civile 1943-1945 come secondo volume di Mussolini l'alleato 1943-1945. Esso è rimasto incompleto per la morte dell'autore, ma alcune delle tesi in esso contenute o che avrebbero dovuto essere dimostrate o sviluppate nelle parti non ancora scritte dell'opera furono anticipate in un piccolo libro-intervista dal titolo Rosso e Nero (1995), importante sia per le suggestioni interpretative proposte, sia per certe indicazioni metodologiche di ricerca storiografica, sia, ancora, per i chiarimenti sulla posizione «revisionista» dell'autore stesso. Eppure, malgrado la sua incompiutezza, il volume su La guerra civile 1943-1945 è da considerarsi uno dei più importanti della serie, se non addirittura dei più belli, almeno dal punto di vista dell'importanza dei risultati della ricerca e della corposità del discorso interpretativo che stabilisce un nesso fra passato e presente. Da un punto di vista contenutistico esso tratta del periodo che va dalla caduta del regime ai primi travagliati mesi di esistenza della Rsi e affronta temi scottanti: la prigionia di Mussolini, la sua liberazione da parte dei tedeschi, la catastrofe nazionale dell'8 settembre 1943, la contrapposizione tra fascisti, repubblicani e partigiani, il dramma vissuto dagli italiani durante la guerra civile, le vicende della Rsi dall'autunno 1943 alla primavera 1944. Particolarmente intense sono le pagine in cui De Felice analizza il significato e gli effetti dell'armistizio dell'8 settembre sullo stato d'animo e sui comportamenti delle masse e dell'esercito. Quella data, l'8 settembre 1943, assume per lui un forte valore simbolico quello della «morte della patria» e dello «svuotamento del senso nazionale» e diventa una cartina di tornasole rivelatrice della debolezza etico-politica del popolo italiano. La dissoluzione dell'esercito «come neve al sole» dopo la diffusione della notizia dell'armistizio ha il suo riscontro nello stato d'animo complessivo del Paese e in particolare della borghesia, un ceto che in gran parte aveva creduto in larga misura nel fascismo e nell'immagine dell'Italia da esso proposta e che era stata provata dagli effetti devastanti di tre anni di guerra. Proprio il desiderio di uscire finalmente dall'incubo della guerra un desiderio «ingenuo e irrazionale quanto si vuole» ma «non per questo meno potente» è la chiave per comprendere le reazioni della grande maggioranza degli italiani alla notizia dell'armistizio. Ma il desiderio di veder finire l'incubo della guerra si accompagnava a «un sentimento diffuso di paura e di incertezza» che, per molti, si traduceva non già nell'idea di una «scelta di campo», quanto piuttosto «nella preoccupazione della propria sopravvivenza» e nel desiderio di «defilarsi rispetto a tutti» nell'attesa che giungessero la fine dei sacrifici e la pace. Sono intense e drammatiche le pagine in cui De Felice dimostra come, dopo la nascita della Rsi, la maggioranza del Paese, ancora una volta, cercasse di non rimanere coinvolta dagli avvenimenti e di assestarsi in una sorta di «zona grigia» che includeva individui appartenenti a tutti i ceti sociali, dalla borghesia alla classe operaia, preoccupati solo di sopravvivere. Sui motivi della ricomparsa di Mussolini sulla scena politica, De Felice sposa la tesi per cui questi, pur riluttante, avrebbe accettato di riassumere il potere nella convinzione, in primo luogo, che solo così sarebbe stato possibile evitare che Hitler facesse dell'Italia occupata una sorta di Polonia e, in secondo luogo, che la sua presenza avrebbe potuto rendere meno pesante il regime di occupazione e impedire l'annessione di territori italiani al Reich. Con la nascita della Rsi tali obiettivi vennero, almeno in parte, raggiunti, ma i costi furono elevati: la «guerra civile», per esempio, insanguinò le regioni occupate dai tedeschi, dividendo profondamente gli italiani e scavando solchi di odio che avrebbero condizionato la vita italiana nei decenni successivi. Inoltre, la Resistenza che, senza la Rsi, avrebbe avuto «un carattere essenzialmente nazional-patriottico, di lotta di liberazione contro l'occupante tedesco» fu egemonizzata dai comunisti che la caratterizzarono come una «guerra di classe». Detto questo sui «costi» politici della creazione della Rsi, De Felice contesta duramente la qualifica di «secondo Risorgimento» per la lotta di liberazione degli anni 1943-1945: questa gli appare storicamente inconsistente perché gli «ideali civili» (sintesi di «nazione», «patria», «libertà») del Risorgimento e le forze politiche che ne erano state protagoniste erano, in gran parte, diversi da quelli che caratterizzarono il cosiddetto «secondo Risorgimento». La Resistenza, per De Felice, contrariamente all'immagine veicolata dai custodi della vulgata antifascista, non fu affatto un «movimento popolare di massa» se non in alcune limitate zone e le sue file si ingrossarono soltanto nelle settimane immediatamente precedenti la capitolazione dei tedeschi, quando cioè la vittoria degli Alleati era considerata ormai certa. Della Resistenza (e della sua memoria) si impadronirono comunisti e azionisti che mal sopportavano le formazioni autonome per i quali essa era un fatto rivoluzionario, anzi il vero fatto rivoluzionario della storia dell'Italia unitaria. Il che spiega, secondo De Felice, l'importanza attribuita, anche nel dopoguerra, dal Partito comunista alla «unità della Resistenza» e, soprattutto, alla «unità delle sinistre» nel quadro di un disegno rivoluzionario che nel concetto di «democrazia progressiva» elaborato da Togliatti aveva il suo cavallo di Troia.Per quanto incompiuto, l'ultimo volume dell'opera di Renzo De Felice è, dal punto di vista della interpretazione storiografica della storia nazionale più recente, fondamentale per comprendere anche talune caratteristiche dell'Italia postfascista, costruita sul mito della Resistenza unitaria e a guida comunista e per spiegare, altresì, come e perché la vulgata storiografica non sia più sostenibile. 

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI GIAMPAOLO PANSA.

Piani comunisti per epurare la Resistenza. Nel nuovo saggio Giampaolo Pansa ricostruisce la lotta per il potere nelle montagne liguri, scrive Matteo Sacchi, Martedì 20/02/2018, su "Il Giornale". Si chiamava Aldo Gastaldi, ma nei suoi venti mesi di guerriglia, dopo l'8 settembre del 1943, era decisamente più conosciuto col suo nome di battaglia: Bisagno. Nato a Genova nel 1921, era perito industriale e durante il Secondo conflitto era stato arruolato come tenente del Genio. Evidentemente però aveva il talento del combattente da prima linea. Non appena i tedeschi iniziarono ad occupare il Nord Italia salì in montagna, senza un attimo di esitazione e portandosi dietro parte delle armi, abbandonate da altri militari che non seppero resistere al richiamo del «tutti a casa». Rifugiatosi a Cichero nell'entroterra di Chiavari, dove l'aveva sorpreso l'armistizio, nell'inverno tra il '43 e il '44 riuscì a organizzare una piccola e combattiva unità. In breve «Bisagno» divenne un mito. Cattolico praticante aveva uno stile tutto suo nel condurre la lotta contro la Wehrmacht e i militi dell'Rsi. Diceva che il nemico andava combattuto ma non odiato. Ci pensava bene prima di commettere azioni che provocassero rappresaglie. Si rifiutò sempre di creare bande grandi e impreparate, buone soltanto per essere macellate dai tedeschi. Il risultato fu che la Garibaldi-Cichero divenne una vera spina nel fianco dell'occupante. Ma presto la «Divisione» e il suo comandante iniziarono a non essere molto amati anche dai vertici dei partigiani comunisti. Gastaldi continuava a ribadire ai suoi uomini: «Aspettate prima di aderire a un partito. Imparate a ragionare con la vostra testa. Dopo la guerra deciderete». Iniziò anche a pretendere di levarsi dai piedi i commissari politici, forse anche a pensare di tenersi ben strette le armi, visto la sua pochissima voglia di essere «sovietizzato» a guerra finita. Questi alcuni dei fatti certosinamente raccolti, vagliati e raccontati da Giampaolo Pansa nel suo nuovo libro Uccidete il comandante bianco. Un mistero della Resistenza (Rizzoli, pagg. 294, euro 20) che è in libreria da oggi. Nel testo, di cui in questa pagina per gentile concessione dell'editore presentiamo uno stralcio, Pansa va oltre quello che vi abbiamo riassunto nelle righe sopra. Cerca di capire se il clima di ostracismo e odio che si era formato attorno a Aldo Gastaldi abbia qualche legame con la sua strana e prematura morte avvenuta a Desenzano del Garda il 21 maggio 1945. Ma l'indagine di Pansa va oltre il caso singolo, proseguendo il filone storico di cui il giornalista è maestro. La vicenda di «Bisagno», medaglia d'oro alla memoria (gli eroi morti non possono più dar fastidio), è infatti emblematica della spaccatura che, durante la Guerra civile, si aprì all'interno della Resistenza tra chi era sostanzialmente un partigiano italiano e chi invece vedeva la Resistenza solo come un prodromo, necessario ma imperfetto, all'instaurazione del comunismo. E per ottenere questo risultato «sovietico» c'era chi era pronto a tutto, anche a uccidere i propri compagni, anche gli eroi che, per primi, erano insorti in difesa dell'Italia contro i tedeschi.

Così i partigiani rossi tradirono Bisagno, il vero eroe della guerra contro i tedeschi. Misteri e retroscena dietro la morte inspiegabile di un comandante scomodo, scrive Giampaolo Pansa, Martedì 20/02/2018, su "Il Giornale". Costretto a convivere con i comunisti e vedendoli all'opera, Bisagno aveva capito tutto del disegno politico del Pci. Diceva: «Quelli come Miro e Attilio vogliono prendersi per intero il potere in Italia. E consegnare il nostro Paese ai sovietici perché ne facciano la provincia occidentale dell'impero di Stalin. Dovremmo rompere subito con loro. Ma questo servirebbe soltanto a spaccare le unità partigiane. E non possiamo farlo per rispetto dei tanti ragazzi che abbiamo portato a morire». (...) Il comando della Sesta zona, sempre guidato da Miro, aveva deciso di rendergli la vita difficile. Bisagno sapeva di essere guardato a vista da occhi malevoli. I suoi messaggi ai comandanti delle brigate erano intercettati e letti dal Sip, diventato un'occhiuta polizia rossa. Il comandante della Cichero si trovò costretto a dormire con la rivoltella sotto il cuscino e una baionetta sotto il paglione. Temeva una manovra ai suoi danni e persino di essere ucciso. La manovra emerse con chiarezza alla fine di febbraio del 1945, quando il Comando della Sesta zona, sempre guidato da Miro, decise di togliere a Bisagno la Cichero e di inviarlo, da solo, in un'altra area della Liguria, a Ponente. Il motivo inconfessabile era evidente: Aldo Gastaldi rappresentava l'unico concreto ostacolo all'egemonia del Pci in Val Trebbia e, di riflesso, alle strategie da attuare dopo la fine della guerra. La decisione doveva essergli comunicata in un incontro previsto per il 28 febbraio, ma Bisagno non si presentò. Venne fissata una nuova data, il 3 marzo, e poi una terza, il 7 marzo, a Fascia, un minuscolo paese dell'Appennino, a mille metri d'altezza. Questa volta Bisagno si fece vivo ed ebbe una discussione molto accesa con l'apparato comunista della Sesta zona. Ma ad affiancarlo c'erano due distaccamenti della Cichero. Avevano le armi imbracciate ed erano pronti a sparare. Il Comando di zona se ne andò con la coda tra le gambe, rinunciando a quel golpe interno. Tuttavia l'atto finale della crisi doveva ancora andare in scena. Il 29 marzo 1945, tre comandanti di divisione, ossia Bisagno, Scrivia e Antonio Zolesio, delle Brigate Giustizia e Libertà-Matteotti, inoltrarono al Comando generale del Corpo volontari della libertà un documento molto duro nei confronti dei quadri comunisti della Sesta zona. Accusati di voler trasformare le bande della Garibaldi in altrettante unità di partito. Tra le richieste avanzate a Milano ce n'era una che, agli occhi di Luigi Longo e di Pietro Secchia, dovette sembrare eversiva. Era quella di «abolire i commissari politici che non si curano d'altro se non di svolgere attività politica di partito». La conclusione del documento domandava di costituire un nuovo Comando di zona separato da quello esistente. Bisagno si era deciso a un passo tanto rischioso nella convinzione che subito dopo la fine della guerra civile il Pci avrebbe tentato di impadronirsi del potere con un colpo militare. Ecco perché, alla vigilia dell'incontro di Fascia, aveva detto a Scrivia, l'amico fraterno: «Un giorno dovremo vergognarci di essere scesi a Genova alla testa dei comunisti». Me lo rivelò lo stesso Scrivia quando stavo preparando la tesi di laurea. Ma la richiesta dei tre comandanti rimase senza risposta. Il Pci era ormai troppo forte, anzi era il partito più forte del fronte partigiano. (...) Ebbe inizio così l'ultimo tempo della giovane vita di Aldo Gastaldi. Nel novembre del 1944, Bisagno aveva accolto nella Cichero un gruppo di alpini che avevano lasciato la Monterosa, una delle divisioni della Rsi. Appartenevano al Battaglione Vestone, schierato in Val Trebbia. Gli aveva promesso che, finita la guerra, li avrebbe accompagnati nei loro paesi, attorno a Riva del Garda, in provincia di Trento. Per evitare che li arrestassero come militari fascisti. Bisagno mantenne l'impegno. Il 20 maggio 1945 partì da Genova con un autocarro Fiat 666 e una grossa camionetta Volkswagen, carichi di alpini. Con lui c'erano due suoi partigiani e un autista che di solito guidava le corriere in servizio tra la Val Trebbia e Genova. Arrivati a Riva del Garda e dopo aver salutato gli alpini, Bisagno si fermò a dormire lì. Il mattino successivo si rimise in viaggio, sempre sullo stesso camion e con il medesimo equipaggio. Durante il ritorno, così venne raccontato, decise di salire sul tettuccio della cabina dell'autocarro. Una decisione assurda e inspiegabile per un comandante avveduto qual era lui. Nei pressi di Desenzano del Garda, il veicolo fu costretto a una brusca sterzata per evitare una colonna di prigionieri tedeschi sbucata all'improvviso sulla statale. Il comandante della Cichero venne sbalzato dal tettuccio e finì sotto le ruote posteriori del veicolo, che lo schiacciarono. Morì quasi subito all'ospedale di Desenzano. In settembre avrebbe compiuto ventiquattro anni. Era stata davvero una disgrazia imprevedibile, come dichiararono sempre i partigiani che stavano con lui in quel viaggio? Oppure l'incidente nascondeva un delitto? Ancora oggi a Genova c'è chi sostiene la tesi dell'assassinio.

Giampaolo Pansa: «La Resistenza, storia da riscrivere. Politici pericolosi, stavolta non voto». Il giornalista: dai comunisti guerra agli altri partigiani. Nel nuovo libro («Uccidete il comandante Bianco») il racconto della vita di Bisagno. Intervista di Aldo Cazzullo del 19 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera".

Giampaolo Pansa, chi è il «comandante bianco», Aldo Gastaldi, nome di battaglia Bisagno, cui lei dedica il suo nuovo libro? 

«Era un eroe. L’unico comandante partigiano non comunista della terza divisione Cichero, la più importante della Liguria. Morto in circostanze misteriose subito dopo la fine della guerra. Sono convinto che sia stato assassinato».

Come lo descriverebbe ai lettori del Corriere?

«Un Gesù Cristo con il fucile. Profondamente cattolico. Mi ha raccontato un testimone che ogni settimana spariva nella notte della Val Trebbia. Prendeva la sua motocicletta, andava da un parroco, picchiava con le dita sul vetro della canonica per farsi riconoscere, si confessava, riceveva la comunione. Talora assisteva alla messa. Poi tornava dai suoi uomini. Quando è morto, a 24 anni, era ancora vergine».

Perché?

«Per lui un buon cattolico non doveva avere rapporti prima del matrimonio. Come disse Amino Pizzorno, nome di battaglia Attilio, capo del Sip, il delicatissimo Servizio informazioni e polizia: “Il nostro commissario politico, Miro, andrebbe da solo nella Genova occupata dai nazisti per scoparsi una ragazza; e il nostro comandante militare ha fatto il voto di castità”».

Miro si chiamava in realtà Anton Ukman.

«Un nome che suona come una fucilata».

Lei nel libro ipotizza che Miro avesse avvertito Bisagno, a mezze parole, del pericolo che correva a causa dei suoi compagni comunisti.

«È possibile che l’abbia fatto davvero. Anche Miro sognava la rivoluzione e la dittatura del proletariato; ma disprezzava i capi comunisti di Genova, li considerava burocrati, mentre lui era un combattente vero, duro».

Perché i comunisti volevano uccidere Bisagno?

«Non era un docile strumento nelle loro mani, come l’avrebbero voluto. E aveva proposto l’abolizione dei commissari politici. Tentarono in ogni modo di farlo fuori. Prima il comando della Sesta divisione ligure cercò di sottrargli la guida della sua divisione. Poi gli ordinarono di lasciare il suo territorio, dove aveva salvato 1.200 uomini dai terribili rastrellamenti dell’“inverno dei mongoli”, i caucasici al servizio dei nazisti, e di andare in esilio in un’altra valle. Lui però si presentò all’incontro accompagnato da trenta facce da patibolo, armate di mitragliatori, e i comunisti non la sentirono di insistere. Ma ormai gliel’avevano giurata».

Bisagno tentò di fermare le vendette dopo il 25 aprile.

«A Genova il sangue dei vinti corse a fiumi: oltre 800 morti. Molti non avevano mai toccato un’arma. Si racconta, ma non ci sono conferme, che i fascisti venissero gettati negli altoforni ancora vivi. Bisagno non poteva tollerare questo. “Ci vuole più coraggio a uccidere che a essere uccisi” diceva. Infatti propose di sostituire la polizia partigiana con la polizia militare Usa».

Da qui la sua fama di amico degli americani.

«Bisagno aveva legato con loro. Era stato invitato in America a insegnare la guerriglia. Un motivo in più per farlo fuori. Sono convinto che dietro il finto incidente stradale in cui morì si nasconda un delitto».

Come andò?

«Bisagno aveva promesso a un gruppo di alpini della Monterosa, che avevano disertato per unirsi a lui, di riportarli a casa, sul Garda. Fu di parola. Partì da Genova il 20 maggio 1945 con un autocarro Fiat 666 e una grossa camionetta Volkswagen. C’erano due suoi partigiani più l’autista; ma forse c’era anche un quarto uomo mai identificato. Bisagno dormì a Riva del Garda. Il giorno dopo, sulla via del ritorno, cominciò a comportarsi in modo strano».

Cosa fece?

«Aprì la borsa con i documenti riservati che portava sempre con sé, e li distribuì. Poi cominciò a regalare banconote: una follia per un ligure sparagnino come lui. Infine salì sul tettuccio del camion: una scelta assurda, pericolosissima. Quando l’autista sterzò per evitare una colonna di prigionieri tedeschi, Bisagno fu sbalzato e schiacciato da un camion. Morì all’ospedale di Desenzano. L’autopsia non fu mai fatta».

Cos’era accaduto, secondo lei?

«Qualcuno sostiene che sia stato avvelenato, che quando cadde stesse già morendo. Io penso che sia stato drogato, in modo da provocare l’incidente. Ma alla radice di tutto c’è un problema più generale».

Quale?

«La storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa; e va riscritta da cima a fondo. Gli storici professionali ci hanno mentito. Settantatré anni dopo, è necessario essere schietti: molte pagine del racconto che viene ritenuto veritiero in realtà non lo è. Le guerre civili furono due. Oltre a quella contro i nazifascisti, ci fu la guerra condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro».

Non dobbiamo avere paura della verità. Resto convinto che la Resistenza non appartenga a una fazione, neppure a quella che ne ha sequestrato la memoria nel dopoguerra, ma alla nazione.

«Leggo sempre con interesse quello che lei scrive sulla Resistenza. Ma la penso diversamente. Lei dà una lettura delle nostra guerra civile che a me sembra troppo generosa. Troppo buonista. Come succede in tutte le guerre civili, anche in Italia il conflitto del 1943-1945 è stato feroce e senza riguardi per nessuno. Non sto parlando dei tedeschi e dei fascisti, avversari destinati a soccombere. Parlo della guerra all’interno dello schieramento antifascista, dominato dall’unico partito che si era sempre opposto al regime di Mussolini: il partito comunista».

Molti partigiani non erano comunisti.

«Gli altri partiti non esistevano, a cominciare dai moderati. Stavano nei Comitati di liberazione, ma non contavano nulla. Invece i comandanti partigiani non comunisti contavano e spesso molto. Ma quando iniziavano a opporsi alla supremazia del Pci contavano sempre di meno. C’erano eccezioni: Mauri in Piemonte, Bisagno in Liguria. Ma è proprio la figura di Bisagno che ci aiuta a comprendere l’asprezza del confronto interno al fronte antifascista. Finché Bisagno si è occupato della guerriglia, non ha mai incontrato ostacoli. Quando ha iniziato a essere troppo forte e a fare politica, per lui sono cominciati i guai».

La Resistenza non fu fatta solo dai partigiani, ma dai civili. Dalle donne, dagli ebrei, dai carabinieri, dai militari che combatterono accanto agli Alleati, dagli internati militari in Germania che preferirono restare nei lager piuttosto che andare a Salò.

«Ma la maggioranza degli italiani voleva solo che passasse la bufera per dedicarsi agli affari propri; e questa è la radice stessa del fascismo. Sa qual è la differenza tra me e lei? Che io ho una visione molto più pessimista dell’Italia. Appena assunto alla Stampa, nell’estate 1961, il vicedirettore Casalegno mi mandò a intervistare Saragat, che mi disse: “Governare gli italiani non è difficile; è inutile”. Prima di lui l’aveva già detto Mussolini».

Che effetto le fa oggi l’allarme antifascista?

«Sono fesserie. Oggi il vero dramma è che abbiamo una classe politica incompetente e pericolosa. Per questo stavolta non andrò a votare. Sono preoccupato per chi ha figli. Io il mio l’ho perso tre mesi fa, per un infarto, a 55 anni. Solo l’amore per Adele mi ha impedito di uccidermi».

Lei disse che la Resistenza è la sua patria morale.

«Lo dico ancora. Ma non la Resistenza di chi voleva una dittatura agli ordini di Mosca».

Nel ’43 lei aveva solo otto anni. Se ne avesse avuti dieci in più, cos’avrebbe fatto?

«Mia madre Giovanna mi diceva in piemontese: “Giampaolo, tu sei un volontario”. Sarei andato con i partigiani. Ma rispetto chi in buona fede fece un’altra scelta. E non ho bisogno di patenti per scrivere i miei libri revisionisti. Avessi più tempo davanti a me, riscriverei la storia della Resistenza. Tocca ai giovani storici farlo. Cosa aspettano?».

Cronache con rabbia. I primi ottant'anni ​di Giampaolo Pansa. Maestro di giornalismo, proveniente di sinistra, ha raccontato con successo la verità sulle stragi partigiane e la Rsi. Storici e intellettuali? Si sono infuriati, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 1/10/2015, su "Il Giornale". Sua nonna Caterina, analfabeta, quando gli voleva fare una confidenza, scandiva poche parole: «Non si può cantare in tutti i cortili». Per Giampaolo Pansa, che oggi taglia il traguardo degli ottant'anni, quella frase è diventata un po' un marchio di fabbrica. Una bussola che l'ha portato per paradosso, lui figlio della cultura giacobina piemontese e poi icona di tanta sinistra, a svoltare e svoltare ancora sfuggendo a dogmi e etichette comode ma asfissianti. Se c'è una cifra nella biografia di Pansa è la liberta che impedisce di incasellarlo una volta per tutte. Oggi, nel gioco evergreen delle bandierine, molti lo considerano un uomo di destra e questo, nell'Italia dei muri e delle ideologie che non cadono, è il miglior complimento ma a metà perché Pansa è solo Pansa. Molto studio, grande curiosità, memoria prodigiosa e occhi sgranati su un mondo che non finisce di stupirlo. Il talento, precoce, si manifesta già in prima media quando il bambino riempie da solo, alla domenica pomeriggio, un giornaletto che si chiama Nero stellati, come la squadra della sua Casale: maglia nera con stella bianca. Giampaolo, cronista di calcio, compone su un foglio protocollo che poi distribuisce in classe ottenendo in cambio cicche e caramelle. È solo il prologo di una parabola strepitosa. Va a Torino, all'Università, e subito sintonizza le antenne: alla prima lezione di storia delle dottrine politiche il professor Luigi Firpo sciocca gli studenti parlando per un'ora dell'educazione sessuale dei giovani aztechi. Tema crudo e lontanissimo da quello del corso dedicato agli scritti giovanili di Carl Marx sulla Gazzetta Renana. Firpo finisce e Pansa alza subito la mano; segue un breve dialogo con la conclusione di Firpo che non ammette discussioni: «L'argomento non c'entra niente ma l'ho fatto per dimostrare che qui comando io e faccio quello che mi pare». Messaggio ricevuto. Pansa annuisce ma non si adegua. Lui, figlio di un operaio, guardafili del telegrafo di Alessandria, si muove con disinvoltura in quel pantheon di teste d'uovo, proiezione dell'Italia giacobina. Quella che si considera la parte migliore del Paese e guarda dall'alto in basso il popolo che arranca. Chiede la tesi ad Alessandro Galante Garrone, altro monumento della nostra cultura, e scrive un saggio lunghissimo sulla Guerra partigiana fra Genova e il Po. Il testo vince il premio Einaudi e verrà pubblicato da Laterza. È l'incipit di una carriera sfolgorante che potrebbe portare la giovane promessa nel santa sanctorum dell'intellighenzia subalpina. Ma lui cambia registro e torna alla sua vocazione di cronista: il 1° gennaio 1961 entra come praticante alla Stampa, redazione Province. Una scrivania anonima che non gli basta. Il 9 ottobre 1963 il disastro del Vajont segna la sua carriera: alla sera, dopo aver chiuso in tipografia la prima edizione, Pansa viene inviato a Longarone in compagnia di un inviato navigato come Francesco Rosso. In macchina, con l'autista come usava allora, Rosso si calca il borsalino sugli occhi e dorme. Pansa, invece, resta sveglio e giunto, infine, nei pressi di Longarone riceve una sorta di battesimo del fuoco da un vecchio collega, Guido Nozzoli, che gli chiede: «Hai mai visto la guerra?». Alla risposta negativa, l'altro replica secco: «Vai avanti e la vedrai». Il primo pezzo ha un incipit semplice e memorabile: «Scrivo da un paese che non c'è più». Da incorniciare come quello, celeberrimo di Tommaso Besozzi sul bandito Giuliano: «Di sicuro c'è solo che è morto». Poi i suoi articoli e le sue inchieste non si contano più: da Piazza Fontana allo scandalo Lockeed che contribuisce a scoperchiare insieme a Gaetano Scardocchia. Pansa è il principe degli inviati speciali ma anche questo vestito dopo un po' è da buttare. Eccolo a Repubblica, dove sarà vicedirettore, poi collaboratore di lusso nel Panorama di Claudio Rinaldi e condirettore all' Espresso ferocemente anti-berlusconiano ancora con Rinaldi, e poi nella stagione più levigata di Giulio Anselmi. La sua rubrica, Il Bestiario, inventata a Panorama e traslocata poi all' Espresso, entra nell'immaginario collettivo, i suoi graffi si fissano nel tempo e diventano quasi didascalie da antologia di alcune maschere della politica nazionale. Ritratti corrosivi e inarrivabili. Fausto Bertinotti è il Parolaio rosso, ma il sarcasmo sintetico dello scrittore dà il meglio fotografando l'inciucio, nella Bicamerale, fra Berlusconi e D'Alema. Nasce il Dalemoni che aprirà un filone inesauribile della satira. Potrebbe pure bastare, ma alla non più verde età di sessantotto anni lo studente modello di storia torna a sgomitare e si apre la strada, mandando all'aria poltrone e allori. Nel 2003 esce Il sangue dei vinti, che poi è quello dei fascisti massacrati senza pietà e senza regole nelle settimane successive alla fine della Guerra. Dopo aver osservato con la lente d'ingrandimento i tic e le smorfie dei notabili democristiani e socialisti riuniti a congresso, Pansa si butta su chi la voce l'ha persa nel 1945. Lui, che arriva dall'altra parte, racconta la mattanza di quei mesi, i silenzi, le vergogne inconfessabili di chi è stato protetto troppo a lungo dallo scudo di una presunta superiorità morale. Gli danno del revisionista, del traditore, del venduto. Lui non fa una piega. Gira tutto lo stivale a presentare quel volume e quella pagina di storia che era stata strappata dai sacri testi. Lo contestano, gli gridano insulti, lui scrive e scrive ancora: Sconosciuto 1945 e La Grande bugia. Sempre per Sperling & Kupfer. Sempre con la lente d'ingrandimento e con il piccone in mano. La sua parrocchia lo rinnega, si ritrova a firmare per il Riformista e poi per Libero. Continua a produrre titoli, storie e controstorie, con un ritmo da catena di montaggio. A febbraio pubblica per Rizzoli La destra siamo noi, ovvero il Belpaese da Scelba a Salvini. Attualità e profondità. Ma è già oltre con un altro volume: L'Italiaccia senza pace, sempre per Rizzoli, uno zibaldone di episodi e vicende del Dopoguerra accostati dall'occhio zingaro e acutissimo di uno dei più grandi giornalisti di sempre. Ancora più grande perché leale. Vicinissimo al potere, sempre lontano dai potenti.

Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri su Il Giornale. Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso, testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: Ma il Caselli aggredito dai No Tav si fida di questa sinistra? Ho sempre avuto stima e simpatia per il magistrato Gian Carlo Caselli. Per una serie di motivi a cominciare dalle origini famigliari abbastanza simili alle mie e dall’età che lo vede in vantaggio di poco: tra un paio di mesi compirà 76 anni. Lui ha origini alessandrine, io monferrine. Noi del Monferrato non siamo mai andati troppo d’accordo con i mandrogni. Ma esistevano altri fatti a renderci vicini. I nonni contadini a Fubine, il papà operaio, la laurea a Torino. Oggi Caselli è in pensione, ma ha conservato la figura asciutta e il carattere forte di quando dava la caccia al terrorismo rosso. All’inizio degli anni Settanta era giudice istruttore a Torino. E dobbiamo pure a lui se le prime Brigate rosse, quelle fondate e capeggiate da Renato Curcio, furono sconfitte. Il mitico Renè venne catturato. L’unico errore dei magistrati fu di rinchiuderlo nel piccolo carcere di Casale Monferrato. Per la moglie Mara Cagol si rivelò uno scherzo entrare in quella prigione e portarsi via il marito, senza sparare un colpo. Caselli è sempre stato un coraggioso. Le Br miravano anche ai magistrati. A Genova, nel giugno 1976, accopparono il procuratore generale Francesco Coco e i due carabinieri che lo scortavano. Penso che pure Caselli rischiasse la pelle. Ma una volta fatto il proprio dovere a Torino, nel 1992, dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, si candidò all’incarico di procuratore capo a Palermo e si trasferì lì per un bel po’ di anni, comportandosi con onore. Insomma, siamo di fronte a un uomo che ha fatto tanto per la nostra sicurezza. Gli italiani gli debbono molto. Voglio dirlo adesso che la magistratura sta declinando come il resto del paese. E non si può fingere che gli uomini e le donne in toga siano senza responsabilità. Perché questi brevi cenni sul percorso di Caselli? Perché accade che Gian Carlo sia preso di mira da gruppi di antagonisti violenti. A cominciare dai guerriglieri anti Tav e per finire ai loro compagni di Firenze, non vogliono che lui parli in pubblico. L’hanno preso di mira e non smetteranno. Caselli e i suoi tanti sostenitori non s’illudano. Mi sembrano vane le lezioni di democrazia che lui tenta di impartire a certe bande. L’ultima è apparsa venerdì sul Fatto quotidiano. Il dotto articolo di Caselli era intitolato: «Il bavaglio. La storia riscritta dagli squadristi». Uno sforzo inutile. Spiegare al sordo che è sordo non serve a nulla: lui non ti sentirà. Lo dico perché sono passato anch’io per le stesse forche caudine imposte a Caselli. Con la differenza che lui viene difeso, sia pure inutilmente, dalle molte sinistre. Il Pansa, invece, fu lasciato solo, tanto da essere costretto a rinunciare di parlare in pubblico. Ossia a uno dei diritti che la Costituzione garantisce a tutti, specialmente a chi fa politica, ai magistrati ormai fuori carriera, a chi scrive sui giornali e pubblica libri. La mia colpa erano proprio i libri. Nel 2003 avevo pubblicato «Il Sangue dei vinti», una ricostruzione senza errori di quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile 1945. Era un libro che abbatteva il muro di omertà che aveva sempre nascosto la sorte dei fascisti sconfitti. E per questo ebbe subito un successo imprevisto e strabiliante. I violenti rossi dell’epoca lì per lì non se ne accorsero, forse perché non leggono i giornali e non frequentano dei luoghi chiamati librerie. Se ne resero conto soltanto tre anni dopo. Così, a partire dall’ottobre 2006, cominciarono a darmi la caccia, non appena pubblicai un altro dei miei lavori revisionisti, «La Grande bugia». Il primo assalto lo sferrarono il 16 ottobre 2006. Una squadra capeggiata da un funzionario di Rifondazione comunista, arrivata apposta da Roma con un pulmino, cercò di impedire la prima presentazione in un hotel di Reggio Emilia. Mentre stava per iniziare il dibattito tra me e Aldo Cazzullo, generosa firma del Corriere della sera, la squadra ci aggredì. Ci lanciarono contro copie del libro, poi tentarono di coprirci con un lenzuolo tinto di rosso, che recava la scritta «Triangolo rosso, nessun rimorso». Volevano farci scappare, ma a tagliare la corda furono gli aggressori, cacciati dalla reazione del pubblico. Il giorno successivo ero atteso in una grande libreria di Bassano del Grappa. Ma nella notte i balilla rossi avevano bloccato con il silicone le serrature degli ingressi. Una squadra di fabbri lavorò a lungo per liberarle. Allora tentarono di entrare e di leggere un loro proclama, ma la polizia lo impedì. Il giorno dopo, a Castelfranco Veneto, nuovi fastidi. L’indomani mi riuscì di parlare a Carmignano sul Brenta, protetto da agenti della polizia guidati dal capo della squadra mobile di Padova. Era un dirigente giovane, intelligente ed esperto. Mi avvisò che in Veneto avrei incontrato dappertutto gli stessi problemi. Aggiunse: «Comunque verrà sempre difeso da noi. Conosciamo bene questi gruppi e li terremo a bada». Fu allora che mi posi un problema di etica pubblica. Chiesi a me stesso: «Quale diritto ho di mobilitare reparti di polizia e di carabinieri per proteggere le presentazioni dei miei libri? Le forze dell’ordine hanno compiti ben più importanti, dal momento che tanta gente è vittima di furti, rapine, scippi, aggressioni». Se ci ripenso a nove anni di distanza, sono ancora convinto che fosse una domanda sensata. E altrettanto fu la risposta che mi diedi. Studiai l’agenda e mi resi conto che erano previsti una trentina di incontri per la «Grande Bugia». Ne annullai quattordici, in città come Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma, Crema, Treviso, Vicenza, Padova, Valdagno. A decidermi furono le parole di un amico: «Tu vieni nella mia libreria, protetto dai poliziotti. Presenti il tuo libro, poi riparti. Ma noi restiamo qui, senza difese». A qualcuno capitò di vedersi sfasciare la vetrina. A una grande libreria emiliana spararono un colpo di rivoltella contro una vetrina. L’aspetto più sgradevole della faccenda stava nel fatto che in quegli stessi momenti c’erano giornali che mi attaccavano per i miei libri revisionisti, tentando di farmi il vuoto attorno. Si andava da Liberazione, il quotidiano rifondarolo, alla Stampa di Torino e a Repubblica, passando per una serie di giornali provinciali del Gruppo Espresso. Alla Stampa c’era un collega che non mi poteva soffrire. Voglio farne il nome perché oggi conta più di allora: Massimo Gramellini, il socio televisivo di Fabio Fazio. Era un vicedirettore della «Bugiarda», così la chiamavano gli operai torinesi. E arrivò a telefonarmi con arroganza melliflua per sapere se avevo letto la pagina contro di me, vantandosi di averla confezionata con le sue manine. Dopo l’assalto di Reggio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stilò un comunicato in mia difesa. Ricevetti in via privata le telefonate di Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni. Sul versante della sinistra furono i soli a farsi vivi. Sono campato lo stesso e i miei libracci hanno sempre avuto molti lettori. Ma l’esperienza di allora mi induce a rivolgere una domanda a Gian Carlo Caselli: ti fidi ancora delle sinistre italiane che oggi ti portano sugli scudi? Con l’aria che tira, e sotto i bombardamenti pesanti del Cremlino renzista, avranno bisogno di raccattare tutti i voti possibili. Tu conti per uno soltanto. Prima o poi ti molleranno, a favore delle bande che occupano gli atenei. Troppo tollerate e persino blandite.

L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da una guerra civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti. Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.

Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".

Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione.+Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il revisionista, in uscita da Rizzoli (pagine 474), scrive Rino Messina su “Il Corriere della Sera”. Questo non è l'ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. È l'autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Resistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l'amore per la cultura: «I miei sapevano che l'unica possibile emancipazione era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più commoventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi salutano». Come fa un libro che contiene queste storie private a non essere definito un'autobiografia? Eppure Giampaolo Pansa nella prefazione dice d'essersi limitato a tracciare il suo percorso di Revisionista. Successi, ma anche attacchi e insulti, a cominciare da quando nel 2002 pubblicò I figli dell'Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l'ho scritto - confida Pansa - è ringraziare le persone che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L'Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipare al discorso pubblico. A loro ho voluto raccontare il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornalisti che non appartengono alla sua cerchia, io credo di essere quello che meglio capisce Silvio Berlusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le angosce di un settantenne, ma ne condivido anche l'entusiasmo e il percorso generazionale». Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. È la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzatina di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l'amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell'umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale professore alla facoltà di Scienze politiche, Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testimonianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ricerca... È sempre presente il principio dell'audiatur et altera pars». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l'altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva. Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoroso direttore del quotidiano torinese, a «barbapapà» Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è anche una galleria di direttori e colleghi, ritratti impietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai velo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi anni l'arcinemico di Pansa in difesa di una Resistenza che ha sentito tradita dal suo più giovane collega: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiretti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con entusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reportage italiani. Lui mi aveva ringraziato con un biglietto e io ero andato di corsa a Milano per conoscerlo». Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiamata al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza delle riunioni ogni mattina il direttore entrava rivolgendo, tra l'ironico e il minaccioso, questa domanda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell'agosto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che avevano combattuto dall'altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubblicana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell'autobiografia, sull'esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino» dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via - scrive Pansa - diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vicedirettore della "Repubblica") nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e addolorato: attribuisce questo atteggiamento all'uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica». Nel libro c'è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e soprattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che continua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino. Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Riformista» ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è felice della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tuttavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abbastanza per difendere Calabresi come avrei dovuto». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l'invito da una scuola di giornalismo, dove insegnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole sono in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornalista non si impara, ma si ruba, e che il talento serve a ben poco senza l'umiltà e lo spirito di sacrificio».

Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.

Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?

«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».

È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?

«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».

E a proposito di «aggiungere»?

«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».

Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?

«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».

Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?

«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».

A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?

«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».

Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?

«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».

Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?

«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».

Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?

«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su “L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».

Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?

«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».

Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?

«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».

Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?

«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».

Pansa: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo, scrive Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina? », domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare! ». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nell'Italia del Duemila può presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini? Anche oggi siamo un paese strozzato da una crisi pesante, con una casta di partiti imbelli e un possibile conflitto tra ceti diversi. Sono queste assonanze con gli anni Venti del Novecento che hanno spinto Giampaolo Pansa a scrivere "Eia eia alalà", un antico grido di vittoria riesumato dallo squadrismo fascista. Il racconto inizia con la lotta di classe esplosa tra il 1919 e il 1922, guidata dai socialisti e sconfitta dall'inevitabile reazione della borghesia. Il nero nacque dal rosso: l'estremismo violento delle sinistre non poteva che sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, il primo passo di una dittatura ventennale. La ricostruzione di Pansa ruota attorno a un personaggio esemplare anche se immaginario: Edoardo Magni, un agrario padrone di una tenuta tra il Monferrato e la Lomellina. Coraggioso ufficiale nella Prima guerra mondiale, finanziatore delle squadre in camicia nera, all'inizio convinto della necessità di una rivoluzione fascista ma via via sempre più disincantato. Sino a diventare un sostenitore del leader squadrista dissidente Cesare Forni, ritenuto da Mussolini un nemico da sopprimere. Magni è il protagonista di un dramma a metà tra il romanzo e la rievocazione storica, gremito delle tante figure che attorniano il Duce, una nomenclatura potente descritta con realismo. In Eia eia alalà Pansa accompagna il protagonista nello scorrere degli anni e nella sfiducia crescente verso il regime. Abbiamo di fronte un ricco signore alle prese con tante incertezze e molti amori: Marietta, Rosa, Anna, Elvira e infine Marianna. Sarà questa giovane donna ebrea incontrata nel ghetto di Casale a fargli scoprire lo sterminio degli israeliti della città, con un viaggio tormentato che alla fine la condurrà a una decisione inaspettata. Grazie alle ricerche di Marianna, Magni conosce una dopo l’altra le storie degli ebrei uccisi ad Auschwitz. Nell’indifferenza gelida dei tanti che si voltavano dall’altra parte e fingevano di non vedere. Eia eia alalà è anche l’affresco di un’Italia che assomiglia non poco a quella di oggi: distratta, egoista e forse pronta ad accettare nuove tragedie.

.. Pansa: "Vi racconto l'Italia in cui tutti, o quasi, gridavano Eia Eia Alalà". Nel suo nuovo libro Giampaolo Pansa autore del «Sangue dei vinti» ricostruisce l'ascesa del fascismo e il consenso di massa al regime. Che molti dimenticano..., scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si chiama Eia Eia Alalà ed è in libreria da oggi. Se non bastasse il titolo (a caratteri cubitali rossi in stile molto littorio), ci pensa il sottotitolo a spiegare che cosa si può trovare in questo volume (Rizzoli, pagg. 378, euro 19,90) a firma Giampaolo Pansa: Controstoria del fascismo. Pansa infatti, usando l'artificio del romanzo - «a me il lettore piace acchiapparlo per la coda, non annoiarlo a colpi di saggio» - mette i puntini sulle «i» della storia italiana della prima metà del '900 per spiegare che cosa sia stato e come sia nato il Ventennio mussoliniano. Il suo espediente narrativo è partire dalla sua terra e raccontare attraverso le vicissitudini del possidente terriero Edoardo Magni (personaggio di fantasia, ma nel libro ce ne sono molti realmente esistiti) come l'Italia sia diventata, convintamente, fascista. E lo sia rimasta a lungo. Non c'è bisogno di dire, viste le scomode verità venute a galla con i suoi precedenti libri (a partire da Il sangue dei vinti) e il tema, che la polemica è garantita. E che qualche gendarme della memoria, per usare un'espressione dello stesso Pansa, avrà qualcosa da dire.

Dunque, Eia Eia Alalà. L'urlo di una generazione?

«Non sai quante volte l'ho sentito gridare quando ero bambino ed ero un Figlio della Lupa. Ho anche una foto in cui, piccolissimo, facevo il saluto romano, davanti al monumento ai Caduti. Non ho fatto in tempo a diventare balilla, però. Il regime è caduto prima. E per quanto in casa dei gerarchi sentissi dire peste e corna. Il sottofondo della vita degli italiani era quello lì».

Per questo l'hai scelto come titolo?

«In parte, volevo anche un titolo che cantasse. Che rendesse l'idea di quello che a lungo il regime è stato per gli italiani. L'avventura del fascismo è stata legata all'idea di vincere, di migliorare il Paese. Rende l'idea di quella giovanile goliardia che affascinò molti. Un fascino che iniziò a incrinarsi solo con le orribili leggi razziali e crollò definitivamente solo con gli orrori della guerra».

Non molti hanno voglia di ricordare che il fascismo ebbe davvero una presa collettiva. Tu invece questo lo racconti nel dettaglio...

«Ho voluto fare un racconto senza il coltello tra i denti. Che cosa rimprovero io a storici, anche molto più bravi di me che di solito scrivono su Mussolini? Ma di avere una partecipazione troppo calda, schierata. Io, anche grazie all'invenzione di un personaggio come Magni, invece ho cercato di fare un racconto neutrale. Per chi c'era è un'ovvietà che il fascismo ebbe un consenso di massa. Tutti erano fascisti tranne una minoranza infima. Gli antifascisti erano una scheggia microscopica rispetto a milioni di italiani. Gli italiani ieri come oggi volevano solo un po' di ordine... E Mussolini glielo diede. Ai più bastò».

Tu attribuisci molte responsabilità ai socialisti che favorirono involontariamente il successo del fascismo, regalandogli il potere... A qualcuno verrà un colpo!

«La guerra perpetua tra rossi e neri creava sgomento. Gli scioperi nelle città, ma soprattutto nelle campagne crearono il caos... Si minacciò la rivoluzione senza essere capaci di farla davvero. Si diede l'avvio alle violenze senza calcolare quali sarebbero state le reazioni. E per di più, esattamente come la sinistra attuale, i socialisti erano perpetuamente divisi. Pochi capirono quanto fosse grave la situazione. Tra questi Pietro Nenni, il quale a proposito della scissione comunista del 1921 scrisse: "A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano"».

Però qualche responsabilità la ebbe anche la borghesia italiana, o no?

«Noi non avevamo la tradizione liberale di altri Paesi. Ed eravamo in una situazione economica terribile che a tratti mi ricorda quella di oggi. C'erano dei partiti-casta in cui la gente non si riconosceva e lo scontro tra ceti (o classi) era alle porte... Il nero è nato dal rosso, la paura ha fatto allineare gli italiani come vagoni ferroviari dietro a Mussolini. Non per obbligo, nonostante le violenze degli squadristi. Sono stati conquistati dalla grande calma dopo la marcia su Roma. L'italiano dei piccoli centri, delle professioni borghesi, voleva soltanto vivere tranquillo. Avuta la garanzia di una vita normale e dello stipendio a fine mese, di chi fosse a palazzo Chigi o a palazzo Venezia gli importava poco».

Qualunquismo?

«L'Italia continuava a essere soprattutto un Paese agricolo. Lo sciopero agrario del 1920 rischiò di paralizzare la campagna. Le leghe rosse impedendo la mungitura, nel libro lo racconto, minacciarono di far morire le mucche... Da lì nacque un fascismo virulento e tutto particolare che poi si prese la rivincita. Il fascismo è stato il ritratto di gruppo degli italiani. C'era dentro di tutto. C'erano molte forze vitali e diverse. Poi il criterio dell'obbedienza cieca, pronta e assoluta che tanto propagandava Starace fece sì che nel cerchio di persone più vicine al Duce si andasse verso una triste selezione al ribasso».

In Eia Eia Alalà descrivi la parabola triste di molti fascisti «diversi».

«La scollatura tra italiani e regime iniziò con le leggi razziali, non prima. Lì inizio il male assoluto, la vergogna. Una delle figure più tragiche del libro è Aldo Finzi. Di origine ebraica, aviatore, fascista della prima ora, poi messo ai margini e fucilato alle Fosse Ardeatine. Poi è arrivata la guerra e la rimozione di massa».

Ma davvero vedi così tante assonanze tra l'oggi e l'avvento del fascismo?

«È possibile non vederle? L'unica variante è il terrorismo internazionale. Ed è una variante peggiorativa».

“All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino” scrive Federico Guiglia del Messaggero.

«Ma quel grido lo sentivo di continuo», ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. «Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato», riprende il filo del discorso. «Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza», eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo». «Il nero nacque dal rosso» è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al vero edicolante di Pansa citato in prefazione).

Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

«Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte».

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

«A ogni azione corrisponde una reazione. È quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto sul loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. È un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia».

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

«La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. È proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana».

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

«Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato Il Sangue dei vinti, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea – poi pubblicata da Laterza – sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui».

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

«Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte».

"A 10 anni dal "Sangue dei vinti" lotto ancora con le bugie rosse". Il giornalista che per primo ha raccontato gli orrori della guerra civile ha scritto una nuova prefazione al suo "classico". E ci racconta perché, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Dieci anni fa un grosso sasso, quasi un meteorite, precipitò da grande altezza nel piccolo stagno della storiografia italiana. Uno stagno dove a gracidare erano, chi meglio chi peggio, più o meno sempre gli stessi, e da un bel po'. A lanciarlo un «non professionista», in senso accademico, della Storia: il giornalista Giampaolo Pansa. Con il suo Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer) riproponeva il tema delle uccisioni sommarie praticate dai partigiani durante la guerra civile, dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. E non solo. Metteva per la prima volta in luce i virulenti strascichi di quello scontro. Le numerosissime esecuzioni sommarie proseguite sino al 1948. Soprattutto in quello che era conosciuto come il «Triangolo della morte» che aveva per vertici Castelfranco Emilia, Piumazzo e Mazzolino. E spesso a morire non erano solo i fascisti, ma chiunque venisse visto come d'ostacolo a una futura rivoluzione comunista. Il libro, come è noto, fu subito aggredito dai "guardiani della memoria" partigiana. Spesso senza nemmeno una lettura sommaria, a prescindere. Oggi a dieci anni di distanza, seppure molto a fatica, la percezione sul tema è cambiata. Ecco perché a questa nuova edizione (Sperling&Kupfer, pagg. 382 euro 11,90) Giampaolo Pansa ha aggiunto una nuova prefazione in cui si leva qualche sassolino dalla scarpa: «"Arrendetevi siete circondati!". Urla così Beppe Grillo... Il suo grido di battaglia mi sembra adatto a descrivere una situazione molto diversa. Anche gli avversari dei miei libri sulla guerra civile sono nei guai. Hanno scelto di farsi circondare da se stessi, rifiutando qualsiasi revisionismo sull'Italia tra in 1943 e il 1945. E dovrebbero arrendersi alla sconfitta». Ne abbiamo parlato con lui.

Ma a dieci anni dal Sangue dei vinti che sensazione ha provato a tornare su quelle pagine?

«Io ho scritto moltissimi libri e di norma non li rileggo mai dopo che ho licenziato le seconde bozze... Ho fatto così anche col Sangue dei vinti: l'ho tenuto lì come fosse il libro di un altro. Rileggendolo ora, quando l'editore mi ha chiesto di ripubblicarlo mi sono reso conto davvero di quanto sia gonfio di sangue, di esseri umani citati per nome e per cognome, di morti terribili. È per questo che ho accettato la ripubblicazione, penso possa avere un senso per i giovani, per chi aveva dieci anni quando è uscito la prima volta e ora ne ha venti... Credo possa raccontare molto anche a questa Italia di oggi cosa sia stato quel conflitto civile che è durato sino al '48. Perché io sono convinto che la guerra intestina sia finita con il 18 aprile del 1948 quando De Gasperi, vincendo le elezioni, mise il Paese su un binario di tranquillità».

All'uscita il libro provocò il finimondo. Se lo aspettava?

«No, si fece molto più "rumore" di quanto all'epoca potessi prevedere. Forse in un certo senso perché il mio libro dimostrava che era errato il principio secondo cui la Storia la fanno soltanto i vincitori. Quella dei vincitori è una storia bugiarda. Solo che questo era inaccettabile per molti, e in parte è inaccettabile ancora oggi. C'era e c'è chi pensa che i fascisti avessero un solo dovere: quello di stare zitti, senza nemmeno poter ricordare i propri morti. Ma soprattutto non scrivere. Ma io non volevo una storia di parte, a me interessavano i fatti, raccontare che l'Italia rischiò di diventare l'Ungheria del Mediterraneo».

E Lei arrivava da sinistra...

«Sì, io non mi chiamavo Giorgio Pisanò. Io di Pisanò ho sempre avuto grandissima stima: è stato un pioniere in questi studi. Ma Giorgio veniva delegittimato perché veniva dal mondo del fascismo... era chiaramente un intellettuale di destra».

Alla fine Il sangue dei vinti è diventato un ciclo. Lei è rimasto a lungo in questo filone.

«Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli...».

Ecco, allora partendo dal tuo titolo parliamo anche dei “gendarmi della memoria”. Nell'introduzione cita Sergio Luzzatto, che con Lei era stato molto duro, e ora a causa del suo Partigia è finito sotto il tiro incrociato di altri gendarmi...

«Già quando presentai I figli dell'Aquila a Genova Luzzatto mi sottopose a un assalto verbale non indifferente... Ora lui ha scritto Partigia. Io l'ho letto e per me non racconta una storia diversa da molte altre... Certo per uno come lui significa rimangiarsi un atteggiamento che prima non ha mai voluto cambiare. Mi ha dato anche atto di aver scritto i miei libri con rispetto della verità... Ovviamente, però, appena si è messo fuori dal giro dei "gendarmi della memoria", non gliel'hanno perdonata. Infatti cosa è accaduto? Sebbene in modo più soft di come fecero con me, gli sono andati tutti addosso. Ho letto le cose velenose scritte da Gad Lerner, che credo non abbia neppure aperto il saggio. Lo ha demolito senza pietà. Anche con Il sangue dei vinti iniziarono il fuoco di sbarramento sette-otto giorni prima di avere il libro a disposizione. Ne cito due per tutti: Giorgio Bocca e Sandro Curzi... Ma non è elegante far polemica con chi non c'è più. Qualcuno arrivò a dire che avevo scritto Il sangue dei vinti per compiacere Berlusconi che mi avrebbe poi ricompensato con la direzione del Corriere della Sera... Cose deliranti. Provocate da code di paglia chilometriche. Eppure i gendarmi sanno bene che queste cose sono accadute. Io ho ricevuto in dieci anni 20mila lettere che provano quei fatti».

Faccio l'avvocato del diavolo. Non hai mai pensato che le sue inchieste siano state sfruttate, a destra, anche politicamente?

«C'è una destra fatta di persone che hanno subìto per decenni il silenzio. Sono contentissimo di averli aiutati. Ma la destra politica non aveva molti mezzi culturali per sostenere queste battaglie. Già nella Prima Repubblica si diceva che la Dc pensava agli affari, mentre il Pci ai mezzi di propaganda culturale. Le cose non sono cambiate di molto. Io non sono mai stato invitato da Fabio Fazio, e sappiamo quanto questo possa contare per un libro. Ma in fondo questo è niente. Contiamo quante cattedre di Storia contemporanea sono affidate a docenti di sinistra... Ed è una materia fondamentale».

Quanti anni ci vorranno per arrivare a un giudizio equanime su questo periodo?

«Prima o poi succederà. La Storia è una talpa che scava, prima o poi esce fuori. La verità emergerà, ammesso che si abbia ancora interesse a cercarla».

La nostra storia. Illusi e disillusi dal fascismo nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, scrive Dino Messina su “Il Corriere della Sera”. Fascismo «autobiografia della nazione», come sostenne Piero Gobetti, oppure parentesi della storia italiana, come scrisse Benedetto Croce? Dopo aver letto il nuovo libro di Giampaolo Pansa “Eia eia alalà”, edito da Rizzoli (pagine 376, euro 19,90), abbiamo rafforzato la convinzione che avesse ragione Gobetti. Attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, Edoardo Magni, proprietario terriero tra il Monferrato e la Lomellina, Pansa racconta in forma di romanzo, in pagine ricche di fatti reali, di colpi di scena (e anche di sensualità), il dramma di un popolo all’indomani del primo conflitto mondiale. Un Paese, soprattutto al Nord, dilaniato dallo scontro tra le potenti organizzazioni sindacali, un Partito socialista massimalista, e una classe borghese timorosa che l’Italia potesse fare la fine della Russia bolscevica. In questa vicenda, come sa chi ha nozioni di storia (l’autore cita i classici di Renzo De Felice e di Emilio Gentile), ebbero un ruolo fondamentale i reduci della Grande guerra, gli ufficiali che avevano combattuto per più di tre anni e che si trovarono spaesati nella nuova Italia. Reduce è il protagonista immaginario del romanzo, così come lo erano tanti personaggi storici realmente vissuti. A cominciare da Cesare Forni, tenente d’artiglieria tra i primi ad aderire ai Fasci di combattimento, protagonista della reazione agraria, a capo dei manipoli che misero a ferro e fuoco Milano con gli assalti alla sede dell’«Avanti!» e a Palazzo Marino. Un ras locale che presto si mise in contrasto con il regime, al punto da subire un’aggressione davanti alla stazione di Milano dagli stessi sgherri di Mussolini (Amerigo Dumini, in primis) che sequestrarono e uccisero Giacomo Matteotti nel giugno 1924. Due terzi del libro di Pansa sono dedicati agli albori e all’avvento del fascismo, prima che diventasse regime. È la storia di un’illusione e di una rapida disillusione, almeno per i protagonisti messi a fuoco da un grande giornalista che si è saputo reinventare come scrittore, sia di libri importanti di storia (checché ne abbia scritto qualche accademico con la puzza al naso) come “Il sangue dei vinti”, in cui ha messo in luce il lato oscuro della Resistenza, sia di romanzi come questo. La forza di “Eia eia alalà” sta anche in una narrazione della storia del fascismo, o meglio della sua «controstoria», come recita il sottotitolo, da un punto di vista locale, quello delle terre attorno a Casale Monferrato dove Pansa è nato nel 1935 e a cui ha dedicato pagine importanti. Scontri sociali e intrighi politici sono raccontati in maniera del tutto originale: voce narrante, si diceva, è il latifondista Magni, finanziatore di Forni e sempre impegnato in avventure amorose. Le sue emancipate e spregiudicate amanti hanno il ruolo di fargli aprire gli occhi sulla reale natura del regime. Attorno al protagonista si muovono figure realmente vissute come il quadrumviro Cesare Maria Vecchi o i conti Cesare e Giulia Carminati. Uno dei quadretti più spassosi è l’incontro galante fra l’avvenente contessa Giulia e un Mussolini assetato di sesso. Il Duce viene ritratto nei momenti privati, ma anche nelle stanze del potere, circondato da carrieristi e affaristi di cui ha bisogno e che non lo contrastano quasi mai, anche nelle scelte più sciagurate. L’atto conclusivo dell’affresco disegnato da Pansa riguarda le leggi razziali. Davanti alla persecuzione degli ebrei, all’indifferenza degli italiani per la sorte di quei ragazzi che non potevano più frequentare le scuole, dei professori che non potevano più insegnare, dei professionisti cacciati dai loro studi, la disillusione del protagonista diventa totale. Edoardo, un fascista in buona fede, un pavido che non ha mai saputo reagire alle nefandezze del regime, assomiglia ai milioni di italiani che, anche per quieto vivere, applaudirono il Duce e che dopo vent’anni si accorsero del disastro.

Pansa: «Partiti in crisi, sembra l’Italia prima del fascismo», scrive Antonella Filippi su “Il Giornale di Sicilia”. Non serve neppure scavare troppo: le analogie tra l'Italia di oggi e quella del primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1922, vengono a galla con facilità. Estrema. Crisi economica, partiti inaffidabili come la casta di governanti litigiosi e inconcludenti, conflitti sociali. Deve essere un paese infrangibile il nostro, capace di resistere a tutto, se ancora, dopo quasi cent'anni, annaspa ma resiste. Nel suo ultimo libro Giampaolo Pansa, racconta quell'Italia cercando questa, contraddice teoremi, avanza ipotesi, ci consegna certezze. Sarà per questo che il suo “Eia Eia Alalà” (ed. Rizzoli), antico grido di vittoria adottato dallo squadrismo fascista, è già un best-seller. Una “controstoria del fascismo” nascosta in un romanzo. Pansa: «A un mese dall'uscita, delle 70 mila copie stampate è già stato venduto il 30%. Per aggirare la noia del saggio, ho usato l'escamotage del romanzo e ho cercato di rendere attraente la storia: Edoardo Magni è un personaggio di fantasia, un possidente terriero, prima sostenitore della rivoluzione fascista ma a poco a poco sempre più disincantato, fino a supportare il dissidente squadrista Cesare Forni che, invece, è realmente esistito. Tante incertezze quelle di Magni, accanto a una sfilza di amor che si chiamano Marietta, Rosa, Anna, Elvira. E Marianna: è lei ad aprirgli gli occhi sulle deportazioni degli ebrei ad Auschwitz». Questo paese e i suoi abitanti resistono a tutto, impermeabili a governi e crisi… «L'Italia è stata in grandissima parte attratta dal fascismo: tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Tutti hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943. Dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva un potere assoluto: il 99% degli italiani era fascista, sbaglia chi sostiene che l'Italia non voleva la dittatura. Il Duce ha commesso errori imperdonabili, avallando le leggi razziali, alleandosi con Hitler ed entrando in guerra: se non lo avesse fatto sarebbe morto nel suo letto, e non a gambe per aria, accanto alla Petacci. Come il generale Franco che tenne la Spagna fuori dalla guerra».

Lei viene accusato di revisionismo…

«E ne sono felice, anzi vorrei esserlo ancora di più. L'accusa viene da vecchi accademici di sinistra, a fronte di un dato incontestabile: in una guerra civile ci sono due antagonisti, uno nero e uno rosso, e i caduti si trovano da entrambe le parti, non solo da quella rossa. Il mio libro “Il sangue dei vinti” ha venduto un milione di copie, e ancora la gente mi fa i complimenti per quello sguardo differente sulla guerra e i suoi morti. Essere un revisionista per me è un vanto: la storia non si può tenere sottovetro, vengono fuori nuovi archivi, si chiariscono dei misteri, emergono personaggi ritenuti secondari».

Cosa ha in comune l'Italia odierna con quella che preparò la dittatura?

«Il nostro era un paese povero, fatto di un'economia agraria. L'Italia di allora, come quella di oggi, era stremata da una crisi economica forte, scoppiata subito dopo la fine di una guerra durata tre anni, che aveva fatto un gran numero di vittime e che aveva cambiato profondamente la società italiana. Allora, come oggi, il sistema dei partiti era screditato. Ed era esploso quello che ora è latente, cioè il conflitto tra ceti. Queste simmetrie mi hanno colpito».

Quella sua convinzione che «il nero nasce dal rosso» è la risposta alla domanda: chi, dopo il mattatoio delle trincee, ha fatto nascere il fascismo?

«Dimostro che il padre del fascismo è il sinistrismo parolaio, quello degli slogan, quello violento che non poteva non sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, primo atto verso una dittatura lunga vent'anni. Lo sciopero agrario del 1920 paralizzò le campagne. Esercitando uno strapotere dispotico, le leghe rosse arrivarono a impedire la mungitura, a timbrare le mani dei bovari, minacciando di far morire le mucche. Esplose l'odio di classe: concime che farà spuntare la pianta dello squadrismo. La sinistra si è uccisa da sola, non potevano non aspettarsi una reazione della borghesia agraria».

La nostra è una democrazia debole.

«Si sta costruendo una situazione istituzionale anomala, con un partito unico, senza opposizione: così la democrazia va in tilt. La democrazia, come la giustizia, si regge se i due piatti della bilancia sono in equilibrio o si alternano. Renzi egemonizza, procede a colpi di annunci, promesse mai realizzate, spese per cui non ci sono i fondi. L'Italia è ammalata, è come una persona che rischia una grave crisi, anche se non è esattamente in coma».

Potrebbe allora ri-presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini?

«Il rischio non è immediato ma c'è: con gli errori che sta commettendo, la sinistra potrebbe rendersi complice della nascita di una nuova dittatura».

L'innamoramento di Berlusconi per Renzi cosa nasconde?

«Servirebbe uno psicanalista per capirci qualcosa. Berlusconi ha la sua veneranda età: io ho solo un anno più di lui ma non ho la pretesa di dirigere un partito, preferisco stare a casa, scrivere, leggere, guardare il calcio in tv. Berlusconi ha un partito che mia nonna Caterina definirebbe “ai piedi di Cristo”, cioè spappolato, in grande difficoltà: se pensa che Renzi possa essere il suo figlioccio, sbaglia di grosso. Lui ha 78 anni, il premier 39, c'è un abisso di energie, forze. E Renzi se ne frega, cerca di utilizzare Berlusconi come stampella. L'unico punto misterioso è il rapporto di entrambi con Denis Verdini, da dove derivi a Verdini tutto questo potere, non è mai stato scandagliato, raccontato. Per capire se si muove per Berlusconi, come credo possibile, o per Renzi, come qualcuno sospetta».

Vivere è anche conservare i propri ricordi: lei ne mette tanti nel libro

«Io sono stato un orgoglioso figlio della Lupa e, solo per pochi mesi, non sono riuscito a diventare un balilla, come succedeva in terza elementare. In questo libro c'è molto della zona in cui ho vissuto, quella padana, tra Piemonte e Lombardia, ci sono i racconti delle donne che avevo accanto. Mia madre aveva un negozio, una modisteria, sulla via principale di Casale, guadagnava più di mio padre che era un capo operaio delle Poste. Io facevo i compiti in negozio e ascoltavo le chiacchiere con le clienti pettegole: quei discorsi mi tornano sempre alla memoria quando scrivo un libro. Ricordo i ponti bombardati di Casale e la mamma che, per alleggerire la tensione, diceva: “Oggi non si può morire perché dobbiamo mangiare le frittelle”. I bombardamenti sono stati a lungo tra i miei incubi».

Tasselli di verità: piccoli spiragli di luce sugli ultimi giorni di Mussolini. Da Pisanò a Pansa, i tentativi di raccontare la storia senza pregiudizi: ma la nebbia è ancora fitta, scrive Emma Moriconi su “Il Giornale d’Italia”. Ci sono vicende della storia che restano, seppure dopo molto tempo, avvolte dal mistero. Una nebbia fitta che sembra non si possa riuscire a dipanare in nessun modo. Poi, qualche volta, affiora qua e là qualche momento di luce: ma si tratta di piccoli varchi nell’oscurità. La verità, la luce piena, forse non arriverà mai. Nel corso di questi lunghi mesi abbiamo tentato di eviscerare molti aspetti delle vicende patrie che non hanno, nel tempo, trovato la giusta collocazione o che, quando sono stati chiariti ed è riuscita ad emergere la verità, si è cercato di inscatolare a dovere affinché non avessero la giusta risonanza. L’editoria, sia scolastica che non, viaggia a compartimenti stagni: è quasi impossibile reperire certi testi, per esempio. Ce ne accorgiamo quando andiamo alla loro ricerca e ci rendiamo conto che spesso si deve sapere con una certa sicurezza cosa si sta cercando, e nemmeno così è facile trovarli. In compenso, gli scaffali sono pieni di altra roba, quella si che è facile da reperire …Per sollevare un po’ di polverone sui temi scottanti della nostra storia è dovuto arrivare Giampaolo Pansa: il suo egregio lavoro di ricomposizione delle sorti di questo popolo è diventato in breve un varco nel muro del silenzio e della menzogna. Lo ha potuto fare, lui, che nasce di sinistra. Si, perché prima di lui c’è stato un altro giornalista-scrittore che ne ha dette e ne ha scritte di ogni sorta, ma i suoi volumi sono un po’ più difficili da trovare e da diffondere: si chiamava Giorgio Pisanò, ma era un fascista. E, siccome quando a scrivere è un fascista, si può serenamente far finta di nulla, quasi come se non esistesse, se a scrivere è invece uno che nasce e cresce a sinistra e ad un certo punto della sua vita decide di aprire la sua mente e di guardare oltre gli steccati imposti da decenni di demagogia, quello diventa il “nemico” da colpire, il bersaglio perfetto. Pansa non se ne cura, naturalmente, e continua nel suo lavoro di analisi di un’epoca la cui immagine storica esce distorta rispetto alla realtà: il suo recente “Eja Eja Alalà” sarà presto oggetto di un approfondimento su queste pagine. Raccontare la storia, insomma, “da fascista” è difficile, perché c’è questa tendenza diffusa ad ignorare questo tipo di voce, anche quando vengono raccontate verità eclatanti. Quando invece a parlare di “verità nascoste” sono personaggi appartenenti alla “sinistra”, essi vengono attaccati, additati, apostrofati in ogni modo, ma di certo sulle loro parole non cala il silenzio: di questi si deve per forza parlare, e meno male. La scorsa estate il quotidiano Il Giornale ha pubblicato una serie di articoli a firma di Roberto Festorazzi che fanno il punto su alcune novità emerse da documenti e testimonianze recenti: il tema è, ancora una volta, gli ultimi giorni di Mussolini e la sorte delle carte che il Duce portava con sé. Anche su questo spicchio di storia aleggia un alone di mistero, e la ragione è del tutto evidente: tutto ciò che poteva chiarire certi aspetti, e che poteva in qualche modo “riabilitare” la figura di Mussolini e del Fascismo andava fatto sparire. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) della morte del Duce, delle ore che precedettero quell’evento, di chi orbitava intorno a lui in quei giorni e dei tanti stravolgimenti operati contro la verità di quelle ore. Un argomento sul quale torneremo a tempo debito, facendo un passo alla volta nel tentativo di ricostruire quegli strani meccanismi che andarono ad incastrarsi in quei giorni di primavera del 1945. Eppure le due vicende – la morte di Mussolini e le borse scomparse – sono indissolubilmente legate. Questa premessa è necessaria per il lavoro che ci attende nei prossimi giorni, durante i quali riepilogheremo ai nostri lettori le informazioni di cui Festorazzi è venuto in possesso. Incontreremo, nel piccolo speciale che seguirà, una serie di personaggi che, a vario titolo, sono stati attori di quel dramma: parleremo del famoso carteggio Mussolini – Churchill, dei documenti relativi alla famiglia Savoia, di misteriosi “viaggi” e di carte scomparse. Si tratta di un piccolo tassello che va a comporre l’intricato puzzle di quei giorni, un mosaico che, però, probabilmente resterà incompiuto.

“Il segreto di Italia”? Niente recensioni, è un film fascista, scrive  “L’Ultima Ribattuta”. Non sarà un capolavoro destinato all’Oscar. Ma certamente è un film di grande sentimento che squarcia, anche sul grande schermo, quelle malefatte della Resistenza che fino ad oggi erano rimaste confinate solo nei libri dei “fascisti” e di Giampaolo Pansa. Fino a poco tempo fa, quando tornavano d’attualità le stragi e i massacri compiuti dai partigiani dopo la fine della guerra, si scatenava puntualmente la bagarre: gli intellettuali antifascisti si facevano intervistare, uno dopo l’altro, nel tentativo di demonizzare chi aveva osato dissacrare la Resistenza. “Bella ciao” non poteva in alcun modo essere contraddetta. Perfino un giornalista di sinistra, ma onesto e perbene come Pansa, appunto, ha conosciuto linciaggi mediatici di ogni tipo e il boicottaggio dei suoi libri di denuncia. I vecchi e i nuovi sostenitori dell’ANPI sono arrivati ad impedirgli anche la presentazione dei volumi in varie librerie d’Italia. Non si poteva parlare neppure di guerra civile (come aveva fatto lo storico di sinistra Claudio Pavone), ma solo della “gloriosa lotta di Liberazione”. Ora che questa messa in scena non regge più e anche le nuove generazioni hanno imparato a distinguere e separare il grano dal loglio in tema di Resistenza, la tecnica è cambiata. Meglio rifugiarsi nel silenzio, nell’indifferenza. Così “Il segreto di Italia”, del coraggioso regista Antonello Belluco, non ha potuto usufruire di recensioni da parte di quasi tutti i media: giornali, televisioni (anche se “Porta a Porta” e “Sky Tg 24″ hanno accennato ai buoni contenuti del film) e radio. E nemmeno i cinema, eccezion fatta per il “Fiamma”, hanno voluto proiettare la pellicola. Soltanto qualche trafiletto qua e là, un po’ di interviste a Romina Power (unica attrice nota del cast) e poco altro. Lo stesso “Corriere della Sera” ha relegato la recensione nelle pagine locali della costola “Corriere del Veneto”. Meglio non urtare la suscettibilità dei militanti antifascisti ancora in servizio permanente effettivo. Eppure, le stragi di Codevigo (al confine delle province di Padova e Ravenna), compiute nel maggio del 1945, hanno visto le esecuzioni di centinaia di vittime, anche solo colpevoli di avere avuto simpatie fasciste. Non venne celebrato alcun processo. Uomini, donne e bambini vennero fucilati dai partigiani della “Brigata Garbaldi” sulle sponde del fiume Brenta. Soltanto 110 i corpi ritrovati, ma 365 i dispersi. Persone non “soltanto” uccise. Su alcune donne ci furono accanimenti. Seviziate, violentate e trucidate. Sono stati tanti i tentativi di boicottaggio della pellicola. Ma alla fine, almeno per una volta a prezzo di grandi sacrifici per riuscire a produrla, la verità ha avuto la meglio sul silenzio e la censura. E il film merita di essere visto.

Romina e i partigiani cattivi. Domani all’Adriano il film e il dibattito sulla strage Sul palco l’attrice americana e il regista Belluco, scrive Dina D’Isa su “Il Tempo”. Uno degli episodi più gravi tra quelli avvenuti nell’Italia nordorientale nei giorni a cavallo della resa incondizionata in Italia delle forze tedesche e fasciste repubblicane, effettiva dal 3 maggio 1945, diventa ora un film. La storia dell’eccidio di Codevigo, avvenuto tra il 28 aprile 1945 e la metà di giugno dello stesso anno, fu l’esecuzione sommaria di un numero compreso tra 114 e 136 tra militi fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), delle Brigate Nere (BN) e civili: questo il tema del film «Il segreto d’Italia» di Antonello Belluco con Romina Power (da giovedì nei cinema) che domani sera sarà all’anteprima del film (al cinema Adriano di Roma) preceduto da un dibattito nel quale sarà presente, oltre al regista, un testimone sopravvissuto a quella strage. La lavorazione del film ha subito diversi arresti: raccontare un crimine partigiano non è stato certo facile, considerando che i partigiani sono considerati sempre eroi. Ma stavolta, dopo 70 anni, la storia, le verità occultate per anni verranno a galla, anche grazie a questa pellicola di Belluco, con il soggetto scritto da Gerardo Fontana, ex sindaco di Covedigo a cui il film è dedicato dopo la sua scomparsa durante le riprese. Romina Power trasporta il pubblico indietro nel tempo, nell’Italia della guerra civile per ricordare la sua storia d’amore sullo sfondo dell’eccidio: lei a 15 anni (interpretata dall’esordiente Gloria Rizzato) era innanorata di un diciottenne, Farinacci Fontana (interpretato da Alberto Vetri), che realmente è stato una delle vittime della strage. «Il segreto di Italia», il nome della protagonista, affonda le radici in un avvenimento del suo lontano passato che, per tutta la vita, le aveva impedito di tornare nel luogo dove è nata. Ma, dopo 55 anni dagli Stati Uniti arriva a Covedigo per il matrimonio della nipote e dovrà per forza fare i conti con i suoi ricordi. «Il mio personaggio si chiama Italia - ha anticipato la Power - Una donna che ha il coraggio di affrontare i fantasmi del passato e di tornare a 70 anni nel suo paese. È stato molto emozionante rievocare questa persona che ha una ferita nell’anima, se la porta dietro dall’età di 15 anni. Dopo 7 anni (dal 2007) sono tornata al cinema perché mi è stato finalmente offerto un film interessante, commovente, profondo, trattato con delicatezza, un ruolo entusiasmante, un copione poetico anche se tragico. La verità non dovrebbe mai essere polemica, è giusto che in ogni Paese vengano fuori le verità nascoste, prima o poi la verità viene a galla, non si può nascondere ed è giusto che la gente sappia. Anche negli Stati Uniti ci sono tanti segreti nascosti che stanno venendo fuori». All’epoca, la Magistratura di Padova trattò la vicenda in numerosi procedimenti dal 1945 al 1950 e poi dal 1961-62 sulla base d’indagini condotte fin dall’inizio dalla polizia Alleata e dai Carabinieri. Furono giudicati anche quattro partigiani della 28ª Brigata Garibaldi, tutti e quattro furono assolti. I Comandi della 28ª e del "Cremona" non furono mai soggetti di procedimenti penali poiché i fatti si svolsero al di fuori e contro gli ordini da loro emanati e a loro insaputa. Alcune fonti sostengono che all’eccidio avvenuto in varie località in prossimità di Codevigo, parteciparono elementi provenienti dalle formazioni partigiane locali e militari inquadrati nel gruppo di combattimento "Cremona", unità dell’esercito italiano alle dipendenze dell’VIII armata Britannica, sotto il cui comando era anche la 28ª Brigata Garibaldi "Mario Gordini", comandata da Arrigo Boldrini, detto Bulow, che divenne segretario nazionale dell’ANPI, poi presidente onorario e, nel dopoguerra, deputato e senatore per il PCI. Ci furono 136 vittime totali, non tutte identificate (ne furono identificate con certezza 114, ma furono probabilmente oltre trecento), trucidate per vendetta, previo giudizio sommario, morte in scontri a fuoco tra cui vittime seviziate. I corpi vennero abbandonati nelle acque, sepolti in fosse comuni, lasciati nei campi: di questi, molti scomparvero. E ora riposano nell’Ossario del cimitero di Codevigo, aperto nel 1962. Gianfranco Stella, autore - tra gi altri - di «Ravennati contro» e di «Crimini partigiani» ricordò che «i testimoni oculari raccontavano come per liberare il fiume Bacchiglione dai cadaveri avessero usato mine anticarro». Mentre Giampaolo Pansa nel suo libro «Il sangue dei vinti» rievoca la maestra del paese, Corinna Doardo, «una fascista non fanatica, piuttosto un’ingenua», che fu rapata a zero e costretta a camminare per le vie del centro con una coroncina di fiori in testa prima di venire uccisa: di lei il medico poté accertare che solo un orecchio era rimasto intatto. Atroce anche il caso di Mario Bubola, figlio del podestà fascista di Codevigo, torturato: la lingua tagliata e infilata nel taschino della giacca, poi evirato dei testicoli che gli furono messi in bocca.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: "Vi racconto la mia Casale uccisa al rallentatore". L'Eternit una fabbrica della morte? Per chi ha vissuto e vive lo strazio dei poveri cristiani uccisi dall'amianto, è molto, molto di più. E'un inferno che dura da tantissimi anni. Dapprima senza che nessuno se ne accorgesse, poi nell'impotenza di fermare in qualche modo un demonio che finora è stato capace di accoppare duemila persone o giù di lì. Una strage da film catastrofico in una città che non ha mai superato i quaranta mila abitanti. Ma soltanto chi è nato a Casale Monferrato, la sede centrale dell'Eternit, può sentire dentro di sé tutto l'orrore di questo assassinio al rallentatore, impossibile da contrastare. Nel passaggio fra l'Ottocento e il Novecento, i poveri del Monferrato avevano tre possibilità. La prima era di lavorare nelle cave di marna. Lo facevano in condizioni bestiali, consumando la vita sottoterra, senza protezione, rischiando di morire bruciati dallo scoppio del grisou o soffocati sotto una delle tante gallerie franate. Le paghe erano misere e la fatica immensa. I cavatori rientravano a casa di notte, nei paesi del Monferrato, disfatti, terrei, senza altro orizzonte che scendere di nuovo nel buio dopo poche ore. "I sepolti vivi" li aveva chiamati nel 1913 La Fiaccola, il settimanale socialista della città. La seconda occasione di lavoro arrivò dallo sfruttamento delle ottime marne calcaree, portate alla luce dai cavatori. Era la materia prima della calce e del cemento. E regalò alla città il boom dei cementifici. All'inizio del 1900 queste fabbriche erano più di cento. Vista dall'alto della salita di Sant'Anna, un eremo frequentato da morosi in camporella e da amanti clandestini, Casale offriva un profilo infernale. Quello di una sterminata batteria di ciminiere, affilate come missili. Cento bocche di fuoco sparavano un fumo sempre più denso e acre. I tetti delle case diventavano bianchi per la polvere. Nella calura estiva l'aria si faceva irrespirabile. E gli anziani stavano sempre sul punto di morire asfissiati. Nel 1906 emerse una terza possibilità per i poveri della mia città. Un pugno di imprenditori genovesi, "i maledetti" come ringhiava mia nonna Caterina, impiantarono a Casale una fabbrica all'avanguardia. Produceva tegole piane fatte di cemento e di amianto, grazie al brevetto di un austriaco. L'invenzione venne chiamata Eternit poiché garantiva una durata eterna del prodotto. Non era una bufala dal momento che siamo ancora circondati da quella robaccia vecchia di un secolo. Dalle tegole si passò alle lastre ondulate. Poi ai tubi per gli acquedotti e le fognature. E lo sviluppo dell'azienda fu trionfale. L'Eternit arrivò ad occupare 2.400 persone, ma quelle che ci sono passate pare siano state quasi cinquemila. Fu la nostra Fiat. Lavorarci era un privilegio. Anche perché le paghe erano un tantino più alte che in altre aziende. I padri chiedevano alla figlie in età da marito: "Dove lavora questo tuo moroso?". "All'Eternit" rispondeva la ragazza, orgogliosa. "Allora sposalo" concludeva il papà. E spiegava alla moglie: "Il certificato di matrimonio avrà il valore di una polizza a vita". Andò a lavorare all'Eternit anche il fratello più giovane di mio padre, l'ultimo di sei bambini orfani. Francesco Pansa, classe 1901, a quindici anni diventò operaio nella fabbrica dell'amianto. Poi divenne un addetto al montaggio dei grandi tubi, soprattutto in Bassa Italia. Era un ragazzo attivo ed estroso. Ad un certo punto ne ebbe abbastanza dell'Eternit ed emigrò in Argentina. Di lì scriveva a sua madre Caterina che le donne di Buenos Aires erano tutte belle e compiacenti. Però Caterina era analfabeta e doveva farsi leggere le lettere da una delle figlie che saltava sempre le righe dedicate agli amorazzi. Dopo due anni di Argentina, Francesco Pansa ritornò a Casale, sempre nella fabbrica della morte. Da quell'inferno lo tirò fuori la fidanzata, Giuseppina detta Pinota. Era la dodicesima figlia di un pescatore del Po. E aveva una sola dote: la licenza per aprire un'osteria. Nel frattempo Francesco era diventato comunista, il capo della cellula di Porta Po. Quando morì non risulta che sia stato ucciso dall'amianto. Ma il veleno nascosto nell'Eternit seguitava a infettare la città. Da ragazzino me li ricordo anch'io i camion gialli carichi dei tubi e delle coperture ondulate. Li trasportavano dallo stabilimento alla stazione ferroviaria. Viaggiavano attraverso la città senza nessuna protezione, neppure un telone che coprisse il carico. Soprattutto nei mesi caldi gli autocarri procedevano dentro una nube di polvere. Era la schifezza ambulante che tutti respiravamo, senza renderci conto del rischio che si correva. Andò avanti così per molti anni. Passavano i regimi politici. Dal socialismo municipale al fascismo, poi alla Repubblica sociale, quindi si tornava alla democrazia, ossia alla Dc di De Gasperi e al Pci di Togliatti. Soltanto l'Eternit sopravviveva, potente e impenitente. Era la padrona della città. Un esempio del capitalismo senza regole che diventa dittatura. Il mostro chiuse i battenti nel 1986, per fallimento. Si estendeva su 94 mila metri quadrati, metà dei quali coperti con quel prodotto assassino. Era una bomba nucleare sul fianco destro del Po. In seguito si scoprì che la lavorazione dell'amianto aveva creato una nuova spiaggia lungo il fiume. Aveva un colore innaturale, bianco brillante. Un grande velo da sposa che nascondeva un numero spaventoso di cadaveri. Ho detto che l'Eternit ha ammazzato a Casale all'incirca duemila persone. Di queste, duecentocinquanta o trecento erano uomini e donne che non avevano mai messo piede nella fabbrica. Spesso abitavano in quartieri lontani. E facevano altri lavori. Si ritenevano al sicuro, ma si sbagliavano. Il mesotelioma ha ucciso pure chi aveva lasciato la città da giovane, senza più ritornarci. Tra questi c'è anche un giornalista che voglio ricordare: Marco Giorcelli, il direttore del bisettimanale cittadino Il Monferrato. Era l'opposto del capociurma impassibile e cinico. Un uomo cortese, riservato, ma tenace. Sempre in prima fila nella battaglia contro l'Eternit. Aveva pubblicato anche l'elenco di tutte le vittime dell'Eternit, una sterminata Spoon River dell'amianto. In quella lista mancava un nome: il suo. Lui morì ucciso a 51 anni dal mesotelioma, dopo una lunga e crudele agonia vissuta con grande dignità. Il ricordo di Marco mi obbliga a un pensiero sul mio conto. Sono nato a Casale nel 1935 e ho vissuto lì sino al 1960, quando mi sono trasferito a Torino per lavorare alla Stampa. Dunque ho respirato amianto per venticinque anni. Grazie al Padreterno sono ancora qui a scrivere. Sento dire che l'effetto Eternit può presentarsi anche dopo tantissimo tempo. La provano i miei concittadini che seguitano a morire. Certo, sono un sopravvissuto. Ma per quanto tempo ancora?

Guerra civile? Siamo ad un passo, come nel primo dopoguerra..., scrive Aldo Grandi su “La Gazzetta di Lucca”. Ha ragione Giampaolo Pansa, grande scrittore, grande giornalista, amato a sinistra fino a quando scriveva ciò che faceva loro piacere, odiato e ritenuto rincoglionito quando ha cominciato ad aprire gli armadi di un partito, quello comunista, che, al di là di indubbi meriti, ha avuto anche la colpa di nascondere volutamente tante di quelle nefandezze che Dio solo lo sa e, forse, neppure lui. La situazione politica attuale ricorda molto da vicino il primo dopoguerra, poco prima dell'avvento del cosiddetto biennio rosso e della reazione di agrari e industriali che determinò l'avvento del fascismo. Da un lato la piccola borghesia, unitamente alla media e alla grande - ammesso che esistano ancora da qualche parte - assediati e timorosi di perdere tutto ciò che avevano foss'anche quel poco che era loro rimasto. Dall'altro le classi subalterne, operaia in testa, ritornati dalla guerra con un pugno di mosche in mano, abbandonati nelle loro illusioni e delusi dalle promesse mancate. Ebbene, tutti sanno come andò a finire. Oggi, a distanza di un secolo, la situazione non è cambiata di molto. E' vero, non c'è stata una guerra e questa, probabilmente, è una fortuna altrimenti chissà quanti avrebbero già imbracciato il fucile. Tuttavia c'è una classe che potremmo definire eterogenea, ma composta di elementi produttivi che vanno dall'operaio - inconsapevole e strumentalizzato dai sindacati - dell'industria privata al commerciante, dal libero professionista all'imprenditore, dall'artigiano al coltivatore diretto. Tutti questi soggetti contribuiscono al mantenimento dell'altra parte, quella composta dal pubblico impiego, che produce poco o nulla e rappresenta la zavorra che appesantisce lo Stato. Dispiace doverlo rimarcare, ma la realtà, al di là delle distinzioni necessarie, è questa. Il pubblico impiego, nella stragrande maggioranza, è parassita ossia vive a spese dell'organismo produttivo di ricchezza. Se, poi, qualcuno aggiunge che - vedi scandali romani - il privato corrompe il pubblico che a sua volta ricompensa il privato, ha ragione da vendere, ma questa, purtroppo, è la cruda verità alla quale dobbiamo guardare senza indulgenza e senza indugio. Da un lato, quindi, chi paga tasse e imposte guadagnandosi il reddito senza avere alcuna garanzia di averlo ogni 27 del mese, dall'altro chi, tranquillo e rilassato, il 27 del mese si infila in tasca, venga giù anche il diluvio universale, il suo bello stipendio. Operai che vengono licenziati dall'industria privata costretti a farsi difendere da sindacati che appoggiano anche le pretese del pubblico impiego il cui deficit e il cui buco enorme sono all'origine del licenziamento e del fallimento dell'economia italiana rispetto a quella degli altri paesi. Una tassazione al 56 per cento, imposte anche su quante volte uno va sulla tazza del cesso, un assessore, a Lucca, tale Raspini, figlio di un notaio e, probabilmente e presumibilmente senza problemi di natura economica, ex dipendente del ministero dell'Interno, pare in aspettativa per fare l'assessore - il sindaco Tambellini, dicono le malelingue, deve aver ringraziato il papà notaio che gli mise, in campagna elettorale e pare senza spendere alcunché, i locali per la sede del comitato elettorale - il quale sostiene che le tasse vanno pagate e che si tratta di un dovere. E chi lo ha mai messo in dubbio? Ma quali sarebbero i servizi che la sua giunta di bradipi, né più né meno di quelle che l'hanno preceduta, danno in cambio? Che servizio è quello che a S. Alessio, terra natìa dell'agricoltore Tambellini, impedisce a chiunque voglia usare il telefono cellulare, di poterlo fare solo perché il primo cittadino predilige e preferisce, per mandare messaggi e fare opera di comunicazione, il piccione viaggiatore? Troppo semplice, caro Raspini, installare un'antenna? La gente protesta perché ha i villoni e non vuole fastidi? Allora venite a metterla dentro casa del sottoscritto l'antenna, nel suo giardinetto, ma almeno tutti potranno usufruire di un servizio che, in altre città, è una ovvietà. Ma il Raspini, che quando incontra il sottoscritto fa finta di non vederlo per non doverlo salutare - e fa bene - sa cosa vuol dire alzarsi la mattina e non sapere se, a fine mese, hai i soldi non solo per mangiare, ma per mantenere questa classe di parassiti che frequenta il pubblico impiego? Ha soltanto lontanamente idea di cosa significhi giocare tutto su se stessi senza avere lo stipendio garantito? Sa quale senso di frustrazione colpisce ciascuno di noi quando, incassando 100, sa che almeno 60 finisce nelle casse di uno Stato non solo vorace, ma rapace? E noi dovremmo avere il senso dello Stato? Ma di quale Stato? Quello di Andreotti, di Craxi, di Forlani, del Caf di una volta o del Pci e di Berlusconi che anche loro tutto hanno preteso e molto hanno mangiato? Quello di San Matteo che lascia entrare 150 mila clandestini una piccola parte dei quali gira per le strade di Lucca chiedendo l'elemosina? E' questo il vostro esempio di solidarietà e progresso? E avete il coraggio di sparare merda su Grillo: l'unico che, almeno, quando parla e fa un comizio vale il prezzo del biglietto. Chi scrive, caro Raspini, si augura che, finalmente, prima o poi, presto o tardi, il sistema esploda anzi, imploda su se stesso e che saltino tutte le contrattazioni sindacali, saltino i diritti acquisiti che di acquisito non hanno un cazzo per il semplice motivo che la vita non è una condizione di staticità, ma di movimento permanente, che i mediocri e i parassiti vengano assegnati ai ruoli che competono loro, che il lavoro sia, veramente, fonte di soddisfazione, ma anche prodotto di meriti e non soltanto una pretesa. Défault? Magari. Bancarotta? Speriamo. Rimettiamoci tutti in gioco, salvo chi, veramente, è più debole, ma tutti gli altri, i falsi, gli ipocriti, i ladri, i truffatori, i millantatori, mettiamoli, metaforicamente, al muro e, poi, lasciamoceli per un bel po'. Vedrete che anche loro, quando si accorgeranno di essere rimasti indietro, inizieranno a correre.

Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quntunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata.

Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti.

L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica.

Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.

Il racconto di Giampaolo Pansa: "Così muore una spia fascista".

L'anticipazione di "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti". Il nuovo racconto dell'orrore che distrugge la leggenda della superiorità morale dei partigiani. E "Il sangue dei vinti" divenne una pioggia rossa. Le anticipazioni del libro di Pansa nel racconto dell'amore impossibile di Anna, iscritta al Pfr, che sfuggì ai camerati per finire in mano ai comunisti. Per gentile concessione dell’editore, su “Libero” pubblichiamo l’introduzione del nuovo libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pp. 446). Pansa torna ad occuparsi della guerra civile italiana, e lo fa smontando la leggenda rossa per cui i partigiani sono sempre stati considerati moralmente superiori rispetto ai militi della Repubblica sociale. Questo libro, bello e coraggioso, arriva quasi dieci anni dopo Il sangue dei vinti, l’opera con cui il grande giornalista ha incominciato il suo viaggio tra le verità nascoste del periodo storico seguito alla caduta del regime fascista. Quel volume, divenuto un bestseller, attirò a Pansa critiche pesanti e attacchi feroci. Ora La guerra sporca completa il suo appassionato racconto, a metà tra l’inchiesta e il romanzo.

"Questo libro va contro una leggenda che resiste inalterata da un’infinità di anni. La leggenda sostiene che esistano guerre sporche e guerre pulite. La mia opinione è diversa: tutti i conflitti armati sono sporchi delle vite sottratte a chi vi partecipa o ne rimane coinvolto. In ogni caso, su entrambe le parti in lotta cade sempre una pioggia rossa: una pioggia di sangue. Da dove mi arriva questa immagine? Anni fa avevo scritto un libro su un personaggio quasi sconosciuto: il sardo Andrea Scano, un partigiano comunista espatriato di nascosto in Jugoslavia dopo la conclusione della guerra civile. Era ricercato dai carabinieri perché raccoglieva armi e munizioni in vista di una rivoluzione proletaria.

Dopo essere vissuto da latitante a Fiume, ormai diventata una città jugoslava, era finito nel gulag più orrendo del maresciallo Tito, quello creato a Goli Otok, l’Isola Calva. E qui era rimasto per tre anni, torturato da una sequenza infinita di orrori". Inizia così l'introduzione di Pansa de La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti, il racconto degli orrori della guerra civile in cui la celebre firma del giornalismo italiano smonta la leggenda della superiorità morale dei partigiani. L'intera, lunga e appassionante introduzione potete leggerla sul quotidiano in edicola oggi, domenica 7 ottobre.

Noi, intanto, vi proponiamo ampi stralci del prologo del libro, ampi stralci di uno dei racconti, dal titolo La fascista e il partigiano, in cui Pansa racconta come muore una spia fascista di Giampaolo Pansa.

Anna C. era la ragazza fascista. Una maestra elementare di 22 anni, alta, bionda, occhi azzurri, con un viso da madonna e dal contegno riservato. Il suo corpo, invece, era da schianto. Aveva un seno prorompente, fianchi ben torniti, gambe muscolose, caviglie sottili. Assomigliava alle donne di un disegnatore alla moda, Gino Boccasile: le signorine Grandi Firme. Nel volto da ragazza perbene spiccava una bocca sensuale, le labbra perfette, con un contorno accentuato dal rossetto. A renderla ancora più attraente era la castità. Molti non ci credevano, ma Anna era illibata, pudica e senza malizia. La famiglia veniva ritenuta tra le più religiose della città. Il padre dirigeva l’anagrafe comunale. La madre insegnava matematica al liceo scientifico. Tutte le domeniche andavano alla messa grande in Duomo, quella delle undici, celebrata dal vescovo.

(...) Quando ebbe inizio la guerra civile, Anna volle subito iscriversi al Partito fascista repubblicano. I genitori cercarono di dissuaderla.

Era la loro unica figlia e volevano preservarla dalla tempesta che sentivano imminente. Ma i tentativi dei famigliari fallirono. Anna era una fascista convinta. E spiegò ai suoi che aveva il dovere di stare a fianco dei camerati che difendevano la patria dagli inglesi, dagli americani, dai sovietici e dai ribelli comunisti al soldo di Mosca. In quel momento, era il novembre 1943, non esisteva ancora il corpo delle Ausiliarie. Ma il segretario del fascio cittadino accolse Anna a braccia aperte. Era un commerciante sui cinquant’anni, già squadrista, rimasto sempre fedele a Mussolini. Non aveva mai messo in mostra fanatismi né eccessi violenti. E si era mantenuto così pure in un’epoca dove la voglia di uccidere l’avversario sembrava diventata la prima fra le virtù. La ragazza continuò a insegnare alle elementari e cominciò a passare il tempo libero nella sede del Pfr. Qui pensarono di utilizzarla nell’assistenza ai militari che avevano aderito alla repubblica. E nelle opere di beneficenza del partito, come la Befana fascista e l’aiuto alle famiglie bisognose.

Tra i suoi incarichi ci fu anche quello di visitare ogni settimana il carcere giudiziario della città. Era una prigione piccola, a pochi passi dal centro, sul limite dei vasti giardini pubblici. Vi stavano rinchiusi delinquenti di mezza tacca. Ladri, ricettatori, borsaneristi pizzicati mentre trafficavano. Insieme a loro, si trovavano quattro o cinque detenuti politici. Erano partigiani o renitenti alla leva, catturati dalla Guardia nazionale repubblicana. Avevano la sorte segnata: prima o poi li avrebbero deportati in Germania. E si sapeva quale destino avrebbero incontrato. Anna andò a visitare anche loro. Ma si rese subito conto che la sua presenza non era per niente gradita. Veniva accolta in malo modo, con insulti e risate di scherno. Non mancavano mai le proposte indecenti e i gesti volgari. La ragazza faceva di tutto per non eccitarli. Indossava grembiuloni grigi, senza forma. Però neppure questo era servito.

Soltanto uno dei detenuti politici la ricevette in modo diverso. Era un partigiano piccolino, magro, con l’aspetto dell’adolescente, anche se spiegò ad Anna di avere 21 anni. Il suo stato spaventò la ragazza. Durante o dopo la cattura, l’avevano pestato senza misericordia. Lo si capiva dal viso, ancora gonfio per le botte. E dalla difficoltà nel restare ritto in piedi. Disse ad Anna di chiamarsi Pietro S. e di essere originario della provincia di Napoli. L’armistizio dell’8 settembre l’aveva sorpreso mentre era sotto le armi, in un reparto di fanteria stanziato ad Alessandria. Dopo essersi nascosto per un paio di mesi, si era aggregato a una delle prime bande della Garibaldi. Di fare il ribelle non gli importava, però non poteva neppure ritornare al proprio paese, ormai al di là del fronte. Dopo le prime visite di Anna, il ragazzo le confessò di vivere nel terrore che lo spedissero in un lager tedesco. Immaginava che lì avrebbe incontrato una fine lenta, tra sofferenze atroci: la fame, la sete, la perdita di ogni volontà, la scomparsa della sua dignità di essere umano. Quando Anna entrava nella cella, Pietro scoppiava in lacrime. Un giorno la pregò di procurargli del veleno per uccidersi. Lei si rifiutò. Allora il partigiano cominciò a implorarla di farlo uscire dalla prigione. Anna replicò che era una proposta folle. Il ragazzo le urlò: «Se è così, lasciami perdere, non venire più a visitarmi!».

Anna non disse nulla a nessuno. Ma continuò a pensare al partigiano e alla sua disperazione. Il pensiero divenne una costante fissa delle proprie giornate. Anche prima di addormentarsi, vincendo l’ansia da ragazza inerme in un mondo pieno di cattiveria, rifletteva sulla richiesta di Pietro. E alla fine maturò una decisione: doveva aiutarlo a fuggire dal carcere. Poiché non era una sciocca, Anna sapeva che, se fosse riuscita nell’intento, anche lei avrebbe dovuto sparire. Lasciando l’esistenza di sempre e gettando i genitori nello sconforto. E forse alle prese con una ritorsione violenta dei suoi camerati, pazzi di rabbia per essere stati traditi.

Poi si chiese perché le importasse tanto la salvezza di quel ribelle.

E si diede una risposta: senza rendersene conto, giorno dopo giorno si era innamorata di lui. Prima di allora non aveva mai conosciuto l’amore. Adesso l’aveva incontrato nella condizione più difficile. (...) Anna ideò un piano di fuga molto semplice. Aveva notato che i tre militi di guardia alla prigione si davano il cambio verso le nove di sera, quando era già buio. Il carcere restava sguarnito per cinque minuti. Non avrebbe dovuto esserlo, ma la città era sempre stata tranquilla, un luogo dove non accadeva mai nulla. La ragazza s’impadronì delle chiavi che aprivano le celle. E una sera del maggio 1944 fece uscire Pietro. Lo trascinò fuori e lo spinse sul retro della prigione, dove aveva nascosto due biciclette.

Le inforcarono e sparirono dentro i grandi giardini pubblici, in quell’ora deserti. Poi presero una strada secondaria che portava alle colline. Pedalarono come forsennati, lei con il cuore in gola, lui pazzo di felicità. Pietro sapeva dove dirigersi perché la banda partigiana stava accampata in una località non lontana. Verso la mezzanotte arrivarono a una piccola cascina isolata. Pietro bussò, gridò il suo nome e un contadino gli aprì. Doveva conoscere il ragazzo perché lo abbracciò e lo fece entrare insieme ad Anna.

L’uomo non gli rivolse domande sul conto della bellezza bionda che lo accompagnava. Diede da mangiare a entrambi. Poi li guidò in un angolo della soffitta dove era sistemato un pagliericcio. Fu alla luce flebile di una lampada a petrolio che Anna e Pietro si amarono. Lei confessò al ragazzo di essere vergine e lui la trattò con delicatezza. Si addormentarono verso l’alba, spossati. La ragazza comprese di essere felice come non lo era mai stata. E ringraziò la Madonna per averle dato il coraggio di compiere quel passo, così intenso e bello.

Il brutto emerse il giorno dopo, quando nessuno dei due se l’aspettava. Nel primo pomeriggio arrivarono al campo della banda partigiana di Pietro. I compagni accolsero il ragazzo con urla di entusiasmo. Era un prigioniero che ritornava libero, grazie all’aiuto di quella ragazzona. Anche lei venne festeggiata. Il clima cambiò quando si fecero vivi il comandante e il commissario politico della banda. Il primo era un giovane ufficiale dell’esercito, il secondo un operaio comunista. Vollero sapere da Pietro in che modo era riuscito a evadere e chi fosse la ragazza che l’aveva aiutato. Lui raccontò la verità. E commise l’errore di aggiungere che Anna era una fascista, decisa a fuggire insieme a lui. I due capi gli fecero ripetere la storia dell’evasione. Pietro obbedì, senza mai contraddirsi. Del resto quanto andava dicendo era tutto vero. Ma nella guerra civile, un conflitto senza pietà per nessuno, poteva essere difficile far trionfare la verità. Pietro lo comprese quando cominciarono a rivolgergli domande gonfie di sospetto. I fascisti non ti avranno mica liberato per farti ritornare alla banda e spiarci? La ragazza non sarà una spia anche lei? Chi ci dice che non ti abbia fatto uscire dal carcere per conto dei suoi camerati? Pietro si difese, mentre Anna cadde in preda al terrore. Il commissario politico sembrava propenso a credere al racconto del ragazzo. Non così il comandante, sempre più diffidente. Pensava di avere di fronte un traditore e una fascista che fingeva di essere un’ingenua mossa soltanto dall’amore. Il partigiano comprese che cosa stava per accadere. Si scaraventò fuori dalla baracca dell’interrogatorio, gridò ad Anna di seguirlo e si mise a correre come un disperato.

Riuscirono ad afferrare le biciclette, però non fecero molta strada.

La fuga sembrò al comando un’ammissione di colpa. Vennero ripresi e rinchiusi in un capanno. Quella stessa notte Pietro e Anna furono condotti in un bosco vicino, con le mani legate dietro la schiena. Li affiancava un ribelle sui trent’anni, incaricato di giustiziarli. Arrivati nella boscaglia, l’uomo accoppò Pietro con una rivoltellata alla nuca. Ma non uccise Anna. Non aveva cuore di ammazzarla. Si limitò a colpirla alla testa con il calcio della pistola.

La ragazza perse i sensi. E non si accorse di venire caricata su un calesse sgangherato, accanto al cadavere di Pietro. Il partigiano li trasportò in un paese vicino. Qui furono scaricati sul selciato della piazza. Con un cartello che diceva: «Così muoiono le spie fasciste».

Così il fascismo ha travolto il debole liberalismo italiano. Il saggio di Vivarelli sugli anni 1918-22 ribalta il luogo comune della storiografia socialista: il movimento del Duce non fu affatto "il braccio armato della borghesia". Così scrive Giampietro Berti su “Il Giornale”. Sebbene sia impossibile sintetizzare, con una citazione, l'imponente ricerca storica portata a termine da Roberto Vivarelli con la sua monumentale opera sulla nascita del fascismo, Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma (Il Mulino, pagg. 544, euro 36; i primi due volumi sono apparsi rispettivamente nel 1967 e nel 1991), pensiamo di non forzare il suo pensiero se riportiamo questa frase: «Il carattere distintivo del movimento fascista sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». Giudizio, come si vede, che rovescia la vulgata della storiografia di sinistra secondo cui il movimento politico creato da Benito Mussolini sarebbe stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista. Se si analizzano gli anni del primo dopoguerra, si deve constatare che una parte della borghesia (specialmente gli agrari), spinta dalla paura di un possibile avvento della rivoluzione comunista in Italia, appoggiò Mussolini nella convinzione - del tutto errata - che questi, una volta neutralizzato tale pericolo, si sarebbe «costituzionalizzato», accettando lo Stato liberale. Tuttavia il fascismo non può essere ridotto a una semplice reazione antioperaia; certamente fu anche questo, ma soprattutto fu l'espressione italiana di un fenomeno nuovo della storia europea: il totalitarismo, la cui prima formulazione aveva visto la luce con la vittoria bolscevica in Russia. Il socialismo è stato certamente una vittima del fascismo, ma ancor più lo è stato il regime liberale. Dal lavoro di Vivarelli - la più importante e circostanziata opera storiografica mai realizzata sul quinquennio 1918-1922, basata su ricerche durate oltre mezzo secolo - si evince in modo indubitabile che l'avvento totalitario venne provocato dal logoramento dello Stato liberale, incapace di rinnovarsi. Questa insufficienza spiega la debolezza dei governi del primo dopo guerra - da Nitti a Giolitti, da Bonomi e Facta -, che risultano incapaci di reprimere le crescenti violenze perpetrate da destra e da sinistra; rotture della legalità che hanno avuto il risultato di rendere legittima, agli occhi di un popolo democraticamente immaturo, la sua ripetuta violazione. Di qui una serie di contraccolpi politici, sociali e psicologici intrecciati fra loro: il sentimento patriottico offeso dall'internazionalismo socialista, il terrore dei ricchi per la proprietà pericolante, gli odi della classe media contro gli operai e i contadini, il bisogno diffuso di ordine e sicurezza, il mito della vittoria mutilata, l'isterismo della novità. Il crollo dello Stato liberale parte dunque da qui, cioè da un disfacimento interno accentuato dagli effetti devastanti prodotti del conflitto bellico. Mussolini non avrebbe mai preso il potere senza l'aiuto, del tutto insperato, della guerra (ma ciò vale anche per Lenin e, più tardi, per Hitler). Questa, incrinando la centralità del sistema monarchico, impedendo una giusta sedimentazione del suffragio universale maschile e, per ultimo, accendendo uno scontro civile fra parti opposte, contribuì in modo decisivo a distruggere il potere dell'oligarchia dominate. La guerra mise in moto il fenomeno profondo, insondabile e incontrollabile della violenza. Su quest'onda il fascismo operò un salto di qualità del tutto sconosciuto rispetto ai precedenti governi liberali perché espresse una concezione radicalmente contraria allo spirito borghese e alla società capitalistica, una concezione della vita e del mondo alternativa al liberalismo individualistico ed edonistico, intrisa del culto dell'azione, della forza, refrattaria alla visione materialistica, all'urbanesimo industriale. Si può dire quindi, complessivamente, che nel Novecento la divisione decisiva non passa tra fascismo, nazismo e comunismo, o tra destra e sinistra, ma tra libertà e non libertà, cioè tra la liberaldemocrazia e i totalitarismi. Un insieme interpretativo, come si vede, che esula dall'analisi di classe propria dell'antifascismo di maniera. Vivarelli ci mostra anche che il quadriennio 1919-1922 vide morire la democrazia ancor prima di nascere. Dall'Unità fino all'età giolittiana non è possibile riscontrare un vero sviluppo democratico. Lo confermano, sia pure con modalità diverse, Depretis, Crispi e Giolitti, il cui equilibrismo trasformistico non riuscì ad assorbire le spinte provenienti dal basso. Dopo il 1918 il liberalismo si trova privo di difese perché la vecchia classe dirigente, essendo delegittimata, non ha più la forza e l'autorevolezza per governare, mentre le nuove forze politiche sono, per gran parte, estranee al suo ethos (soprattutto lo sono i socialisti, meno i popolari).È stato possibile attuare un colpo di Stato perché la stragrande maggioranza degli italiani, pur essendo avversa al movimento dei fasci, era indifferente alla vita e al mantenimento dello Stato liberale. Il crescendo di violenze, iniziato con la spedizione di Fiume, trova il suo approdo nella marcia su Roma. Il fascismo è il risultato logico di questo processo.

E con la pace, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Il fascismo secondo Giampaolo Pansa. Intervista pubblicata su Il Messaggero di Federico Guiglia. All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino. “Ma quel grido lo sentivo di continuo”, ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. “Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato”, riprende il filo del discorso. “Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo”.

“Il nero nacque dal rosso” è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al suo - suo di Pansa -, edicolante citato in prefazione). Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

“Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte”.

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

“A ogni azione corrisponde una reazione. E’ quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto su loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. E’ un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia”.

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

“La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. E’ proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana”.

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

“Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato “Il Sangue dei vinti”, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea - poi pubblicata da Laterza - sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per De Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui”.

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

“Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte”.

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo da “Libero” ampi stralci dell’introduzione al nuovo libro di Giampaolo Pansa, che uscirà l’11 settembre. Si intitola «Sangue sesso soldi», ed è una personale rilettura di sessant’anni di storia italiana, scritto da uno dei testimoni più autorevoli e apprezzati del panorama italiano. Il volume (edito da Rizzoli, 450 pagine, 19 euro, disponibile anche in e-book) è suddiviso in 8 parti: una per ogni decennio dal Dopoguerra a oggi. La narrazione di Pansa è personale, imperniata su figure minori attorno alle quali scorre il grande racconto della storia d’Italia. Il giornalista e scrittore rivive così, da testimone diretto, l’infanzia sotto il fascismo, le ansie del dopoguerra, la transizione. E poi il boom, gli anni Sessanta, il terrorismo vissuto al «fronte», il caso Moro, il crac Ambrosiano, l’era Agnelli, Falcone e Borsellino, Tangentopoli, l’arrivo del Cav. L’ultimo capitolo è l’oggi: la grande crisi, le strambe elezioni 2013, la sorte di Berlusconi, la morte di Andreotti.

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo anche gran parte del capitolo «Il bluff del Sessantotto. 1968», tratto da Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d’Italia dal 1946 a oggi di Giampaolo Pansa, ex inviato del Corriere della Sera, ex vicedirettore di Repubblica e ora firma di punta di Libero.

Su Libero una parte di un capitolo dell'ultimo libro di Giampaolo Pansa, che ricorda il Sessantotto: "Idioti, violenti, ignoranti...". Il grande giornalista demolisce il bluff della stagione rivoluzionaria più pompata dalla retorica: "Fu l'incubatrice del terrorismo rosso". Personale rilettura di oltre 65 anni della nostra storia, scritto da uno dei più autorevoli giornalisti e storici italiani, il libro è suddiviso in otto parti, dall’immediato dopoguerra (dominato dalle figure di De Gasperi e Togliatti) al ventennio berlusconiano. In mezzo, Stalin e la legge Merlin, il boom economico del Belpaese, la tragedia del Vajont, gli anni di piombo, le stragi di mafia, i morti di Tangentopoli e la morte di Andreotti.

"Fu un tragico bluff il Sessantotto. Per di più coperto e difeso da un’ondata di retorica mai vista prima in Italia. Eppure molti politici, molti intellettuali e molti giornalisti lo ritennero un miracolo. A sentir loro, iniziava una stagione fantastica ed esaltante per la democrazia. Il Sessantotto avrebbe cambiato tutto in meglio: la politica, l’economia, la società, la scuola, la cultura, la famiglia, i rapporti tra maschio e femmina, persino l’educazione dei bambini. A conti fatti non accadde nulla di tutto questo. L’unico, vero frutto fu il terrorismo di sinistra, il mostro delle Brigate rosse. (...)"

"C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: «Raccontami una storia!». E la serva cominciò: «C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva…». E così via sino all’infinito.(Filastrocca del tempo che fu). Sangue, sesso, soldi. Perché dare questo titolo al racconto dell’Italia che ho visto dal 1946 a oggi? Perché sono tre parole, tanto secche da sembrare brutali, che fotografano meglio di altre la natura profonda del nostro paese. Una volta usciti dalla guerra civile, abbiamo continuato a odiarci, sguazzando nel sangue. Le centinaia di assassinati nelle ultime guerre interne, decise dal terrorismo e dalla mafia,  (...)(...) le abbiamo dimenticate. Eppure anche nel nostro passato più vicino campeggiano un’infinità di tombe e di lapidi funerarie. E ancora oggi gli assassini stanno in agguato ovunque, pronti al delitto. Il sesso, praticato, esibito o narrato è un’altra delle nostre bandiere. I media ci presentano di continuo storie di letto che un tempo restavano confinate nelle chiacchiere private. L’erotismo è diventato fonte di nevrosi incontrollabili. Ha perso la normalità allegra di un tempo. Produce ansia, stress, contrasti offerti al pubblico. Il gioco che ho conosciuto nella mia giovinezza si è tramutato in una contesa furiosa, capace di causare persino movimenti di piazza. Come accade oggi per le nozze tra gay. I soldi sono sempre stati un’ossessione non soltanto individuale, ma prima ancora pubblica. La voglia di arricchirsi in modo illecito ha intossicato la vita politica trascinandola nel baratro della criminalità. Gli anni di Tangentopoli, con i tanti processi e le molte vittime, ci hanno svelato un’Italia ributtante. Abbiamo vissuto una tragedia che continua ancora e azzera la credibilità delle istituzioni. La sobrietà, una virtù che i partiti dovrebbero considerare il bene più prezioso, si dissolve ogni giorno sotto lo tsunami di una corruzione invincibile e volgare. Quando è cominciato questo inferno? A mio parere, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un’Italia che sembrava destinata a diventare all’istante una democrazia perfetta. Soltanto in seguito ci siamo resi conto che era un traguardo impossibile. Per un motivo che oggi mi sembra più evidente di allora: venivamo da vent’anni di fascismo. La dittatura non era stata una parentesi, un incidente passeggero, bensì una condizione di normalità, accettata senza problemi. 

Tutti fascisti. C’è una verità che non si vuole ammettere: siamo stati quasi tutti fascisti. Lo sono stato anch’io, almeno nei due anni iniziali di scuola elementare. Ho cominciato a frequentare la prima classe nell’ottobre del 1941. Ero un bambino magro, dalle gambe lunghe, sempre vestito con decoro. Così voleva mia madre Giovanna che aveva un negozio di mode e credo mi abbia cucito di malavoglia la divisa da Figlio della Lupa. Per ordine del regime, la dovevano portare tutti i maschi dai 6 agli 8 anni, in attesa di diventare Balilla. La divisa consisteva in una camicia nera, attraversata da due fasce bianche incrociate e da un cinturone alto e anch’esso bianco, pantaloni corti di panno ruvido grigioverde, lo stesso colore dei calzettoni. E infine il fez, un piccolo copricapo di feltro nero a forma di cono tronco, che terminava con un fiocco. Conservo una fotografia del Pansa Figlio della Lupa, forse scattata da mio padre Ernesto. Sul retro c’è una data, scritta a penna: 10 giugno 1943. Era il terzo anniversario della nostra entrata in guerra. (...) Di diverso dal Duce e dal fascismo non esisteva nulla. Nella nostra piccola città si sapeva tutto di tutti. Ma non si conoscevano oppositori del regime. Di certo qualcuno che non la pensava come Mussolini c’era, ma se ne stava al coperto per non rischiare il carcere e la disapprovazione di una maggioranza molto vasta. Dopo la fine della guerra e il crollo definitivo del fascismo, si è scritto tanto sulla presenza di un’opposizione clandestina. Però questa si trovava soltanto nelle carceri. Dove stavano rinchiusi, spesso da anni, i pochissimi avversari del regime. Oppure nelle cellule invisibili dei comunisti, gli unici ad aver conservato un minimo di organizzazione politica. Esiste una prova del fatto che l’Italia fosse un paese quasi del tutto fascista, per convinzione, per obbligo o per quieto vivere. È una prova indicibile, e infatti non viene mai ricordata. Poiché suscita sempre un sentimento profondo di vergogna. Nel settembre 1938 il regime aveva emanato le leggi razziali, un complesso di norme infami destinate a colpire gli ebrei. Anche nella mia città viveva da secoli una comunità israelitica che si ritrovava in una splendida sinagoga oggi restaurata. Era composta da persone che conoscevamo tutti: il commerciante ebreo, l’insegnante ebreo, il medico ebreo, il pensionato ebreo. Ma contro quelle leggi nessuno protestò, s’indignò, si rammaricò. E ci fu anche qualcuno che si congratulò con il Duce. Lo stesso silenzio inerte accolse le razzie degli ebrei, destinati ai campi di sterminio nazisti. A Casale Monferrato iniziarono nel febbraio 1944 e vennero completate in aprile. Alla cattura degli israeliti, in gran parte donne e uomini anziani, provvedevano agenti di polizia del commissariato cittadino. Gli arrestati venivano rinchiusi nel piccolo carcere che sorgeva in fondo alla strada dove abitavo. Di qui erano inviati al campo di transito allestito a Fossoli, in Emilia. E di lì partivano per le camere a gas di Auschwitz e di altri luoghi infernali. (...) L’Italia si è scoperta antifascista soltanto dopo il 25 aprile 1945. Una volta conclusa la guerra, i pochi che nell’ottobre di due anni prima si erano dati alla macchia, e avevano combattuto da partigiani, si trovarono circondati da una marea di ribelli della venticinquesima ora. Gente che aveva scoperto la lotta per la libertà solo quando l’Italia era ritornata libera. Grazie ai soldati inglesi, americani e di tante altre nazionalità che, per salvarci da una dittatura, si erano sacrificati a migliaia nella lenta avanzata dalla Sicilia verso il Nord. Da quel momento diventammo una democrazia con più partiti e un’Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, incaricata di scrivere la Costituzione. (...) Tutto bene? Per niente. La democrazia è un mestiere che non s’impara in quattro e quattr’otto. Soprattutto in un paese distrutto dalla guerra che dopo vent’anni di dittatura scopre l’asprezza della battaglia tra i partiti. Accadde così nell’Italia che all’inizio del 1948 si avviava alle prime elezioni destinate a decidere il nostro avvenire, ancora in bilico tra una democrazia liberale e un regime autoritario guidato dai comunisti. In tempi di massiccio assenteismo elettorale, è giusto ricordare quanti andarono ai seggi il 18 aprile 1948: il 92,2 per cento degli aventi diritto al voto. Il racconto che i lettori troveranno in questo libro s’inizia con il confronto tra i protagonisti di quella battaglia politica, le due figure simbolo del primo dopoguerra: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. Sono loro a introdurci in una lunga storia che arriva ai giorni nostri. E al caos brutale che rende un inferno questo 2013. Perché ho deciso di ripercorrere sessant’anni di vita italiana? (...) A incitarmi è la paura che mi ispira il futuro. Non il mio, quello personale, di un signore ben al di là dei settant’anni. Mi inquieta l’avvenire del nostro paese, oggi immerso in una crisi destinata a durare per un tempo lungo e a diventare sempre più pesante. Invece il passato mi appare meno carico di pericoli del futuro. I rischi che abbiamo corso negli ultimi decenni li abbiamo comunque superati. Mentre le sorprese cattive che ci attendono al varco sono una gigantesca nuvola nera che incombe sulle nostre vite e può generare il peggio. Ecco perché il tempo trascorso mi sembra ben più rassicurante del tempo che ci aspetta.

Il passato che torna. (...) Ho preferito un racconto molto personale. Mettendo in ordine cronologico una sequenza di eventi politici, sociali, di costume, di vita vissuta e dei personaggi che li rappresentavano. Non tutti, perché sarebbe stato impossibile. Ma soltanto quelli che consideravo i più adatti a rievocare le fasi a mio avviso degne di ricordo all’interno di una lunga vicenda. Ogni evento ha dato origine a una storia, proprio come quelle che il re della filastrocca chiede alla sua serva di raccontargli. Voglio fermarmi un istante sulla faccenda della narrazione personale. (...) Qualcuno mi accuserà di presunzione per aver sopravvalutato la biografia di Giampaolo Pansa? Può essere un rimprovero fondato. Ma replico presentando l’attenuante dell’età. Ho scoperto che, con l’avanzare degli anni, è difficile sottrarsi al proprio passato. Ritorna a galla di continuo, bussa alla nostra porta e pretende di essere ascoltato. È per questo che, invecchiando, ripensiamo sempre più spesso ai nostri genitori. Li rivediamo come erano da giovani e, insieme, ritorniamo con la memoria alla nostra infanzia e poi all’adolescenza. Con tutto quello che le accompagna: gli amici, i maestri che ci hanno aiutato a crescere, anche quelli indiretti, come i libri e i giornali che abbiamo letto, la scoperta del sesso, le donne amate. L’aver scelto la parte del testimone mi ha spinto ad andare controcorrente rispetto a molte sacre scritture di storia contemporanea. L’avevo già fatto a proposito della guerra civile, attraverso una serie di libri iniziata con I figli dell’Aquila e Il sangue dei vinti. Un’esperienza che ha segnato la mia età matura, ben più di quanto mi aspettassi. Dieci anni fa non mi rendevo conto di fare del revisionismo scandaloso. Ma quando mi hanno osteggiato, e aggredito anche con azioni violente, per quel peccato imperdonabile, ne sono stato contento. Perché ho compreso di aver battuto una strada che quasi nessuno voleva percorrere. Avevo infranto una cortina di bugie, eretta da tanti sepolcri imbiancati. Politici, intellettuali, docenti di storia, direttori di giornale e opinionisti che per ottusità culturale e opportunismo ideologico non accettavano che qualcuno rifiutasse la grande bugia sulla Resistenza. Una finzione messa sugli altari dentro una teca di vetro. E da venerare con un culto quasi religioso. Officiato con rigore maniacale dai tanti che ho chiamato, ricorrendo a un’immagine beffarda, i Gendarmi della memoria. Pure questo libro è un testo revisionista. Lo è per due motivi. Prima di tutto perché inserisce nella narrazione di molti eventi importanti anche vicende in apparenza minori e personaggi sconosciuti. I racconti che qui troverete consentono di osservare la storia italiana di tanti decenni non soltanto guardando verso l’alto, a personaggi che tutti conoscono, ma pure verso il basso. Ho tentato di farlo attraverso le figure di donne e di uomini che l’accademia non considera mai degne di menzione. Mentre possono aiutarci a sbirciare la grande storia da una prospettiva insolita che ne rivela aspetti sconosciuti. Un esempio per tutti? La mostruosa epidemia dell’Eternit rievocata attraverso una vicenda vera narrata da un amico della mia città che ha perso la madre e la moglie uccise dall’amianto.

Revisionista? Sì. Esiste poi un secondo motivo che mi spinge ad affermare il revisionismo di questo racconto. Qui siamo su un terreno che spingerà molti a rinfacciarmi di aver scritto un libro di destra. Voglio subito dire che l’etichetta non mi spaventa. Anzi, la considero una medaglia, se per destra s’intende l’opposto di una sinistra culturale marmorea e bugiarda che per anni ha spacciato una lettura della storia italiana inquinata dal partito preso. E seguita a spacciarla con la boria di chi si difende aggrappandosi al complesso dei migliori. Ossia alla convinzione di essere il meglio fico del bigoncio e di saperla più lunga di tutti. A questi pennacchioni rossi o rossicci non piaceranno i giudizi che qui troverete. Ne elenco qualcuno. Alcide De Gasperi ha salvato la libertà dell’Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Una vittoria del Fronte popolare guidato da Palmiro Togliatti e da Pietro Nenni avrebbe imprigionato il nostro paese dentro un regime succube dell’Unione Sovietica. L’aiuto degli Stati Uniti nel 1947 e nel 1948 ha impedito che molti italiani morissero di fame e di freddo. Il miracolo economico non è stato il trionfo del capitalismo selvaggio e del consumismo. Ma il risultato del lavoro e della tenacia di tanti signori nessuno che cercavano un minimo di benessere.  Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. E ha dissolto il principio di autorità indispensabile a qualsiasi ordinamento sociale. La borghesia di sinistra non era per niente illuminata e saggia. Disprezzava chi non apparteneva ai suoi clan, odiava i poliziotti, urlava: «Basco nero – il tuo posto è al cimitero». E firmava appelli mortuari contro il commissario Luigi Calabresi, ritenuto a torto l’assassino dell’anarchico Giuseppe Pinelli. La Meglio gioventù spaccava il cranio agli avversari a colpi di spranga e di chiavi inglesi. Il terrorismo rosso esisteva e non era affatto un’invenzione delle destre reazionarie. I brigatisti erano militanti in carne e ossa che volevano distruggere il capitalismo ammazzando cristiani senza colpa. L’editore Giangiacomo Feltrinelli non è stato eliminato dalla Cia americana, ma si è ucciso nell’inseguire il sogno folle di una rivoluzione proletaria. Un paradosso per un miliardario com’era lui. L’avvocato Agnelli era di certo un gran signore, ma copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat. La violenza verbale era ed è ancora il tratto distintivo dei giornali ritenuti progressisti, per niente diversi dai fogli di centrodestra, e spesso peggiori. La decadenza dell’Italia di oggi non è dovuta soltanto a Silvio Berlusconi, ma va messa in conto all’intero sistema politico. E dunque anche a una sinistra inconcludente e incapace di essere all’altezza delle sfide che ci attendono. (...) Per questo è lecito domandarsi dove stia andando la nostra repubblica. Verso il baratro che di solito inghiotte le nazioni ormai prive di coraggio e incapaci di curare i propri mali? Oppure saprà ritrovare la fiducia e la forza che l’hanno aiutata a superare tante crisi? Spero che i lettori di Sangue, sesso, soldi non cerchino una risposta da me." di Giampaolo Pansa.

Puglia, l’8 settembre tra grida e resistenza, scrive Antonio Vito Leuzzi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. L’atteggiamento incerto e passivo di Badoglio, dopo l’annuncio ai microfoni dell’Eiar, alle 19,45 dell’8 settembre del 1943, dell’entrata in vigore dell’armistizio e della cessazione delle ostilità contro gli anglo-americani. che da nemici diventarono alleati, alimenta ancora oggi la ricerca e il dibattito storiografico. Con la fuga a Brindisi del re, del capo del governo dei vertici militari e con la scelta di non opporsi ai tedeschi, nella speranza di evitarne la reazione si delineò una situazione caotica che suscitò preoccupazione nei comandi alleati. La fulminea reazione degli uomini di Hitler che riuscirono a prenderne il controllo di Roma - rendendo vana la resistenza di alcuni reparti militari e di consistenti gruppi di civili, mobilitatosi spontaneamente - fu resa possibile per l’assenza di direttive, come ha ben evidenziato Elena Aga Rossi nel volume, Una nazione allo sbando. La situazione determinatasi dalla «mancata difesa di Roma», allarmò gli anglo-americani. Con un telegramma il 10 settembre il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, invitò Badoglio a mettere da parte ogni «esitazione». Le clausole armistiziali prevedevano, infatti, la tenuta della capitale e la garanzia dell’accesso ai porti navali nell’Italia meridionale. Solo quest’ultima condizione si concretizzò per la forte resistenza di cui furono protagonisti il 9 settembre in Puglia alcuni reparti militari sostenuti dai civili a Taranto e Bari e in diverse altre località della regione tra cui Ceglie Messapica, Putignano, Bitetto, Castellaneta, Noci ed in seguito Barletta e i centri della Capitanata. I reparti germanici stanziati nella regione che avevano predisposto in base al piano «Achse» (mietitura) l’attacco ai porti, alle strutture delle radio-comunicazioni, ai depositi militari, alle più importanti vie di comunicazione ed all’Acquedotto pugliese, si trovarono di fronte una inaspettata e spontanea resistenza italiana. S’impose all’attenzione, il giorno successivo all’armistizio, la resistenza, vittoriosa al porto di Bari, al Palazzo delle Poste e delle Telecomunicazioni, ai grandi magazzini militari di Via Napoli. Intuì il pericolo e si mobilitò immediatamente il popolo di Bari vecchia (il generale Bellomo fu avvertito dalle donne deiquartieri a ridosso del porto) mentre ragazzi e giovani portuali, tra cui il quindicenne Michele Romito lanciavano bombe su un autocolonna tedesca. Militari delle diverse armi, marinai, finanzieri, genieri, ex militi, bersaglieri, carabinieri e vigili urbani, e ancora, impiegati delle Poste, tecnici di Radio Bari, al porto e in diversi altri punti della città nullificarono il piano distruttivo dei tedeschi...L’11 settembre i maggiori quotidiani britannici ed americani, tra cui il Times ed il New York Times dedicarono le prime pagine al felice sbarco delle forze anglo-americane nei porti pugliesi di Taranto e Brindisi ed i sentimenti di amicizia manifestati della popolazione. La resistenza nella realtà pugliese e meridionale trovò in Radio Bari una voce autorevole e rappresentò un vantaggio consistente e inaspettato da parte degli alleati che trovarono sgombri i porti e gli aeroporti e intatti gli apparati delle telecomunicazioni e dell’informazione. La reazione tedesca, tuttavia, fu violenta nel Nord della Puglia, nell’Alta Murgia come nel resto d’Italia. I nazisti commisero orrende stragi soprattutto contro soldati sbandati e cittadini inermi tra le quali vanno ricordate quelle di Barletta, di Murgetta Rossi nel territorio di Spinazzola, e di Valle Cannella nei pressi di Cerignola. Gli avvenimenti di 70 anni fa misero in luce la diffusa volontà di opposizione alla guerra degli italiani ed al contempo la volontà di riscatto e la scelta che fu alla base della lotta di liberazione nazionale.

'Le larghe intese? Hanno 70 anni', scrive  Wlodek Goldkorn su “L’Espresso”.

«È stato l'8 settembre del 1943 che cominciarono la alleanze trasversali. Che durano ancora oggi. Nascoste o palesi che siano». La tesi dello storico Sergio Luzzato.

E' da settant'anni che l'Italia vive di grandi intese. E l'accordo di tutti con tutti - con avversari veri, apparenti, immaginari - fa ormai parte del carattere nazionale. Così pensa Sergio Luzzatto, storico brillante, qualche volta controverso, mai banale. "L'Espresso" è andato a sentirlo a casa sua, una gradevole abitazione a Ferney-Voltaire, vista su Monte Bianco a due passi dal castello in cui ha vissuto il grande filosofo che al paesino ha dato il suo nome. Sono passati appunto sette decenni da quando l'8 settembre 1943 il maresciallo Badoglio annunciava l'armistizio con le forze angloamericane. Il re fuggiva da Roma; i fascisti cercavano la protezione dei cugini nazisti; la meglio gioventù saliva in montagna. Da allora le interpretazioni di come quegli eventi abbiano pesato sulla storia patria si sono sprecate. Particolarmente in voga è quella che vi riconosce l'inizio di una guerra civile, mai cessata, ma diventata "a bassa intensità".

«Guerra civile tra il 1943 e il 1945, c'è stata, eccome», dice Luzzatto, «ma la storia di una guerra civile a bassa intensità di cui saremmo oggi partecipi e testimoni è una bufala. Serve a soddisfare interessi politici contrapposti. Quelli dei moderati che vogliono far passare gli avversari di Berlusconi per dei pericolosi sovversivi; e quelli degli estremisti che sognano una "nuova resistenza". Semmai possiamo definire quello che è successo come la madre delle larghe intese», spiega. «Però, da storico, devo fare una precisazione. C'è una specificità del contesto dell'8 settembre: la guerra mondiale; il cambio di regime e quindi un nuovo patto costituzionale; e una guerra civile vera».

Ha parlato della continuità tra l'8 settembre e oggi. C'è però chi, da anni, sostiene la tesi per cui quel giorno morì la patria.

«Muore la patria fascista. Gli antifascisti la loro patria la perdono nel giugno 1940 quando cade la Francia, pugnalata alle spalle dal fascismo italiano. E' la Francia della Rivoluzione, del Fronte popolare, terra d'asilo. L'8 settembre rinasce la patria degli antifascisti, quindi. Anche se le occorrono circa nove mesi di gestazione:dalla salita in montagna dei primi giovani ribelli fino al consolidamento dei partiti politici e della Resistenza militare».

Pochi mesi dopo l'8 settembre c'è la svolta di Salerno. Togliatti torna dall'Urss: accetta la monarchia, riconosce il governo Badoglio. Chiede ai comunisti di sospendere ogni velleità rivoluzionaria o repubblicana. Un comportamento strano se paragonato a Lenin che tornato a San Pietroburgo nel 1917 in una situazione analoga chiama a rovesciare il regime borghese. Togliatti agisce solo per volontà di Stalin o c'è una ragione intrinseca?

«Togliatti manca dall'Italia da 18 anni ed è meglio preparato ad affrontare le questioni mondiali di quanto siano i compagni che hanno fatto antifascismo all'interno del Paese. Ma attenzione: la svolta di Salerno segna una delega alle istanze sovranazionali dei problemi nazionali. Da 70 anni, l'Italia, per un limite virtuoso della sua classe dirigente, compie le sue scelte facendosi guidare da altri. Da Togliatti e De Gasperi fino a Monti, i nostri leader hanno preferito un ruolo da gestori di linee politiche che vengono da fuori. E mai nella storia repubblicana abbiamo avuto autentiche crisi riguardanti questioni internazionali».

Togliatti diventa il vice di Badoglio, un personaggio che ha usato i gas in Etiopia e che fu tra i firmatari nel 1938 del Manifesto della razza.

«Togliatti è un realista e un fine politico. Penso che vedesse lucidamente quante Italie erano da conciliare: il Sud, il Centro, il Nord; diverse da mille punti di vista, compreso il rapporto con l'istituzione monarchica, con il movimento operaio, con le élites borghesi. Contro i guastafeste, gli azionisti con la loro coerenza morale che implicava la rivoluzione, indica la via del compromesso, delle larghe intese».

Il leader democristiano è De Gasperi. Il riconoscimento reciproco tra lui e Togliatti è conseguenza della sfiducia negli italiani? Sono due ex esiliati. Togliatti in Urss, De Gasperi in Vaticano, dove faceva il bibliotecario.

«Sono due uomini fatti per capirsi, non solo per eccesso di Realpolitk ma perché cresciuti in due scuole dove si sono abituati a vedere l'Italia nel contesto mondiale. Giocano però anche le origini trentine, cioè austro-ungariche, di De Gasperi: era consapevole di quante anime possa avere un Paese».

Nel suo celebre libro del 1991 Claudio Pavone parla della "moralità nella Resistenza". In un altro del 1966, Giorgio Bocca usa parole come: vergogna, dignità, tradimento, minoranza. Una minoranza che prova vergogna e lotta per la dignità...

«I comunisti sapevano cosa volevano fare. Gli azionisti invece agivano soprattutto per protesta valoriale. Il loro era, come si è detto, un "antifascismo esistenziale". Erano come degli ospiti venuti a cena ma che si aspetta che se ne vadano».

Nel 1946, dopo la proclamazione della Repubblica arriva l'amnistia di Togliatti.

«Al di là degli elementi congiunturali (le prigioni erano piene) l'amnistia è fondamentale. Perché rende possibile l'interpretazione della guerra civile come uno scontro in cui ambedue i campi avevano commesso delle nefandezze. E omette non solo la quantità di queste nefandezze, ma anche la loro qualità. Per i partigiani il ricorso alla violenza è un doloroso strumento per arrivare a una società democratica. Non c'è una banda Carità tra i partigiani. Per i nazifascisti coincide con il progetto di società. Ma l'amnistia corrisponde alla percezione diffusa che gli italiani hanno avuto degli anni della guerra: il loro cuore batteva per gli alleati non per la Resistenza. Ecco un altro ingrediente delle larghe intese: l'idea (corretta) che l'Italia sia stata liberata dagli Alleati più che dai partigiani. E anche per questo la politica estera non diventa mai un elemeno di divisione. Del resto i comunisti, sotto sotto, si sentono meglio in Occidente che con l'Urss, fino alla famosa intervista di Berlinguer in cui confessa a metà anni Settanta di sentirsi protetto dall'ombrello della Nato».

Anche nel linguaggio i comunisti assomigliavano ai democristiani?

«Rimando a "L'Orologio " di Carlo Levi, alle pagine in cui da pittore descrive, senza farne i nomi, De Gasperi, Togliatti e, per contrasto, Parri. C'è una larga intesa basata sull'assenza del corpo e del carisma nella politica. Anche la lingua parlata doveva essere ovattata, indiretta, accademica; in contrasto con quella di Mussolini. Romperà questo patto Craxi, ma senza costrutto».

Nel 1956 Togliatti ha difficoltà a digerire l'ondata della destalinizzazione. Appoggia l'intervento sovietico in Ungheria. E' sbagliata l'ipotesi per cui lo fa non per l'amore dell'Urss, ma perché ha paura della destabilizzazione? Vuole l'Italia saldamente in Occidente, per cui niente scossoni.

«A conferma di questa ipotesi sarebbe un fatto speculare: nel '89 il democristiano Andreotti non vuole la riunificazione della Germania. Preferisce lo status quo. I comunisti, nella storia postbellica, sono più inclusi che esclusi. Tanto che hanno potuto esercitare l'egemonia culturale. C'è stato sì il periodo centrista, dal 1948 al 1960. Però le larghe intese hanno funzionato nella vita sociale. E' la Dc che realizza il programma socialdemocratico; costruisce il Welfare State. E comunque la Dc e il Pci si assomigliano. Non solo nella struttura e nella propaganda ma anche per quanto riguarda i consumi e i costumi. Finito il centrismo si arriva al centro-sinistra e alle "convergenze parallele" di Moro: il trionfo delle larghe intese».

Poi arriva il Sessantotto.

«Una generazione fortunata, cresciuta nel benessere, si ribella contro le larghe intese. Non capiscono il buono della socialdemocrazia. Ma operano una cesura sulla questione dei diritti civili: aprono la via alla stagione referendaria. Che il Pci vive malissimo. Asseconda i referendum ma non li vuole. Quella stagione ha visto come prodotto collaterale il terrorismo e le stragi dello Stato (che creano un lutto condiviso e quindi una forma di legame sociale). Ma è la stagione, soprattutto, delle pratiche di emancipazione civile. Il Pci ne trae conclusioni sbagliate. Il compromesso storico, che Berlinguer teorizza nel 1973, diventa una pratica di spartizione delle poltrone: Rai, ospedali, enti locali. E' il trionfo della partitocrazia; fino a Mani pulite».

E così arriviamo al ventennio berlusconiano.

«Che non segna discontinuità. Finiscono i partiti storici di massa; ma si consolidano nuove forme di partitocrazia: lo svuotamento dell'istituto referendario, il sabotaggio delle riforme istituzionali, il consociativismo nei servizi pubblici, la tutela della casta».

E Giorgio Napolitano?

«L'Italia ha avuto la fortuna di avere (da Pertini in poi, con l'eccezione di Cossiga) presidenti della Repubblica all'altezza del ruolo. Napolitano esprime un'idea di patria. che è importante come garanzia identitaria, in un Paese che ha un'identità nazionale debole. Lui era ragazzo a Napoli, quando cominciava tutta questa storia. Ha vissuto con aplomb la presunta esclusione dei comunisti dal potere, perché sapeva che era limitata e non del tutto vera. Così oggi, incarna nel migliore dei modi la storia della Repubblica delle larghe intese».

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

Bianchi Bandinelli: l'uomo che non riuscì a uccidere i due dittatori. A Venezia un documentario sulla giornata particolare di colui che fu scelto come guida per l'incontro tra Hitler e Mussolini, scrive Simonetta Fiori il 9 agosto 2016 su “La Repubblica”. Si può cambiare la direzione della Storia? Ranuccio Bianchi Bandinelli continuò a chiederselo mentre faceva strada al Führer durante la storica visita in Italia nel maggio del 1938. Certo il giovane cicerone non riuscì in questa colossale impresa, nonostante le fantasie tirannicide della vigilia. Ma gli riuscì un altro capolavoro che può essere annoverato nella storia meno nota della rivincita dell'intelligenza contro la mediocrità del potere, del gusto contro la rozzezza, della vivacità della cultura contro la vacuità imbolsita dei due grandi dittatori. E solo uno sguardo cinematografico poteva valorizzare questa vendetta postuma dello studioso senza aver bisogno di inventare niente: bastano gli straordinari materiali dell'Istituto Luce, montati con ritmo e ironia da Enrico Caria in un film che sarà presentato a settembre alla mostra di Venezia. Con un piccolo-grande ribaltamento di ruoli che è la trovata del nuovo lavoro. Perché i protagonisti non sono più i due tiranni, i padroni della Terra che in quella primavera del totalitarismo europeo devono ancora decidere come spartirsi il dominio, ma l'elegante guida che nei quattro giorni di maggio compare al loro fianco durante la visita ai musei di Roma e Firenze. Figura slanciata, incedere disinvolto, il fez moderatamente napputo, quasi a mitigare il lato grottesco della tragica operetta. È lui la vera star del racconto, il professor Bianchi Bandinelli, 38 anni, futuro maestro di generazioni di archeologi. È Ranuccio L'uomo che non cambiò la Storia - come recita il titolo del film prodotto da Luce-Cinecittà - ma che ne capovolse certo la prospettiva, impugnando le armi a lui più famigliari della prosa tagliente e del disincanto ironico. Tutto ebbe inizio da un telegramma che nella primavera del 1938 rompe l'agiata tranquillità della casa fiorentina dei Bianchi Bandinelli Paparoni, famiglia di patrizi senesi che risale all'epoca di Carlo Magno con una sfilza di pontefici e relazioni illustri. Sarà anche per la sua longeva storia famigliare, il giovane e stimato Ranuccio, già ordinario all'Università di Pisa, non si scuote più di tanto dinanzi alla convocazione del ministero della Pubblica Istruzione. Motivo del colloquio riservato? Lo scoprirà qualche giorno più tardi a Roma: il suo uso di mondo e la conoscenza del tedesco - gli spiega un alto papavero - lo rendono perfetto per fare da guida al Führer durante la visita in Italia. Un bel guaio. Lui è "un antifascista generico" - come scrive nei suoi taccuini - non ha legami con la clandestinità comunista, è un liberale con simpatie crescenti per il movimento fondato dai fratelli Rosselli. Ora è davanti a un bivio: se accetta si compromette con un regime che disprezza, ma se rifiuta compromette i suoi studi e la sua famiglia. Che fare? L'esito del dilemma etico è quasi scontato, sotto un regime che non ammette dinieghi. Ecco Ranuccio affrettarsi all'Unione Militare per acquistare "la più scalcinata delle divise da fascista", camicia nera come vuole il programma ma senza decorazioni, no quelle proprio non le vuole, sconvolgendo "l'esperienza psicologica del ministro Cortini" assediato dalle richieste di croci e di aquile e di decorazioni purchessia. E mentre attende alla preparazione sartoriale dell'augusta visita - ma succede anche nei dormiveglia notturni - i suoi pensieri corrono e s'intorcinano, fino a impennarsi nell'unica fantasticheria che possa dare un senso a quella pagliacciata. E se uccidessi i due tiranni? Se mi facessi saltare in aria mentre salgo con loro sul predellino dell'automobile? O se approfittassi del passaggio nel corridoio che unisce gli Uffizi a Palazzo Pitti? Nessuno più di lui poteva conoscere i dettagli del programma. E più l'attentato prende meticolosa forma nella sua testa, più il professore cerca argomenti contrari alla clamorosa occasione offerta dalla Storia. Fino ad ammettere la propria inconcludenza di "tenebroso e impotente macchinatore", solo e paralizzato di fronte all'inazione. Così almeno ci racconta il nostro eroe mancato nello straordinario resoconto di quella missione (uscito tempo fa da e/o Hitler e Mussolini. 1938 Il viaggio del Führer in Italia) e non sappiamo se sia un supremo tentativo di giustificazione anche con la propria coscienza prima di balzare al fianco dei due tiranni, la mattina di venerdì 6 maggio 1938. Ma qui comincia un'altra vicenda, quella più autentica, che il film di Caria restituisce anche nella sua vena umoristica attraverso la tessitura di documenti storici e spezzoni cinematografici, con i disegni di Spartaco Ripa e la supervisione musicale di Pivio: la rivincita dell'inetto cospiratore che non potendo cambiare il corso della Storia può però mostrarne tutta la sua grottesca insensatezza. A cominciare dai due protagonisti del Novecento impietosamente tratteggiati tra il Museo delle Terme e la Galleria Borghese, tra un plastico della romanità e il nudo di Paolina Bonaparte. Due modesti burattini malriusciti, Mussolini "con le mosse oblique del capo che vorrebbero mitigare la sua massiccità ma sono soltanto goffe e sinistre", Hitler forse meno repulsivo, "composto, ordinato, quasi servile, qualcosa come un controllore di un tram". E le immagini dell'Istituto Luce non fanno che amplificare le divertite cronache di Ranuccio, l'unico che sembra davvero a suo agio tra sarcofagi paleocristiani e sculture barocche. I gesti flessuosi, la postura disinvolta di chi ha secoli di storia alle spalle, attenuano la plumbea rigidità dell'ex maestro di Predappio e dell'ex imbianchino bavarese come imbambolati dinanzi ai tesori d'arte. Con una sostanziale differenza, che non sfugge all'accorta guida. "Mentre Mussolini non nascondeva il suo disinteresse o passando per le sale senza guardare o accostandosi a un'opera a leggere il cartellino per poi restare un po' di fronte ad essa a pancia protesa a guardarla come se fosse un muro bianco, Hitler amava realmente le false qualità artistiche che scopriva e se ne commuoveva. Come si commuove agli acuto del tenore il barbiere appassionato di musica". Insomma due patetici dilettanti, il primo più sfacciato nell'ostentare la propria ignoranza, salvo pietire "con sguardo penoso" l'aiuto del suo Cicerone quando teme di non essere all'altezza dell'ospite; l'altro animato da pretese artistiche aggravate da una insopprimibile vocazione alla simulazione e all'inganno. Ipnotizzato soprattutto dai nudi di Afrodite e di Paolina, il Füher arriva a confessare al professore che, sistemate le cose in Germania, sarebbe tornato in Italia per visitare in incognito i monumenti. "Sì, proprio lui che ha messo al bando i Manet, i Cezanne, i van Gogh...". Per fortuna Hitler non ha ancora il dono di leggere nei pensieri. Non cambiò la storia, Ranuccio Bianchi Bandinelli, ma poté cambiar presto la sua vita. Ritiratosi di nuovo nell'ombra, alla fine di quello stesso anno avrebbe rinunciato alla prestigiosa direzione del Scuola archeologica italiana di Atene lasciata libera da Alessandro della Seta cacciato perché ebreo. Dopo la guerra entrerà nel Pci proponendo ai suoi mezzadri una gestione collettiva della terra. I suoi libri rivoluzioneranno la storia dell'arte e l'archeologia. Come sarebbero andate le cose se davvero avesse ucciso i due tiranni? Non se l'è mai domandato, sapendo che la storia non si fa con i se.

Il mito sinistro dell'intellettuale collettivo. Da Gramsci passando per il Sessantotto ha prevalso sempre il pensiero organico. Che ha incantato il ceto medio, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Ma cos'è poi questa famigerata egemonia culturale? Quando è nata, come è cresciuta, come si manifesta oggi? Dopo la denuncia del filosofo cattolico Giovanni Reale sulla dittatura culturale marxista in Italia poi mutata in laicismo illuministico, e il «Cucù» che vi dedicai, ho ricevuto varie lettere che chiedono di precisare meglio il tema. In che consiste questa becera egemonia? Per cominciare, il modello ideologico dell'egemonia culturale viene tracciato da Gramsci con la sua idea del Partito come Intellettuale Collettivo che conquista la società tramite la conquista della cultura. Il modello pratico si nutre invece di due esperienze: quella sovietica, da Lenin a Trotzskj, da Zdanov a Lukács, vale a dire il ministro della cultura di Stalin e il filosofo ministro nell'Ungheria comunista. E quella fascista, con l'organizzazione della cultura e degli intellettuali di Gentile e di Bottai, che è l'unico precedente italiano, anzi occidentale di egemonia culturale (ma fu ricca di eresie, varietà e dissonanze). La storia dell'egemonia culturale marxista e laicista in Italia va divisa in due fasi. La prima risale a Togliatti che nell'immediato dopoguerra nel nome del gramscismo va alla conquista della cultura, avvalendosi degli intellettuali organici militanti e di case editrici vicine: da Alicata a Einaudi, per intenderci, per non parlare della stampa. È un'egemonia non ancora pervasiva, punta alla cultura medio-alta e regge sulla riconversione di molti «redenti» dal fascismo. Contro questa egemonia si abbatterà la definizione, altrettanto nefasta, di «culturame» da parte del ministro democristiano Scelba. La seconda egemonia nasce sull'onda del Sessantotto e il Pci diventa poi il principale referente ma anche in parte il bersaglio dell'estremismo rosso. Il distacco dall'Unione Sovietica viene motivato, pure all'interno del Pci, col tentativo d'intercettare quell'area radicale, giovanile e marxista che non contestava l'Urss nel nome della libertà, ma nel nome della Cina di Mao, di Che Guevara, di Ho Chi Minh, e altri miti esotici e rivoluzionari. Perfino Berlinguer, quando accenna a dissentire dal Patto di Varsavia, parte da lì. Dopo il '68 vanno in cattedra nugoli di giovani fino a ieri contestatori, poi assistenti e presto neobaroni. La saldatura tra le due sinistre avviene con la nascita, da una costola de l'Espresso, de La Repubblica che raccoglie le sinistre sparse e concorre alla «secolarizzazione» del Pci nel progetto di un partito radicale di massa. Con La Repubblica e i suoi affluenti ha un ruolo decisivo nella nuova egemonia la sinistra televisiva, cresciuta in Raitre. Sul piano culturale Gramsci viene fuso con Gobetti e Bobbio diventa il nuovo papa laico dell'egemonia. Negli anni di piombo convivono l'egemonia gramsciana con l'egemonia radical che ne prende il posto, a cui contribuiscono i reduci del '68, dal manifesto a Lotta Continua. Se prima era il Partito a guidare le danze, ora è l'Intellettuale Collettivo a dare la linea alla sinistra e a guidarla sul piano dell'egemonia culturale. L'egemonia, sia gramsciana che radical, ha due caratteristiche da sottolineare. Non tocca, se non di riflesso, gli apici della cultura italiana, ma si salda nei ceti medi della cultura, nel personale docente, fino a conquistare buona parte dell'Università e della scuola, dei premi letterari, della stampa e dell'editoria, oltre che del cinema e del teatro, dell'arte e della musica. Nulla di paragonabile, per intenderci, con l'egemonia nel segno di Gentile e d'Annunzio, Pirandello e Marinetti, Marconi e Piacentini, per restare agli italiani. In secondo luogo tocca di striscio la cultura di massa, che è più plasmata dai nuovi mezzi di ricreazione popolare, a partire dalla Rai democristiana, Bernabei e l'intrattenimento nazionalpopolare, lo sport e la musica leggera, e poi la tv commerciale e berlusconiana. Dunque un'egemonia dell'organizzazione culturale, dei poteri culturali, dei quadri intermedi, senza vertici d'eccellenza e senza adesione popolare. Ma i riflessi della sua influenza s'infiltrano a macchia d'olio su temi civili e di costume fino a creare un nuovo canone di remore e tabù. L'egemonia culturale fagocita la cultura affine, asserve quella opportunista e terzista, demonizza o delegittima le culture avverse, di tipo cattolico, conservatore, tradizionale o nazionale. Innalza cordoni sanitari per isolare i non allineati, squalifica le culture di destra, bollate ieri come aristocratiche e antidemocratiche, oggi come populiste e razziste-sessiste; da alcuni anni preferisce fingere che non esistano, decretando la morte civile dei suoi autori. Qui converrà distinguere nel trattamento tra gli imperdonabili e i tollerati. Sono imperdonabili coloro che sono considerati legati a principi tradizionali e a una visione spirituale della vita, chi nutre un giudizio diverso sul fascismo, sul comunismo o sul berlusconismo, sulla religione e sulla famiglia, o chi non condivide il nuovo catechismo fondato sull'omolatria e sul permissivismo intollerante con chi non si allinea. Sono invece tollerati i neognostici che coltivano spiritualismi esoterici, fuori dal mondo e dal tempo, tipo Adelphi; si può arrivare a Guénon ma non a Evola, a Quinzio ma non a Sciacca, a Zolla ma non a Del Noce. Poi i dandy, che lasciano figurare i loro estremismi come stravaganze individuali o pose letterarie o puro vintage, che non contestano i valori dominanti e gli stili di vita; o infine, i fautori della destra impossibile che detestano ogni destra vivente e reale nel nome di quella che non c'è (genere montanelliani dell'ultim'ora). Sopravvive all'egemonia chi intrattiene buone relazioni coi suoi funzionari o si affilia ai clan ammessi o sottomessi. Particolare è il trattamento per i fuorusciti dalla Casa Madre dell'egemonia, gli ex-compagni migrati sulle sponde avverse: sono prima trattati con particolare disprezzo come traditori, cinici e venduti, ma alla fine sono accettati come interlocutori per via del pédigrée, di antichi rapporti e comuni circuiti di provenienza o pulsioni sinistre talvolta riaffioranti in loro. L'egemonia culturale fa male alla cultura, è inutile dirlo, ne danneggia non solo la libertà ma anche la qualità, la dignità e la varietà. Ma alla cultura nuoce pure la noncuranza, il disprezzo, la sottovalutazione, assai diffusi nell'alveo sociale e politico cattolico, moderato, liberale o di destra. Alla fine chi non è allineato all'egemonia si trova tra due fuochi, anzi tra il fuoco degli intolleranti e il gelo degli indifferenti. E si destreggia per non finire bruciato o ibernato.

Quegli intellettuali che, vicini al fascismo, si trasformarono subito in fiancheggiatori del PCI, il quale, su suggerimento togliattiano, cercava di applicare i princìpi dell'egemonismo gramsciano. Ma nei limiti dell'intelligenza comunista su descritta. Infatti, tale operazione si limitò ad intercettare prima gli intellettuali reduci dai littoriali, poi quelli reduci dalle trincee, infine i reduci dalla prigionia e dalle file socialrepubblicane. Tale reclutamento all'italiana portò ad un'egemonia di facciata, molto esteriore e falsa, che gli italiani percepivano facilmente, ed al primo stormir di vento, qual foglie precocemente ingiallite, tutti (scrittori, cineasti, artisti, consulenti, mediatori, critici) s'involarono nell'azzurro cielo del conformismo atlantico.

Già alla vigilia della Prima guerra mondiale la reputazione degli italiani non era delle migliori. Tutti erano convinti che nella Grande Guerra avremmo cambiato di nuovo bandiera, cosa poi puntualmente avvenuta. E questa nostra attitudine a "correre in soccorso dei vincitori", come disse Flaiano, si manifesta con desolante regolarità da oltre un secolo. Le migliaia di camicie nere indossate solo dopo il successo della marcia su Roma. I fascisti diventati antifascisti nell'arco di una notte (25 luglio 1943). Il brusco voltafaccia di Casa Savoia, prima alleata e poi nemica dei tedeschi nel corso dello stesso conflitto. I partigiani dell'ultima ora. Gli intellettuali passati, dopo il 25 aprile 1945, dalla corte di Bottai a quella di Togliatti. Il viavai tra le porte girevoli delle correnti democristiane. La corsa in massa alle sezioni del Pci nel momento del "sorpasso" sulla Dc (1976). Craxi che, divenuto segretario del Psi, fu idolatrato come una divinità egizia e alla fine mollato in un nanosecondo. Berlusconi che, trasformatosi da "ragazzo coccodè" a eminente statista (1994), fu corteggiatissimo da ex supponenti rivali. Dirigenti d'azienda e giornalisti Rai che, dopo l'affermazione elettorale di Alleanza nazionale (1996), scoprirono di essere di destra, salvo poi dire, quando il leader cadde in disgrazia: "Fini chi?". Fino a Renzi, snobbato da tutti dopo la sconfitta subita da Bersani alle primarie del 2012 e oggi inseguito da uno stuolo di zelanti e insospettabili ammiratori.

Ed ecco il naturale sbocco letterario con Bruno Vespa: "Italiani voltagabbana". Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per ...Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito, è scritto nella recensione del libro della Mondadori. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per questo libro. I voltagabbana sono una costante della storia nazionale. Dal Risorgimento, quando venivamo accusati di vincere le guerre con i soldati degli altri, alla prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, quando in nome del «sacro egoismo» a un certo punto ci trovammo a combattere a fianco delle due fazioni opposte, per scegliere infine quella vincente, rivolgendo le armi anche contro i tedeschi, nostri alleati da trent'anni. Mussolini, che voltò gabbana come interventista prima della Grande Guerra, si alleò con Hitler nella seconda anche perché gli era rimasto il complesso del «tradimento» del 1915. Alla caduta del fascismo, i voltagabbana furono milioni, e Vespa narra con divertito stupore la storia di prestigiosi intellettuali e artisti diventati all'improvviso antifascisti dopo aver orgogliosamente inneggiato al Duce fino al 25 luglio. E sulla pagina vergognosa dell'8 settembre 1943 è ancora aperto il dibattito se gli italiani abbiano tradito i tedeschi o – secondo una versione più recente – se siano stati i tedeschi a tradire gli italiani. Nella Prima Repubblica i politici cambiavano spesso corrente (specie nella Dc) piuttosto che partito, ma i tradimenti più clamorosi furono senza dubbio quelli di molti dirigenti socialisti nei confronti di Craxi. Tuttavia, il trionfo dei voltagabbana si è avuto nella Seconda Repubblica e all'alba della Terza, quella che stiamo vivendo con la riforma costituzionale. Centinaia di parlamentari hanno cambiato casacca con sconcertante disinvoltura e diversi governi sono nati e caduti con il contributo decisivo dei «senza vergogna». Berlusconi e Prodi ne sono stati le vittime principali. Dopo essere stato via via abbandonato da Bossi, Fini e Casini, in queste pagine il Cavaliere accusa severamente Alfano, che si difende dall'accusa di «parricidio» e parla, semmai, di «figlicidio». A sua volta, il Senatùr è stato abbandonato da chi lo adorava e Beppe Grillo ha già avuto le sue molte delusioni. Nel libro, naturalmente, ampio spazio viene dedicato a Matteo Renzi, ai retroscena della sua ascesa al potere e al governo, e ai tanti che lo detestavano e ora lo amano. E ampio spazio viene dedicato alle donne: quelle che Renzi ha portato al governo, o a incarichi di grande potere, e a Francesca Pascale, che per la prima volta racconta nei dettagli la sua storia d'amore con il Cavaliere. In Italiani voltagabbana, Bruno Vespa dipinge con il consueto stile incalzante un affresco del costume nazionale, rileggendo la storia e la cronaca sotto un'angolazione umanissima, anche se assai poco lusinghiera.

Bruno Vespa ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione «Porta a porta» è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vincitori e vinti, L’Italia spezzata, L’amore e il potere, Viaggio in un’Italia diversa, Donne di cuori, Il cuore e la spada, Questo amore, Il Palazzo e la piazza e Sale, zucchero e caffè.

Opportunisti, paurosi, voltagabbana: italiani, non siete cambiati, scrive Fertilio Dario su “Il Corriere della Sera”. Dopo le rivelazioni dei colloqui telefonici tra il luglio e il settembre '43, gli storici si interrogano sull'oggi. Italiani, povera gente? Di certo opportunisti, paurosi, trasformisti. Persino patetici, nello sforzo di rimuovere la catastrofe del regime. Infantili, con l'illusione assurda di invitare a uno stesso tavolo nazisti e alleati. Gattopardeschi, e sicuri che dopo l'arresto di Mussolini tutto dovesse cambiare per poter restare come prima. Disinformati, al punto da immaginare che gli angloamericani (in accordo con la propaganda ufficiale) sarebbero stati "inchiodati sul bagnasciuga della Sicilia". Equilibristi, in omaggio alla celebre arte di arrangiarsi. Così almeno appare la nostra classe politica e intellettuale, stando alle intercettazioni telefoniche registrate dal Servizio d'informazione militare fra il 25 luglio e l'8 settembre del '43. Ieri le ha pubblicate il Corriere, con il commento di Renzo De Felice, e oggi l'interrogativo è al vaglio degli storici: possibile che in quegli anni gli italiani fossero proprio così? Che tutti, o quasi, si ostinassero a vivere in un mondo di favole littorie e slogan mascelluti quando già la situazione era precipitata? Possibile, certo, secondo Giorgio Spini. Anzi, addirittura scontato. "Già alla fine degli anni Quaranta, afferma, Federico Chabod mi chiese di analizzare autobiografie e memoriali dei generali italiani nei giorni della sconfitta. Ne venne fuori che nessuno aveva capito nulla, nè aveva avuto sentore del 25 aprile, eccetto il generale Cadorna per via dei suoi contatti con il Partito d'azione e La Malfa". Perciò le rivelazioni di oggi, secondo Spini, "sono soltanto la conferma del lavoro di allora: il deserto mentale e l'imbecillità della classe dirigente. Qui non c'entravano destra o sinistra. Il fatto era che la selezione dei gruppi dirigenti nell'Italia fascista, militari compresi, era stata realizzata alla rovescia, promuovendo i più stupidi. Le conversazioni telefoniche, le sciocchezze che venivano prese sul serio confermano come questi importanti generali e dirigenti di regime fossero veramente poveri diavoli". C'era allora una colpa collettiva? "Non la addosserei agli italiani: fra loro ce n'erano anche alcuni tutt' altro che scioccherelli, come De Gasperi. Il problema stava nella selezione negativa del regime, che dopo tutto era rimasto fedele alla ideologia del manganello". Un simile stato di minorità mentale, secondo il politologo Dino Cofrancesco, è testimoniato dall' atteggiamento collettivo nei confronti della guerra. "Proprio come i sudditi di due o tre secoli prima, i dirigenti concepivano il conflitto in corso come "limitato" e reversibile, parte di un destino che restava al di sopra di loro, e sul quale soltanto il capo supremo poteva intervenire. A differenza dei cittadini di uno Stato democratico, avevano accolto la conquista dell'Abissinia come un miracolo compiuto da un altro, ora si illudevano che un altro li avrebbe cavati d'impaccio. Come dire: abbiamo avuto una mano sfortunata alla roulette, dunque raccogliamo le fiches e torniamocene a casa. Il fascismo, che pure per molti aspetti aveva modernizzato il Paese, li aveva educati a dipendere da qualcun altro, ne aveva fatto soltanto dei sudditi. Oggi a nessuno sfugge che le democrazie, più restie delle dittature a intraprendere le guerre, sono poi inesorabili nel condurle a termine. Invece nessuno aveva detto agli italiani d'allora che le guerre contemporanee si combattono in un altro modo, sono conflitti totali nei quali tutti i cittadini vengono coinvolti più o meno allo stesso modo, sopportandone fino in fondo le conseguenze". Anche Paolo Alatri, di fronte alle rivelazioni sull'impreparazione psicologica degli italiani e alla disinformazione di cui erano vittime, è molto colpito. "Tutti si muovevano in una specie di gelatina - afferma - in cui trovavano accoglienza le possibilità e le ipotesi più inimmaginabili. C' era chi fantasticava su possibili alleanze con i russi, chi prevedeva un abbraccio con gli inglesi, chi avrebbe voluto volentieri gli uni e gli altri alla sua tavola. Incredibile, poi, la generale sottovalutazione del ruolo dei tedeschi, come se mettersi d'accordo con loro fosse stato facile quanto bere un bicchier d'acqua. E che dire poi degli americani? Nei discorsi collettivi parevano scomparsi, inghiottiti o rimossi dalla coscienza". Come si era potuto arrivare a simili autoinganni? "La radice del fenomeno va cercata nella politica di grande potenza: l'Italia si fingeva un Paese guerriero e attrezzato per tutte le evenienze, senza averne nemmeno le basi. Non c'è da stupirsi se fra i suoi esponenti o simpatizzanti più in vista non ne esistesse uno solo con una prospettiva realistica. Basti pensare al progetto di "Roma città aperta". Oppure a quel senatore Felici, nazionalista monarchico e per molti anni procuratore di D'Annunzio nei suoi rapporti col fascismo, convinto che la penetrazione degli Alleati in Italia non sarebbe mai potuta riuscire". Ma siamo poi tanto mutati, cinquant'anni dopo? Viene da dubitarne, se diamo retta ad Arturo Colombo, pronto a riscontrare nei discorsi dell'Italietta 1943 molte affinità con la cultura poi affermatasi nel dopoguerra. Ecco Spataro, destinato a diventare un leader della Dc, ragionare sulla necessità di creare un centro politico capace di "logorare" gli avversari. Ecco la costante paura del comunismo, un autentico spauracchio collettivo, che lascia in ombra qualsiasi volontà costruttiva di mettere in piedi un sistema politico liberaldemocratico. Ecco Missiroli, convinto che il vecchio non debba morire, e deciso a ritornare immediatamente a galla. Ed ecco infine il sacro slogan "Credere, obbedire, combattere" riadattato alle necessità del momento. Credere? A niente e nessuno. Obbedire? Ai vincitori. Combattere? Sì, ma per salvare la pelle.

Italiani, popolo di poeti, eroi e voltagabbana, scrive “L’Unità”. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto studioso di letterature comparate italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano - fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese - prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.

Già, la solita sinistra. Vede la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei suoi occhi.

Da “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso, scrive Bruno Vespa su "Il Giornale". Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943. In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI. Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell'antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

NORBERTO BOBBIO. Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l'organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l'erano cavata».

INDRO MONTANELLI. Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA. «Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo...». Dev'essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l'8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d'ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l'industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell'articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell'Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo...». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORRESIO. Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l'atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell'animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI. Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l'economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI. Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l'ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L'assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l'entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l'ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo - come tutta la redazione - generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.

IL TRAVESTITISMO.

L'amnesia selettiva della "Stampa" che dimentica i direttori sotto il fascismo. Il quotidiano celebra i 150 anni con un inserto. Ma oscura perfino Curzio Malaparte, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". Lo smemorato piemontese ha cambiato indirizzo da Collegno a Torino, via Lungaro, al civico 15. Cose che possono capitare quando si celebrano eventi storici e, stranamente, vengono dimenticati, cancellati dai ricordi e dalle citazioni, nomi e personaggi illustri che quella storia hanno scritto. Prendete, ad esempio, la Stampa di Torino, con sede appunto in via Lungaro. Ha festeggiato i propri 150 anni con una pubblicazione supplemento che ripercorre fatti, eventi, firme di un secolo e mezzo, partendo dagli esordi fino ai contemporanei. Il titolo dell'opera è Il Mondo che ci aspetta. Nell'attesa del mondo e delle sue novità, è stato interessante rileggere nomi illustri che hanno fondato e illuminato le pagine di questo giornale che rimane la bandiera sul pennone più alto di una città, di una Regione, di un certo tipo di lettore, dopo la chiusura maligna de La Gazzetta del Popolo. Bello, dunque, ripercorrere non soltanto la cronaca del secolo e mezzo attraverso i nomi di chi ha dovuto gestire, dirigere il giornale. Non tutti i nomi, in verità, risultano riportati dal supplemento. Anzi, è singolare come per il periodo che va dal '26 al '45 la Stampa non abbia avuto direttori, forse non sia nemmeno uscita dalla tipografia. Era il tempo del fascismo, epoca dura eppure dagli archivi risulta che si siano avvicendati alla direzione del foglio torinese ben cinque direttori: Andrea Torre dal 30 novembre del '26 all'11 febbraio del '29, quindi Curzio Malaparte, dal 12 febbraio del '29 al 30 gennaio del '31, Augusto Turati, dal 31 gennaio del '31 al 12 agosto del '32, Alfredo Signoretti, dal 13 agosto del '32 al 25 luglio del '43; quindi, caduto il fascismo, il Ministero di cultura popolare approvò le nomine di Vittorio Varale dal 28 luglio del '43 al 9 agosto dello stesso anno, Filippo Burzio dal 10 agosto del '43 al 9 settembre fatidico e, sotto la R.S.I. furono direttori Angelo Appiotti, Concetto Pettinato e Francesco Scardaoni. Nessuno di questi ha trovato spazio nel supplemento, nemmeno tra le righe di una didascalia, come è accaduto per altri. Credo se ne sia persa la memoria, spontaneamente costretti. Salutato il Duce, sono stati salutati anche i direttori. Pratica che si è ripetuta quando due anni fa venne data alle stampe, dalla RCS, una pubblicazione sui presidenti della Juventus: tutti, tranne Vittorio Chiusano, colpevole di aver fatto parte dell'epoca Giraudo-Moggi-Bettega. La memoria fa brutti scherzi, non soltanto a Collegno.

Storia del travestitismo di sinistra e del falso storico ed ideologico. Dai “padri costituenti” al Partito Democratico. Materiale e documenti pubblicati e non rimossi dal sito “geocities.ws”. Gran parte delle documentazioni qui esposte in ordine alfabetico sono state pubblicate su internet o digitate per la prima volta sul forum di annozero, nel 2007, per essere rese accessibili sulla rete, suscitando scandalo e reazioni staliniste con insulti e linguaggi tipici da piccisti degli Anni ’50…Quando scoppiò lo scandalo Bobbio… internet era un po’ agli albori, ma oggi si trovano molte cose. Anche facendo indagini sull’Archivio Storico di Angelo Tasca si scopre un universo di guerre e cose sporche. Per chi ama ricercare cose rare in biblioteca, in alcune biblioteche, forse… vi è ancora l’opera di Nino Tripodi – Intellettuali sotto due bandiere, fatto da un ex fascista che fu massacrato da altri ex fascisti… e per vendicarsi ricorse alla copertura di Ciarrapico per pubblicare un dossier terremoto… messo subito a tacere. Enrico Mattei definì al tempo tutto questo: “La danza dei fascicoli riservati” e lui sapeva come usarli. Per quanto riguarda le cose recenti, la commissione di indagine parlamentare sull’Armadio della vergogna… c’è da ridere…si legga qua: Ex fascisti in Commissione. Uno per uno, ecco gli ex fascisti della commissione parlamentare d’inchiesta sui crimini del nazifascismo. Giuseppe Scaliati – La Voce della Campania – 25/10/2005. Gli ex missini indagano sui crimini della Repubblica di Salò, per poi riabilitare gli autori di quelli eccidi. Proprio così. Da due anni è stata istituita infatti alla Camera dei deputati una commissione d’inchiesta sui crimini nazifascisti del dopoguerra, avvenuti durante la breve esperienza della Repubblica sociale italiana. Fra i membri, alcuni deputati dichiara fama neo o post fascista. La “commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti” è stata istituita con una apposita legge il 15 maggio 2003 col compito di indagare sulle anomale archiviazioni “provvisorie” (come da timbro del 1960) e le cause dell’occultamento dei 695 fascicoli ritrovati nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare. I fascicoli di quello che è poi diventato “l’armadio della vergogna”, contenevano le prove sulle pesanti responsabilità dei militari della repubblica di Salò, complici di tanti eccidi consumati dalla Wemarcht e dalle SS naziste nel corso della seconda guerra mondiale nei confronti di circa 15 mila vittime. Almeno diecimila civili e 580 bambini, come calcola lo storico Gherard Schreiber. Infatti, durante il periodo della Repubblica di Salò, nazisti e fascisti, SS e repubblichini, causarono decine di migliaia di morti, uccidendo «gente senz’armi, civili in fuga dalla guerra», come ampiamente documentato da L’armadio della vergogna, lo sconvolgente libro di Franco Giustolisi edito da Nutrimenti. «Le vittime – si legge nel volume – furono per lo più donne, vecchi, bambini. Piccoli ancora in fasce. Altri mai nati. Li cavarono dal ventre delle madri con le loro baionette e ne fecero bersaglio delle loro armi». Finita la guerra, i fascicoli delle prime indagini sui colpevoli di quegli eccidi erano presenti nella sede della Procura generale militare di Roma, ma improvvisamente tutto fu insabbiato.

A. come...Argan Giulio Carlo. ARGAN Giulio Carlo, politico-sindaco comunista di Roma - Collaboratore di Bottai -Ministro Educazione…. Collaboratore della rivista “PRIMATO FASCISTA” del ministro Bottai ..Iscritto al PNF…segretario di redaz. della rivista fascista Le Arti….

B. come...BARTOLI Domenico. Notissimo giornalista anti-fascista, grande estimatore (e grande protetto) di Ugo La Malfa, ha elaborato la teoria secondo la quale chi si schierò con la RSI non dovrebbe avere la cittadinanza italiana. Durante il Ventennio fu uno zelantissimo apologeta del Fascismo, tanto che nel 1935 scrisse sulla rivista “Saggiatore”: “E’ evidente che per il nostro lavoro abbiamo un punto fermo: il nucleo centrale della dottrina fascista, così come lo ha precisato Mussolini”. Precedentemente, nel 1933, aveva pubblicato il libro “Il volontarismo delle Camicie Nere”, nel quale aveva scritto: “La Rivoluzione delle Camicie Nere che segna la rinascita di tutta la vita italiana, mentre da un canto ha impresso alla Nazione un nuovo slancio verso il futuro, l’ha d’altra parte ricollegata alle sue tradizioni più alte.” BIAGI Enzo. Collaboratore della rivista “PRIMATO FASCISTA” del ministro Bottai -Partecipa ai Littoriali del 1935. BINNI Walter. Deputato socialista Costituente- Partecipa, si classifica Littoriali, nel ‘39 collabora a Civiltà Fascista, fino al ‘42 scrive su “Primato Fascista”, aderisce alla campagna del PNF contro il “lei”. Partecipa, e vince ai Littoriali, quale rappresentante dei GUF (Gruppi universitari fascisti). BO Carlo. Docente universitario. Partecipa e si classifica ai Littoriali della Cultura. Collabora alla stampa del Ventennio. Sarà poi riverito cattolico di sinistra… BOBBIO Norberto. Che dovette ammettere a malincuore di aver avuto un trascorso fascista SOLO quando prove e testimonianze sono divenute di dominio pubblico. Nel Paese che dimentica tutto e in fretta l’intellettuale “di sinistra” se la cavò con un “È stata una triste parentesi…”. Bobbio, che di essi era il grande vecchio, servì il Fascismo fin dalla gioventù. Iscritto al PNF dal 1928 percorse una rapida carriera universitaria in camicia nera. Scrisse e fece scrivere al Duce ripetute lettere di appassionata fedeltà, alcune delle quali sono riuscite a vedere la luce in epoca recente. Giurò fedeltà al Duce anche un anno dopo le leggi razziali, esattamente il 3 marzo 1939, per poter ottenere una cattedra all’Università di Siena. Rigiurò fedeltà al Duce ancora nel 1940, a guerra dichiarata, per insediarsi a Padova nella cattedra del professor Adolfo Ravà, che era stato allontanato perché ebreo Su oltre 1.200 docenti universitari dell’epoca, solo dodici rifiutarono di prestare quel giuramento: Bobbio decise di stare non con i 12 ma con i 1188″. BOCCA Giorgio. Scrittore, giornalista; addetto al CINEGUF di Cuneo. Fra gli scritti che sostennero la propaganda razzista in Italia,la Mostra elenca quelli di Giorgio Bocca, Scrive, nel 1942,sul giornale della Federazione fascista di Cuneo .” …sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, come ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di portarla in stato di schiavitù”. Come già citato sopra, in La Provincia Granda, 4 Agosto 1942, Giorgio Bocca, scrive: “Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. La vittoria degli avversari solo in apparenza, infatti, sarebbe una vittoria degli ebrei. A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere, in un tempo non lontano, essere lo schiavo degli ebrei?” Giorgio Bocca a 18 anni ottiene la tessera del PNF (Partito nazionale fascista), sottoscrive il Manifesto in difesa della razza italiana, fortemente voluto da Benito Mussolini per compiacere l’alleato tedesco. Ancora ad agosto del 1942, giovane giornalista fascista, scrive un notabile articolo in cui imputa il disastro della Guerra alla congiura ebraica. Il 5 gennaio 1943 denuncia alla polizia fascista l’industriale Paolo Berardi che, in un treno, ha l’infelice idea di dire ad alcuni reduci dal fronte russo e dalla Francia “che la guerra è ormai perduta”. Dopo l’8 settembre 1943 passa alla Resistenza. (Ma dai???). BUFALINI Paolo. Dirigente del PCI, per molti anni senatore, aveva pubblicato su “Roma fascista” del 22.2.1936 un bell’articolo dedicato alla libertà di stampa, nel quale spiegava che il Fascismo è un impegno di vita e che solo il Fascismo poteva stabilire che cosa fosse la libertà di stampa e quindi quali ne fossero i limiti. BUZZATI Dino. Collaboratore della rivista “PRIMATO FASCISTA” del ministro Bottai, è fra i giornalisti e scrittori che aderirono alla RSI. Per arricchire la lettera B, bisognerebbe rivendicare la VERA pubblicazione di tutto il contenuto dell’armadio della Vergogna, a cui i soliti intellettuali e “storici-democratici” viene delegato il compito del lavoro di forbice e della più sporca delle pulizie.

C come...CAGLI Corrado. Artista, poi pittore “comunista”. Autore di un immenso quadro apologetico della Marcia su Roma. CALAMANDREI Franco. Picì, capo dei GAP romani, implicato nell’attentato di Via Rasella.Partecipa col GUF di Firenze e vince i Littoriali della Cultura del 1935. CARETTONI Tullia. Deputata picì e V. Pres.Senato. Dirigente GUF di Roma, collabora a Roma Fascista fino al ‘43. COMENCINI Mario. Regista. Partecipò, quale rappresentante di Milano, ai Littoriali del1935 e del 1936. CALLEGARI Gianpaolo. Scrittore, giornalista. Collaboratore della Stampa Fascista con articoli impegnatissimi, specie a sostegno della valorizzazione dei giovani da parte del regime. Nel 1942 è perfin ottimista e ritiene in ripresa la “produzione dell’autentica letteratura” (quella fascista) e annovera la “moralizzazione del gusto” come aspetto caratterizzante della guerra. Persa la guerra passa alla sinistra. CANONICA Pietro. Scultore. Elevato da Mussolini alla dignità di ACCADEMICO d’ITALIA. Elevato poi dall’Italia antifascista alla dignità di SENATORE A VITA…. CARETTONI Tullia. Attiva dirigente del GUF di Roma e collaboratrice di Roma Fascista fino al 1943. Persa la guerra diviene parlamentare eletta nelle liste di Togliatti e vicepresidente del Senato. CARLI Guido. Collabora a Critica Fascista e a Civiltà Fascista con articoli e saggi sulla politica economica nell' “Italia Corporativa” e nella Germania Nazista. Dopo la guerra passa alla Democrazia Cristiana, diviene GOVERNATORE della Banca d’Italia e successivamente in quanto “uomo di fiducia di Casa Agnelli” diviene Presidente della Confederazione degli Industriali. Esce indenne da tutte le operazioni di saccheggio del denaro pubblico finalizzate alle “opere pubbliche”. CASSOLA Carlo. Scrittore. Collabora alla stampa del ventennio. Scrive su Anno XIII, rivista diretta da Vittorio Mussolini. Sarà poi intellettuale di sinistra…CECCHI Emilio. Critico letterario, scrittore. Nonostante avesse firmato nel 1925 il Manifesto Antifascista di Croce, accettò un Premio Mussolini e nel 1940 la nomina ad accademico d’Italia. Fu al seguito di Mussolini durante il noto viaggio in LIBIA e ne scrisse le LODI. Di altre Lodi parlò Goffredo Bellonci sul Giornale d’Italia del 23 ottobre 1942: “Cecchi, ha in alcune prose esaltato la figura del Duce e analizzato criticamente il suo stile per mostrarne la forza”. Nel Dopoguerra, considerato il suo rapido inserimento nella cultura democratica e “antifascista”, non mancarono a suo carico le accuse di trasloco da una politica culturale all’altra diametralmente opposta. Carlo Ragghianti (cfr. Il Giornale, 24,9,1976), scrisse che, data l’intelligenza e la cultura di Cecchi, di lui “si leggevano con disgusto mescolato a dolore articoli e corrispondenze cortigiane”. CHILANTE Felice. Scrittore, giornalista… Con ZANGRANDI e LAJOLO, oppure Natta ed Ingrao, potrebbe completare la più rappresentativa triade del trasformismo dalla MILIZIA FASCISTA all’impegno nel PCI di Togliatti. Occorrerebbe un volume-mattone per raccogliere gli scritti di CHILANTI durante il regime. Non ci fu istituto o iniziativa del fascismo senza una sua pagina laudativa. Il fascismo era per CHILANTI “una rivoluzione continua, una marcia che le generazioni si assumeranno il compito di continuare verso gli orizzonti che sono stati precisati dal capo”. Il diapason del suo attivismo littorio fu toccato nel 1938 quando mise la penna a disposizione della campagna razziale contro gli ebrei. Ne scrisse dovunque e con virile virulenza. Il volume di Paolo Orano, Inchiesta sulla razza, contiene un suo capitolo: “La RAZZA italiana esiste, è viva, gagliarda, pura: la RAZZA italiana ha una missione da compiere nel mondo, e la compirà. Questa nuova RAZZA ritrova se stessa nel Fascismo che ha liquidato la democrazia e ha tracciato le nuove strade della civiltà nel mondo.” E ancora: “Il Fascismo è nato e si rivolge come rivoluzione sul piano universale dell’Impero, realtà dominante perché è un prodigio della razza italiana come già lo furono Roma e il Rinascimento”. Coinvolto nella congiura “superfascista” del 1942, fu mandato al confino a Lipari. Dopo la guerra fu accolto anche lui nel Picì di Togliatti e di Longo… abbracciando la “militanza comunista” con impegno pari a quello speso durante il fascismo. Ma il passato gli rimase come un peso sulla coscienza. Cercò di farne ammenda con una trilogia autobiografica di lunghi racconti-confessione intitolati Ponte di Zarathustra (1965), il colpevole (1967), Ex (1968), infarciti di manipolazioni suggerite dal bisogno di farsi assolvere e dal bisogno di troppi, tanti, colleghi di partito che preferirono non essere coinvolti dissociandosi dalla sua iniziativa. CHIARELLI Giuseppe. Docente universitario. È uno dei maestri del Diritto Corporativo Fascista, sul quale scrive parecchi libri sostenendone i pregi in contrapposizione alle teorie e ai sistemi sia liberisti che “collettivisti”. Assorbito dopo la Guerra dalla Democrazia…, godrà la prestigiosa investitura di presidente della Corte Costituzionale. CIAMPI Antonio. Scrittore. Attivo collaboratore della stampa del ventennio con articoli Apologetici, fu condirettore di Legioni e Falangi, addetto stampa del Ministero della Cultura Popolare, volontario in A.O.I. Dopo la guerra, riesce ad inserirsi nel nuovo ordine democratico. Fu dapprima direttore e poi presidente della SIAE. CIASCA Raffaele. Docente universitario. Firmatario del manifesto di Croce del 1925, passò poi al Fascismo… pubblicando libri apologetici sul colonialismo del duce. Collaboratore di Primato, tra il 1940 ed il 1943, scrisse articoli in DIFESA delle Potenze dell’ASSE e contro gli alleati occidentali. Subito dopo la guerra passò alla DC e fu eletto senatore nelle liste democristiane. CODACCI PISANELLI Giuseppe. Docente universitario, uomo politico. Partecipa ai Littoriali della Cultura nel convegno di Dottrina del Fascismo, classificandosi con onore. Nel 1940 fa domanda di iscrizione al centro di preparazione politica dei giovani. Persa la guerra diviene solerte seguace della Democrazia Cristiana, quindi deputato per molte legislature e più volte ministro. COLITTO Francesco. Uomo politico. Durante il Fascismo è attento studioso del diritto del lavoro e delle istituzioni corporative. Pubblica libri ed articoli sugli ordinamenti sindacali e corporativi mussoliniani, lodandone le “innovazioni” ed esaltando il duce. Dopo la guerra lo troviamo nel PLI per il quale sarà deputato e sottosegretario di Stato. CRESPI Mario. Industriale, nominato senatore nel 1934 su proposta di Mussolini, proprietario del Corriere della Sera, attivo esponente della società fascista, promotore e finanziatore dei famosi “Premi Mussolini”, annualmente distribuiti dall’Accademia d’Italia ai migliori intellettuali della nazione. Subito dopo il 25 luglio passa all’antifascismo. Sarà lu ad aprire prospettive di alleanza tra il Corriere della Sera ed il PCI.

D come...DE ROSA Gabriele. Docente Universitario Milita attivamente negli organi universitari del regime. Nel 1939 pubblica un volumetto intitolato “La rivincita di Ario”, a cura del GUF di Alessandria, duramente razzista ed anti-giudaico, inteso a provare “le influenze deleterie dell’ebraismo con la conseguente necessità di purgare l’Italia dalla piovra giudaica”. Sostiene altresì l’ideologia del “cattolicità e fascismo”, dove fascismo significa “agire per fini universali interiormente religiosi e sacri”, e che i giovani “debbono diffondere per l’Italia il fuoco e la vitalità del loro animo cattolico e razzista”. Dopo la guerra, il De Rosa diventa uno dei tanti “artefici” della resistenza e passa al PCI, successivamente salta dal PCI alla Democrazia Cristiana. La “sua” ricostruzione della Storia finisce sui banchi delle scuole e delle università. Nel 1977, immemore di quella equazione (cattolicità=fascismo), pubblica un’ampia ricostruzione storica e biografica di don Luigi Sturzo, il prete siciliano fondatore del partito popolare e ne loda l’emblematica contrapposizione del mondo cattolico al fascismo…Robe da matti:)))) DE FEO Sandro. Giornalista… Durante il fascismo fu critico cinematografico del Messaggero. Quale collaboratore di Critica Fascista apologizzò il regime fino a scrivere che “il senso dello squadrismo è veramente immortale”. Dopo la guerra fece professione di fede liberale e imputò a Mussolini le sue tare miserande e il “suo misero destino”. DE GIORGI Elsa. Attrice. È di casa nel gran mondo della cinematografia gestito dal fascismo, frequentatrice degli ambienti più mondani del Ventennio. Corteggiata da Galeazzo Ciano, fotografata col ministro della cultura popolare Alfieri, interprete di film patriottici come Teresa Confalonieri nel 1934. Fieramente antifascista dopo la guerra, scrive libri autobiografici (I coetanei, 1955) rinnegando le antiche amicizie e spargendo scherno e disprezzo sugli ambienti fascisti che aveva a lungo sfruttato. DE GRADA Raffaello. Critico d’arte, giornalista. Partecipa ai Littoriali della Cultura con Ottime Classifiche. Collabora alla stampa del ventennio. Indulge all’apologia del fascismo. Dopo la Guerra sarà deputato del PCI. DE SICA Vittorio. Attore. La sua carriera cinematografica si sviluppa durante il fascismo ed egli stesso è fascista, dimostrato dalle fotografie che lo ritraggono mentre recita col distintivo all’occhiello. È vero che i suoi gusti scenici erano solo sentimentali e borghesi, ma è altrettanto vero che, calandosi nei tempi, scriveva sulla rivista Scenario del Luglio 1939: “Certo è che, piuttosto che continuare a dar corpo a degli eroi della rassegnazione, della rinuncia, della modestia (tutte virtù che nessuno di noi sente più, che il tono dell’italiano nuovo è tutt’altro) io preferisco ritirarmi in buon ordine e aspettare il momento buono per rimettere il capo alla ribalta…aspetto opere che si incontrino col mio desiderio di battaglia”. Codesto suo desiderio di battagliare, come si conviene a un “italiano nuovo”, si muoverà dopo qualche anno in senso letteralmente inverso. De Sica sarà regista di film polemicamente antifascisti come Roma Città aperta e Il Generale della Rovere. DONATI Antigono. Docente universitario, uomo politico. Collaboratore della stampa del ventennio, di Bibliografia Fascista. Insegnante dell’Istituto di Studi Corporativi, fotografato in camicia nera. Poi socialista e deputato PSI al parlamento democratico.

F come...FIRPO Luigi. Docente Universitario. Dal 1934 al 1940 partecipa a TUTTE le edizioni dei Littoriali della Cultura, classificandosi SEMPRE con ONORE... È redattore capo del settimanale del GUF di TORINO: Il Lambello… (…). È premiato da Galeazzo Ciano a Lucca tra “Poeti del Tempo di Mussolini” per una Lirica INNEGGIANTE alla “giovinezza scama, guerriera – scatenata sui continenti – come vento di primavera”. Perduta la guerra, il Firpo diventa antifascista e scriverà a lungo su La Stampa articoli di integrale condanna del regime… servito in precedenza ai più alti livelli. Accusato più volte da poco coraggiose “insinuazioni” sul suo passato sarà sempre difeso da “colleghi” intellettuali di sinistra e dai clienti dei salotti-bene della FIAT: gruppo politico-culturale dominante torinese e azionista che per mezzo secolo con le risorse finanziarie della Fiat, l’appoggio di qualche loggia massonica francese e del Partito comunista italiano ha falsificato la storia del Paese con la copertura dei potentati economici a cui ha sempre leccato i piedi. FAZZINI Pericle. Scultore. Sotto il fascismo scolpisce bassorilievi per celebrare le “imprese” d’Etiopia. Persa la guerra si appresta allo studio di monumenti al partigiano.

G come...GIANNINI Massimo Severo. Docente Universitario. Collaboratore durante il ventennio dell’Archivio di Studi Corporativi e di altre riviste di diritto pubblico fascista con saggi inseriti nel sistema. Passa dopo la guerra all’antifascismo, poi liberal democratico, poi liberal anglosassone. GOTTA Salvatore. Scrittore. Aderisce fin dal 1922 al fascismo, ne sostiene le idee e gli istituti in libri ed articoli, allestisce i versi di “Giovinezza” e di altri inni fascisti, vince premi e si assicura onori e prebende di regime. Dopo la guerra passa all’antifascismo. GOZZINI Guido. Scrittore, uomo politico poi. Per valutarne la milizia fascista basta leggere l’articolo che pubblicò nell’Aprile 1939 su Critica Fascista. È un appello alla poesia perché canti “in armonia con lo spirito della romanità e del fascismo”, essendo il fascismo “un grande movimento non soltanto politico ma anche spirituale”, al quale perciò “non può mancare una sua propria glorificazione poetica”. Gozzini concluse: “Ci muova un amore: la Poesia; ci esalti una Fede: l’Italia Fascista”. È lo stesso Gozzini che negli anni sessanta si farà promotore dell’intesa tra cattolicesimo e comunismo e che, messo il “dialogo alla prova” sarà eletto nel 1976 senatore nelle liste del PCI. GELLI Licio. Nel 1984 viene dato alle stampe un corposo volume degli atti parlamentari con intestazione della CAMERA DEI DEPUTATI – Senato della Repubblica – IX Legislatura – Doc. XXII n.2-bis/1. Dal titolo: Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 (Legge 23 settembre 1981, n. 527) – Relazione di minoranza dell’onorevole Massimo Teodori. Ciascuna delle centinaia di pagine reca l’intestazione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. I vari capitoli riportano le testimonianze dei principali uomini politici del tempo che hanno dovuto presentarsi all’audizione, documenti ed ovviamente la ricostruzione nel tempo dell’attività del Gelli secondo l’onorevole Teodori. A differenza della maggioranza della commissione l’onorevole Teodori volle dedicare attenzione anche al periodo precedente la P2 ed alle relazioni tra Gelli e PCI, ma vista l’opposizione degli altri partiti questa può essere la ragione principale per cui la Commissione d’inchiesta non ne uscì con una relazione unitaria. Prima ancora, quindi, di occuparsi delle vicende degli anni 60 e ’70 fino all’esplosione dello scandalo in cronaca, Teodori dedica i primi capitoli al passato di Gelli con il capitolo n.2 dal titolo: I Rapporti col PCI: lo scheletro nell’armadio di Gelli (*) (*= precisa nella nota lo stesso Teodori: Tutti i riferimenti documentali di questo capitolo sono pubblicati nel primo volume di documenti a cura della Commissione). Segue il sottotitolo: Il dopoguerra di Gelli. Nessuna indagine della Commissione. Il passaggio a Cattaro. I contatti con il CLN e i rapporti Gelli-PCI. La consegna della lista dei collaborazionisti. Scrive Teodori: “La Commissione non ha voluto svolgere nessuna indagine diretta sul Gelli degli anni ’43 – ’47, cioé gli anni in cui nizia il doppio gioco multiplo del Gelli collaboratore di partiti e di poteri occulti, intermediario tra gli opposti schieramenti e abile manovratore nell’area particolare delle informazioni importanti e riservate, cioé nei servizi segreti. Vi è stata un’inspiegabile reticenza da parte della gran maggioranza della Commissione e della Presidente On. Tina Anselmi nell’accertamento della verità dei fatti di quel periodo. Quando la Commissione ha iniziato i lavori, era possibile, se lo si fosse voluto, interrogare alcuni diretti protagonisti delle vicende e dei coinvolgimenti del Gelli primissima maniera.” Naturalmente Teodori intendeva protestare e quindi dichiara di proseguire da solo la sua inchiesta ricorrendo, come egli stesso precisa, alle inchieste giornalistiche di Gianfranco Piazzesi ed anche ottenendo, IN ANTEPRIMA, la possibilità di consultare i manoscritti di un’opera al tempo in corso di pubblicazione presso gli Editori Riuniti: La Storia dei Servizi Segreti italiani di Giuseppe De Lutiis. Così prosegue Teodori: Nel 1943, a soli 24 anni, Licio Gelli che aveva combattuto nel campo fascista la guerra di Spagna e successivamente la guerra in Dalmazia, torna nella sua città natale, Pistoia, come ufficiale di collegamento tra Wermacht e i militi della Repubblica Sociale. Sono i mesi dell’agonia nazi-fascista che preludono al successo della Resistenza ed alla liberazione degli alleati. Tramite familiari Gelli (una sorella era militante comunista) si mette in contatto con i rappresentanti locali del CLN offrendo la propria collaborazione ed i propri servizi in forza della posizione da lui occupata nel campo repubblichino e tedesco. Fornisce in tal modo informazioni ad esponenti comunisti del Locale Comitato di Liberazione e partecipa anche ad alcune operazioni partigane, pur se costantemente ispirato da ambiguità di comportamenti. Con la liberazione della Toscana e la fine delle ostilità Gelli richiede ed ottiene la protezione dei comunisti del Comitato di Liberazione, un lasciapassare e documenti personali. Riesce in tal modo a salvare la vita ed a fuggire a Roma e a Napoli e quindi in Sardegna, all’isola della Maddalena, dove, ricercato dalle forze dell’ordine, entra in contatto con i carabinieri. Il capitolo su Gelli è forse il più importante poiché ancora strettamente legato alle vicende di oggi. Ancora oggi vi è mercimonio e ricatto di fascicoli riservati. Il famoso “armadio della Vergogna” riguarda vicende e disastri consumatisi proprio nelle terre dove il Gran Maestro ha operato dapprima come collaboratore repubblichino dei nazisti e successivamente come collaboratore dei CLN. Quali nomi vi erano nelle scottanti collaborazioni che Gelli ha passato al PCI? Cosa ha portato il PCI di Togliatti a coprirlo tutto il tempo? Gli atti parlamentari depositati dall’indagine di Teodori riportano Nomi, fatti, che vanno dalla collaborazione col PCI, fino ai passaporti diplomatici con le dittature sudamericane. Nomi di partigiani che lo hanno scortato ed anche nomi di testimoni che lo hanno incontrato. Informative del Com. In. Form n. 15743, attestati e coperture. Chiunque può partire da questi dati e verificare ed approfondire. E magari pretendere che tutto ciò che resta coperto da omissis venga scoperchiato una volta per tutte.

come...INGRAO Pietro. Poeta e uomo politico. Come poeta vinse a Lucca il “Premio poeti del tempo di Mussolini” con una lirica dal titolo Coro per la nascita di una città, con la quale celebrava la fondazione di Littoria e la mussoliniana bonifica delle paludi pontine. Sempre secondo la ricostruzione pubblicata dal Tripodi vi sono altre cronache giornalistiche narrano che fu premiato da Galeazzo Ciano “in una cornice stupenda di popolo all’aperto adunati fascisti di tutta la zona”. Come uomo politico militò prima nel Partito Nazionale Fascista (PNF), poi nel PCI. Quando era fascista prese parte ai Littoriali della Cultura, misurandosi in più gare e classificandosi a Roma nel convegno dedicato all’organizzazione del PNF. Dopo la guerra, eroe della resistenza antifascista dirige l’Unità ed entra in parlamento fin dalla prima legislatura. Raggiunse tra mille compromessi e danze di fascicoli riservati, nel 1976, il vertice di presidente della Camera dei Deputati. Il suo mutamento di bandiera fu spesso sottolineato in pubbliche polemiche di stampa. Crollato il muro di Berlino, visto lo scarsissimo livello storico-teorico di dibattito e la confusione che unisce addirittura sedicenti trotskisti e stalinisti non poteva non finire nel prc (il "Partito della Rifondazione Comunista". IOTTI Leonilde. Leonilde Iotti, detta Nilde, prima di essere l’amica del “migliore”, al secolo Palmiro Togliatti e inseguito Presidente della Camera, era nel 1942 una Giovane Italiana della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) che, come tante altre, passò in quell’anno al P.N.F. (Partito Nazionale Fascista) presso il Gruppo Rionale Fascista “A. Maramotti” di Reggio Emilia con la tessera n. 1105040 come risulta dal certificato rilasciato il 20 marzo del 1943 il XXI dell’Era Fascista. Di Ella non abbiamo, per ora…, articoli ed odi firmate che esaltano la razza ariana, come abbiamo visto per molti galantuomini messi in ordine alfabetico. Tuttavia la rete è ricca di bibliografie apologetiche della sua figura, eroina partigiana, si parla anche dei suoi tailleur… ma nessuno si azzarda a citare quel piccolo particolare dell’adesione al fascismo o che partecipò in divisa fascista alle riunioni del regime… Mentre contro altri invece sì…Tutti hanno diritto a cambiare bandiera, ultimamente va anche di moda farlo decine di volte in pochissimo tempo. Ma dobbiamo rifiutare la sola idea che possano esistere gli Intoccabili. Negli anni 90 scoppiò lo scandalo del suo passato fascista, come per tutte le cose fu ovviamente un’operazione di danneggiamento politico (come spesso accaduto in passato nella danza dei fascicoli riservati…) questa volta fatto condurre a Vittorio Sgarbi tramite i canali nazionali fininvest, come si conviene in queste circostanze lo Sgarbi fu avaro di fonti, bisogna dedurne che era in corso qualche contrattazione, per cui in questo caso alla fininvest devono saperne molto di più, ma per ragioni di mercato preferiscono il silenzio. Come da tradizione. Invece, occorre aggiungere che a fine anni 80, primi mesi del 1989 o fine 1988, esplose una violenta polemica sulle Lobby…Erano gli anni in cui un’intera classe politica stava per crollare di fronte alle inchieste della magistratura. Iotti, che al tempo era presidente della Camera si rese protagonista di un isterico intervento in difesa dell' “onorabilità” di quel parlamento… negando nella maniera più assoluta l’esistenza delle Lobbies… ed attaccando la stampa tutti quanti in quel periodo urlavano allo scandalo. Questo episodio rivela da solo la forza ed il ruolo di questo personaggio. L’episodio fu ripreso dai giornali il giorno seguente, la cosa è agli atti parlamentari ed a radio radicale dovrebbero tutt’ora essere in possesso delle bobine audio di quello storico evento parlamentare, in quanto al tempo si fregiavano di essere gli unici a trasmettere le dirette dalle Camere.

J come...JACOBBI Ruggero. Critico e scrittore. Partecipa ai Littoriali e si classifica tra i primi. Collabora attivamente alla stampa del Ventennio, compresa quella di partito, come Civiltà Fascista e Roma Fascista. Caduto il fascismo passa a sinistra. Prima è nel PCI, ma per le elezioni amministrative del 1964 invita a votare PSI, firmando appelli di intellettuali socialisti. JAEGER Nicola. Docente universitario. Partecipa attivamente alla sistemazione giuridica dei principi e degli istituti del fascismo: nel 1932 è uno dei relatori generali del famoso convegno di Ferrara. Nel 1939 pubblica un volume sui Principi di Diritto Corporativo, testo fondamentale per la conoscenza e lo studio del corporativismo fascista. In epoca democratica sarà Giudice della Corte Costituzionale su segnalazione delle sinstre. Togliatti lo definirà membro attivo del movimento comunista.

L come...LATTUADA Alberto.

Regista e produttore cinematografico. Inizia la sua carriera durante il fascismo partecipando più volte ai Littoriali della Cultura e conquistando il titolo di Littore di critica cinematografica. Collabora alla stampa del Ventennio in special modo a Libro e Moschetto del GUF di Milano. Dopo la sconfitta dirige e produce “film di denuncia” delle aberrazioni fasciste e invita a votare socialista. LUCIFREDI Roberto. Docente universitario e uomo politico. Estensore di numerose voci del Dizionario di Politica edito dal PNF nel 1940 e specie di quelle riguardanti le innovazioni del regime nel campo del Diritto Pubblico. Passato poi alla Democrazia Cristiana, sarà deputato in moltissime legislature repubblicane, ministro e vicepresidente della Camera dei Deputati.

M come... MACCARI Mino. Incisore, pittore, scrittore. Dopo il 25 Luglio 1943 aderisce all’antifascismo, milita nel Partito Socialista, dedica le sue indubbie qualità artistiche a disegnare manifesti e vignette antifasciste. Durante il fascismo era stato invece squadrista, marciatore su Roma, segretario del Fascio di Colle Val D’Elsa, docente dell’Accademia di Belle Arti della capitale, senza concorso, per investitura diretta da parte di Bottai. Direttore della rivista “Il Selvaggio” (1924-1943), ne fece foglio di aggressive polemiche a sostegno di un “fascismo integralista”, intollerante, manesco, strapaesano. Contro ogni accenno della rivoluzione a normalizzarsi, andava in bestia brontolando e auspicando la riesumazione del manganello prima maniera. Ecco alcuni versi della sua “Nostalgia dello squadrista”:

“Malinconico il tuo destino.

O squadrista dei giorni ardenti.

Una seggiola e un tavolino.

Giunta, sindaco e componenti.

Hai risposto.

Il cordone della squadraccia,

era bella mondo ruffiano,

tutta ardita quella vitaccia.

A tutte l’ore essere in ballo,

che il camion presto si trova,

la ragazza ci ha fatto il callo

e per cena un paio d’ova.”

Altri versi da “Sveglia fuori ordinanza”:

Pende triste e mortificato

il tuo povero gagliardetto,

o squadrista tutto inc….ato,

meglio uscire o andarsene a letto.

E da “La marcia su Roma” si segnalano le seguenti quartine:

Quando l’uva bollì nei tini

e scarlatti si fecero i pampini

noi squadristi di Mussolini

ci riunimmo in neri manipoli.

Quando l’uva bollì nei tini

e le foglie si fecero pallide

noi squadristi di Mussolini

i gagliardetti sventolarono.

Allorché se un poeta scrive questi versi giacobini, non è affatto sostenibile la tesi che la Marcia su Roma l’abbia fatta solo “per non dire di no a un compaesano”. Eppure lo sostenne, a cuore in mano, Enzo Biagi sul Corriere della Sera del 5 giugno 1977. Tralasciamo infine per ragioni di buon gusto certi scritti pubblicati sempre ne “Il Selvaggio” dal Maccari che ironizzano sulla vedova Matteotti nell’estate del 1924. Ecco quindi un altro eroe, padre antifascista della Repubblica….MAFAI Mario. Pittore. Dipinse durante il fascismo una “Testa di balilla” e una “Via dell’Impero” adeguandosi ai miti correnti dell’apologia artistica del fascismo. Dopo la sconfitta di tale “via dell’impero”… diventa militante del PCI e scrisse su “Rinascita” che durante il Ventennio “gli artisti se ne stavano isolati e corrucciati” perché “non trovavano quel clima e quei tipi degni di essere rappresentati”. MARANINI Giuseppe. Docente universitario. Prima giornalista, poi insegnante di Diritto Pubblico presso la Facoltà di Scienze Politiche di Perugia per incarico di Mussolini. Un RISCONTRO della sua ORTODOSSIA è dato su Civiltà Fascista, da queste frasi: “Il Regime: cioè il Partito Unico, lo Stato Forte, la coscienza vibrante della grande impresa nazionale cui tutti ci industriamo di collaborare”. Nel 1937 pubblica a Firenze un volume di 350 pagine (cazzo) dal titolo “La Rivoluzione Fascista nel Diritto e nell’Economia”, ad uso dei licei e degli istituti magistrali. Collabora alla stampa fascista. Ramperti lo definisce “fedelissimo” a Mussolini. Dopo la guerra passa alla stampa “democratica ed antifascista”. Nel 1946 scrive, sull’Arno di Firenze, che “la dittatura che agisce in Russia può essere storicamente giustificata, mentre quella di Mussolini non poteva esserlo; quella dittature lascerà forse alla Russia e al mondo una grande eredità, mentre quella di Mussolini ci ha lasciato in eredità un disastro”. Vincendo nel 1961 il “Premio Marzotto” dichiara che a suo tempo avava fatto anche lui il giornalista, ma che, nel 1924, aveva dovuto abbandonare quello “splendido mestiere” per “i nuovi e proibitivi fatti politici a tutti noti”. MARINOTTI Franco. Industriale. Come tutti i grandi industriali prende le distanze dal regime a mano a mano che la guerra appare compromessa. Dopo il 25 Luglio sarà addirittura sulla sponda antifascista. Del suo originario fascismo fa fede l’adesione data nel 1939 all’iniziativa della rivista Circoli per la nomina di Mussolini a “Primo Cavaliere del Lavoro”. L’investitura doveva essere promossa da tutti gli altri Cavalieri del Lavoro, da Fassini a Pirelli, Vaselli, Rizzoli, Lauro. La rivista ne pubblicava le adesioni. Quella di Marinotti diceva: “Plaudo alla Vostra iniziativa. Sarà un grande onore e un ambito premio avere con noi il più forte e temprato lavoratore del Nostro Paese: il Duce!”. Ma l’adesione del Marinotti non si fermava alle qualità lavoratrici del Mussolini. Era anche data ai suoi programmi bellici che sono occasione di guadagno per la parte più sporca di ogni Paese…Nel 1941 scriveva: “L’entrata in Guerra dell’Italia suggella definitivamente la politica autarchica del regime. Chi comprese da subito in passato le mete autarchiche, ha oggi la soddisfazione di essere stato pioniere nella costruzione del potenziale bellico della Patria in Armi”. Queste frasi, da buon imprenditore, sono contenute in un volume-guida pubblicato a Milano, col titolo “Guida all’Autarchia”; è un volume guida anche per quanti vogliono conoscere le molte LODI alla politica del fascismo e i tanti supporti economici offerti alla guerra dagli esponenti dell’alta e media industria italiana. MARTINI Arturo. Scultore. Alla “Terza Quadriennale Romana” espone, lodato dai critici, un bel torso dell’eroe Tito Minniti, aviatore seviziato dalle truppe etiopiche allo scoppio della Guerra per l’Africa Orientale Italiana… e un’altra, grande, statua seduta del “Legionario ferito”. Per il Palazzo di Giustizia di Milano, Martini scolpisce un altorilievo avente per soggetto “La Giustizia Corporativa”. Nel 1938-39 le riviste d’arte pubblicano i bozzetti di Arturo Martini per il costruendo Palazzo Littorio in Roma, complessivamente intitolati “Storia eroica del Fascismo”. Molto di più, quindi, di una “vittoriella alta 30 centimetri e che mi fu rifiutata”, della qualle, minimizzando, scrive a Raffaello Levi nell’agosto del 1945 per negare di aver conferito al fascismo la propria arte. La lettera a Levi non è consolante per la libertà della cultura. Tra l’altro Martini si auto discrimina dagli impegni fascisti sostenendo “che questo è il mio mestiere, cioè tanto di servire il diavolo come il padreterno, e lo farò sempre, come Canova che fece Napoleone nel periodo della sua dominazione italiana, Beethoven, e mille altri casi che potrei citare. Lo scultore è come il calzolaio che fa le scarpe a chi le ordina”. Commenta invece Fernando Tempesta (cfr. Arte dell’Italia Fascista, Feltrinelli, 1976, p. 168-169) che Martini aveva trasformato “il metallo indefinito e piuttosto vile del solito populismo fascista nell’oro puro della sua mitografia popolare, che non contraddice il regime, ma che lo arricchisce se mai di nuove forme”. E conclude il Tempesta: “Francamente, davanti ad artisti come questi, certe perentorie tendenze a dire che ci fu un’arte fascista, ci appaiono piuttosto frettolose”. MAZZACURATI Marino. Scultore. Durante il fascismo era noto “per i suoi bust littori” (Il Borghese, 1 marzo 1951). Durante l’antifascismo indirizza lettere e appelli alla stampa di sinistra dichiarando di commuoversi “per i superstiti del Vajont, gli affamati dell’India, i prigionieri di Franco, gli infelici del Vietnam” (Paese Sera, 24 maggio 1966). MARTINO Gaetano. Docente universitario, uomo politico. Caduto il fascismo fu esponente di vertice del Partito Liberale, ministro degli esteri e della Pubblica Istruzione della Repubblica (democratica). Durante il fascismo fu tesserato del PNF, collaboratore della stampa fascista, zelante proselite in camicia nera delle attività politiche e culturali della Federazione dei Fasci e dell’Università di Messina. MONTANELLI Indro. [fonte: CIVILTA' FASCISTA, GENNAIO 1936] "Ci sono due razzismi: uno europeo - e questo lo lasciamo in monopolio ai capi biondi d'oltralpe; e uno africano - e questo è un catechismo che, se non lo sappiamo, bisogna affrettarsi a impararlo e ad adottarlo. Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può. Non si deve. Almeno finchè non si sia data loro una civiltà... non cediamo a sentimentalismi...niente indulgenze, niente amorazzi. Si pensi che qui debbon venire famiglie, famiglie e famiglie nostre. Il bianco comandi. Ogni languore che possa intiepidirci di dentro non deve trapelare al di fuori". (Indro Montanelli. Dicembre 1935. Da "Civiltà fascista" N.1, gennaio 1936) Il resto del delirio di questo personaggio, sdoganato dalla sinistra più corrotta prima, e mitizzato dai seguaci di Travaglio, Saviano e Grillo.... potete leggerlo in rete. Moravia Alberto. [Fonti: dagospia.com - Repubblica.it - Nello Ajello - Tripodi] Comunque pare che sia la scoperta dell’America ma mancava alla presente lista di mausolei per travestititi di rosso e usurai dell’ideologia. Moravia e il Duce. «Che Alberto Moravia non sia fascista non è un mistero per nessuno». L´osservazione figura in una nota di polizia indirizzata il 20 gennaio 1934 alla Direzione Generale della Stampa Italiana. È solo un anticipo. Subito dopo, corpose informazioni, custodite all´Archivio Generale dello Stato, avranno per oggetto Moravia. Ne emerge un ritratto, in forma inquisitoria, del romanziere di cui oggi cade il centenario della nascita. Ed è una lettura a suo modo appassionante. «Amorfo», «arrivista», «scrittore mediocre» e «di carattere misterioso», «infido», «molto propenso all´intrigo» sono le definizioni correnti. Egli non è «un ammiratore del Regime». La sua «mentalità speciale» ne fa un oppositore «caratteriale» del regime. «Una lunga degenza di sanatorio», ricorda un confidente, «influì nefastamente sul suo spirito assai sveglio». E così il suo carattere si orientò «verso un pessimismo per partito preso». «Non è fascista né antifascista», semplificano queste carte, «ma abulico – menefreghista». È un «ammiratore del Croce», anche se non consta che gli sia legato in termini di «ideologia politica». Un appunto redatto da Gherardo Casini – direttore generale della Stampa italiana – per il suo ministro contiene, nel luglio del ´36, un addebito più grave: Moravia e i suoi amici Paolo Milano e Mario Soldati, tutti e tre «di dubbi sentimenti fascisti», intrattengono «rapporti non chiari con alcuni noti fuorusciti antifascisti». (…) «Negatore di ogni valore umano»: così Arnaldo Mussolini definisce Moravia dopo averne letto il primo romanzo. Un giudizio non meno aspro il più illustre fratello affiderà a Yvon De Begnac, autore dei “Taccuini mussoliniani” (il Mulino, 1990). Il dittatore cita “Gli indifferenti” come «un romanzo oscenamente borghese e antiborghese». Senonché, proprio a Benito Mussolini Moravia si rivolge, per lettera, il 26 marzo del ´35. Gli chiede aiuto. L´onorevole Ermanno Amicucci, direttore della “Gazzetta del Popolo”, gli racconta, «mi ha comunicato ora è un mese, che i miei articoli per la Gazzetta non sarebbero più graditi». Della cosa egli si dice «assai stupito», «non avendo nulla» da rimproverarsi «sia dal punto di vista morale che da quello politico». Se non si è iscritto al Pnf, incalza, è perché la malattia di cui soffrì da ragazzo lo aveva astratto «nonché dalla vita sociale e politica, dalla vita addirittura». Poi, prosegue, «la riapertura delle iscrizioni» lo «prese alla sprovvista». Ora, più maturo, sente «il bisogno» di chiarirsi con il Regime, del quale ammira «l´opera in ogni campo, e in particolare in quello delle lettere e della cultura». «Debbo inoltre soggiungere», scrive, «che la personalità intellettuale e morale della Eccellenza Vostra mi ha sempre singolarmente colpito per la molteplicità delle attitudini e la forza dell´ispirazione, e soprattutto di aver nel giro di pochi anni saputo trasformare e improntare di sé la vita del Popolo italiano». Moravia si professa, in chiusura, «un artista italiano il quale cerca di fare opera non indegna della grande tradizione e dell´immancabile avvenire del suo Paese». Dagli articoli ai libri. Nel giugno del 1935 il secondo romanzo di Moravia, “Le ambizioni sbagliate”, è «in lettura» presso gli organi della censura. E a Galeazzo Ciano, sottosegretario per la stampa e propaganda, l´autore indirizza una lettera che – come la precedente, a Mussolini – è stata, nel tempo, variamente commentata. Dopo aver tracciato un´ampia parabola della propria produzione narrativa, egli s´impegna a spiegarne «i motivi ispiratori», definendolo «tutt´altro che pessimistici e distruttivi, tutt´altro che antitetici ed estranei alla Rivoluzione Fascista». In particolare Le ambizioni sbagliate non «esorbitano dal clima» del regime. E perciò Moravia invoca «quel giudizio giusto e illuminato» che permetta di non vanificare «le speranze e il travaglio di molti anni di lavoro». (…) Porta la data del 18 agosto 1935 una sua seconda lettera a Ciano, promosso ministro della Cultura popolare. Moravia gli chiede di potersi recare in Africa – sta per scoppiare la guerra d´Etiopia – per ricavarne un libro «dal vivo». Richiesta respinta. Il tono «patriottico» adottato dallo scrittore non pare, in questa fase, attenuare l´animosità che lo circonda. Ne è consapevole l´editore Valentino Bompiani che, prima di pubblicare un volume di racconti di Moravia, “L´imbroglio”, chiede a Gherardo Casini di fargli sapere, «anche solo in via ufficiosa, se può esservi qualche obbiezione da parte del Ministero». Stavolta il «nulla osta» arriva. Lo scrittore, però, non si sente tranquillo. Il 9 luglio del ´36, rientrato da un lungo viaggio negli Stati Uniti, domanda per lettera a Mussolini che gli sia consentito di riprendere l´antica collaborazione alla “Gazzetta del Popolo”. La sua firma riappare sul quotidiano torinese: Amicucci ha ricevuto un´autorizzazione dall´alto. I tempi incalzano. Si arriva al 1938. Anche la terza lettera di Moravia a Mussolini riflette difficoltà giornalistiche. La campagna antisemita sta sfoltendo le redazioni, e il solito Amicucci sbarra le porte del suo giornale al «noto Pincherle». «Io ebreo non sono», fa presente quest´ultimo al dittatore, il 28 luglio, «se si tiene conto della religione. Sono cattolico fin dalla nascita e ho avuto da mia madre in famiglia educazione cattolica. È vero che mio padre è israelita; ma mia madre è di sangue puro e di religione cattolica; si chiama infatti Teresa De Marsanich ed è la sorella del Vostro sottosegretario alle comunicazioni. Per queste ragioni, Duce, io vi chiedo di non essere considerato ebreo». L´invocazione moraviana ha effetto, la sua collaborazione alla “Gazzetta” può continuare. Alti e bassi. Intervengono nuove avversità editoriali. Il terzo romanzo di Moravia, “La mascherata”, viene sequestrato, fresco di stampa, nel ´40. Il 13 febbraio del ´41, una velina del Minculpop intima ai giornali: «Non occuparsi di Moravia e delle sue pubblicazioni». Quarta lettera del romanziere a Mussolini: «Mi permetto di rivolgerVi, Duce, la preghiera di poter riprendere la mia attività giornalistica dalla quale io traggo i mezzi per vivere. Anche perché tra poche settimane mi sposo». Viene concesso a Moravia di scrivere sui giornali con pseudonimo. Glielo conferma, a voce, il direttore generale della Stampa italiana, Gherardo Casini, ricevendolo la mattina dell´11 aprile 1941. Qualche ora più tardi lo scrittore prega Casini di consentire che una novella esca con il suo «solito nome» nel prossimo numero della rivista Letteratura, già composto e stampato all´atto del divieto. (…)  Risale al marzo del ´41 un appunto inviato al ministro Alessando Pavolini, successore di Ciano in cima al Minculpop, dal suo capo-gabinetto: il funzionario racconta di aver ricevuto nel suo ufficio Moravia, su preghiera dell´ormai proverbiale Amicucci. «Ho dovuto “sorbettarmelo” per un quarto d´ora con somma abilità», riferisce, e chiede al ministro di voler concedere un´udienza allo scrittore. In calce all´appunto si leggono due paroline a matita: «Grazie no». L´8 settembre 1941 una circolare a firma Pavolini ordina ai prefetti: «Pregasi invitare direttori quotidiani e periodici a non più (dicesi non) pubblicare scritti di Alberto Moravia». Di lì a poco, le sorti della guerra inclineranno alla tragedia e il regime alla ferocia. In virtù di non si sa quale acrobazia o quale supplica, alcuni scritti dell´autore degli Indifferenti – nascosto sotto il nome d´arte di Pseudo – compaiono nella carta stampata fino al 1943. Ma ormai per lui, come per tanti altri intellettuali, non si tratterà più di lottare – in ogni modo possibile, con molta pervicacia, con poche armi in mano – contro la censura, ma di salvare la libertà personal e, se non la vita. E quella è un´altra storia. LA LETTERA… La lettera, finora inedita, di Alberto Moravia a Galeazzo Ciano è dell´estate 1935. La guerra d´Etiopia è in febbrile preparazione, Ciano si dispone a partire volontario, con il grado di capitano di Aviazione. Assumerà il comando della XV squadriglia bombardieri all´Asmara “La Disperata”, dal nome di una celebre unità dello squadrismo fiorentino. Da qui trae spunto la missiva di Moravia. Eccola: Forte dei Marmi Hotel Principe, 18 agosto 1935 XIII. "Eccellenza, mi permetta di congratularmi con Lei per l´esempio che Lei dà a tutti gli scrittori e a tutta la gioventù italiana. Il suo esempio mi ha deciso a compiere un atto che è doveroso da parte mia. Sono stato riformato recentemente al servizio di leva per anchilosi dell´anca destra, e non mi è possibile, perciò, di arruolarmi volontario, come avrei voluto, nel Corpo di Spedizione per l´Africa Orientale. Resta tuttavia vivissimo in me il desiderio di partecipare in qualche modo all´impresa africana. Vengo dunque a domandarLe di poter passare qualche mese sull´altopiano Eritreo allo scopo di comporre un libro sulla guerra degli Italiani in Africa. Avrei voluto chiedere di andare come corrispondente di un giornale, ma le note giornalistiche hanno sempre qualcosa di provvisorio e di frammentario: ora io vorrei scrivere un libro organico, il quale potesse rimanere documento e testimonianza dell´eroismo della gioventù fascista in guerra. Non potrebbe Ella, Eccellenza, aiutarmi in qualche modo a realizzare questo mio desiderio? Nella speranza che la mia proposta venga da Lei accettata e che io possa, nel caso, esporla a voce all´Eccellenza Vostra, Le esprimo i sensi della mia profonda e sincera devozione. Alberto Moravia". La risposta porta la data del 24 agosto XIII. A scriverla è il Direttore Generale per il Servizio della Stampa Italiana. «Egregio Sig. Moravia, in relazione alla lettera da Lei inviata S. E. il Ministro, spiace doverLe comunicare che non è dato, almeno per il momento, di assecondare la sua richiesta. Augurandomi che mi sia consentito in altra occasione di darLe migliore risposta, le porgo distinti saluti». MORO Aldo. [fonte: Articolo citato di Aldo Moro del 1943 citato in "Storia Illustrata", gennaio 1998, pag.45] "La razza è l'elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l'individuazione del settore particolare dell'esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo della particolarità dello stato".

N come...NATTA Alessandro. Iniziamo con wikipedia, dove bisogna rivolgersi alla versione francese per trovare qualche nota stonata rispetto alla moltitudine di biografie apologetiche, di partito e ripetitive, esistenti su internet. Alla data del 17 settembre 2007 la pagina francese è sintetica e lapidaria: Alessandro Natta (né le 7 janvier 1918 à Oneglia en Ligurie – mort le 23 mai 2001) était un homme politique italien qui fut l’avant dernier secrétaire général du parti communiste italien (PCI), de 1984 à 1988. Les deux dernières années de son mandat ont été ternies par les révélations sur sa présidence des GUF (Groupes Universitaires fascistes) de Pise. Stop. Di Natta si è occupato quasi 30 anni prima anche Nino Tripodi, che nel suo libro scrive: “Prende parte attiva alla vita dei Gruppi universitari fascisti. Si iscrive al PNF il 24 maggio 1937, provenendo dalle organizzazioni giovanili. Nell’Aprile del 1941 entra a far parte del Direttorio del GUF di Pisa con la carica di “addetto alla cultura”. Fa parte del comitato di redazione de “Il Campano” organo ufficiale dei fascisti universitari dell’ateneo pisano”. Le biografie corrotte dell’universo PCI ed ex -PCI ignorano a tutt'oggi questi riferimenti della di ESSI storia. Di Natta si conosce solo la costrizione alla guerra e l’eroica detenzione nei campi di concentramento in Germania in quanto avrebbe rifiutato il ritorno in Italia per non collaborare alla Repubblica Sociale. Ma Natta è stato anche al centro di polemiche per quanto riguarda gli italiani comunisti perseguitati da Stalin. Sarebbe stato tra i primi ad ammettere questi fatti, ma lo avrebbe fatto in modo troppo tardivo, equivoco, silenzioso e non certo chiarificatore. Altro capitolo a cui andrebbe dedicata una rivoluzione almeno in Italia. Della vicenda di Natta si occupa anche il sito beppeniccolai.org, in quanto seppur tardivamente, metà degli anni 80, l’ennesima polemica della danza dei fascicoli riservati era stata innescata anche dalle destre tanto che dovette scendere in campo anche l’Unità. Cane tira cane… nel giro di poco tempo si sono sentiti chiamati in causa anche personaggi di area democristiana, tanto che dovette intervenire anche Flaminio Piccoli. Il sito riassume con dovizia di particolari lo scontro di quei giorni. Rubrica il rosso e nero: E veniamo ora al caso Natta, segretario del PCI. Il suo caso ha fatto rumore in questi giorni. Remigio Cavedon, vice direttore de “Il Popolo”, attingendo da notizie che “Il Secolo d’Italia” aveva riportato fin dal 13 aprile 1979 (cinque anni fa, e nessuno ci aveva fatto caso. Si vede che registrano e poi mettono, per ogni evenienza, nel cassetto), ha titolato il suo pezzo (6/11/84): “l’ex-fascista Natta vuol mettere le mani sul sistema”. Scagliati cielo. È accaduto il finimondo. “l’Unità” ha prima replicato (7/11/84) con un corsivo dal titolo “Quando il Popolo impazzisce” («i comunisti non scenderanno mai a simili livelli: l’insulto personale, la rissa, la provocazione»); poi, il giorno dopo (8/11/84), con un lungo articolo, rispondendo alla provocazione, ci ha narrato una lunga storia che, simile ad una fiaba paesana, ha ricostruito Alessandro Natta, iscritto (con cariche) al PNF (Partito Nazionale Fascista) fin dal 1937, come l’antifascista più puro e più intemerato. Ed allora qualche precisazione non guasta. Scrive “l’Unità”, sotto il titolo “1937-1941: l’antifascismo di Natta, fine di una meschina provocazione”: «La verità è che il compagno Natta era stato educato, fin dall’adolescenza, all’antifascismo, che diverrà vera e propria milizia appena diciottenne lasciò Imperia per l’Università pisana». Fermiamoci qui. “l’Unità” è inesatta. Alessandro Natta non lasciò Imperia per l’Università pisana, ma per la prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa (la Scuola che dà Premi Nobel), allora diretta dal filosofo Giovanni Gentile. «Educato, fin dall’adolescenza, all’antifascismo», scrive “l’Unità”. Oh! Santa bugia! I posti alla Scuola Normale Superiore, classe di Lettere, per il 1937, erano nove. Selezione, dunque, severissima, con concorso nazionale. Ora, delle due l’una: o il regime fascista, nel 1937, cioè nel suo fulgore, non guardava alla tessera, ma premiava, grazie a Giovanni Gentile, i meritevoli; oppure, la selezione avveniva tenendo conto della tessera (fascista), che Alessandro Natta possedeva, fin dall’adolescenza («antifascista»). La scelta la lasciamo a “l’Unità”. C’è qualcosa di più. Alessandro Natta, nel 1941 -quando già, secondo “l’Unità”, fondava, fascismo imperante, cellule comuniste in quel di Imperia-, annoverava nel PNF un doppio incarico: non uno, ma due. Infatti, non si limitava a far parte del comitato di redazione della rivista “Il Campano”, organo del GUF (Gruppo Universitario Fascista), ma addirittura veniva chiamato a dirigere la cultura: cioè, responsabile del settore più delicato della organizzazione fascista, nell’ambito universitario. La verità la dice, non “l’Unità”, ma Degl’Innocenti Danilo, allora addetto all’organizzazione e che, con Natta, faceva parte del direttorio del GUF pisano: «Alessandro Natta era un ambizioso impenitente. Voleva arrivare. E, per arrivare, dava gomitate incredibili. Fascistissimo. Un primo della classe e, se non fosse stato così, come avrebbe potuto avere quegli incarichi?». Non la giovane età (a 23 anni si è già maturi); non gli avvenimenti (Natta risulta iscritto alle organizzazioni giovanili fasciste, poi al GUF, poi al PNF); non fa registrare un suo sdegnoso appartarsi, ma ricopre cariche (e che cariche, le più delicate nei settori giovanili del partito): questo è il Natta edizione 1937-1941, attuale segretario del PCI, il partito di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. Perché dunque prendersela con Remigio Cavedon che, poverino, non ha fatto altro che riportare fatti certi e accaduti? E, come sempre, la sbavatura DC, il partito della doppiezza: Remigio Cavedon viene rimproverato da Flaminio Piccoli. «È stato un grave errore» -ha detto Piccoli- «rimproverare a Natta il suo giovanile fascismo». Ipocrita, per non dire di peggio. Alla vigilia del referendum sul divorzio, Flaminio Piccoli, a chi gli chiedeva conto, alla TV, dell’accostamento, in quella campagna referendaria, con i «fascisti» del MSI, rispondeva che, per la DC, quei voti erano «colerici». Anche per quelle parole, giovani meno che diciottenni, sono stati assassinati. «Uccidere un fascista non è un reato». Allora, nessuna dichiarazione del presidente della DC, contro quella barbarie. Oggi un ben diverso «colera» infetta (il partito di) Flaminio Piccoli. È nell’occhio del ciclone. E che fa? Adotta un comportamento sperimentatissimo: quello di mettersi sotto la protezione comunista quando lo sporco ci sommerge. E tenta di salvare Alessandro Natta. Che ne viene fuori? Schizzi di fango. «Personalmente ho sempre ritenuto che Giovanni Gentile, uno dei massimi responsabili del tradimento degli intellettuali, dovesse finire così». Così dice Alessandro Natta del suo Maestro, il 12 agosto 1984 (“L’Espresso”), appena eletto, tronfio di gloria, segretario nazionale del PCI. (Per chi non lo sapesse, Giovanni Gentile, filosofo e docente universitario, ministro della pubblica istruzione 1922/1924 e senatore, direttore della Normale di Pisa e dell’Istituto per l’Enciclopedia Italiana, presidente dell’Accademia d’Italia, fu vigliaccamente assassinato da una banda di partigiani comunisti, il 15 aprile 1944, a Firenze). Novembre 1984: l’antifascismo di Natta si squaglia, come melma, al sole. Appena tre mesi. Sufficienti però, per chi aveva tacciato Giovanni Gentile, il proprio maestro, di tradimento, per cadere nella m…..Giuseppe Niccolai. L’articolo di Niccolai era corredato della riproduzione fotografica della nomina di Alessandro Natta al Direttorio del Gruppo Universitario Fascista pisano, tratta dalla rivista “Il Campano”, numero di marzo-aprile 1941. Riporto qui per esteso il testo di tale nomina: Nomina del Direttorio. In data 18 marzo u.s., il Segretario Federale ha ratificato la nomina del Direttorio del GUF Pisano, che risulta pertanto così costituito:

– Nardi Pilade Osvaldo, laureato in Medicina e Chirurgia, iscritto al PNF dal 1° agosto 1922, volontario in AOI (Africa Orientale Italiana), tenente medico: Vice Segretario;

– Degl’Innocenti Danilo, laureando in Economia e Commercio, iscritto al PNF dal 23 marzo 1928, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili, sottotenente di fanteria, pilota civile: Addetto all’Organizzazione;

– Natta Alessandro, laureato in Lettere, iscritto al PNF dal 24 maggio 1937, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili: Addetto alla Cultura;

– Lucarelli Antonio, laureato in Legge, iscritto al PNF dal 24 maggio 1934, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili, volontario in AOI, sottotenente di fanteria: Addetto allo Sport. MAZZOCCHI Gianni. Editore. Con propositi dichiaratamente antifascisti, nel Dopoguerra, diede vita al settimanale L’Europeo facendolo dirigere da Arrigo Benedetti. Altre pubblicazioni della sua casa editrice ebbero marca analoga. Alla vigilia della guerra le sue attività editoriali avevano un timbro diverso. Nel 1940 la sua rivista DOMUS pubblicava con rilievo questa notizia: “Il Duce ha ricevuto il fascista, dott. Gianni Mazzocchi, editore della rivista “DOMUS”, “Casabella”, “Fili” e “Panorama”, che gli ha fatto omaggio del grande volume speciale di DOMUS “Fantasia degli italiani” e del “Libro di casa 1940”. “Il dottor MAZZOCCHI ha fatto una relazione dei dodici anni della proprio attività editoriale e ha esposto un programma di sviluppo delle sue riviste ed edizioni. Il Duce ha gradito l’omaggio ed ha eogiato l’attività editoriale del dott. Mazzocchi”. MEDICI Giuseppe. Docente universitario, uomo politico ripetute volte ministro democristiano in governi di centrosinistra. A capo del dicastero della Pubblica Istruzione promosse l’inclusione della “storia della resistenza” nei libri di testo delle scuole medie. Alberto Giovannini gli indirizzò allora una lettera aperta proponendogli che, per fare una storia “decente” dei venti mesi della guerra civile, si sarebbe dovuto innanzitutto dimostrare “che gli italiani che oggi comandano resistettero al fascismo”. Evidentemente Giovannini conosceva il suo pollo. Il ministro Medici era stato, a suo tempo, un fascista scrupoloso. Lo vediamo fotografato nel 1938 in orbace e camicia nera con una vistosa patacca gerarchica sul petto, circondato da camerati tedeschi in divisa. La sua adesione culturale al regime è attestata dalla collaborazione al Dizionario di Politica, allestito nel 1940 dal Direttorio Nazionale del Partito Fascista, per il quale curò diverse voci attinenti il mondo agricolo. Occupandosi della conduzione agricola familiare si premurò di ricordare che “da essa proviene il Duce e che, come Lui, sono i figli della terra faticosa che salgono le cime dell’ideale”.

N come...NENNI Pietro. Uomo politico. Giornalista. La duttilità del suo pensiero fu oggetto di aspre polemiche fin da quando, esule in Francia, la rivista ufficiale del Partito Comunista “Stato Operaio”, nel 1927, lo accusò “di essere, prima che massimalista, reazionario e fascista”, e, nel 1928, di militare tra coloro “che una cosa pensano, una cosa dicono e l’altra fanno, e fra le tre cose passa lo stesso rapporto che passa tra ciò che Nenni ha fatto e detto nel 1919 come giornalista fascista, ciò che egli scrive oggi come segretario della Confederazione antifascista e ciò che egli prepara per domani”. Nel 1935, Alberto Giannini, dall’opposto fronte dei fuoriusciti liberaldemocratici gli rimproverò un camaleontismo inguaribile: “Pietro Nenni è stato Repubblicano. Poi interventista (voleva l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915-18). Poi fascista. Poi socialista ma filoliberale. Adesso è socialista filocomunista. E non ha che soli 45 anni!”. Ma tanto in maturità quanto in vecchiaia le accuse che lo indispettirono di più furono quelle riguardanti la sua partecipazione al nascente fascismo (contribuire qundi alla nascita del fascismo). Nel 1959 il giornalista Tripodi ebbe modo di pubblicare un documento inedito riguardante Nenni, attivo ed in giro per la Romagna qualche decennio prima…, indaffarato a FONDARE fasci di combattimento. Nenni tremendamente indispettito gli indirizzò una lunga lettera che minimizzava i fatti, ma non li escludeva. (Basta leggere il Giornale del Mattino di Bologna diretto da Nenni nel 1919). Nella lettera indirizzata a Tripodi, Nenni comunque dichiarò che nel 1919 il suo “fu un errore”. Tripodi nella risposta ne prese atto e concluse: “Quando lei nel 1919 compì l’errore di stare al lato di Mussolini aveva se non sbaglio 28 anni. Io allora ne avevo appena otto. A ventotto anni, nel 1939, ho compiuto l’errore di stargli a lato anch’io. Col Suo errore sul cartellino politico, pari al mio, lei nel 1945, come Alto Commissario per l’epurazione, mi sottopose ad una paradossale commissione per la repressione dei delitti fascisti. Ci rimisi la libera docenza e fui interdetto dai diritti politici per alcuni anni. Quant’è antipatica la Storia quando fa pagare così diversamente gli errori”. Nino Tripodi, giornalista, non deputato, non membro storico della Casta degli ex fascisti, fa autocritica, paga. Altri senza pagare si fregeranno di essere padri FALSI dell’antifascismo con privilegi di ogni tipo e natura. Facendo anche danni. Nel 1981 Nino Tripodi pubblica il libro Intellettuali sotto due bandiere – Antifascisti in camicia nera – sotto l’editore Ciarrapico. Sì proprio quello lì, che gli fornisce copertura… ma moralizzare su Ciarrapico lo lasciamo ai servi della famiglia Agnelli… Nessuna denuncia o querela, ma neanche nessuna recensione che possa far cronaca.

P come...PANNUNZIO Mario. Giornalista, scrittore. Fin dal 1936 fu collaboratore della rivista Cinema, diretta da Vittorio Mussolini. Nel 1939 fondò il settimanale Oggi e lo diresse con Arrigo Benedetti fino al 1941, allorché il regime lo soppresse. Di questa soppressione menò vanto, come indicativa della fronda del periodico, quando, dopo la caduta del fascismo, fu direttore di Risorgimento Liberale e de Il Mondo. Nel 1954 ebbe una dura polemica con Guglielmo Peirce, che gli aveva rimproverato di essersi spesso recato al ministero fascista della cultura popolare per prendere “ordini e cicchetti”. Pannunzio negò la circostanza ma Peirce replicò: “Il Pannunzio, come direttore di un giornale a grande tiratura pubblicato in periodo fascista, non poteva non essere fascista militante e tesserato. Egli non “spezzò” quindi la penna per non servire la tirannide, ma attese che la tirannide gliela togliesse di mano. Più che un martire, dunque, fu un infortunato sul lavoro. Meritevole di umana solidarietà, ma non di adorazione e tanto meno di quella funzione di “catone censore” dell’altrui democrazia e dell’altrui antifascismo ch’egli si è arrogata “a babbo morto”. Nel dopoguerra, e negli ultimi decenni associazioni di massoni giornalisti e pseudo radicali si sono riempiti la bocca di citazionismo empirico resuscitando spesso le insipidità più ambigue degli scritti di Pannunzio. Ancora oggi gli insipienti del pensiero radical “liberale” spolverano, gli scritti più ipocriti di questo personaggio per arricchire le già compromesse insipidità da opinionisti e mantenuti.

S come...SALVATORELLI Luigi. Storico. Firmatario del Manifesto Croce. Mai iscritto al Partito Fascista. In auge nel dopoguerra per “non essersi piegato al regime”. Pubblica nel 1956 una voluminosa opera sulla Storia d’Italia nel periodo fascista (Einaudi). E vi compendia i più negativi giudizi sulla rivoluzione mussoliniana. C’È però da rilevare che, durante il fascismo, NON essendosi astenuto dalla produzione “culturale”, né essendogli stata inibita in quel che scrisse (e scrisse molto…) non mancò di calarsi nella realtà… e di valutarla benevolmente. Per esempio, nel suo Pio XI e la sua eredità pontificale (Einaudi, 1939), non difettarono i giudizi positivi sui rapporti di Papa Ratti col Fascismo, come quando, a proposito di Mussolini, definito dal Pontefice “uomo della Provvidenza”, scrisse essersi trattato di “un alto elogio politicamente qualificato“; o come quando svolse lusinghieri raffronti tra la “Quadrigesimo anno di Pio XI e i concetti ispèiratori della società fascista, al punto da raccontare che, correndo le migliori relazioni tra Chiesa e Fascismo, nel Gennaio 1938 sessanta vescovi e duemila parroci avevano manifestato, sfilando dinnanzi a Mussolini, “la più schietta adesione al regime”. Le sue valutazioni storiche hanno sempre goduto dell’approvazione delle più alte cariche del regime. Antifascista anni dopo, entrò a pieno titolo tra la schiera degli storici ufficiali a cui i figli della borghesia, neo comunisti, dovevano fare riferimento. Eugenio Scalfari. Scalfari ha i titoli per parlare di qualunquismo e pericolo democratico: ROMA FASCISTA (settimanale), 24 SETTEMBRE 1942 – EUGENIO SCALFARI: “Gli imperi moderni quali siamo noi li concepiamo sono basati sul cardine “razza”, escludendo pertanto l’estensione della cittadinanza da parte dello stato nucleo alle altre genti”.

T come...TROMBADORI Antonello. Critico d’arte, uomo politico. Prende parte attiva alla vita dei Gruppi Universitari Fascisti (GUF). Partecipa ai Littoriali della Cultura di Napoli nel 1937 e a quelli di Bologna nel 1940, classificandosi con “onore”. Collabora a Roma Fascista con articoli nei quali pone in evidenza il positivo contributo delle mostre d’arte organizzate in occasione dei Prelittoriali dell’Urbe. Militerà poi nel PCI del quale sarà prima consigliere comunale della capitale e poi deputato al Parlamento della prima repubblica.

V come...VALLETTA Vittorio. Industriale, consigliere delegato e poi presidente della FIAT. Osservante fascista, compendia il suo giudizio sul DUCE e sulla “rivoluzione” in queste frasi incluse nello sfarzoso volume pubblicato per il Decennale della Marcia su Roma (Pensieri d’italiani eminenti raccolti a cura di Paolo Orano, 1932, Editrice Pinciana): “Ogni italiano che si volga a considerare il cammino compiuto dall’Italia dal 1922 ad oggi, non può non provare un vivido sentimento di riconoscenza ed orgoglio; riconoscenza al Duce; orgoglio di appartenenza ad una Nazione che in tempi universalmente tanto difficili dona al mondo le più generose idee di intelligenza politica e di solidarietà sociale… Fiducia che in tutti gli Italiani consapevoli è oggi atto di fede nel Fascismo e nel suo Duce”. È lui a sollecitare l’onore di presentare a Mussolini, in Villa Torlonia, il primo esemplare della “Balilla” come autovettura tipo del regime. È lui a chiedere ed ottenere la fondazione straordinaria di una sezione del PNF dentro gli stabilimenti FIAT di Torino. È lui ad indire la grandiosa manifestazione del maggio 1939 per la visita del dittatore alla Mirafiori, facendolo applaudire freneticamente dai cinquantamila operai ammassati di fronte ad una immensa incudine siglata dalla “M” fatidica. Pochi anni dopo la “bufera” della guerra travolge tutto. Valletta cambia politica. Quando andrà a deporre al processo Graziani racconterà ai giudici: “La difesa degli impianti fu concreta e manovrata fra noi della direzione, le formazioni partigiane e i servizi segreti americano ed inglese. Si fece in modo che gli operai fossero sempre occupati e che nel lavoro non producessero. Per non produrre concertammo degli attacchi aerei da parte dell’aviazione americana e inglese per modo che si potesse avere il pretesto di portare altrove i macchinari.” (cfr. Giornale d’Italia, 12 Gennaio 1949). Alcuni anni dopo, il presidente della Repubblica Saragat (socialdemocratico) nominerà Valletta, anche per questi meriti, Senatore a Vita. Uomo dotato della viva riconoscenza e stima della vecchia e nuova famiglia Agnelli; anche lui come troppi altri degno rappresentante della “Repubblica nata dalla Resistenza”. Vittorini Elio. Scrittore Giornalista. La sua partecipazione al fascismo prima (passione durata 14 anni), al “comunismo” dopo, fu già oggetto di controversie. L’accusa di eterodossia lo colpì tanto sotto Mussolini che sotto Togliatti. Ma tanto per Mussolini quanto per Togliatti scrisse pagine che ne testimoniano l’indubbia militanza prima fascista e, poi, travestita di rosso, opportunista, quindi piccìsta. Ovviamente, in epoca antifascista, furono esperiti tutti gli espedienti per sostenere che Vittorini portava fin dagli anni Trenta il fazzoletto rosso, che fu perseguitato dal regime, che libri ed articoli pubblicati durante il Ventennio debbano essere letti “in chiave di intolleranza e di fronda….La realtà È diversa.In Elio Vittorini covavano sollecitazione alla Malaparte, per una rivoluzione integrale che, sottola guida di Mussolini (“questo signore protetto da Dio”), avrebbe dovuto restaurare i caratteri storici e controriformistici degli italiani. Quanto è poi ANCHE stato scritto da Claudio Quarantotto (“Il Fascista Vittorini”, edizioni del Borghese 1976) dimostra l’arbitrarietà di ogni tentativo di retrodatazione del sinistrismo dello scrittore o di cancellazione delle sue impronte fasciste. Vittorini (il Togliattiano…) raggiunse invece il delirio con punte estremistiche di ultrafascismo. Lo confermano le larghe collaborazioni alla stampa periodica del regime. Vittorini considerava Mussolini “il Primo” tra gli scrittori italiani e “non più soltanto il Duce”. Scrisse anche della propria concitata partecipazione alla Marcia su Roma… quando avrebbe pianto “lacrime di rabbia” pur di essere caricato, nonostante l’immatura età, sul convoglio di squadristi in partenza dalla Sicilia. Sarà la lobby ex-fascista "di sinistra" ad imporre ed accostare il suo nome a quello di Cesare Pavese nella letteratura italiana, compiendo l’ennesimo sfregio alla cultura ed alla memoria.

Z come ZAVATTINI Cesare. Scrittore, giornalista, cineasta. Durante il fascismo, Zavattini NON è un escluso, né un resistente. Collabora attivamente alla stampa del Ventennio. Nel 1932 riceve in DENARO uno dei Premi Mussolini. È direttore editoriale del Tempo mondadoriano, nell’epoca in cui il settimanale sfoggia un ALLINEAMENTO BOVINO ai miti, alle imprese, agli uomini del regime. Restano di lui frasi esaltatrici del ministro della cultura popolare Alessandro Pavolini e del direttore della cinematografia Luigi Freddi. Scrive su Primato Fascista di Bottai e su Cinema di Vittorio Mussolini fino agli ultimi anni della guerra. Dalla cinematografia fascista pretende un forte impegno educativo: “Il 1939 si è chiuso con un grande successo e con un altro grande successo si è aperto il 1940. Non sulla linea della retorica, ma secondo le leggi del mestiere dell’arte. Il Cinema non è più un’avventura… nasce l’ordine! … Il centro sperimentale assolve il suo compito moralizzatore…”. Caduto il fascismo, cambiano i suoi toni apologetici. Diviene prima socialista, poi PCIsta, sostiene il populismo più demagogico e le sue falsità saranno anche imposte, nelle scuole, ai bambini. Ancora oggi fa "Kult"… a "sinistra".

MA C'È DI PIU'. MOLTO DI PIU'. Naturalmente tutta questa Storia, con la S maiuscola, perché trabordata dal confezionamento di pentole venute molto male...acquisisce molto più senso (e gravità) se "contestualizzata" e direttamente condotta al passaggio che vi è stato tra fascismo e "post guerra". E qui... per "contestualizzare" non si intende ciò che vorrebbero vigliaccamente fare gli orfanelli di mausolei e miti. NON bisogna mai, MAI, dimenticare l'opera sovieto-atlantista e CORROTTA del PCI di togliattiana memoria. Ruolo e funzione che ebbe Togliatti in quanto Ministro degli interni (e della "Giustizia") coi Governi Bonomi e De Gasperi e NON solo nella OSCURA e triste fase della "Costituente"... ma anche ben Prima: quando dalle colonne di "Lo Stato Operaio" (n. 8 ) nell'agosto del 1936 fu diffuso un documento sotto "mandamento" di Palmiro Togliatti firmato da ben 62 dirigenti politici tra cui lo stesso Palmiro Togliatti, Edoardo D’Onofrio, Ruggiero Grieco, Celeste Negarville, il macellaio assassino di comunisti antifascisti Pietro Secchia, Dozza... si faceva appello ai camerati fascisti in nome di una futura e secolare Tradizione dell'Inciucio. Oggi potremmo chiamarla "La Madre di Tutte le Rossobrunate", forse solo "seconda" (per importanza) al "Patto Hitler-Stalin" (DUE anni di Alleanza Germano-Sovietica) del 1939: Questa Documentazione resa pubblica in formato "digitale", diciamo per "internet", trovò per la prima volta larga diffusione (e polemiche) sul forum di "Anno Zero", nel 2007, area web della nota trasmissione televisiva della RAI. A diffonderla fu "Prometheo" ("Prometheo Ownerless"), pseudonimo che Massimo Greco ha utilizzato a partire dal 1998 e più diffusamente a partire dal 2001 su ECN.org e relativi dibattiti sulle di allora "mailing list". Calata la cappa del silenzio su Anno Zero (che poi scomparve dalla Rete) l'intera documentazione fu poi ripresa da "Papillon", un blog degli spazi gratuiti offerti dal gruppo "L'Espresso- La repubblica" (poi dismessi e cancellati nel 2012), dal magazine online di satira pesante "NunVeReggaeCchiù" di cui ne sono ancora disponibili due volumi su Facebook (ma successivamente troncati dalle restrizioni di Facebook) ed un'altra versione copiata un po' malamente dal sito "Nuova Resistenza" ancora disponibile qui. Un mondo sconosciuto…: una nuova generazione di idioti ed ignorantoni. Durante la pubblicazione di questa lista su "annozero" numerosi sono stati gli interventi con reazioni reazionarie da bava alla bocca e con insulti, epiteti vari e tentativi di etichettare in qualche modo chi avesse "osato" mettere in discussione i mausolei della parte più sporca della storia italiana..., altri ipotizzavano o minacciavano addirittura querele (non si sa bene a nome di chi... ma è prassi di certi ambienti mafiosi)… per aver oltraggiato (o messo in discussione sacri miti… o credenze). Altri insistevano con la richiesta di fonti (per altro già citate sin dall’inizio…) che la cecità fideistica portava ad ignorare. Qualcun altro ancora snobbava con il vigliacchissimo “si sa già”: ma esternando un certo disappunto per aver introdotto la discussione…Occorre ammettere che per la cultura del gregariato "di sinistra"... leggere, aprire certi armadi rappresenta un colpo nello stomaco a freddo. Ma cosa bisogna fare… mettere delle avvertenze per gli IDIOTI? Successivamente sono scattate le "barriere immunitarie" dell’idiozia, e quasi come a seguire fideisticamente una parola d’ordine… il visitatissimo Post sugli Armadi della vergogna è rimasto improvvisamente senza nuovi commenti: d’incanto… Come a voler dire: meglio se non se ne parla. Cmq ad insulti e nervose “richieste” di RI-citare le fonti… la risposta di Prometheo è stata: "Non credo sia utile, anche per i travestiti di rosso, fare del terrorismo contro di me. Io mi limito a citare cose che dovrebbero, dovrebbero…, essere di dominio pubblico in quanto pubblicate o su internet… ma prima ancora sulla carta stampata o sotto autorevoli uomini di impresa… o “che fanno impresa”. (Li mortacci loro). Molte delle cose qua pubblicate si trovano sul web, se qualcuno ha voglia trova tutte le fonti, che grazie al cielo diventano sempre più. Ciò che non è copiaincollabile l’ho preso da testi reperibili nelle biblioteche là dove rettori o direttori del fascismo dei travestiti di rosso hanno lavorato male e quindi certe cose sono sfuggite alle manipolazioni democratiche. Nel 1959 il giornalista Tripodi ebbe modo di pubblicare un documento inedito riguardante Nenni, attivo ed in giro per la Romagna qualche decennio prima…, indaffarato a FONDARE fasci di combattimento. Nenni tremendamente indispettito gli indirizzò una lunga lettera che minimizzava i fatti, ma non li escludeva. (Basta leggere il Giornale del Mattino di Bologna diretto da Nenni nel 1919). Nella lettera indirizzata a Tripodi, Nenni comunque dichiarò che nel 1919 il suo “fu un errore”. Tripodi nella risposta ne prese atto e concluse: “Quando lei nel 1919 compì l’errore di stare al lato di Mussolini aveva se non sbaglio 28 anni. Io allora ne avevo appena otto. A ventotto anni, nel 1939, ho compiuto l’errore di stargli a lato anch’io. Col Suo errore sul cartellino politico, pari al mio, lei nel 1945, come Alto Commissario per l’epurazione, mi sottopose ad una paradossale commissione per la repressione dei delitti fascisti. Ci rimisi la libera docenza e fui interdetto dai diritti politici per alcuni anni. Quant’è antipatica la Storia quando fa pagare così diversamente gli errori”.

Nino Tripodi, giornalista, non deputato, non membro storico della Casta degli ex fascisti, fa autocritica, paga. Altri senza pagare si fregeranno di essere padri FALSI dell’antifascismo con privilegi di ogni tipo e natura. Facendo anche danni. Nel 1981 Nino Tripodi pubblica il libro Intellettuali sotto due bandiere – Antifascisti in camicia nera – sotto l’editore Ciarrapico. Sì proprio quello lì, che gli fornisce copertura… moralizzare su Ciarrapico lo lascio ai servi della famiglia Agnelli…Nessuna denuncia o querela, ma neanche nessuna recensione che possa far cronaca. Ovvio. Ho auspicato da sempre che qualcuno querelasse o denunciasse Tripodi o Ciarrapico… per tali testimonianze… ma… sono passati quasi trent’anni e la strategia resta la stessa: il silenzio omertoso. Funziona meglio…. chissà quante ALTRE cose sono sfuggite al Tripodi. Sempre sui "Fascisti Rossi" e sulla storia in camicia nera del Partito dei Togliatti-Berlinguer è di fondamentale importanza la chiave di lettura offerta, nel 2010, in una corposa "nota" dal sito del "Nucleo comunista internazionalista". “FASCISTI ROSSI” E “NAZIONAL-COMUNISTI”: PENOSO SMARRIRSI DEI CONFINI TRA COMUNISMO E IDEOLOGIA BORGHESE. È utile soffermarsi sui fatti che Paolo Buchignani ha portato a conoscenza del più ampio pubblico con il testo “Fascisti rossi – Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica – 1943-1953” (Milano, Mondadori 1998), e in tre saggi apparsi sui numeri 1 e 3 del 1998 e sul 4 del 1999 della rivista “nuova Storia Contemporanea” (Roma, Luni Editrice). In questi testi è documentata la vicenda dei cosiddetti “fascisti rossi” e dei loro rapporti politici con il Partito Comunista Italiano nell’immediato secondo dopoguerra. La “storia ufficiale” del PCI – e della CGIL, per quanto ad essa compete – ha steso un discreto velo di silenzio sui passaggi storici che qui richiamiamo. Il che ci obbliga a soffermarci sui fatti, non sufficientemente noti nella loro esatta portata finanche a moltissimi compagni. Ciò non toglie che la nota che segue non è semplicemente una (utilissima) ricognizione di carattere storiografico, perché invece vuole essere ed è uno strumento di battaglia politica che guarda con attenzione al passato perché è direttamente rivolta al presente e al futuro. Antefatto. Si facilita l’inquadramento storico-politico della questione richiamando un antefatto decisivo, citato velocemente da Buchignani e oggetto di approfondimento specifico nel libro di Pietro Neglie “Fratelli in camicia nera – Comunisti e fascisti dal corporativismo alla CGIL (1928-1948)” (Bologna, Il Mulino 1996). Il lavoro di Neglie illustra gli sviluppi che ebbero origine dalla cosiddetta “direttiva entrista” – approvata dal VI Congresso della Terza Internazionale del luglio-settembre del 1928 – contenente l’indicazione per i comunisti italiani di penetrare nelle organizzazioni di massa del fascismo (con essenziale riferimento al sindacato). Il VI Congresso dell’Internazionale Comunista è notoriamente caratterizzato dalla linea che, in quella fase, individuava come compito prioritario quello di combattere come nemico principale la socialdemocrazia; mentre l’indicazione di infiltrare le organizzazioni fasciste appariva piuttosto come un corollario secondario rivolto agli italiani. Se, però, la cosiddetta “teoria del socialfascismo” ebbe vita breve, prima di venire rigirata in pochi anni nell’opposta indicazione del popolar-frontismo senza limiti, l’indicazione di penetrare le organizzazioni fasciste conobbe invece un seguito durevole e significativo. Ciò in quanto la sua concreta applicazione, di lì a breve e come conseguenza del generale corso degenerativo del movimento comunista internazionale, venne a manifestarsi con modalità e contenuti che contraddicono ogni reale politica comunista che in determinate fasi sia tenuta ad agire nell’ambito di organizzazioni di massa reazionarie. Sicché si deve dire, con riferimento al “dialogo” tra “fascisti rossi” e PCI poi concretizzatosi nell’immediato dopoguerra, che sono stati per primi i “comunisti” del PCd’I di Togliatti a rivolgersi ai “fratelli in camicia nera”. Stiamo parlando, beninteso, del PCd’I che sin dal congresso di Lione del gennaio del 1926, con il supporto autorevole dei deliberati dell’Internazionale in via di avanzante stalinizzazione, aveva messo fuori gioco la corrente di sinistra di Amadeo Bordiga, largamente maggioritaria nel partito sin dal congresso di fondazione di Livorno nel 1921. Dunque parliamo di un PCd’I in via di mutazione del DNA delle origini e di involuzione verso quel “partito nuovo” che negli anni successivi avrebbe modificato sostanzialmente e apertamente il proprio programma (tra l’altro italianizzando in modo significativo il nome e introducendo il tricolore nel simbolo: il nome originario di Partito Comunista d’ Italia – Sezione della Internazionale Comunista fu trasformato in quello di Partito Comunista Italiano dopo il giugno del 1943, quando Stalin e compagnia approvarono lo scioglimento dell’Internazionale Comunista su richiesta e come omaggio e pegno di fedeltà ai neo-alleati governi statunitense e inglese). Sul n. 8 dell’agosto 1936 di “Lo Stato Operaio” (rivista teorica del PCd’I) venne così pubblicato, in uno slancio di “entrismo”, un manifesto-appello “agli italiani”, dal titolo “Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!”, firmato da tutti i principali dirigenti comunisti, con Togliatti primo firmatario. Ne riportiamo di seguito i passaggi salienti: “Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma... Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere insieme a voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919, e per ogni rivendicazione che esprima un interesse immediato, particolare o generale, dei lavoratori e del popolo italiano. Siamo disposti a lottare con chiunque voglia davvero battersi contro il pugno di parassiti che dissangua ed opprime la Nazione e contro quei gerarchi che li servono... Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso la riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute. Sono questi grandi magnati del capitale che impediscono l’unione del nostro popolo, mettendo fascisti e antifascisti gli uni contro gli altri, per sfruttarci tutti con maggiore libertà.” Al riguardo osserviamo che in questo appello la penetrazione nelle organizzazioni di massa del fascismo viene tradotta in solenne accettazione del suo programma politico e che ciò avviene in un contesto di ragionamento in cui gli interessi dei lavoratori da difendere vengono associati a quelli della nazione (con la n maiuscola) da liberare. Vediamo ancora che i secondi inevitabilmente fanno del tutto premio sui primi, soprattutto se a tal fine i “comunisti” si dicono disposti non solo a “riconciliarsi” ma a lottare “con chiunque”. Altri – allora e, chissà!, forse ancor oggi – potranno apprezzare la “penetrante saggezza tattica” di questo appello. Noi vi vediamo invece il ribaltamento di una prospettiva e la confusione di ogni limite di demarcazione tra programmi nati per contrapporsi e combattersi, se i “comunisti” possono far proprio quello fascista del 1919! Vi vediamo che nel nuovo programma dei “comunisti” è spuntata, alla data del 1936 e per l’Italia che – con la sanguinosa occupazione dell’ Etiopia – veleggia verso “l’Impero”, la questione della nazione da liberare da “parassiti e pescicani che la dissanguano e opprimono” (svilimento dei contenuti della reale e unica oppressione di classe con un linguaggio che ne sposta il merito sul tema della nazione e ciò in assenza di riferimenti a eventuali minacce straniere cui reagire – che, pur ci fossero, beninteso, non sposterebbero di un grammo il nostro asse comunista –). Vi leggiamo che a tal fine viene dichiarata, accettata, offerta la disponibilità per ogni frontismo politico (dunque non mero e necessario entrismo dei comunisti nell’organizzazione sindacale fascista) e per qualsivoglia alleanza interclassista (“con chiunque!”). Indubbiamente in questo appello c’è la difficoltà del PCd’I ad organizzare la propria azione politica in Italia, la ridottissima agibilità in tal senso e – proprio al massimo di ogni plausibile benevola considerazione...– la tenacia a non voler abbandonare il campo. Ciò, però, non spiega e non giustifica l’evidente snaturamento di una prospettiva e di un programma che non sono più comunisti, se ci si rivolge ai fascisti, vecchi e giovani, in nome della nazione da salvare. Una politica che, su queste basi, non ha (non ha più) un programma comunista proprio cui riferirsi, perché inalbera in modo penoso e ridicolo il programma fascista! Invece l’insoddisfazione dei giovani che nelle organizzazioni del regime si mostravano sensibili ai temi sociali e ai proclami pseudo-rivoluzionari agitati dal fascismo – insoddisfazione che il vertice togliattiano del futuro PCI puntava ad intercettare, con mille ossequi ed attenzioni a non criticare troppo o a non criticare affatto direttamente il fascismo – avrebbero avuto bisogno di tutt’altro programma e del corrispondente linguaggio, posto che quelle inquietudini affondavano le radici in una fase storica di profonda crisi del capitalismo tuttora irrisolta, e soprattutto resa cupa alla data del 1936 dalla sconfitta – peraltro recente e dunque non ancora a quella data definitiva – della rivoluzione proletaria che aveva tentanto di uscirne a sinistra, con il conseguente incubarsi, in difetto del rilancio della prospettiva internazionalista di classe, di altre paurose guerre fratricide all’orizzonte. Sennonché il PCd’I di Togliatti a quella data aveva già archiviato il programma e il linguaggio del comunismo e, alla vigilia della nuova immane guerra imperialista (di cui erano visibilissimi i prodromi nella guerra di Spagna esplosa proprio nell’estate del 1936), non si sognava minimamente di rilanciare la battaglia internazionalista di classe e di riorientare la barra in quella direzione. In difetto di ciò l’appello “agli italiani” ad altro non poteva preludere che al lugubre richiamo a serrare i ranghi del “fronte patriottico” per il futuro intruppamento nazionale al carro della propria borghesia nella nuova carneficina imperialista, essendo circoscritto il merito della “battaglia politica” alla scelta della composizione del fronte borghese nazionale e della coalizione imperialista cui volersi e doversi unire. Peraltro, secondo il copione ridicolo della continua auto-smentita di se stessi (già andato in scena sulla “teoria del socialfascismo” ed espressione anch’esso dell’avvilente smarrirsi dei confini tra comunismo e ideologia borghese, questa volta sul piano del metodo), i dirigenti “comunisti” mitigarono di lì a pochi mesi la formula della “riconciliazione nazionale” lanciata con tanta enfasi nell’agosto del 1936 e, dietro sollecitazione di Mosca, ne “corressero gli eccessi” in funzione della necessità di rinsaldare, ora, un “fronte comune antifascista”. Nondimeno possiamo concordare con Neglie nel ritenere – per quanto ci riguarda a vergogna indelebile di quel vertice– che “le conseguenze di questa fase si coglieranno compiutamente in seguito... che allora il PCd’I costruì il primo abbozzo di una identità nazionalpopolare che recupererà poi nel periodo della Resistenza, e che, già prima di esso, il partito bolscevico aveva costruito in seguito all’aggressione nazista” (Neglie, op. cit. pag. 32). In un articolo successivo sempre de “Lo Stato Operaio” di quel 1936 a firma Grieco si diceva che “popolo e nazione” sono “termini propri della rivoluzione proletaria, la quale vince solo in quanto popolare e nazionale” (se ne veda il riferimento a pag. 32 op. cit.). Mentre nel rapporto redatto da Gennari sulla discussione del comitato centrale di quel periodo (vedi pag. 34 op. cit.) si legge ancora che il PCd’I “rappresenta la continuità delle migliori e più pure tradizioni italiane” e che “noi facciamo nostro il programma del ’19, che è un programma di democrazia” (vedremo in seguito quando e come sarà ripresa la formula per noi significativa della “riconciliazione – con il fascismo, n.n.– sul piano della democrazia”). Dunque si può concordare con Neglie (salva la decisiva precisazione che faremo in seguito) nel ritenere che l’appello “ai fratelli in camicia nera” segnasse in qualche modo “la trasformazione del partito comunista... al punto che ci sembra difficile dire che quando questa linea sarà abbandonata, il partito ritroverà realmente intatta la proprio fisionomia rivoluzionaria...Non è solo il richiamo all’unità con i fascisti in buona fede sotto la bandiera del Fronte popolare a determinare questa metamorfosi; a ciò va aggiunta la riscoperta dei valori nazionali attraverso il richiamo all’Italia risorgimentale garibaldina...” (pag. 33 op. cit.). Concludendo, la “direttiva entrista” del 1928 e l’ “appello ai fratelli in camicia nera” del 1936 sono il prodromo del dialogo tra “comunisti” e fascisti “di sinistra” che conobbe fiorente sviluppo nel mutato scenario del dopoguerra, e sin da allora ne segnano il terreno d’intesa nella comune professione dell’amor di patria, consono ai fascisti e di indelebile vergogna per pretesi “comunisti”. Negli ultimi anni della seconda guerra e del fascismo il PCI riprese, dando seguito su queste corde, l’azione di propaganda rivolta in particolare ai giovani fascisti o comunque influenzati dal fascismo. Fino alla liberazione ciò venne fatto attraverso “Radio Milano Libera” e quindi su “Rinascita” e su “L’Alba” (giornale dei prigionieri di guerra italiani nell’Unione Sovietica), e l’iniziativa di dialogo vide sempre impegnato direttamente il vertice del partito e in particolare Togliatti. Ciò che accadde nel dopoguerra è una seconda puntata, che, se si avvalse dell’azione già promossa dal partito di Togliatti durante il ventennio, si svolse, però, ormai a parti invertite: nel dopoguerra furono i fascisti “di sinistra” a rivolgersi al PCI (“... eravamo noi che ne avevamo bisogno”: così in una testimonianza dello stesso Ruinas, che ora conosceremo attraverso la presentazione di Buchignani) e a voler penetrare l’organizzazione di massa del proletariato che andava (ri)costituendosi sotto le insegne di quel partito. Fin qui l' "antefatto"... ma la ricca documentazione continua e potete conoscerla direttamente dalla fonte originale oppure dalla copia che ci siamo presi la libertà di riprodurre qui. Per puro scongiuro rispetto alla censura e alla temporaneità di internet. Togliatti Guardasigilli - Di Arturo Peregalli e Mirella Mingardo - COLIBRI Edizioni. Documenti con la D Maiuscola. AI PRIMI PRESIDENTI ED AI PROCURATORI GENERALI DELLE CORTI DI APPELLO: CIRCOLARE n. 3179 (versione completa) Roma 29 Aprile 1946. Oggetto: Procedimenti penali per reati collettivi. Non sarà sfuggito all’attenzione delle Signorie Loro Illustrissime che, specie in questi ultimi tempi, si sono verificate in molte province del Regno manifestazioni di protesta da parte di reduci e di disoccupati, culminate in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio a danno di Uffici pubblici e di depositi alimentari, nonché di violenze contro pubblici funzionari ed impiegati ritenuti, a torto, responsabili dell'attuale stato di disagio in cui versa l'intero Paese. Tali manifestazioni che di regola, nelle intenzioni dei partecipanti, dovrebbero concretarsi in una forma moderata e ragionevole di protesta collettiva, tollerabile in regime democratico, degenerano purtroppo, sovente, nel vandalismo e nella violenza sovvertitrice, e ciò per l'opera nefasta di elementi provocatori e di delinquenti comuni che, mescolandosi ai dimostranti, li istigano alla distruzione, al saccheggio ed alla ribellione ai pubblici poteri, conseguendo in tal modo i loro criminosi intenti. Il Ministero dell’Interno ha testé reso noto di aver impartito severe istruzioni ai Prefetti affinché disordini del genere siano energicamente repressi dalle forze di Polizia, che dovranno non solo procedere all'immediato arresto ed alla conseguente denuncia all'autorità giudiziaria degli autori dei saccheggi, delle devastazioni e degli incendi, ma altresì svolgere accurate indagini dirette ad assicurare alla Giustizia i suddetti agenti provocatori e volgari delinquenti sui quali, per l'opera di sobillazione svolta, ricadono, evidentemente, le maggiori responsabilità. Pertanto questo Ministero, pienamente convinto dell’assoluta necessità che una energica azione intrapresa dalla polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico debba essere validamente affiancata ed appoggiata dall'autorità giudiziaria, si rivolge alle signorie Loro invitandole a voler impartire ai dipendenti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie ed i relativi giudizi dovranno essere esplicati con assoluta urgenza, onde assicurare una pronta ed esemplare repressione; a tal uopo, ove il personale giudiziario destinato alla trattazione degli affari penali non sia ritenuto sufficiente a corrispondere a queste esigenze contingenti, si dovrà provvedere ad integrarlo con magistrati addetti al ramo civile, anche in pregiudizio della attività giurisdizionale civile e, se ciò non bastasse, i capi degli uffici giudiziari potranno segnalare la deficienza di personale a questo Ministero per gli opportuni provvedimenti. Si raccomanda infine di procedere, in tutti i casi in cui la legge lo consenta, con istruzione sommaria o a giudizio per direttissima e di trasmettere gli atti all'autorità giudiziaria militare qualora ricorrano le condizioni previste nell’articolo 5 del Decreto legge 10 maggio 1944, n° 234.Si resta in attesa di urgente assicurazione. Il Ministro di Grazia e Giustizia

Palmiro TOGLIATTI.

IL MINISTERO DELLA CULTURA POPOLARE (MINCULPOP) FASCISTA/COMUNISTA

Falce, fascio e cinepresa. Quando l'Urss si metteva in mostra (del cinema) a Venezia, scrive Eugenio Di Rienzo, Domenica 26/05/2013 su "Il Giornale". Nel 1971 la «diplomazia del ping pong», un torneo di tennis da tavolo fra cinesi e statunitensi, contribuì alla distensione tra Pechino e Washington e aprì la strada alla visita di Nixon in Cina con cui si ristabilirono i rapporti fra le due Superpotenze. Lo stesso capitò fra Italia e Urss le quali cercarono di rompere il reciproco isolamento utilizzando la Mostra del Cinema di Venezia attiva fin al 1932. Di questo tema tratta la documentatissima ricerca di Stefano Pisu, Stalin a Venezia. L'Urss alla Mostra del cinema fra diplomazia culturale e scontro ideologico, 1932-53 (Rubbettino). L'Italia fascista e la Russia comunista erano, d'altra parte, meno distanti di quanto oggi si immagini. Deciso a debellare la minaccia rossa in patria, Mussolini non nascose mai le sue simpatie per l'Urss. Uno Stato che, come Italia e Germania, era stato umiliato dal Trattato di Versailles del 1919 dettato da Francia, Inghilterra e Usa. Una nazione giovane e proletaria che per garantire la sua sopravvivenza era fatalmente destinata a battersi, al pari di quella italiana, contro le Potenze capitalistiche nella perenne «guerra del sangue contro l'oro». Un Paese, infine, ricco di risorse naturali, indispensabili allo sviluppo della nostra economia, che il regime fascista riconobbe ufficialmente, prima di altri governi europei, nel 1924 e con il quale siglò, nel '33, un «Patto di amicizia, non aggressione e neutralità». Questa intesa si consolidò sotto il segno della Settima Arte. E si trattò d'intesa culturale e politica. Culturale, perché la produzione sovietica offriva alla propaganda fascista un modello di film-manuale d'ispirazione didattica in grado d'indottrinare le grandi masse. Politica, poiché proprio Luciano De Feo, direttore dell'Istituto Luce e artefice dell'asse cinematografico Roma-Mosca, dichiarò, nel '32, «che il fascismo sta andando verso il comunismo per altre vie e che gli italiani sanno dare il giusto giudizio a ogni calunnia internazionale sull'Urss, consapevoli del fatto che le stesse calunnie sono diffuse verso l'Italia fascista». Le pellicole presentate al festival veneziano raccolsero anche un caloroso giudizio di critica. Come scriveva Eugenio Giovanetti sulla Gazzetta del Popolo di Torino nell'agosto 1934, «il regista russo è in grado, più di ogni altro, di tradurre l'ideologia in narrazione concepita in termini schiettamente cinematografici, conservando nelle sue visioni un'atmosfera di grandiosità e di eroismo che passa dal mondo della macchina a quello dei campi e degli stadi; dal soldato, all'uomo dell'officina, al contadino, all'atleta». Questa luna di miele s'interruppe bruscamente nel '35, con l'assenza dell'Urss dalla Mostra del Cinema che si perpetuò negli anni successivi a seguito dell'inizio della guerra civile spagnola, dall'adesione dell'Italia al Patto Anti-Comintern e infine dallo scatenarsi della guerra mondiale. Il Cremlino tornò a Venezia nel 1946, con il lungometraggio (Il giuramento) di Michail Caureli connotato da una smaccata apologia di Stalin. Si trattò però di un breve ritorno. L'esasperato carattere anti-occidentale dei film sovietici provocò la loro esclusione, facendone un facile bersaglio del nuovo regolamento della Mostra che vietava la presenza di pellicole offensive per gli altri Paesi. L'Urss si sarebbe ripresentata in laguna solo nel '53, dopo la morte del dittatore sovietico col nuovo corso post-staliniano del «disgelo».

Leo, Curzio, Indro e Giovannino. I film girati con la mano destra. Tra il 1943 e il 1963 Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi furono registi della loro prima e unica pellicola, raccontando con originalità momenti cruciali della storia d'Italia, scrive Giancarlo Mancini, Domenica 23/08/2015, su "Il Giornale". I l grande racconto dell'Italia del dopoguerra, anche al cinema, l'hanno realizzato quattro conservatori doc come Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi. Intellettuali che per tutta la vita sono stati indisponibili a raccontare quello che i grandi partiti o i salotti volevano far sapere al grande pubblico. Erano anticomunisti, certo, ma non per questo erano disposti a lesinare critiche ai partiti di governo. Parteggiavano per la borghesia ma verso quella italiana nutrirono perplessità e ne rilevarono le mancanze. I loro film (Dieci minuti di vita, Cristo proibito, I sogni muoiono all'alba e La Rabbia) messi assieme vanno a formare un racconto inedito, scritto con la mano destra anziché con la sinistra, della storia italiana nel ventennio che va dal 1943 al 1963. Si tratta di quattro «opere prime» rimaste tali. Ognuna affronta un nodo nevralgico della nostra storia recente, dalla caduta del fascismo alla guerra civile, dai fatti d'Ungheria con i loro tragici risvolti per la sinistra italiana al boom economico. Snobbati dai manuali di storia del cinema, spesso ignorati dai divulgatori «ufficiali», questi film non solo ci raccontano la Storia con la S maiuscola da un'altra angolazione, ma sono una vera contro-scuola di pensiero libero. Ma come mai questi intellettuali, così impegnati nel giornalismo, nella scrittura, nella comunicazione, decidono ad un certo punto di fare un film?

Partiamo da Longanesi, il cui interesse per il cinema inizia molto tempo prima di girare Dieci minuti di vita. Siamo verso la fine degli anni Venti. L'autore del Vade-mecum del perfetto fascista e del motto «Mussolini ha sempre ragione» si concede la libertà di dire che se il fascismo vorrà davvero imporsi come un modo nuovo di vivere e di guardare le cose, se si vorrà completare la rivoluzione iniziata con la Marcia su Roma, allora il regime (e Benito Mussolini in primis) dovrà radicalmente ripensare al ruolo del cinema. Con una serie di articoli pubblicati su L'Italiano, la rivista da lui fondata e diretta, Longanesi avvia una martellante campagna per il rinnovamento del cinema italiano. Scrive Longanesi: «Avete mai visto un film italiano? Vi siete mai accorti che i nostri attori escono dalle risse, dai temporali e dalle battaglie più cruente sempre con l'abito nuovo? Per loro ciò significa “conservare la linea”». Via i dandy alla Gastone, via gli estetismi dannunziani, via gli orpelli, le baracconate da fiera circense, la proposta di Longanesi è orientata verso il cinema dal vero: «Stando alla finestra, mi accorgo che la folla che attraversa la via e si perde in ogni direzione, ha un suo aspetto, una “sua verità” che il cinema assai di rado riesce a mostrarci». La straordinaria capacità intuitiva porta Longanesi a «pronosticare» con parecchi anni di anticipo alcuni dei capisaldi del neorealismo, poetica su cui la sinistra edificherà la propria egemonia, ponendo anche un'ipoteca politica che ha avuto esiti disastrosi per il cinema italiano. Ma le radici del neorealismo, evidentemente, affondano negli anni del regime...La passione di Longanesi per il cinema non si esaurisce, anzi, inizia a scrivere brevi soggetti, collabora con sceneggiatori come Ivo Perilli e Piero Tellini, medita di andare negli Stati Uniti per apprendere i rudimenti della tecnica cinematografica. Insomma, ci sono tutte le premesse per diventare regista, cosa che avviene nel momento più delicato per la vita dell'Italia, del fascismo e di Mussolini. Siamo nell'estate del 1943 e mentre il regime sta crollando a pezzi, Longanesi è finalmente pronto per girare il suo primo e unico film, una satira sull'Italia di quegli anni. Protagonista è un anarchico scappato da un manicomio che, minato un palazzo, vuole osservare come ogni inquilino spenderà i suoi ultimi minuti di vita terrena. C'è il gerarca che si è arricchito in modo abbastanza equivoco, ci sono gli estenuati amanti dannunziani che si crogiolano sul modo migliore per togliersi la vita, c'è il marito che trovata la moglie a letto con l'amante... la lascia nell'appartamento che sta per esplodere. Con la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943 e l'imminente occupazione delle truppe tedesche di Roma, Longanesi decide di fuggire a Napoli, lasciando incompleto il film di cui, dopo varie peripezie, sono sopravvissuti appena 36 minuti praticamente inediti al di fuori di una ristrettissima cerchia di cultori. Ma è un lascito che unito ai suoi scritti cinematografici è oggi fondamentale riscoprire e rivalutare.

Passano pochi anni e tocca a Curzio Malaparte, altro intellettuale non etichettabile secondo i rigidi canoni del dopoguerra, raccogliere il testimone lasciato da Longanesi e mettersi dietro la macchina da presa. Dopo aver scritto i suoi due libri più conosciuti (La pelle e Kaputt), nel 1950 lo scrittore toscano si mette al lavoro su un tema che come pochi altri brucia sulla pelle degli italiani: la guerra civile. L'argomento è tabù, né la Democrazia cristiana al governo né le sinistre hanno voglia di rievocare quei giorni in cui si sono susseguiti i rastrellamenti, le vendette incrociate, i linciaggi, le esecuzioni sommarie, le foibe. Il protagonista di Cristo proibito si chiama Bruno, è appena tornato dalla Russia, al suo arrivo a casa scopre che il fratello è stato fucilato dai fascisti. Da quel momento una sorta di demone della vendetta si impadronisce di lui. Nonostante i genitori lo spingano a dimenticare, Bruno non riesce a mettere da parte il desiderio di conoscere il nome della persona responsabile della morte del fratello. Malaparte non si accontenta di raccontare l'Italia del dopoguerra con i suoi tormenti e le sue ferite; vuole metterne in risalto anche i valori che la possono far rinascere. «È un fatto - dice Malaparte - che il popolo italiano reagisce alla Storia di cui è protagonista in modo molto diverso da quello di altri popoli. Vi reagisce anche sul piano morale oltreché su quello del costume. Coloro che parlano di amoralità del popolo italiano non capiscono l'Italia e gli italiani». Il film è ambientato nella sua Toscana, si vede la piazza di Montepulciano, Cetona, il gioco della croce, un rito antico di secoli dove un vecchio contadino dopo aver a lungo portato la croce cerca tra la folla qualcuno che possa sobbarcarsi il sacrificio di espiare le colpe di tutti. Il significato cristiano del film è in effetti il lascito di quest'opera di Malaparte in cui sacrificio, perdono, compassione sono valori di cui è impregnata la carne viva dei personaggi. Presentata al festival di Cannes del 1951, la pellicola riceve una accoglienza positiva ma questo non la protegge dalle accuse della stampa di sinistra. Infatti, nonostante Malaparte in quegli anni si sia pubblicamente avvicinato al Partito comunista italiano, e in particolare a Togliatti, le riviste capofila del marxismo ortodosso come Cinema nuovo non risparmiano critiche al film e al regista. Pochi sembrano disposti a «perdonare» a Malaparte la libertà di rappresentare un Paese diviso tra chi si illude di poter dimenticare la morte dei propri figli e chi cerca a tutti i costi la vendetta.

Passano una decina d'anni ed eccoci al terzo capitolo del nostro racconto. Stavolta è Indro Montanelli a mettersi dietro la macchina da presa. Il film è I sogni muoiono all'alba, realizzato nel 1960 con l'ausilio tecnico di Mario Craveri ed Enrico Gras. La sceneggiatura è tratta da un dramma teatrale scritto dallo stesso giornalista qualche tempo prima e ambientato in un albergo di Budapest durante i giorni della rivolta che nell'ottobre del 1956 venne schiacciata dall'Urss con l'invio dei carri armati. Protagonisti sono quattro giornalisti italiani inviati nella capitale magiara per raccontare quello storico momento e rimasti intrappolati in albergo a causa dell'incrudelirsi degli scontri tra quanti sono rimasti fedeli a Mosca e quanti invece sostengono il programma riformista di Imre Nagy. Il titolo riprende quello di una canzone che i patrioti ungheresi, ostili alle intromissioni di Mosca, cantavano in quei giorni tremendi e crudeli. Sergio, Franco, Alberto ed Andrea non sono solo quattro giornalisti, sono degli uomini con passioni politiche e umane. Mentre discutono, litigano, si accapigliano, vengono rievocati alcuni snodi cruciali del nostro dopoguerra, le epurazioni nei giornali (evento che aveva riguardato lo stesso Montanelli), le delazioni, i tradimenti. Nella capitale ungherese il sogno di molti patrioti sta per scontrarsi con la dura repressione dei sovietici. «Ci avete rintronato la testa con questi sogni ma la volete guardare in faccia questa realtà?», dice ad un certo punto uno dei personaggi. Montanelli non nasconde la simpatia per i rivoltosi ungheresi. Altrettanto sincero, ma impietoso, è il suo giudizio verso le ipocrisie, le reticenze, le bugie di cui molti, sia fra i giornalisti sia fra i militanti del Pci, si servirono per «giustificare» l'invasione dell'Armata rossa. Anche in questo film, come in quelli di Longanesi e Malaparte, Montanelli vuole aiutare lo spettatore a guardare oltre i luoghi comuni e a raccontare quello che sta succedendo davvero, senza accontentarsi delle versioni ufficiali, né delle verità preconfezionate. Quando molti anni dopo un lettore gli chiese come mai avesse deciso di realizzare I sogni muoiono all'alba, il giornalista di Fucecchio rispose così: «Io non mi proponevo di fare un film spettacolare di bombe e sangue, ma soltanto di dimostrare due cose: che quella rivolta non era nata fuori, ma dentro il Partito comunista, e quali effetti aveva sortito sulla coscienza degli osservatori comunisti (parlo, si capisce, di quelli in buona fede) che si trovarono coinvolti in quell'avvenimento». E infatti I sogni muoiono all'alba è importante oggi proprio perché ci aiuta a capire il peso che gli eventi del 1956 hanno avuto nel nostro Paese. Nonostante gli sforzi di Togliatti di giustificare l'intervento sovietico anche in Italia in molti iniziarono a rendersi conto di quello che significava vivere oltre la cortina di ferro. Dentro al Partito comunista serpeggiava un dissenso che esplose pubblicamente e portò alle prime fuoriuscite. Era iniziato il lungo cammino della sinistra italiana verso la verità sui regimi dei Paesi socialisti.

L'ultimo tassello della nostra storia è l'episodio de La Rabbia di Giovannino Guareschi. Un film di montaggio in due parti, una affidata a Pier Paolo Pasolini e l'altra, appunto, all'inventore di Don Camillo. Siamo nel 1963, l'anno di massimo splendore della rinascita italiana, in pieno boom economico. Anche in Italia come nel resto del mondo occidentale si sta aprendo l'era del consumo di massa. Frigoriferi, lavatrici, televisori. La sfida all'Unione sovietica si gioca anche sulla capacità delle democrazie occidentali di diffondere il benessere in modo capillare. Dal punto di vista politico siamo in un clima sospeso tra il rinnovamento portato da Kennedy negli Stati Uniti, gli ambigui tentativi di Krusciov in Urss e il crescere di nuove tensioni razziali e politiche. Guareschi osserva con preoccupazione al nuovo mondo nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non ama i giovani che si dibattono freneticamente sulle piste da ballo, la corsa al consumismo, la crisi di istituzioni come la famiglia. Le sue sono le parole di uno scettico radicale: «Tutto è facile. Per farsi una famiglia basta consultare un catalogo di elettrodomestici, c'è una macchina per ogni cosa eccetto purtroppo quella per educare i figli. È facile farsi una famiglia, è facile disfarla. Il benessere che, facendo entrare 13-14 mesi in un anno, ci ha dato il mese corto, ci ha dato anche il matrimonio corto. È l'ora dei miracoli, il miracolo automobilistico, per cui camminare a piedi è diventato un lusso, il miracolo petrolifero per cui dai pozzi emiliani sgorga petrolio russo così l'Italia ha il suo carburante nazionale». Il suo film è una rivisitazione dei grandi rivolgimenti avvenuti dalla fine della guerra al 1963. Guareschi, che è stato imprigionato in un campo di concentramento tedesco, commentando le immagini di piazzale Loreto e il vituperio sui corpi di Mussolini e della Petacci, parla di una «vendetta barbara». Ma non mancano gli affondi pieni di ironia e di sarcasmo, degni dell'inventore di Don Camillo e Peppone, le due maschere simbolo dell'Italia del dopoguerra. A Louis Aragon poeta comunista e stalinista non pentito, Guareschi dice: «Krusciov non gli ha ancora detto quale criminale fosse da vivo l'uomo del Cremlino». Questo film, come gli altri che abbiamo ricordato, non godrà di una eccessiva fortuna al botteghino, forse le verità e le idee di questi quattro grandi intellettuali erano troppo laceranti per l'Italia di quegli anni. La loro lezione di libertà e di coraggio è sempre utile. Per questo sarà giusto ricordare accanto ai loro libri e articoli anche queste quattro opere rimaste per tanto, troppo tempo, nel dimenticatoio.

Quando gli eredi di Don Camillo misero in carcere Guareschi. Fu recluso per 409 giorni nel carcere di Parma per aver pubblicato due lettere, attribuite a De Gasperi. La sua difesa presentò una perizia calligrafica, ma non fu ammessa. Condannato per diffamazione a 12 mesi rifiutò di fare ricorso: «Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume», scrive Luciano Lanna il 26 ago 2016 su “Il Dubbio”. Quando nel 1967 Luciano Secchi, più noto col nom de plume di Max Bunker e come creatore di Alan Ford, fonda la rivista Eureka ha l'idea di arruolare nello staff Giovannino Guareschi, uno scrittore e un vignettista che nei decenni precedenti aveva fatto epoca. Era stato una delle firme e delle matite del Bertoldo, aveva fondato e diretto Candido, i suoi romanzi su Don Camillo e Peppone erano stati tradotti in quasi tutte le lingue. Guareschi, prima di morire, nel 1968, pubblica infatti in esclusiva su Eureka - la rivista che lanciò in Italia Andy Capp e le Sturmtruppen - il suo bel racconto "Gerda". Tanto che Secchi, successivamente, ebbe modo di esprimere tutta la sua riconoscenza: «Guareschi non era di sinistra. Ma la sua colpa agli occhi di tanti intellettuali di elezione, e questa è una colpa anche maggiore e imperdonabile agli occhi dell'élite della jet-society della letteratura è quella di aver venduto parecchie migliaia e migliaia di copie dei suoi Don Camillo, tradotti praticamente in tutte le lingue politicamente occidentali ma anche in quelle che non rientrano in tale definizione. Uno scrittore lo si valuta per quello che ha dato e conveniamo - concludeva Secchi - che parte della critica si è invece lasciata deviare dalla sua obiettività proprio per una questione politica?». Una cosa è certa: Guareschi è stato uno degli scrittori italiani del '900 più venduti nel mondo: oltre 20 milioni di copie, nonché lo scrittore italiano più tradotto in assoluto in tutte le parti del globo. Certo, quando Giovannino morì d'infarto a soli 60 anni, in una mattina di luglio del '68, l'indomani L'Unità titolò: "È morto lo scrittore che non era mai sorto". Si trattava, senza tema di dubbio, dell'uomo che con le sue vignette anticomuniste sul Candido era stato determinante - sul piano propagandistico - per il risultato del '48. Eppure, paradossalmente, Guareschi dovette scontare tredici mesi di carcere per un eccesso di polemica antidemocristiana: «Giovannino - ha rievocato Carlo della Corte - si lasciò impegolare, nel trasporto polemico verso la Dc, persino nella persona di Alcide De Gasperi, in una vicenda di lettere apocrife, che egli pubblicò, attribuendo a De Gasperi varie colpe: tra cui quella di avere invocato sull'Italia i bombardamenti alleati per disfarsi di Mussolini». Insomma, in questo caso i comunisti non c'entrano proprio nulla. Fu infatti per via dei democristiani che Guareschi è stato l'unico giornalista nella storia dell'Italia repubblicana a finire in galera per avere attaccato il potere politico. Mai, infatti, si è arrivati da parte di un direttore di giornale agli oltre 400 giorni di carcere che l'autore di Don Camillo dovette scontare all'apice del successo. Giovannino entra nel carcere San Francesco di Parma il 26 maggio '54 per uscirne solo il 4 luglio dell'anno successivo, dopo ben 409 trascorsi sotto la più stretta sorveglianza. Cosa era successo? Sul Candido il 24 e il 31 gennaio '54 Guareschi aveva fatto pubblicare due lettere risalenti a dieci anni prima, in piena Seconda guerra mondiale, e che risultavano firmate da De Gasperi, il quale ai tempi aveva trovato rifugio in Vaticano. Si trattava di due missive dirette al generale britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, chiedendo il bombardamento di alcuni punti nevralgici di Roma, "per infrangere l'ultima resistenza morale del popolo romano" nei confronti di fascisti e tedeschi. Il 15 aprile il processo arrivò alla sentenza, davvero a tempo di record e con un'intensa attività diplomatica parallela di cui solo recentemente abbiamo appreso. Al termine, Guareschi, a cui non fu concesso di mettere agli atti la perizia prodotta da quella che all'epoca era un'autorità della grafologia, Umberto Focaccia, venne dichiarato colpevole di diffamazione. Il giornalista rifiutò di fare ricorso o di chiedere la grazia: «No, niente appello. Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente». Molti dei risvolti di quella vicenda restano ancora misteriosi, a partire dall'origine delle lettere che appartenevano a uno strano faldone nascosto in Svizzera da un ex tenente della Rsi, Enrico De Toma, legato ad ambienti dei servizi segreti, così come recentemente è stato raccontato dallo storico Mimmo Franzinelli in Bombardate Roma! Indagine su un giallo della Prima Repubblica (Mondadori). Indro Montanelli, grande amico di Guareschi, era scettico su quelle lettere: «Io sapevo - ha raccontato - che non erano vere, e mi buttai in ginocchio da lui, e a un certo punto commisi anche una scorrettezza per cercare di impedirne la pubblicazione di cui prevedevo gli effetti nefasti. Andai da Rizzoli, che era il suo editore, ma anche l'editore dei miei libri, e glielo spiegai». Ma Rizzoli non si frappose: «Il direttore del giornale è lui, se lui lo ha deciso, pubblichi». E al riferimento delle conseguenze, aggiunse: «Pagheremo le conseguenze!». D'altra parte, Montanelli confermava la totale buona fede di Guareschi: «Lui era convinto dell'autenticità di quelle lettere. Ci voleva credere perché lui non poteva perdonare alla Dc l'ingratitudine. Guareschi era infatti un uomo assolutamente disinteressato, ma almeno un ringraziamento lo avrebbe meritato per la campagna del '48, gli spettava perché la vittoria si doveva in gran parte a lui?». Franzinelli ha spiegato alcuni retroscena di tutta quell'operazione: «Per De Gasperi la questione era fondamentale, di fronte ad un attacco del genere non aveva altra via che la querela. Appunti e riflessioni coeve al processo dimostrano che sul tema ci fu una sua intima sofferenza». E Franzinelli non ha dubbi sull'esistenza di manovratori occulti che misero la "polpetta avvelenata" nelle mani di Guareschi: «I servizi non erano un corpo omogeneo, c'erano cordate concorrenziali. Una di queste usò Guareschi per colpire De Gasperi». I due documenti, che il leader democristiano dichiarò falsi, facevano infatti parte di un voluminoso corpus di carteggi che comprendeva il famoso epistolario tra il Duce e Churchill. Fatto sta che gli inizi del febbraio '54 De Gasperi sporge querela. Istituito il processo, il 13 e il 14 aprile ebbero luogo la seconda e la terza udienza e il 15 giunse la condanna a 12 mesi di carcere per diffamazione. Invano, nelle quattro udienze del processo, il direttore di Candido presenta una perizia calligrafica che dichiara autentiche le lettere, e chiede al tribunale di ordinarne pure un'altra d'ufficio. I giudici rispondono che non c'è n'è bisogno. «Mi hanno negato - protesterà lo scrittore - ogni prova che potesse servire a dimostrare che non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato». Perché in tribunale, la perizia calligrafica avanzata dalla difesa sulle due lettere non venne mai ammessa. Le lettere saranno dichiarate ufficialmente false solo nel 1959, al termine di un altro processo contro alcuni ex ufficiali della Rsi. Il 15 aprile '54 comunque Guareschi viene condannato a dodici mesi di carcere ma si trova costretto a doverne scontare venti per l'aggiunta di un'altra diffamazione che ci riporta indietro di altri quattro anni. Sul numero 25 di Candido del '50 era infatti apparsa una vignetta che ritraeva il presidente della Repubblica Luigi Einaudi mentre sfila tra due ali di corazzieri molto particolari: sono bottiglie di vino che recano un'etichetta con scritto "Nebiolo - Poderi del Senatore Luigi Einaudi". Si procedette per vilipendio del Presidente della Repubblica contro Carletto Manzoni, autore della vignetta, e Guareschi, direttore responsabile della testata. I due erano stati assolti in primo grado ma poi condannati in appello a otto mesi con la condizionale, che veniva annullata dalla nuova sentenza. Cominciano, certo, le pressioni perché Guareschi vada in appello, dove la faccenda si potrebbe forse accomodare. Lui però è un uomo che non scende a compromessi e risponde sul Candido: "No, niente appello". Il 26 maggio 1954 prepara lo zaino, lo stesso che aveva nel lager tedesco in cui era stato deportato ed entra nel carcere di Parma. Ne uscirà il 4 luglio '55 con una carta precettiva che gli impone di non allontanarsi per altri sei mesi dai comuni di Busseto, San Secondo, Soragna, Polesine Parmense, Zibello e Roccabianca. Guareschi vittima in buona fede di una manovra ordita da altri? Molti ne sono convinti. Anche se Guareschi restò persuaso fino alla fine che le lettere erano autentiche. Di certo pagò un prezzo altissimo. «Il Guareschi, uscito dalla galera - ammetterà Montanelli - non era più lui. Il suo fisico era già minato dal lungo campo di concentramento subito in Germania. In prigione era popolarissimo, gli offrivano qualche alleggerimento di pena. Ma lui no, non ne volle nessuno, volle essere trattato come il peggiore dei delinquenti rinchiusi lì dentro. Andò così, lui non fu più lo stesso dopo?». Tutti lo abbandonarono, solo su La Notte di Nino Nutrizio e sul Borghese di Leo Longanesi riuscì a scrivere qualche articolo. D'altra parte, come apprendiamo dai documenti desecretati e studiati da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella in Colonia Italia (Chiarelettere, 2015), De Gasperi dovette rivolgersi direttamente a Churchill per ottenere la certificazione dell'inautenticità di quelle lettere in un momento assai critico della sua parabola politica. Il 16 febbraio 1954, infatti, un suo emissario, il funzionario della Farnesina Paolo Canali, raggiunge subito la capitale britannica. Ma gli inglesi temporeggiano e fanno perdere tempo: «La loro tattica - si legge in Colonia Italia - è chiara: non potendo sbattere la porta in faccia al leader del maggior partito italiano, cercano di tenerlo sulla corda il più a lungo possibile. Forse sperano che si logori, nell'attesa che a Roma maturino le condizioni per una sua definitiva uscita di scena". A Londra Canali aspetta e aspetta. Solo a fine febbraio potrà rientrare a Roma con la documentazione che consentirà all'ex premier italiano De Gasperi di affrontare serenamente il processo contro Guareschi. Prima, però, Churchill ha convocato Canali al numero 10 di Downing Street, all'improvviso, a quattrocchi, lontano da occhi indiscreti: «Ma cosa? Alla data, gli archivi di Kew Gardens non conservano traccia alcuna sui contenuti di quel misterioso colloquio tra l'ottantenne Sir Winston e il giovane diplomatico della Farnesina. Sappiamo invece che qualche giorno dopo, il 3 marzo '54, da piazza del Gesù, De Gasperi invia una calorosa lettera di ringraziamento a Churchill». L'affaire si avvia comunque a conclusione solo dopo questi incontri: il 15 aprile, come abbiamo visto, a Milano, Guareschi viene condannato e l'onore del leader democristiano è salvo. «Ma la sua definitiva uscita di scena - è la conclusione del capitolo sul "processo Guareschi" di Colonia Italia - è ormai imminente. Prima dalla politica: sconfitto in giugno al Congresso della Dc, a Napoli, deve lasciare ad Amintore Fanfani la segreteria del partito. Poi dalla vita: in agosto muore per un attacco d'asma, malattia insorta qualche tempo prima. De Gasperi se ne va il 19 agosto, lo stesso giorno in cui, un anno prima, era stato deposto Mossadeq a Teheran».

“Come sopravvivere al cinema di sinistra”. Razzisti, evasori, ignoranti, arricchiti. Gli italiani di centrodestra ormai sono abituati a vedersi rappresentati così dal cinema di casa nostra. Colpa di un pensiero unico che dal neorealismo ai film impegnati, da Nanni Moretti a Virzì, monopolizza il grande schermo. Questo pamphlet diventa così una guida irriverente per i cinefili non di sinistra, una messa alla berlina dei tic di autori e critici radical chic, la rivendicazione di una verità: i film d’autore incassano poco, quelli che fanno ridere non sono roba da “popolo bue” e chi si ostina a scrivere queste scemenze sta uccidendo il cinema. 

Come sopravvivere al cinema di sinistra, scrive Maurizio Acerbi il 10 agosto 2016 su “Il Giornale”. Da oggi, nelle edicole italiane, abbinato a il Giornale, trovate il mio libretto "Come sopravvivere al cinema di sinistra", inserito nella collana Fuori dal Coro. Il pamphlet, che costa 2,50 euro, cerca di rispondere ad alcune domande che si pongono tutti quei cinefili che non si riconoscono nel pensiero unico della sinistra cinematografica: ridere è di destra? Chi non vota a sinistra è come viene dipinto nei film degli autori radical, ovvero razzista, ignorante, evasore e via dicendo?  Ma non solo. Ho cercato, usando anche un linguaggio semiserio (è pur sempre un libro estivo), di mettere alla berlina i tic dei registi d’autore e della critica radical chic, cercando di capire come si sia formata questa uniformità di pensiero che monopolizza il grande schermo e che ghettizza chi non si riconosca in esso. Il libro parte con uno scherzoso Manifesto del perfetto regista di sinistra che in 21 punti cerca di tratteggiare, in modo ironico, le caratteristiche comportamentali dell’autore impegnato. Poi, vi elenco i vari capitoli per darvi un’idea del contenuto del libretto di 48 pagine, ovvero: Introduzione: il cinema di sinistra è morto?; L’anatema contro il cinepanettone; La dittatura di cowboy e poliziotti; Se far ridere è di destra; I maestri della sinistra autoreferenziale; Brutti, cattivi, evasori e ignoranti; La solitudine di non essere di sinistra; Il mistero buffo di Checco Zalone; Troppa cultura, sale deserte; Il Democratico conquista l’America; Conclusione. Se qualcuno dei numerosi lettori di questo blog (a proposito, grazie per la fiducia) vorrà leggerlo, mi farà piacere. E magari, potremmo successivamente confrontarci sui temi che ho trattato. Lo scopo principale era lanciare una sorta di SOS, un “ci siamo anche noi non di sinistra”, un “non dimentichiamo che il cinema appartiene a tutti”. Se, in qualche modo, sarò riuscito a far riflettere qualcuno di questi autori sul nostro disagio quotidiano di lavorare in un ambiente chiuso come quello del cinema italiano, la missione sarà compiuta. Almeno, ci ho provato. Buona lettura

Ministero della Cultura Popolare. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ministero della cultura popolare (MinCulPop), Regno d'Italia, istituito il 27 maggio 1937 dal Governo Mussolini, sostituì il Ministero per la stampa e la propaganda e fu soppresso il 3 luglio 1944 dal Governo Bonomi II. Il Ministero della cultura popolare (MinCulPop) è stato un ministero del governo italiano nel Regno d'Italia col compito di controllo sulla cultura e di organizzazione della propaganda del fascismo. L'antesignano del Ministero può essere considerato l'Ufficio Stampa del Capo del Governo, istituito nel 1922 con il compito di diffondere i comunicati ufficiali del regime fascista. Con r.d. 6 settembre 1934, n. 1434, il predetto ufficio fu trasformato in Sottosegretariato di Stato per la stampa e la propaganda, composto di tre direzioni generali: stampa italiana; stampa estera; propaganda. Con r.d. 18 sett. 1934, n. 1565, fu istituita una quarta direzione generale per la cinematografia. Il nuovo sottosegretariato, con r.d.l. 21 nov. 1934, n. 1851, assunse altresì le competenze del commissariato per il turismo, per l'occasione trasformato in direzione generale. Con r.d. 24 giu. 1935, n. 1009, il sottosegretariato divenne Ministero per la stampa e la propaganda. Con r.d.l. 24 sett. 1936, n. 1834 fu introdotta una nuova direzione generale, quella per lo spettacolo, e furono posti alle dirette dipendenze del ministero diversi enti e istituti, in particolare:

l'Istituto Luce;

l'Ente nazionale per le industrie turistiche (ENIT);

l'Istituto Nazionale del Dramma Antico;

la Discoteca di Stato;

gli enti provinciali per il turismo;

il comitato per il credito alberghiero.

Con r.d. 27 maggio 1937, n. 752, il ministero assunse la denominazione di Ministero per la cultura popolare. Il primo titolare del dicastero fu Dino Alfieri. Nel 1939 Alfieri fu nominato ambasciatore a Berlino e il nuovo ministro della cultura popolare fu Alessandro Pavolini. Nel febbraio 1943, al posto di Pavolini fu nominato ministro Gaetano Polverelli.

Dopo il crollo del regime nel luglio 1943 e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana (RSI), il Ministero della Cultura Popolare fu trasferito a Salò; la titolarità fu assegnata a Ferdinando Mezzasoma. Con d.lgt. 3 luglio 1944, n. 163 (Governo Bonomi II), il ministero fu soppresso e ad esso subentrò un sottosegretariato per la stampa e le informazioni alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, il quale, con d.lgt. 12 dicembre 1944, n. 407, venne modificato in sottosegretariato di Stato per la stampa lo spettacolo e il turismo, soppresso a sua volta con d. lgt. 5 luglio 1945, n. 416. Il ministero aveva l'incarico di controllare ogni pubblicazione, sequestrando tutti quei documenti ritenuti pericolosi o contrari al regime e diffondendo i cosiddetti ordini di stampa (o veline) con i quali s'impartivano precise disposizioni circa il contenuto degli articoli, l'importanza dei titoli e la loro grandezza. Più in generale, il ministero si occupava della propaganda, quindi non solo del controllo della stampa. Altro compito importante fu quello della promozione del Cinema di propaganda fascista. Analogamente, nel 1933, nella Germania nazista fu fondato il Ministero della Propaganda; Joseph Goebbels ne fu il responsabile. Tale decisione diede la spinta al regime fascista di accentrare più competenze in un unico dicastero. L'Ufficio Stampa del Capo del Governo fu istituito nel 1922 e aveva il compito di diffondere i comunicati ufficiali. Il 9 agosto 1923, con lo scopo di consolidare il suo potere appena acquisito, Mussolini lo pose sotto la sua diretta autorità e gli affidò il compito di combattere la propaganda antifascista, fornendo ai giornali la versione ufficiale degli eventi, e di passare in rassegna quotidiani italiani ed esteri al fine di raccoglierne informazioni e giudizi. Mussolini aveva, così, trasformato l'Ufficio Stampa da agenzia incaricata di comunicati ufficiali in agenzia di notizie e rassegna, ampliandone le funzioni. Fino al 1926, la politica culturale del regime era stata indirizzata soprattutto al controllo dell'alta cultura e degli intellettuali, attraverso la creazione di nuovi istituti culturali o la fascistizzazione di quelli già esistenti. Proprio a partire da questa data, Mussolini maturò la convinzione che la politica culturale non fosse soltanto un mezzo per controllare gli intellettuali e sottomettere l'opposizione antifascista, ma poteva anche essere utilizzata dal fascismo per radicarsi nella vita culturale del paese e per modellare la coscienza morale e sociale degli italiani, per attuare, in sostanza, quello che fu lo scopo fondamentale della politica culturale del regime negli anni trenta, cioè “andare verso il popolo”. La creazione di un ponte tra cultura fascista e masse avrebbe consentito a Mussolini di ottenere una vasta base di consenso popolare grazie alla quale il suo regime e la sua leadership avrebbero avuto maggiore durata. Per attuare questa nuova idea di politica culturale, nel 1926, il regime passò dalla propaganda di agitazione, un tipo di propaganda sovversiva che era stata usata tra il 1919 e il 1922 e tra il 1924 e il 1926, e che aveva lo scopo di scaturire sentimenti di odio e frustrazione al fine di scatenare la violenza e la ribellione, alla propaganda di integrazione. Quest'ultima era un tipo di propaganda che agiva sugli uomini indirettamente, influenzando i costumi, le abitudini e i comportamenti, al fine di condizionare la maggioranza della popolazione e ottenere l'accettazione totale di un dato modello di comportamento. L'attuazione della propaganda di integrazione fu possibile grazie al significativo ampliamento delle funzioni che interessò l'Ufficio Stampa del Capo del Governo a partire dal 1926, facendone uno dei principali elaboratori proprio di questo tipo di propaganda. L'ampliamento dell'Ufficio Stampa cominciò, infatti, proprio nel 1926, quando Mussolini pose l'Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri sotto la direzione di Capasso Torre, capo dell'Ufficio Stampa dal 1924. L'Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri divenne, dunque, una sezione dell'Ufficio Stampa del Capo del Governo, il quale appariva, così, suddiviso in due sezioni interne: La sezione per la stampa italiana: questa sezione aveva sede al Viminale, lavorava a stretto contatto con il Ministero dell'Interno, i suoi addetti erano un numero molto ristretto di giornalisti e letterati. I suoi compiti principali erano:

la lettura di tutti i principali quotidiani e periodici pubblicati nel paese;

la distribuzione ai giornalisti di materiali di diversa natura, come fotografie o disposizioni sul trattamento di particolari notizie;

i richiami ai direttori di giornali che pubblicavano notizie non autorizzate;

la distribuzione ai giornali di sussidi finanziari sotto forma di pagamenti segreti al fine di influenzarli e renderli dipendenti dal regime.

La sezione per la stampa estera: questa sezione aveva sede a Palazzo Chigi, i suoi addetti erano in numero più ampio rispetto alla sezione per la stampa italiana. I suoi compiti erano:

la raccolta di articoli che riguardavano l'Italia;

il coordinamento delle notizie di politica estera;

la distribuzione al Ministero degli Esteri delle risposte da dare ai quesiti posti da giornalisti stranieri.

Sotto la guida di Lando Ferretti, direttore dell'Ufficio Stampa dal settembre 1928, si ebbe una modernizzazione dell'ufficio attraverso l'elevazione, nel 1929, delle sezioni per la stampa italiana e estera in Direzioni Generali. Agli inizi degli anni trenta, inoltre, la Direzione Generale per la stampa italiana sottrasse al Ministero dell'Interno il compito di sequestro e soppressione dei giornali. Un tentativo di ampliamento delle funzioni dell'Ufficio Stampa si ebbe a partire dall'aprile 1933, quando Gaetano Polverelli, direttore dell'Ufficio Stampa dal 1931, assunse due giovani giornalisti, Gastone Silvano Spinetti e Annibale Scicluna Sorge, e affidò loro il compito di dare un'organizzazione più sistematica e compatta alla funzione di gestione della propaganda interna da parte dell'Ufficio Stampa. Spinetti, dunque, presentò a Polverelli un progetto per la creazione di una Sezione Propaganda all'interno dell'ufficio. Questa nuova Sezione Propaganda, come affermava Spinetti nel documento riprendendo le parole di Polverelli di qualche mese prima, doveva avere il compito “raccogliere, elaborare e diffondere scritti e pubblicazioni riguardanti la romanità, l'italianità e il regime”. La Sezione Propaganda ideata da Spinetti rimase, tuttavia, in uno stato progettuale, infatti, in una lettera inviata alla rivista Storia Contemporanea, lo stesso Spinetti ha affermato che la Sezione Propaganda era un semplice ufficio in cui lavoravano due persone che “distribuivano fotografie ed altro materiale ai quotidiani”. La propaganda di integrazione, diffusa e elaborata attraverso l'attività di censura e rassegna dell'Ufficio Stampa negli anni venti e agli inizi degli anni trenta, si basava su due temi di carattere generale:

il mito del duce, cioè la costruzione di un'immagine popolare di Mussolini;

l'idea della Nuova Italia, cioè la costruzione di un'immagine fittizia di un'Italia stabile, ben ordinata e vigorosa in cui la società conduce una vita sobria e moralistica, incarnando gli ideali e i valori fascisti e rifiutando i valori dell'Italia prefascista con il suo liberalismo borghese.

Nella costruzione del mito del duce, l'Ufficio Stampa si occupò di costruire da un lato l'immagine di un uomo dalle qualità superiori rispetto alla norma, e dall'altro cercò di dimostrare che il duce era vicino alla vita delle masse e ai valori della vita rurale. La costruzione dell'immagine di Mussolini come quella di un uomo le cui qualità erano quasi irreali, la cui autorità era assoluta e che fosse simbolo di vigore e virilità, fu ottenuta dall'Ufficio Stampa attraverso:

la disposizione ai giornali di omettere notizie sulle malattie del duce, sul compleanno del duce, sulla sua vita privata;

la direttiva ai giornali con la quale si avvertiva che Mussolini non era più solo il capo del governo ma il duce;

la disposizione per la quale tutti i discorsi di Mussolini dovevano essere pubblicati in prima pagina;

il divieto ai giornalisti di elogiare altri esponenti politici al di fuori di Mussolini o del re;

la diffusione di notizie sulle imprese sportive del duce, sulla sua bravura come atleta e di fotografie che ritraevano Mussolini mentre cavalcava, nuotava, dirigeva manovre militari;

la creazione dell'immagine di Mussolini come un uomo vicino alla vita delle masse soprattutto attraverso la pubblicazione di fotografie in cui il duce era in abito da lavoro tra i contadini, oppure guidava un trattore, o manovrava una fiamma ossidrica.

La costruzione dell'idea della Nuova Italia fu ottenuta dall'Ufficio Stampa attraverso:

la promozione dell'abolizione del tradizionale modo di celebrare il Capodanno e dell'uso degli alberi di natale perché queste erano viste come usanze proprie dell'antiquata società borghese;

la campagna contro la cronaca nera che faceva parte della più generale campagna per eliminazione dai giornali di tutte quelle notizie che potessero dare l'impressione che il fascismo non avesse il pieno controllo sulla vita nazionale e aveva lo scopo di far credere agli italiani che il fascismo avesse creato una società stabile e ordinata. La campagna contro la cronaca nera fu attuata dall'Ufficio Stampa attraverso la disposizione di Capasso Torre ai giornali di non usare frasi a effetto, fotografie e di non pubblicare articoli che si riferissero a episodi di cronaca nera come epidemie, delitti passionali, suicidi, e fu perseguita dal regime per oltre un decennio.

Il rafforzamento della famiglia tradizionale e del valore della maternità come simboli di stabilità sociale con il divieto di pubblicare immagini di donne seminude e di eccessiva magrezza, l'eliminazione dei concorsi di bellezza e l'assegnazione di premi alle famiglie più numerose. Il regime tentava, così, di imporre agli italiani un visione tradizionale del ruolo della donna, la quale doveva restare legata ai suoi doveri di moglie e madre. È significativo osservare che la costruzione dell'idea della Nuova Italia si basava sul valore negativo attribuito dal regime al liberalismo borghese dell'Italia prefascista. I valori liberali e borghesi, infatti, erano visti come sintomi di una società corrotta e decadente e venivano presentati alle masse come antiquati e ormai superati, al fine di convincerle che la società ordinata e stabile della Nuova Italia dovesse rifiutarli totalmente. Un aspetto molto importante della propaganda di integrazione è quello che, nella costruzione del mito del duce e dell'idea di Nuova Italia, l'Ufficio Stampa dovette sempre mediare tra il nuovo e il tradizionale, ottenendo, cioè, una propaganda che da un lato, presentava i temi del nuovo e della modernizzazione sociale e morale portata dal fascismo, mentre dall'altro, restava legata ai valori tradizionali del mondo agricolo e rurale poiché essi erano i valori di base della maggioranza degli italiani. All'inizio degli anni trenta emergeva nel regime la necessità di porre il controllo sistematico di propaganda e cultura nelle mani di una struttura unitaria che, per mezzo di questo controllo, permettesse di unificare i due settori con lo scopo di dare alla propaganda una funzione culturale, cioè di utilizzare la propaganda per rendere la politica culturale fascista una realtà concreta per le masse, per creare un ponte tra cultura fascista e la maggioranza degli italiani. Proposte per la creazione di un unico organismo che esercitasse il controllo allo stesso tempo su propaganda e cultura erano apparse nella rivista Critica fascista in cui, nel 1933, si suggeriva la creazione di un Ministero per la Propaganda che si ispirasse al Ministero della Propaganda di Goebbels nella Germania nazista. In seguito a questo dibattito, emergeva che l'Ufficio Stampa del Capo del Governo non fosse più adeguato alle ambizioni culturali del regime poiché esso aveva definito i criteri generali della propaganda, ma non si era interessato alla cultura e ai problemi culturali, cioè non aveva utilizzato gli strumenti e le tecniche della propaganda per rendere i valori fascisti una realtà concreta per le masse. A cercare di eliminare l'inadeguatezza dell'Ufficio Stampa fu Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, nominato direttore dell'Ufficio nell'agosto 1933. Ciano, infatti, tra l'agosto 1933 e il settembre 1934, attuò una riorganizzazione dell'Ufficio Stampa con lo scopo di allargare le sue funzioni e di avvicinare la sua attività ai problemi culturali e alla cultura. La riorganizzazione dell'Ufficio Stampa da parte di Ciano era spinta anche dalla sua ambizione personale e dalla sua volontà di accrescere il proprio prestigio all'interno del regime e fu attuata attraverso: l'estensione dei controlli e della supervisione sulla stampa con:

l'assegnazione, nel 1934, di addetti stampa ai prefetti di Roma, Firenze, Milano, Torino, Bologna, Napoli e Palermo, al fine di rendere più efficace la distribuzione e la raccolta delle informazioni;

l'incremento dei sussidi a giornali o a singoli giornalisti;

l'interesse per i mezzi di comunicazione di massa tramite:

l'avvio di studi preliminari sulla radio e sul cinema e il progetto della creazione di una sezione dell'ufficio e essi dedicata;

la centralizzazione nelle mani dell'Ufficio Stampa della gestione della propaganda all'estero del regime, affidata fino a quel momento al Ministero degli Esteri, trasferendo all'ufficio stesso i fondi necessari per la creazione di una Sezione propaganda che fosse una sezione estera dell'Ufficio Stampa, un ufficio per la propaganda all'estero interno all'Ufficio Stampa.

La Sezione Propaganda, che si occupava dell'organizzazione della propaganda all'estero del regime, divenne operativa a partire dall'aprile 1934, i suoi uffici si trovavano nel palazzo del Ministero degli Esteri e un passo basilare per la sua creazione fu l'accettazione da parte del Ministero degli Esteri di cedere a questo nuovo ente, esterno al ministero stesso, il compito di organizzare la propaganda all'estero. Il documento con il quale il Ministero degli Esteri ammise di dover cedere parte delle sue attività, cioè quelle riguardanti la propaganda all'estero, a un altro ente esterno è l’Appunto sulla Propaganda, nel quale si esprime la posizione del ministero di fronte alla notizia del progetto della creazione di un ufficio per la propaganda all'estero. Nel documento, pur riconoscendo che il nuovo organismo avrebbe assorbito parte delle attività del ministero, il gabinetto del Ministero degli Esteri ribadisce l'impossibilità di tenere nettamente separate politica estera e propaganda all'estero e, per questo, stabilisce che la nuova Sezione Propaganda e il ministero stesso debbano mantenere stretti rapporti ed essere informati ognuno sulle attività dell'altro.

Il 6 settembre 1934 Mussolini abolì l'Ufficio Stampa del Capo del Governo, lo sostituì con il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda e nominò sottosegretario per la stampa e la propaganda Galeazzo Ciano al quale concesse la piena autorità di emanare decreti e prendere decisioni sulle questioni riguardanti la stampa e la propaganda. Il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda costituiva la totale riorganizzazione dell'Ufficio Stampa al fine di renderlo più adeguato alle nuove ambizioni della politica culturale fascista. Esso, infatti, rappresentava un passo avanti nell'unificazione di propaganda e cultura nelle mani di una struttura unitaria, unificazione che era emersa alla fine degli anni venti come necessità fondamentale della politica culturale fascista. La presenza nella denominazione della parola propaganda dimostrava la volontà del regime di dare un'organizzazione più sistematica alla diffusione del fascismo inItalia e all'estero, mentre il persistere nella denominazione della parola stampa mostrava come si pensasse ancora che i giornali costituissero i principali strumenti di propaganda politico-culturale dello Stato. L'istituzione del Sottosegretariato per la stampa e la propaganda fu influenzata dal Ministero per la Propaganda creato da Joseph Goebbels in Germania. Nel 1933, infatti, lo stesso Goebbels si era recato a Roma e aveva visitato le principali istituzioni culturali fasciste e incontrato Mussolini e Ciano. Nel 1934, inoltre, Ciano aveva avviato uno studio sul ministero creato da Goebbels allo scopo di servirsene per introdurre nell'Ufficio Stampa cambiamenti notevoli. Alla data della sua creazione (6 settembre 1934) il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda comprendeva le seguenti direzioni generali:

la Direzione Generale per la stampa italiana: creata già nel 1929 all'interno dell'Ufficio Stampa con l'elevazione a Direzione Generale della sezione per la stampa italiana, questa Direzione Generale si occupava di fornire le direttive ai giornali attraverso l'uso delle cosiddette veline o ordini di stampa;

la Direzione Generale per la stampa estera, creata nel 1929 all'interno dell'Ufficio Stampa con l'elevazione a Direzione Generale della sezione per la stampa estera;

la Direzione Generale per la propaganda, della quale antecedente era la Sezione Propaganda creata da Ciano agli inizi del 1934 e che, grazie alla collaborazione con organismi che lavoravano all'estero come i CAUR, la Dante Alighieri e l'Istituto di cultura fascista all'estero, spediva all'estero enormi quantità di materiale propagandistico e organizzava manifestazioni culturali all'estero.

Tra il 1934 e il 1935, il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda definì il suo controllo sulla propaganda e spostò il suo controllo anche sulla cultura, ampliando la sua influenza sui mezzi di comunicazione di massa e fu, quindi, sottoposto a un ampliamento della sua struttura interna ottenuto attraverso:

la creazione della Direzione Generale per la cinematografia col decreto del 18 settembre 1934: questa direzione si occupava di censura e revisione in campo teatrale, del credito cinematografico, dei permessi per la creazione di nuove sale, dell'organizzazione di mostre e congressi cinematografici. L'ampliamento del controllo del Sottosegretariato sul cinema testimonia che il regime aveva finalmente riconosciuto l'importanza di questo nuovo mezzo di comunicazione di massa, tuttavia, questo riconoscimento non produsse una svolta molto significativa nelle modalità di gestione di questa attività culturale, infatti, il fascismo non creò mai una cinematografia di stato e le principali attività della Direzione Generale per la cinematografia restarono la revisione e la censura.

La creazione della Direzione Generale per il Turismo con il decreto del 21 novembre 1934.

La creazione dell'Ispettorato Generale per il teatro e la musica con il decreto del 1º aprile 1935.

La creazione dell'Ispettorato per la radiodiffusione con il decreto del 3 dicembre 1934: questo Ispettorato si occupava anche di televisione, poiché sarebbe stato prematuro creare una divisione distinta per la gestione di un media ancora in fase di sperimentazione.

Nel giro di pochi mesi, sia Ciano che Mussolini si resero conto che il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda era ormai inadeguato poiché in uno stato autoritario il controllo simultaneo della cultura e della propaganda doveva essere affidato ad un unico organismo che fosse una branca dell'apparato amministrativo e che potesse istituzionalizzare e governare tale controllo. Per questo, motivo, il 24 giugno 1935, il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda fu trasformato in Ministero per la stampa e la propaganda e Galeazzo Ciano fu nominato ministro per la stampa e la propaganda. Il Ministero per la stampa e la propaganda conservò la stessa struttura interna del Sottosegretariato che ne era l'antecedente e ampliò tale struttura, in modo da poter inserire nella sua sfera di competenza un numero ancora maggiore di settori della cultura e della propaganda. L'ampliamento della struttura e delle competenze del Ministero per la stampa e la propaganda fu ottenuto attraverso:

la collocazione sotto la tutela del ministero dell'Automobile Club, della SIAE, dei teatri San Carlo e La Scala e dell'EIAR, il quale era sottoposto anche alla vigilanza della Direzione Generale Poste e Telegrafi del Ministero delle Comunicazioni;

l'attribuzione al ministero del potere di nominare gli addetti stampa presso le prefetture;

la legge del 24 ottobre 1935, con la quale alle direzioni generali per la stampa italiana ed estera venivano riconosciuti i poteri speciali per il sequestro e la soppressione dei giornali, originariamente affidati al Ministero dell'Interno;

l'innalzamento, nel 1936, dell'Ispettorato per il teatro e la musica a Direzione Generale per lo spettacolo a cui veniva affidato il compito di unificare e coordinare tutti gli organismi che si occupavano di spettacolo e la cui attività principale era la censura;

la creazione della divisione libri o divisione III all'interno della Direzione Generale per la stampa italiana del ministero:  con la creazione di questa divisione, diretta da Amedeo Tosti e il cui personale era formato da otto giornalisti per i libri italiani e trentadue per i libri stranieri, il Ministero per la stampa e la propaganda sottraeva al Ministero dell'Interno l'attività di censura dei libri, anche se i criteri di censura usati dalla divisione erano uguali a quelli usati dal Ministero dell'Interno: ai prefetti veniva dato il compito di individuare i libri sospetti di contenere sentimenti antifascisti e di inviarli al ministero, il quale decideva se sequestrarli o proibirne la ristampa, o censurarli, o richiederne la revisione; talvolta, era lo stesso ministero che segnalava ai prefetti alcuni libri sospetti e ordinava loro di sequestrarli;

la collocazione sotto l'autorità del ministero del Sabato Teatrale, un'iniziativa creata da Mussolini nel dicembre 1936 con lo scopo di sviluppare un teatro di massa, cioè un tipo di teatro capace di attrarre contadini e operai attraverso l'organizzazione di spettacoli teatrali a basso costo;

l'estensione del controllo del ministero sui sindacati culturali con lo scopo di far perdere loro la capacità di controllo sulle rispettive sfere di competenza: alSindacato degli autori e degli scrittori, ad esempio, fu vietato di occuparsi di traduzioni di opere straniere e di censura, poiché questi compiti spettavano al ministero; la Confederazione degli artisti e dei professionisti, inoltre, aveva bisogno dell'approvazione del ministero prima di intraprendere qualsiasi attività di propaganda culturale;

il tentativo del ministero di far rientrare effettivamente nei sindacati della Confederazione degli artisti e dei professionisti tutte le forze produttive del settore di cui si interessavano: a tale scopo, il ministero richiese a circoli e ad associazioni culturali locali di fornire alla confederazione elenchi dei loro iscritti e, nel 1936, a tutti gli scrittori che partecipavano a gare letterarie fu richiesto di iscriversi al Sindacato degli autori e degli scrittori.

Il Ministero per la stampa e la propaganda fu il principale elaboratore e diffusore della propaganda di guerra durante la guerra d'Etiopia (1935-1936). Abbandonando la propaganda di integrazione che si era avuta dal 1926, il ministero concentrò tutti i suoi sforzi sulla propaganda di agitazione volta a controbattere la propaganda inglese e francese, accrescere il morale popolare e suscitare sentimenti di entusiasmo per la guerra. Per raggiungere il suo scopo il Ministero per la stampa e la propaganda si servì delle istituzioni culturali italiane, infatti, operò per far perdere loro la facoltà di iniziativa e autonomia e per coordinare le loro attività con lo scopo di renderle veri e propri strumenti di propaganda di guerra. L'Istituto di cultura fascista, ad esempio, organizzò, durante la guerra, una serie di conferenze per propagandare le imprese dei soldati italiani in Africa, rendere omaggio alla missione civilizzatrice dell'Italia, creare il mito imperiale dell'Italia. Nel consiglio di amministrazione della Dante Alighieri furono introdotti dei rappresentanti del Ministero per la stampa e la propaganda con lo scopo di porre la società nelle mani del ministero stesso e, da questo momento, la società abbandonò l'attività tradizionale di studio della lingua per occuparsi della distribuzione di opuscoli, dell'organizzazione di conferenze, recital e corsi di lingua. Il Ministero per la stampa e la propaganda fu anche uno strumento prezioso per la politica estera del regime, poiché ampliò la sua funzione di gestione della propaganda all'estero attraverso la suddivisione della Direzione Generale per la propaganda in quattro sezioni:

la propaganda generale, che si occupava dell'elaborazione e della diffusione della propaganda destinata ai paesi stranieri;

la sezione radiofonica, che controllava le trasmissioni dirette ai paesi stranieri;

la sezione arte e cinematografia, che controllava i film, i cinegiornali, le esposizioni destinati a paesi stranieri;

la divisione speciale conosciuta con il nome di Nuclei per la propaganda italiana all'estero (NUPIE), che si occupava dell'elaborazione e della diffusione della propaganda anticomunista all'estero e alla quale, in seguito, fu affidato il compito di preparare la propaganda in caso di guerra a uso interno.

Nel giugno 1936, Galeazzo Ciano divenne ministro degli esteri e Dino Alfieri, che fino a quel momento era stato sottosegretario del ministero, fu nominato ministro per la stampa e la propaganda.

Il 27 maggio 1937, Mussolini cambiò la denominazione del Ministero per la stampa e la propaganda in Ministero per la Cultura Popolare. Tra il nuovo Ministero per la Cultura Popolare e il Ministero per la stampa e la propaganda vi fu una forte continuità politica e istituzionale, infatti, per tutto il 1937 il nuovo ministero mantenne la stessa struttura dell'ex Ministero per la stampa e la propaganda. Alla creazione del Ministero per la Cultura Popolare, inoltre, Dino Alfieri, ministro per la stampa e la propaganda, fu nominato automaticamente ministro della cultura popolare. La spiegazione ufficiale della nuova denominazione fu che con l'espressione cultura popolare si voleva indicare e celebrare l'allargamento degli scopi del ministero il quale, come aveva suggerito lo stesso Dino Alfieri in un rapporto al Senato agli inizi del 1937, si prefiggeva di fare un passo avanti nel controllo simultaneo su cultura e propaganda, puntando all'unificazione dei due settori. Tale unificazione era necessaria per rendere la politica culturale del regime una realtà concreta per il popolo e le masse, cioè per fare in modo che le attività culturali non fossero solo un privilegio riservato a pochi e per educare le masse secondo i principi e i valori fascisti, realizzando la rivoluzione fascista di cui si parlava dagli anni venti. Alla fine degli anni trenta si tentò di definire con maggiore precisione la natura e la funzione della cultura popolare nel regime. Nell'articolo Cultura popolare del Popolo d'Italia del 30 maggio 1937, ad esempio, si spiegava che il termine popolare non era usato in senso dispregiativo, ma nel senso romano di per tutto il popolo. Lo stesso concetto venne espresso in un discorso pronunciato il 24 aprile1941 da Pavolini in cui egli affermava che la cultura popolare è “qualcosa che riguarda la generalità dei cittadini, simultaneamente nelle città e villaggi, che tocca insieme tutta la popolazione”. Le spiegazioni ufficiali sulla natura della cultura popolare e sul cambiamento di denominazione del ministero erano, tuttavia, solo pura retorica poiché, l'espressione cultura popolare fu principalmente un semplice sostituto del termine propaganda. Già all'inizio degli anni trenta, infatti, Mussolini e Ciano avevano riflettuto sugli svantaggi del termine propaganda e Ciano aveva affermato che “nessun popolo ormai vuole essere propagandato, bensì vuole essere informato”. Per questo motivo, si era arrivato a proporre di cancellare la parola propaganda dal vocabolario ufficiale e la riflessione sugli svantaggi del termine era continuata per tutti gli anni trenta, approdando nelle direttive del 3 giugno 1939 e del 5 febbraio 1942 con le quali i giornalisti venivano invitati a evitare l'uso della parola propaganda in riferimento all'attività governativa. Il fatto che la spiegazione ufficiale per cui il Ministero della Cultura Popolare dovesse avviare un vero e proprio programma di cultura popolare volto all'elevazione culturale delle masse fosse pura retorica è dimostrato soprattutto dal tipo di attività e funzioni svolte dal ministero stesso. Teoricamente, infatti, il lavoro del ministero doveva essere diviso tra due tipi di funzioni: le funzioni dinamiche, volte all'unificazione di cultura e propaganda al fine di attuare quel programma di cultura popolare di cui tanto si era parlato già dall'inizio degli anni trenta; le funzioni statiche, volte al perfezionamento del controllo totalitario sulla cultura nel quale, come aveva fatto notare Dino Alfieri in un discorso alla Camera all'inizio del 1937, vi erano ancora problemi e lacune. La reale attività del ministero, però, fu caratterizzata per la maggior parte dall'adempimento delle funzioni statiche e molto trascurate furono, invece, le funzioni dinamiche. Al fine di avviare il perfezionamento del controllo totalitario sulla cultura, adempiendo le sue funzioni statiche, il ministero fu interessato, a partire dal febbraio1938, da una riorganizzazione strutturale, ottenuta attraverso:

l'ampliamento del personale che passò dai 183 impiegati del Ministero per la stampa e la propaganda a 800 funzionari, molti dei quali provenienti dal Ministero degli Esteri;

l'aggiunta allo staff del ministero di un numero sempre più alto di esperti di cinema, radio, architettura, fotografia e la creazione della Direzione Generale per i servizi amministrativi nella quale furono inquadrati;

la creazione all'interno delle sezioni della Direzione Generale per la stampa, di due sottosezioni, una per la stampa quotidiana, l'altra per quella non quotidiana;

la suddivisione delle sezioni della Direzione Generale per la propaganda per aree geografiche;

la creazione, da parte della Direzione Generale per la propaganda, di una rete di zone di propaganda (a ogni zona di propaganda fu assegnato un gruppo di propagandisti e un direttore dei servizi di propaganda);

la creazione di un Ufficio razza che si occupava della propaganda razziale in tutto il paese e che nel 1939, cambiò la sua denominazione in Ufficio studi e propaganda sulla razza;

la riorganizzazione, tra il 1938 e il 1943, della Direzione Generale per il Turismo: la direzione assegnava contributi dello Stato per costruzioni di alberghi, determinava il prezzo degli alberghi, forniva nulla osta ai progetti di costruzione, si occupava di fornire alla stampa italiana ed estera articoli di propaganda delle attività turistiche nazionali. Alle sue dipendenze vi erano l'ENIT e gli Enti provinciali per il turismo e essa vigilava su numerose organizzazioni turistiche tra cui il RACI e l'ENITEA;

l'assegnazione all'Ufficio di censura teatrale di una propria autonomia rispetto alla Direzione Generale per lo spettacolo, dalla quale fu scorporato;

l'estensione del controllo del ministero sull'Ente stampa del Pnf e sull'Ente Radio Rurale tra il 1939 e il 1940;

l'istituzione, all'interno della Direzione Generale per i servizi amministrativi, di un Ufficio di mobilitazione civile;

la creazione nel dicembre 1939, all'interno dell'Ispettorato per la radiodiffusione, di un Servizio di ascolto radiofonico e radiotelegrafico dall'estero;

il cambiamento di denominazione nel 1942, della Direzione Generale per la propaganda in Direzione Generale per gli scambi culturali.

La riorganizzazione strutturale del Ministero della Cultura Popolare causò un aumento del bilancio del ministero stesso, infatti, tra il 1938 e il 1939 furono stanziati più di cento milioni di lire.

Dopo la sua creazione e la riorganizzazione strutturale che lo interessò dal 1938, il Ministero della Cultura Popolare presentava la seguente struttura interna:

Direzione generale per la stampa italiana;

Direzione generale per la stampa estera;

Direzione generale per la propaganda;

Direzione generale per la cinematografia (a cui erano collegati Cinecittà, ed il Centro Sperimentale di Cinematografia);

Direzione generale per il turismo;

Direzione generale per lo spettacolo;

Ispettorato per le radiodiffusioni.

Uno dei più importanti problemi che il Ministero della Cultura Popolare dovette affrontare nell'ambito del perfezionamento del controllo totalitario sulla cultura fu la necessità, fatta notare anche su Critica fascista, di centralizzare il controllo del grandissimo numero di enti e istituti culturali nelle mani dello stato. Tale perfezionamento e centralizzazione del controllo potevano essere ottenuti attraverso una maggiore integrazione di tutte le istituzioni culturali nelle strutture statali, con lo scopo di dare alle attività di questi enti e istituti un “principio organico e sistematico” che li regolasse. Al fine di rispondere a questa necessità di centralizzazione e di più precisa regolamentazione delle attività degli enti culturali nazionali, lo Stato non creò nessun nuovo ente culturale e il Ministero della Cultura Popolare lavorò per assorbire totalmente gli enti culturali preesistenti con lo scopo di eliminare completamente la loro autonomia. Attraverso il lavoro del Ministero della Cultura Popolare, la Reale Accademia d'Italia, che nel 1936 era stata strappata dal controllo del Ministero dell'Educazione nazionale per essere posta sotto il controllo del Ministero per la stampa e la propaganda, perse completamente la sua autonomia. Essa, infatti, fu utilizzata per la campagna razziale del regime attraverso la creazione, al suo interno, di un Centro di studi per le civiltà primitive che lavorava a stretto contatto con l'Ufficio razza del ministero con lo scopo di rendere i risultati della sua ricerca funzionali per i temi della politica razziale ufficiale. Il Ministero della Cultura Popolare lavorò anche per rendere sempre più dipendente dall'attività dello Stato, l'Istituto di cultura che nel 1937, aveva cambiato la sua denominazione in Istituto di cultura fascista con lo scopo di sottolineare la maggiore importanza del suo ruolo nella politica culturale fascista. L'Istituto fu utilizzato dal Ministero della Cultura Popolare per la promozione della campagna razziale del regime, infatti, gli fu affidato il compito di organizzare su tutto il territorio nazionale incontri e conferenze sui temi della razza e dell'odio razziale. Il Ministero della Cultura Popolare, inoltre, si oppose al progetto elaborato nel 1943 dal Pnf che voleva porre sotto il suo controllo tutte le istituzioni culturali che non erano ancora controllate e disciplinate direttamente dalle istituzioni dello Stato. Con il suo progetto, il Pnf mirava a strappare al ministero il controllo su parte delle istituzioni culturali del paese e, a tale scopo, già nel 1937, aveva provveduto a coordinare le attività dell'Istituto di cultura con quelle del Circolo filologico e dell'Università Popolare di Milano, nonostante la mancata approvazione del Ministero della Cultura Popolare. Nella seconda metà degli anni trenta, il Ministero della Cultura Popolare concentrò, come anche il Pnf, tutti i suoi sforzi nella creazione di un particolare clima propagandistico e culturale, promuovendo con entusiasmo una serie di campagne propagandistiche. La campagna propagandistica per la "romanità" fu alla base della propaganda culturale del ministero nella seconda metà degli anni trenta, infatti, il tema della "romanità" fu un tema centrale nella costituzione dei nuovi temi culturali emersi in questo periodo. Il concetto di "romanità", elaborato già negli anni venti, fu utilizzato dal regime per due scopi fondamentali. In primo luogo, esso servì al regime per dare legittimazione all'ideologia fascista e al regime fascista, cioè si affermò che le origini del regime fascista risiedevano nel passato glorioso della Roma antica e, in particolare, di quella imperiale. Il fascismo, quindi, rappresentava la continuazione e la rinascita del puro spirito della razza italica che aveva trovato la sua massima espressione proprio nella Roma imperiale e, instaurando un rapporto di continuità con l'Impero romano, esso otteneva la legittimazione storica di cui aveva bisogno. Non è un caso che, già negli anni venti, come simbolo del regime fosse stato scelto il fascio littorio, né che Mussolini fosse chiamato "duce" e fosse identificato con l'imperatore romano Augusto e con Cesare, considerato un degno rappresentante del fascismo. Nella seconda metà degli anni trenta, questa campagna propagandistica per l'identificazione del fascismo con il passato romano e con la Roma imperiale venne rafforzata attraverso numerosi provvedimenti tra cui:

la pubblicazione, nel 1937, del film "Scipione l'Africano" di Carmine Gallone, in cui l'impero etiope di Mussolini veniva identificato con l'impero di Augusto;

l'adozione dello stile architettonico romano-classico come stile ufficiale del regime, impiegato nel Foro Mussolini, nella città universitaria di Roma e nei nuovi centri urbani, come Latina;

l'apertura, nel 1937, della Mostra Augustea della Romanità, che conteneva una sezione dal nome "Fascismo e romanità" e che fu ampiamente pubblicizzata attraverso l'organizzazione di gite guidate a tariffe ridotte. Alla cerimonia di chiusura della mostra, inoltre, a Mussolini fu data un'aquila viva, come simbolo della continuità storica tra la Roma imperiale e il fascismo. Il tema della "romanità", inoltre, fu usato dal fascismo per la creazione e la legittimazione del concetto di "uomo nuovo fascista". L'"uomo nuovo fascista" era colui che non si limitava solo ad accettare il fascismo coi suoi valori e i suoi principii, ma che cambiava e regolava il proprio comportamento pubblico e privato in relazione ai principi e ai valori del fascismo. Ispirandosi e facendo propri i nuovi valori dal fascismo, quindi, l'"uomo nuovo" era un nuovo tipo di italiano che rifiutava le "vecchie" usanze e gli antiquati costumi dell'Italia prefascista e soprattutto di quella liberale e borghese. L'"uomo nuovo" era un individuo con un nuovo modo di pensare, un nuovo comportamento, una nuova cultura e, per questo, rappresentava la massima espressione della "rivoluzione fascista" e della "Nuova Italia" che il fascismo si proponeva di costruire. Il concetto di "romanità" è legato a quello dell'"uomo nuovo" poiché i principi e i valori fascisti in base ai quali esso doveva regolare il suo comportamento coincidevano con i valori del cittadino dell'antica Roma, cioè la disciplina, la coscienza nazionale, il sacrificio dei propri interessi personali a favore di quelli dello Stato, la responsabilità, il dinamismo. L'"uomo nuovo", quindi, doveva essere formato infondendo negli italiani i valori della vita romana e la campagna propagandistica per la formazione dell'"uomo nuovo" fu caratterizzata dall'organizzazione di parate e adunate, dall'adozione del passo romano e del saluto romano. Inoltre, il Ministero della Cultura Popolare si impegnò nella campagna per l'"uomo nuovo" attraverso un lavoro di censura e sequestro con il quale, ad esempio, venne ordinato ai giornalisti di non usare espressioni che esaltassero il vecchio luogo comune della bontà degli italiani o di non fare riferimenti all'Italia liberale prefascista. Il Ministero della Cultura Popolare si impegnò anche per eliminare l'influenza dei dialetti, poiché rappresentavano il regionalismo politico, la divisione culturale e una forma di cultura antiquata e tali principi non si accordavano con i principi di coscienza nazionale e di rifiuto delle vecchie usanze che dovevano caratterizzare l'"uomo nuovo fascista". Ai periodici, infatti, fu vietato di pubblicare storie, poesie o canzoni in dialetto e agli attori di teatro fu impedito di pronunciare anche una sola battuta in dialetto. A partire dal 1938, il Ministero della Cultura Popolare si impegnò anche nella campagna propagandistica antiborghese, legata ai temi della "romanità" e dell'"uomo nuovo". La campagna antiborghese aveva lo scopo non solo di denigrare, ma anche di eliminare completamente dal comportamento degli italiani i valori e le vecchie usanze borghesi poiché essi non si accordavano con quelli dell'"uomo nuovo fascista" e dell'uomo romano. Questa campagna fu realizzata attraverso l'organizzazione di conferenze e mostre e la pubblicazione di libri e articoli che tentavano di eliminare i valori borghesi dall'abbigliamento, dal modo di parlare, dalle abitudini a tavola. Nella realizzazione della campagna antiborghese ebbe un ruolo importante lo sviluppo del movimento "anti-lei". Il movimento si affermò con l'organizzazione a Torino sul finire del 1937, di una mostra di quadri dal titolo "Mostra anti-lei" ed esso rifiutava l'uso del pronome "Lei" poiché era considerato un simbolo dello snobismo borghese e del servilismo italiano nei confronti degli stranieri. Un'importante campagna propagandistica in cui si impegnò il Ministero della Cultura Popolare fu la campagna antiebraica. Essa fu lanciata nel 1938 ed era legata al tema della "romanità" e alla campagna xenofoba del regime. Il Ministero della Cultura Popolare, infatti, tentò di convincere gli italiani che esistesse una pura "razza italica", cioè un tipo italico ideale che aveva avuto la sua piena realizzazione nella Roma imperiale e, dopo la caduta dell'impero romano, era stato contaminato dalle influenze straniere. Il recupero dei valori e dei principi della pura "razza italica" sarebbe stato possibile solo purificando la cultura nazionale dalle influenze straniere. L'Ufficio razza del Ministero della Cultura Popolare ebbe un ruolo fondamentale nella campagna antiebraica, infatti, si impegnò per liberare riviste, cinema, teatro e ogni altra attività culturale dalle influenze ebraiche. Per convincere gli italiani dell'esistenza di un tipo italico ideale, inoltre, furono realizzati documentari cinematografici e organizzate mostre come la "Mostra della razza", svoltasi a Roma nell'aprile 1940. In generale, le campagne propagandistiche del Ministero della Cultura Popolare e i temi culturali a esse legati furono la testimonianza del fallimento della politica culturale del regime e del suo progetto di "rivoluzione" culturale. Il regime, infatti, era consapevole del suo fallimento in campo culturale e, attraverso queste campagne propagandistiche, cercava di dare agli italiani almeno l'illusione e l'apparenza che esso avesse provocato importanti cambiamenti in campo sociale ed economico, che fosse riuscito a realizzare una "rivoluzione" culturale. L'atteggiamento repressivo e reazionario del Ministero della Cultura Popolare, che aveva lo scopo di accrescere il suo controllo totalitario sulla cultura, fu la causa dello sviluppo, alla fine degli anni trenta, di una forte ribellione intellettuale nei confronti della politica culturale del regime. Tale ribellione fu importante perché coinvolgeva non solo gli intellettuali già affermatisi prima del fascismo, ma anche la nuova generazione di intellettuali che si era formata proprio sotto il regime fascista. Questi intellettuali erano a favore del dialogo culturale, della libertà di espressione, della tolleranza verso tutte le forme e le attività artistiche. Essi si schierarono contro l'identificazione tra cultura e propaganda che portava la cultura a dipingere una realtà illusoria e finta del paese, e a favore, quindi, di una cultura che non si basasse sulla costruzione di illusioni e apparenze, ma fosse sensibile alla realtà concreta presente. Una figura centrale di questa ribellione degli intellettuali contro il carattere reazionario e repressivo della politica culturale del regime fu Giuseppe Bottai, direttore della rivista di ispirazione fascista Critica fascista e ministro dell'educazione nazionale. Bottai attuò la sua ribellione contro la politica culturale del regime aprendo la sua rivista anche ad autori e intellettuali che si erano dichiarati antifascisti, ma la sua battaglia più importante fu quella con la quale egli cercò di porre il controllo della vita artistica nazionale nelle mani del Ministero dell'Educazione nazionale. In questo modo, Bottai, ministro dell'educazione nazionale, voleva strappare il controllo sulle attività artistiche al Ministero della Cultura Popolare e porlo sotto la sua autorità allo scopo di garantire la libertà di espressione culturale e il dialogo culturale. Nel discorso del 4 luglio 1938 alla riunione dei Soprintendenti delle antichità e belle arti del Ministero dell'Educazione nazionale, infatti, Bottai sottolineò la necessità imminente per il regime di attuare una maggiore centralizzazione nelle sue mani della vita artistica del paese. Tale centralizzazione poteva essere ottenuta ponendo il controllo delle attività degli enti e dei privati che si interessavano di arte, sia antica che moderna, sotto l'autorità di un unico organismo unitario cioè il Ministero dell'Educazione nazionale. Tra il 1939 e il 1940 il Ministero dell'Educazione nazionale riuscì effettivamente ad ampliare il suo controllo sulla vita artistica del paese attraverso i seguenti provvedimenti:

la legge del 22 maggio 1939, con la quale il numero delle Soprintendenze del ministero veniva aumentato a cinquantotto e a ogni Soprintendenza veniva attribuita una sola sfera di competenza sulla quale aveva piena autorità;

la creazione, nel gennaio 1940, dell'Ufficio per l'arte contemporanea, direttamente dipendente dalla Direzione Generale delle antichità e belle arti del ministero. A causa dell'entrata in guerra dell'Italia pochi mesi dopo la creazione dell'ufficio, quest'ultimo non poté sviluppare un chiaro e specifico programma di azione, ma rappresentò comunque il più importante dei trionfi burocratici del Ministero dell'Educazione nazionale sul Ministero della Cultura Popolare.

Il fatto che Bottai fosse riuscito ad ampliare il controllo del Ministero dell'Educazione nazionale sulla vita artistica del paese fu possibile grazie alla posizione prestigiosa di cui godeva all'interno del regime e, soprattutto, grazie al fatto che il Ministero della Cultura Popolare non aveva una specifica suddivisione che si occupasse del controllo delle attività artistiche. Bottai perseguì la sua battaglia a favore del dialogo culturale e della libertà di espressione anche inserendosi all'interno del dibattito tra tradizionalismo emodernismo in arte che era riemerso dopo l'adozione delle leggi razziali nel 1938. Alcuni antisemiti e esponenti del PNF, infatti, avevano affermato che il modernismo era il prodotto di influenze straniere e ebraiche e, per questo motivo, lo Stato non doveva occuparsi della sua difesa e conservazione. In questo clima, Bottai si schierò in difesa del modernismo artistico e culturale affermando, più di una volta, in Critica fascista che il regime non doveva disinteressarsi alla difesa e alla tutela dell'arte moderna poiché il modernismo in arte non era il prodotto di influenze straniere e decadenti. A favore del dialogo culturale e della difesa del modernismo in arte, inoltre, nella rivista Le arti del febbraio 1939, Bottai cercò di dimostrare la compatibilità tra arte moderna e politica culturale fascista e, in vari suoi discorsi, affermò che il dialogo culturale poteva solo giovare al fascismo, poiché esso risvegliava l'interesse del pubblico e la creatività artistica. Nel suo discorso alla Biennale di Venezia del 1938, Bottai si schierò anche contro l'identificazione dell'arte con la propaganda, cioè l'uso dell'arte come un semplice strumento di propaganda e affermò che il regime non doveva mirare alla “fusione assoluta di interessi artistici e di interessi politici”. La ribellione degli intellettuali contro la politica culturale reazionaria e repressiva del regime interessò tutti i campi dell'attività intellettuale, dalla stampa, alla letteratura, al teatro, al cinema. Sul piano della stampa, un ruolo fondamentale nella lotta contro la politica del regime ebbe la nuova rivista Primato di Bottai, nata il 1º marzo 1940 e il cui ultimo numero fu pubblicato nel 1943. La rivista di Bottai espresse in modo esplicito critiche verso il regime, si schierò a favore del dialogo culturale e contro l'identificazione della cultura con la propaganda ed espresse fiducia nei confronti della nuova generazione di intellettuali che si ribellava verso l'atteggiamento repressivo del regime in campo culturale. Sul piano letterario, invece, fu importante l'attività di riviste letterarie di avanguardia come Letteratura, la rivista di Bonsanti che ospitò le voci di autori antifascisti, e Campo di Marte, la rivista di Gatto e Pratolini che si schierò più esplicitamente contro la politica culturale del regime e che un anno dopo la sua nascita fu soppressa dal Ministero della Cultura Popolare. Sul piano teatrale, fu significativa la riunione, nel maggio 1938, di una trentina di autori drammatici che facevano parte della Confederazione degli artisti e dei professionisti. Nella riunione, presieduta da Marinetti, i drammaturghi affermarono che il teatro italiano doveva essere liberato dall'attività censoria del MinCulPop e approvarono un ordine del giorno in cui si affermava che il teatro non doveva essere uno strumento di propaganda che presentava una realtà illusoria e apparente, ma che dovesse rappresentare la realtà concreta presente del paese.In campo teatrale, tuttavia, la più importante forma di ribellione contro la politica culturale repressiva del MinCulPop fu il Teatro delle Arti di Antonio Giulio Bragaglia. Il Teatro delle Arti non era totalmente libero dalla censura del regime, ma riuscì comunque a portare nei teatri italiani opere di autori stranieri come O'Neill e Dostoevskij e a sostituire, in campo teatrale, la realtà illusoria costruita dal regime con la realtà concreta del paese. Tutte queste forme di ribellione intellettuale verso la politica culturale del fascismo sono una chiara testimonianza del fallimento delle ambizioni culturali del regime poiché mostrano come il fascismo, ancora sul finire degli anni trenta, non fosse riuscito a ottenere un effettivo controllo totalitario sulla cultura nazionale. Nel 1939 Dino Alfieri fu nominato ambasciatore a Berlino e il 31 ottobre dello stesso anno Alessandro Pavolini venne nominato nuovo ministro della cultura popolare. Pavolini, grazie alla sua personalità e alla sua esperienza nel campo della propaganda, rese ancora più aggressivo e repressivo l'atteggiamento del Ministero della Cultura Popolare verso la cultura con lo scopo di ottenere una maggiore centralizzazione del controllo delle attività culturali nelle mani del ministero stesso. Il fine di questo maggiore irrigidimento del controllo del ministero sulla cultura era quello di permettergli di concentrare tutti i suoi sforzi nell'elaborazione e nella diffusione della propaganda di guerra. Non è un caso che tale perfezionamento del controllo sulla cultura si ebbe a partire dal 1940, anno in cui l'Italia entrò in guerra a fianco della Germania. Per raggiungere questo perfezionamento Pavolini attuò i seguenti provvedimenti:

Al Ministero della Cultura Popolare furono conferiti poteri speciali in tutto ciò che riguardava la stampa e gli altri mezzi di comunicazione di massa;

Nel dicembre 1941, venne aumentato il numero degli addetti stampa del ministero da 10 a 15 e venne raddoppiato il numero degli ispettori generali;

Tra il 1939 e il 1943, il ministero si occupò delle soppressione di riviste letteraria d'avanguardia come Campo di Marte, Oggi, L'Italiano, Il Frontespizio;

Con la legge del 18 gennaio 1943, si stabilì che la divisione libri della Direzione Generale per la stampa doveva occuparsi della revisione e della distribuzione del nulla osta a tutte le pubblicazioni che parlavano di rapporti internazionali, difesa militare, vicende della guerra;

Con la legge del 19 aprile 1943, si dava al ministero il compito di concedere o ritirare l'autorizzazione per la creazione di nuovi progetti editoriali e di sopprimere quelli già esistenti;

Nel 1940, all'interno del consiglio di amministrazione dell'Istituto di cultura venne inserito il capo dei servizi propagandistici del MinCulPop e all'interno della Direzione Generale per la propaganda del ministero venne creato un nucleo speciale dell'Istituto. In questo modo, Pavolini rendeva l'Istituto di cultura una vera e propria branca del Ministero della Cultura Popolare allo scopo di renderlo uno strumento della propaganda di guerra nelle province. Le sezioni locali dell'Istituto di cultura, infatti, organizzarono conferenze, incontri, mostre d'arte, si servirono di film documentari sugli eventi bellici e, dalla fine del 1942, utilizzarono proiettori montati su camion per diffondere i film documentari sugli eventi bellici nelle zone rurali. Nel dicembre 1939, venne creato all'interno dell'Ispettorato per le radiodiffusioni, un Servizio di ascolto radiofonico e radiotelegrafico all'estero; Nel 1940, fu istituito all'interno della Direzione Generale per i servizi amministrativi un Ufficio di mobilitazione civile. In generale, i provvedimenti attuati a partire dal 1940 mostrano che tra il 1940 e il 1943 il Ministero della Cultura Popolare fu effettivamente interessato dall'irrigidimento del suo controllo sulla cultura. Per non creare un conflitto di interessi con lo Stato Maggiore, che sarebbe stato controproducente ai fini della guerra, tuttavia, il ministero dovette rinunciare ad alcuni dei suoi poteri e cederli all'Ufficio stampa e propaganda del Comando Supremo, istituito nel 1940. Tale concessione da parte del ministero avvenne con l'accordo del maggio 1942 tra Pavolini e il generale Ugo Cavallero, con il quale si stabiliva che l'Ufficio stampa e propaganda del Comando Supremo doveva esaminare preventivamente tutte le pubblicazioni che riguardavano le fasi militari della guerra, in modo da evitare la diffusione di importanti segreti militari.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939 e la decisione dell'Italia di entrare in guerra nel 1940 fecero in modo che, soprattutto a partire dal 1940, il MinCulPop concentrasse tutte le sue energie nell'elaborazione e nella diffusione della propaganda di guerra ad uso interno. Una caratteristica fondamentale di questa propaganda fu che non si trattava di una propaganda di integrazione, che il regime aveva usato dal 1926, ma di una propaganda di agitazione, che aveva lo scopo di esaltare il sentimento nazionale, la violenza, il dinamismo dell'azione. Per comprendere quali furono i temi principali della propaganda di guerra del Ministero della Cultura Popolare e l'atteggiamento da esso assunto negli anni della guerra, si possono analizzare i verbali delle riunioni che si tenevano tra il ministro della cultura popolare e i direttori dei giornali nel periodo tra il 1939 e il 1943. In queste riunioni, il ministro della cultura popolare dava delle disposizioni generali per la stampa ai direttori dei giornali e queste disposizioni venivano seguite dalla diramazione di ordini di stampa più precisi e chiari, le cosiddette veline, che rappresentavano la concretizzazione delle disposizioni date dal ministro alle riunioni con i giornalisti. Uno dei temi di fondo che emerge dai verbali delle riunioni tra il ministro Pavolini e i direttori dei giornali è l'invito a non trasmettere un'eccessiva fiducia nella vittoria, a non dare la vittoria per scontata. Questo tema è la testimonianza della consapevolezza del regime dell'impreparazione militare dell'Italia e della sua inferiorità economica e militare rispetto alla Germania nazista. Questa consapevolezza è testimoniata, ad esempio, da un rapporto del 17 maggio 1941, in cui Pavolini ordina ai giornalisti di non presentare i fatti di guerra solo dal punto di vista tedesco, ma di considerare soprattutto il punto di vista italiano. Un altro tema importante è quello dello spirito di sacrificio che doveva contraddistinguere gli italiani. Essi dovevano essere consapevoli che il sacrificio era necessario per la vincita della guerra e tale invito al sacrificio è testimoniato, ad esempio, nella velina del 30 ottobre 1940 in cui si dispone: “a nessuno venga in mente di raccontare che in fondo il burro fa male alla salute, che l'olio è indigesto, ecc. Dire invece che si tratta di sacrifizi sopportati molto serenamente”. La guerra divenne ben presto un simbolo a cui furono affidati i valori del sacrificio, della povertà, dall'abitudine alla privazione personale. Questi valori favoriscono l'unione di individui singoli in comunità e lo sviluppo del sentimento di comunità negli individui e, per questo motivo, resero la guerra un elemento fondamentale del regime per la costruzione del senso di appartenenza nazionale. La seconda guerra mondiale venne interpretata, infatti, come una guerra tra oro e sangue, cioè tra materia e fede. La guerra divenne, quindi, una guerra tra coloro il cui unico valore è la ricchezza e che sono rappresentanti del materialismo, cioè gli statunitensi, e coloro i cui valori fondamentali sono lo spirito di sacrificio, la povertà e il senso di appartenenza nazionale che si fonda su di essi, cioè gli italiani e i loro alleati. I popoli dell'oro venivano spesso rappresentati attraverso immagini della mitologia classica, infatti, ad esempio, la capacità degli Stati Uniti di ricavare ricchezza da tutte le disgrazie umane veniva rappresentata attraverso la figura del re della Frigia, Mida. Il tema dell'antisemitismo è un altro tema di fondo dalla propaganda bellica del ministero. Ai giornalisti venne ordinato di non occuparsi di Moravia e delle sue opere e si vietò ai giornali di inserire pubblicità ebraica. Nella propaganda bellica il Ministero della Cultura Popolare riprese, inoltre, rafforzandolo, il culto della personalità del duce, che si accompagnava alla tendenza di non valorizzare l'opera di gerarchi e comandanti militari impegnati nella guerra. Il Ministero della Cultura Popolare combatté anche contro le voci provenienti dalle radio straniere, avviando una campagna violenta contro chi dava ascolto alle voci provenienti dall'estero. Tuttavia, il ministero non riuscì a eliminare completamente l'influenza delle voci straniere che infatti, dal 1942, cominciarono a comparire anche all'interno delle trasmissioni radiofoniche italiane.

Nonostante avesse concentrato tutti i suoi sforzi nella propaganda bellica, il Ministero della Cultura Popolare non poté evitare il peggioramento e la crisi della situazione italiana in guerra, soprattutto a partire dal 1942, e il conseguente sviluppo di un sentimento di avversione verso il regime. Dal 1942, infatti, gli italiani presero maggiore consapevolezza del fatto che i valori di sacrificio e privazione affidati dal fascismo alla guerra e che univano i singoli individui in comunità, non li avrebbero condotti alla vittoria poiché essi si scontravano con la superiore capacità tecnica e produttiva degli anglo-americani.[60] Per questo motivo, si ebbe il crollo dei valori affidati dal regime alla guerra e tale crollo provocò, a sua volta, il crollo del senso di appartenenza nazionale che proprio su questi valori si basava. Il crollo del senso di appartenenza nazionale degli italiani è testimoniato, ad esempio, dalle canzoni in cui il pronome plurale noi venne sostituito dal singolare, come simbolo del fatto che la guerra non riguardava più la comunità, ma era una guerra personale di chi aveva perso il proprio figlio, o voleva riabbracciare la propria moglie. Anche l'immagine che gli italiani avevano degli americani cambiò. Il fascismo li aveva presentati come nemici la cui società era basata sulla corruzione, sulla violenza, sull'individualismo, sull'unico valore della ricchezza. A partire dal 1942, gli italiani cominciarono a vederli più come liberatori, a riporre in loro sentimenti di fiducia e amicizia, e a sostituire i valori di sacrificio e povertà con quelli americani di ricchezza e benessere.

Il 25 luglio 1943, il re tolse a Mussolini i poteri che gli aveva conferito nel 1922 e affidò al generale Badoglio il compito di formare un nuovo governo non fascista decretando, quindi, il crollo del regime di Mussolini. Badoglio mantenne il Ministero della Cultura Popolare, ma sospese tutte le sue attività e se ne servì solo per trasmettere ordini che miravano a controllare la stampa. Nel settembre 1943, Mussolini, che era tenuto prigioniero sul Gran Sasso, fu liberato dai tedeschi e il 23 settembre dello stesso anno annunciò la costituzione di uno Stato neofascista con sede a Salò, che prese il nome di Repubblica Sociale Italiana (RSI). Spinti dalla notizia della nascita del nuovo Stato neofascista, alcuni funzionari si trasferirono a Salò, Mussolini fece spostare il quartier generale del Ministero della Cultura Popolare nella città[64] e nominò nuovo ministro della cultura popolare al posto di Polverelli, Ferdinando Mezzasoma. Mezzasoma mirava a raggiungere quell'effettivo controllo totalitario sulla cultura che il regime crollato nel luglio 1943 non era riuscito ad ottenere e, a questo scopo, il nuovo ministro della cultura popolare, attuò una politica culturale più rigida e intransigente di quella dei suoi predecessori. Per prima cosa, Mezzasoma avviò una riorganizzazione strutturale del ministero. Con i decreti del novembre 1943 del Consiglio dei Ministri di Salò, infatti, vennero create una Direzione Generale per la stampa e per la radio interna e una sua corrispondente per l'estero, che univano le Direzioni Generali per la stampa, italiana e estera, e l'Ispettorato per la radio. I decreti del novembre 1943 sancirono anche la nascita della Direzione Generale per lo spettacolo che univa cinema e teatro. Mezzasoma, inoltre, fece in modo che per la prima volta il fascismo si occupasse della cultura in senso globale, cioè non solo del suo controllo e della sua diffusione, ma anche della sua produzione. I giornali e l'industria libraria vennero considerati vere e proprie agenzie dello Stato e l'industria cinematografica e teatrale vennero direttamente controllate dallo Stato, allo scopo di formare una cinematografia e un teatro di stato. In generale, grazie al lavoro di Mezzasoma, il Ministero della Cultura Popolare riuscì a raggiungere, nella Repubblica di Salò, un apparente controllo totalitario e assoluto sulla cultura. Tale controllo, infatti, era stato raggiunto solo sul piano teorico poiché il nuovo governo di Mussolini era completamente manovrato dai tedeschi. L'ambasciatore tedesco Rudolf Von Rahn vigilava su tutte le attività di Mussolini, le decisioni politiche e culturali venivano prese dai tedeschi e il Ministero della Cultura Popolare non aveva alcuna autorità e autonomia rispetto ai nazisti per cui, ad esempio, tra il 1944 e il 1945, la censura cinematografica doveva ricevere l'autorizzazione dei tedeschi. Il mantenimento del Ministero della Cultura Popolare nella Repubblica di Salò mostra che nonostante l'instabilità che caratterizzava questo nuovo governo fascista, si sentisse ancora l'esigenza di avere una struttura amministrativa per l'elaborazione e il controllo della propaganda. Questa esigenza di continuare a svolgere l'attività propagandistica e culturale era, da un lato, il prodotto naturale della fine di un momento storico, infatti, dopo venti anni in cui la propaganda era stata usata per creare un clima di apparenza e illusorietà, era naturale che ci si affidasse ancora una volta agli strumenti propagandistici. Dall'altro lato, essa era un modo con cui coloro che ancora erano fedeli al fascismo restavano legati al passato e si rifiutavano di accettare che l'esperienza fascista fosse ormai giunta alla fine.

MORTA UNA IDEOLOGIA SE NE FA UN’ALTRA…

«Siamo allo Stato etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili», scrive "Tempi" il 19 Luglio 2016. È questo il commento di Gandolfini a un nuovo ddl che propone di punire con due anni di carcere i professionisti medici che si impegnano, anche su richiesta, a modificare l’orientamento sessuale di una persona. «La strategia contro l’umano – ma anche contro il buon senso – non si ferma. Il 14 luglio scorso è stato depositato al Senato il ddl 2402 con il titolo “Norme di contrasto alle terapie di conversione dell’orientamento sessuale dei minori”. Primo firmatario il Sen. Sergio Lo giudice (Pd) – che ha contratto matrimonio gay ad Oslo e oggi è “padre” di un bimbo avuto con utero in affitto. Fra i firmatari anche la Sen. Monica Cirinnà (Pd)». Spiega Massimo Gandolfini, presidente del Comitato promotore degli ultimi due Family Day. «In buona sostanza il ddl chiede la galera fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro – prosegue Gandolfini – per “chiunque esercitando la pratica di psicologo, medico psichiatra, psicoterapeuta, terapeuta, consulente clinico, counsellor, consulente psicologico, assistente sociale, educatore o pedagogista faccia uso su soggetti minorenni di pratiche rivolte alla conversione dell’orientamento sessuale” (art.2). Va, quindi, sanzionata “ogni pratica finalizzata a modificare l’orientamento sessuale, eliminare o ridurre l’attrazione emotiva, affettiva o sessuale verso individui delle stesso sesso, di sesso diverso o di entrambe i sessi” (Art.1, comma 1)». «Ciò significa – afferma ancora il portavoce del Family Day – che un minore che vive con disagio il suo orientamento sessuale, con l’aiuto e l’approvazione dei genitori, non può e non deve trovare alcun professionista che lo aiuti, salvo solo confermarlo nell’orientamento vissuto con sofferenza. Siamo allo Stato Etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili a anche difronte alle valutazioni che può fare un esperto medico psichiatra. Che ne è della libertà? La libertà di scelta, la libertà di ricerca, la libertà di educazione dei genitori? Senza contare quanto instabili ed insicure sono le scelte emotivo-affettive che caratterizzano gli anni dell’adolescenza!». «La solita schizofrenia tipica delle menti che si credono illuminate e che si alimentano solo di insensate ideologie: da un lato la pretesa di libertà assoluta di scegliere l’orientamento e l’identità di genere che si vuole fin dalle scuole dell’infanzia, dall’altro la negazione di essere liberi di scegliere il percorso di assistenza psicologica che meglio si addice alla propria condizione di disagio emotivo, sempre qualora esso si manifesti. Un appello a tutte le persone di buon senso: uniamo le nostre forze per fermare, con tutti gli strumenti democratici a disposizione, questo folle treno in corsa». Conclude Gandolfini.

Essere i paladini dell’antirazzismo. Le radici del razzismo del ‘900? Marx ed Engels, scrive Riccardo Ghezzi, l'11 settembre 2011 su “Quelsi”. C’è qualcosa di strano negli “anti-razzisti” in bandiera rossa con falce e martello dei giorni nostri. Qualcosa che non torna. Come al solito, quel qualcosa che non torna è la scarsa conoscenza della storia dei compagni. Già, perché gli “anti-razzisti” di oggi, che ideologicamente si rifanno al comunismo e ai teorici Marx ed Engels, ignorano che il razzismo del ‘900 ha dei padri che sono vissuti un secolo prima: Marx ed Engels, per l’appunto. Due pensatori razzisti, neppure troppo velatamente. Basterebbe studiarli per saperlo, ma certo non si può pretendere che marxisti o engelsiani leggano opere e aforismi dei loro beniamini. Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo. L’ha scritto il filosofo e politico francese Jean-François Revel nella sua prefazione al libro «La littérature oubliée du socialisme» di George Watson. Aveva ragione. Engels, nel 1849, invocava lo sterminio degli ungheresi che si erano ribellati all’Austria. Lo scriveva in un articolo pubblicato sulla rivista diretta proprio dal suo amico Karl Marx, la «Neue Rheinische Zeitung». Lo stesso articolo sarà riportato da Stalin, nel 1924, in «Fondamenti del Leninismo», in realtà spudoratamente copiato da un saggio del segretario Ksenofontov, al quale è stata vietata la pubblicazione della sua opera (troppo simile a quella che Stalin aveva spacciato per farina del proprio sacco) prima di essere fatto fucilare negli anni ’30. Ma non andiamo fuori tema. Engels desiderava candidamente l’estinzione di ungheresi, serbi e altri popoli slavi, e poi ancora baschi, bretoni e scozzesi. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 sulla stessa rivista, era Marx in persona a chiedersi come fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”. Il concetto di autodeterminazione dei popoli non era proprio ben visto da Marx ed Engels, per usare un eufemismo. Ma Engels ha rincarato la dose nel 1894. In una lettera ad uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius, l’intellettuale comunista tedesco scriveva: Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico. La “razza”. Chi l’avrebbe detto. Cosa Engels volesse intendere, l’ha chiarito meglio nel suo Anti-Duhring: Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia. Parole che farebbero impallidire persino il tanto vituperato (dai compagni) Mario Borghezio. La superiorità razziale dei bianchi era una verità scientifica per i fondatori del socialismo, ed anche per i loro adepti. H. G. Wells e Bernard Shaw, intellettuali socialisti del ‘900 e grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, per esempio rivendicavano il diritto di liquidare fisicamente le classi sociali che ostacolavano o ritardavano la Rivoluzione socialista. Stupiscono soprattutto le parole di Bernard Shaw riportate sul periodico The listener nel 1933, con le quali invitava scienziati e chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» mortale ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme nel 1962, ha invocato in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, usato per uccidere le vittime della Shoah. Torniamo a Marx. Egli, ebreo auto-rinnegato, definiva il suo rivale e critico Ferdinand Lassalle con queste parole: Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto, a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro. L’importunità di quell’uomo è altresì negroide. E poi ancora: Il negro ebreo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. Léon Poliakov, storico e filosofo francese di origine russa vissuto nel ‘900, così ha definito Marx: Marx restava influenzato dalle gerarchie germanomani, si rifaceva all’idea dell’influenza del suolo di Trémaux, un determinismo geo-razziale che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei negri. Lo stesso si potrebbe dire per Engels. Impossibile pretendere che gli scalmanati dei centri sociali, armati di spranghe e bandiera rossa, sappiano queste cose. Ma che almeno coloro che si rifanno alle idee di Marx ed Engels abbiano il buon gusto di non definirsi “anti-razzisti”. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Illudere gli operai, distruggere la Chiesa, aggregare l’Italia all’Urss: i piani del PCI in due documenti esclusivi. È il 1948, all’orizzonte si profila l’appuntamento con il 18 aprile, giorno delle elezioni politiche che potrebbero rivelarsi decisive per le sorti dell’Italia. PCI e PSI si sono riuniti nel Fronte Democratico Popolare, con lo scopo dichiarato di assumere la guida del Paese battendo la Dc, già uscita vincitrice dalle precedenti elezioni del 1946. Al fine di raggiungere l’obiettivo, i militanti sono disposti a tutto: una vera e propria “macchina da guerra”, nemmeno troppo “gioiosa”, per parafrasare la famosa uscita di Achille Occhetto molti anni dopo. La propaganda del Fronte Democratico Popolare è feroce, tanto che i “compagni propagandisti” rivestiranno un ruolo importante durante la campagna elettorale. I due documenti che vi mostriamo sono particolarmente significativi: una lettera segreta contenente un vero e proprio vademecum per i propagandisti ed un decalogo inoltrato ai militanti più fedeli e considerati affidabili. Entrambi stupiscono per il tono enfatico e ancor di più per i contenuti, talvolta davvero stucchevoli. Ci sono stati forniti da un lettore del blog, che li ha avuti originali da una persona nata del 1932 che all’epoca risiedeva in un paesino vicino a Ravenna. Essendo famiglia di area cattolica, hanno ricevuto tale missiva per errore, ma l’hanno gelosamente custodita per tutti questi anni. Nel vademecum sono elencati i 9 punti che il Partito intendeva inculcare ai propagandisti: dai nemici del Fronte Popolare, individuati anche nei mancati alleati del PSLI (futuro PSDI) e PRI, agli obiettivi da ottenere in ambito morale, economico e religioso. Ossia estirpare la Chiesa, distruggere la moralità, abolire la proprietà privata. E poi, trasformare l’Italia in una Repubblica Socialista, vassalla dell’URSS di Stalin, favorendo l’egemonia comunista nel mondo. Oltre alla raccomandazione finale di non divulgare la lettera, che deve restare segreta. Abbiamo scelto di riportare integralmente il documento, senza correggere errori pacchiani come “appariscano”.

 

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Compagno mezzadro!

1) Il giorno 18 aprile si combatterà la battaglia decisiva tra le forze progressiste e le forze reazionarie. Le forze progressiste sono tutte quelle raggruppate nel Fronte, la forze reazionarie sono tutte le altre. Il Partito Comunista integrale che è l’anima del P.C.I. denuncia come forze reazionarie sia il P.S.L.I. sia il P.R.I., perché il P.C.I. sa perfettamente che se fosse stato costituito, in Italia, un Fronte Popolare comprendente anche le forze socialiste e repubblicane, come fu fatto dodici anni fa in Ispagna, il P.C.I. avrebbe senz’altro vinto le elezioni. Mentre invece il partito si trova a dover lottare contro la reazione, che diventa ogni giorno sempre più pericolosa ed aggressiva, insieme al solo P.S.I. del compagno Nenni, in una lotta che diventa sempre più dura e preoccupante.

2) Il Partito, ti considera maturo e degno di conoscere i suoi più immediati obiettivi, per convincerti della necessità di lottare duramente. Il Partito sa che gli avversari, grazie a forme spietate della loro propaganda capillare, sono riusciti a provocare il disordine nelle nostre file, che fino a dieci giorni fa, sembravano pugnaci e compatte. Il Partito sa che, purtroppo, moltissimi compagni non hanno resistito al tremendo attacco. Ricorda sempre che il Partito ti rivela i suoi immediati obiettivi, considerandoti maturo, perché tu possa incoraggiare i compagni impauriti ed ammonire i compagni titubanti.

3) Il Partito mira a questi obiettivi grandiosi la cui conquista darà nome alla nostra epoca:

Primo: nel piano religioso il Partito mira e estirpare radicalmente l’idea di dio, la dottrina di Cristo, la influenza della chiesa sulle masse, il potere dei preti. Non si vedranno più madonne che andranno in giro da un comune all’altro, né madonne che appariscano o statue di madonne che si muovano.

Secondo: nel piano morale, il partito tende a liquidare, una volta per tutte, la morale borghese, la famiglia cristiana, l’indissolubilità del matrimonio. Il Partito vuole rivendicare, a favore di tutti, uomini e donne, la libera iniziativa nell’amore, fuori da ogni controllo religioso, perché per noi bolscevichi la religione è l’oppio del popolo e droga che ubriaca. La sola morale del Partito è quella affermata dal grande Lenin: quella che serve agli sviluppi della nostra lotta, non quella che si riallaccia all’idea di dio e dei suoi pretesi comandamenti.

Terzo: nel piano economico il Partito abolirà la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, ed in modo particolare abolirà la proprietà privata della terra, delle industrie, dei mezzi di comunicazione -ferroviari, marittimi, aerei, automobilistici – di tutte le aziende, agricole, industriali, artigiane, di caccia e di pesca. Tutto sarà confiscato a favore dello Stato, il quale sarà il solo produttore ed il solo distributore di merci e prodotti, il solo che avrà in mano il commercio sia interno che estero.

4) Compagno! Quando tutto sarà confiscato a favore dello Stato, tu sarai finalmente libero da qualunque privato padrone. Lo Stato tutelerà i tuoi diritti, se tu osserverai onestamente i tuoi doveri. I diritti e i doveri del cittadino saranno determinati in una nuova Carta Costituzionale, che sarà immediatamente fatta sulla guida di quella del compagno Stalin.

5) Quando il partito avrà conquistato il potere, allora vedrai cosa saprà fare contro la chiesa cattolica, contro i suoi ministri, i suoi simboli, i suoi santi, le sue madonne, le sue chiese, le sue organizzazioni. Il Partito ti libererà per sempre dai preti e dalla loro dottrina.

6) Quando il Partito avrà conquistato il potere allora finalmente si realizzerà il sogno di ogni vero comunista bolscevico italiano: l’Italia diventerà una REPUBBLICA SOCIALISTA e domanderà l’onore di essere aggregata all’URSS, con a capo il compagno Stalin. Così dichiarò a Mosca il compagno Togliatti. Allora l’URSS penetrerà, attraverso l’Italia, nel mare mediterraneo, e sarà in grado di resistere alle prepotenze degli Stati Uniti d’America; allora il compagno Stalin accetterà la sfida che gli Stati Uniti d’America gli hanno lanciato. La vittorie del Fronte significherà perciò guerra agli Stati Uniti d’America; e la guerra finirà nella vittoria del Comunismo nel mondo.

7) La vittoria del Fronte aprirà immediatamente le porte alla emigrazione di milioni di lavoratori italiani in Russia, grande Patria del Socialismo, senza formalità alcuna. Così milioni di lavoratori italiani riempiranno gli spaventosi vuoti causati dalla infame guerra fascista nei ranghi della gioventù maschile sovietica. E migliaia di donne sovietiche saranno felici di accogliere i lavoratori italiani, e creare con essi una vera famiglia comunista.

8 ) Compagno! Il Partito ha insistito presso il compagno Stalin di fare all’ultimo momento il gran gesto verso l’Italia, di rinunciare alle riparazioni e alle navi italiani e almeno di promettere all’Italia il grano necessario per arrivare al raccolto. Ciò sarà utilissimo alla nostra propaganda. E’ chiaro, del resto, che se il Partito vincerà le elezioni, il compagno Stalin sarà ricompensato ad usura del suo gesto, ed avrà il centuplo di ciò che darà o prometterà all’italia prima delle elezioni.

9) Compagno! Questa è lettera è segreta. Appunto per questo è stata spedita in busta non intestata, come lettera privata. Il Partito ti raccomanda quindi di non farla leggere a nessuno, ma tutt’al più, ad un solo compagno di tua piena fiducia, purché non sia un contadino. Nel caso però che questa lettera capitasse in mano agli avversari, il Partito la smentirà sollecitamente, a voce e sulla stampa, nelle sue Sedi e fuori. E’ certo doloroso per il Partito dovere smentire i suoi veri programmi; ma talvolta ciò è necessario. Sii dunque avvertito che se il Partito smentirà, ciò vuol dire che qualche compagno immaturo ha parlato.

Per il P.C.I. nel M.S.R. (Compagno Filiberto S.) W IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE!

Ancor più allarmante, per certi versi, il decalogo. Traspare, oltre ad un linguaggio particolarmente violento, un odio pericoloso nei confronti di chiesa cattolica e istituzioni come la famiglia. Significative anche le parti in cui si invita a “mentire” e “calunniare” i “preti” o i nemici, addirittura a “illudere” gli operai. Attenzione: non aiutare o difendere, ma illudere. Quindi strumentalizzarli. LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI. MESSAGGIO CHE CHIARAMENTE INCITA ALL’ODIO E ALL’ANTI-CATTOLICESIMO. La seguente lettera è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.

 

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Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell’Italia del nord, dopo la liberazione, e che fu spedita, nelle rispettive lingue a migliaia di compagni, nei Paesi dell’Europa centrale che dovevano essere bolscevizzati.

Compagno propagandista, Tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l’opera tua sia efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare l’Europa tutta a qualunque costo, in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l’umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l’umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale, di proprietà privata.

Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

1) Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro: comprometteresti tutto.

2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi: negare recisamente quanto essi affermano, negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria, la famiglia.

3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi si vive meglio e si è più liberi.

4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere, distruggere la moralità.

5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i vescovi ecc. Calunniare, falsare: sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni.

6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l’indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento, nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia.

7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: e non avere paura del sangue.

8 ) Battere molto sul concetto che l’operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti.

9) Sii all’avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni, parla molto forte, fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all’avanguardia di tutti i movimenti.

10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all’operaio l’illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non avere paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti tre o cinque anni. L’opera nostra continua, sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi.

Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea”.

Le elezioni del 1948 non sono andate secondo i piani dei compagni. Ha vinto la Dc, conquistando il 48% dei voti, maggioranza relativa dei voti e maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Popolare si è fermato al 31%, perdendo persino alcuni voti conquistati da PCI e PSI nel 1946. La catastrofe di un’Italia sovietica è stata evitata. Nonostante ciò, è giusto che queste lettere siano conosciute e inoltrate, per far capire quali fossero i piani dei comunisti per l’Italia e che da allora loro non sono cambiati, rendendo il contenuto di quelle lettere sempre attuali, rappresentando per certo e per vero il loro modo di essere e di pensare. E che finché ci saranno bandiere rosse nelle piazze, nessuno si deve vergognare di essere anti-comunista, anche oggi e negli anni a seguire.

L’egemonia culturale della Sinistra. Una ricostruzione dei fatti del passato basata sui dogmi, anziché su uno studio serio e senza riserve, scrive Luciano Atticciati. Il nostro Paese è vissuto per decenni sotto la cosiddetta egemonia culturale della Sinistra, una specie di lunghissimo dopoguerra che ha portato gli uomini di cultura ad assumere posizioni e atteggiamenti anomali e forzati per dimostrare la validità di certe questioni decisamente insostenibili. Per costoro il fascismo era stato molto peggiore del comunismo, nonostante che tutto facesse pensare che il regime totalitario creato da Mussolini non fosse così coercitivo come quello dell’Unione Sovietica o della Cina Popolare, i crimini contro l’umanità commessi dai regimi comunisti erano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, le atrocità commesse dagli Jugoslavi verso il nostro popolo erano decisamente un argomento tabù, così come l’idea che gli uomini della Resistenza avessero commesso degli eccessi. Ovviamente per costoro la classe borghese costituiva qualcosa di spregevole, e aveva gestito il nostro Paese nel peggiore dei modi, il futuro apparteneva ad altre ideologie che avrebbero stabilito un mondo nuovo, decisamente superiore al presente o al recente passato ritenuto di scarso valore. L’egemonia culturale della Sinistra aveva naturalmente il sostegno degli intellettuali, ma trovava un altrettanto forte sostegno nelle istituzioni, che nei loro proclami ricordavano costantemente le nefandezze della Destra. Sebbene il partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana esercitasse il suo potere di governo, nel campo culturale brillava per la sua assenza, o peggio per il suo stato di sudditanza nei confronti dell’agguerrita opposizione comunista. A rileggere oggi certi discorsi c’è da rimanere inorriditi, ma a quei tempi tutto era permesso, e nessuno poteva opporsi ai profeti del mondo migliore. I dibattiti culturali sui mass-media avvenivano rigorosamente fra esponenti di Sinistra, le librerie ospitavano solo libri di Sinistra, le poche voci dissonanti venivano messe a tacere con giudizi pesanti. Due casi sono degni di nota, quello di Montanelli, isolato come un infetto di un terribile morbo, e Renzo De Felice, lo storico che aveva azzardato a parlare del fascismo come fenomeno dei ceti medi e teso alla mobilitazione delle masse. I suoi denigratori coniarono addirittura un termine estremamente infelice per indicare le sue posizioni, «revisionista». I revisionisti erano in precedenza definiti i comunisti non allineati, considerati eretici dai marxisti ortodossi. Gli attacchi contro uno dei maggiori storici italiani da parte di intellettuali e politici furono estremamente pesanti. L’antifascismo dominante non permetteva che si potesse esprimere il minimo giudizio anche vagamente non accusatorio nei confronti di quel regime. Il mondo comunista aveva soppresso qualsiasi forma di libertà e aveva sottratto ai ceti operai di cui si considerava formalmente protettore, gran parte dei loro diritti. Non ci voleva molto a comprendere che il blocco dei Paesi comunisti produceva una eccezionale quantità di armamenti ma teneva la popolazione ad un livello di vita da Terzo Mondo. Nonostante ciò giovani entusiasti ed intellettuali proclamavano che la gente sotto quei regimi disponeva di un benessere, forse diverso dal nostro, ma comunque di una situazione felice. Fino al 1956, cioè fino a quando Kruscev non rivelò i crimini commessi da Stalin, gran parte della cultura marxista proclamava che i gulag non esistevano (vedi anche il caso Kravcenko), che erano una semplice invenzione della propaganda capitalista. Nel periodo successivo si parlò allora di «contraddizioni del mondo comunista», come dire che il terrore di massa era un semplice accidente storico, un limitato e inevitabile male che non pregiudicava la grandezza di quei regimi. Tutto il mondo doveva comunque essere grato all’Unione Sovietica per aver sconfitto, a prezzo di enormi sacrifici, il nazismo, ovviamente si taceva sul «Patto Molotov-Ribbentrop», sulla duplice aggressione alla Polonia, e sull’eccidio di Katyn. Negli anni Cinquanta sorse infine un ambiguo movimento pacifista, i Partigiani della Pace, che nonostante tutte le guerre e le minacce che provenivano dall’Unione Sovietica riteneva il pacifismo coniugabile con il comunismo. Anche personaggi di spicco del mondo europeo ne fecero parte. Non molto tempo dopo si scoprirono i legami dei vertici dell’organizzazione con il blocco sovietico. Uno spazio particolare nella cultura degli anni Sessanta fu dato alla questione Vietnam, vittima non si sa su quali basi di un’aggressione americana. La principale battaglia combattuta in quell’infelice Paese, avvenne nel ’68 a Khe San fra unità regolari nord-vietnamite che erano penetrate nel territorio sud-vietnamita e avevano circondato una base americana, eppure la Sinistra continuava a ripetere che principali protagonisti di quel conflitto erano i Vietcong, cioè comunisti locali insofferenti al regime alleato dell’odiato Paese capitalista. Analogamente si taceva sul fatto che fosse stato Kennedy, uomo della Sinistra, ad iniziare l’impegno americano a difesa del governo sud-vietnamita. Quando dopo il 1975 si scoprì la durezza e la crudeltà del comportamento dei regimi comunisti di quell’area geografica, la questione venne messa presto a tacere. Nello stesso periodo molti vedevano nel comunismo cinese, una forma di autentico comunismo «popolare» contrapposto a quello «burocratico» sovietico. I milioni di morti che avevano accompagnato quella triste rivoluzione, ammesso che potesse avere senso parlare di rivoluzione parlando del regime cinese, costituivano un normale inconveniente tipico di qualsiasi fenomeno storico. Le due questioni si inquadravano all’interno della cosiddetta guerra fredda. Le origini della guerra fredda apparivano decisamente confuse, forse era stato il discorso sulla «cortina di ferro» di Churchill (1946) a scatenarla, o forse «l’accerchiamento capitalista», anche se il mondo comunista appariva un po’ troppo vasto per essere considerato accerchiato. L’umanità si trovava a vivere una guerra in cui era scivolata senza sapere nemmeno il motivo, e il muro di Berlino suo simbolo, era sorto a causa di «reciproche incomprensioni», non dall’attività deliberata di un regime totalitario. Coronamento di tali discorsi era naturalmente l’antiamericanismo, il Governo degli Stati Uniti controllava non si sa come, né in che modo le nostre scelte politiche. Se le Sinistre non riuscivano a conquistare il potere nel nostro Paese, ciò era dovuto non al fatto che i ceti medi preferissero altre forme di governo, e che una parte della stessa Sinistra, socialdemocratici e repubblicani avessero scelto il sistema di valori occidentale, ma a invisibili condizionamenti operati nelle forme più incomprensibili. Forse non ci voleva molto a comprendere le assurdità e le palesi falsità di quella cultura, bastava leggere le opere di uno storico come Luigi Salvatorelli sul Novecento, o quelle di Gaetano Salvemini che aveva messo in luce come nell’affermarsi del fascismo avessero pesato le violenze scatenate nel ’19 dall’estrema Sinistra. Anche gli storici fecero la loro parte di confusioni, molti storici di area comunista limitavano lo studio della storia all’esposizione di enunciazioni programmatiche, senza mai arrivare ai comportamenti reali dei governi e delle forze politiche. Un testo ritenuto importante di Enzo Collotti sulla storia della Germania (1968) considerava irrilevante l’assorbimento forzato del partito socialista da parte di quello comunista nella DDR, i Tedeschi sostanzialmente avevano accolto liberamente quel tipo di regime. Lo storico comunista forse più autorevole, Gastone Manacorda, ammetteva esplicitamente le esigenze della politica nello studio storiografico. Sembrava che il mondo dovesse vivere a tempo indeterminato in quella forma di forzatura mentale, ma la storia («l’astuzia della ragione» avrebbe detto Hegel) alla fine operava. A metà degli anni Ottanta il comunismo implodeva non a causa di un attacco militare, o di un oscuro complotto, ma per l’azione di quei popoli che lo vivevano. Il mondo di bugie aveva una falla, e da qui al crollo il passo non era lontano. Alla fine anche gli uomini di cultura di Sinistra più avveduti (tra i quali Giampaolo Pansa) hanno dovuto ammetterlo, i teoremi non stavano in piedi, erano costruzioni fondate sul nulla. Oggi la storiografia marxista è quasi inesistente, solo irriducibili dogmatici ci vengono a proporre le loro tesi un po’ trite, uno di questi è Toni Negri, convinto che il nemico capitalista trami nell’oscurità, alla stessa maniera con cui i nazisti si convincevano dell’esistenza del complotto giudaico-massonico. Dietrologi e complottisti sparano ancora le loro ultime cartucce, e se i fatti storici smentiscono tesi gloriose, per costoro si può ricorrere sempre a fatti non dimostrati né dimostrabili. Se il mondo della cultura oggi ha messo da parte la cappa soffocante dell’egemonia culturale della Sinistra, tuttavia in quella parte della società più portata a credere acriticamente nei grandi illuminati che nelle proprie capacità di discernimento, ancora continua a resistere un modo di pensare decisamente impossibile da comprendere. Le persone che in un certo senso desiderano ingannarsi non sono assolutamente scomparse.

L'egemonia di sinistra ha creato un deserto e l'ha chiamato cultura. L'intellettuale organico ha dissolto concetti, valori e modelli positivi lasciando la società in balia del conformismo e della volgarità, scrive Marcello Veneziani, Domenica 8/02/2015, su "Il Giornale.  Ma è vera o falsa la leggenda dell'egemonia culturale di sinistra? Cos'era e cosa resta oggi di quel disegno di conquista e dominio culturale? In principio l'egemonia culturale fu un progetto e una teoria che tracciò Gramsci sulla base di due lezioni: di Lenin e di Mussolini, via Gentile e Bottai. La tesi di fondo è nota: la conquista del consenso politico e sociale passa attraverso la conquista culturale della società. Poi fu Togliatti che, alla caduta del fascismo, provò su strada il disegno gramsciano e conquistò gruppi di intellettuali, spesso ex fascisti, case editrici e luoghi cruciali della cultura. Ma il suo progetto non bucò nella società che aveva ancora contrappesi forti, dalle parrocchie all'influenza americana, dai grandi mezzi di comunicazione come la Rai in mano al potere democristiano ai media in cui prevaleva l'evasione. La vera svolta avviene col '68: l'egemonia culturale non si identifica più col Pci, che pure resta il maggiore impresario, ma si sparge nell'arcipelago radicale di sinistra. Quell'egemonia si fa pervasiva, conquista linguaggi e profili, raggiunge la scuola e l'università, il cinema e il teatro, pervade le arti, i media e le redazioni. In che consiste oggi l'egemonia culturale? In una mentalità dominante che eredita dal comunismo la pretesa di Verità Ineluttabile (quello è il Progresso, non potete sottrarvi al suo esito). Quella mentalità s'è fatta codice ideologico e galateo sociale, noto come politically correct, intolleranza permissiva e bigottismo progressista. Chi ne è fuori deve sentirsi in torto, deve giustificarsi, viene considerato fuori posto e fuori tempo, ridotto a residuo del passato o anomalia patologica. Ma lasciamo da parte le denunce e le condanne e poniamoci la domanda di fondo: ma questa egemonia culturale cosa ha prodotto in termini di opere e di intelligenze, che impronta ha lasciato sulla cultura, la società e i singoli? Ho difficoltà a ricordare opere davvero memorabili e significative di quel segno che hanno inciso nella cultura e nella società. E il giudizio diventa ancor più stridente se confrontiamo gli autori e le opere a torto o ragione identificate con l'egemonia culturale e gli autori e le opere che hanno caratterizzato il secolo. Tutte le eccellenze in ogni campo, dalla filosofia alle arti, dalla scienza alla letteratura, non rientrano nell'egemonia culturale e spesso vi si oppongono. Potrei fare un lungo e dettagliato elenco di autori e opere al di fuori dell'ideologia radical, un tempo marxista-progressista, se non contro. L'egemonia culturale ha funzionato come dominazione e ostracismo ma non ha prodotto e promosso grandi idee, grandi opere, grandi autori. Anzi sorge il fondato sospetto che ci sia un nesso tra il degrado culturale della nostra società e l'egemonia culturale radical. I circoli culturali, le lobbies e le sette intellettuali dominanti hanno lasciato la società in balia dell'egemonia sottoculturale e del volgare. E l'intellettuale organico e collettivo ha prodotto come reazione ed effetto l'intellettuale individualista e autistico che non incide nella realtà ma si rifugia nel suo narcisismo depresso. Ma perché è avvenuto questo, forse perché ha prevalso un clero intellettuale di mediocri funzionari, anche se accademici? Ci è estraneo il razzismo culturale, peraltro assai praticato a sinistra, non crediamo perciò che sia una questione «etnica» che riguarda la razza padrona della cultura. Il problema è di contenuti: l'egemonia culturale non ha veicolato idee, valori e modelli positivi ma è riuscita a dissolvere idee, valori e modelli positivi su cui si fonda la civiltà. Non ha funzionato sul piano costruttivo, sono naufragate le sue utopie, a partire dal comunismo; ma ha funzionato sul piano distruttivo. Se l'emancipazione è stata il suo valore fondante e la liberazione il suo criterio principe, il risultato è stato una formidabile, quotidiana demolizione di culture e modelli legati alla famiglia, alla natura, alla vita e alla nascita, al senso religioso e alla percezione mitica e simbolica della realtà, al legame comunitario, alle identità e alle radici, ai meriti e alle capacità personali. È riuscita a dissolvere un mondo, a deprimere ed emarginare culture antagoniste ma non è riuscita a generare mondi nuovi. Il risultato di questa desertificazione è che non ci sono opere, idee, autori che siano modelli di riferimento, punti di partenza e fonti di nascita e rinascita. L'egemonia culturale ha funzionato come dissoluzione, non come soluzione. Oggi il comunismo non c'è più, la sinistra appare sparita ma sussiste quella cappa asfissiante anche se è un guscio vuoto di idee, valori, opere e autori. Il risultato finale è che l'egemonia culturale è un potere forte con un pensiero debole (e non nel senso di Vattimo e Rovatti); mentre l'albero della nostra civiltà, con le sue radici, il suo tronco millenario e le sue ramificazioni nella vita reale, è un pensiero forte ma con poteri deboli in sua difesa. La prima è una chiesa con un episcopato in carica e un vasto clero ma senza più una dottrina e una religione; viceversa la seconda è un pensiero forte, con una tradizione millenaria, ma senza diocesi e senza parrocchie... Così viviamo una guerra asimmetrica tra un potere forte ma dissolutivo e una civiltà non ancora decaduta sul piano spirituale ma inerme e soccombente sul piano pratico e mediatico. La prevalenza odierna della barbarie di ritorno deriva in buona parte da questo squilibrio tra una cultura egemone ma nichilista e una civiltà perdente o forse già perduta. La rinascita ha due avversari: la cultura nichilista egemone e il nichilismo senza cultura della volgarità di massa.

TeleKabul di Sandro Curzi, scrive Massimo Bordin il 06 Agosto 2016 su “Il Foglio”. Il Tg3 fu chiamato TeleKabul dai suoi detrattori per sottolinearne la pedissequa e perfino rozza osservanza che, a loro dire e forse non del tutto a torto, lo caratterizzava rispetto alla linea politica del Pci. Allora l’Afghanistan era occupato dall’Urss e certo la locale tv di stato non brillava per anticonformismo rispetto agli occupanti. Il colpo di genio del direttore del Tg3, Sandro Curzi, fu la decisione di non polemizzare con quel marchio, anzi di rivendicarlo, perfino accentuandone alcuni aspetti. I suoi editoriali ricordavano sempre più smaccatamente le relazioni introduttive dei segretari di sezione del Pci. Adottava il loro modo di intrecciare un ragionamento elementare con elementi ideologici conditi da qualche espressione incongruamente magniloquente. Fu un successone, malgrado il Pci avesse cambiato nome nel frattempo. O forse proprio per questo. “Sì, Telekabul. E allora?”, fu la sua linea di difesa quando inevitabilmente chiesero la sua testa. Che non ebbero, perché a difenderlo, oltre gli ascolti, furono gli “innovatori”, i Freccero e non solo lui, che lodarono la capacità di rottura comunicativa proprio per l’ingenua, smaccata proposizione di un modernariato ideologico allora richiesto come gli orologi russi a porta portese. Oggi Bianca Berlinguer, che infatti si è limitata a trattare una dignitosa ricollocazione, non può fare un’operazione del genere. Non c’è più l’Urss e nemmeno il Pds. Resta Freccero.

Il 6 agosto 2016, nell'ultima edizione del Tg3 da lei condotta, dopo le nomine ai tg, Bianca Berlinguer ha deciso di rispondere. «Sette anni fa, quando ho assunto la direzione, dissi in un editoriale che avrei voluto un Tg3 corsaro e evidentemente questo non poteva piacere a tutti - ha affermato -. Negli ultimi tempi non sono mancate pressioni sgraziate e attacchi sguaiati da settori importanti delle classi politiche, ma il Tg3 non ha perso la sua identità e gli auguro di rimanere saggio e irriverente come è sempre stato». Un editoriale breve e incisivo che la giornalista, in blusa rosa pallido, ha letto tra qualche cenno di commozione. «Vivere senza il Tg3 non sarà facile - ha sottolineato -. Non sarà facile rinunciare al rapporto quotidiano con voi spettatori, alle critiche aspre, sempre fatte con intelligenza e sentimento, ma anche ai tanti apprezzamenti affettuosi. Non sarà facile fare a meno della tensione quotidiana, dell'entusiasmo e della voglia di raccontare la cronaca, le tragedie e la speranza». Poi un'altra frecciata a chi la definisce schierata. «Me ne vado con la malinconia tipica di ogni separazione dolorosa - ha proseguito -, ma anche con la soddisfazione per i riconoscimenti per il costante rispetto del pluralismo arrivate da tutte, ma proprio tutte le parti politiche».  

Non esistono i martiri della Tv. “Molti di voi avrebbero preferito un martire prima dell’ora di cena, invece avete un direttore che se ne va in un paese libero, e al massimo vi toccherà una striscia con Michele”. L’editoriale che sogniamo di Bianca Berlinguer, scrive Giuliano Ferrara il 5 Agosto 2016 su "Il Foglio".  Mi hanno anticipato l’editoriale di Bianca Berlinguer, direttore uscente del Tg3. Ecco il testo. (E' chiara l'ironia ndr). “Cari telespettatori, ho diretto questo telegiornale per sette anni. L’ho diretto con Berlusconi, con Monti, con Letta, con Renzi. Nessuno mi ha mai dato fastidio, in senso politico. Presidenti e direttori generali della Rai hanno fatto il loro lavoro e io il mio. Ho parlato attraverso mille servizi, collegamenti, show, notiziari vari, delle lotte sociali, dell’economia, dell’industria, dei migranti, del terrorismo, di come va il mondo, delle guerre, degli americani, dei califfi, dei papi, delle battaglie parlamentari, dei cambi di governo, dei tycoon, dei tecnocrati, del fenomeno Royal Baby, sempre dicendo con compostezza e spero anche con grazia più o meno quel che pensavo si dovesse dire sul momento. Ho scelto i miei collaboratori con un grado notevole di autonomia. Ho realizzato la mia linea editoriale, curato personalmente i servizi, i commenti, le ospitate. Ho le mie idee, le mie simpatie, le mie connessioni, dentro e fuori il Pd, nell’azienda in cui lavoro e nel mondo della politica, ma non ho fatto di tutto questo un palloccoloso collante di potere e di magheggi. Ho occupato direttamente la scena, perché mi piace andare in video e credo di saperlo fare, e si è visto sempre dove stavo nel campo del conflitto politico tra amico e nemico. Nessuno ne ha fatto particolare scandalo, salvo qualche episodio di intolleranza o di partigianeria o di faziosità, ma robetta. Succede anche alla Bbc, dove per la verità succede perfino di peggio (oltre che di meglio, ovvio). Ora lascio la direzione, il che è appena normale, e mi viene proposta una striscia quotidiana di mezz’ora a ridosso del Tg3, mi avvarrò della competenza e dell’esperienza di Michele Santoro, un tipetto che conoscete da anni e che non è precisamente la figura del secondino incaricato di imprigionarmi nella linea governativa e renzianamente corretta. Anzi, è più tribuno di quanto lo sia io, dovrò cercare di moderarlo. Spazio ce ne sarà, infatti alla striscia il dg della Rai ha aggiunto per me due seconde serate che raccordate all’intervento informativo quotidiano promettono bene. Potremo parlare senza problemi del referendum sulle riforme costituzionali e giocare sul ‘sì’ e sul ‘no’ con una certa libertà. Faremo gli ambientalisti e i socialisti quanto ci pare. Daremo peso all’Italia in cui ci riconosciamo e castigheremo l’Italia e il mondo che non ci piacciono, anche senza necessariamente abusare dei nostri ruoli di servizio pubblico. Ma, insomma, cari telespettatori, abbiamo esperienza, è da anni che parliamo in tv di quanto poco ci facciano parlare in tv, da anni che esercitiamo piena libertà politica e ovviamente proclamiamo che la libertà ci viene negata, è da molti anni che facciamo se necessario i fatti nostri, e quando ci va coltiviamo pregiudizi e sentimenti malmostosi di rivalsa e di vendetta verso quelli che consideriamo i nostri nemici, magari facendo l’apologia del perdono e della riconciliazione, bè , mica siamo perfetti, ma neanche gli altri sono perfetti. Ecco, cari amici vicini e lontani, come vedete non sto a fare la martire, non ce n’è di che, sarebbe ridicolo da parte mia. Pensate a come stanno messi i giornalisti turchi, e ditemi voi se in Italia, dove facciamo il bello e il cattivo tempo, possiamo permetterci il lusso morale di considerarci vittime della brutalità censoria dello stato. Sì, lo so, molti di voi avrebbero preferito un martire prima dell’ora di cena, invece avete un direttore che se ne va in un paese libero, e al massimo prima di cena vi toccherà d’ora in avanti la mia striscia con Michele. Baci”. Ma che brava Bianca, non capisco perché Laura Cesaretti la sfotta chiamandola sempre Biancaneve.

Bianca Maria Berlinguer (Roma, 9 dicembre 1959) è una giornalista italiana. Dal 1 ottobre 2009 al 7 agosto 2016 è statadirettrice del TG3. Prima dei quattro figli del leader del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer e di Letizia Laurenti (gli altri fratelli sono Maria Stella, Marco e Laura, giornalista di Studio Aperto), si è sposata in seconde nozze con il politico Luigi Manconi. Laureata in lettere, dopo un periodo di praticantato presso Radiocorriere TV, inizia a lavorare ne Il Messaggero agli inizi degli anni ottanta e contemporaneamente lavora a Mixer (1985) come redattrice, entrando poi in pianta stabile nella redazione del TG3. Di questo, conduce l'edizione serale ininterrottamente dal 1991. Ha presentato inoltre Primo piano, rubrica di approfondimento della stessa testata giornalistica su Rai 3. Nel gennaio del 2008 è stata coinvolta in una polemica dichiarazione del presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. Rispondendo ad un intervistatore, Cossiga ha dichiarato di averla raccomandata insieme ad altri giornalisti (Giuseppe Fiori, Federica Sciarelli) per ottenere una posizione di maggior rilievo all'interno della Rai. La Berlinguer ha smentito queste dichiarazioni del senatore, senza tuttavia intraprendere azioni legali nei suoi confronti. Il 1º ottobre 2009 viene nominata direttrice del TG3. Si insedia il 12 ottobre. Il 24 settembre 2010 ha vinto a Roma la prima edizione del Premio di giornalismo"L'isola che c'è", riconoscimento assegnato a 10 giornalisti sardi, della carta stampata o della RAI - Radiotelevisione italiana, che lavorano a Roma. Il 24 settembre 2011 ha vinto il Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo, sezione giornalismo. Da direttrice continua a condurre (dopo un intervallo di qualche mese) l'edizione serale del TG3, nonché l'approfondimento notturno Linea Notte. Conduce e dirige per l'ultima volta il TG3 il 5 agosto 2016, venendo sostituita, con molte polemiche soprattutto rivolte al governo Renzi, da Luca Mazzà.

Lottizzazione o privatizzazione. Finché la Rai resta pubblica comandano i partiti, inutile fare ammuina, scrive il 04 Agosto 2016 “Il Foglio”. I senatori della minoranza Pd Federico Fornaro e Miguel Gotor si sono dimessi dalla commissione di Vigilanza Rai in dissenso con le nomine dei nuovi direttori dei tg fatte dal dg Antonio Campo Dall’Orto e approvate dal consiglio d’amministrazione. I parlamentari dem dissidenti ce l’hanno con “l’occupazione governativa del servizio pubblico” che penalizza “una giornalista autorevole quale Bianca Berlinguer” ed evocano il “tema della questione morale di Enrico Berlinguer, quando, nel 1981, denunciava l’occupazione da parte dei partiti di governo delle principali istituzioni dello Stato, Rai compresa”. Il problema di questa ricostruzione è che la lottizzazione e le nomine politiche in Rai ci sono sempre state, anche ai tempi di Berlinguer, e forse non è un caso che in quella che è sempre stata la rete del Pci a dirigere il tg ci sia stata una stimata professionista che di cognome fa proprio Berlinguer. Ora quella tradizione politica, che pure ha avuto la possibilità di guidare il più grande partito italiano e il governo, è stata messa da parte prima dagli elettori e poi dai militanti. E adesso insieme al controllo del partito perde a cascata quello nella Rai e nelle altre aziende pubbliche, che non sono altro che la proiezione delle forze politiche che temporaneamente gestiscono il potere statale. I criteri con cui si facevano le nomine in passato sono gli stessi di adesso e sono inefficienti per gli stessi motivi: fino a quando la Rai resterà pubblica sarà la politica a fare le nomine. E’ inevitabile, come la forza di gravità. Per togliere le mani dei partiti dalla Rai bisogna togliere la Rai dalle mani dello stato: privatizzare. Se invece ciò che dispiace non è il sistema ma il giro di nomine, è meglio fare ammuina.

"Berlinguer, di che cosa ti lamenti?". Vittorio Feltri il 6 agosto 2016 su “Libero Quotidiano” a valanga: "Sapete che lei..." Non so a voi, ma a me personalmente della Rai non importa nulla. Nel senso che mi sono rassegnato al fatto che sia lottizzata, cioè al servizio della politica vincente. Lo è da sempre, dal primo giorno in cui comparve il monoscopio sul video dei pochi italiani che avevano il privilegio (da ricchi) di possedere un apparecchio televisivo. Era l'inizio degli anni Cinquanta e io, che sono vecchio e all' epoca frequentavo le elementari, ricordo benissimo. A casa mia il televisore entrò quasi subito: pagato a rate, credo. Il telegiornale era ridicolo ossia completamente democristiano perché comandava la Dc, partito dominante che aveva ereditato uomini e metodi fascisti. Chi lo nega o è stupido o in malafede, che è lo stesso. Passarono lustri e l'Italia si sviluppò grazie al famoso boom economico, ma lo stile della Rai non si modificò: a menare il torrone continuarono ad essere i baciapile, che avevano la maggioranza. La TV bocciava Tognazzi e Vianello, bocciava anche Dario Fo. Bocciava le ragazze scosciate dei balletti e tutto quanto offendeva (si fa per dire) i morigerati costumi e il sentimento democristiani. I tempi mutarono ma lo stile di chi aveva in mano il pallino rimase intatto. Ogni volta che si tratta di nominare i dirigenti dell'ex monopolio si tiene conto soltanto dell'opportunità politica. Per non scontentare nessuno Cencelli si inventò un manuale che portava il suo riverito nome: due o tre posti ai fedeli della Dc, un posto ai socialisti, uno ai socialdemocratici di Saragat e così via. I comunisti, che non avevano poltrone benché fossero numerosi, protestarono. Furono accontentati. Come? Si creò per loro una rete, la terza. La seconda era già dei socialisti. Spartizione perfetta. I partiti maggiori erano felici e contenti: ciascuno aveva il proprio orticello. Questa, in breve, la storia dell'Antennona nazionale pagata dai cittadini mediante il canone. Poi? Lentamente le cose peggiorarono. Formalmente venne abolito il manuale Cencelli ma non la lottizzazione che, in effetti, è tuttora in vigore. Chi vince le elezioni, o si è comunque conquistato Palazzo Chigi, si magna l'intera posta. Berlusconi, quando arrivò primo lasciò per generosità la terza rete agli ex comunisti e si pappò le altre due in aggiunta alle tre di sua proprietà. Cinque emittenti su sei. Mica male. Prodi aveva piazzato Gad Lerner e poi Gianni Riotta alla guida del Tg1. Il Cavaliere per rispondere adeguatamente affidò il notiziario italiano numero uno ad Augusto Minzolini, bravo giornalista ma abbastanza schierato. Insomma ogni premier si è arrangiato come ha potuto per assicurarsi la benevolenza del maggiore Tg. Una regola non scritta ma radicata prevedeva infatti che la maggioranza politica si garantisse l'appoggio televisivo. Regola ovviamente sempre assai criticata, ma alla lunga accettata come il minore dei mali. Finché la Rai sarà pubblica, saranno i padroni della cosa pubblica a governarla. Se qualcuno avesse un'idea migliore si faccia avanti e la imponga. Silenzio generale. Nei giorni scorsi Campo Dall' Orto, direttore generale Rai, ha fatto fuori la Berlinguer dal vertice del Tg3 dopo sette anni di onorevole servizio, e il provvedimento ha suscitato scandalo. Capisco. La signora è brava e non meritava la rimozione. Ma nessuno dice che anch' ella fu selezionata in base al colore politico, il rosso, sia pure un rosso diverso da quello di moda ora. Orfeo è rimasto capo del Tg1 perché è un coperchio che va bene per ogni pentolino. Mentre Masi è stato cacciato dal Tg2 solo perché poveretto non ha santi potenti in paradiso, neanche Sanculo. Scandalizzarsi per questo sarebbe lecito se non conoscessimo a fondo cosa ribolle nel calderone Rai da oltre mezzo secolo. Poiché invece siamo scesi da un pezzo dal pero, non siamo neppure sorpresi. Anzi saremmo stupiti se i criteri adottati dal potere odierno fossero più evoluti rispetto a quelli di un passato che non passa mai. Chi non ha capito che i modelli gestionali italiani sono immodificabili o è ingenuo o stolto. In viale Mazzini e dintorni non c' è mai nulla di nuovo. Coloro che si stracciano oggi le vesti per le nomine di Campo Dall' Orto avvenute sulla base del manuale Cencelli riveduto e corretto, sono gli stessi che furono nominati alcuni anni orsono secondo la medesima logica. Non è una cosa seria, ma il solito piagnisteo. Non sono i direttori defenestrati né i loro successori che vanno discussi o difesi: bisogna abbattere il sistema Rai che ha un organico di 13 mila persone per produrre orrori, i quali d' estate diventano imbarazzanti e perfino vomitevoli. Ne sono consapevole. Le mie sono parole al vento come le lagnanze dei trombati. Viviamo da decenni in un regime di scrocconi e raccomandati. E non siamo manco arrabbiati, ma semplicemente sconsolati. Vittorio Feltri.

Contro il fascismo di sinistra. L’occidente politicamente corretto è un élite vuota e secolarizzata che si crede eterna, dice Camille Paglia, scrive Mattia Ferraresi il 6 Febbraio 2015 su “Il Foglio”. “Quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”, dice Camille Paglia. New York. Camille Paglia combatteva il politicamente corretto quando ancora non esisteva. C’era la cultura perbenista e censoria che veniva dagli anni Cinquanta, ma non esisteva ancora l’invisibile polizia del linguaggio del “fascismo di sinistra”, come lo chiama lei, che tracciava il confine fra il legittimo e l’illegittimo nel discorso pubblico non sulla base di un ben perimetrato codice morale, ma intorno alle linee incerte della libertà individuale. Non è con la coercizione che il politicamente corretto si è insediato. E’ stato un docile golpe culturale nel nome dell’uguaglianza, articolato con il linguaggio accondiscendente dei diritti, non imposto con il manganello della buoncostume. E’ lo strumento di protezione degli indifesi, dei più deboli, delle minoranze oppresse, dicevano i suoi difensori, e l’argomento potrebbe essere ripetuto anche da Mark Zuckerberg per giustificare l’esclusione da Facebook dei testi che contengono la parola “frocio” (termine che compare in questo articolo al solo scopo di sfruculiare l’ottuso algoritmo). Paglia è passata in mezzo a tutte le fasi della guerra del politically correct. Faceva il primo anno di università nello stato di New York quando gli studenti di Berkeley guidati da Mario Savio manifestavano per la libertà di parola, gettando i semi della controcultura; in tasca aveva sempre una copia di “Howl” (“la mia bibbia”, dice) il poema di Allen Ginsberg censurato per oscenità. Nel 1957 la polizia aveva perquisito – e contestualmente devastato – la libreria di San Francisco che con inaccettabile affronto aveva continuato a vendere il volume; nei primi anni Novanta, quando il politicamente corretto si è coagulato in un sistema di regole per lo più non scritte, diventando convenzione dopo essere stato pulsione, la femminista contromano era sulla copertina del New York magazine con uno spadone medievale davanti al Museo d’arte di Philadelphia: una “women warrior” a presidio della libera cittadella della cultura contro gli attacchi del politicamente corretto. Non che lo schema del politicamente corretto oggi sia stato superato, anzi. Nella sua veste più minacciosa di “hate speech”  – un politicamente corretto con il turbo – il canone che regola l’indicibile nel discorso pubblico è diventato pervasivo e meccanico, s’è infiltrato nella rete sotto forma di cavillosi termini d’uso che si accettano senza leggere; nelle università americane è sempre più frequente il fenomeno del “disinvito” di oratori che possono offendere la sensibilità di qualche gruppo minoritario; sul giornale di Harvard lo scorso anno una studentessa suggeriva di abbandonare la finzione della “libertà accademica” e di selezionare in modo finalmente esplicito quali eventi approvare e quali no sulla base della compatibilità ideologica con una certa tavola di valori che l’università di fatto promuove (e a parole nega). Il massacro islamista nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi ha rinfocolato il dibattito sulla libertà di espressione e sui suoi limiti. Per qualche settimana siamo stati tutti Charlie, poi l’occidente benpensante è tornato al suo business as usual: il New York Times non ha pubblicato le vignette di Maometto per non offendere i lettori musulmani, Facebook le ha censurate per non far arrabbiare il governo turco e l’editorialista David Brooks ha fatto notare un’indiscutibile verità: un giornale come Charlie Hebdo “non sarebbe durato trenta secondi” in qualsiasi università americana. Si sarebbero sollevate proteste indignate, minoranze offese avrebbero manifestato e finanziatori altrettanto offesi avrebbero protestato con argomenti molto più convincenti. Lo stesso magazine che ritraeva Paglia fra armature medievali quasi quindici anni fa ha pubblicato di recente un saggio sul politicamente corretto di Jonathan Chait, opinionista di tendenza liberal, di cui il Foglio ha dato conto la settimana scorsa. Chait si scaglia contro la dittatura del politicamente corretto e per capire che ha messo il dito in una piaga insanguinata del dibattito basta leggere alcune delle violente reazioni all’articolo da parte di esponenti di minoranze e sottoculture che esigono protezione da parte della polizia del linguaggio. Il ragionamento dei critici suona così: Chait può permettersi di attaccare il politicamente corretto perché è un maschio-bianco-etero-ricco, se soltanto uscisse per un attimo dalla bolla di privilegio sociale in cui vive capirebbe che le regole per non offendere le minoranze sono un bene sociale imprescindibile. Questo tanto per dire dove può portare la foga iconoclasta del movimento anti-anti-politicamente corretto, che legge qualunque episodio come figura dell’universale dialettica fra oppressori e oppressi. Il cuore del saggio di Chait, però, era il tentativo di dimostrare che il politicamente corretto non è figlio del liberalismo, ma ne è una perversione, un tradimento introdotto dalla sinistra radicale d’impostazione marxista e inclinazione totalitaria. Nello schema di Chait c’è una sinistra buona e liberale che disprezza la correttezza politica e innalza monumenti al “free speech”, e una sinistra cattiva che con un rasoio ideologico raschia via dal discorso pubblico ciò che è incompatibile con il suo pensiero, e usa come scusa la difesa delle minoranze. La guerriera Camille Paglia prende a spadate questa rapresentazione, e in una conversazione con il Foglio ripercorre la genesi del politicamente corretto in seno (e non al di fuori) alla rivoluzione liberale: “La libertà di espressione era la vera essenza, l’anima della politica di sinistra degli anni Sessanta, che reagiva al conformismo e alla censura degli anni Cinquanta, alla quale si opponevano già prima gruppi radicali underground, i poeti Beat e gli artisti di San Francisco e del Greenwich Village. La libertà di espressione è sempre stato il mio principio e la mia motivazione centrale, parte dell’eredità dei filosofi dell’illuminismo che hanno attaccato con forza le autorità religiose e i privilegi di classe. Proprio per questo è stato incredibilmente scioccante per me il momento in cui i liberal americani hanno abbandonato il ‘free speech’ negli anni Settanta e hanno inaugurato l’èra del politicamente corretto, per la quale soffriamo ancora oggi. Invece di difendere il vibrante individualismo degli anni Sessanta, la sinistra è diventata una polizia del pensiero stalinista che ha promosso l’autoritarismo istituzionale e ha imposto una sorveglianza punitiva delle parole e dei comportamenti”. La sottesa analogia con la dinamica che dalla rivoluzione giacobina e ai suoi ideali di liberté ecc. conduce al terrore è certamente politicamente scorretta, e Paglia da sempre mischia maliziosamente il registro dell’analisi a quello della provocazione (solitamente quando l’interlocutore pensa si tratti di provocazione in realtà è il frammento di un ragionamento calmo e lucido), rimane da spiegare il perché, e forse anche il come. Perché la sinistra ha abbandonato le sue aspirazioni di libertà per rintanarsi nel fascismo di sinistra? “Per capirlo – dice Paglia – dobbiamo innanzitutto esaminare il fallimento della sinistra nel comunicare e capire la maggioranza dell’America, il mainstream. Il documentario ‘Berkeley in the Sixties’, uscito nel 1990, mostra una serie di errori strategici fatti dalla sinistra, che, ad esempio, ha deciso di associarsi a movimenti che promuovevano il disordine civile. Questo ha portato a una reazione culturale fortissima, la quale ha contribuito al risultato delle elezioni del 1968: Richard Nixon è diventato presidente, ed è nato un enorme movimento conservatore a livello nazionale”. Così la destra è riemersa sulla scena politica grazie alle contraddizioni interne della sinistra, mentre i liberal scottati dal l’arrivo di Nixon “si sono infiltrati nelle università”. Erano i primi anni Settanta, ricorda Paglia, “proprio quando ho cominciato a insegnare”. Questa sinistra che si è riversata nell’accademia “ha fatto pressioni enormi sugli organi di governo dei college per introdurre cambiamenti di sistema che poi sarebbero diventati la struttura base su cui è stato costruito tutto l’edificio del politicamente corretto: sono nati dipartimenti autonomi e autogestiti di studi femminili, studi afroamericani, chicano eccetera. Questi programmi ispirati dalla ‘politica dell’identità’ erano basati innanzitutto sull’ideologia, non su standard di qualità in termini di ricerca. I professori venivano assunti in quanto ‘true believer’ e il dissenso da un codice approvato non era tollerato. Ero orripilata dai rigidi dogmi e dalla mediocrità intellettuale di tutto questo: oggi è la routine dell’accademia americana”. I dipartimenti umanistici sono stati occupati dai discendenti della sinistra illuminata e liberale, non soltanto dai radicali marxisti, i quali invece occupavano inespugnabili e tuttavia isolate roccaforti universitarie. “Nei decenni – continua Paglia – i pensatori indipendenti che cercavano di fare carriera nelle humanities sono stati cacciati dalle università. Ho avuto a che fare con questo fascismo dottrinario in tutti i modi possibili. Esempio: il mio primo libro, ‘Sexual Personae’, che criticava l’ideologia femminista convenzionale, è stato rifiutato da sette editori prima di essere pubblicato nel 1990, nove anni dopo che avevo finito di scriverlo. Per fortuna quello era un momento in cui si stava discutendo del politicamente corretto sui media per via di certi codici linguistici imposti da università tipo la University of Pennsylvania. Non mi è dispiaciuto quando il magazine New York ha deciso di dedicarmi la storia di copertina, anzi se devo dire la verità l’idea della spada è stata mia”. A quel punto, però, i dettami del politicamente corretto avevano penetrato a tal punto la cultura che i giornali di sinistra accusavano Paglia di essere una conservatrice (“accusa isterica che non aveva alcun senso: avevo appena votato per l’attivista ultraliberal Jesse Jackson alle primarie democratiche, sono ancora registrata per il Partito democratico e ho sostenuto, anche finanziariamente, il Green Party”) e la ragione della reazione convulsa, spiega, è semplice: “La sinistra è diventata una frode borghese, completamente separata dal popolo che dice di rappresentare. Tutti i maggiori esponenti della sinistra americana oggi sono ricchi giornalisti o accademici che occupano salotti elitari dove si forgia il conformismo ideologico. Questi meschini e arroganti dittatori non hanno il minimo rispetto per le visioni opposte alla loro. Il loro sentimentalismo li ha portati a credere che devono controllare e limitare la libertà di parola in democrazia per proteggere paternalisticamente la classe delle vittime permanenti di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. La sinistra americana è un mondo artificiale prodotto dalla fantasia, un ghetto dove i liberal si parlano solo con altri liberal. Penso che la divisione politica fra destra e sinistra sia moribonda e vada abbandonata, abbiamo bisogno di categorie più flessibili”. Il “free speech” è un concetto morto nel cuore della sinistra, ma a morire, più tragicamente e meno concettualmente, sono anche i vignettisti che disegnano Maometto per rivendicare la libertà d’espressione. In America molti giornali mainstream non hanno voluto ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo, cosa pensa di tale scelta? “Dato che le vignette di Charlie Hebdo erano disponibili in rete, non capisco perché i grandi giornali avrebbero dovuto ripubblicarle, esponendo i loro staff a potenziali pericoli da parte di fanatici senza scrupoli. I direttori poi possono anche indulgere in gesti nobili e simbolici, barricati come sono dietro sistemi di sicurezza molto più sofisticati di quelli della redazione di Charlie, ma di solito a pagare il prezzo più alto sono gli inservienti, le guardie, i custodi”. Un’esibizione di prudenza che non ci si aspetterebbe da un’intellettuale venuta fuori dalla sinistra, ma a ben vedere Paglia ha passato tutta la vita a combattere una élite che sbandierava la libertà come valore supremo; la femminista che combatte il dogma dell’uguaglianza dei ruoli e la lesbica che difende la differenza sessuale come base antropologica dell’occidente: “Guarda, sono una militante della libertà di espressione e un’atea, ma rispetto profondamente la religione come sistema simbolico e metafisico. Odio profondamente le becere derisioni alla religione che sono un luogo comune dell’intellighenzia occidentale secolarizzata. Ho scritto che Dio è la più grande idea che sia venuta all’umanità. Niente dimostra l’isolamento della sinistra dalla gente quanto la derisione della religione, che per la maggior parte degli uomini rimane una caratteristica vitale della loro identità. La magnifica ricerca di significato, dunque religiosa e spirituale, degli anni Sessanta si è persa nella politica delle identità dei Settanta. Le vignette di Charlie Hebdo erano crude, noiose e infantili, insultavano il credo di altre persone senza nessuna vera ragione artistica. Il massacro è stata un’atrocità barbara e la libertà di espressione deve essere garantita in tutte le democrazie moderne. Ma quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”. Michel Houellebecq nel suo libro “Sottomissione” parla esattamente dell’assenza di un’alternativa secolare all’altezza dell’immaginario religioso, che finisce per affermarsi nella vuotà libertà dell’occidente perché porta un surplus di significato. Paglia non ha letto il libro dello scrittore francese né lo farà. Nessuna antipatia particolare, soltanto “non leggo romanzieri contemporanei”. E qui Paglia s’infervora: “A meno che non abbiano una diretta esperienza da zone di guerra, gli scrittori odierni non hanno nulla da dirci sulla crescente instabilità del mondo di oggi. Cosa sa esattamente Houellebecq del presente a parte quello che tutti leggiamo sui media? Per capire il presente leggo sempre testi di storia e religioni comparate. Siamo in un periodo simile a quello del tardo impero romano, quando una élite sofisticata, secolare e con uno stile di vita sessualmente ‘libero’ pensava che il suo mondo fosse eterno. Il suo vuoto spirituale era la sua condanna. Quella che è arrivata dalla Palestina era una religione di passione e mistero che valorizzava il martirio. L’occidente ha perso la strada, che cos’ha da offrire oggi? Può anche essere che il vecchio conflitto con il mondo islamico sia il fattore primario nel determinare la storia nel prossimo secolo. Ma non possiamo capire cosa sta succedendo senza tornare alle nostre radici culturali e ricostruire un senso di rispetto per la religione”.

Ecco che cosa deve sapere Salvini quando parla di “cattocomunisti”. Dal fascismo a Mattarella. Storia breve di un’espressione che ha attraversato il Novecento, il Pci togliattian-berlingueriano, le Br, scrive Francesco Cundari il 30 Gennaio 2015 su “Il Foglio”. Sebbene affidata al circuito dei social network invece che al tradizionale comunicato stampa, e presumibilmente digitata da uno smartphone (o più probabilmente dall’inseparabile iPad), la dichiarazione di Matteo Salvini contro “il cattocomunista” Mattarella aveva un sapore antico. E anche piuttosto paradossale. Sarebbe infatti un bel paradosso che dalle ceneri del patto del Nazareno risorgesse proprio la più vetusta delle categorie politiche, il cattocomunismo, rottamata persino dai retroscena dei quotidiani, perfettamente antitetica a tutto quello che fino a oggi si era detto di Matteo Renzi quale erede del berlusconismo e novello Bettino Craxi. D’altra parte, il gusto del paradosso non deve essere mancato allo stesso segretario del Pd, vista l’enfasi che ha dato, nel presentare la candidatura di Sergio Mattarella, a quelle “dimissioni per un ideale” con cui l’allora ministro democristiano lasciò il governo Andreotti in protesta proprio contro la legge Mammì. La legge voluta da Craxi per salvare le tv di Berlusconi: la madre di tutti gli inciuci, altro che patto del Nazareno. Una dichiarazione di sfida degna del Fatto quotidiano. Anche se, va detto, un vero amante del Fatto non gli avrebbe mai giocato lo scherzo di non proporre davvero Giuliano Amato, dopo averglielo lasciato credere per due settimane di fila (un simile sgarbo Silvio Berlusconi un giorno, forse, potrà pure perdonarglielo, Marco Travaglio no). Una provocazione che per un attimo è parsa rovesciare tutte le nostre categorie, facendo del Royal Baby del berlusconismo un arcigno antiberlusconiano, un girotondino della prima ora, un vetero comunista. Per non dire, appunto, un cattocomunista. Quale sia l’origine del termine è difficile dire. Il dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro ne data la nascita al 1979. Ma già l’anno prima lo si ritrova in un libro di Enzo Bettiza (“Il comunismo europeo”) dove l’autore definisce le Brigate rosse “una sorta di esasperazione estremistica del compromesso storico” e sottolinea che “la componente ‘cattocomunista’ dei brigatisti è inconfondibile”. Una recensione della Civiltà cattolica sembra confermare l’attribuzione, sottolineando come il saggio si regga sul “postulato che il grande disegno di una rivoluzione finale comunista è ancorato alla strategia del compromesso con i cattolici, di cui la punta avanzata sarebbero quelli che l’A. chiama cattocomunisti…”. Ma è possibile retrodatare ulteriormente la nascita del termine almeno di una quarantina d’anni, considerata l’autorevole testimonianza di Adriano Ossicini, che ha rievocato più volte gli interrogatori da lui subiti da parte della polizia fascista e la sconfortata esclamazione del commissario Rotondano: “Mi tocca addirittura avere a che fare con dei cattocomunisti”. In quanto termine dispregiativo, è naturale che nessuno lo abbia mai rivendicato per sé. Storicamente, il riferimento più naturale è al gruppo di Franco Rodano, fondatore del Movimento dei cattolici comunisti, poi confluito nel Pci, dopo avere incrociato varie esperienze (e complicate denominazioni, tra cui quella di “cooperativisti sinarchici”) con altri giovani provenienti da esperienze associative di area cattolica, come il già citato Ossicini e Antonio Tatò, che molti anni dopo sarebbe diventato il più stretto collaboratore di Enrico Berlinguer. E così, dopo essere stato a lungo un ascoltato consigliere di Palmiro Togliatti, Rodano avrebbe esercitato, anche attraverso Tatò, una forte influenza su Berlinguer, tanto da essere ritenuto da molti il vero ispiratore del compromesso storico. Vale a dire di quell’accordo Dc-Pci che i socialisti di Craxi avrebbero visto come una tenaglia destinata a stritolarli (e liberali alla Bettiza, come si è detto, quasi come la culla delle Br). D’altra parte, pochi documenti storici attestano un più viscerale anticraxismo delle note scritte da Tatò per il segretario del Pci, dove la più gentile definizione del leader socialista è “abile maneggione e ricattatore”. Inutile precisare che Salvini non voleva certo alludere a tutta questa lunga storia, nel dare del cattocomunista a Mattarella (e di conseguenza, per la proprietà transitiva, a Renzi). E questa è anche la ragione per cui è impossibile rintracciare con precisione le origini del termine. Perché quello che conta, insegna il filosofo, non sono le parole esistenti, ma le infinite possibilità combinatorie che il gioco linguistico permette a ciascuno di noi, in qualsiasi momento. Possibilità che nel caso specifico si esauriranno solo il giorno in cui l’intera comunità dei parlanti non riconoscerà più come dotati di senso, almeno nel linguaggio politico, i termini “cattolico” e “comunista”. Un traguardo che a dire il vero, nonostante la rivoluzione renziana, sembra ancora piuttosto lontano.

SIAMO TUTTI PUTTANE. Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base dellla lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". L'ispirazione dal processo Ruby - In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male.

Tutto per apparire - Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico".

La donna può decidere come utilizzare il proprio corpo - Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

"Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico è la risposta al fanatismo del "se non ora quando", scrive Dimitri Buffa su “Clandestino Web”. - “Siamo innanzitutto puttane, in senso figurato, perché cerchiamo tutti, ciascuno come può, di districarci nel complicato universo dell’esistente, vogliamo arrabattarci, sgomitiamo per conquistare il nostro posto nel mondo”. La “summa philosphica” dell’Annalisa Chirico pensiero, da brava giornalista, l’interessata la mette nel primissimo capitolo introduttivo del proprio libro “Siamo tutti puttane”, da poco uscito per i Grilli di Marsilio editore anche in e-book. E nelle prime parole articolate in concetto. Non si tratta quindi tanto di una semplice difesa d’ufficio o di fiducia del mestiere più antico del mondo, che la Chirico da buona radicale comunque svolge, quanto di una presa d’atto dell’impazzimento di un intero paese, quello italiano, dove, complice e alibi il contraccolpo di venti anni di berlusconismo nel bene e nel male, la sinistra ha dismesso i panni del progressismo sessuale e si è incartata in una sorta di talebanismo di ritorno. In perfetta malafede intellettuale e ideologica, peraltro. Il libro in questione, ben scritto e ancora meglio documentato, ricorda una per una tutte le conquiste degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dal divorzio all’aborto passando per il travagliato brevetto della pillola anti concezionale, ed è l’ideale risposta all’isterico e ideologico (e disonesto intellettualmente) movimento coagulatosi intorno alla piazza di quelle mezze esaltate del “se non ora quando”. I riferimenti e le punzecchiature contro le vetero-femministe e le discepole vestali di oggi in seno ai vari movimenti tipo 5 stelle e dintorni, compresi i popoli viola et similaria, fatti da Annalisa Chirico (che cita Plutarco e Marcuse, Madonna e Cleopatra, Pasolini e tutti i mostri sacri dell’immaginario catto-comunista di ieri e di oggi con la stessa nonchalance e la stessa precisione) sono tutti alle conquiste del passato rinnegate nel presente. Secondo la logica del fine che giustifica i mezzi. Il fine era fare fuori mediaticamente e politicamente Berlusconi come adescatore di minorenni e sfruttatore seriale di prostituzione minorile, il mezzo era il neo moralismo para talebano di quelle che negli anni ’60 andavano in piazza a dire che “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Ovviamente dietro un fenomeno politico, pensato dai maschi della sinistra estremista e forcaiola e fatto interpretare alle femmine del branco, c’è anche un completo “misunderstanding” dell’afflato libertario della cosiddetta rivoluzione sessuale. Giustamente la Chirico parla di una sorta di classismo verso le veline e le “olgettine” che vengono dipinte come “puttane” e come “dementi” solo perché la danno all’uomo ricco e non al dirigente Rai o al direttore di un grande quotidiano o al filosofo di grido. Entrambe le tipologie, la puttana oca e quella intellettuale o pseudo tale hanno invece pari dignità secondo il Chirico pensiero. Avendo il comune fine di valorizzare il proprio corpo per promuoversi socialmente, cosa che la Chirico ritiene non solo giusta ma anche necessaria. Però le prime non hanno diritto di cittadinanza nei salotti buoni della sinistra e della borghesia e le seconde invece sì. Per non parlare della prostituzione, anche al maschile, del proprio cervello che forse è ben più squallida di quella animale del sesso. Insomma non si sa se è peggio adulare un imbecille o andarci a letto. Il pamphlet di Annalisa Chirico farà sicuramente “incazzare” tante portavoce del nulla che hanno visto esaurire la loro carica propulsiva di utili idiote dopo la condanna di Berlusconi in primo grado per prostituzione minorile. Reato commesso, se mai è stato commesso, con una “ragazzina” che dimostrava molto più dei propri anni cui nessuno in un dato contesto avrebbe chiesto i documenti prima di scoparci. E “ictu oculi” non si poteva considerare una povera creatura corrotta da un orco cattivo. Sarebbe come venire arrestati per avere fatto a botte, prendendocele di santa ragione, allo stadio con un cristo alto uno e novanta, tatuato e violento, tipo Genny ‘a carogna, salvo venire a sapere che, dopo averti fatto a pezzi, ti denuncia per sovrappiù in quanto “minorenne”. Anche questa eccessiva iper protettività verso i minori senza giudicare caso per caso è purtroppo una delle trovate legislativo ideologiche del centro destra che per la legge del contrappasso sono state applicate nella maniera più plateale proprio contro chi si era battuto per trasformare in legge simili obbrobri. Da Cosimo Mele all’episodio che recentemente ha coinvolto il marito di Alessandra Mussolini la storia recente è tutta una grottesca antologia di questa aneddottica da contrappasso dantesco. Ma questo non significa che siano gli intellettuali, e le vetero femministe di cui sopra, autorizzati, oggi, a mettere in mostra la massima disonestà intellettuale possibile nel deprecare le abitudini sessuali e lo stile di vita di un ex cumenda della politica e della tv. Intendiamoci: nel libro della Chirico il caso di Berlusconi è citato al massimo un paio di volte. E sarebbe stato ipocrita da parte sua, giornalista di “Panorama”, se non lo avesse fatto. Ma la citazione, come quelle da Plutarco, da Shakespeare e da Francis Bacon, è finalizzata ad esorcizzare il candore che lei definisce “apollineo” di quelle che in tv si battono il petto contro la mercificazione del corpo femminile dopo essere state in gioventù convinte baldracche. Oltre alle Lidia Ravera e alla presidente della Camera Laura Boldrini, gli esempi negativi di donne di sinistra che trattano le cosiddette olgettine come dementi oltre che come prostitute, il discorso si allarga a quei maschi compagni di partito da considerare i mandanti di questo neo puritanesimo di sinistra. Coloro che adesso utilizzano il moralismo di ritorno, sospetto anche un po’ di acidità da menopausa, delle femministe di ieri per farne un’arma di battaglia politica. Sia come sia, il libro di Annalisa Chirico non va raccontato o recensito, ma semplicemente letto. Perché è esattamente il genere di libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere e fare materializzare in pochi minuti nelle proprie mani oltre che nella propria mente ogni qual volta ha preso la parola ad “Annozero” negli ultimi quattro anni una come Giulia Innocenzi, cinica interprete e sobillatrice dell’invidia, anche “del pene”, di tante ragazze di sinistra che non sopportavano (o fingevano di non sopportare) la narrazione della vita sessuale dei potenti, specie se di centro destra. Nella fiera dell’ipocrisia che abbiamo dovuto sorbirci negli ultimi tre o quattro anni dal caso Noemi in poi, queste rare perle di saggezza e di analisi storico filosofica sono sempre le benvenute. Dopo avere dovuto sopportare il fatto che l’ex attrice di teatro Veronica Lario fosse eretta a monumento nazionale vivente, insieme alla sua mentore Maria Latella, del politically correct made in piazza Indipendenza (oggi in largo Fochetti) questa soddisfazione ci era proprio dovuta.

“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo, scrive Monica Gasbarri su “Clandestino Web” – “Siamo tutti puttane”, edito da Marsilio, e nelle librerie dal 7 maggio, è un pamphlet che si scaglia contro l’ipocrisia e contro il perbenismo imperanti nel nostro paese e parte da un assunto che, in tempi di “politically correct”, farà storcere il naso a quanti ancora si aggrappano all’immagine edulcorata della natura umana: l’interesse personale è democratico. Titolo d’effetto, spirito caustico e provocatorio, il libro racchiude al suo interno un’anima politica e una più pop come racconta l’autrice a Data24News. “Non è certo il memoire di una prostituta a fine carriera” ci spiega Annalisa Chirico, giovanissima giornalista di Panorama, “è un libro sul sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come meglio si può, nei limiti del lecito ovviamente. Se non ci trovassimo in un paese perbenista come il nostro non ci sarebbe bisogno del mio libro per ribadire quello che dovrebbe suonare persino scontato: ognuno ha diritto di mettersi in gioco e di valorizzare le doti che ha. Ma l’Italia è afflitta da un moralismo asfissiante”.

Di chi è la colpa?

«Una grossa colpa va imputata, in questi ultimi venti anni, alla sinistra che ha spostato lo scontro dal terreno della politica a quello della morale. Di fronte alla “variabile imprevista”, Berlusconi, la sinistra si e’ illusa di potersi affermare non per quello che faceva ma per quello che pensava di essere: moralmente superiore».

Le responsabilità sono tutte a sinistra?

«La sinistra ci ha raccontato una storia che non si reggeva in piedi, in realtà il primato morale della sinistra non esiste. La destra non ha mai vantato un primato morale. Berlusconi ha anzi esibito e ostentato il suo essere un uomo come tutti gli uomini, entrando così in empatia con l’elettore. Berlusconi non si è mai proposto come Grande Pedagogo, la sinistra sì. Pensi a D’Alema che ci ha raccontato per anni che la sinistra rappresentava “la parte migliore del Paese”. Nel libro intitolo un capitolo al “bunga bunga di Pasolini”, con giovani persino “più minorenni” della minorenne anagrafica Ruby. Mi soffermo sulle sregolatezze sessuali di un’altra icona gauchiste come J F Kennedy. Il fronte cosiddetto progressista è passato dagli slogan sessantottini a favore della liberazione sessuale all’ipocrisia dei giorni nostri, ai bigottismi bindiani e ai diktat boldriniani. Per cui l’ardore e la sfrontatezza di alcune giovani ragazze (che cercano di farsi strada nella vita e che non commettono reati, ma hanno l’unica colpa di frequentare un uomo potente) diventano il perno di una campagna mediatica che è tutta politica. Le donne sono ridotte a strumento, pretesto, vittima sacrificale. Il bersaglio vero è Berlusconi».

Il suo è un saggio rigorosamente politico.

«Io incarno il mio libro che non può non essere politico. Esalto figure come Cleopatra e Madonna, donne fatali che non subiscono ma dominano il desiderio sessuale maschile. Per le femministe americane degli anni ’80 Madonna è una traditrice del genere femminile perché sbaraglia il femminismo mainstream che considera i maschi un nemico».

Ecco introdotto dunque un tema centrale, quello del femminismo. Quanto spazio ha nel suo testo?

«Io sono un’appassionata del genere, anche per motivi accademici. Sono cultrice di studi di genere alla Luiss. Nel libro metto a confronto femminismi diversi, italiani e stranieri. Dalle seguaci di Diotima alle libertarie americane meno conosciute in Italia».

In quale si riconosce di più?

«Nel femminismo della seconda ondata, quello delle grandi battaglie sui diritti civili, per questioni concreti, per guadagnare maggiori spazi di autonomia. Oggi, invece, il femminismo è corporativo, avviluppato su se stesso, tutto concentrato in una battaglia intellettualistica, quasi metafisica. E’ un femminismo antimodernista».

Non condivide, dunque, le idee delle italiane di “Se non ora quando”…

«Il movimento “Se non ora quando” ha delle basi filosofiche assolutamente fragili e ha strumentalizzato la battaglia delle donne per fini politici. Come se l’assillo principale delle donne italiane fosse l’ “indomito fallo del premier”. Invece le battaglie da portare avanti sono ben altre: i tetti di cristallo nel mondo del lavoro, la salute riproduttiva, la fecondazione assistita, l’accesso alla contraccezione, tematiche di cui si parla troppo poco in Italia».

Certo che, con un titolo del genere, il suo libro è destinato a generare polemiche…

«Ben vengano. La polemica è un esercizio retorico ed intellettuale finissimo. Non è da tutti. Nel libro rivendico il diritto di ciascuno a “darla” per interesse e convenienza, ma parlo anche di prostituzione in senso stretto. spiego per esempio come funziona in Austria e in Germania, dove il sesso a pagamento è regolato e i sex worker pagano le tasse come ogni altro lavoratore. In Italia invece le prostitute e i prostituti non possono perché non é riconosciuta loro alcuna dignità professionale».

Da giornalista quanto è difficile rompere questo tabù del politicamente corretto?

«L’Italia è afflitta dal moralismo e dal conformismo imperante. E’ difficile prendere posizioni contrarie a quello che è il pensiero dominante. in questo devo dire che hanno un grande ruolo i mezzi di comunicazione, ma anche la classe dirigente, non solo politica. C’è un completo appiattimento. Io non ho difficoltà a definirmi una puttana, tra le puttane e i puttani d’Italia. Cerco di coltivare le relazioni personali che possono essermi utili: l’interesse personale è democratico e muove il mondo».

Tornando all’attualità, cosa pensa della polemica delle ultime ore sulla Bacchiddu? Una questione che sembra calzare a pennello con i temi del suo libro…

«Si tratta delle solite polemiche italiane sul nulla. Quella della candidata di Tsipras è una trovata efficace sul piano della comunicazione. Il sesso e la seduzione del corpo femminile fanno parte della natura. Il corpo è parte di me non meno delle mie doti intellettuali, e questo vale per tutti. Quindi brava la Bacchiddu, della quale altrimenti non sapremmo nemmeno il nome. Giocare con il proprio corpo non è disdicevole. Evviva chi osa. Siamo in Italia, non a Riad. Teniamolo a mente».

“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo.  ‘Siamo tutti puttane’ non è un coito interrotto. La Rai è l’alcova del puttanizio, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Se Michele Emiliano è in grado di spiegare il ‘Siamo tutti puttane’ alle femministe imbestialite, vuol dire che di questo libro c’era un gran bisogno. Dovevate vederlo lo scorso sabato a Lecce, il sindaco di Bari, quasi estasiato, spiegava e declinava il messaggio profondo del ‘Siamo tutti puttane’. Ne tesseva l’elogio e l’imponenza, ‘non sono stato abbastanza puttana’, ha ammesso senza celare un filo di rammarico. E va bene che gli economisti austriaci non vanno di moda in Italia, e va bene che il panegirico dello scambio e del compromesso non va di moda in tempi di guerra grillin-guerreggiata. E va bene il ‘negoziare mai’, e va bene che il titolo è un’efficace provocazione, e va bene che ‘puttane’ è una parola che non si confà alle educande ben insediate nel circolo elitario dell’intellighenzia all’amatriciana. Va bene tutto. Ma davvero qualcuno può pensare che il ‘Siamo tutti puttane’ equivalga ad un coito interrotto? In molte hanno replicato con altisonanti ed elaborati ‘Io non l’ho mai data a nessuno. Puttana sarai tu’ o ancora ‘Facci sapere a chi l’hai data ché gliela diamo pure noi’. Fantastico. Mi perdonerete se di costoro non mi occuperò, per il bene loro prima che per il mio. Non compilerò alcuna lista, anche perché sarebbe lunga assai e alle stesse eleganti signore potrebbe appalesarsi una bruciante verità: se nessuno te l’ha mai chiesta, un motivo c’è. Passiamo invece alle critiche da prendere sul serio, quelle che meritano. E’ vero, finora ‘Siamo tutti puttane’ è stato trattato con i guanti dalla stampa di centrodestra, da Panorama (la testata per cui lavoro) al Giornale a Libero, il Foglio ha dedicato un’intera pagina, Alessandra Di Pietro ne ha scritto su La Stampa Top News (come del libro che ‘onora le battaglie femministe negli ultimi due secoli’). Si sono moltiplicate le interviste sui siti d’informazione online, gli inviti a presentarlo di qua e di là (farò del mio meglio). Dagospia lo ha esaltato come solo Dago può. Seguiranno ulteriori recensioni, e mi auguro che le voci dissonanti afferrino la penna più acuminata per sfornare argomenti su argomenti contrari alle mie tesi. Del resto, quando abbiamo programmato il lancio de libro, ho richiesto per prima cosa alla casa editrice Marsilio che una copia venisse spedita a ciascuna delle talebanfemministe citate nel mio libro. Le Concite, le Spinelli, le Comencini, tutte. Per la prima presentazione del libro a Lecce ho invitato la presidente della Camera Laura Boldrini che dopo qualche giorno di meditazione ha declinato l’invito. Dunque l’autrice di ‘Siamo tutti puttane’ non si sottrae al confronto. Lo agogna. Sul blog di IoDonna ho letto il post di Marina Terragni. Lei non è citata nel mio libro. Le critiche sono mosse in via preventiva, ossia pregiudiziale, dacché la stessa ammette candidamente di non aver letto il saggio. Spero che almeno dopo la pubblicazione del post Terragni si sia decisa a leggerlo. Ad ogni modo a lei qualche risposta desidero darla. Io non dico che per riuscire nella vita devi darla a qualcuno. Anche perché sono così brava che per scrivere una simile minchiata mi sarei fatta bastare 3 pagine, non 286. E’ questa una banalizzazione che non fa onore a chi se la intesta. Io dico che, se nel gioco a dadi con la sorte tu scegli di scambiare qualcosa di te con l’altro, hai il sacrosanto diritto di farlo. Avviene ad ogni latitudine, è sempre accaduto e sempe accadrà. Si chiama libertà. E Terragni, che è donna di mondo, lo sa bene. A questo punto si possono muovere due obiezioni. La prima riguarda la prostituzione fisica, che ci infastidisce e ci indigna assai più di quella intellettuale, verso la quale siamo sorprendentemente benevolenti. La seconda, più insinuante, riguarda il merito. Qui la questione è semplice. In ambito privato, se uno assume un incapace, maschio o femmina, solo per meriti extraprofessionali, quel datore di lavoro se ne assume la responsabilità e il costo. Nel pubblico invece esistono meccanismi di selezione basati sul merito e sulla competizione tra le persone. Ma se il sistema scelto consente l’arbitrio della selezione, è inevitabile che si aprirà la gara a chi offre di più, chi con le cosce, chi con le mazzette, chi con la forza. Criminalizzare colui o colei che ‘c’ha provato’ significa guardare il dito e non la luna. Significa cercare il capro espiatorio per non cambiare nulla. Così hanno agito le talebanfemministe quando hanno puntato il dito contro le Minetti di turno, contro le vergini del Drago, contro le sfrontate che accettano inviti galanti, come se il problema fosse un batter di ciglia. Io difendo il batter di ciglia. Piuttosto, basta con questa idea che se sei un po’ gnocca devi essere per forza scema. La gradevolezza fisica si accompagna spesso alle rinomate doti intellettuali. Non esiste una secca alternativa, per fortuna. Pensate ai giornalisti televisivi, di solito non sono dei cessi. Qualche eccezione, a dire il vero, c’è, ma ai piani alti della Rai, che è il luogo del puttanizio per antonomasia. Quando sei in sella da un numero imprecisato di decenni e vai in video a dispetto di ogni legge di gravità, vuol dire che hai puttaneggiato ad arte prima, costruendo relazioni e simmetrie che ti hanno permesso di fare quel che fai. E sai farlo meravigliosamente, sia chiaro, perché anche il merito abbisogna di puttanizio.

TOPONOMASTICA DIVISIVA ED IDEOLOGICA.

Non solo Meloni con Almirante, le strade intitolate che hanno fatto polemica. Stefano Cucchi, Oriana Fallaci, Bettino Craxi. Non sono pochi i personaggi "divisivi", per lo più politici, che hanno fatto nascere battaglie toponomastiche in tutta Italia. Dopo la proposta della candidato sindaco a Roma che vuole dedicare una strada all'ex repubblichino, ecco gli altri casi celebri, scrive Maurizio Di Fazio il 23 maggio 2016 su “L’Espresso”. “Se diventerò primo cittadino, intitolerò una strada a Giorgio Almirante” esclama Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e candidata alla carica di sindaco di Roma. Fioccano le proteste e le polemiche: è tuttora troppo controverso il ricordo del fu padre-padrone del Movimento sociale italiano, a 28 anni dalla sua scomparsa. Quantomeno per intestargli una via di una grande città: il nome dell’ex repubblichino ricorre già (sotto forma di strade, giardini e circonvallazioni) nelle mappe urbane e nel google maps di numerosi piccoli centri del centro-sud, nonché di capoluoghi di provincia come Foggia e Viterbo. Nel 2014 la Provincia di Latina (città fondata col nome di Littoria durante il fascismo) decise di dedicargli una rotonda a Borgo Sabotino, e il Premio Strega Antonio Pennacchi commentò: “Questa vicenda dimostra che il problema non sono i fasci, ma gli stupidi. Una classe politica deficitaria su tutto pensa di rincuorare il proprio popolo agitando la bandiera della provocazione”. Ogni anno i Comuni italiani sono invasi da una pletora di richieste di intitolare corsi, viuzze, slarghi, rondò, piazze, monumenti e parchi a personaggi della storia recente o recentissima che non hanno ancora fatto pace con la Storia condivisa della nostra nazione, e forse non la faranno mai. Per lo più politici, ma anche vittime di abusi di polizia, giornalisti, intellettuali e artisti “divisivi” in vita e dopo la morte, specie se avvenuta da poco. La legge che presiede alle denominazioni toponomastiche è invece vecchissima: risale al 1927, e stabilisce che di norma non si possono intitolare carreggiate e piazze a persone decedute da meno di dieci anni, salvo deroghe e delibere di giunta degli Enti locali. Senza dimenticare che in Italia solo il 4 per cento della strade possiede un’identità femminile: per il resto, è il Risorgimento a dettare tuttora la linea. A intervalli regolari ci si contorce sulle intitolazioni viarie della discordia. A marzo il Comune siciliano di Acireale ha approvato l’intestazione della Cittadella dello sport a Rino Nicolosi, presidente della Regione Sicilia negli anni ottanta, “esempio di una caparbia intelligenza che ha illuminato la sua città riservandole un posto di rilievo nel panorama nazionale” sostengono i pro: “reo confesso di Tangentopoli” rammentano gli altri. Un anno e mezzo fa la Giunta di Roma ha licenziato a larga maggioranza una mozione destinata ad assegnare a Stefano Cucchi una via o una piazza della capitale. Assumendo la sua odissea a "simbolo della necessità di riformare il sistema di procedura penale e penitenziale in senso garantista", sarà questo il testo della targa commemorativa: "Stefano Cucchi, ragazzo". Contrarissimo il solito Carlo Giovanardi. Un mese fa la commissione toponomastica di Cremona ha cassato la petizione presentata da un gruppo di cittadini per intitolare una strada alla giornalista e scrittrice toscana venuta a mancare il 15 settembre del 2006: “Oriana Fallaci è un personaggio che divide, un simbolo dello scontro di civiltà” ha annotato uno dei membri della commissione. Una vexata quaestio, questa relativa al rapporto tra l’autrice di “Un uomo” e “La rabbia e l’orgoglio” e le edizioni di Tuttocittà stampate dopo la sua morte: e se il sindaco di Firenze Dario Nardella ha ormai aperto ufficialmente a una prossima via o vicolo o piazzetta Fallaci, e a Milano le è stata “consacrata” un mese fa una sala del Pirellone, il Campidoglio ha respinto invece nel 2014 ogni possibilità. A meno che non diventi nelle prossime ore il cavallo di battaglia di uno degli aspiranti sindaci romani, in chiave anti-Meloni/Almirante. Analoga sorte maledetta è toccata a Bettino Craxi. La prima a pensare all’ex segretario socialista in chiave toponomastica fu, a dieci anni esatti dal suo trapasso, l’allora primo cittadino di Milano Letizia Moratti. I suoi successori però cambiarono subito discorso, e del nome dell’ex potentissimo segretario socialista non c’è traccia oggi nemmeno in qualche sottopasso della periferia milanese. Anche qui per trovare una via Craxi bisogna spostarsi in provincia, a Ragusa per esempio, o direttamente in qualche paesino dell’Italia profonda. E se è vero che la musica è una metafora perfetta della più dura lotta politica e di pensiero che sopravvive (anche a lungo) ai suoi artefici, due mesi fa il Comune di Napoli si è impegnato a intitolare tre rotatorie, nel quartiere Vomero, a mostri sacri come Roberto Murolo, Renato Carosone e Sergio Bruni. Meglio di niente, anche se i cultori della canzone napoletana desidererebbero magari un boulevard “Tu vuò fa l’americano”. Quantomeno sul solco di Capo D’Orlando, in provincia di Messina, dove nel 2002 è stato inaugurato il "Lungomare Luciano Ligabue, artista contemporaneo".

Strada per Almirante, tabù con 200 eccezioni, scrive “L’Agi” il 22 maggio 2016. Sono circa 200 in giro per l'Italia le strade, i giardini o le strutture intitolate a Giorgio Almirante, il fondatore del Movimento sociale italiano scomparso nel 1988. L'ingresso nella toponomastica è stato spesso sofferto, con giunte di centrodestra che hanno visto rimuovere l'intitolazione in nome dell'antifascismo quando il comune è tornato a essere guidato da giunte di centrosinistra. Solo per restare agli ultimi anni è emblematico il caso di Civitanova Marche, dove nel 2013 "Via Giorgio Almirante" fu sostituita da "Via Nelson Mandela" dal nuovo sindaco progressista, Tommaso Corvatta. Due anni dopo, militanti di destra sostituirono diverse targhe di vie cittadine con il nome di Almirante in un blitz notturno. Sempre nel 2013 allo storico leader della destra furono dedicati una piazza e un busto a Montecorvino Pugliano, in provincia di Salerno, nel 2014 gli fu intitolata una rotonda a Borgo Sabotino, in provincia di Latina. Nel 2015 il Consiglio comunale di Roma respinse due mozioni di Fratelli d'Italia e di Forza Italia che chiedevano di intitolare una strada della capitale ad Almirante, dopo la cauta apertura negli anni precedenti del sindaco (di destra) Gianni Alemanno che però aveva chiesto che non si traducesse in una scelta divisiva.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 19 aprile 2016. Oriana Fallaci viveva di due cose. Scrittura e battaglie. Sarà quindi contenta. Domenica si è saputo - cosa di cui i grandi giornali hanno dato conto - che a Cremona la commissione toponomastica del Comune, guidato dal centrosinistra, ha respinto la proposta di intitolare una via alla scrittrice. La richiesta sottoscritta da oltre 130 cittadini è stata accantonata perché «il nome e le opere della Fallaci sarebbero troppo divisive». Quello di cui però i grandi giornali non hanno dato conto è che un «piccolo» quotidiano, La Provincia di Cremona, ha rivolto ai lettori, sul proprio sito internet, la stessa domanda: se vogliono o meno che una via cittadina sia intitolata a Oriana Fallaci. E il risultato del sondaggio on line (che non ha alcuna ufficialità ma è molto indicativo) dice che l'85% dei partecipanti è a favore della proposta. Dimostrando che l'opera e le idee della scrittrice sono in realtà poco o nulla divisive. A dividere semmai è il conformismo e il livore della minoranza che non la pensa come lei. Matteo Salvini non s' è fatto scappare l'occasione e, con la consueta dichiarazione tranchant, ha commentato: «Ignoranti, sono loro che non si meritano la Fallaci». La verità, però, è che la commissione comunale ha fatto un grande favore alla scrittrice, più che se le avesse intitolato la piazza del Duomo. Metterla ancora una volta (senza motivo) dalla parte del torto, le ha dato per l'ennesima volta ragione. Perché - ci si chiede - in Italia si intitolano vie, piazze e viali a personalità della Storia molto più che «divisive», come Lenin, Ho Chi Minh, Che Guevara... ma non a una giornalista? La toponomastica ideologica, quando svolta a sinistra, conosce pochi divieti, e spesso si infila in pericolosi vicoli ciechi storiografici: Stalin, Mao Tze Tung, Trotsky, la Rivoluzione d' Ottobre, viale Unione Sovietica, via Brigate Partigiane, piazza Tito... Bene. Ma se un comune italiano ha corso Lenin, perché non può esserci almeno un vicolo Oriana Fallaci? Sembra incredibile ma a Firenze da nove anni, cioè dalla morte della giornalista, c' è un'associazione, dal nome-manifesto «Una via per Oriana», presieduta da Armando Manocchia, che si batte per intitolare alla Fallaci un pezzettino della sua città: una viuzza, una piazzetta non diciamo un ponte sull' Arno... Niente. Si dirà: beh, certo. La legge prevede che passino almeno dieci anni dalla morte prima che un italiano si meriti un simile onore (ma se è questo il problema manca poco al decennale della giornalista de La rabbia e l'orgoglio: mancò il 15 settembre 2006). Eppure, la notizia è di ieri, a Bologna la piazza coperta della biblioteca Salaborsa, uno dei più eleganti «salotti» cittadini, dentro Palazzo d' Accursio, è stata dedicata a Umberto Eco. Morto un mese fa. Erano presenti il sindaco di Bologna, il rettore dell'«Alma Mater», la vedova dello scrittore e autorità varie. Nessuno in questo caso ha glossato la decisione comunale. L' impressione è che, al di là dei tempi amministrativi (abbattuti senza polemiche), a contare non sia il peso intellettuale del nome in ballo, ma la collocazione politico-ideologica. Intanto, lontano dalla sua Firenze, Milano qualcosa prova a fare. Su proposta della Lega Nord, nella persona di Massimiliano Romeo, il Consiglio regionale della Lombardia proprio oggi pomeriggio, intitola a Oriana Fallaci una sala del Pirellone. Che non è una grande piazza, né un vialone. Ma resta il segno di una città capace di ricordare che le idee migliori di domani, come la Storia insegna, sono quelle che oggi dividono.

Contro quelli che “non si può intestare una via a Oriana”, scrive Gianluca Veneziani “L’Intraprendente” il 25 maggio 2016. L’opposizione a Oriana Fallaci è insopportabile non quando fondata su ragioni di merito e su visioni diverse della nostra civiltà (allora si chiama dibattito culturale), ma quando animata da motivazioni pregiudiziali, da prese di posizioni ideologiche o da meri condizionamenti politici basati sul chiacchiericcio e il sentito dire. A questo secondo filone di oppositori sembra appartenere la giunta di centrosinistra di Cremona che – con la sua Commissione toponomastica – ha respinto la proposta di intestare una via della città all’autrice de La rabbia e l’orgoglio. La motivazione ufficiale è risibile: la Fallaci è “una figura che divide”. Ma la “divisività” non può certo essere un ostacolo nell’intitolazione di una via: se è per questo, non si sarebbero mai dovute intestare delle strade al nome di un Enrico Berlinguer, di Che Guevara o perfino di Luigi Cadorna sui quali il giudizio della gente comune, prima ancora che degli storici, è sicuramente “diviso”. Ma nel caso di Oriana Fallaci, l’essere stata “divisiva”, oltre a non essere un intralcio, rischia addirittura di essere un merito. Lei infatti, prima di molti altri, ha saputo intuire il conflitto di civiltà in corso e ha saputo dunque porre un confine, una linea di demarcazione, di “divisione” appunto, tra noi e loro, tra l’Occidente e l’islam, tra il mondo libero e secolarizzato e i regimi e le religioni ispirati dal fanatismo. Lei è stata in grado di tracciare il solco, stando lì, coraggiosamente, sulla frontiera, a fare da baluardo e insieme da profetessa, a essere sentinella di un’Europa in pericolo e messaggera del suo futuro (ma avrebbe fatto anche la soldatessa, ne siamo sicuri, se solo le avessero dato delle armi in mano). La storia dell’essere stata “divisiva” però deve aver fatto breccia, tant’è che anche nella votazione sull’intitolazione di una sala del Consiglio regionale della Lombardia a Oriana Fallaci (proposta qui fortunatamente approvata) il Movimento 5 Stelle si è astenuto sostenendo, con il consigliere Eugenio Casalino, che “la sua figura è troppo divisiva sul piano politico”. A Cremona, a essere onesti, hanno saputo far di meglio. Come riferisce al Corriere Giuseppe Vigliatta, il promotore della petizione pro-Oriana, gli oppositori avrebbero motivato il no anche con un’altra ragione: la Fallaci “non è del posto”. Scusa meravigliosa perché, se è per questo motivo, dovremmo cancellare immediatamente via Garibaldi da tutte le città italiane (lui era natio di Nizza) e lasciare piazza Vittorio Emanuele II soltanto a Torino, dove il re era nato. Scusa risibile tanto quanto quella che non sarebbero ancora passati i dieci anni dalla morte necessari per l’intitolazione; la norma prevede infatti che, in caso di persone decedute con particolari benemerenze (ed è sicuramente il caso della Fallaci), il ministero dell’Interno è autorizzato a concedere una deroga. L’unico elemento non “divisivo” della faccenda sembra essere l’accordo tra giunte di centrodestra e giunte di centrosinistra nel bocciare la proposta: l’idea di intestare una via alla Fallaci a Cremona era già stata rifiutata infatti dall’amministrazione guidata da Oreste Perri (Pdl) prima di essere respinta dall’attuale giunta del piddino Gianluca Galimberti. Come dire, la grandezza è divisiva, la cretineria sa essere bipartisan. P.S. Intanto suggeriamo ai cittadini cremonesi di proporre l’intestazione di una nuova strada: “via Gianluca Galimberti da Cremona”. Potrebbe essere una buona provocazione per esprimere l’indignazione pro-fallaciana.

Siamo una nazione che rinnega la memoria, se non quella comunista, e nulla fa per onorare i suoi figli più degni.

Gli italiani e le bugie. La vergogna del silenzio, scrive il 24/05/2016 Angelo Crespi su “Il Giornale”. La colonna di località Magnaboschi, sull’altipiano di Asiago, segna il punto di massima penetrazione nemica durante la Grande Guerra. Come si tramanda la memoria? E come uno Stato dovrebbe farlo? Come per il centenario della prima Guerra mondiale, nel 2015, le commemorazioni di un caposaldo della nostra identità restano vaghe e così ogni anno, nel tempo. Eppure 650mila soldati morti, spesso caduti dopo atti di eroismo (dimenticati), dovrebbero essere sufficienti come atto fondativo di una Nazione. Per motivi storici che si conoscono, gli italiani temono invece il ricordare, preferiscono le bugie, sommamente le bugie storiche. Sull’Altopiano di Asiago, in località Magnaboschi, tra Lemerle e Zovetto, si erge ancora la colonna romana (eretta negli anni Trenta e non dobbiamo vergognarcene) che segna il punto di maggior penetrazione nemica. Intorno, un breve tratto di montagna, pochi metri, che fu conteso aspramente per due anni ed è considerato le Termopili della fanteria italiana, dove nel 1916 si sacrificarono e centinaia per bloccare la definitiva avanzata degli austriaci alla pianura. Nel 1918 la zona fu presidiata da unità inglesi che sostennero l’ultima offensiva nemica. Il cimitero inglese, gestito direttamente dal Commonwealth, è il miglior esempio di lapidaria essenza di una Nazione: 180 caduti, ognuno ricordato con una pietra di marmo scolpita con lo stemma del battaglione e le generalità del soldato. Di fronte, nel cimitero italiano in cui sono sepolti confusamente anche gli austroungarici, i cippi in legno e le targhette in plastica sono la plastica dimostrazione di un Paese ancora da fare. 

ONESTA’ E DISONESTA’.

1. Era una donna virtuosa, ma il caso volle che sposasse un cornuto. (Sacha Guitry)

2. L'amore ha diritto di essere disonesto e bugiardo. Se è' sincero. (Marcello Marchesi)

3. Proposta: "Facciamo il governo degli onesti!". "Già, e il pluralismo?". (Manetta)

4. Il socialista più elegante?  Martelli. Il più grasso? Craxi. Il più onesto? Manca!

5. Due manager discutono di come scegliere la segretaria e uno dei due dice di avere un metodo speciale tutto suo: "Io la ricevo in ufficio e le faccio trovare per terra un biglietto da 100.000 lire; poi con una scusa mi allontano e osservo quello che succede. La loro reazione è molto istruttiva". Dopo qualche tempo si reincontrano e il primo chiede: "Allora, amico mio, come è andata la scelta della segretaria?". "Ho fatto come mi hai detto: la prima ha raccolto il biglietto e l'ha messo velocemente nella sua borsetta. La seconda l'ha raccolto e me lo ha consegnato. La terza ha fatto come se niente fosse".  "E quale hai scelto?". "Quella con le tette più grosse!".

6. La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta (Isaac Asimov).

7. Convinto dalla tangente, il cerchio accettò di trasformarsi in quadrato. L'angolo invece rifiutò: era sempre stato retto e tale voleva restare.

8. Come ci sono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero esistere benissimo anche politici onesti. (Dario Fo)

9. A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame. (Totò in "La banda degli onesti")

10. C'è un modo per scoprire se un uomo è onesto: chiedeteglielo. Se risponde di sì, è marcio. (Groucho Marx)

11. Se la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera (proverbio italiano)

12. L'onestà paga. La disonestà è pagata. (Silvia Ziche)

13. Definizione di corrotto: vezzeggiativo politico. (S. M. Tafani)

14. Il segreto della vita è l'onestà e il comportarsi giustamente. Se potete simulare ciò lo avete raggiunto. (Groucho Marx)

15. Niente assomiglia tanto a una donna onesta quanto una donna disonesta di cui ignori le colpe.

16. Se l'esperienza insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto. (H.L Mencken)

17. Nel dolore un orbo è avvantaggiato, piange con un occhio solo. (Antonio (Totò) in "La banda degli onesti")

18. L'onestà è la chiave di una relazione sentimentale. Se riuscite a far credere di essere onesti, siete a cavallo. (Richard Jeni)

19. L'onestà è lodata da tutti, ma muore di freddo. (Giovenale)

20. "Jim, dove posso trovare dieci uomini onesti?". "Cosa? Diogene si sarebbe contentato di trovarne uno". (Robert A. Heinlein, Cittadino della galassia)

21. A molti non mancano che i denari per essere onesti. (Carlo Dossi)

22. Le donne oneste non riescono a consolarsi degli errori che non hanno commesso. (SachaGuitry)

23. Un politico onesto è quello che una volta "comprato" resta comprato. (Legge di Simon Cameron)

24. Le persone oneste e intelligenti difficilmente fanno una rivoluzione, perché sono sempre in minoranza. (Aristotele)

25. "Signora - dice la nuova cameriera - in camera sua, sotto il letto, ho trovato questo anello!". "Grazie Rosi. L'avevo messo apposta per controllare la sua onestà". "E' proprio quello che ho pensato anch'io, signora!".

26. Ero veramente un uomo troppo onesto per vivere ed essere un politico. (Socrate)

27. Un governo d'onesti è come un bordello di vergini. (Roberto Gervaso)

28. Si dice: "La disonestà dei politici non paga mai!". E' vero. Generalmente riscuote.

29. Sei onesta come le mosche d'estate, al mattatoio, che rinascono dalla loro stessa merda. (dall'Otello) (William Shakespeare)

30. A volte mi viene il sospetto che avere la fama di essere scrupolosamente onesto equivalga a un marchio di idiozia. (Isaac Asimov)

31. In tutta onestà, non credo nell'onestà.

32. Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (François de La Rochefoucauld) 33. Ammetto di essere onesto. Ma se si sparge la voce, sono rovinato: nessuno si fiderà più di me. (Pino Caruso)

34. Donne oneste ce ne sono più di quelle che non si crede, ma meno di quelle che si dice. (Alessandro Dumas figlio) (in "L'amico delle donne")

35. La principale difficoltà con le donne oneste non è sedurle, è portarle in un luogo chiuso. La loro virtù è fatta di porte semiaperte. (Jean Giraudoux)

36. Una volta l'onestà, in un individuo, era il minimo che gli si richiedesse. Oggi è un optional. (Maurizio Costanzo)

37. Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste... Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande, e con voi il mondo diventa più fantasioso, più colorato... Ma non cambia mai !! (Il ministro Nanni Moretti a Silvio Orlando in "Il portaborse")

38. Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone oneste. (Martin Luther King)

39.  Era così onesto che quando trovò un lavoro, lo restituì.

40. Mi piace un soprabito scoperto dagli americani, il koccomero, quello che si aggancia con i calamari. (Totò in "La banda degli onesti")

41. Il tipografo Lo Turco ammira tutto l'armamentario per fabbricare banconote false: "Ma questa è filagrana!".  Toto': "Sfido io! Viene dal policlinico dello Stato!". (In "La banda degli onesti")

42. L'onestà nella compilazione della dichiarazione dei redditi viene considerata in Italia una forma blanda di demenza. (Dino Barluzzi)

43. Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di più gente onesta. (Benedetto Croce)

44. Ci sono fortune che gridano "imbecille" all'uomo onesto. (Edmond e Jules de Goncourt)

45. L'onestà dovrebbe essere la via migliore, ma è importante ricordare che, a rigor di logica, per eliminazione la disonestà è la seconda scelta. (George Carlin)

46. In Italia si ruba con onestà, rispettando le percentuali. (Antonio Amurri)

47. I nordici prendono il caffè lungo, noi sudici lo prendiamo corto. (Totò in "La banda degli onesti")

48. Ben poche sono le donne oneste che non siano stanche di questo ruolo. (FriedrichNietzsche)

49. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

50. Neanche la disonestà può offuscare la brillantezza dell’oro.

51. Ti ho insegnato ad essere onesto, perché intelligente non sei. (Bertold Brecht)

52. L'onestà paga, ma pare non abbastanza per certe persone. (F. M. Hubbard)

53. Nessuna persona onesta si è mai arricchita in breve tempo. (Menandro)

54. Nessuno può guadagnare un milione di dollari onestamente. (No one can earn a million dollars honestly). (William Jennings Bryan)

55. Sicuramente ci sono persone disoneste nei governi locali. Ma è anche vero che ci sono persone disoneste anche nel governo nazionale. (Richard Nixon)

56. Le persone oneste si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine. (Charles Péguy)

57. L'onestà, come tante altre virtù, dipende dalle circostanze. (Roberto Gervaso)

58. Nessun uomo può guadagnare un milione di dollari onestamente, così come è disonesto ed invidioso chi dichiara il contrario. (Antonio Giangrande)

59. Colmo per un uomo retto: innamorarsi di una donna tutta curve.

60. Una politica onesta proietta una nazione sana nel futuro. Per questo si chiama Fantascienza. (Mauroemme)

61. Per il mercante anche l'onestà è una speculazione. (Charles Baudelaire)

62. In politica l'onestà è forse la cosa più importante. Chi ce l'ha deve partire con un grosso handicap! (Bilbo Baggins)

63. Dimettersi per una multa è soprattutto un ennesimo esempio della severità del rapporto tra etica e politica in Gran Bretagna. Tranquilli, ci pensiamo noi qua a ristabilire l'equilibrio europeo. (Annalisa Vecchiarelli)

64. La massima ambizione dell'uomo? Diventare ricco. Come? In modo disonesto, se è possibile; se non è possibile, in modo onesto. (Mark Twain)

65. Era un uomo così onesto e probo, da non essere neanche capace d'ingannare il tempo... (Fabio Carapezza)

66. Se l'esperienza ci insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto.

67. La disperazione più grave che possa colpire una società e' il dubbio che vivere onestamente sia inutile. (Corrado Alvaro)

68. In un'epistola Orazio fustiga un doppiogiochista della morale che, ammirato da tutto il popolo, offre un bue e un porco agli dei, pregando Giove e Apollo ad alta voce. Ma subito dopo si rivolge a LAVERNA, dea protettrice dei ladri e a fior di labbra, in modo che nessun lo intenda, prega: "Laverna bella, fammi la grazia ch'io possa imbrogliar il prossimo, concedi ch'io passi per un galantuomo, un santo, e sopra i miei peccati distendi la notte, sopra gli imbrogli una nube". (Orazio)

69. Ingiuriare i mascalzoni con la Satira è cosa nobile, a ben vedere significa onorare gli onesti. (Aristofane)

70. L'onestà andrà di moda. (Beppe Grillo)

71. L'onestà è sempre la migliore scelta... ma spesso bisogna seguire la seconda scelta.

72. Odiare i mascalzoni è cosa nobile. (Quintiliano)

73. Uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l'occasione. (Gian Carlo Moglia)

74. Maresciallo: "...hanno arrestato anche il tipografo". Totò: "Lo Turco!!". Maresciallo: "No, lo svizzero". Totò: "Allora mi ha dato un nome falso!!" (Totò in "La banda degli onesti")

75. Portieri si nasce, non si diventa. (Totò in "La banda degli onesti")

76. Perchè anch'io, modestamente, nella media borghesia italiana occupo una società... condomini che vanno e che vengono, che quando è natale, pasqua mi danno la mancia, per il mio nome mi regalano lumini..." (Totò ne "La banda degli onesti")

77. Ho mandato mia moglie e i miei figli a un funerale, così si divagano un po'. (Totò' ne "La banda degli onesti")

78. Tanto Gentile il segretario pare se si dimette

e la poltrona sua saluta

e ogni lingua de li colleghi trema muta

che altrimenti vorrebber commentare.

Egli si va, sentendosi laudare,

per la rinuncia d’umiltà vestuta,

e par quasi fosse cosa non dovuta

ma invece scelta per obbligo morale.

Che il popolino l’onestà l’ammira,

e dà agli illusi una dolcezza al core,

chi se ne va senza aspettar altre prove.

Ma i peggiori non v’è modo li si muova,

né per decenza oppur spinti dall’onore,

che sol per la poltrona l’anima lor sospira. (Bilbo Baggins)

79. L'onestà non paga. Se vuoi fare l'onesto lo devi fare gratis. (Pino Caruso)

80. Ricòrdati che l'onestà paga sempre! Specialmente le tasse! (Renato R.)

81. La madre dei cretini è sempre incinta. Quella degli onesti ormai è in menopausa.

82. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

83. Sto cercando di fare di mio figlio un italiano onesto, leale, corretto, solidale, amante della giustizia... "Un disadattato, insomma". (Stefano Mazzurana)

84. Io sono onesto. Contro chi devo scagliare la prima pietra? (Renato R.)

85. Nigeriano disoccupato trova 4.350 euro e li restituisce. Bisogna dire basta a questi gesti inappropriati, se vengono nel nostro paese devono rispettare le nostre regole. Che sono venuti qua ad insegnarci l'onestà? (Barbara Zappacosta)

86. Viviamo tempi in cui se dici "onesto!" a qualcuno, rischi d'offenderlo... (Alessandro Maso)

87. Sono una persona molto onesta e corretta. Mi sento un verme anche quando, ad un incontro, inganno l'attesa. (DrZap)

88. Secondo un emendamento del decreto milleproroghe, il M5S verrà multato per aver rifiutato i rimborsi elettorali. Sancendo la nascita di un nuovo reato: ONESTARE. (Kotiomkin) (Giovy Novaro)

Il "no" di Benedetto Croce al moralismo in politica. L'edizione nazionale dell'opera del pensatore ci restituisce i testi completi sul rapporto tra l'etica e la cosa pubblica, scrive Giancristiano Desiderio, Giovedì 26/05/2016, su "Il Giornale". È curioso, ma gli italiani quando si tratta di curare malanni e malattie non chiedono un onest'uomo, sì piuttosto un buon medico, onesto o disonesto che sia, purché sappia il fatto suo e non li mandi anzitempo all'altro mondo mentre quando ci sono in ballo le cose della politica gli italiani richiedono non uomini pratici e d'azione ma onest'uomini o, almeno, così dicono. Cos'è, dunque, l'onestà politica? Se lo chiedeva in modo diretto Benedetto Croce e rispondeva in modo altrettanto diretto: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». Lo scritto intitolato proprio così - L'onestà politica - è il frammento XXXVII dei Frammenti di etica che uscì in volume nel 1922 e che nel 1931 andò a comporre, insieme con altri scritti, l'importante volume Etica e Politica. Ora la casa editrice Bibliopolis, che cura l'Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, sta per mandare in libreria a cura di A. Musci proprio Etica e Politica nella edizione completa del 1931 riproducendo il testo nell'edizione ne varietur del 1945. In questo modo il lettore che segue le uscite delle opere crociane avrà modo di avere in un unico testo i quattro libri che compongono il volume: appunto, i Frammenti di etica del 1922, gli Elementi di politica del 1925, gli Aspetti morali della vita politica del 1928 e il Contributo alla critica di me stesso che uscì per la prima volta nel 1918 in cento copie stampate da Riccardo Ricciardi, l'amico editore di Croce che il filosofo chiamava con affetto Belacqua. Gli scritti raccoglievano nella maggior parte dei casi testi già pubblicati sin dal 1915 su riviste e periodici: anzitutto La Critica, e poi La Diana di Fiorina Centi, il Giornale Critico della Filosofia Italiana di Gentile, Politica di Alfredo Rocco e Francesco Coppola, gli Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, i Quaderni critici di Domenico Petrini e La Parola di Zino Zini. In qualche caso anticipazioni e estratti erano già comparsi su quotidiani d'ispirazione liberale e conservatrice come Il Resto del Carlino di Tomaso Monicelli o Il Giornale d'Italia di Alberto Bergamini e Vittorio Vettori. L'origine pubblicistica dei testi ci fa aprire gli occhi sulla qualità del giornalismo italiano del secolo scorso. Ma oggi questi scritti cos'hanno da dire al lettore, son vivi o son morti? Faccia così il signor lettore, non si fidi di niente e di nessuno, neanche di questa noterella, prenda in mano il testo e si faccia un'idea sua. Qui, se è possibile, do solo un consiglio, di guardar le date e notare che gli scritti di politica - gli elementi - uscirono nel 1925 quando Croce, ormai, era passato all'opposizione di Mussolini e del fascismo, quando era finita male l'amicizia con Giovanni Gentile e in quegli scritti il filosofo della libertà marcava tutta la sua differenza rispetto alle commistioni di pensiero e azione fatte da Gentile e da Mussolini e rifiutava apertamente ogni morale governativa respingendo la sbagliata e pericolosa idea hegeliana dello Stato etico: «Nonostante codeste esaltazioni e codesto dionisiaco delirio statale e governa mentale -diceva- bisogna tener fermo a considerare lo Stato per quel che esso veramente è: forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi, così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone». Il pregio della posizione liberale di Croce è proprio qua: nella distinzione tra filosofia e politica, pensiero e azione; una distinzione che non solo si basava sulla qualità del giudizio storico che ha la sua virtù proprio nella distinzione ma anche sulla grande e imperitura lezione di Machiavelli che rendendo autonoma la politica rese possibile il governo liberale e il controllo dei governanti. Il liberalismo di Croce ha in sé il realismo politico e questo gli consente di non degenerare né nell'utopia né nel giusnaturalismo e di essere oggi come allora un pensatore antitotalitario che si oppose non solo al fascismo ma anche al comunismo. Tuttavia, qui giunto, vorrei dare al lettore, se mi è concesso e se non lo infastidisco, un altro consiglio non richiesto: inizi la lettura dal Contributo alla critica di me stesso, un gioiello di pensiero, umanità e letteratura. Forse, è il modo migliore non solo di avvicinarsi a quest'opera ma anche di avvicinarsi a Croce e di entrare nel suo mondo che è tutto ispirato dalla libertà umana e improntato alla sua promozione e custodia. La lezione viva che si può ricavare da Etica e Politica è quella di non cadere nelle illusioni e nei miti della politica e della vita pratica e di conservare quella necessità che insita nella vita umana: pensare la propria esistenza per non farsi eccessivamente governare dagli altri.

La “presunta” onestà degli italiani, scrive il 2 agosto 2015 don Giorgio De Capitani. In questi ultimi tempi, anche a causa delle polemiche inerenti ai profughi che, dietro ordini delle Prefetture, vengono smistati e messi in alcuni locali dismessi dei Comuni, è uscita di colpo la “presunta” onestà dei cittadini italiani. Anche sul mio sito, ho letto frasi simili: da 50 anni pago le tasse, ho lavorato e sudato onestamente, ed ecco che arriva questa gente, per non dire “gentaglia”, che mi fa sentire cittadino di serie B o Z, quasi umiliato nei miei diritti, eccetera, eccetera. C’è un giornale online locale, Merateonline, dove, ogni giorno, magari con la soddisfazione del suo Direttore, appaiono lettere e lettere di cittadini frustrati dalla presenza di questi “loschi” individui, che non pagano le tasse, non lavorano, anzi li disturbano, non li fanno più vivere in santa pace. Se volete toccare di persona il polso della solidarietà o umanità della gente brianzola, ecco, ne potete avere una certa idea. Sì, una certa idea, perché in realtà i brianzoli sono ancor più egoisti, al di là della loro “innocenza” battesimale o del loro utile pragmatismo pastorale, con la benedizione dei parroci consenzienti. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato, chi è un falso invalido o un baby pensionato, ecc. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che gli altri non pagano: “Io non sono un coglione”!  E così via…E poi, soprattutto nel campo ecclesiastico, c’è sempre una ragione “valida” per non pagare tutte le tasse: faccio il bene, mi do da fare per gli altri, sono qui tutto il giorno al servizio della comunità anche civile, e poi dovrei pagare anche le tasse? Il bene mi fa sentire in diritto di esserne esente! Ma questo è un altro discorso, anche complesso. Ma ciò che non sopporto è la “presunta” onestà degli italiani, a giustificazione del proprio egoismo di cittadini che, per il fatto di vantare la propria onestà in base a criteri del tutto personali (ognuno si è fatto il proprio Codice e la propria Costituzione), rifiutano coloro che essi ritengono “diversi”, “estranei”, “illegali”, addirittura “pericolosi”, che mettono a rischio la “presunta” onestà di cittadini italiani.

Chi scaglia la prima pietra? L’editoriale di Sebastiano Cultrera del 06.02.2016. Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra isola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società procidana. “La devono pagare cara!” ho sentito dire da qualche anima bella “Anche per rispetto ai procidani onesti”. E questa storia dell’ONESTA’ è una specie di ritornello al quale, anche in politica, qualcuno si appella, e di solito lo fa chi è a corto di argomenti: naturalmente declinando il concetto di “onestà” a propria convenienza e piacimento. Io sono convinto, e ho cercato di sostenerlo anche recentemente, che il popolo procidano è un popolo profondamente onesto. Forse il nostro peggior difetto è il menefreghismo, unito ad un individualismo esasperato (i procidani sono “sciuontere”, usa dirsi). Ma rispetto ad altre realtà, anche contigue alla nostra, non possiamo certo lamentarci: non prosperano qui bande criminali, né (per fortuna) si registrano un numero di crimini particolarmente allarmante. Sostanzialmente il popolo procidano (che ha una grande storia imprenditoriale, densa di integrazione culturale e di commerci internazionali) è un popolo sano, produttivo e lavoratore, con un bagaglio etico del lavoro e della famiglia di tipo tradizionale. Tuttavia l’Onestà Aà Aà (quella degli slogan) è un’altra cosa, e proprio quegli esacerbati che la proclamano ai quattro venti (o semplicemente nelle chiacchiere da bar o da aliscafo) dovrebbero, prima, almeno, farsi delle domande. Il quadro che, in effetti, emerge dalle notizie che i media ci restituiscono, rispetto alle inchieste in corso, è un quadro complesso, che lascia intendere una vastissima rete di complicità, con l’abitudine a piccoli e grandi privilegi individuali o di “categoria” che erano diventati, nel tempo, dei veri e propri abusi; magari questi episodi non rivestono sempre rilevanza penale, ma, ciò non di meno, sono egualmente molti distanti da qualunque ideale corretto di ONESTA’. E’, poi, meritevole di approfondimento (e a breve mi piacerebbe farlo) la differenza tra i concetti di ONESTA’, di ETICA e di MORALE, recentemente abusati e usati talvolta a sproposito. Faccio solo notare che essi necessitano, per concretarsi, di un quadro di VALORI condiviso, che invece non esiste più o non è sufficientemente condiviso. Giacché ciascuno si fa una morale a proprio uso e consumo e si finisce per riferirsi, volentieri, alla sola dis-ONESTA’ degli ALTRI, in un eterno gioco di specchi asimmetrico: che, come Lui ha insegnato, ci fa concentrare, colpevolmente, esclusivamente sulle pagliuzze altrui. I sepolcri imbiancati di oggi è facile riconoscerli: sono quelli che, in certi frangenti, si sbattono più di tutti, quelli che vagano stracciandosi le vesti predicando ONESTA’ a sproposito, come se fosse una confezione di dentifricio atta a pulire bocca e denti. E nulla dicono su di loro stessi e sui loro amici, sui costumi diffusi di una comunità che non si riscatta additando le colpe di altri, neanche di uno o più capri espiatori. Invece il largo stuolo di professionisti, impiegati, commercianti e cittadini che beneficiavano (o beneficiano?) di quel “sistema” o comunque si integravano in quel quadro è imponente (e non risparmia neanche molti soggetti dispensatori di slogan o in vario modo in contiguità col moralismo di maniera); essi non sono esattamente dei criminali, almeno fino a prova contraria (e nessuno lo è, quindi, fino a sentenza definitiva). Ma certo dobbiamo dire con ONESTA’ INTELLETTUALE (ahia, l’ho detto anche io!) che tra multe cancellate, impunità varie, spiate e dossier, professionalità tecniche asservite a “papocchi” amministrativi, emerge un quadro sconfortante. Se poi apriamo il focus e vediamo anche il popolo delle casse marittime facili, dei piccoli e grandi abusi e delle piccole e grandi evasioni, possiamo allora essere certi di avere toccato quasi ogni famiglia isolana. Poiché l’averla “fatta franca” non significa essere moralmente meno colpevoli, ciò NON AUTORIZZA a scagliare la PRIMA PIETRA per ferire (a colpi di ONESTA’) chi sciaguratamente è stato scoperto. Spesso, infatti, è proprio la cattiva coscienza che porta a voler concentrarsi su uno o più responsabili (presunti) del decadimento morale, anche al fine di mondare catarticamente le proprie responsabilità e quindi la coscienza stessa. Invece la strada per la “salvezza” (cioè verso una nuova consapevolezza) passa attraverso una presa di coscienza collettiva delle VIRTU’, ma anche dei VIZI di una comunità: al fine di migliorarla.

LE PRIMARIE A COMPENSO DEL PD.

Il vizio di truccare della sinistra. Altro che primarie a Napoli e a Roma: i trucchi della sinistra risalgono agli anni '70. E ora la storia si ripete, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 11/03/2016, su "Il Giornale".  Botteghe molto oscure, anche troppo. Molto prima dei magheggi alle primarie con gli stranieri in fila e i napoletani pagati per votare, nelle radici storiche del Pd, cioè nel vecchio Pci, c’è parecchia oscurità, specie sui soldi. Analizzando i documenti si scopre che la «diversità morale» del Pci, rivendicata da Berlinguer, di diverso aveva ben poco, se non la straordinaria reticenza a raccontare pubblicamente come stavano le cose. Una storia ricostruita in un libro da poco pubblicato, Botteghe oscure. Il PCI di Berlinguer & Napolitano (edizioni Ares), scritto da Ugo Finetti, storico giornalista Rai ma anche ex vicepresidente Psi della Regione Lombardia. Tra i documenti che Finetti pubblica per raccontare lo scontro interno al Pci sulla questione morale, ci sono quelli sui fondi occulti del partito comunista, finanziato da Mosca e non solo (la cosiddetta «amministrazione straordinaria» del partito). Dalla relazione di Guido Cappelloni, braccio destro di Armando Cossutta allora responsabile amministrativo del Pci, emergono le preoccupazione di una componente del partito per «gli introiti in nero» cioè le fonti di finanziamento che venivano inserite nel bilancio «senza specificare la provenienza». «Una percentuale altissima», certificò Cappelloni con un numero preciso del «nero» del Pci: ben il 67,7% delle risorse del partito. E la presunta «diversità morale», allora? Enrico Berlinguer risolve i dubbi in un modo emblematico, quando si scoprono nel ’75 le prime tangenti anche al Pci. Mazzette, soldi in nero, nessun problema per il segretario del Pci, che in una direzione del partito spiega la linea: «Occorre ammettere che ci distinguiamo dagli altri non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili, ma perché nel ricorrervi il disinteresse personale dei nostri compagni è stato assoluto». La stessa doppia morale (una per i compagni del Pci, l’altra per i non comunisti) che esibirà nel ’79 davanti alle preoccupazioni per la situazione disastrosa delle finanze del partito, zavorrate da un buco di 17 miliardi di lire: «Dire la verità? Non possiamo mettere tutte le cifre in piazza». Nel libro di Finetti si parla anche dei debiti dell’Unità, il quotidiano organo del Pci e poi del Pd, una vecchia storia che va avanti, tra fallimenti e condoni con i soldi pubblici, da decenni. Quando nel 1984 le perdite arrivano a 75 miliardi di euro, l’allora direttore (fedelissimo di Napolitano) Emanuele Macaluso, dà una nuova versione della diversità morale a sinistra: «La situazione debitoria vera non si è mai detta pubblicamente, perché ciò avrebbe portato a richieste di fallimento». Meglio mentire.

Pd, tra veleni e signori delle tessere. Un partito scalabile con 21 mila euro. Nel capoluogo campano 2.800 tesserati, ogni iscrizione costa 15 euro. Il nodo trasparenza: il potere di veto in mano a pochi e il senso delle primarie, scrive Marco De Marco il 9 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". Le primarie annullate cinque anni fa a Napoli e quelle, su cui infuria la polemica, di domenica scorsa, più o meno compromesse, nonostante l’app anti-brogli, dal cliccatissimo video accusatorio di Fanpage. Il caso Salerno, dove in provincia e città sono molti gli episodi di opacità elettorale di cui si sta occupando la magistratura: dalle urne «insaccate» di schede prevotate, agli elettori pagati con le monete del «Bingo». I fatti di Casavatore, che vedono come protagonista il capogruppo Pd (poi dimessosi) indagato per voto di scambio con l’aggravante del metodo mafioso. Sono tutti segnali di una falla apertasi nel sistema di raccolta del consenso. E tutti suggeriscono un’unica domanda: che fine ha fatto il voto d’opinione? Un partito come il Pd, che sul tema della trasparenza elettorale si è sempre proposto come modello e ha appena impartito una lezione ai grillini a proposito di Quarto, difficilmente potrà ora limitarsi alle solite formule di rito, ai vedremo, faremo e via minimizzando. E tantomeno alle sdrammatizzanti battute di Vincenzo De Luca. I fatti di Napoli? «Babbarìe», da babbà. Sciocchezze, dice il governatore campano ricorrendo al dialetto in uso nell’Agro Nocerino-sanese. Cosa è dunque accaduto in casa Pd? Quale anello della catena, e perché, si è spezzato? Era opinione assai diffusa, tra i politologi e non solo, che la caduta del muro di Berlino avrebbe favorito flussi elettorali dal voto ideologico o di appartenenza a quello di opinione. Ed era ancor più forte la convinzione che un altolà alle pratiche del voto di scambio, specialmente nei territori di camorra, avrebbe ancor di più liberato il voto. La primavera dei sindaci, sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, apparì come una conferma di queste ottimistiche previsioni. La realtà è invece andata da un’altra parte, come confermano i recentissimi fatti di Napoli, per quanto marginali e ancora tutti da accertare. A Napoli, e forse non è un caso, è da dieci anni, dalla riconferma di Rosa Russo Iervolino, che il centrosinistra, di cui il Pd è massima parte, non vince. Il Pd si sta ora arricchendo con forze nuove, naturalmente, ma intanto ha progressivamente allentato i rapporti con molti non professionisti della politica. Tra gli attuali parlamentari non c’è un solo professore universitario; molte personalità di un tempo (l’ex presidente del Cnr Gino Nicolais, il filosofo Eugenio Mazzarella, l’italianista Emma Giammattei) sono impietosamente scivolate ai margini della scena pubblica, mentre hanno conquistato le prime file i figli d’arte, a cui i padri hanno trasferito ingenti pacchetti di tessere. E gli iscritti si sono ridotti al minimo storico. A duemilaottocento, per la precisione, e senza che mai si sia riflettuto sufficientemente su cosa questo comporti. Su cosa può produrre, cioè, il combinato disposto di un partito non più di massa e non ancora di opinione, viste le note difficoltà del renzismo di estendersi in periferia. La prima conseguenza, come si è visto proprio in occasione delle primarie di domenica, è che tutto il potere di veto è tornato nelle mani di pochi signori delle tessere. L’ex sottosegretario Umberto Ranieri, tante per dirne una, non è riuscito a presentarsi alle primarie di Napoli proprio perché ormai fuori da questo giro: servivano 400 firme di tesserati, ma non ce n’erano più di disponibili, avendo già tutti sostenuto altre candidature. Il partito è diventato così un meccanismo perfetto, ma nel senso di perfettamente manovrabile, come può esserlo, insomma, quello di un orologio a cui puoi caricare la sveglia, rinviarla o, se ormai inutile, annullarla. Del resto, come è stato possibile indicare in anticipo quanti sarebbero stati quest’anno i votati alle primarie? Si è detto che trentamila (cioè suppergiù il numero delle tessere moltiplicato, come prassi, per dieci) sarebbe stato un buon risultato. E guarda caso tanti sono stati. E come ha fatto Valeria Valente a stappare lo spumante e a dare l’annuncio della vittoria, con assoluta certezza, a scrutinio ancora in corso, e nonostante si sapesse del risicatissimo margine di vantaggio (452 voti, alla fine)? Mistero. Un partito dove tutto è già scontato non esclude il voto d’opinione, ma certo è difficile che lo incoraggi. Ma per paradosso, un partito così perfettamente controllabile è anche un partito facilmente scalabile. Vuol dire questo. I tesserati, si è detto, oggi a Napoli sono 2.800, ogni tessera costa in media 15 euro. In linea teorica potrebbe bastare un investimento di 21 mila euro per garantire a chicchessia il controllo del 51% del partito. E cioè per rivendicare una adeguata rappresentanza negli organismi dirigenti, indicare le candidature nelle istituzioni, orientare le scelte politiche locali e condizionare quelle nazionali. Un film di fantapolitica? Certo. Eppure ne stiamo già vedendo i primi trailer.

Primarie truccate a Napoli, aperta un'indagine, scrive “Libero Quotidiano” l’8 marzo 2016. Non si placano, come è naturale che sia, le polemiche derivanti dal video pubblicato da Fanpage riguardo lo scandalo che ha visto protagoniste le primarie del Pd a Napoli. Nel filmato si vede come consiglieri comunali e municipali Pd erano piazzati fuori dai seggi a distribuire monete da un euro per poter votare, come previsto dal regolamento. I casi individuati dai giornalisti napoletani prevedevano che il voto fosse indirizzato verso la Valente, candidato vincente di misura contro Antonio Bassolino. In merito alla vicenda l'entourage di Bassolino sta pensando ad un ricorso mentre la procura di Napoli aprirà un'indagine conoscitiva: il procuratore aggiunto Alfonso d'Avino acquisirà il video incriminato e aprire un'inchiesta. Convocata anche la direzione del Pd dal presidente Matteo Orfini per il prossimo 21 marzo per discutere di quanto successo all'interno del partito negli ultimi giorni. 

Suore, boss, caffè pagati Consultazione viziata da trucchi e mancette, scrive Simone Di Meo, Martedì 08/03/2016 su “Il Giornale”. Napoli Perde il pelo ma non il vizio, il Pd. Nel 2011 furono cinesi e camorristi a inquinare le primarie per la scelta del candidato sindaco di Napoli, oggi - cinque anni dopo - le ombre tornano ad allungarsi in particolare sui quartieri controllati dai clan: Scampia, Secondigliano e San Giovanni a Teduccio. I rioni dove la deputata renziana Valeria Valente ha probabilmente conquistato la vittoria grazie a una rete di «galoppini» e di sostenitori dai modi assai disinvolti. Giovani che non hanno avuto remore a distribuire monete da 1 euro ai votanti davanti ai seggi, come testimoniato da un filmato del giornale online Fanpage.it. In un'immagine è addirittura il consigliere comunale Antonio Borriello, ex bassoliniano di ferro tra gli artefici del successo della candidata di apparato, a consegnare i soldi a un uomo. Il mercato delle preferenze dem stavolta è stato meno sfacciato ma non meno movimentato rispetto al passato. Per portare gli elettori a depositare la scheda nelle urne - confida al Giornale un testimone oculare - c'è chi ha distribuito addirittura biglietti per il trasporto pubblico, dal bus al tram alla funicolare. Un piccolo regalo per chi non voleva spendere nemmeno i soldi per titolo di viaggio. Per strappare un voto anche snack da offrire dopo pranzo o di buon mattino. Nei quartieri del centro storico, alcuni fan hanno corteggiato i passanti con la classica tazzulella di caffè. L'aggancio, una chiacchierata veloce al bar di fronte per convincere l'improvvisato elettore con un caffè, e poi di corsa al gazebo a esprimere la preferenza a costo zero. In fila, nella zona del Pendino, dove risiede la Valente, si sono messe pure due suore - immediatamente ribattezzate «le sorelle dem» - che hanno versato l'obolo da 1 euro. Sempre a Secondigliano sono stati visti leader delle cooperative di detenuti, immigrati e disoccupati storici. Erano state presentate come primarie ad alta tecnologia (la segreteria provinciale aveva speso 8mila euro per acquistare 80 tablet su cui installare una app per evitare doppi o tripli voti, mettendo in rete tutti i seggi della città) ma la speranza è durata appena 600 secondi. Dieci minuti dopo l'apertura dei seggi la app è andata in tilt e sono ritornati i vecchi sistemi di conteggio con carta e penna.

Primarie Milano, polemiche su voto cinesi. Pd: “Accuse discriminatorie”. Salvini: “Che pena”. Il voto degli stranieri il primo giorno ha rappresentato il 4 per cento (su un totale di 7mila e 750 persone). Il Partito democratico, dal deputato Fiano al segretario milanese Bussolati, cerca di respingere le accuse in merito a gruppi di cinesi alle urne per Giuseppe Sala. Il leader del Carroccio: "Povera città", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 febbraio 2016. “Il voto dei cinesi per Sala alle primarie di Milano? Polemiche irricevibili e disgustose”. “Gli stranieri al voto? E’ un successo della democrazia”. Mentre la metropoli inizia il secondo giorno di votazioni per la scelta del candidato sindaco di centrosinistra, il Partito democratico cerca di rispondere alle accuse di “operazioni sospette” ai seggi con gruppi di cinesi che vanno alle urne per votare Giuseppe Sala. Dal deputato dem Emanuele Fiano al segretario Pd di Milano Pietro Bussolati, dall’establishment si difende l’iniziativa. Il fantasma per tutti è quello di Genova esattamente un anno fa e Napoli nel 2011 quando proprio il voto degli stranieri creò casi controversi alle primarie e polemiche senza fine. All’attacco il leader del Carroccio Matteo Salvini: “Che pena, povera Milano e povera sinistra”. A raccontare a ilfattoquotidiano.it quello che è successo nelle scorse ore è stato il presidente di seggio della sezione Lama Carlo Bonaconsa: “Non sembra un voto consapevole. Non sanno leggere l’italiano e aprono le schede per chiedere dove votare”. Nel primo giorno di votazioni, in cui erano aperti solo 9 dei 150 seggi previsti per oggi, si sono presenti 7mila e 750 elettori. Il voto straniero ha rappresentato il 4 per cento. Poco prima del silenzio elettorale la comunità cinese aveva espresso il proprio endorsement per il candidato Sala con un annuncio in lingua mandarina, come raccontato dal Fatto Quotidiano. Nel quartiere cinese di Milano (zona Paolo Sarpi) è stato allestito un gazebo dove i rappresentanti della comunità spiegano come andare a votare e si offrono per accompagnare gli elettori alle urne”. Il primo a replicare alle accuse è stato il deputato Pd Emanuele Fiano, ex candidato alla primarie che si è poi ritirato per sostenere Sala: “È inaccettabile”, ha detto, “che chi manifesta contro il razzismo si scagli oggi contro nostri concittadini e connazionali di origine straniera che hanno deciso di partecipare direttamente e coscientemente alla scelta di chi sarà il candidato sindaco”. Fiano, che è anche responsabile sicurezza del Partito democratico, ha aggiunto: “Trovo irricevibili e disgustose le polemiche di alcuni noti e notissimi ‘compagni’ della piazza milanese, alcune che insinuano brogli, altre con chiare venature diciamo discriminatorie, per non dir di peggio. Ancor più a fronte dei dati di affluenza rivelati oggi che parlano di clima di regolarità e correttezza e che indicano nel 4% la partecipazione di cittadini stranieri. Chi oggi alimenta queste polemiche, e magari ieri come noi insorgeva contro la destra dei caterpillar e dei respingimenti in mare, non si vergogna di non gioire oggi che il centrosinistra di Milano nelle sue primarie dimostra che il futuro è già qui, che noi siamo già una città aperta, che l’unico modo di avere integrazione vera è che tutti siano protagonisti della loro vita scegliendo direttamente chi li governa o rappresenta?”. Tutto regolare anche per il segretario metropolitano del Pd di Milano Pietro Bussolati: “L’affluenza ai seggi delle primarie anche di residenti di origine straniera va considerata un successo della democrazia, non un problema. Significa che questi concittadini (che a Milano rappresentano quasi il 15% della popolazione, ed oggi alle primarie hanno votato per il 4% del totale) si sentono parte integrante della vita milanese e vedono in queste consultazioni una grande occasione di partecipazione”.

Boom di cinesi ai seggi per votare Sala, è polemica. Troppi stranieri per Mr. Expo, protesta Sel. Alle urne oltre 7mila persone, il 4% sono immigrati, scrive Chiara Campo, Domenica 7/02/2016, su "Il Giornale".  La Cina non è mai stata così vicina (alle primarie del Pd). Per tutto il week end gli elettori del centrosinistra scelgono il candidato sindaco per Milano, ma già ieri si sono già accese polemiche per i troppi cinesi in fila ai seggi. Sembra una fotocopia del caso Liguria: il candidato alle regionali Sergio Cofferati un anno fa denunciò brogli («un voto inquinato da marocchini e cinesi») e rifiutò l'esito a favore della renziana Raffaella Paita. La storia sembra ripetersi, per tutta la giornata c'è stato un clima di sospetti e accuse dirette ai sostenitori di Giuseppe Sala. I quattro in corsa a Milano - la vicesindaco Francesca Balzani supportata da Pisapia e Sel, il commissario Expo dai renziani, l'assessore Pierfrancesco Majorino e l'outsider Antonio Iannetta - hanno votato tutti ieri mattina. Sala, residente in centro, ha dovuto attendere 40 minuti in coda. Anche lì, elettori con gli occhi a mandorla. «Sono anche loro milanesi, se vincerò spero che entro la fine del mio mandato non verranno più chiamati immigrati ma italiani, sono parte della popolazione». Dovrebbe avere il dente avvelenato: giorni fa ha ammesso che dei crediti milionari che la società Expo deve ancora riscuotere all'estero, la quota maggiore (e ad alto rischio) riguarda proprio la Cina. Ma qui sembra avere molti fan. In qualche negozio della Chinatown milanese ieri venivano mostrati facsimile della scheda elettorale con la croce sul nome Sala («ci hanno detto che è buono per noi cinesi»). Nel quartiere è stato allestito anche un gazebo per dare informazioni sul voto, all'inizio con i manifesti dei candidati (con una sproporzione pro Sala), poi dopo le prime proteste al comitato dei garanti sono spariti. In zona Isola, stesso tifo per Mr. Expo: alcuni cinesi a domanda negano di essere elettori Pd «siamo qui per votare Sala, tutti i cinesi votano Sala». In viale Monza viene allontanato un orientale che distribuisce ai connazionali in fila il «santino» con il nome di Mr. Expo. Si creano momenti di tensione nel pomeriggio quando arrivano a gruppi e vogliono compilare collettivamente i moduli. Un rappresentante di lista riferisce che «c'erano persone che indirizzavano i votanti cinesi, gente portata qui in maniera evidentemente organizzata. Abbiamo visto una donna con una busta che conteneva passaporti e permessi di soggiorno. Movimenti che non si capivano». Viene convocato il segretario milanese del Pd, il renziano Pietro Bussolati, che difende la correttezza delle operazioni: «La comunità cinese ha espresso la volontà di partecipare alle primarie, proprio Sel aveva chiesto di aprire il voto agli immigrati e ora non comprendo le proteste». Matteo Salvini della Lega ha commentato: «Che pena, povera Milano e povera sinistra!». In serata Sel ha provato a gettare acqua sul fuoco ma le comunità straniere di Milano sono intervenute parlando di pregiudizi. L'affluenza ieri è stata di 7.750 elettori (il Pd ne attende almeno 67mila), il 4% stranieri. I seggi rimarranno aperti oggi dalle 8 alle 20.

Salvini: "Cinesi alle primarie del Pd. Povera Milano, povera sinistra". "File di cinesi, molti dei quali intervistati dalle tivù non parlano neanche italiano, votano il renziano Sala alle primarie Pd per Milano. Che pena, povera Milano e povera sinistra!". Così il segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini sulle primarie democratiche, scrive Luca Romano, Sabato 6/02/2016, su "Il Giornale". Milanesi in coda per la prima giornata di primarie del centrosinistra, che decideranno chi sarà il candidato sindaco della coalizione tra Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino e Giuseppe Sala. Ad attendere l'esito è anche il centrodestra che poi scoprirà le sue carte e, soprattutto, il nome del suo candidato sindaco. Ma la prima giornata della consultazione popolare per scegliere il candidato sindaco è stata segnata dalle polemiche sul voto degli immigrati. Ad attaccare è il segretario della lega Matteo Salvini, che se la prende con l'afflusso di cinesi nei gazebo: "File di cinesi, molti dei quali intervistati dalle tivù non parlano neanche italiano, votano il renziano Sala alle primarie Pd per Milano. Che pena, povera Milano e povera sinistra!". Il Pd respinge le critiche: il responsabile sicurezza Emanuele Fiano le bolla come "irricevibili e disgustose". I cittadini stranieri che hanno votato, sottolinea, sono stati il 4 per cento, e tutti regolarmente residenti a Milano. Intervengono anche le associazioni delle varie comunità straniere: somali, cinesi e sudamericani hanno diffuso una nota congiunta in cui smentiscono che ci sia stato "voto di scambio". Oggi i seggi allestiti erano 9, uno per ogni zona della città, aperti dalle 8 alle 18. I votanti sono stati 7.750. Le code ai seggi sono iniziate poco dopo l'apertura e, sempre in modo ordinato, sono proseguite per raggiungere il picco in tarda mattinata. Come hanno sottolineato gli organizzatori delle primarie le file di oggi sono dovute al fatto che i cittadini di ogni zona avevano a disposizione solo un seggio per il voto, mentre domani saranno 150 quelli aperti in tutta la città, dalle 8 alle 20. In coda per votare si sono messi questa mattina anche i quattro candidati. Il primo è stato Iannetta che ha votato ad un circolo Pd di Porta Genova verso le 10. Stesso orario, le 11, per i due candidati e colleghi nella giunta Pisapia, Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino. La prima ha votato al circolo Pd Molise-Calvairate in Zona 4, accompagnata da marito e figli. "Speriamo che tanti milanesi vadano alle urne - ha commentato la vice sindaco - per arrivare così al cuore delle primarie, che è il protagonismo dei cittadini". Stessa impressione positiva per l'assessore alle Politiche sociali del Comune, Majorino, che ha votato in Zona 5: "Mi pare una grande festa democratica e popolare - ha detto - e a quanto ho visto tutto sta procedendo bene". Alle 12 si è presentato al seggio della zona 1, quella del centro città, anche il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, accompagnato dalla moglie. Per lui la coda è durata circa 40 minuti. "In coda forse mi toglierò un po' di ansia - ha spiegato ai cronisti - del resto per me è la prima volta come candidato. Se le code ci sono c'è da aspettarsi una bella affluenza". Mentre il centrosinistra sceglie il suo candidato il centrodestra attende ma ancora "per pochi giorni". "Se non è questione di ore è questione di giorni - ha spiegato il consigliere politico di Forza Italia, Giovanni Toti, parlando della scelta del candidato a margine di un incontro del partito a Milano -. Subito dopo le primarie arriverà la nostra scelta". Se il candidato sarà l'ex city manager del Comune di Milano, Stefano Parisi, "immagino dovrà essere lui ad accettare definitivamente l'investitura", ha concluso.

La sinistra e le primarie, da Ceppaloni a Savona dieci anni di brogli (o presunti tali). Numeri che non tornano, sospetti di voti acquistati e di preferenze che transitano da un candidato all’altro, denunce alla procura, «truppe cammellate» eterodirette verso questo o quel nome. Da quando, nel 2005, le primarie sono state introdotte anche in Italia, divenendo per il Pd il principale strumento di selezione della propria classe dirigente, lo spettro delle irregolarità è sempre stato dietro l’angolo. E in alcuni casi, quell’angolo, è stato pure superato, scrive Massimiliano Del Barba il 9 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera".

1.Ceppaloni, 2005. Pronti, via. Neanche il tempo di lanciare le primarie — salutate dal centrosinistra come strumento trasparente e democratico — ed è già polemica. È l’ottobre di sedici anni fa e l’Unione chiede al popolo del centrosinistra di scegliere il proprio leader. Alla corsa, poi vinta da Romano Prodi, partecipa anche il segretario dell’Udeur, Clemente Mastella. Il quale subito lancia un’accusa di boicottaggio: «Oggi è una bruttissima giornata, hanno negato a me, al mio paese e alla mia gente di andare a votare. Sono le 11 di mattina e già mancano le schede. Se non ci vogliono lo dicano». (Ps: fu lo stesso Mastella, 21 mesi dopo, a far crollare il governo Prodi).

2. Napoli, 2011. Diceva Giambattista Vico che la storia è circolare. E a Napoli, almeno per quanto riguarda le irregolarità durante le primarie, l’eterno ritorno è legge. Se dopo il voto di domenica 6 marzo 2016 è scoppiata al polemica per la distribuzione di monete da un euro fuori dai seggi e l’indicazione di che candidato votare, forse è il caso di tornare al 2011. Anno in cui il Pd campano organizzò le primarie per scegliere il candidato sindaco tra Andrea Cozzolino e Umberto Ranieri (vinse Cozzolino). Consultazioni che indignarono addirittura Roberto Saviano: oltre a presunti brogli e pagamenti, infatti, si parlò anche di possibili infiltrazioni della camorra.

3. Palermo, 2012. Un anno di distanza, qualche centinaio di chilometri più a sud e di nuovo l’ombra dei brogli torna a stagliarsi sulle primarie del Pd. Molti osservatori politici considerano quello di Palermo nel 2012 un caso — negativo ovviamente — da manuale. Anche lì indagini della Procura con una donna beccata in un gazebo del quartiere Zen mentre acquistava voti per un euro durante le consultazioni per individuare, fra Fabrizio Ferrandelli e Rita Borsellino, i “candidati alla candidatura” di sindaco del capoluogo siculo (consultazione poi vinta da Ferrandelli).

4. Brindisi, 2012. Regione che vai, (accuse di) brogli che trovi. Brindisi, dicembre 2012. Nella città pugliese vanno in scena le parlamentarie di Sel e del Pd. Due anni dopo trenta scrutatori vengono accusati di aver inserito negli elenchi dei votanti persone che non si erano mai recate al seggio. Il procedimento è ancora in corso.

5. 2013, la sfida per la segreteria pd. Nel gennaio 2015 alla Procura di Firenze si presenta il quarantatreenne Maurizio Martigli, ex rosticcere (senza lavoro da sei mesi) e tesserato Pd. L’uomo, originario di Firenze, presenta una querela per una presunta compravendita di voti alle primarie per la segreteria del partito del 2013, quelle vinte dall’attuale premier. Scrive Martigli ai pm: «Nel dicembre 2013 fui contattato da un cliente che abitualmente frequentava la rosticceria in cui lavoravo e mi venne proposto un accordo: votare Renzi alle primarie per far sì che le potesse vincere. Tutto questo era pagato con un compenso di 50 euro più 15 per la tessera del Pd».

6. Roma, 2013. Truppe cammellate, in questo caso di rom, ai seggi. Sono le primarie che hanno scelto Ignazio Marino come candidato sindaco di Roma (elezioni poi vinte, e sappiamo come è andata). Qui l’accusa — lanciata dal Movimento 5 Stelle — era di aver pagato (10 euro a testa) 10 mila rom per recarsi a votare. Questa la risposta di Marino: «I rom a Roma sono 7.000, compresi i bambini, e a votare sono state 100.078 persone e poi chi ritiene un flop l’affluenza alle urne avrebbe dovuto farlo anche per i 533 voti del candidato del M5S». Un tema, per altro, ripreso in questi giorni dal commissario straordinario del partito nella Capitale, Matteo Orfini, il quale parlando dell’affluenza nella tornata 2016 ha detto: «La volta scorsa c’era il Pd delle Truppe cammellate di quelli che sono stati arrestati, delle file di rom e quant’altro questi sono dati veri di un partito vero che per fortuna ha ancora tanto lavoro da fare e sta rinascendo».

7. Calabria, 2014. Mille e cinquecento voti in dodici ore. Praticamente una scheda ogni 27 secondi. È quanto accaduto nel 2014 a Diamante, piccolo centro in provincia di Cosenza. Almeno così hanno denunciato alcuni esponenti dem, mostrando i numeri delle consultazioni per scegliere il candidato alla segreteria regionale del Pd.

8. Liguria, 2015. Accusa simile (truppe cammellate) quella lanciata un anno dopo da Sergio Cofferati, candidato sconfitto alle primarie del centrosinistra per decidere il candidato governatore della Liguria. Vinse Raffaella Paita, che poi perse contro Giovanni Toti. «Gravi violazioni delle regole, inimmaginabili — è stata l’accusa di Cofferati —. Mi sono stati segnalati numerosissimi casi di violazioni esplicite, di inquinamento in corso molto pesante, non soltanto col voto della destra ma anche con quello di intere etnie organizzate, come nel caso dei cinesi alla Spezia e dei marocchini a Ponente».

9. Napoli, 2016. Cinque anni dopo, ancora Napoli nel centro del mirino. Napoli, Scampia, lotto T, le immagini di Fanpage mostrano un tizio che invita un elettore a votare Valeria Valente. In un frame successivo consegna una moneta di un euro «per la donazione al partito». Seggio 46, San Giovanni a Teduccio, zona orientale. Gennaro Cierro, capogruppo pd della municipalità, intercetta alcuni conoscenti. Stando a quanto riportato dal sito c’è uno scambio di denaro. Seggio 58, Piscinola, area nord: alcune persone distribuiscono monete ai votanti. Seggio 61, Scampia (seggio in cui ha vinto Bassolino, mentre negli altri tre Valente), sarebbe ripreso ancora uno scambio di denaro. Seggio 45, San Giovanni a Teduccio, il consigliere comunale Tonino Borriello parrebbe elargire un euro a suoi conoscenti. In poche ore il video diventa virale.

LA DEMOCRAZIA A MODO MIO.

Rievocazioni e vocazioni. Mussolini e dintorni di Giuseppe Paolo Samonà. Mussolini fascista e Mussolini socialista. Mussolini pacifista, o meglio guerriero contro la guerra e Mussolini interventista. Mussolini direttore dell'«Avanti!» e Mussolini padrone del «Popolo d'Italia». Le antitesi, comprensibilmente forse, più vituperate che analizzate; o magari, dall'enorme mole di lavoro di De Felice, descritte. Entro questo quadro si può registrare di recente una novità positiva: la ricerca di Gerardo Bozzetti su Mussolini direttore dell'«Avanti!» pubblicata di recente da Feltrinelli e della quale ben si può dire che tenta di entrare nel cuore. di una di queste antitesi (e quindi anche delle altre, dato il loro evidente collegamento). A dire il vero, c'era stato in passato qualche tentativo in questo senso, ma si era trattato di tentativi più o meno celatamente propagandistici, di parte riformista moderata, per mostrare la continuità stilistica, e non solo, fra il Mussolini massimalista e quello nazionalista e poi fascista; il che avrebbe dovuto insinuare il sospetto di una più sostanziale continuità politica, spia di una intrinseca intercambiabilità fra opposti estremismi. Il libro di Bozzetti, pure di matrice visibilmente socialista di destra e pieno di simpatia (critica, peraltro) verso i Turati e i Treves, è ben superiore a simili semplificazioni, come è manifesto innanzitutto dalla appropriatezza dei passi mussoliniani riportati per svolgere via via il filo degli avvenimenti e delle argomentazioni. Questa ricerca, cosa rara per tale tipo di temi, è inoltre condotta senza tarpanti tabù ma anche senza quei compiacimenti ostentatori di obiettività che sembrano talvolta servire a De Felice per celare surrettizie velleità di rivalutazione del protagonista dei suoi studi. Indicativa a questo proposito è la narrazione di un piccolo episodio fatto da Ugoberto Alfassio Grimaldi in apertura della sua prefazione: La sera del 26 settembre 1978 Gherardo Bozzetti ed io, mentre davanti al primo canale televisivo vedevamo l'ultima puntata di «Alto tradimento», la trasmissione dedicata a Cesare Battisti, trasalimmo nel cogliere una «perla» madornale. Si diceva che il protagonista nell'agosto del 1914, lasciata Trento per non più ritornarvi che per offrire il collo al cappio del boia, si dirige a Milano per cercarvi il direttore dell'Avanti! Morgari: fattoselo indicare da un cameriere in un bar, lo elogia per il successo del foglio e per il modo con cui lo conduce. Il direttore dell'Avanti!, allora, era Mussolini: Oddino Morgari aveva, si, diretto quella testata, ma nel 1908. Un semplice errore materiale o un ritorno al vecchio tabù? La cultura socialista italiana ha fatto fatica ad ammettere di aver espresso fisiologicamente dal proprio seno Benito Mussolini. Ma vediamo la tesi in cui Bozzetti mostra di riuscire convincente ripercorrendo il biennio di esordio di Mussolini come figura importante della scena politica italiana e come uno dei protagonisti di quella giornalistica: la scintilla che catalizzò quel tanto di energia interiore per l’«arvultaja» (la capriola) fu la prospettiva immediata di diventare padrone assoluto di qualche cosa: il giornale interventista «Il Popolo d'Italia », interamente suo. Mi sembra molto ragionevole; molto più, per esempio, che attribuire a Mussolini chissà quale lungimirante opportunismo. Certo il futuro duce (nome che a dir la verità gli nacque ai primi del secolo, in ambito socialista forlivese) si rendeva conto che il pacifismo andava perdendo terreno e, sfumati i bollori giovanili, che era una barca da abbandonare; ma ciò si rese visibile e palpabile come prospettiva politica e pratica solo con la possibilità di diventare padroncino da autorevolissimo direttore quale era. Una parte della ricerca di Bozzetti è tesa giustamente a dimensionare quella libertà che a Mussolini veniva appunto dall'essere autorevole, non solo all'«Avanti!» ma in tutto il socialismo italiano; perché in effetti il partito era sì in buona misura infatuato di Mussolini, ma non più che di infatuamento si trattava, se è vero che il direttore dell'« Avanti!» andò via praticamente solo, pur se tra i suoi gerarchi di ogni calibro non saranno pochi quelli che avevano cominciato da una milizia PSI. Questo però non vuol dire che Mussolini fosse stato un corpo estraneo nel socialismo italiano, bensì che lo diventò col tradimento (che sia consentito continuare a scrivere fuori di virgolette non in deroga ma in omaggio a quella obiettività che tanto calorosamente viene sempre raccomandata sull'argomento non solo da De Felice ma ormai anche da tanti fautori della necessità di trattare il fascismo alla stregua di una corrente politica come le altre. Di ciò però si dirà più avanti). Si può ben dire che Mussolini direttore dell'«Avanti!» è innanzitutto una esemplificazione dimostrativa di questa fisiologicità di Mussolini al socialismo italiano. Piuttosto che ripercorrere fase per fase l'itinerario di Bozzetti, credo sia il caso di raccomandarne la lettura a chi è interessato, anche in senso lato, all'argomento, che presenta, a mio avviso, aspetti attualissimi. Prima di trattare i quali, però, mi sembra opportuno menzionare una fonte, o meglio un punto di riferimento importantissimo cui Bozzetti – come tutte le ricerche serie sul Mussolini di quel periodo - si rifà più volte: il libro della scrittrice anarchica Leda Rafanelli, intitolato Una donna e Mussolini. Si tratta del carteggio che negli anni '13 e '14 (fino appunto al tradimento) l'autrice ebbe con Mussolini, di lei fortemente invaghitosi. Le lettere sono inserite in una sorta di intelaiatura diaristica della Rafanelli, i cui moduli letterari e sentimentali datati nulla tolgono a una notevole capacità psicologica sostenuta da salde convinzioni rivoluzionarie, pur se di generico indirizzo anarchico. Una finestra, una delle poche dal vivo e fuori dalle ricostruzioni romanzate, sul Mussolini privato, e che costituisce uno strumento prezioso per tutta la ricostruzione di una personalità, ma ancor di più, eventualmente, per la comprensione del periodo cruciale del biennio in cui il carteggio ebbe luogo. Non meno preziosa testimonianza delle lettere è la memoria dell'allora giovane Rafanelli, che fra i suoi miti estetizzanti e una non meno estetizzante infatuazione (duratura, peraltro) per la fede musulmana, poco posto lascia a digressioni autoapologetiche e che sembrino comunque posticce e giustificatorie (tutto il libro è anzi un'ampia ammissione dell'inganno in cui era caduta nel suo periodo di frequentazione mussoliniana pur talora con più di un sospetto premonitore). Notevole per esempio (e crediamo debba averci riflettuto anche Bozzetti) questo squarcio di ricordo su un momento di abbandono da parte del direttore del quotidiano socialista: «Tanti ricordi mi addolorerebbero, se avessi il tempo di pensarci... Ma il tempo incalza, e bisogna correre... Ho il terrore del tempo che incalza invano. Vorrei fare tante cose... Ed ora sono incerto, scontento, irrequieto... Mi sento negato e fuori posto.» «Eppure credevo che, essendo arrivato ad essere direttore del massimo giornale socialista, dovreste essere contento.» «Non sarò mai contento, io! Vi dico, ho bisogno di salire, di fare un balzo in avanti, in alto... Ma ho bisogno di una spinta... di un appoggio. Vorrei che tutti parlassero di me... divenire l'uomo del giorno... l'uomo del destino...»

«Come Napoleone...» dissi leggermente ironica. «Ancora più di Napoleone.» Notevoli anche, fra l'altro, alcune premonizioni (ricostruite con una credibilità che le fa sembrare autentiche) dell'infidezza mussoliniana che l'autrice trae da una capacità straordinaria di concentrarsi sui piccoli episodi; capacità che in lei compensa spesso la cattiva letteratura, tutt'altro che assente dalle sue pagine. L'enigma Mussolini non sta naturalmente nell'«arvultaja», in sé, di cui questi due libri, meglio di tanti altri magari più vasti e organici, ci danno credibili chiavi di interpretazione. Sta piuttosto nel tipo di consenso che il capo del fascismo riuscì a raccogliere. Bisogna guardarsi in proposito dalla vulgata qualunquistica, secondo la quale tutti gli italiani furono fascisti; ma che consenziente o benevolmente indifferente ful'intelligenciia, è difficile negarlo. Come è difficile negare che questa intelligencija fu in gran parte consenziente con ciò che venne dopo la guerra. Desiderio di adattamento certo; ma solo questo? La personalità di Mussolini (o per meglio dire i connotati culturali e antropologici di essa) non è che un solo elemento del fenomeno fascista italiano. Non è però un elemento secondario. Il che è meno ovvio di quanto sembra, perché la sinistra italiana - marchiata durevolmente sul piano culturale dagli aspetti oggettivistici dello stalinismo (da quelli soggettivistici fu influenzata piuttosto sul piano più direttamente politico) - ha sempre provato un'acuta diffidenza verso indagini del fenomeno fascista che in qualche modo tendessero a vedere nel fascismo radici che non fossero da ricercare tutte nella destra post-unitaria.[iii] Stando così le cose, se davvero si dovesse approfondire il discorso sulla organicità del primo Mussolini - che palesemente conteneva tutte le premesse del futuro duce - alla cultura populista italiana, si andrebbe a una notevole svolta in senso autocritico di tutta la nostra cultura di sinistra. E qui vorrei dire, magari brutalmente, perché trovo questa tematica di estrema attualità. La sinistra italiana, sia storica che non, sta esaurendo un suo ciclo, non perché c'è il famoso riflusso ma perché alle «generose illusioni» del '68 studentesco non crede più nessuno, pur se quella spinta non si è esaurita. Per lo spettacolo che gli intellettuali PSI-PCI - e anche di estrema sinistra - stanno in gran parte offrendo non è il caso di trovare aggettivi: l'invettiva non aiuta l'analisi. È d'obbligo inoltre non fare d'ogni erba un fascio, purché però non si giunga alla conclusione che l'erba non esiste o che le sue varietà sono numerose quanto i suoi fili. Nell'ambito di quelle mutazioni di rotta indotte in molti militanti (che in qualche modo vogliono continuare) per la delusione che la storia non ha seguito le bubbole in cui credevano dieci e meno anni fa, mi sembra sensato distinguere tre atteggiamenti culturali fondamentali: il primo, molto buonsensistico piccolo borghese ma anche piuttosto diverso dagli altri due, consiste nel riguardare all'impegno degli anni ruggenti con l'animo con cui un maturo scienziato dalla candida barba ripensa all'acne giovanile; di solito si sceglie per queste elegiache esibizioni il PCI o i suoi immediati paraggi, come ha fatto l'infaticabile viandante di sinistra Corvisieri. Il secondo consiste principalmente nel ritenere che l'unico punto valido di quell'impegno sia l'avversione al PCI, la quale è, beninteso, da incrementare trasformandola in una avversione, non sempre dissimulata, per tutto il movimento operaio e la sua storia: in questo caso la scelta craxiana è molto praticata, anche perché tiene al riparo - tranne le poche soubrettes - da sguardi culturalmente indiscreti e può indurre gli interlocutori a qualche cautela per quel relitto di falce e martello rimasto per ogni evenienza sotto lo straripante garofano a ombrello (per esempio: riesce difficile credere che su questo genere di copertura non abbia contato Giampiero Mughini al momento in cui ha progettato di far pubblicare nientemeno che sull'«Avanti!» il risultato di un suo cordiale incontro con la fascista Gianna Preda, redattore capo del «Borghese»; i retroscena dell'episodio incredibile ed erroneamente sottovalutato in tutta la sinistra, sono stati riassunti dall'«Espresso» del 6 maggio scorso, con accompagnamento di interviste a esponenti dell'area nuovofilosofeggiante italiana favorevoli sostanzialmente al Mughini in nome della «non demonizzazione» dei fascisti). Il terzo atteggiamento, contiguo al precedente non solo numericamente, prevede la scoperta dell'interclassismo e della proprietà privata come novità rivoluzionarie del giorno nonché unico antidoto al gulag, e tante altre cose dello stesso genere; l'area caratterizzata da questi motivi si pone esplicitamente come quella del riciclaggio in senso filocapitalista di trucioli (ma sono miriadi) dell’estrema sinistra e in particolare di Lotta Continua, che vi apportano fra l'altro un odio antisindacale praticamente illimitato; tutto ciò trova il suo punto di coagulo attualmente nel Partito radicale, il quale in sé non è certo portatore di mascherate istanze autoritarie, come troppo spesso mostra di credere il PCI (ma è un'altra variante dei suoi tic stalinisti): certo però è questo entourage del PR - con il suo disprezzo per la cultura e per le idee, con la sua pratica quotidiana di una incontrollata violenta verbosità, con la sua abitudine alla pratica di un domestico culto della personalità - a costituire un terreno di coltura per personalità carismatiche in transito da sinistra verso destra, e che giustamente scelgono Pannella come compagno di spensieratezze anticomuniste. Certo la storia non si ripete mai identica, ma è anche vero che per l'«arvultaja» dalla rivoluzione socialista al punto di vista in un modo o nell'altro capitalistico, le vie non sono infinite. E i motivi ricorrono, con le dovute varianti ma con notevoli analogie: il culto per l'azione di timbro gentiliano, l'ansia di rimanere tagliati fuori da chissà che cosa... tutto ciò nei momenti d'ascesa può diventare il torrente spontaneista, in quelli in qualche misura difensivi può invece assumere il ghigno del Mussolini della crisi 1914. Mi rendo conto sin qui di avere fatto soprattutto delle enunciazioni, sia pure sulla base di ipotesi a lungo personalmente meditate. Passare a esemplificare una volta o l'altra sarà necessario, e allora bisognerà spingere il discorso sino in fondo e con tutte le pezze d'appoggio. Ma non c'è fretta. Perché ne vedremo delle belle. E gli ex uomini di sinistra che vorranno contribuire a mobilitare la piccola borghesia contro la classe operaia - come del resto già incominciano a fare - daranno del loro agire esempi pratici tali che varranno meglio di ogni pur necessaria citazione virgolettata, di ogni bibliografia e di ogni tipo di chiosa. A quel punto - se sarà superata la diffidenza del marxismo rivoluzionario italiano per la speculazione sovrastrutturale; se sarà affermata una accezione più limitata e rigorosa del termine fascismo, che in ogni caso non coincide strettamente con mussolinismo -, a quel punto, davvero, sarà opportuno riprendere il libro di Bozzetti e quello della Rafanelli e ristamparli in economicissima a grande tiratura.

Il culto del Duce Quando Benito era una divinità. Al MuSa di Salò bronzi, statue, ritratti di Mussolini: testimonianze di una «fede popolare» durata vent’anni, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale". C’ è Mussolini futurista, c’è Mussolini dalla mascella volitiva e marmorea, c’è Mussolini che si trasfigura nel fascio littorio, ci sono innumerevoli Mussolini equestri, c’è il meraviglioso Mussolini di Renato Bertelli del ’33, una terracotta dipinta di nero con il Profilo continuo del Duce, identico da qualunque parte si guardi, l’occhio dell’Insonne che controlla a 360 gradi, che tutto vede, tutto sa e tutto risolve – quando gli italiani si sussurravano «Se lo sapesse lui...» - e poi c’è, 1937, anno XVI dell’Era Fascista, il Mussolini di Albino Manca, che sguaina la spada dell’islam, e c’è un piccolo esercito bronzeo di Mussolini-mascelloni, c’è un bizzarro «pezzo» di Antonio Ligabue, un bronzetto del 1942-43 che raffigura Mussolini a cavallo, realizzato su commissione, rifatto due volte (evidentemente un po’ malvolentieri): il Capo, come l’artista, ha gli occhi e l’espressione da pazzo...E poi c’è un elegante Mussolini in marsina, un gigantesco Mussolini di cemento ricoperto di lamine d’ottone, e c’è la fantastica e fantascientifica Espressione immaginativa del Duce di Barbara (all’anagrafe Olga Biglieri), un volto di Mussolini in marmo statuario che è - in bianco - la maschera di Dart Fener, cinquant’anni prima, e chissà se George Lucas l’aveva visto su qualche catalogo... C’è l’intero catalogo della figura e del mito di Mussolini nelle sale del terzo piano (lo stesso della sezione permanente sulla Rsi) del MuSa, il museo di Salò che oggi inaugura la mostra – durerà un anno esatto, fino al 28 maggio 2017 – Il culto del Duce. L’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolini voluta, pensata e realizzata dallo storico Giordano Bruno Guerri, direttore del museo e presidente del Vittoriale degli Italiani, la casa di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera, poche migliaia di metri da qui. «In gioventù Benito Mussolini era stato un attento lettore di Gustave Le Bon, lo studioso di psicologia delle folle – ci dice Giordano Bruno Guerri che ci accompagna in una visita in anteprima -, e aveva ben presente il suo famoso aforisma: “Una credenza religiosa o politica si fonda sulla fede, ma senza i riti e i simboli la fede non può durare”. E così il Duce trasformò il fascismo in una religione, e se stesso in un dio». Ed eccola, la religione fascista e il suo dio: la divinizzazione procede in ordine cronologico, attraverso due grandi sale e un centinaio di opere (quasi tutte di collezionisti privati e mai viste prima) di artisti sconosciuti, noti, meno noti e celeberrimi, da Salvatore Monaco a Giacomo Balla, da Fortunato Longo a Ernesto Michaelles in arte Thayath (autore del Dux prettamente futurista), da Enrico Prampolini a Mino Delle Site: in tutto 33 sculture e decine e decine di xilografie, dipinti, incisioni, ceramiche (alcune, colorate, bellissime). Iconografie di vario tipo e materiale. Nessuna celebrazione, ovviamente. Ma, per tagliare la testa alle polemiche che pure da giorni agitano questa sponda del Garda, solo la volontà, dice Giordano Bruno Guerri e gli fa eco il sindaco di Salò Giampiero Cipani, di studiare i vari momenti del fascismo, che proprio qui morì: «La mostra è storico-artistica, non politica». E infatti è la prima di una serie che sotto l’occhiello «Il lungo viaggio attraverso il fascismo» per citare Ruggero Zangrandi, racconterà prodromi, glorie, tragedie ed epilogo del Ventennio: il prossimo anno sarà la volta di antifascismo e Resistenza. Intanto, mentre in Italia non c’era ancora l’antifascismo ma solo 45 milioni di fascisti, prima dell’entrata in guerra e delle disillusioni, l’illusione era massima, e il consenso montante. Si inizia negli anni Venti con un Mussolini ancora liberale, ritratto in cravattino e collo di camicia inamidato, dall’aria giolittiana (come in Per la battaglia del grano di Romeo Pazzini, del 1927) e, semmai, risorgimentale, un padre della Patria più che il Primo degli italiani. Poi, negli anni Trenta, dopo il Concordato, alla «fede» del littorio si sovrappone il culto del Duce come strumento di affermazione del regime. «Il carisma di Mussolini fu istituzionalizzato, rafforzato, impostato dalla propaganda divenendo il medium tra la fede delle masse e il futuro della nazione», spiega Giordano Bruno Guerri. E il Duce diventa il prodotto mainstream e vendutissimo della fabbrica del consenso. Mussolini è statista, legislatore, filosofo (c’è una meravigliosa xilografia di Mussolini-Machiavelli di Carlo Guarnieri), scrittore, artista, profeta, messia, maestro infallibile, inviato da Dio, eletto dal destino e portatore di destino, come ha scritto Emilio Gentile. È l’Uomo della Provvidenza. E la Provvidenza ha i suoi corifei. Che raffigurano il Duce sempre più forte, fiero, potente. Mussolini ad un certo punto dismette gli abiti borghesi, si rasa e indossa soltanto divise e camicie nere, oppure la toga romana da Imperatore. E, nella sua apoteosi, è a petto nudo: senza vestiti supera tutte le divisioni di classe. Infatti la seconda parte della mostra – che a dispetto di possibili contestazioni si snoda dentro le sale del museo permanente della Repubblica sociale italiana: alle pareti è appesa la gloria effimera dei Colli fatali, in mezzo si vive la tragedia dell’Italia divisa e sconfitta – si chiude con il gigantesco «dipinto museale» di Alberto Beltrame, una tela 220x117 intitolata Verso la meta che rappresenta Mussolini completamente nudo e vincitore. E che sintetizza la concezione ideologica del pensiero fascista e della sua rivoluzione. Poi sarà il momento dell’Impero e dell’ora fatale, quando il Duce, in fase bellica, è sempre raffigurato con l’elmetto e, metaforicamente, il pugnale in bocca... Quanti volti ha l’Uomo. L’uomo Mussolini ha mille volti, ma è sempre se stesso. Cambia tutto, eppure il piglio marziale resta uguale. C’è un curioso Mussolini su un cavallo imbizzarrito che intima di tacere alle personificazioni di Stati Uniti, Inghilterra e Francia che guardano timorose. C’è un incredibile Mussolini con gli occhi azzurri. C’è un piccolo ritratto stilizzato di Mario Sironi, c’è un ritratto aeropittorico, ci sono alcuni «pezzi» anonimi e di mano «semplice» che testimoniano la fede popolare nel Duce (l’idea della mostra è di portare fuori dalle case le «opere» dell’epoca, quelle realizzate da donne e bambini: ricordate il ritratto del Duce fatto con i bottoni da Sophia Loren in Una giornata particolare? Ce ne sarebbero di storie da raccontare...). E, infine, c’è il manifesto del plebiscito per le elezioni della Camera dei fasci del 1934: un collage di Mussolini e il popolo italiano che sembra anticipare la pop art di Roy Lichtenstein. A proposito. Per la cronaca, e per la propaganda, gli iscritti a votare furono 10 milioni e 526mila 504, i votanti 10 milioni e 61mila 978, i favorevoli il 99,8% e i contrari – perché il regime sa tollerare il dissenso – lo 0,15%, ossia 15.201 italiani. Quando l’Italia, insomma, concedeva il massimo consenso al Duce.

Fratelli coltelli. Come Alessandra e Rachele Mussolini. Storie di fratelli su fronti politici diversi. Il contrasto più clamoroso fu tra Antonio Gramsci, fondatore del Pci, e il fratello Mario, fascista e aderente alla Rsi. Ma i casi di fratelli e sorelle con idee politiche contrarie non sono rari. E i dissapori, anche per le prossime amministrative, rischiano di avere lunghi strascichi familiari, scrive Valeria Palumbo il 6 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

1. Antonio e Mario Gramsci. Uno, Antonio (1891-1937), è il fondatore, nel 1921, del Partito comunista italiano. L’altro, Mario (1893-1945), fondò la sede di Varese del Partito nazionale fascista. Antonio morì il 27 aprile 1937, pochi giorni dopo essere stato rimesso in libertà totale e dopo anni di persecuzioni fasciste. Al suo funerale, della sua famiglia, c’era solo il fratello più piccolo, Carlo (1897-1968). Mario Gramsci aveva combattuto nella Prima guerra mondiale, fu segretario cittadino del Partito fascista a Ghilarza, poi si spostò a Varese. Partì volontario per l’attacco all’Etiopia e nella Seconda guerra mondiale. Aderì alla Rsi, fu catturato dai partigiani, consegnato agli inglesi e spedito in un campo di prigionia in Australia. Lì si ammalò: morì in ospedale al ritorno in Italia. Dopo anni di silenzio con il fratello Antonio, cercò di mitigare la durezza della sua prigionia.

2. Rita e Nando Dalla Chiesa. Figli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982, Rita (1947) e Nando (1949) hanno storie professionali e politiche diverse. Nando è professore associato di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Milano, presidente di Libera e fondatore di Società civile. Nel 1992 è stato capolista della Rete a Milano-Pavia; nel 1993 fu candidato sindaco a Milano; nel 1994 fondò Italia democratica; nel 1996 è entrato in Parlamento con i Verdi e ha fatto parte della direzione nazionale del Pd. Rita è conduttrice televisiva: a inizio 2016 Giorgia Meloni ha lanciato il suo nome come candidata sindaca per il centrodestra a Roma. La candidatura non ha avuto seguito.

3. Giovanni e Maurizio Ferrara. Giovanni (1928-2007) professore di storia antica, senatore repubblicano, di mentalità liberale e firma del Mondo di Pannunzio e poi di Repubblica. Maurizio (1921-2000), comunista ortodosso, togliattiano, ex partigiano, di natura ribelle, padre del giornalista teocon Giuliano. Giovanni e Maurizio: il padre Mario, liberale, crociano, amendoliano, gobettiano, ha pagato amaramente il suo antifascismo. Giovanni lascia un libro inedito alla morte, Il fratello comunista, pubblicato da Garzanti: «Comunista, mio fratello Maurizio fu per quasi tutta la vita. Io non sono mai stato comunista o filocomunista: per tutto il tempo in cui ciò poteva avere un senso concreto, io mi sono sempre considerato anticomunista – una parola che, nelle idee e nella pratica ha molti significati, si va dal peggior fascismo al più puro spirito liberale e democratico.»

4. Mirford sisters. Così celebri per le loro eccentriche diversità da diventare quasi una caricatura: «Diana la fascista, Jessica la comunista, Unity l’amante di Hitler, Nancy la romanziera, Deborah la duchessa e Pamela la discreta esperta di pollame», come le definì il giornalista del Times Ben Macintyre. Di certo le sei figlie dell’inglese David Freeman-Mitford, secondo barone Redesdale, fecero scelte radicali ed ebbero destini singolari. Diana Mitford (1910-2003) è stata la seconda moglie di Oswald Ernald Mosley, fondatore del partito fascista britannico: per la sua adesione alla politica del Terzo Reich finì anche in carcere. Jessica Lucy Freeman-Mitford è stata membro del Partito comunista e ha combattuto nella guerra civile di Spagna con i repubblicani; Unity fu sostenitrice del fascismo e del nazismo e amica intima di Hitler.

5. Mio fratello è figlio unico. Anche il cinema ha affrontato il tema dei fratelli divisi sul fronte politico: Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti (2007) si ispira al libro di Antonio Pennacchi, Il fasciocomunista, e racconta di Accio, che entra nel Msi, e Manrico, comunista. Accio (Elio Germano) abbandona i fascisti e alla fine del film partecipa a un’occupazione di case. Manrico (Riccardo Scamarcio) diventa un terrorista rosso e viene ucciso dalla polizia. Il film prende il titolo da una canzone di Rino Gaetano.

6. Alessandra e Stefano Caldoro. Stefano (1960), presidente della Regione Campania dal 2010 al 2015, è esponente di Forza Italia. Era entrato in Parlamento nel 1992 con il Partito socialista, di cui faceva parte il padre Antonio. Alessandra gli è stata accanto nei cinque anni al vertice della Regione. Poi è stata molto attiva sui social contro il nuovo presidente della Regione, Vincenzo De Luca, per i suoi guai giudiziari. Ha aderito a Italia Unica dell’ex ministro Corrado Passera. Ma giovedì ha denunciato di essere stata estromessa per “volere” di Mara Carfagna dalle prossime elezioni: avrebbe dovuto capeggiare la lista Prima Napoli, con candidato a sindaco Gianni Lettieri, in rappresentanza di Italia Unica: «E la cosa che mi ha fatto più male è stato che mio fratello non si è neanche preoccupato di avvertirmi, da lui nemmeno una telefonata».

7. Alessandra e Rachele Mussolini. Alessandra (1962), figlia di Anna Maria Scicolone e Romano Mussolini (figlio di Benito), ha un lungo curriculum politico: più volte deputata e senatrice, è attualmente eurodeputata. È passata dal Msi ad An, fino ad approdare a Forza Italia. Rachele, 38 anni, figlia di Romano e Carla Maria Puccini, finora era conosciuta per una biografia sull’omonima nonna, Donna Rachele. Alle prossime elezioni amministrative, per Roma, Alessandra è schierata con Alfio Marchini. Rachele, al suo debutto politico, ha scelto Giorgia Meloni che di lei ha detto: «Voglio candidare Rachele come persona, non il suo cognome. ...Una delle tante ragazze in Italia che non hanno un lavoro all’altezza della loro formazione. Penso che il suo cognome non possa essere né un vantaggio, ma neanche uno svantaggio».

Labocetta: "Vi racconto quella telefonata tra Fini e Napolitano per far fuori il Cav". Amedeo Laboccetta, già deputato del Pdl e a lungo amico e stretto collaboratore di Fini si racconta in un libro. “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” traccia la storia degli ultimi anni della storia italiana e apre uno squarcio sulle presunte manovre di palazzo ordite da Fini e Napolitano per estromettere il Cav da palazzo Chigi, scrive Mario Valenza, Domenica 13/12/2015, su "Il Giornale".  “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” traccia la storia degli ultimi anni della storia italiana e apre uno squarcio sulle presunte manovre di palazzo ordite da Fini e Napolitano per estromettere il Cav da palazzo Chigi. Come racconta a Libero, "il culmine della vicenda è il 22 aprile 2010, all’auditorium della Conciliazione (potere dei nomi) a Roma, direzione nazionale del Pdl. Ma sì, il famoso 'Che fai, mi cacci?' scagliato da Fini da sotto il palco a Silvio. Una sceneggiata. Qualche ora dopo, appartamento di Fini a Montecitorio. Laboccetta lo ha raggiunto per farlo ragionare, ricordargli che se il Msi e lui stesso sono usciti dal recinto dei paria, sono arrivati al governo e alle più alte responsabilità, lo devono a Berlusconi. La replica è tranchant. "Lui fu spietato: “Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita... Ma lo vuoi capire che il presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione?”. A riprova, Fini chiama il Quirinale e mette in viva voce. E questa è la trascrizione che fa Laboccetta di quanto si dicono, come due vecchi amiconi, "Giorgio" e "Gianfranco". “Caro Presidente, come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale...”. “Più che campale - rispose Napolitano - direi una giornata storica...”. “Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti”. “Certamente. Fai bene ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza”. Amedeo Laboccetta annota: "Avevo assistito - in diretta - all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato...". In realtà il progetto è cominciato prima. "Fini lo stava coltivando forse fin dal post-elezioni del 2008" è la convinzione di Laboccetta: "Della sua ambizione e della sua personalissima sfida contro il Cavaliere, ha approfittato Giorgio Napolitano che ha saputo blandirlo e utilizzarlo per liberarsi dell’ingombrante presenza di Berlusconi, salvo poi abbandonarlo al suo destino a missione fallita".

Libri. “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” di Laboccetta, scrive il 24 marzo 2016 Luca Gallesi su “Barbadillo”. A chi non fosse di Napoli o non avesse a lungo militato nei ranghi del Msi, il nome di Amedeo Laboccetta risultava familiare per due motivi contrastanti: da un lato, il personaggio si era guadagnato una certa fama come epigono di “Mani Pulite” in salsa partenopea, mentre, dall’altro, risultava invischiato in certi loschi affari legati al mondo del gioco d’azzardo, e a un computer portatile che, durante una perquisizione, rifiutò di consegnare agli inquirenti, avvalendosi dell’immunità parlamentare. Questo, almeno, era ciò che io, meneghino distante dalle beghe politiche, ricordavo del consigliere comunale, poi onorevole, per averlo letto sui giornali. Accettai, quindi, con qualche riserva l’invito del caro amico Angelo Ruggiero a presentare a Milano, assieme all’autore e ad Alfredo Mantica, il libro autobiografico di Laboccetta Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro pubblicato da Controcorrente (pagg.160 €15). Dopo le perplessità iniziali, mi sono ricreduto immediatamente: ho divorato il libro in due sere, trovandolo appassionante e ben scritto da una persona sincera e verace, fugando tutti i dubbi che erano semplicemente dovuti a una lettura distratta delle cronache. Come scrive Marcello Veneziani nella prefazione, oltre che autobiografico in senso stretto, il libro è “l’autobiografia collettiva di una generazione meridionale e di destra in un’epoca a cavallo tra i millenni”. Ci troviamo, infatti, di fronte a una testimonianza personale, politica e anche storica. Personale, perché all’inizio e alla fine Laboccetta ci racconta della sua famiglia, storia avvincente e appassionata, fatta di slanci e casualità, governata dal destino. Il sottotitolo, che definisce la vita come “incontro”, infatti, sottolinea proprio questo, l’inevitabilità, per chi ci crede e vi si abbandona, della “fortuna” in senso latino, che per i pagani era il fato e per i cristiani la Provvidenza. Lasciando al lettore il piacere di scoprire la vita avventurosa dell’autore, penso che il libro debba sollecitare prima delle riflessioni, magari private, e poi una discussione, sicuramente pubblica, su almeno due livelli di lettura: uno politico e uno storico. Quello politico riguarda un mondo che non c’è più, almeno in Occidente: quello delle vite spese in politica. Sebbene non siano passati secoli ma soltanto pochi decenni, sembra lontanissimo il tempo in cui si faceva politica per passione, spendendosi, appunto, in un’attività che, specialmente a destra, non offriva che molti rischi e ben pochi vantaggi. Oggi, più che di una vita “spesa” in politica, dovremmo parlare di una vita “guadagnata”, rappresentando – o avendo rappresentato anche a destra- la politica il modo più rapido di ascesa sociale e soprattutto economica offerto dalla società. La vita di Laboccetta, senza inutili nostalgie o sterili piagnistei ci ricorda un mondo fatto di passione e sacrificio, di militanza e condivisione, di guasconerie e, anche, di divertimento: esperienze ormai bandite dal mondo sordo e grigio della politica odierna. Un altro fattore sottolineato dal politico napoletano è l’importanza della cultura, importanza che non si riduce alle solite chiacchiere preelettorali, ma che ha visto l’autore impegnarsi concretamente ed efficacemente per trovare una cordata imprenditoriale disposta ad avviare l’ultimo esperimento editoriale significativo della destra, quel settimanale “Lo Stato”, che per poco tempo rinnovò i fasti dell’“Italia settimanale” . Fanno davvero sorridere, inoltre, gli aneddoti raccontati nel libro sugli intellettuali considerati “inaffidabili” perché pensano, e quelli che riguardano la politica culturale di Berlusconi, il quale, agli articolati progetti di Marcello Veneziani preferì la musichetta dell’inno di Forza Italia, sicuro che quel jingle avrebbe affascinato il popolo ben più di qualsiasi ardita teoria costituzionale, e purtroppo aveva ragione. Ma le pagine che dovrebbero davvero suscitare un polverone mediatico, con girotondi frenetici dei soliti indignati e paludati giornaloni che si stracciano le vesti per le gravissime violazioni delle regole democratiche, riguardano le rivelazioni del vero e proprio golpe (altro che Borghese, altro che Sogno!) effettuato da Napolitano ai danni di Berlusconi, con la complicità di Fini e di Tremonti. Lasciando al lettore il piacere –e l’irritazione- di scoprire i retroscena della politica italiana degli ultimi anni, raccontati con dovizia di particolari e prove inoppugnabili da Laboccetta, mi limito a sottolineare come questo libro sarebbe dovuto uscire per la Mondadori con il titolo Intrigo Internazionale, con prefazione di Silvio Berlusconi, che, a un certo punto (indovinate quale) ha cambiato parere, invitando l’autore a non pubblicare nulla. Buona lettura.

Dal libro “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano - La vita è un incontro” (Controcorrente edizioni). […] Alla fine, decisi di andare a incontrare un’ultima volta il Presidente della Camera per rinfacciargli tutto quello che non ero riuscito a mandar giù in direzione nazionale e dirgli, a brutto muso, che la sua strategia era ripugnante. “È una cosa ignobile, Gianfranco. Il tuo non è nemmeno un errore, ma un orrore. Silvio Berlusconi non merita quello che gli stai facendo”. Lui fu spietato: “Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita”. Usò proprio questa espressione: essere della partita. Ed io aggiunsi: “Ma che significa essere della partita?”. Replicò dicendo: “Ma lo vuoi capire che il Presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione?”. Era la prima volta che si lasciava andare a una considerazione così esplicita. In altre occasioni, mi aveva fatto intuire l’esistenza di quest’alleanza ma mai in maniera così brutale. Sapevo che diceva la verità, ma lui volle regalarsi il coupe-detheatre. Davanti ai miei occhi, chiamò il Quirinale per informarlo degli ultimi sviluppi del golpe. Attivò il vivavoce e parlò con Napolitano delle sue prossime mosse. “Caro Presidente – salutò Fini – come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale”. Il riferimento, chiaro, era alla sceneggiata nell’Auditorium della Conciliazione. “Più che campale – rispose Napolitano – direi una giornata storica”. Era proprio la voce del Presidente della Repubblica. Non riuscivo a crederci. Mi accasciai sulla sedia, come svuotato. “Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti”. “Certamente. Fai bene – lo incitò Re Giorgio – ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza”. Ascoltai come incantato quella decina di secondi di conversazione in vivavoce, con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo assistito – in diretta – all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato. Rimasi per qualche istante ammutolito, mentre i due – disattivato il vivavoce – si mettevano d’accordo per l’indomani. Lasciai subito dopo l’ufficio di Fini in preda a una crisi nervosa. Frugai nelle tasche alla ricerca dei miei sigari. Ma nemmeno qualche boccata mi restituì i nervi saldi. Attraversai a grandi falcate i corridoi e le stanze di Montecitorio per guadagnare il prima possibile l’uscita. Dopo averla varcata, feci un bel respiro. E non per colpa del fumo. Era l’aria velenosa e tossica della Camera che mi aveva strozzato la gola. Una telefonata inaspettata mi raggiunse nel mese di giugno 2004. Gianfranco Fini, all’epoca Vice Presidente del Consiglio, mi chiamò per chiedermi se fossi stato in grado di organizzargli una vacanza a Saint Martin per un paio di settimane. Rimasi per qualche istante interdetto. Erano anni che non mi chiamava. “Ma figurati Gianfranco, che problema c’è.” Gli risposi. Quella vacanza caraibica la ricordo molto bene. Alla vigilia di ferragosto del 2004, Fini atterrò all’aeroporto Juliana con quattordici persone al seguito, la comitiva aveva già trascorso una lunga vacanza negli Stati Uniti d’America. C’era anche il suo segretario particolare, l’amico Checchino Proietti con moglie e figli. Provvidi ad ospitare tutti in una delle più prestigiose ville dell’isola. Si trova a nord. Nella zona francese, denominata Ance Marcel. Il proprietario del panoramico complesso è Monsieur Collarò, il Mike Bongiorno della televisione francese. La villa si trova in collina, a strapiombo sul mare. Una zona tranquilla e riservata con vista mozzafiato: erano tutti incantati, d’altronde, quando faccio le cose, in genere, mi piace farle bene. Fini mi aveva sottolineato le sue intenzioni. Ci teneva a fare immersioni tutti i giorni. Fu per questo che reclutai, anche per motivi di sicurezza, un istruttore subacqueo, un californiano con esperienza collaudata ed un fotografo marino di nazionalità francese. Ovviamente mi preoccupai anche di noleggiare una barca. Devo dire che nelle immersioni Fini se la cavava fin troppo bene. Mi fu confermato dai due esperti che lo accompagnarono per quindici giorni alla scoperta di quei fantastici fondali nell’Oceano Atlantico. Dopo la mattinata sportiva, li riaccompagnavo in villa. Ci si rivedeva la sera, con tutto il suo gruppo, per cenare insieme. La sera del 25 Agosto del 2004, onomastico di mia moglie, durante la cena al ristorante di Davide Foini, il vice di Berlusconi, volle omaggiare la mia Patrizia con un dono raccolto in fondo al mare. Una conchiglia bianca. Un ricordo per la bella vacanza trascorsa insieme. Dopo la mezzanotte, si andò tutti a giocare in uno dei casinò di Francesco Corallo. Fini vinse. Nel suo delirio di onnipotenza quel colpo era significativo. Subito incassò e volle andare via. Dopo tre giorni, la comitiva ripartì per l’Italia. Io e Patrizia rimanemmo ancora una settimana. Avevamo bisogno di rilassarci... Sono preciso nell’ospitalità e provo piacere nel vedere gli amici sempre contenti e soddisfatti. Quella bella conchiglia non l’ho portata in Italia. Il giorno dopo la partenza di Fini, con Patrizia decidemmo di restituirla a quel meraviglioso e cristallino mare caraibico. Era quella la sua giusta dimora. Non certo una mensola della nostra casa...

"Napolitano nel 1942 era iscritto al Gruppo universitario fascista". Il vicedirettore del "Fatto Quotidiano" riafferma punto per punto le sue critiche al capo dello Stato sulle telefonate con Mancino, scrive PMI il 19 settembre 2012. Nel replicare al "garbato" attacco mossogli dal professor Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, che lo accusava di "diffamazione" per aver osato denunciare pubblicamente il "sospettoso" comportamento del capo dello Stato sulle telefonate con l'ex ministro degli Interni e ex vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, imputato per falsa testimonianza nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, il vicedirettore de "Il Fatto Quotidiano" Marco Travaglio a pagina 5 dell'edizione del 22 agosto non solo riafferma punto per punto le sue critiche a Napolitano ma rileva fra l'altro che "Giorgio Napolitano si formò politicamente dal 1942 nel Guf (Gruppo universitario fascista) non appena s'iscrisse all'Università di Napoli, e solo successivamente approdò all'antifascismo". Una verità a dir poco infamante per la più alta carica dello Stato nonché garante della Costituzione. Una verità inconfutabile quanto inconfessabile e vergognosamente nascosta da tutta la stampa di regime che ha steso un clamoroso velo di silenzio su tutta la vicenda evitando accuratamente di parlarne. Insomma Napolitano, prima di salire al Quirinale e vestire i panni del nuovo Vittorio Emanuele III, come tanti altri intellettuali borghesi divenuti poi dirigenti del PCI nel dopoguerra, era un fascista, iscritto al Guf fin dal 1942, ha collaborato attivamente al settimanale dei fascisti universitari di Napoli "IX maggio", dove curava una rubrica di critica teatrale e cinematografica, e ha anche partecipato alla Mostra di Venezia e all'annesso convegno degli universitari fascisti in Laguna. Un'adesione al fascismo che Napolitano compie in piena consapevolezza, maturata all'apice dei vent'anni di dittatura mussoliniana, dopo la promulgazione delle leggi razziali, l'alleanza con Hitler e l'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale prima contro la Francia (10 giugno 1940) e poi contro l'Unione Sovietica. Come mai Napolitano non ha mai rinnegato questo suo imbarazzante passato di militanza fascista e non ha mai sentito il bisogno di fare un'autocritica pubblica? Cosa ha da nascondere la massima carica dello Stato che da grande opportunista quale egli è, militava nel Guf mentre i partigiani lottavano e morivano in montagna e si è iscritto al PCI solo nel 1945? Da fascista a revisionista, il suo anticomunismo ha cambiato forma ma non sostanza. Fin da subito Napolitano è diventato il pupillo prediletto dell'ultrarevisionista rinnegato Amendola e poi ha proseguito sulla strada del riformismo divenendo l'esponente storico della destra "migliorista" del PCI-PDS; capogruppo del PCI alla Camera dall'81 all'86; liquidatore del PCI e riabilitatore di Craxi e del PSI; e successivamente presidente della Camera nel '92, senatore a vita nel 2005 e infine presidente della Repubblica che invece di contrapporsi al neoduce Berlusconi e alla seconda repubblica neofascista li ha favoriti, invece di denunciare e contribuire a fare piena luce sui "misteri" d'Italia ha coperto e aiutato chi ha tramato con la mafia, invece di fare chiarezza sul suo passato pieno di ombre e camicie nere, addirittura cerca di autoassolvere e di giustificare la sua militanza fascista nel GUF dichiarando vergognosamente che: "Il GUF era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste". Sic!

Napolitano-Scalfari. I ricordi da ex fascisti. Nel lungo colloquio pubblicato ieri su Repubblica, i due ripercorrono con giustificato distacco i trascorsi fascisti, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 11/06/2013, su "Il Giornale". Ha qualcosa di istruttivo il lungo colloquio fra Giorgio Napolitano e Eugenio Scalfari pubblicato ieri su Repubblica, un'amabile e onesta chiacchierata fra due figure istituzionali, la prima in senso proprio, dal punto di vista del potere politico, l'altra in senso simbolico, dal punto vista del potere dei media. Due personalità, fin dalle foto, ieratiche, apparentemente «al di sopra» delle scelte comuni e dei compromessi quotidiani - una icona del comunismo di ferro l'altra del progressismo intransigente - e che pure rivelano tutta l'accomodante e domestica italianità delle proprie biografie, dei propri dubbi, delle proprie scelte. Classe 1924 Eugenio Scalfari, partito dal settimanale Roma fascista e arrivato a principe del giornalismo italiano; classe 1925 Giorgio Napoletano, partito dal Pci e arrivato al Colle; i due grandi vecchi d'Italia, raccontando loro stessi, hanno raccontato una comunissima e familiare storia italiana, in cui tutti citano Benedetto Croce e solito «non possiamo non dirci liberali», in cui si evoca il padre fascista (e nel caso di quello di Napolitano scopriamo che «sotto il regime visse appartato, esercitando la professione di avvocato fino alla fine degli anni Trenta senza iscriversi al Pnf. Poi finì per prendere la tessera»... anche lui...), in cui si ripercorrono con giustificato distacco i trascorsi fascisti (Napolitano frequentava il Guf, ma perché si poteva studiare meglio e lì del resto «si formarono anche molti antifascisti e comunisti», Scalfari orgoglioso di essere «un giovane fascista» espulso dai Guf da uno dei capi del Pnf e «ciò mi fece venire dei dubbi»...), entrambi protagonisti di viaggi più o meno lunghi «attraverso il fascismo» per approdare sulle sponde dell'Italia democratica e progressista, dove ci si iscrive al Pci «più per impulso morale che per una scelta ideologica», e dove, se ti chiedono di accettare una rielezione (come tante altre cose da noi), anche se sei «profondamente convinto di lasciare», alla fine «non puoi dire di no». Che è una splendida risposta, così comune, tutta italiana.

Eia eia alalà. Controstoria del Fascismo di Giampaolo Pansa. Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano del 8 febbraio 2014: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina?», domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare!». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Le icone comuniste santificate. Saviano contro Pd: "Si vergogni degli alleati di Ala". L'ira dell'autore di Gomorra dopo l'attacco del senatore verdiniano D'Anna che lo ha definito "icona farlocca, inutile che abbia la scorta". Zanda: "Parole inaccettabili e ingiustificabili, Verdini si è scusato". Ma la minoranza dem torna in trincea: "Con certa gente il nostro partito non deve avere nulla a che fare", scrive il 26 maggio 2016 "La Repubblica". "Il Pd si vergogni". Roberto Saviano risponde senza mezzi termini all'attacco del senatore verdiniano Vincenzo D'Anna, che oggi l'autore di Gomorra definisce "dannoso scherano di Verdini, renziano e cosentiniano insieme". E aggiunge, lo scrittore: "Impone a me di rinunciare alla scorta. A me che non vedo l'ora di tornare libero. Cosa debbo pensare: ha forse progetti per il mio futuro? Un "grazie" va anche a Radio Rai e al servizio pubblico che hanno consentito la diffusione delle solite porcherie" scrive su Facebook l'autore di 'Gomorra'. Che aggiunge: "E poi, sarebbe questa la comunicazione del Pd? Sono questi gli alleati di Renzi a Roma e di Valeria Valente a Napoli? Sono queste le nuove risorse campane? Buona fortuna. E Vergogna". D'Anna, senatore di Ala, casertano, una reazione così se la doveva aspettare. Ieri era stato ospite di "Un giorno da pecora" su Radio2 Rai, e si era scagliato violentemente contro Saviano. "E' un'icona farlocca che non ha mai detto nulla che possa infastidire la camorra. Se fosse per me, toglierei la scorta", aveva, tra l'altro, sostenuto il verdiniano. E altre considerazioni su questo stile. Dopo aver riascoltato le sue parole, rimbalzate su tutti gli organi di stampa, il senatore ha poi provato a sfilarsi, parlando di "frasi estrapolate dal contesto, nel corso di una trasmissione votata al paradosso" ma sul via alla scorta a Saviano è rimasto sulle sue posizioni, basate, a suo dire, "su precisi riferimenti di sentenze emesse dalla magistratura allorquando si è interessata delle minacce a carico della senatrice Capacchione e dell'opera dello scrittore Saviano". Gelo e imbarazzo in casa Pd, con la minoranza dem tornata subito all'attacco contro l'alleanza con Verdini e i suoi amici, "dopo aver ascoltato con rabbia e disgusto" le parole di D'Anna. Per Roberto Speranza, ad esempio, "il Pd con questa gente non deve più avere nulla a che fare". Fase delicata, con Luigi Zanda, presidente dei senatori Pd che prende la parola a nome del partito nell'Aula di Palazzo Madama: "Le parole di Vincenzo D'Anna sono inaccettabili sotto qualsiasi profilo e sono ingiustificabili per qualsiasi ragione politica, elettorale, di 'concorrenza' sul territorio", afferma con nettezza e aggiunge: "Parole rese molto più gravi perché riferite a Saviano e a Capacchione, due persone cui le autorità di sicurezza dello Stato hanno ritenuto, per ragioni serie e confermate da indagini svolte, di dover assegnare la scorta per essere difese in un territorio che pone in pericolo di vita le persone perbene che si oppongono e ribellano a un equivoco, difficilissimo e pericolosissimo ambiente". E, sempre Zanda, fa sapere in Aula che Verdini si è scusato, ha telefonato alla senatrice Rosaria Capacchione, "porgendo le sue scuse e quelle di D'Anna". Da Napoli il pieno sostegno del Pd a Saviano contro le parole del casertano D'Anna: dalla candidata sindaca Valente al segretario regionale Tartaglione, tutti chiedono "scuse subito da D'Anna" e "più impegno reale da parte di tutti alla lotta ai clan".

Se anche Verdini s'inginocchia a Saviano. Le scuse di Denis sono fuori luogo, scrive Massimiliano Parente, Venerdì 27/05/2016, su "Il Giornale". Figuratevi cosa ne ho pensato io, che da anni, e, come si dice, in tempi non sospetti, scrivo quanto Saviano non faccia letteratura, né saggistica, né vero giornalismo d'inchiesta (in altre parole ha avuto una botta di culo con un libro e una scrittura mediocri), quando ho saputo del senatore Vincenzo D'Anna. Il quale ha accusato Saviano di copia e incolla («icona farlocca, si è arricchito con un libro che ha copiato a metà») invocando, alla trasmissione Un giorno da pecora, di togliergli la scorta. Uno scandalo. Quando si parla di togliere la scorta a Saviano si pronuncia un'eresia, lo si vede già morto come Falcone e Borsellino. Questi ultimi, però, erano magistrati. Quindi, in realtà, il ragionamento ci sta: se Saviano è il simbolo della lotta alla mafia, e dunque non può vivere la vita di tutti, un magistrato che combatte la mafia a Napoli quale vita farà? Non mangia gelati? Non mangia pizze? Si lagna appena può da Fabio Fazio? Tutti i pubblici ministeri della Campania e della Sicilia sono in esilio, blindati, protetti e con l'aplomb del martire? Delle due l'una: o i magistrati sono collusi con la mafia (ma il vate Saviano non l'ha mai denunciato, anzi i magistrati sono sempre buoni e giusti e coraggiosi) o Saviano gode di un privilegio spropositato, alle spese del contribuente italiano. E senza neppure essere Céline né Proust né Pasolini: semplicemente gli mancano le opere. Infatti D'Anna ha aggiunto che la camorra viene combattuta dai magistrati, dai carabinieri, dalla polizia, non certo da Saviano, sul cui feuilleton camorristico ci si fa perfino una serie tv di successo, con relativi incassi girati all'autore. In teoria D'Anna avrebbe detto un'ovvietà. Invece il punto è un altro: una volta che un senatore di Verdini ne ha detta una giusta, interviene Verdini stesso per chiedere scusa? Un giorno da pecora, appunto.

D'Anna (Ala) e la scorta (da togliere) a Saviano: «Parlo come voglio e non chiedo il permesso a Denis». Il senatore: «Non polemizzo con Denis. Con i risparmi di scorte come quella di Saviano, di soldi per chi combatte la camorra per davvero ce ne sarebbero di più», scrive Tommaso Labate il 26 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

«Una cosa deve essere chiara. A Saviano non rispondo».

Senatore D’Anna, conferma però che a Saviano dovrebbe essere tolta la scorta?

«Confermo quello che ho detto. Nella caserma dei carabinieri del mio paese non ci sono i soldi per la carta o la connessione internet. Con i risparmi di scorte come quella di Saviano, di soldi per chi combatte la camorra per davvero ce ne sarebbero di più».

Le sue parole hanno scatenato il caos.

«Mi sono difeso perché avevano raccontato un sacco di falsità sulla lista di Ala a Napoli».

Parla del manifesto di un vostro candidato con dietro il cognato di un boss?

«Falso. Nessun cognato di nessun boss».

Verdini s’è dissociato dalle sue frasi.

«Verdini pensa che sia meglio non parlare con i giornalisti, ignorare le infamità che ci dicono, sognare il quieto vivere? Legittimo, lui ragioni come crede. Per me, invece, decido io. Se mi attaccano, rispondo. Sono una persona onesta e le accuse di collusione le respingo».

In Ala non vi coordinate sulle interviste?

«Se voglio parlare lo decido da solo. Non devo chiedere il permesso a nessuno».

Alcuni suoi colleghi, come Mazzoni e Parisi, hanno preso le distanze da lei…

«Visto che l’intervista è scritta, colleghi me lo scriva tra virgolette... Non so da loro in Toscana, ma da noi in Campania i voti ce li guadagniamo lottando, non stando zitti».

Vale anche per Verdini?

«Deve essere chiaro che io, in un partito dove decide un cervello solo, non ci sto».

In Ala decide Verdini?

«Non polemizzo con Denis, che ha una responsabilità nazionale. Noi operiamo sui territori e a volte abbiamo visioni diverse».

Siete spaccati?

«No. Sugli obiettivi siamo compatti. Si lavora alle riforme, con Renzi, con la Valente».

D'Anna attacca ancora Saviano: "E' diventato milionario con l'antimafia". Il senatore verdiniano torna ad attaccare lo scrittore: "Chi compra un appartamento panoramico a Manhattan e rivolge pensosi pensieri sulle sorti del bene in Italia è farlocco", scrive "La Repubblica" il 28 maggio 2016. "Ho spezzato una lancia a favore di magistrati e forze dell'ordine. Chi compra un appartamento panoramico a Manhattan e rivolge pensosi pensieri sulle sorti del bene in Italia è farlocco. La battaglia antimafia ha procurato a Saviano proventi milionari con cui ha comprato casa a New York, mentre ci sono carabinieri e poliziotti che con 1.300 Euro al mese si fanno un mazzo così e rischiano la vita. Loro sono i veri eroi, le vere icone dell'antimafia". Il senatore verdiniano di Ala, Vincenzo D'Anna a La Zanzara su Radio 24 torna ad attaccare Roberto Saviano dopo le polemiche sulla scorta dei giorni scorsi iniziata ai microfoni della trasmissione di Radio2, Un giorno da pecora. D'Anna attacca Saviano: "Toglierei la scorta, nessuno lo vuole uccidere: è un'icona farlocca". "Non esiste un camorrista in Italia - assicura D'Anna - che vuole ammazzare Saviano. Se ne fregano altamente. I camorristi guardano al vantaggio, al guadagno fraudolento. Saviano non dà fastidio a nessuno. Mario Puzo quando ha scritto 'Il Padrino' girava con la scorta? No. Quali pericoli - insiste - sono venuti alla camorra dal libro di Saviano? Nessuno, tranne forse il pericolo dell'emulazione. Quale la concreta minaccia?". "Le parole di Saviano - dice il senatore di Ala - valgono come il due di briscola, non ha titoli per essere il metro della morale di nessuno. E' stato trasformato in un'icona. Vi rendete conto che ha detto che la Rai non doveva permettere a D'Anna di dire certe cose? Siamo alla megalomania, all'io ipertrofico. La Rai non deve ospitarmi perché non riconosco Saviano. Vi rendete conto? Io sono una persona perbene, più di Saviano. Ho detto che il Re è nudo e sono diventato un farabutto. Mi hanno messo al rogo come Giordano Bruno...". E alla domanda sul perché vuole togliere la scorta a Saviano, il senatore risponde attaccando la giornalista e senatrice del Pd Rosaria Capacchione: "C'è una recente sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - sottolinea - che ha accertato l'infondatezza delle minacce, che erano alla base della scorta assegnata alla senatrice Capacchione e allo scrittore Saviano. Se quelle minacce erano false, la scorta non va più assegnata. Alfano ci deve spiegare quali altre minacce ci sono per tenere impegnati 8 carabinieri e 3 macchine di cui 2 blindate". "La scorta costa 2-3 milioni di euro l'anno - assicura D'Anna - mentre abbiamo carabinieri che non possono mettere la benzina nelle auto e commissariati che non hanno Internet. Abbiamo tanta gente che fa la lotta alla camorra a 1200 euro al mese". D'Anna ribadisce poi che la senatrice: "Ha due carabinieri di scorta e una macchina che la porta avanti e indietro da Caserta a Roma. A spese dei contribuenti. Se non ci sono minacce a cosa serve questa scorta?".

Le icone liberali smerdate. Porro intervistato da Luca Telese su “Libero Quotidiano del 24 maggio 2016: "Io, Santoro, Fazio e quel dramma in famiglia".

Nicola, sei sulla cresta dell’onda!

«(Ride) Non posso rilasciare interviste, Luca». 

Che fai, adesso, te la tiri anche con me? 

«Voglio essere chiaro, soprattutto con un amico: non dico più nemmeno una parola su Rai, Virus o Campo Dall’Orto!». 

Perché ci hai già litigato troppo? 

«(Tono sospettoso) Luca, ti ho detto che non parlo di Rai! Non fregheresti un amico, no? Sono un aziendalista». 

Sì, ma so bene che tu al mio posto lo faresti, quindi…

«(Risata crassa) Sono indignato, ma hai ragione. Possiamo parlare di tutto, tranne che del programma. Quello che dovevo dire l’ho già detto. Ogni altra parola è superflua». 

Per lunghi anni, Nicola Porro e io siamo andati In Onda insieme su La7. Un programma a due è come un fidanzamento: o ti sposi o ti separi (e vuoi gli alimenti). Noi incredibilmente andavamo d’accordo. Avevamo un compito che ci riusciva benissimo: lui raccontava le cose partendo da un punto di vista “di destra”, io da un punto di vista “di sinistra”. Il massimo della differenza e il massimo della sintonia, nel rispetto della diversità. Ho capito allora che Nicola è un liberale vero. La gente ci ferma, ancora oggi: “Come facevate a sostenere sempre due cose opposte? Era tutto scritto?”. Veniva naturale: una volta partiva lui, una volta io - a braccio - e l’altro era obbligato a variare all’impronta. Un ospite lo invitavo io e uno lui, un servizio lo immaginavo io, uno lui. Poi Nicola ha creato Virus su Raidue: per una strana follia, proprio nell’anno dei suoi record, lo chiudono. L’ultima puntata ha superato il 6%. 

Cosa farai? 

«Combatto per portare sempre in scena, spero alla Rai, l’idea più sbagliata e metterla a confronto con quella dominante. Il contagio delle idee è un valore».

Ti offrono, un programma, domenica pomeriggio, accetterai?

«No comment».

L’unico talk "di destra": una condanna o una fortuna?

«In un paese in cui in tutti i salotti definirsi di sinistra sembra un certificato di cittadinanza, pena l’indegnità, sono contento di essere bollato “di destra”».

Tu cosa sei?

«Un liberale. Punto».

Cosa significa, questo, nella tua tv? 

«Raccontare gli invisibili, chi non ha successo».

Ovvero? 

«Le persone inutili per i salotti di oggi, che - per dire - non sono à la page per Fazio, non hanno il faccione».

Quali sono i "salotti di oggi"?

«Un tempo erano Mediobanca e le sorelle Crespi. Oggi, per trovare un simbolo, sono due locali radical chic di Roma, sono Settembrini e il Salotto 42». 

Quartiere Mazzini: produttori, sceneggiatori e del cinema, e in centro.

«Due piccoli templi del pensiero dominante. Ovvero di ciò che le persone fiche, le persone giuste pensano».

Non è da te inveire!

«Giornalisti e i politici, spesso prigionieri nel circuito del potere, hanno un fortissimo rischio di allontanarsi dalla realtà. La confondono con quel che si dice al Settembrini e al Salotto 42».

Avevi un nonno liberale!

«Nicola come me, cognome Melodia, è stato vice-presidente del Senato. Ma non l’ho mai conosciuto. La mia famiglia era di destra, vagamente nostalgica, papà votava Msi».

So che con Vendola avete ricordato le sorelle Porro.

«Agrarie, zitelle e incolpevoli. Ma sorelle e zie di fascistissimi Porro pugliesi».

Vennero trucidate nel 1945, siamo dalle parti di Pansa.

«Furono linciate, stuprate e lasciate nude sulla pubblica piazza di Andria. Io Il sangue dei vinti ce l’ho nelle vene».

Eppure nel dna non hai l’odio.

«Mio padre Maurizio e mia madre Lucilla non mi ha trasmesso nulla di tutto questo: non una parola di rancore. Era come se tutti in famiglia avessero accettato la fatalità brutale della guerra civile».

Come faceva a non odiare?

«Lui fu mandato in Svizzera a studiare: parla il tedesco meglio dell’italiano. Mai avuto una tradizione orale di quel dramma».

Pazzesco.

«Dopo, con i rapimenti degli anni ’70 in casa mia giravano armi. In campagna papà dormiva con la 38 special sopra la sponda del letto. Sapevo, ma non ne parlavamo».

E il Pli?

«Sono del 1969. Rimasi folgorato dalla lettura di un saggio di Antonio Martino che mi aveva prestato il mio amico Antonio De Filippi fratello di Giuseppe».

E i cugini radicali, il fascinoso Pannella?

«Zecche: non potevo proprio tollerare di essere chiamato da qualcuno “compagno”».

E gli odiati cugini repubblicani? Più a sinistra di voi.

«Macché di sinistra! Ho conosciuto Oscar Giannino con i capelli, senza bastone e senza ghette. Ma era più padronale di me. Mi sono convinto a votarlo quando ho scoperto la storia della sua finta laurea: è indecoroso il linciaggio che ha subito».

Politica all’università?

«Capisco cos’è il conflitto perché vengo menato sia dai fascisti che dai comunisti».

Spiegami un motivo di rissa.

«Quando giravo per i corridoi di economia spiegando: “Le tasse universitarie devono essere più alte!”».

Facevano bene a menarti.

«È un principio di equità. I dieci delle classi sociali più ricche che si laureano, hanno un futuro. È giusto che se lo paghino. Chi non ha soldi viene finanziato con una borsa di studio. Chi perde tempo paghi».

E dopo la laurea?

«Mi chiama Ferrara che apre il Foglio, ci incontriamo al Radetzky. E poi la prima, unica e provvidenziale raccomandazione della mia vita: Paolo del Debbio chiama Carlo Maria Lomartire e gli chiede di trovarmi un lavoretto a Rete Quattro».

E che fai?

«Mi devo svegliare alle cinque di mattina per una rassegna stampa. Con una Yahamaha Teneré 600 fichissima. Compravo i giornali e li portavo in redazione».

Ma torni anche sulla carta stampata.

«Ferrara e il grande Sergio Zuncheddu, editore de Il Foglio, mi offrono di fare una pagina finanziaria del quotidiano. Dura un anno. Un giorno Giuliano, quasi serafico mi fa: “Da domani non esci più”. Ho metabolizzato in quel momento la flessibilità. Svengo. Però poco dopo mi assume al Foglio».

Poi torni all’economia.

«Nel 2000 mi chiama Paolo Panerai e con Giuseppe De Filippi fondiamo Class Financial Network. Copiando spudoratamente Cnbc».

E poi? 

«Il buon risultato mi procura la chiamata di Belpietro. Pensa: non l’avevo mai visto. Nel 2003 mi dice: “Vuoi venire a fare il capo dell’economia a Il Giornale?”».

E tu? 

«Mi pare incredibile: la prima volta che mi vede mi assume». 

Il passaggio a La7? 

«Ero in vacanza a Stromboli. Gianni Stella, detto "Er canaro", una leggenda, si presentò in elicottero!».

E tu?

«Andai a prenderlo con l’Ape. Mi disse all’orecchio quando mi volevano dare a puntata. Capii male. Temevo pochissimo. Ero imbronciato. E così lui, davanti a mia moglie: “Sai quante donne rimorchi con la tv!”». 

E Allegra? 

«Donna di classe infinita: “Allora Nicola accetta!”».

Te ne vai a Raidue litigando con Cairo per una sciocchezza. 

«Malamente, insulti. Subito dopo diventiamo amici. Questo ti dice la grandezza dell’uomo».

E il passaggio alla Rai?

«Ho avuto libertà straordinaria. In poche settimane mettiamo su un programma di prima serata partito il 3 luglio. Se si muove la macchina di viale Mazzini non ce n’è per nessuno».

Non hai citato Feltri.

«Solo perché ora è direttore. Per me è un maestro. Ha una dote rara: rendere semplici le cose complesse. Quando inizio a scrivere me lo vedo davanti come Obi Wan Kenobi che me lo ripete. È difficile semplificare senza banalizzare».

Altro maestro?

«Non ci crederai: Santoro. Nei suoi programmi, dove si andava a combattere, sono diventato “il berlusconiano dal volto umano”». 

E il tuo amore-odio con Freccero? 

«Ripete sempre che sono bravissimo nella carta stampata, che vesto bene, e che passo tutti i miei week a Saint Tropez».

La terza cosa è quasi vera.

«Ho conquistato tutto da solo non ho motivo di vergognarmi».

Non sei cool, Nicola.

«A vent’anni andavo al Piper la sera, e il giorno litigavo con i compagni».

E quindi? 

«Per fare il giornalista non devi essere malvestito, ma con la giacca di Armani stropicciata, avere la barba incolta, e una multiproprietà in Puglia. Capisco, però, che aiuta molto».

"Appena metto piede a Napoli vengo travolto dall'affetto. Non esagerate perché alla mia età ci si commuove facilmente". Così Silvio Berlusconi inizia il suo discorso al Politeama. "Accanto a me la nostra favolosa capolista Mara Carfagna e il nostro decisissimo candidato sindaco Gianni Lettieri - dice tra gli applausi - all'Hotel Vesuvio mi hanno dato la stessa camera quando guidai il G7 nel 1994 e quando mi arrivò l'avviso di garanzia, il secondo dei quattro colpi di Stato avvenuti in Italia", scrive Gerardo Ausiello su “Il Mattino” il 27 maggio 2016. È il momento di Berlusconi: "Siamo e siete in buone mani. Dentro di me ho la sicurezza di vedere Gianni far rivivere questa città. Abbiamo avuto da Mara e da Gianni numerosi report sullo stato di Napoli oggi. Dovete allora contattare i tanti indecisi e convincerli. Non bisogna rassegnarsi. Dopo la vittoria alle Amministrative dovremo guardare anche noi alle Politiche e potremo vincere grazie ai tanti moderati, non ideologizzati come quelli di sinistra, per impedire la deriva autoritaria senza fine a cui rischiamo di andare incontro. Siamo già in un momento di democrazia sospesa che dura da anni, con un governo non scelto dai cittadini, con una maggioranza retta da parlamentari eletti nelle fila del centrodestra. Il premier non eletto sta dimostrando una bulimia di potere preoccupante, occupa tutto quello che può, ultimamente persino la Rai. Se passasse la riforma della Costituzione ci sarebbe un solo padrone, cioè lui, Renzi. Sarebbe un regime. Il primo colpo di Stato c'è stato con Tangentopoli e molti di noi allora sentimmo la necessità di scendere in campo. In due mesi portammo i moderati a Palazzo Chigi ma la magistratura di sinistra mandò al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e dopo sette mesi il governo cadde perché l'allora capo dello Stato Scalfaro chiamò Bossi e gli disse di voltarmi le spalle. Ma noi tornammo al governo e ancora nel 2008 quando mi dissero qui "Silvio santo subito" dopo che liberai la città dai rifiuti. Salvammo l'Italia è in Abruzzo dopo il terremoto nessuno dormì all'addiaccio e Berlusconi arrivò nei sondaggi al 75,3 per cento. A quel punto il Pd e i magistrati dissero che dovevano distruggermi. Amedeo Laboccetta lo ha raccontato in un libro. Napolitano provò a farmi cadere con la promessa di nominare Fini premier. Amedeo cercò di dissuadere Fini ma lui prese il telefono e chiamò Napolitano per accordarsi sulla mozione di sfiducia contro di me. Era un colpo di Stato tra la prima e la terza carica dello Stato, che non riuscì. Poi arrivò l'anno orribile del 2011, delle accuse infamanti, della frase inventata contro la signora Merkel. Così partì l'offensiva delle banche tedesche e fui costretto a dimettermi perché mi avevano tolto altri otto deputati, plagiati. Se avessi accettato l'offerta del Fondo monetario internazionale l'Italia sarebbe stata colonizzata. Se non mi fossi dimesso mi avrebbero sfiduciato in Parlamento. Questo fu il terzo colpo di Stato, definito un tranquillo colpo di Stato da un giurista tedesco. Mi allontanai dalla politica ma il partito perse consensi. Alle ultime elezioni tutti vennero a richiamarmi e in 23 giorni il partito guadagnò 10 punti ma la solita grande professionalità della sinistra nei brogli fece vincere loro i voti per poche migliaia di voti. Poi a Letta è subentrato il non eletto Renzi. Io ero ancora pericoloso per loro e fui eliminato per la via giudiziaria da un collegio di sinistra con una velocità record per frode fiscale. Il relatore disse che quello era un plotone di esecuzione contro di me". Berlusconi parla quindi del referendum: "Dobbiamo votare no e difendere la democrazia e la libertà. Le prossime elezioni saranno cruciali e allora con Fulvio Martusciello stiamo mettendo in campo un esercito di 200mila difensori del voto che dovranno convincere anche gli indecisi. Per farlo ho lavorato a un programma approvato dai nostri alleati della Lega e di Fratelli d'Italia. Più garanzie per ciascuno è il punto più importante perché il nostro Paese è ammalato di democrazia a causa del sistema giudiziario. Avevo pronta questa riforma dal 1994. In Consiglio dei ministri mi dissero: non è possibile fare questa riforma altrimenti cade il governo, abbiamo un accordo con l'Anm". Via le tasse sulla casa, via l'imposta di successione, condono fiscale, via l'Irap dalle imprese, basta alle autorizzazioni preventive, chiusura immediata di Equitalia, chi ha tradito il mandato degli elettori non può più candidarsi, almeno mille euro al mese per tutti, la pensione alle nostre mamme e l'istituzione del poliziotto di quartiere: questi alcuni dei punti del programma annunciati dall'ex presidente del Consiglio".

Quando il politico rimette la toga: quelle porte girevoli fra Palazzo e magistratura. Accuse di mancanza di imparzialità. Casi di doppi incarichi. Confini spesso troppo labili. Tutti i casi (e le insidie) di chi è tornato in tribunale. Dove più che le norme contano le ragioni di opportunità, scrive Paolo Fantauzzi il 27 maggio 2016 su "L'Espresso". Fra i tre giudici di Corte d'Appello che hanno condannato a due anni e mezzo per peculato Augusto Minzolini per l'uso illecito della carta di credito della Rai sentenza confermata in Cassazione nei mesi scorsi) c'era Giannicola Sinisi: parlamentare col centrosinistra dal 1996 al 2008, sottosegretario all'Interno con Prodi e D'Alema e candidato governatore in Puglia nel 2000. Circostanza che secondo Forza Italia, che si oppone alla decadenza da senatore di Minzolini prevista dalla legge Severino, avrebbe dovuto indurre il magistrato ad astenersi per ragioni di opportunità: troppo politicizzato, il suo passato, per non prefigurare il rischio di mancanza di imparzialità. Chi invece lo ha fatto, nel processo a Napoli a carico dei coniugi Mastella, è stato un paio d'anni fa Nicola Miraglia Del Giudice: eletto alla Camera con An e transitato nel Ccd di Casini, nel 1998 aveva seguito l'esponente beneventano nell'Udr. Si condivida o no la posizione dei berlusconiani, il problema del rientro in carriera delle toghe che hanno fatto politica si pone. Anche perché una legge non c'è: per chi non è stato eletto vale il divieto di tornare al lavoro nelle circoscrizioni in cui ci si è candidati - come mostra il caso di Antonio Ingroia, spedito al tribunale di Aosta dopo il flop di Rivoluzione civile - ma la norma nulla dice nei riguardi di chi, dopo essere stato in Parlamento, vuole tornare a svolgere il lavoro di prima. Attualmente, ha ricostruito l'Espresso, ci sono 22 magistrati in servizio con un passato in politica: 13 nel centrosinistra, 9 nel centrodestra. Di questi, 10 sono ex parlamentari, equamente ripartiti fra gli schieramenti. Nel vuoto legislativo e in attesa che le Camere si muovano (a Montecitorio giace un ddl approvato dal Senato due anni fa) il Csm si è dato delle regole di proprio iniziativa, ricollocandoli per almeno cinque anni in un distretto diverso da quello dell'elezione e mai con funzioni inquirenti. Collocamenti in aspettativa che durano decenni. Dimissioni che restano un miraggio. Promozioni assicurate anche senza svolgere attività giudiziaria. Mentre la legge che dovrebbe rivedere il sistema è ferma da mesi. Ma non sembra interessare nessuno È il caso dell'ex sottosegretario Alfredo Mantovano, parlamentare con An e Pdl per quasi vent'anni: candidato sempre in Puglia, dal 2013 è consigliere di Corte d'Appello a Roma. Il democratico Lanfranco Tenaglia, che fu anche ministro-ombra della Giustizia ai tempi di Veltroni, non rieletto in Abruzzo alle ultime elezioni, dopo otto anni da deputato adesso è giudice al tribunale dei minori di Venezia. Angelo Giorgianni, sottosegretario diniano nel Prodi I, è in Corte d'Appello a Messina, dove a breve arriverà come presidente di sezione un altro ex dai lunghi trascorsi politici: Sebastiani Neri, deputato con An (di cui fu responsabile Giustizia) e l'Mpa di Raffaele Lombardo, che lo portò anche alla Regione Sicilia dopo una mancata elezione con Salvatore Cuffaro. Altri ex più “datati” sono invece arrivati nel frattempo in Cassazione, come Francesco Bonito (per anni responsabile Giustizia dei Ds), Domenico Gallo (con Rifondazione nel '94) e Antonio Oricchio (nel 2001 con Forza Italia). Situazione identica pure per vari ex assessori: Alfonso Sabella dopo la breve esperienza con Ignazio Marino in Campidoglio (e in attesa di tornare nella Capitale come capo di gabinetto del nuovo sindaco, se Roberto Giachetti vincerà le elezioni) è ora giudice a Napoli. Giuseppe Narducci, in squadra per un anno e mezzo col sindaco Luigi De Magistris, è a Perugia. Scelta diversa per Lorenzo Nicastro, eletto con l'Idv e membro dell'ultima giunta Vendola in Puglia, che adesso è pm a Matera. Tutto bene dunque? Non sempre. Non solo per la delicatezza di conciliare un diritto costituzionalmente riconosciuto come la partecipazione alla vita politica con la terzietà richiesta a chi indossa la toga senza sconfinare nelle porte girevoli (non a caso il Csm sta lavorando a una stretta sulle incompatibilità negli enti locali). Ma anche perché, pure quando la legge lo consente, le situazioni-limite non mancano, sempre per questioni di opportunità. Il magistrato Roberto Bufo, ad esempio, ha collezionato negli ultimi anni un gran numero di cariche: consigliere comunale a Lerici per cinque anni e al tempo stesso giudice a Pisa, poi assessore ai rapporti con gli enti istituzionali in un paesino di poche centinaia di abitanti in provincia di Lucca durante l'aspettativa dal tribunale del capoluogo; poi, mentre era a La Spezia, una candidatura al comune di Massa in una lista civica di centrodestra e un'altra per Strasburgo coi montiani di Scelta europea nella circoscrizione Nord-ovest, che comprende anche la Liguria (per l'occasione sulla sua pagina Facebook si definiva "personaggio politico"). Non eletto, è stato spostato a Pisa (che ricade in un altro collegio) e in quegli stessi giorni è stato nominato assessore all'isola d'Elba. Per quanto singolare possa apparire, tutto assolutamente legittimo: nulla allo stato attuale vieta di esercitare un ruolo amministrativo al di fuori del circondario del tribunale in cui si esercita. Come mostra la vicenda del sindaco di Portici Nicola Marrone: eletto da una coalizione formata da Sel, Verdi, Idv e Udc, nei primi mesi dopo l'elezione ha continuato a fare il giudice a Torre Annunziata anziché chiedere subito l'aspettativa. Non era obbligato: le due città, per quanto distanti pochi chilometri, si trovano in distretti giudiziari diversi ma le critiche non sono mancate. Il problema insomma resta, anche se la riforma Castelli del 2006 ha vietato l'iscrizione e la partecipazione alla vita dei partiti con la motivazione che possono "condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato". Ne sa qualcosa Luigi Bobbio, pm antimafia a Napoli e in seguito senatore di An, capo di gabinetto del ministro Giorgia Meloni e sindaco di Castellammare di Stabia (ruolo che nel 2012 lo rese celebre per aver abbandonato una processione che omaggiava un boss della camorra): nel 2010 è stato condannato con l'ammonizione dal Csm per aver assunto la presidenza della federazione napoletana di Alleanza nazionale mentre era fuori ruolo per un incarico di collaborazione con la Camera. Il motivo: i "metodi partitici" per loro natura "non sono compatibili con l'indipendenza del magistrato". Un rilievo avanzato a suo tempo anche nei confronti di Ingroia al termine dell'aspettativa chiesta per candidarsi alle ultime elezioni. Bobbio, che dal 2013 è giudice a Nocera Inferiore, nei mesi scorsi è anche stato condannato a otto mesi (pena sospesa) per aver scritto sul suo profilo Facebook che Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso durante il G8 di Genova, era " una feccia di teppista di strada ". Un caso in parte simile interessa anche il governatore pugliese Michele Emiliano per la sua veste di segretario regionale del Pd: o la politica o la toga, l'aut aut del procuratore generale della Cassazione, che un anno e mezzo fa ha aperto un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Una contestazione che però non risulta essere mai stata mossa verso quei magistrati che sono parlamentari e svolgono vita di partito, come nel caso di Anna Finocchiaro, in aspettativa dal lontano 1987.

Minzolini: «Io condannato da un giudice avversario politico», scrive Paola Sacchi il 15 luglio 2016 su “Il Dubbio”. «Mi condannò un magistrato che fu sindaco di Andria, parlamentare e sottosegretario di Napolitano, esattamente l’ex Presidente di cui avevo teorizzato l’impeachment...». Parla con Il Dubbio il senatore di Forza Italia Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1, giornalista e analista politico, inventore di un genere («Scrivere quello che davvero avviene nella stanza dei bottoni») finito sulla Treccani. Ma Minzolini è anche al centro di una caso politico-giudiziario, che lunedì incomincerà l’iter a Palazzo Madama, per il quale rischia la decadenza da senatore. Una vicenda “persecutoria”, denuncia.

Veniamo alla sua vicenda, che è un caso politico, per la quale rischia la decadenza da senatore, in base alla legge Severino. E’ così?

«Penso di sì, viste le logiche prevalenti secondo le quali questo viene quasi considerato un automatismo. Ma io lo ho già detto e lo ridico con molta franchezza: in ogni caso ho intenzione di dimettermi. Però non sollevo il Senato dalla responsabilità di assumere una posizione su una vicenda giudiziaria che, secondo me, è stata condizionata da un atteggiamento persecutorio nei miei confronti, con una valenza politica non indifferente».

Ci può riassumere la kafkiana vicenda che la riguarda?

«In Rai mi proposero una retribuzione del 6 per cento in meno rispetto a quella del mio predecessore. Accetto, ma dico che, avendo un rapporto di collaborazione con il settimanale Panorama, avrei preferito mantenerlo. Ma l’allora presidente Rai Garimberti disse che non era possibile sia dal punto contrattuale sia etico. Chiesi quindi di riconoscermi almeno quello che avevo da inviato e editorialista della Stampa: una carta di credito per spese riguardanti il mio lavoro».

Poi, che accadde?

«Mi venne concessa la carta di credito che fu data anche agli altri direttori. Per 18 mesi mandai le ricevute. E non eclatanti, non c’erano cravatte, alberghi e menate varie. Si trattava di pranzi di due o tre persone. Nessuno mi disse nulla. Ma nel frattempo aumentava la tensione nei miei confronti per le mie posizioni politiche controcorrente. L’allora direttore generale Masi prima mi difende poi si rimangia tutto e mi dice che non era un benefit compensativo (per la mancata collaborazione con Panorama) ma una facility. E mi chiedono di mettere i nomi insieme con le ricevute. A questo punto ridò esattamente tutti i soldi, 65.000 euro, riservandomi di rivolgermi al giudice. E richiesi di collaborare con Panorama, cioè quello che contrattualmente e eticamente non era stato possibile prima, diventò possibile. Mi sembrò tutto abbastanza assurdo, ma pensai anche che la cosa si chiudesse lì».

Com’è che finisce in una vicenda penale?

«Nel frattempo Antonio Di Pietro aveva fatto un esposto. Nel processo, viene ascoltato anche Clemente Mimun ex direttore del Tg1 il quale dichiarò che era prassi che il direttore del Tg1 non faceva i nomi delle persone con le quali andava a pranzo. Il Pm chiese per me 2 anni, ma venni assolto in primo grado».

Poi dall’assoluzione alla condanna definitiva che accade?

«Innanzitutto che il giudice del lavoro mi dà ragione e obbliga la Rai a ridarmi i soldi. Ma nel frattempo io divento senatore e pongo la questione di un possibile impeachment di Napolitano per la vicenda del 2011, mi esprimo contro le riforme con Renzi, denuncio, infine, il presidente del Senato Pietro Grasso alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo per la gestione del dibattito sulle riforme costituzionali, strozzandolo con il “canguro”. Arriviamo all’appello, il tribunale capovolge di 180 gradi la sentenza. E invece di darmi due anni come aveva chiesto il Pm in primo e secondo grado mi danno mi danno 2 anni e 6 mesi e con quei 6 mesi proprio per far scattare la legge Severino Quindi viene fatta una sentenza squisitamente politica».

Ma arriva poi la Cassazione. E lì che accade?

«Due giorni prima viene cambiato il presidente del Tribunale che mi doveva giudicare. Era Milo, che aveva assolto Berlusconi sulla vicenda Rubi, e ne arriva un altro di Magistratura Democratica. Mi viene confermata la condanna. Entrato ormai in un incubo, vado a vedere chi fosse nel Tribunale della Corte d’Appello che aveva cambiato la mia sentenza di assoluzione. E scopro che c’era un giudice che per vent’anni aveva fatto politica: da sindaco di Andria a parlamentare a sottosegretario del governo Prodi, al ministero dell’Interno con Napolitano, esattamente l’ex Presidente di cui avevo teorizzato l’impeachment, a sottosegretario anche con D’Alema. Poi fu mandato per nomina politica a fare il consigliere giuridico dell’ambasciata italiana a Washington, rientrando quindi in magistratura nel 2013 appena un anno prima della mia sentenza. Si tratta di Nicola Sinisi. Ma che uno dalla politica possa rientrare così in magistratura a giudicare mi lascia quanto meno perplesso. Forse una cosa del genere avviene, chessò, in Turchia, in Egitto?»

Lei poi ha rincontrato lo stesso Di Pietro. Che le disse?

«Che per lui è un assurdo che un giudice che abbia fatto politica torni a fare il magistrato, che non a caso lui non lo ha fatto. E ora fa l’avvocato, ma neppure a Milano. In un momento poi di sincerità mi disse: tu hai pagato per la politica».

Magistrati di toga e di governo: quando il giudice entra in politica ma non si dimette. Collocamenti in aspettativa che durano decenni. Dimissioni che restano un miraggio. Promozioni assicurate anche senza svolgere attività giudiziaria. Mentre la legge che dovrebbe rivedere il sistema è ferma da mesi. Ma non sembra interessare nessuno, scrive Paolo Fantauzzi il 23 maggio 2016 su "L'Espresso". L’affondo del presidente dell'Anm, Piercamillo Davigo, sui politici che "non hanno smesso di rubare ma di vergognarsi". I giudizi non proprio lusinghieri sul governo del giudice Piergiorgio Morosini, ora al Csm. Le polemiche sul diritto di schierarsi sul referendum costituzionale. E come risposta, le accuse di invasioni di campo, interventi a gamba tesa, "barbarie giudiziarie". Se i venti di tempesta ricordano i tempi dell'assalto alle presunte toghe politicizzate, già cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi, nessuno pare ricordarsi del caso opposto: i "politici togati", ovvero tutti quegli esponenti di partito che, pur non avendo intenzione di rimettere piede nelle aule di giustizia da dove provengono, sono in aspettativa da tempo immemore. Così da risultare a tutti gli effetti in servizio e maturare pure l'anzianità per la progressione di carriera. Come? In base a una semplice relazione della Camera di appartenenza relativa all'attività parlamentare svolta. E quando l'avventura finisce, nessun problema: tornano nei tribunali senza colpo ferire, e pazienza per l'immagine di obiettività e imparzialità che dovrebbe accompagnarli. Ci vorrebbero dei paletti, ha ammonito a suo tempo Giorgio Napolitano e nei mesi scorsi anche il Csm. Solo che la legge, approvata all'unanimità dal Senato due anni fa, da dicembre è ferma a Montecitorio in commissione Giustizia. Presieduta, nemmeno a farlo apposta, da un magistrato fuori ruolo dal 1999 e in aspettativa dal 2008: Donatella Ferranti (Pd). In Parlamento siedono nove toghe (erano 17 la scorsa legislatura). Sei sono formalmente in attività: oltre alla Ferranti, i senatori democratici Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e il deputato montiano Stefano Dambruoso. Fra gli ex, il presidente del Senato Piero Grasso, che andò in prepensionamento quando si candidò col Pd, e come lui due forzisti: Nitto Palma, che si dimise nel 2011 a seguito della nomina a Guardasigilli (dieci anni dopo l'ingresso in politica) e l'ex sottosegretario Giacomo Caliendo. Caso a parte il verdiniano Ignazio Abrignani, in passato giudice tributario ma di fatto avvocato civilista. Emblematico il caso della Finocchiaro, magistrato per un lustro appena: pretore nell'ennese dal 1982 al 1985 (dove escluse dalle comunali il Psi, che aveva depositato la lista con 20 minuti di ritardo) più un paio d'anni da pm a Catania. Nel 1987, quando la Germania è ancora divisa e Maradona fa sognare Napoli, l'elezione alla Camera col Pci e l'aspettativa. Che dura tuttora: lo scorso 29 aprile, certifica il Csm, dalla prima delibera di autorizzazione erano trascorsi 28 anni, 3 mesi e 20 giorni. Fra le 823 toghe in servizio collocate fuori ruolo almeno una volta, ha ricostruito l'Espresso, nessuno può vantare un tale record. In questi tre decenni la Finocchiaro è stata ministro, capogruppo, candidata governatrice in Sicilia, due volte presidente di commissione, il suo nome è girato per il Quirinale ma di dimissioni nemmeno a parlarne. La lontananza dalle aule di giustizia non le ha comunque impedito di ottenere nel tempo sette valutazioni di professionalità, il massimo, e di veder confermati nel 2011 dal Consiglio giudiziario della Corte di appello di Roma “i giudizi positivi conseguiti nel corso di tutta la sua carriera”. Benché trascorsa in Parlamento anziché in tribunale. In questo modo, coi contributi versati, oltre a un vitalizio superiore a 5mila euro l'esponente Pd riscuoterà anche una cospicua pensione da magistrato. Porte girevoli invece per Doris Lo Moro. Dal 1988 ha esercitato una decina d'anni appena, peraltro a intermittenza: un quinquennio da giudice a Lamezia Terme, qualche mese a Roma alla sezione Lavoro, poi otto anni da sindaco (proprio a Lamezia). A seguire, ancora un po' di qua e un po' di là: di nuovo giudice nella capitale per altri quattro anni e dal 2005 la politica a tempo pieno, come consigliere regionale Ds e parlamentare Pd. Adesso, dopo due legislature, la senatrice è pronta per ricominciare il giro al Consiglio di Stato, dove Matteo Renzi vorrebbe nominarla. Vita a metà per la Ferranti: 17 anni con la toga, altrettanti fuori ruolo. Prima al Csm ai tempi di Rognoni e Mancino (dove diventa segretario generale) e poi, grazie anche a questi sponsor di peso, il salto in politica nel 2008: con una blindatura a capolista nel collegio Lazio 2. Se la Ferranti ha in serbo di tornare in magistratura, magari con l'ambizione di finire in Cassazione (si dice che per questo faccia grandi resistenze sul ddl che disciplina il rientro in carriera), chi non ci pensa affatto è Felice Casson. Il giudice istruttore del processo Gladio dopo un quarto di secolo da inquirente si è dato alla politica nel 2005: da allora due candidature a sindaco di Venezia, senza successo, e tre legislature. Oggi, a 63 anni, nella doppia veste di parlamentare e consigliere comunale, aspetta di poter andare in pensione. Alla prima esperienza è invece Dambruoso (Sc), esperto di terrorismo internazionale. Fra incarichi vari all'estero e ministeri la toga l'ha indossata poco ultimamente (dal 2003 solo per un anno, come pm a Milano) ma pure lui nei mesi scorsi ha ottenuto un avanzamento. L'emblema dei cortocircuiti che possono prodursi è Cosimo Ferri, sottosegretario in quota Alfano e al tempo stesso leader di Magistratura indipendente, di cui sponsorizzò i candidati via sms alle ultime elezioni per il Csm. Talmente "indifendibile", come lo definì, che Renzi dopo l'indignazione d'ufficio l'ha lasciato dov'era. Nemmeno questo figlio d'arte (il padre Enrico, ministro Psdi, è stata una toga prestata a tempo indeterminato alla politica) ha sudato particolarmente in tribunale: in tutto una decina d'anni, inframmezzati peraltro da un mandato al Consiglio superiore. Quando nel 2010 torna a fare il giudice a Massa, ha un seguito tale da risultare il più votato di sempre all'Anm ed è pronto per il salto in politica, che arriva grazie alle larghe intese in quota Forza Italia. Malgrado sia finito in pochi anni nelle intercettazioni di Calciopoli, dell'inchiesta Agcom-Annozero e della P3. Poco male: nel 2014, quando era già sottosegretario, il ministero della Giustizia ne ha certificato “equilibrio, imparzialità, serenità ed autonomia” che a gennaio gli sono valsi un nuovo scatto. Del resto, ministero che vai, sottosegretario-magistrato che trovi: al Viminale c'è Domenico Manzione, un passato da pm a Lucca, Monza e Alba prima di approdare all'esecutivo con Letta su indicazione di Renzi, di cui è intimo. A livello locale la musica non cambia, tanto che il Csm ha allo studio un'apposita delibera per stringere sulle incompatibilità con gli incarichi amministrativi. Nel 2009 Caterina Chinnici (figlia di Rocco, il giudice ucciso dalla mafia) ha accantonato la toga a Palermo per entrare nella giunta di centrodestra guidata da Raffaele Lombardo, poi è passata alla guida del dipartimento Giustizia minorile e nel 2014 è volata in Europa col Pd. Da pm antimafia, senza muoversi da Bari Michele Emiliano è diventato invece sindaco e governatore pugliese. In attesa, vai a sapere, di sfidare il segretario-premier al congresso. La nomina a segretario regionale dem gli è costata però un procedimento disciplinare: fare politica sì, militare a tutti gli effetti in un partito no. Questione di forma. Per quanto impalpabile possa essere il confine.

Compagno magistrato. Da Mani pulite alla lunga guerra contro il Cav. Cinquantadue anni di militanza a fianco della sinistra. Grande inchiesta sul marxismo giudiziario di Magistratura Democratica, scrive Annalisa Chirico il 17 Aprile 2016 su "Il Foglio". Magistratura Democratica nasce il 4 luglio 1964 a Bologna, nell’Aula magna del collegio universitario Irnerio dove si tiene la sua prima assemblea pubblica. Magistratura Democratica. Magistratura di sinistra. Toghe rosse. Contropotere. Lotta di classe. Marxismo giudiziario. Autonomia e indipendenza. Resistenza costituzionale. Costituzione Costituzione Costituzione. Corre l’anno 2016, e per difendere la Costituzione Md combatte al fianco dell’Arcinemico, il Caimano from Brianza, l’attentato alla Costituzione in carne e ossa, che se solo potesse la cambierebbe tutta in un istante. Ma ora lui non può, e l’idea si fa scintilla nella mente del Royal baby, Matteo Renzi, quello che “preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con i comunicati stampa”. Apriti cielo. Il premier vuole superare il bicameralismo paritario, due Camere uguali uguali che si rimpallano ogni testo in un ping pong snervante e interminabile. Addio spola, addio navette. Ma Berlusconi, che ieri era d’accordo, oggi scandisce il “no, giammai”, noi siamo opposizione. Rodotà e Zagrebelsky fissano pensosi l’orizzonte, e quasi trasecolano quando si accorgono che lui, il Caimano from Brianza, con incedere baldanzoso cammina dritto verso di loro. Che cosa vorrà mai? Il nemico è comune, il fronte pure. Tocca farsene una ragione. Sul sito web di Md campeggia il comunicato ufficiale di adesione al comitato per il NO (in stampatello) guidato dalla triade Zagrebelsky-Pace-Rodotà. “Lei è giovane come il direttore del Foglio con il quale sono già entrato in polemica – spiega con modi garbati l’attuale presidente di Md Carlo De Chiara – Dovete rendervi conto che la legge di riforma Renzi-Boschi, in sinergia con quella elettorale nota come Italicum, non ammoderna la macchina dello stato. A nostro avviso ne determina una pericolosa involuzione”. Ma, dottor De Chiara, lei non ravvisa neppure un filo di inopportunità nel fatto che una corrente giudiziaria ingaggi una battaglia politica contro il governo? “Md non è né si sente coinvolta in una lotta contro l’esecutivo. La materia costituzionale però travalica la politica contingente. La Costituzione è destinata a durare ben oltre la vita di un singolo governo”. “Io mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ma soprattutto perché sono un partigiano della Costituzione. E tra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare”. 30 ottobre 2011, il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia, iscritto Md, partecipa al sesto congresso dei Comunisti italiani. Il magistrato, “partigiano della Costituzione”, si sente investito di una missione all’apparenza neutra, in realtà profondamente politica e potenzialmente totalizzante. La “resistenza costituzionale” è l’alibi perfetto per condurre ogni sorta di battaglia extragiudiziaria. Se la Costituzione chiama, il “magistrato democratico” risponde. “Nel 2006 mi schierai contro il tentativo di revisione costituzionale voluto dal governo Berlusconi; partecipai a ben cinquantadue iniziative, le ho contate. Io non mi sono mai tirato indietro, non lo farò neppure questa volta”, Franco Ippolito, iscritto alla corrente della sinistra giudiziaria dal 1972, ha sfiorato l’elezione a primo presidente della Corte di Cassazione lo scorso dicembre. Ippolito era il candidato di bandiera di Md ma alla fine i Verdi – che con Md sono confluiti in Area – hanno optato per Giovanni Canzio, forte dell’appoggio del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Ippolito, preso atto dei rapporti di forza, il giorno prima dell’elezione ha spedito una lettera a Palazzo dei Marescialli per ritirare ufficialmente la propria candidatura. “Non vorrei parlare della vicenda, anzi non vorrei parlare affatto perché sono della vecchia scuola, non mi intrattengo con i giornalisti. Da gennaio sono presidente della sesta sezione penale, e il lavoro non mi manca”, cordialità. Si mostra più affabile Piergiorgio Morosini, classe 1964, iscritto Md dal 1997, membro togato del Csm dal 2014, si è astenuto sul nome di Canzio (“nel suo caso la proroga di un anno per il pensionamento non riflette lo spirito della norma”). Nell’estate 2012, da gup di Palermo, Morosini è investito dall’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia. All’epoca è pure segretario nazionale di Md, carica dalla quale decide di dimettersi. “Dovevo studiare oltre duecento faldoni e maneggiare una materia delicata sia per la natura eterogenea delle fonti di prova che per la complessità dei capi di imputazione. Non avevo il tempo per continuare a occuparmi della vita della corrente”. I beninformati invece sostengono che lei si sarebbe autosospeso per via delle voci interne critiche sul contenuto e sulla solidità dell’inchiesta palermitana, nonché sull’esposizione mediatica di alcuni rappresentanti della pubblica accusa, Ingroia e Nino Di Matteo (presidente della sezione palermitana dell’Anm). “Mi sono autosospeso e-sclu-si-va-men-te per portare a compimento il mio lavoro”. Nel marzo 2013 Morosini rinvia a giudizio dieci imputati per “violenza o minaccia aggravata a un corpo politico dello stato”, e il rito siculo, tra uomini di stato tacciati di mafiosità e uomini di mafia eretti a icone legalitarie, ha inizio. Due anni dopo, da componente togato del Csm Morosini si batte, senza successo, per la nomina dello stesso Di Matteo alla procura nazionale antimafia (“ho sostenuto che avesse meriti e titoli per quel ruolo. Non ho cambiato idea”). Morosini ha conosciuto i “convegni ideologici” soltanto per tradizione orale, negli anni di piombo era un adolescente, eppure di quella stagione non rinnega nulla: “Md ha svolto un ruolo cruciale per aumentare il tasso di civiltà del paese”. Md era una corrente esplicitamente politicizzata, caldeggiava la lotta di classe per via giudiziaria e il superamento della “giustizia borghese”. “Intendiamoci anzitutto sui termini: io parlerei di gruppi associati, non di correnti”. Pruderie linguistica. “Lei deve calarsi nell’atmosfera di quegli anni. L’obiettivo di Md era la costituzionalizzazione del diritto e la riforma profonda delle istituzioni retaggio dell’epoca fascista. Md voleva contaminare la società, per questo organizzava i cineforum dove la gente, terminata la visione del film, si intratteneva con i magistrati per discutere di politica e attualità. Mi risulta che lei si sia occupata estensivamente di abuso della custodia cautelare in carcere”. Confermo. “Sarà lieta di sapere che ho partecipato a decine di convegni a Sasso Marconi dove i magistrati seniores ci insegnavano che la carcerazione preventiva è una extrema ratio. Il mio patrimonio garantista mi deriva dall’appartenenza a Md”. Proviamo a riannodare il nastro. Md è la corrente del “disgelo” della Costituzione. La sua missione originaria consiste nella codificazione dei principi costituzionali nell’ordinamento. Md si caratterizza come avanguardia garantista, tutto vero. Non potrà negare però, consigliere Morosini, che Md è e rimane un “gruppo associato”, come dice lei, a elevato tasso di politicizzazione. Le “toghe rosse” sono tali per esplicita rivendicazione. In nome di una missione superiore – far vivere la Costituzione nella società – si sentono legittimate a intervenire su ogni questione: dalla Guerra del Golfo all’articolo 18, dalla scala mobile a Guantanamo, dai Pacs alla stepchild adoption. Quelli di Md non-si-tirano-mai-indietro. Md è vocata alla discesa in campo. “E che cosa ci sarebbe di disdicevole? Pensi al referendum sulla riforma del Senato”. Penso esattamente a quello. “La posizione di Md non va strumentalizzata. Il superamento del bicameralismo paritario riguarda la nostra ingegneria costituzionale. Chi cerca di farlo apparire come un plebiscito sul governo persegue obiettivi diversi. Più voci si confrontano meglio è per tutti. E’ un fatto salutare per la democrazia”. Se la magistratura si occupa di legiferare, mandiamo i parlamentari ad amministrare la giustizia? “La separazione dei poteri non è intaccata. La riforma in oggetto riduce le prerogative del Parlamento e dilata quelle del governo. Questo ci va bene?”. Io sogno Charles de Gaulle, si figuri. “Lei non mi dà alcuna soddisfazione, sottovaluta il rischio di una democrazia autoritaria. Quando sento bollare come stupido conservatore chi osa avanzare critiche, mi domando quale sia la vera posta in gioco. Intendo dire: perché si dovrebbe impedire a libere coscienze, peraltro dotate di competenze tecniche, di offrire un contributo pubblico? Ci si scandalizza se un magistrato si schiera su un tema rilevante come la riforma costituzionale e poi si tace se un altro fuori ruolo, con funzioni apicali in autorità di nomina governativa, assume ogni giorno posizioni politicistiche”. Si riferisce per caso a Raffaele Cantone? “Non mi costringa a far nomi”. Le “libere coscienze” togate dunque sarebbero meglio equipaggiate di noi comuni mortali per destreggiarsi tra tecnicalità costituzionali. E’ dello stesso parere Gennaro Marasca, Md dal 1970, scuola giuridica partenopea, in pensione per superato limite d’età. E’ membro del Csm negli anni di Tangentopoli e dello scontro frontale tra l’allora capo dello stato Francesco Cossiga e l’Associazione nazionale magistrati. A marzo dello scorso anno presiede la quinta sezione della Cassazione che assolve in via definitiva Raffaele Sollecito e Amanda Knox. “Il cittadino magistrato, di norma, ne capisce più degli altri. Non mi scandalizza che Md esprima la propria posizione, tanto più su un tema di rilevanza istituzionale. Ciò non toglie che io voterò a favore della riforma perché ritengo un fatto positivo imboccare la direzione del monocameralismo”. Il cittadino può affidarsi al giudice “terzo e imparziale” se costui scende in campo contro il governo? “La politicizzazione e l’imparzialità sono concetti distinti. L’imparzialità in sede di giudizio è un dato tecnico. La neutralità non è richiesta ed è anche pericolosa. Ogni scelta è politica”. Il magistrato, oltre che esserlo, dovrebbe apparire imparziale. “I magistrati sono, in primo luogo, cittadini. Rispetto alle grandi conquiste di civiltà e democrazia, non ci siamo mai tirati indietro. Leggiamo i giornali, viviamo di passioni, coltiviamo sensibilità politiche e culturali. La neutralità è una chimera”. Nel ’94 lei entra a far parte della giunta bassoliniana in qualità di assessore alla Trasparenza del comune di Napoli. Tre anni dopo, torna a esercitare la funzione giurisdizionale. Se domani lei vestisse i panni dell’imputato dinanzi a un giudice che è stato, a sua volta, assessore missino, non temerebbe un pregiudizio ostile nei suoi confronti? “Assolutamente no. La politicizzazione e l’imparzialità viaggiano su binari separati. La mia professione è stata sempre improntata al rigoroso rispetto della legge. Non avrei mai danneggiato un cittadino d’idee politiche opposte alle mie. Da assessore ho prestato un servizio civico in una città che ancora oggi versa in condizioni difficili. E il rischio è che De Magistris vinca per la seconda volta, anche per responsabilità di Bassolino che non ha saputo allevare una nuova classe dirigente. Le confesso, Renzi un po’ di ragione ce l’ha quando parla di rottamazione. Io ho 71 anni e mi sono fatto da parte. Le persone dovrebbero capire quando la loro stagione è conclusa”. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è il disgelo della Costituzione. La stagione, le stagioni. Md ne ha vissute più d’una. Cinquantadue anni in trincea contro il potere costituito, dentro e fuori le aule di giustizia, nelle fabbriche e nelle piazze, a colpi di comunicati stampa e mozioni approvate per alzata di mano. E poi le email, quante email, frenetiche email, in una corrispondenza per ticchettio talvolta violata. Come nel dicembre 2009 quando un tale Tartaglia ferisce al volto il Cavaliere con una statuetta del Duomo meneghino, e una toga rossa erutta in una mailing list privata: “Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce eversivi i magistrati?”. La stagione, le stagioni di Md. All’origine è marxismo giudiziario allo stato puro. Lotta di classe e giustizia proletaria. L’ordinamento risale al regime fascista, la Costituzione repubblicana è perlopiù inattuata. I “magistrati democratici” sono investiti di una missione: conferire linfa vitale alla Carta fondamentale. L’interpretazione evolutiva è preordinata a tale scopo. Segue poi la stagione del sangue, terrorismo fa rima con brigatismo, i magistrati cadono come eroi civili sotto il fuoco dell’ideologia armata. La corrente è spaccata tra movimentisti e gradualisti: i primi, vicini alla sinistra extraparlamentare, vedono nel Pci l’alibi di un sistema impermeabile al cambiamento, il terrorismo sarebbe una macchinazione dello stato borghese. I secondi perseguono un piano di riforma graduale del sistema capitalistico, il Pci è un alleato. Dopo qualche tentennamento e ambiguità di troppo, prevale la linea dell’intransigenza, esattamente come in via delle Botteghe Oscure. La terza stagione è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. A Ginevra Reagan e Gorbaciov s’incontrano, i berlinesi orientali scavalcano frenetici il Muro, le due Germanie si apprestano alla riunificazione. La cortina di ferro si sgretola nel cuore dell’Europa, e gli effetti si propagano fino in Italia. Il Pci teorizza la svolta post ideologica. Md deve cambiare per non morire. La missione originaria è esaurita: il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. In questo frangente Md cambia pelle: da corrente giudiziaria fiancheggiatrice della politica si trasforma in soggetto politico tout court. Tangentopoli segna la crisi della Repubblica dei partiti. Md cavalca l’inchiesta Mani pulite, i suoi esponenti assurgono a paladini della legalità. Nei confronti degli inquisiti per corruzione e tangenti lo zelo garantista, che negli anni Settanta ha suscitato frizioni interne sull’atteggiamento da riservare ai presunti terroristi, scompare: forma e sostanza dell’inchiesta milanese non sono minimamente messe in discussione, nessuna denuncia di “eccessi inquisitori”, di abusi manettari, nulla. Il 1994 è l’anno dell’“imprevisto” che di nome fa Silvio Berlusconi, capo di un partito e leader dell’antipartitismo. Il 21 novembre dello stesso anno, come preannunciato dal Corriere della Sera, il premier, nel bel mezzo di una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli, riceve dalla procura di Milano un invito a comparire per corruzione. Il Cav. è nemico delle toghe. Le toghe sono nemiche del Cav. Nel corso del cosiddetto Ventennio lo scontro si svolge in un crescendo rossiniano: Md è il “plotone d’esecuzione che vuole realizzare la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese”, l’“associazione a delinquere delle toghe rosse”, il “cancro della democrazia italiana”. Il copyright è di Berlusconi. La stagione dei giorni nostri, la stagione che viviamo, porta con sé tre paroline: crisi di identità. Md è disorientata. Non è più quella che è stata e non sa quel che sarà. Lotta di classe e Costituzione sono le parole d’ordine di un’epoca definitivamente archiviata. Md non è più fucina di elaborazione culturale e politica, non è più avanguardia modernizzatrice. Md sopravvive come corrente tra le correnti, anestetizzata dalle logiche corporative e spartitorie tipiche della magistratura associata. Nelle fabbriche e nelle piazze non ci sta più, resiste invece nei luoghi del potere, nel parlamentino delle toghe, l’Anm, e nel supremo organo di autogoverno, il Csm. Per mantenere influenza e peso elettorale è confluita in Area insieme ai Verdi del Movimento per la giustizia. Una scelta sofferta e contestata al suo interno. Alle ultime elezioni del Csm Area ha eletto sette membri, soltanto due di Md. “Venuta meno la strategia politica, non è rimasta che quella dei posti”, chiosa implacabile Luciano Violante che dei tempi d’oro fu autorevole esponente. Alcuni dei padri fondatori confidano di non riconoscersi nella versione attuale. E’ come se Md, con lo sguardo rivolto a un glorioso passato, non sia in grado di sintonizzarsi con la contemporaneità. Arrancando così nell’impietosa routine di una corrente tra le correnti. C’era una prima volta Magistratura Democratica, anno di nascita 1964, governo Moro di centrosinistra. Md è uno “strano animale”, nelle parole di Pietro Ingrao, “un soggetto politico-culturale: una organizzazione quindi impegnata in una battaglia di trasformazione politica e sociale, e contemporaneamente nella costruzione di una specifica cultura giuridica. Organizzazione a forte politicità generale”. L’Anm, sciolta d’imperio dal regime fascista nel 1925, risorge a Roma nel ’44, e negli anni Cinquanta vede germinare al suo interno le prime “correnti” (la più antica si chiama Terzo potere). Nel ’61 una pattuglia di strenui difensori dello status quo abbandona l’Anm: sono perlopiù magistrati di Cassazione che danno vita all’Unione magistrati italiani. Tra i fondatori di Md si annoverano gli scontenti dei risultati alle elezioni del Csm nel ’63. Con il sistema maggioritario uninominale senza liste ufficiali, né Dino Greco né Adolfo Beria d’Argentine, entrambi del cosiddetto “gruppo milanese”, risultano eletti. Giovanni Palombarini è la memoria vivente di Md alla quale aderisce sin dagli albori. Ricopre gli incarichi di segretario nazionale e presidente del gruppo associato, negli anni di piombo è giudice istruttore a Padova dove segue le inchieste di eversione politica, incluso il famigerato “processo 7 aprile”. Agli inizi degli anni Novanta è eletto al Csm. Autore di poderosi volumi sulla parabola storica della corrente, per uno di essi sceglie un titolo che è un attestato di sincerità, “Giudici a sinistra”. Nel 2013, ormai in pensione, si candida alla Camera come capolista nella circoscrizione padovana per Rivoluzione civile fondata dall’ex collega Antonio Ingroia. Secondo Palombarini, la nascita di Md “non è stata il frutto del confluire più o meno spontaneo di soggetti omogenei quanto a cultura istituzionale e sentimenti politici, ma dell’aggregazione di magistrati certamente democratici, capaci di cogliere come sotto il dogma dell’apoliticità dei giudici si nascondesse una storica omogeneità con il ceto politico di governo”. Anche dopo la proclamazione della Repubblica, la Corte di cassazione, al vertice della piramide giudiziaria, si consolida come il moloch della conservazione. La giurisprudenza della Suprema corte mira infatti alla sterilizzazione della Carta costituzionale. Nel libro “La toga rossa”, scritto a quattro mani con il giornalista Carlo Bonini, il compianto Francesco Misiani, tra i fondatori di Md, spiega così l’impulso originario: “La divisione tra noi e quelli che chiamavamo gli ermellini, vale a dire i magistrati di Cassazione, nonché le stesse correnti di destra dell’Anm (Magistratura indipendente e Terzo potere, nda), era profonda. E non solo per un problema di carriere ma anche di interpretazione della legge. Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto. Al contrario, la Cassazione si poneva quale ostacolo di qualunque giurisprudenza di tipo evolutivo”. Nel febbraio ’48 le sezioni unite si schierano contro l’attuazione della legge fondamentale con una sentenza che introduce la distinzione tra norme programmatiche e precettive, statuendo che soltanto le seconde avrebbero immediata efficacia nell’ordinamento. Le norme costituzionali sul diritto allo sciopero, sulla libertà di associazione e di pensiero non rientrerebbero tra queste. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti, tra i quali Stefano Rodotà, Pietro Barcellona e Sabino Cassese, mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è la costituzionalizzazione del diritto, vale a dire il disgelo della Costituzione, l’affermazione cioè del suo primato e del suo carattere immediatamente normativo. Si fa largo inoltre una nuova concezione del ruolo interpretativo del giudice che non può ridursi a mero esercizio burocratico secondo il mito della neutralità della legge. Negli stessi anni il giurista Giuseppe Maranini pubblica gli atti di un convegno intitolato, provocatoriamente, “Magistrati o funzionari?”. A suo giudizio, è dovere del giudice valutare la norma alla luce del dettato costituzionale esprimendo così un preciso indirizzo di politica costituzionale. Nel ’92 Giuseppe Borré, già componente del Csm e fondatore della rivista Md Questione giustizia, afferma: “La magistratura è politica nel senso che è indipendente, non falsamente neutrale – alla vecchia maniera – ma indipendente nel senso voluto dalla Costituzione, e qui parlerei di politicità-indipendenza, politicità in quanto indipendenza. La magistratura è politica proprio perché è indipendente dagli altri poteri dello stato. Il suo essere indipendente non la colloca in un altro universo (pretesamente apolitico), ma la fa essere un autonomo e rilevante momento del sistema politico”. A partire dai primi mesi del ’64 i “magistrati democratici”, delusi dall’ordine esistente e smaniosi di una “rinascita costituzionale”, cominciano a incontrarsi in conciliaboli informali presso le abitazioni degli stessi animatori progressisti fin quando Federico Governatori, pretore del lavoro, meglio noto come il “giudice degli operai”, chiede al rettore dell’Università di Bologna un locale che possa ospitare la prima assemblea pubblica. Il 4 luglio 1964, nell’Aula magna del collegio Irnerio in via Zamboni, si compie l’atto di nascita di Magistratura Democratica. Il nome lo propone un giudice di Varese, Vincenzo Rovello. In calce alla mozione costitutiva di Md si leggono le firme di ventisette magistrati. Governatori è il primo segretario nazionale. “Di padroni a cui dobbiamo ubbidienza ce n’è uno solo, la Costituzione”, esordisce così sul primo numero della rivista Qualegiustizia di cui sarà direttore. Nella mozione conclusiva Md si caratterizza come movimento di rottura “contro il gran vuoto ideologico” della magistratura italiana. E’ compito del magistrato farsi promotore del cambiamento, non semplice burocrate addetto all’applicazione asettica delle norme. Il magistrato non è funzionario, non è “bocca della legge”. Si fa strada l’idea di una “giurisprudenza alternativa”, incentrata sul ruolo interpretativo del giudice e formalizzata nel ’71 in un libretto giallo, dal colore della copertina, intitolato “Per una strategia politica di Magistratura Democratica”. Gli autori sono tre nomi di peso: Luigi Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese. Nel documento si sostiene che è compito del magistrato formulare una “interpretazione evolutiva del diritto”: i magistrati democratici devono organizzarsi come “componente del movimento di classe” e dar vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i princìpi eversivi dell’apparato normativo borghese”. La formula apparentemente innocua – interpretazione evolutiva del diritto – servirà a giustificare la funzione di “supplenza” del magistrato che in assenza di una legge è in grado di inventarla ex novo, in presenza di essa può interpretarla in modo innovativo, alla luce dei costumi e dei mutamenti sociali in atto, fino a stravolgerne il significato letterale. E’ il caso del giudice che interpreta la legge non già per applicarla ma per cambiarla. “Era una tesi certamente forte e pericolosa – commenta Violante con gli occhi di oggi – Non rispecchiava la mia posizione, e lo stesso Ferrajoli nel tempo ha preso le distanze. Numerosi iscritti alla corrente erano attratti dall’idea che l’attività giurisdizionale servisse non già a consolidare ma a trasformare. Ricordo che Barcellona organizzò un convegno a Catania sul cosiddetto uso alternativo del diritto. Io mi rifiutai di prendervi parte”. La mole di documenti, notiziari e riviste testimonia l’effervescenza culturale di Md. La Costituzione è onnipresente, è il Santo Graal, l’articolo 3 è il dogma infallibile e non negoziabile. “Si trattava di far vivere la Costituzione nell’ordinamento”, replica Violante, iscritto Md dal 1967 fino all’uscita, nove anni dopo, in polemica per una “insopportabile ambiguità sul terrorismo”. Violante diventa l’anello di congiunzione tra la politica (di sinistra) e la magistratura (di sinistra). “Ero giudice istruttore a Torino quando m’iscrissi a Md. Il punto focale era la contestazione della neutralità del diritto e la necessità di porre al centro il sindacato costituzionale delle norme. C’era da smantellare un codice d’impianto autoritario, e noi di Md ci muovevamo nell’ottica dell’articolo 3, per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla realizzazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di razza, sesso, età, ceto sociale”. Una formula che comportava una scelta di vita e di campo. “La tensione tra conservazione e modernità era presente nella società civile e si rifletteva in ogni ambito. In quegli anni nascono organizzazioni ispirate ad analoghe istanze di cambiamento, come Medicina Democratica, animata da Giulio Alfredo Maccacaro, e Psichiatria Democratica, fondata da Franco Basaglia”. Nel dicembre ’71 a Roma Md approva la seguente mozione: “Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe”, tale da “imporre un processo di riappropriazione popolare”. Anticapitalisti alla riscossa. “Certi toni erano un po’ sopra le righe, d’accordo. Però mi permetta di farle notare che chi era sul fronte conservatore e sosteneva la neutralità del diritto, era considerato al di sopra delle parti. Noi che stavamo dalla parte dei più deboli, dei soggetti sottoprotetti, eravamo tacciati di faziosità. La verità è che abbiamo modernizzato il paese. I primi passi per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e contro la discriminazione di genere provengono dall’attività giudiziaria dei magistrati democratici. A Torino entravamo nelle fabbriche della Fiat, ascoltavamo i lavoratori per conoscere l’organizzazione del lavoro e per sanzionare certe prassi che, al fine di velocizzare la catena di montaggio, mettevano talvolta a repentaglio l’incolumità degli operai". Ecco, le fabbriche e le piazze. Md esce dalle aule giudiziarie per sintonizzarsi con la società, per contaminare il tessuto sociale, per conquistare le casematte di gramsciana memoria. Nelle fabbriche e nelle piazze si salda l’alleanza tra magistrati di sinistra, sindacati e Pci. Il sistema giudiziario non è più visto come apparato fascista, arma delle classi dominanti e sovrastruttura borghese da abbattere. Il magistrato diventa gradualmente alleato. In seno a Md si consuma una spaccatura profonda tra i movimentisti, che guardano alla sinistra extraparlamentare e considerano il partito di Botteghe Oscure come l’alibi perfetto di un sistema che non ha alcuna intenzione di riformarsi; e i gradualisti che vedono nel Pci il riferimento naturale per un percorso che approdi progressivamente alla riforma del sistema capitalistico. Tra questi si annoverano Edmondo Bruti Liberati, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Nuccio Veneziano. Misiani, movimentista del “gruppo romano” (il più esagitato), ricorda così il viaggio in Cina nell’estate del ’76 insieme al collega togato Franco Marrone: ‘Accompagnammo una delegazione dell’allora Partito comunista d’Italia invitata dal Partito comunista cinese. Eravamo subito dopo la Rivoluzione culturale e riuscimmo persino a esaltare il processo popolare in Cina, di cui avevamo avuto un saggio all’interno di uno stadio dove vennero condannati per acclamazione quattro disgraziati. Avemmo la sfacciataggine di esaltare quel tipo di processo sostenendo che lì si realizzava la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. Al contrario di quanto avveniva nelle nostre aule di giustizia dove i giudici borghesi condannavano i nemici di classe”. A proposito dell’allucinazione ideologica di quegli anni Misiani ammette: “Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori. Ma avevamo di fronte un esercito di miserabili che ritenevamo ingiusto condannare in nome di una giustizia di classe cui erano regolarmente estranei i soggetti forti. Sulle ragioni giuridiche facevano agio quelle di carattere sociale”.

Come nasce la strategia politica dei compagni magistrati. Il terrorismo, le divisioni, la Costituzione come schermo per incalzare i governi. L’attivismo del partito delle procure spiegato con la storia a puntate di Md (e il suo primo processo interno), scrive Annalisa Chirico il 21 Aprile 2016 su "Il Foglio". A partire dalla fine degli anni Settanta, l’alleanza tra magistratura di sinistra e politica di sinistra si trasforma in autentica osmosi con frequenti cambi di ruolo. Il primo riguarda Luciano Violante. Membro della giunta nazionale di Md con Generoso Petrella segretario, nel ’76 Violante abbandona la corrente in segno di protesta contro l’“insopportabile ambiguità” nei confronti del fenomeno terroristico, e comincia a lavorare presso l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Nel ‘79 prende la tessera del Pci ed è eletto alla Camera dei deputati. Petrella, a sua volta, sarà senatore comunista per due legislature. “Md era spaccata al suo interno – commenta Violante – e c’era una componente movimentista, esagitata, che corrispondeva al cosiddetto gruppo romano e considerava il brigatismo rosso come una montatura a opera di apparati dello stato. Questa fazione, anti Pci, faceva capo a Luigi Saraceni, padre di una terrorista. Poi ce n’era invece un’altra che simpatizzava per il partito di Botteghe oscure”. La figlia di Saraceni è Federica, brigatista condannata in via definitiva per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona. Saraceni senior sarà deputato per due legislature nelle file dei Ds e dei Verdi. In un certo senso, per una lunga stagione Md e Pci si muovono lungo un percorso parallelo: da una parte e dall’altra, ci sono “comunisti ortodossi” e quelli affascinati dalle sirene della sinistra extraparlamentare. “Io direi piuttosto che Pci e Md –puntualizza Violante – si muovono lungo la medesima corsia ideale. Almeno all’inizio il giudice è un nemico agli occhi dell’elettorato di base. Il Pci rivendica il monopolio esclusivo della politica. Soltanto in seguito all’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, il rapporto del giudice con la base comincia a mutare”. A quel punto il giudice si trasforma nel supremo vendicatore della classe operaia contro la giustizia borghese. A un convegno di corrente Antonio Bevere, all’epoca sostituto procuratore del tribunale di Milano, detta la linea: “Il capitalismo è il vero nemico della democrazia”. 1969: l’ordine del giorno Tolin provoca una scissione interna. Il 30 ottobre di quell’anno il professore padovano Francesco Tolin, direttore responsabile della rivista Potere operaio, pubblica un articolo dal titolo “Sì alla violenza operaia”. Il 24 novembre viene arrestato e processato per direttissima: l’accusa è istigazione continuata a delinquere. Siamo nell’Autunno caldo, a Milano e Roma alcuni tipografi arrivano a chiedere il preventivo visto della questura prima di stampare un manifesto delle organizzazioni sindacali e politiche. L’arresto immediato di Tolin e la condanna a diciassette mesi di carcere senza condizionale suscitano aspre reazioni. Sessanta giornalisti Rai firmano un appello per la sua scarcerazione. Il 30 novembre l’assemblea nazionale di Md, riunita in via Galliera a Bologna, approva un ordine del giorno, frutto di una travagliata discussione interna, in cui si esprime preoccupazione per “un disegno sistematico operante con vari strumenti e a vari livelli, teso a impedire a taluni la libertà di opinione”. La scissione è datata 20 dicembre: presso l’albergo Minerva di Roma i moderati, bollati spregiativamente come “socialdemocratici”, esigono una retromarcia rispetto al controverso odg Tolin e accusano i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina”. Ma che cos’è accaduto nella parentesi temporale intercorsa tra l’approvazione dell’odg e la richiesta di dietrofront? 12 dicembre, strage di Piazza Fontana. La madre di tutte le stragi. Diciassette morti e quasi novanta feriti. “Resto convinto che senza quell’evento traumatico la scissione non ci sarebbe stata, o forse sarebbe stata rinviata. La bomba ebbe un effetto lacerante, suscitò reazioni umane impreviste. La posta in gioco era altissima. Nessuno di noi sapeva che cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco”. Parla così Giuseppe Pulitanò, iscritto Md sin dal suo ingresso in magistratura nel 1968. Abbandona la toga dodici anni dopo quando ottiene l’agognata cattedra universitaria di diritto penale. Pulitanò, come Violante e Gian Carlo Caselli, è fautore della linea dura contro l’estremismo violento. “L’odg Tolin non era nel mio stile, era nel clima del tempo”. Quando il processo per la strage di Piazza Fontana viene trasferito a Catanzaro per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto, la giunta milanese di Md approva un documento critico. Passano pochi giorni e il Csm apre un procedimento disciplinare nei confronti dei promotori Pulitanò, Greco e Guido Galli (che sarà ammazzato nel 1980 da un nucleo di Prima linea). “Nel ’74 fummo completamente assolti – ricorda Pulitanò, esponente della destra Md – Il clima era talmente esasperato che ogni accenno critico era visto con sospetto. E’ innegabile che tra noi ci furono degli eccessi, alcuni colleghi del gruppo romano erano letteralmente innamorati della Rivoluzione culturale di Mao Tse-Tung. Tuttavia l’ambiguità di chi diceva né con lo stato né con le Brigate rosse non ebbe mai echi nella corrente. La diversità di approccio era piuttosto tra chi protestava le ragioni del garantismo in senso assoluto, e chi invece, come me e Violante, riteneva che la priorità fosse una soltanto, contrastare il terrorismo senza se e senza ma”. Così sul finire del ’69 i moderati guidati da Beria d’Argentine danno vita a una nuova corrente, Giustizia e Costituzione (dopo qualche tempo, questa prenderà il nome di Impegno Costituzionale da cui nascerà poi Unità per la Costituzione). “Andammo a cena in una trattoria dietro il Pantheon. Tre Md; freddo di fuori e freddo di dentro. Mi ricordavo il tempo di guerra, quando intorno a un po’ di brace ci si stringeva serrati per godere di tutto il poco calore che dava”, così Marco Ramat, strenuo difensore dell’odg Tolin, ricorda i minuti successivi alla rottura quando insieme a Petrella e a Luigi De Marco prendono atto della impossibilità di ricomporre la frattura. “Il nostro piccolo Vietnam”, commenta Petrella. In Md rimangono i duri e puri, quelli che non hanno paura di intervenire su un processo in corso perché nessuno deve finire dietro le sbarre per un reato di opinione.

Eppure le contraddizioni interne a Md si manifestano sin dalla metà degli Anni Sessanta con le cosiddette “contro inaugurazioni” dell’anno giudiziario. Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, è l’ispiratore della contromanifestazione a opera di magistrati che contestano la tradizionale e pomposa inaugurazione istituzionale. Pesce è lo stesso che muore d’infarto nel gennaio 1970, e ai funerali è presente il capo della Resistenza Ferruccio Parri. La commemorazione si tiene fuori dal palazzo di giustizia, quando la bara si allontana da piazza Cavour sventolano decine di bandiere rosse e tutti, compresi i magistrati presenti, la salutano con il pugno alzato. L’ultima pagina de L’Unità è invasa dai necrologi in suo onore, uno di essi recita testualmente: “E’ morto Ottorino Pesce, magistrato, militante della classe operaia. Lo ricordano i compagni…”, e via un profluvio di nomi illustri, tutte toghe rosse. “Io non ero d’accordo con le contro inaugurazioni, e non ero il solo”, precisa Violante. Nel ’69 le contro inaugurazioni si tengono a Roma, Milano, Bari e Bologna. Il 9 gennaio 1969 Pietro Nenni appunta sul diario personale: “Cenato da Saragat. Stamattina inaugurando l’anno giudiziario al Palazzaccio s’è trovato coinvolto anche lui in un episodio della contestazione. Avvocati, magistrati che accusano parlamento e governo per disfunzioni giudiziarie e fanno a botte tra loro sui rimedi da apportare”. Vittorio Borraccetti, già segretario di Md e membro del Csm tra il 2010 e il 2014, ha vivida memoria dell’anno 1969. “Ero appena entrato in magistratura e m’iscrissi a Md. La battaglia sul’odg Tolin era una battaglia squisitamente liberale. Volevamo non solo opporci all’arresto di una persona per un reato d’opinione ma contestavamo inoltre una norma che prevedeva l’autorizzazione della questura per la stampa di manifesti. Quel giorno a Bologna non ero presente ma ero ugualmente favorevole”. Era presente invece Violante che difende tuttora lo spirito dell’iniziativa. “Nessuna interferenza col processo in corso. Era un’autonoma presa di posizione del tutto legittima”. A Bologna c’era Libero Mancuso: “Sono tuttora iscritto alla corrente seppure in pensione dal 2006. Con l’odg Tolin rivendicavamo il diritto di critica, e prendevamo le distanze da quei giudici che lo avevano negato in un clima di intimidazione che rappresenta, scrivemmo, un grave sintomo di arretramento della società civile”. In altre parole, Md rivendica in quegli anni il diritto di contestare apertamente l’operato di alcuni magistrati in procedimenti specifici. Si celebra il processo al processo. “Sempre al fine di difendere i valori della Carta costituzionale, beninteso – rincara Mancuso – Senza partigianerie al di fuori di quella militanza”. Eccovi servita la parola chiave: militanza. Di sinistra. “Md delle origini è cosa diversa da quella attuale. Oggi assistiamo a un declino dovuto alla presenza più invasiva del correntismo quale strumento di affermazione carrieristica. Il che è avvenuto a causa della crisi delle idee, della politica e del prevalere delle correnti latrici di derive clientelari”. Mancuso, che da toga eretica di sinistra indaga sugli intrecci tra coop rosse e mafie, voterà al prossimo referendum costituzionale? “La riforma Renzi è persino più aggressiva e pericolosa della vecchia riforma Berlusconi. Non mi tirerò indietro neanche questa volta”. Di parere opposto Pulitanò che come Mancuso ha abbracciato l’attività forense: “Voterò a favore della riforma. E ritengo ragionevole non coinvolgere in questa diatriba un gruppo di magistrati associati, Md dovrebbe starne fuori. Non ne faccio un discorso di legittimità ma di opportunità, un elemento che per un magistrato conta”. O almeno dovrebbe contare. Tirarsi indietro, mai. E’ un motivo ricorrente. Chi lotta non si tira indietro. Chi è investito di una missione non si tira indietro. La svolta, come si diceva, avviene attorno all’odg Tolin: la “scissione socialdemocratica” va di pari passo con la radicalizzazione interna a Md. “Il punto è che noi siamo figli del Sessantotto ma la nostra vita ha avuto un seme radicato nella storia delle lotte del movimento operaio. E se non siamo scomparsi dalla scena politica alla pari di altre espressioni del Sessantotto è perché siamo cresciuti con quelle lotte e a fianco di essere”, scrive Francesco Misiani, storico fondatore di Md. Ma che cosa significa “essere figli del Sessantotto”? Negli stessi mesi del contestato odg Tolin a Roma due giovani del movimento studentesco sono arrestati dalla polizia. Il fascicolo è trasmesso al sostituto di turno, Franco Marrone (lo stesso del viaggio in Cina in compagnia di Misiani). Il giorno dopo il Tempo denuncia l’assegnazione del fascicolo a una toga “maoista”. Prontamente il procuratore capo gli sottrae il fascicolo e lo affida a un più mite collega. Il 12 maggio 1970 durante un convegno a Sarzana Marrone spiega alla platea che secondo un’analisi marxiana del diritto la legge consacra i rapporti di forza esistenti ma non è in grado di modificarli. Perciò, prosegue Marrone, “i magistrati sono servi dei padroni”. L’affermazione ardita gli costa un processo penale per vilipendio all’ordine giudiziario, alla fine ne esce assolto. Negli anni di piombo la corrente, muovendosi lungo la medesima “corsia ideale” del Pci, è chiamata a fare i conti con il terrorismo rosso, non laccato di rosso. Ne sa qualcosa Gian Carlo Caselli, iscritto Md sin dall’ingresso in magistratura nel ’67, tra i primi a comprendere che “non ci trovavamo di fronte a Robin Hood ma a un gruppo di assassini”. L’8 settembre 1974 i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa arrestano a Pinerolo, vicino Torino, i capi delle Br Renato Curcio e Alberto Franceschini. Le indagini sono coordinate dal pm Bruno Caccia e dal giudice istruttore Caselli. In un’intervista rilasciata a Repubblica nel 2014, Caselli rievoca un successivo incontro con Franceschini a Rebibbia: “Era un arrogante. Si dichiarò rivoluzionario di professione. E mi chiese: dottor Caselli, lei non è di Magistratura democratica? Io risposi: sì, perché? Lui era convinto che essere di Md significasse avere un atteggiamento di condiscendenza verso la violenza”. Ci volle del tempo, evidenzia Caselli, per “rompere il muro di ambiguità dei compagni che sbagliano, i complici silenzi di certi intellettuali”. Si dovette assistere alla “vergognosa campagna contro il commissario Calabresi che pagò con la vita quelle menzogne”, fin quando si ottenne “la fine delle contiguità e degli appoggi che avevano portato molti a non vedere la tempesta che stava addensandosi”. Nel ’76 Violante decide di interrompere l’iscrizione alla corrente per via dell’“insopportabile ambiguità” nei confronti della violenza armata. “Ricordo chi, come Giorgio Bocca su L’Espresso, prendeva in giro noi magistrati che istruivamo i processi contro i terroristi. Ai funerali di Casalegno, davanti alla chiesa del quartiere Crocetta, non c’era quasi nessuno”. Nel ’77 Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa di Torino, è il primo giornalista a essere ucciso da un commando delle Br. “Berlinguer parlava di fascisti rossi perché in effetti l’unica violenza che l’Italia aveva conosciuto era quella fascista. Per estirpare il fenomeno fu necessaria l’attività repressiva, e poi servirono decine di assemblee nelle sedi di partito, nelle parrocchie, nelle fabbriche per convincere l’opinione pubblica che eravamo alle prese con la violenza eversiva di sinistra”. “Il fatto terroristico – spiega Borraccetti – aiutò tutti noi a fare chiarezza al nostro interno. Ci volle del tempo, è vero, ma alla fine le zone d’ombra scomparvero e Md si schierò compatta contro il terrorismo. Molti di noi imbastirono i processi contro il terrorismo rosso e nero. Tuttavia, domando, che senso ha soffermarsi su qualche frangia facinorosa di quarant’anni fa quando poi, ai giorni nostri, si accolgono con tutti gli onori esimi intellettuali già militanti di Lotta Continua?”. Ecco, che senso ha. Nel 2013 Caselli abbandona Md in seguito alla pubblicazione di un pezzo di Erri de Luca sull’agenda annuale della corrente. “Euridice alla lettera significa trovare giustizia […]. Ho fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla”, scrive Erri de Luca. A proposito degli anni di Piombo, “si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. […] Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali”. Caselli, procuratore capo di Torino e oggi, dopo un percorso non sempre lineare, simbolo della lotta alla violenza armata in Val di Susa, sfoglia la rivista della “sua” corrente che ha deciso di accogliere il contributo “culturale” dello scrittore pasdaran no-Tav con un passato da responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. L’iniziativa appare come un duplice affronto verso chi, con indosso la toga, ha rischiato la vita per contrastare la violenza brigatista e, in tempi più recenti, ha accusato di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico i responsabili degli assalti ai cantieri di Chiomonte. E’ come se un’intollerabile ambiguità tornasse a solleticare gli istinti profondi della corrente. E non è un mistero che alcuni autorevoli esponenti, in primis Livio Pepino, contestino radicalmente l’imputazione per terrorismo. Pepino, classe 1944, ex presidente Md e membro del Csm, già direttore di Questione giustizia e co-direttore di Narcomafie (“mensile redatto in stretta collaborazione con Libera”), bolla pubblicamente l’imputazione terroristica come un “fatto di inaudita gravità”. Quando la corte d’assise di Torino condanna i quattro militanti no-Tav a tre anni e sei mesi per porto d’armi da guerra, danneggiamento seguìto da incendio e violenza a pubblico ufficiale, Pepino esulta perché i quattro sono assolti dall’accusa di terrorismo: “C’è un giudice a Torino!”. Questa volta la misura è colma. Dopo la pubblicazione dell’articolo deluchiano, Caselli non proferisce verbo, non si ferma a spiegare, non gli interessa più persuadere i colleghi che con la violenza non si scherza. Per lui la stagione Md è definitivamente chiusa. Caselli si dimette. A un anno di distanza rompe il silenzio: “Non mi preoccupa l’eventuale rinascita di un partito catacombale e clandestino come furono le Br. Mi sembra fuori dalla realtà e spero di non sbagliarmi. Mi preoccupa il ripetersi in certi ambienti intellettuali di oggi delle stesse ambiguità di allora di fronte alla violenza delle frange estreme. Mi preoccupa il ritorno, in sedicesimo, della stagione dei compagni che sbagliano. Mi preoccupano le predicazioni di intellettuali miopi e nostalgici che possono far credere a chi ha già pochi filtri critici che stia riproducendosi il clima di allora”. Gli anni di piombo. Le fratture dentro Md. Il no alle leggi emergenziali, al decreto Cossiga, all’allungamento dei termini di carcerazione preventiva. Il ’78 e l’assassinio di Aldo Moro. Il ’79 e il “processo 7 aprile” con decine di imputati per associazione sovversiva e banda armata (tra questi Antonio Negri e Giuseppe Nicotri). Il pm che coordina l’inchiesta padovana, Pietro Calogero, afferma: “Un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega Brigate rosse e gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alle basi dello Stato”. All’interno di Md si fronteggiano due anime: i “garantisti ortodossi” e quanti invece intendono farsi carico delle esigenze della lotta al terrorismo, anche a costo di attenuare lo zelo garantista. Borré, presidente Md dal ‘78 all’‘86 e fondatore della rivista Questione giustizia (di cui resterà direttore per quindici anni), tenta insieme al segretario nazionale Salvatore Senese -– tre legislature targate Ulivo – un delicato esercizio di equilibrio tra le divergenti spinte interne. La destra Md, capitanata da Pulitanò e Greco, aderisce alla linea dell’intransigenza. “La verità – chiosa Violante – è che, una volta che Md fece finalmente chiarezza al suo interno e ruppe ogni contiguità, diversi magistrati iscritti alla corrente diventarono bersaglio dei brigatisti”. Nel libro “Le catene della sinistra” Claudio Cerasa riporta un elenco delle vittime togate del fuoco estremista. Tra il 1976 e il 1990 ben undici pm muoiono assassinati da Br, Prima Linea e Ordine Nuovo. Tra i caduti per mano dei terroristi di estrema sinistra ci sono Emilio Alessandrini, Francesco Coco, Guido Galli e Girolamo Tartaglione. “Ripercorrendo quella sequela di morti – prosegue Violante – capisci come tra noi sopravvissuti sia nata un’amicizia speciale, un legame simile a quello che si salda tra chi combatte in trincea e riesce a tornare a casa sano e salvo. E’ questa la natura del mio rapporto con Gian Carlo”, un nome che fa il paio con Caselli. Anni Ottanta. Craxi e il craxismo. La strategia del “pentapartito”. Tutto ha inizio nel 1981 con il “patto del camper” quando, a margine di un congresso del Partito socialista italiano, il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi siglano un patto di governo, con la benedizione di Giulio Andreotti. Craxi è leader di minoranza estraneo alle due chiese, Dc e Pci, e determinato a conquistare palazzo Chigi. Nel volume “La costituzione e i diritti. Una storia italiana”, scritto a quattro mani con il collega di corrente Gianfranco Viglietta, Palombarini liquida il “decennio da bere” come contraddistinto da “un nuovo modo di gestire la cosa pubblica, disinvolto e spavaldo”. La stagione dei diritti civili degli anni Settanta – statuto dei lavoratori, divorzio, diritto di famiglia, aborto, referendum – ha comportato una mutazione sociale. “Abbiamo modernizzato il paese”, rivendica Violante. “Il paese si è modernizzato da solo – replica Pulitanò – Tra noi di Md alcuni hanno fatto bene, altri no. La storia non dovrebbero scriverla mai i protagonisti”. Quel che è certo è che l’Italia degli anni Ottanta è molto diversa da quella in cui Md ha visto la luce nel ‘64. Il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. 14 ottobre 1980, la “marcia dei quarantamila”: a Torino impiegati e quadri Fiat sfilano a sostegno dell’azienda contro i picchettaggi che da oltre un mese impediscono l’accesso in fabbrica. La retorica del capitale contro il lavoro subisce un duro smacco. Nel 1981 dinanzi al comitato centrale del partito Craxi espone un programma “riformista” (bestemmia) che comprende, accanto al rafforzamento dell’esecutivo (seconda bestemmia), la “politicizzazione” della magistratura (e allora ditelo). Nel 1984 il governo Craxi taglia di quattro punti percentuali la scala mobile contro l’aumento galoppante dei prezzi. Berlinguer lancia il referendum abrogativo, numerosi esponenti di Md si schierano pubblicamente per il sì. Si desume che l’adeguamento dei salari all’inflazione e il potere d’acquisto dei consumatori rientrino nella missione di un vero “magistrato democratico”. I cittadini votano e la maggioranza dice no, il taglio rimane. Per giunta, Craxi è amico del “diabolico imprenditore televisivo”, Silvio Berlusconi. I pretori di Torino, Pescara e Roma ordinano la sospensione dei programmi delle tre reti Fininvest – mediante il famigerato sistema delle videocassette – perché in violazione del monopolio pubblico Rai su scala nazionale. Il governo Craxi interviene per decreto. Md protesta con toni accesi. Si materializza, per la prima volta in assoluto, la triangolazione Md-Craxi-Berlusconi. Siamo ai prodromi della guerra. Nel frattempo la vita interna della corrente è tutt’altro che tranquilla. I punti di disaccordo si moltiplicano. Alle elezioni del Csm nel 1981 il candidato Md Marrone, esponente dell’esagitato gruppo romano (“magistrati servi dei padroni”, ricordate?), è apertamente osteggiato dalla destra interna al punto da non essere eletto. Sul Manifesto le toghe Romano Canosa e Amedeo Santosuosso affermano che Md non deve più difendersi dalle accuse di politicizzazione ma da un “serpentello” interno: “Proprio gli iscritti di Md con maggiore furore e entusiasmo si sono buttati a costruire processi di terrorismo fondati prevalentemente sulla parola dei pentiti”. L’accusa per niente velata nei confronti dei colleghi inquirenti è di aver condotto trattative sottobanco con gli indagati; i due fanno esplicito riferimento al processo a carico di Marco Barbone, assassino di Walter Tobagi, e del gruppo denominato “Brigata XXVIII marzo”. Il giudice istruttore dell’inchiesta è Elena Paciotti, storica toga Md, in magistratura dal 1967, prima donna a ricoprire l’incarico di componente del Csm. Paciotti è per due volte presidente dell’Anm, nel ’99 è eletta eurodeputata nelle liste dei Democratici di sinistra. Canosa e Santosuosso subiscono un procedimento disciplinare che si conclude con un ammonimento per entrambi. Al congresso di Sorrento nel 1984 Caselli contesta pubblicamente il segretario nazionale Palombarini che nella sua relazione mette in evidenza le “smagliature sostanzialiste” ravvisabili, a suo dire, nei processi a carico dei presunti terroristi. Per Caselli invece non c’è stato alcun “coinvolgimento emergenziale”: i magistrati hanno svolto soltanto il proprio dovere. Ora che il disgelo della Costituzione è compiuto, ogni tentativo di modificare la legge fondamentale va scongiurato. I princìpi costituzionali finalmente vivono nell’ordinamento, la missione del magistrato democratico consiste adesso nella salvaguardia del carattere immutabile della Costituzione. Il magistrato democratico è il guardiano della sua impermeabilità a qualunque cambiamento. Che il premier si chiami Craxi, Berlusconi o Renzi, la parola d’ordine è una soltanto, anzi due, “resistenza costituzionale”, vale a dire strenua difesa del progetto del costituente repubblicano. “Un progetto che implica il conflitto verso l’esistente e nel quale l’uguaglianza sostanziale è presupposto di una reale democrazia politica”, recita così la mozione conclusiva del congresso di Palermo, ottobre 1988. Già nel 1982, anno di nascita della rivista Questione giustizia, il neodirettore Borré mette in guardia da “emergenti prospettive di riforma istituzionale”, e nel primissimo editoriale elenca i tre punti caratterizzanti la “scelta di fondo” della corrente: in primis vi è l’affermazione dell’articolo 3, emancipazione ed eguaglianza, come “parametro di riferimento per gli orientamenti legislativi e giurisprudenziali”; segue l’affermazione dell’indipendenza della magistratura come “insostituibile strumento di controllo diffuso della legalità”; in ultimo, l’esigenza di un processo garantito che assicuri il rispetto dei valori della persona. Dunque l’articolo 3 deve servire da bussola non soltanto per il magistrato ma anche per il legislatore. Quanto al controllo di legalità Claudio Martelli, già ministro della Giustizia e artefice della nomina di Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali, osserva: “Siamo sicuri che al magistrato spetti il cosiddetto controllo di legalità? O forse compito della magistratura è piuttosto quello di esercitare la repressione dell’illegalità? Non è soltanto un banale equivoco semantico in cui molti continuamente incorrono. Arrogandosi il compito non di reprimere le violazioni di legge di chi delinque ma di controllare la legalità dei comportamenti di tutti, questa parte della magistratura non solo dilata abusivamente le proprie competenze e il proprio potere, ma finisce con il sindacare e minacciare le libertà di tutti e l’equilibrio dei poteri costituzionali”. A metà degli anni Ottanta Md ricerca nuove frontiere. La vocazione alla lotta politica trova sfogo solo se c’è un nemico da fronteggiare. Il vecchio apparato fascista è ormai un arnese della storia. Nel 1989 entra in vigore il nuovo codice di procedura penale ispirato a una riforma in senso liberale: si passa dal rito inquisitorio – d’impronta fascista, con l’istruttoria segreta dominata dalle figure del giudice istruttore e del pubblico ministero, con scarsa o quasi nulla presenza della difesa – al rito accusatorio incentrato sulla formazione della prova in dibattimento attraverso il contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo. “Nel mondo che cambia Md deve individuare nuovi terreni di lotta. Li identifica in Tangentopoli e nell’antimafia’, Violante la mette così, difficile dargli torto. Che cos’è d’altronde la mafia se non uno dei volti demoniaci del potere costituito? Che cos’è la corruzione politica se non la prova regina di un sistema di potere da abbattere? Legalitarismo e antimafia sono la bussola ideologica che traghetta Md negli anni Novanta. Su ciascuno di questi fronti la corrente si scontra con un implacabile picconatore, il capo dello stato (e supremo vertice del Csm) Francesco Cossiga. Facciamo un passetto indietro. 1987, referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, meglio noto come “referendum Tortora”. L’opinione pubblica è scossa dal caso nazionale di Enzo Tortora, giornalista e conduttore televisivo ingiustamente accusato, detenuto in carcere, processato e infine assolto. “Dunque, dove eravamo rimasti?”, con queste parole il 20 febbraio 1987 Tortora torna a condurre il suo Portobello, accolto dal pubblico con una lunga e commossa standing ovation. In vista del referendum radical-socialista nel novembre dello stesso anno, che cosa fa Md? Decide di condurre una battaglia solitaria e corporativa contro il tentativo di estendere il perimetro della responsabilità togata. L’appello della corrente è pubblicato dapprima in sordina, con cautela, su quotidiani minori; il giorno dopo, Franco Ippolito, all’epoca segretario nazionale, riceve una telefonata del venerato maestro Norberto Bobbio che gli chiede di poter apporre la propria firma in calce al manifesto. Come prevedibile, l’adesione di Bobbio suscita una pioggia di consensi: si uniscono intellettuali doc come Massimo Cacciari, Natalia Ginzburg, Pietro Scoppola. La tesi, ben nota anche ai lettori contemporanei perché puntualmente riproposta a ogni cenno di riforma, è che il tentativo di estendere la responsabilità civile rappresenterebbe una seria minaccia all’indipendenza e un inaccettabile strumento di delegittimazione della funzione giudiziaria. I cittadini italiani però la pensano diversamente: l’ottanta percento dei votanti si esprime per il sì. Il comitato del no, da Bobbio in giù, esce sconfitto. L’anno seguente il Parlamento approva la legge Vassalli, modesto tentativo di introdurre un meccanismo che consenta alla persona danneggiata di rivalersi, seppur indirettamente e attraverso numerosi filtri di ammissibilità, nei confronti del magistrato reo di aver agito con dolo o colpa grave. Le cinque condanne emesse dal 1989 al 2012 valgono più di mille parole. Al congresso di Sorrento, 1984, Md approva una mozione che istituisce un gruppo di studio con l’incarico di occuparsi, sentite bene, di pace e relazioni internazionali. S’inaugura il cosiddetto “fronte straniero”. Per Md è venuto il tempo di affermare make peace not war. La svolta irenista sopravvive fino ai giorni nostri come una vena pulsante nel corpaccione invecchiato di Md. Nel 1985 una truppa di magistrati multinazionali fonda a Strasburgo l’Associazione dei magistrati europei per la libertà e la democrazia, sigla Medel. Md ne è la costola italiana. La missione internazionalista-pacifista-terzomondista non conosce tregua: si rincorrono gli appelli e le manifestazioni contro gli Stati Uniti complici delle dittature sudamericane e contro i missili F16 – pure questi a stelle e strisce – sul suolo italiano. E se certe pattuglie di magistrati conducono “spedizioni esplorative” in Cile per verificare “lo stato delle garanzie” nei processi agli ex ministri del governo Allende, altre volano a Gerusalemme per una ‘ricognizione delle violenze e dei rastrellamenti’ nei territori arabi occupati. A Roma nell’89 la corrente organizza un convegno per perorare la causa del riconoscimento della Palestina. Non è Amnesty International, è Md. L’acme si raggiunge nel gennaio ’91 quando la corrente approva un documento che condanna aspramente da una parte l’annessione irachena del Kuwait, dall’altra la guerra del Golfo in quanto “rottura sia dell’ordine internazionale sia dell’assetto costituzionale italiano”. Peccato che l’Italia, con un atto formale del suo Parlamento, abbia aderito allo schieramento guidato dagli Stati Uniti, la flotta nazionale è schierata nel golfo persico, il paese partecipa ai bombardamenti. La reprimenda più indignata contro l’intollerabile invasione di campo proviene del capo dello stato che invia al vicepresidente del Csm Giovanni Galloni una lettera sferzante: oltre alla viva preoccupazione “al pensiero che a siffatti pubblici dipendenti è commessa la funzione di promuovere l’azione penale e di giudicare”, Cossiga comunica di aver prontamente segnalato la vicenda ai titolari della funzione disciplinare. L’invito presidenziale non ha alcun séguito. 11 settembre 2001, l’attacco alle Torri gemelle. L’una implode, inghiotte se stessa. L’altra si fonde come un panetto di burro sul fuoco. Si levano venti di guerra, il governo Berlusconi non farà mancare il suo apporto alla coalition of the willing guidata da Bush jr. Nel gennaio 2003 a Roma Md approva una mozione congressuale tematica: “Gli incombenti pericoli di guerra e l’inconciliabilità dell’uso brutale della forza con la legalità e la democrazia, nella sua dimensione sostanziale di garanzia e promozione dei diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita e alla pace, impongono ai giuristi e ai giudici di ricordare che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Toh, l’articolo 11 della Costituzione viene in soccorso. L’inchiostro Md percorre decine di articoli e appelli contro la guerra preventiva, la prigione di Guantanamo, le pratiche di waterboarding e alimentazione forzata…Pace e diritti umani. Ai girotondi degli indignados nostrani fanno capolino noti esponenti della corrente, mischiati nella folla, qualche volta sul palco ad aizzare le folle. Del pool di Mani pulite fanno parte due pesi massimi della corrente, Gherardo Colombo e Gerardo D’Ambrosio. A distanza di cinque mesi dall’arresto di Mario Chiesa, il primo confida: "Prima arriviamo a voltare pagina, a dichiarare defunto questo sistema e a instaurarne un altro, e meglio è". Ma cosa direbbe il Picconatore della magistratura di oggi? Un’intervista onirica Tra moralismo e intercettazioni, non sappiamo più che cosa vogliamo dai politici Viva Napolitano (soprattutto quando picchia) Sotto il palazzo di giustizia si levano le grida: “Borrelli, facci sognare’. Come riporta Mattia Feltri nel libro ‘Novantatré L’anno del terrore di Mani pulite’”, il 3 giugno 1993 a Saint Vincent nel corso del convegno “Il pubblico ministero oggi” Francesco Saverio Borrelli spiega alla platea: “Noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato”. Borrelli, mai iscritto a Md, dirige il pool di Milano. Dopo l’uscita del libro di Feltri jr. lo scorso gennaio, il magistrato smentisce di aver mai pronunciato la frase incriminata che l’Ansa e il Giornale riportano testualmente il 4 giugno successivo. Tangentopoli fa emergere un singolare paradosso tutto interno a Md. La corrente che è super garantista verso i brigatisti negli anni di piombo tace sugli eccessi processuali e giustizialisti nei confronti degli inquisiti di Tangentopoli. Le cautele agitate da autorevoli esponenti contro la “deriva sostanzialista” negli anni della lotta al terrorismo, anche a costo di emarginare i colleghi personalmente esposti nell’attività repressiva, scompaiono. Verso i politici e gli imprenditori accusati a vario titolo di mazzette e corruzione, l’ortodossia garantista non emette un fiato. Sembra che anche per Md il richiamo alle garanzie, tanto in voga nei confronti dei terroristi, vent’anni dopo sia diventato di colpo obsoleto, per niente in sintonia con lo spirito del tempo. Eccessi investigativi, manette preventive, confessioni estorte, suicidi eccellenti, interrogatori senza avvocato, circo mediatico-giudiziario: il tutto rientrerebbe in un rito encomiabile per i nuovi canoni Md. Il rito ambrosiano. Il 3 agosto 1993 sulle colonne de L’Unità Violante, nelle vesti di deputato e presidente della Commissione antimafia, evidenzia l’esigenza di ristabilire l’equilibrio tra i poteri: è doveroso “vietare ai magistrati, con adeguate sanzioni disciplinari, di dare interviste o rilasciare dichiarazioni sui procedimenti che essi stanno conducendo; il magistrato ha gli stessi diritti di qualsiasi cittadino tranne che in relazione agli specifici processi che sta conducendo: in quella materia deve parlare soltanto con i propri atti, non attraverso i telegiornali”. “Il magistrato – prosegue l’ex Md – non persegue finalità politiche come l’abbattimento del sistema politico. Questo può diventare un effetto della sua azione ma non può costituirne il motivo ispiratore”. Il monito di Violante sembra confermato nella sua funesta previsione a distanza di nove anni, nel 2002, dall’ex presidente della Repubblica Cossiga che per Violante conia il soprannome di “piccolo Vishinsky”, il grande accusatore staliniano (pur intrattenendosi spesso con lui a colazione alle sei e trenta del mattino). In un’intervista al Giornale Cossiga dichiara: “Se Tangentopoli fosse una ordinaria storia di ladri comuni sarebbe grave ma non gravissima. Tangentopoli invece è gravissima perché è stata costitutiva di un regime politico”. L’inchiesta, secondo il ruvido picconatore, ha agito come una “valanga che ha sconvolto gli equilibri politici trasformando tra l’altro gli sconfitti della storia in vincitori e spingendo nel girone infernale dei criminali coloro che come Craxi avevano visto giusto e si erano collocati da tempo dalla parte della ragione”. Agli occhi di Md Cossiga è il diavolo, l’anti-Pertini, l’alleato di Craxi nel progetto di smantellamento delle prerogative giurisdizionali. Con Cossiga capo dello Stato e vertice del Csm, dal 1985 al 1992, il conflitto istituzionale raggiunge l’apice. Le avvisaglie di un’incompatibilità insanabile sono chiare sin dal principio. Pochi mesi dopo l’elezione quirinalizia, i membri del Csm chiedono di incardinare in plenum un dibattito sulle dichiarazioni di Craxi reo di aver difeso gli esponenti dello Psi e il direttore de L’Avanti Ugo Intini condannati per diffamazione a mezzo stampa ai danni del sostituto milanese Armando Spataro. “E’ stato scritto un capitolo oscuro della vita della democrazia italiana. Noi confermiamo, uno per uno, i giudizi che i nostri compagni condannati hanno espresso nei confronti dell’operato della magistratura”, asserisce il premier Craxi riferendosi alle critiche mosse a Spataro e alla procura per la condotta processuale nel caso dell’omicidio di Walter Tobagi. I magistrati non gradiscono, i componenti del Csm vogliono intavolare un dibattito sulle ardite affermazioni del presidente del Consiglio. Cossiga si oppone e, senza giri di parole, lo vieta. “Decido e dispongo”, è la formula che usa in questo e in molti altri frangenti. E’ il suo stile. Md denuncia immediatamente la lesione dell’onore giudiziario e la deriva autoritaria del Capo dello stato. 1990, il giudice istruttore di Venezia Felice Casson bussa alla porta del Quirinale perché, nell’ambito dell’inchiesta Gladio, tra eversione nera e servizi deviati, desidera interrogare il presidente della Repubblica in qualità di testimone. La richiesta perviene alla segreteria della presidenza. L’ex ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani ha rivelato al giudice che sarebbe stato proprio Cossiga, nella veste di sottosegretario alla Difesa, a disporre nel 1969 gli omissis sul piano Solo e sulla rete Stay behind. Come riporta Gianni Barbacetto nel libro “Il Grande Vecchio”, Cossiga è furibondo: “Quel giovane ha in mente più le fumoserie del ’68 che la Costituzione e i codici”. “Nel ‘68 avevo 14 anni ed ero in collegio dai salesiani”, replica a distanza Casson. Dopo il rifiuto di Cossiga, il magistrato intervistato da Repubblica commenta: “Non so cosa farò in futuro”. Intende dire che dopo aver sondato la disponibilità del capo dello Stato potrebbe convocarlo formalmente?, incalza il cronista. “Non ho affatto detto questo – precisa lui – Ho voluto dire soltanto che, siccome la mia inchiesta va avanti, non posso anticipare i passi che farò”. In realtà la tensione con Cossiga cova da lungo tempo. Nel giugno dello stesso anno sulla Nuova Venezia Casson scrive: “Mi chiedo come mai l’onorevole Cossiga non abbia mai risposto nulla a coloro che, pubblicamente, hanno parlato dei suoi rapporti con Licio Gelli”, tanto basta per chiedere al ministro Vassalli un procedimento disciplinare per vilipendio del Capo dello stato. Intanto la bufera politica divampa, da più parti si denuncia l’inopportunità dell’iniziativa. Il ministro della giustizia Vassalli, ravvisando diverse anomalie processuali, avvia accertamenti preliminari nei confronti del magistrato che ha preteso il coinvolgimento della più alta carica dello stato. Md prende le difese del giudice (che pure non è un suo iscritto). L’Anm si schiera compatta con lui. Dopo il trambusto mediatico e istituzionale, il filone Gladio passa ai giudici romani e Casson torna a occuparsi di tangenti. Nel 2005 si candida sindaco di Venezia ma è sconfitto da Cacciari. Dal 2006 siede ininterrottamente in Parlamento nelle file del Partito democratico. Torniamo all’interrogatorio del capo dello stato. Cossiga rispedisce l’invito al mittente (“E’ una vergogna per lo stato di diritto che Casson rimanga ancora giudice. E’ un ragazzaccio al quale bisognerebbe togliere la marmellata”). Anno 2014, l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, anima dell’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia con un passato in Md, plaude al “momento di democrazia” celebratosi con la deposizione di Giorgio Napolitano al cospetto degli inquirenti palermitani. Che democrazia coi fiocchi. L’udienza, in una sala del Quirinale, dura oltre tre ore. “Pensate che abbia la memoria di Pico della Mirandola?”, Napolitano sdrammatizza e risponde a ogni domanda, anche a quelle poste dall’avvocato di Totò Riina e giudicate inammissibili dalla Corte. Il braccio di ferro con la procura palermitana è cominciato oltre due anni prima quando la procura, nell’ambito della stessa inchiesta, ha intercettato alcune conversazioni telefoniche intercorse tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Il Quirinale chiede la distruzione dei nastri. La procura si oppone. Ne scaturisce un conflitto di attribuzione dinanzi alla Consulta che nel dicembre 2012, accogliendo il principio dell’assoluta inviolabilità della riservatezza quirinalizia, ordina la distruzione delle conversazioni illegalmente captate. 28 luglio 2012. Napolitano al funerale del suo consigliere Loris D’Ambrosio. Due giorni fa, l’ex capo dello stato ha ricordato le particolari circostanze che portarono a quella morte. “Spesso vengono pubblicate intercettazioni manipolate, pezzi di conversazioni estrapolate dal contesto. Com’è successo al mio consigliere D’Ambrosio che ci ha rimesso la pelle con un attacco cardiaco. E io certe cose non le dimentico”. “Siamo cornuti e mazziati, le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto”, reagisce così Ingroia in spedizione guatemalteca per conto dell’Onu, di lì a poco scenderà in campo (alle politiche dell’anno seguente si candida premier con Rivoluzione civile). In una recente intervista a Libero, novembre 2015, lo stesso Ingroia, ora dedito all’attività forense, a proposito del misterioso contenuto di quelle telefonate fa un mezzo annuncio: “Probabilmente un giorno lo racconterò: credo che tutte le verità di uno stato democratico vadano svelate ai cittadini. Ma non in un’intervista. Magari attraverso un romanzo, un mezzo che mi permetterebbe di usare certi filtri per raccontare una realtà che va ben aldilà della più fervida immaginazione”. Ha in mente un titolo?, gli domanda il cronista. “Potrebbe essere: Caro Giorgio, come stai?”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ordina un’ispezione presso la procura palermitana per la verifica della “effettiva documentazione e corretta custodia delle intercettazioni”. Ingroia è costretto a ridimensionare: ‘Al romanzo ci sto lavorando. Il libro parlerà della storia di una trattativa tra la mafia e lo stato di un paese immaginario e recherà la classica dicitura ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. Io non ho mai detto e non volevo dire che avrei tirato fuori copia delle intercettazioni”.

Perché i magistrati vogliono fermare Renzi. “C’è il rischio di una democrazia autoritaria”. Il magistrato Morosini, consigliere del Csm, Md, vuota il sacco con il Foglio e spiega da dove nasce lo scontro tra il presidente del Consiglio e le procure, scrive Annalisa Chirico il 5 Maggio 2016 su "Il Foglio". Roma. “Dottoressa, mi scusi, il dottor Morosini l’ha vista passare nel corridoio e vorrebbe salutarla”. Ah, il dottor Morosini, che piacere. Roma, piazza dell’Indipendenza, sede del Consiglio superiore della magistratura. La cronista si dirige verso l’uscita, il portone di Palazzo dei marescialli è già alle sue spalle quando un giovane assistente la invita a raggiungere Piergiorgio Morosini, consigliere del Csm in quota Magistratura democratica. Morosini è uomo affabile e garbato, da gip a Palermo ha rinviato a giudizio gli imputati nel processo sulla presunta trattativa stato-mafia. “Buongiorno, dottore”, la cronista si accomoda sul divanetto del suo ufficio. Innanzitutto, come sta? “Che vuole che le dica, non vedo l’ora di tornare in trincea. Qui è tutto politica. La politica entra da tutte le parti: le correnti, i membri laici (quelli eletti dal Parlamento, dovrebbe vedere come sono compatti in tempi nazareni…), dall’esterno, da tutte le parti”.  Così avete concluso una bella infornata di nomine, immagino le pressioni. “Da tutte le parti. Persone sponsorizzate da politici, liberi professionisti, imprenditori. Perché sulla Costituzione bisogna fermare Renzi. La linea ufficiale di Magistratura democratica sul referendum Pm pronti ad arrestare il governo Un dubbio: chi c'è dietro Legnini? Mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto”. Dottore, lei dovrebbe ribellarsi. “Io, a fine mandato, me ne torno in Sicilia a fare il gip. Adoro il mare e la qualità della vita in Sicilia”. Sì, bella la Trinacria, ma diciamolo: il processo sulla presunta trattativa non sta andando a gonfie vele. “Va a rilento, è vero, la sentenza di primo grado è prevista per la fine del prossimo anno. I pm non hanno osato abbastanza”. Ah, dovevano osare di più? “Certi filoni dell’inchiesta non sono stati approfonditi a sufficienza. Io resto del parere che la trattativa c’è stata”. Torniamo al Csm: l’ex procuratore capo di Bolzano, Cuno Tarfusser, oggi giudice a L’Aja, ha lamentato di essere stato “dimenticato”: lui si è candidato ma nessuno l’ha audito. “Tarfusser non ci voleva venire in Italia, ha ancora da fare in Olanda. Si è trattato di sua negligenza: lo hanno convocato per un giorno ma non poteva. E comunque vi scandalizzate per questa storia che è nulla rispetto a quello che accade qui dentro”. Il colloquio sta assumendo i contorni di una seduta psicoterapeutica, Morosini ha le maniche della camicia arrotolate, chi scrive apre il taccuino e comincia ad appuntare. Eccoci, la ascolto. “La prossima settimana si dovrebbe risolvere la partita di Milano. Lì si rischia di designare al vertice della procura il capo di gabinetto del ministero della Giustizia, si rende conto? Non sarebbe un bel segnale per l’indipendenza della magistratura. Il dottor Melillo lavora a stretto contatto con il ministro Orlando. L’alternativa è Francesco Greco, magistrato simbolo di competenza indiscussa”. Ecco, un’altra figura simbolo di Tangentopoli insieme al neopresidente dell’Anm Piercamillo Davigo: non sarà troppo? “Condivido ogni parola di Davigo, c’è solo una parte mancante nel suo discorso: anche noi magistrati dobbiamo fare autocritica. Pensi allo scandalo Saguto a Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. C’è una questione morale anche dentro la magistratura”. All’interno del Csm ve ne state occupando? “Qui si parla solo di nomine. E’ tutto politica, gliel’ho detto. Ora io sto lavorando a un parere che il Csm presenterà al Parlamento contro l’emendamento Ferranti che intende sopprimere il tribunale dei minori. Sono contrario perché è un settore delicato che necessita di una formazione specialistica”. Beh, si sta occupando di una questione concreta, è contento? “Il parere sarà ignorato. Decide il Parlamento, mica noi”. Di solito in democrazia decide chi è eletto. “Bisogna guardarsi bene dal rischio di una democrazia autoritaria. Un rapporto equilibrato tra Parlamento e organi di garanzia va preservato. Per questo al referendum costituzionale il prossimo ottobre bisogna votare no”. Md, la sua corrente, ha aderito ufficialmente al comitato di Pace e Rodotà. “Ho appena comunicato alla segreteria centrale le mie prime disponibilità”. Siete organizzati militarmente. “Ognuno trasmette le proprie date, certo. Io copro tre regioni: Lazio, Sicilia ed Emilia Romagna”. Complimenti. “Gireremo il paese in lungo e in largo. Ma alla fine vincerà Renzi. Vince sempre lui”. Vince chi convince, dottore, ma lei non si abbatta, magari alla fine vincete voi. “Se passa la riforma costituzionale, abbinata all’Italicum, il partito di maggioranza potrà decidere da solo i membri della Consulta e del Csm di nomina parlamentare. Renzi farà come Ronald Reagan, una bella infornata autoritaria di giudici della Suprema Corte allineati con il pensiero repubblicano su diritti civili, economia… Uno scenario preoccupante”. Lei è un irriducibile antiliberista. “Io sono per una sinistra sociale che pensi alle persone svantaggiate, ai pensionati, agli immigrati…”. Il Movimento per la giustizia, che con Md è confluito in Area, non ha aderito al comitato per il no. Continuate a vivere da separati in casa? “C’è freddezza ma Armando Spataro ha già detto sì, lui non si tira mai indietro”. Tornando al governo, al di là delle parole e dei toni del premier, qual è la riforma del governo che, a suo giudizio, ha inciso sulla professione? Morosini esita, volge lo sguardo al soffitto, si risistema sulla poltrona e poi prende fiato: “In realtà nessuna”. Sulla responsabilità civile dei magistrati Davigo ha detto: “L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza”. “In effetti – prosegue Morosini – anche io pago un po’ di più, bazzecole. Per il resto non mi pare che ci siano effetti rilevanti”. E se le dico “taglio delle ferie”? “Avevamo 45 giorni di pausa, che vuole che sia. Poi noi lavoriamo spesso pure da casa. In un periodo di sacrifici per tutti l’ho trovato, tutto sommato, uno sforzo accettabile”. Più che i fatti, vi disturbano le parole del governo. “E’ la forma che proprio non va. Le misure su responsabilità civile e ferie sono state presentate come una rivincita della politica nei confronti della magistratura, una logica retaggio del ventennio berlusconiano”. Questi fiorentini peccano di arroganza? “Eh, no, il problema è che sono dei mestieranti, buoni a gestire il potere. Che discorso di prospettiva può fare uno come Luca Lotti? E vogliamo parlare della Boschi? Se uno la accosta ad altre personalità impegnate sul fronte delle riforme costituzionali, ad Augusto Barbera o a Giuliano Amato, vengono i brividi”. Eppure il governo rivendica di aver aumentato le pene per i corrotti e ha nominato un magistrato al vertice dell’Anticorruzione. “Lasci perdere. Per noi questo genere di commistioni inquina l’immagine di indipendenza della magistratura”. Raffaele Cantone si è attirato un po’ di umane invidie, non trova? “Lui, come Gratteri, è un uomo Mondadori. Non so se mi spiego”. Si spieghi si spieghi. “Quando firmi libri Mondadori, l’azienda ha interesse a trasformarti in un personaggio per vendere più copie. Ti invitano in tv, diventi un volto noto e poi la politica ti chiama”. Secondo lei, Cantone ce lo ritroviamo candidato? “E’ l’anti-Renzi perfetto, c’è da capire se avrà la stoffa del politico. Renzi, gli va riconosciuto, si è gettato senza rete contro l’apparato del suo partito, ha perso le primarie al primo tentativo, è un animale politico”. Lei era un elettore dei Ds, è un po’ nostalgico, lo ammetta. “Mi sento un esule in patria. Renzi ha i suoi voti, c’è poco da fare. Chi vuole che voti per Matteo Orfini o per Stefano Fassina?”. Non lo chieda a me. “Un tempo la politica ruotava attorno a personalità come Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Massimo D’Alema non spicca per simpatia ma rimane un fuoriclasse. Oggi nel Pd c’è un’enorme questione morale. Ha visto che è successo a Lodi?”. Un sindaco si ritrova dietro le sbarre per una gara da 5mila euro: non sarebbe meglio aspettare le condanne? “Mi conosce, sa come la penso. La carcerazione preventiva dovrebbe essere extrema ratio”. Eppure, quando il giorno successivo al nostro incontro il Pd porta il caso al Csm giudicando l’arresto una misura abnorme, Morosini, insieme agli altri eletti di Area, insorge in una nota: “Parole inaccettabili. Un’indebita interferenza sull’autonomia e la serenità dei magistrati”. Tornando alla nostra conversazione, Morosini rincara: “Il principale partito di governo è investito dalle inchieste, pure in Campania. Io vengo dall’Emilia Romagna dove le reti corruttive tra burocrazia amministrava e imprenditori sono state occupate da ‘ndranghetisti e camorristi”. La moralità può essere monopolio di un partito o di una categoria professionale? “Non dico questo. Io ci metto dentro tutta la classe dirigente italiana, inclusi i magistrati”. La sensazione, dottor Morosini, al termine della nostra “seduta”, è che una parte della magistratura, certi magistrati, siano fortemente politicizzati. Anche questo è un pericolo per la democrazia. “Gliel’ho detto: qui tutto è politica. Io volevo questo incarico perché per uno come me, che ha sempre fatto politica associativa, è un coronamento. Ma non vedo l’ora di tornare a fare il giudice”. Intanto, nell’attesa, Morosini scalda i motori per il tour referendario. Lei, antiberlusconiano com’è, condurrà una battaglia fianco a fianco con Berlusconi. “Io lotto non con Berlusconi, ma per la Costituzione”.

 “Fanno meno danno cento delinquenti che un cattivo giudice.” (Francisco de Quevedo, scrittore e poeta spagnolo del XVII sec.).

Magistrati e politica, dannosi scambi di ruolo, scrive Michele Ainis il 3 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «E tu, che lavoro fai?». «Il tuo». Alle nostre latitudini, succede di frequente: lo sport più praticato è il gioco a rubamazzo. Perché i ruoli di ciascuno non sono mai precisi, univoci, scolpiti sulla pietra. Perché l’invasione di campo non può essere un delitto, quando manca il campo. E perché, mentre in Italia gli incompetenti sono ormai legioni, tutti si dichiarano pluricompetenti. Le baruffe tra politica e giustizia (ultimo episodio: l’arresto del sindaco di Lodi) trovano proprio qui la loro miccia detonante, anche se per lo più non ci facciamo caso. D’altronde si tratta d’una vecchia storia, che ci accompagna da quando giravamo coi calzoni corti. Quante volte il Csm ha cercato di rimpiazzare il Parlamento, dettando moniti e pareri non richiesti sulle leggi da approvare? E quante volte il Parlamento si è sostituito alle procure? Provate a domandarvi chi sia il personaggio più noto nell’azione di contrasto alle cosche mafiose. Risposta: Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia. Una Commissione parlamentare d’inchiesta che rimbalza da una legislatura all’altra fin dal 1962, e che fin qui ha alternato 15 diversi presidenti. Chi fa cosa, ecco il problema. Non solo nel rapporto fra giudici e politici: anche nelle scuole, negli ospedali, nelle aziende pubbliche e private. Anche nei ministeri, o nelle relazioni fra lo Stato e le Regioni. Dove gli sconfinamenti hanno innescato oltre 100 conflitti l’anno dinanzi alla Consulta, nel lustro successivo alla riforma del Titolo V. Magari adesso la riforma della riforma ci metterà una pezza, o magari aprirà un altro contenzioso fra Camera e Senato, per regolare il loro diritto di parola sulle leggi. Tanto, si sa, nel dubbio ognuno chiede la parola. E il giudice che dovrebbe giudicare non di rado straparla a sua volta. Per dirne una, nel 2015 le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 19.787) hanno dovuto alzare la paletta multando il Tar del Lazio, che pretendeva di surrogarsi al Csm nel conferimento degli incarichi giudiziari direttivi. Da qui la fortuna d’un mestiere ormai praticato in lungo e in largo: il supplente. Irrinunciabile, a quanto pare, nella scuola, dove quest’anno sono state assegnate 122 mila supplenze, nonostante l’assunzione di 86 mila docenti. Anche in famiglia, però, il reddito di cittadinanza al figlio disoccupato viene garantito dal papà, l’asilo per i nipotini sta a casa dei nonni, mentre del bisnonno s’occupa una badante ucraina. Tutti supplenti rispetto allo Stato assente, come le associazioni di volontariato, come le fondazioni bancarie, chiamate a turare le falle del welfare. E se il nostro ordinamento lesina i diritti civili, oltre a quelli sociali? Possiamo sempre rivolgerci a un supplente di Stato, con una toga sulle spalle o con una fascia tricolore al petto. Nel primo caso supplisce la magistratura, che nel 1975 stabilì il diritto alla privacy (la legge intervenne 21 anni dopo), nel 1988 offrì tutela al convivente more uxorio (la legge manca ancora), mentre nel dicembre scorso il Tribunale di Roma ha riconosciuto la stepchild adoption, proprio mentre il Parlamento la disconosceva. Nel secondo caso entra in scena il sindaco: per esempio trascrivendo i matrimoni gay (nell’ottobre 2014 Marino l’ha fatto per 16 coppie) oppure con il Registro dei testamenti biologici (fin qui adottato in 169 Comuni, oltre che dal Friuli Venezia Giulia a livello regionale). E se invece il sindaco si rivela un incapace? Allora tocca al supplente del supplente, nelle vesti del commissario prefettizio. Il record è in provincia di Caserta, con 18 amministrazioni comunali decapitate; tanto che la prefettura ha dovuto chiedere rinforzi al ministero, perché da quelle parti i viceprefetti sono soltanto 11. Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. Ieri come oggi, il disordine è allevato da un ordinamento sovraccarico e confuso, dove le leggi si fanno per decreto, dove i decreti durano quanto un volo di farfalla. Sicché in ultimo il destino che ci aspetta sarà uguale a quello già sperimentato da una maestra di Bergamo: licenziata a gennaio, continua ad insegnare grazie alle liste fuori graduatoria. Proprio come lei, ogni italiano diventerà ben presto il supplente di se stesso.

"In Italia il partito dei giudici fa e disfa le leggi da decenni". L'ex senatore: «Le continue invasioni di campo non nascono per caso I magistrati si sentono depositari della volontà popolare, un'anomalia», scrive Stefano Zurlo, Sabato 23/04/2016, su "Il Giornale". Prende una sentenza del 2009. E legge il passo decisivo in cui la Cassazione rivendica, testualmente, «la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della cosiddetta giurisprudenza-normativa, quale autonoma fonte di diritto». «Ecco - riprende Giuseppe Valditara, ex senatore di Fli e professore ordinario di Diritto romano all'università di Torino - la Suprema corte ci dice che il giudice è una fonte autonoma di diritto. È sconvolgente, capisce? Perché solo in Italia la magistratura arriva a concepirsi come soggetto normativo che affianca e sostituisce il legislatore. Le leggi, per capirci, le fa il Parlamento, ma la Cassazione si mette sullo stesso piano. Succede solo nel nostro Paese, ma la nostra storia è un susseguirsi di anomalie, una più inaccettabile dell'altra. Tutto si tiene». Tutto si spiega. Anche le feroci polemiche di queste ore. Piercamillo Davigo, neopresidente dell'Associazione nazionale magistrati, parla al Corriere della Sera e liquida la nostra classe dirigente: «I politici rubano più di prima, ma adesso non si vergognano». Scintille e ancora scintille sullo sfondo di un conflitto fra poteri che va avanti da troppi anni. Valditara ha appena scritto il libro Giudici e legge che vorrebbe essere una meditazione scientifica e tecnica sulla magistratura tricolore, ma basta sfogliare quelle trecento pagine dense di citazioni per incrociare l'attualità bruciante, le polemiche chi si ripetono sempre uguali, le esternazioni del partito dei giudici e di tutto l'armamentario del giustizialismo italiano.

Professor Valditara, perché parla di anomalie italiane?

«Perché le continue invasioni di campo delle toghe non nascono per caso».

Più d'uno a sinistra ci aveva spiegato che i giudici alzavano la voce per rispondere alle provocazioni e agli sconfinamenti di Berlusconi.

«Ma no. Quella è una battaglia dentro una guerra molto più lunga e complessa. Bisogna tornare indietro agli anni '50».

No, un attimo, partiamo dalla diagnosi: qual è la malattia?

«Gliel'ho detto: i giudici italiani si considerano in qualche modo i depositari della volontà popolare e di fatto scrivono e riscrivono le leggi, le interpretano, le disapplicano, fanno un po' quello che gli pare».

Non le pare di esagerare?

«Ma no. Sono loro a parlare di tutte queste cose. Prendiamo il testo della norma sulla legittima difesa, modificato nel 2006».

D'accordo, ma che c'entra?

«C'entra perché la modifica è stata di fatto annullata dai giudici che, interpretando le parole, spesso finiscono per rimettere il padrone di casa che si ribella ai ladri sul banco degli imputati. L'esatto opposto di quel che voleva il legislatore».

Ma come è possibile?

«Non solo è possibile, questo è solo un episodio dentro una strategia molto più aggressiva».

Addirittura?

«La sentenza che riguarda il rapporto fra la Renault e le concessionarie arriva ad un punto estremo: il giudice è autorizzato a modificare il contratto fra le parti. Non so se ci rendiamo conto della portata di questa considerazione: c'è un contratto e la toga lo modifica in base a sue valutazioni. Altro che equilibrio fra i poteri. Qua il partito dei giudici fa e disfa a suo piacimento. E d'altra parte, la sentenza numero uno della Corte costituzionale, nel 1956...»

Si fermi, non possiamo tornare all'ormai lontano 1956.

«E invece dobbiamo. Perché già quel lontanissimo verdetto dice che le norme della Costituzione non hanno un valore solo programmatico. E dunque in questo modo si scardina un'altra porta e si apre un varco enorme: gli articoli della Carta, che hanno un indirizzo politico, vengono applicati al caso concreto dal giudice che quindi esce dal recinto tecnico e fa politica, saltando la legge ordinaria. Siamo all'interpretazione costituzionalmente orientata».

In concreto?

«Per fare un esempio paradossale il giudice potrebbe arrivare ad annullare un contratto di affitto».

E perché?

«Perché potrebbe giudicare troppo alto il canone in relazione all'articolo 2 della Costituzione e dunque al dovere di solidarietà politica, economica, sociale».

Dunque, con la sentenza del 1956 i giudici cominciano a fare politica?

«Certo. Si avvia quel percorso perverso che arriva fino al verdetto che ricordavo del 2009. Con tutte le conseguenze che conosciamo».

Sia più esplicito.

«Solo in Italia la magistratura è organizzata per correnti che sembrano clonare i meccanismi e le divisioni del Parlamento».

Siamo a Magistratura democratica, alle toghe rosse...

«In proposito c'è un testo esemplare del 1970 di Franco Marrone. Marx ha affermato - nota Marrone - che il diritto non dà niente, ma sanziona solo ciò che esiste. Che cosa esiste attualmente nella nostra società? Esiste il dominio di una classe, quella borghese, sulle altre. Chiaro? Il resto è solo uno sviluppo coerente di quel programma: un'oligarchia al posto della democrazia».

Imprese, fisco, pubblico impiego: un Paese governato dai giudici. Le toghe stravolgono la volontà del Parlamento interpretando le leggi. Dai casi Ilva e Fincantieri alle tasse per le scuole cattoliche, gli ultimi pasticci, scrive Anna Maria Greco, Martedì 28/07/2015, su "Il Giornale". Complici le troppe vigliaccherie del Parlamento i giudici ormai dettano legge. L'incapacità politica di regolare certi fenomeni porta a norme frutto di compromesso che lasciano ampi spazi d'interpretazione alla magistratura. E le toghe, sempre più spesso, ne approfittano per sconfinare dai loro compiti e arrivare anche a sovvertire la volontà del legislatore. Dà una mano il quadro europeo, che fornisce a volte la direttiva giusta per piegare la norma in un senso o nell'altro. È storia di tutti i giorni. Da Corti e Tribunali arriva una lettura delle leggi che determina conseguenze, talvolta contraddittorie, nella vita dei cittadini. Al giudice tocca la parola «finale» sulla legge Severino e il caso De Luca come sull'Ilva di Taranto, sul cambiamento di sesso e sulle pensioni, sulle tasse per le scuole cattoliche e sull'immigrazione, sulla fecondazione artificiale e sui contratti dei calciatori. Indicano la strada della legge Corte costituzionale, Cassazione, Tar. Anche la singola toga di Canicattì sa di poter conquistare la prima pagina con una sentenza «innovatrice», un'interpretazione «evolutiva» che legge la norma fuori dal contesto in cui è nata, in progress. Presto, perfino un giudice di pace si metterà a legiferare. Molto dipende da come sono scritte le leggi, dall'ambiguità che passa a chi deve interpretarle la palla dell'applicazione alla vita concreta. Sui temi più delicati e dov'è difficile trovare l'accordo politico, spesso in parlamento si arriva a compromessi-papocchio. E quando non è chiara la volontà del legislatore è facile per il giudice sottrargli il privilegio e riscrivere soggettivamente o, peggio, ideologicamente: manipolare, sovvertire, strumentalizzare. Succede soprattutto sui «nuovi diritti», quelli che i giuristi chiamano «di quarta generazione» e riguardano manipolazioni genetiche, eutanasia, internet. Per il magistrato rampante c'è ampio spazio quando si tratta di coppie gay, fecondazione artificiale, trans, regole del web. Ieri la Cassazione ha deciso che i siti internet non possono pubblicare, senza consenso dell'interessato, foto osè. Su coppie e famiglia spesso i giudici danno il meglio, entrano in camera da letto e discettano di corna, obbligano i genitori a mantenere figli attempati, a mandarli a messa e al catechismo se sono battezzati. Ricordiamo la sentenza della Cassazione che entrava nell'uso dei jeans in caso di stupro. Basta pensare alla legge 40 sull'inseminazione eterologa: non c'è parte che non sia stata corretta, colpita, reinterpretata da Cassazione, Corte europea dei diritti umani o singoli magistrati, spesso ribaltando pronunce precedenti e arrivando a conclusioni imprevedibili. E poi c'è l'esempio del reato di immigrazione clandestina, di fatto depenalizzato prima che intervenisse il Parlamento, dal momento in cui la Consulta ha dichiarato illegittima l'aggravante, la Corte europea di giustizia ha bocciato la legge, la Cassazione l'ha circoscritta e i giudici hanno iniziato a firmare sentenze non solo sui processi in corso ma anche su quelli già chiusi. L'altro grande campo d'intervento giudiziario è quello del lavoro. Ieri la Cassazione ha detto che la perdita del lavoro non è un «grave danno alla persona». Anche qui le norme Ue forniscono materia prima per scardinare leggi italiane in nome del principio della «prevalenza» di quelle sovranazionali. Spesso i Tar sono i più oltranzisti, pretendendo di decidere loro prima della Consulta quando e come disapplicarle. Adesso, i giudici del lavoro già si fregano le mani pensando al contenzioso in arrivo per il Jobs act. Che la tendenza nella magistratura ad utilizzare principi costituzionali o europei per creare nuove leggi si stia diffondendo sempre più lo denuncia da tempo uno schieramento trasversale di giuristi, da quelli conservatori a quelli più progressisti. E si riconosce l'unicità del caso italiano: negli altri Paesi, di fronte ad una sentenza di Strasburgo, i poteri dello Stato cercano una risposta unitaria, da noi si scatena la corsa dei giudici a dire ognuno la sua. Qualcuno parla di «diritto libero», che esalta nel giudice la funzione di creatore più che di interprete della norma. Ma se salta il sistema dei contrappesi tra poteri dello Stato, se la legge diventa Una, Nessuna e Centomila, perde ogni certezza.

Una corporazione "fuori mercato". La pessima condizione in cui versa il nostro ordine giudiziario è conseguente al fatto che si diventa magistrati un po' come si entra alle Poste: grazie a un concorso e per la tutta vita, scrive Carlo Lottieri, Domenica 24/04/2016, su "Il Giornale". L'intervista rilasciata dal presidente dell'associazione nazionale dei magistrati, Piercamillo Davigo, ha suscitato più che giustificate polemiche, né poteva essere diversamente. Chi voglia riflettere, andando al di là delle polemiche di superficie, sul presente degrado della giustizia deve comunque muovere da una constatazione elementare: che il nostro sistema giudiziario è in una crisi profonda. Si ha spesso la sensazione che in ambito penale siamo tutti po' tutti criminali fino a prova contraria, mentre quando chiediamo giustizia nel settore civile siamo obbligati a fare i conti con ritardi e inefficienze abnormi, che pesano come un macigno sull'intera economia. Alla radice di tutto c'è il fatto che, in definitiva, abbiamo una magistratura «fuori mercato». Questo è sostanzialmente vero in tutto l'Occidente, ma lo è in modo particolare in Italia, dove ogni forma alternativa di risoluzione delle controversie (dall'arbitrato alla mediazione) sembra ostacolata di proposito dall'ottusità dei legislatori e dalla strenua difesa delle proprie posizioni che la magistratura sa esercitare con successo. Per giunta, la pessima condizione in cui versa il nostro ordine giudiziario è conseguente al fatto che si diventa magistrati un po' come si entra alle Poste: grazie a un concorso e per la tutta vita. Se sapessero rinunciare a un po' della loro boria, quanti fanno parte della corporazione di Stato incaricata di emettere sentenze e moralizzare gli italiani trarrebbero beneficio dalla lettura di quelle pagine della Ricchezza delle nazioni in cui il padre dell'economia moderna, Adam Smith, nel 1776 spiegava al lettore per quale ragione i giudici inglesi del tempo fossero ovunque tanto apprezzati. Nel capitolo primo del quinto libro egli sottolineava come, al tempo, spesso fosse facile evitare il giudice «naturale» (scegliendo insomma da chi farsi giudicare) e come ogni tribunale vivesse grazie alle spese processuali. C'era, insomma, un libero mercato che premiava e puniva, spingendo ogni magistrato a operare nel migliore dei modi. Fedeli a un'antica tradizione, nella società inglese «tutti i giudici si sforzavano di dare, nel proprio tribunale, il rimedio più veloce e più efficace che il diritto ammettesse per ogni genere d'ingiustizia». Solo i tribunali che funzionavano, d'altra parte, chiamavano a sé una clientela disposta a finanziarli. Tornare a Smith aiuta a capire come questa magistratura che a parole attacca con tanta veemenza i politici, nei fatti sia legata a doppio filo alle logiche più ottuse della sovranità e del monopolio statale della forza. Quando si parla di liberalizzazioni, in Italia, solitamente di tirano in causa i tassisti e i notai; e qualche volta ci si spinge pure a parlare di farmacie, aziende municipalizzate o banche. Ma è ora giunto il momento di far scendere dal piedistallo una delle corporazioni più potenti e arroganti, facendo sì che ogni magistrato debba costruirsi un'immagine: com'è costretto a fare chiunque sia in concorrenza con altri.

Magistrati corrotti Nazione infetta. Su questo Davigo e l’ANM hanno la memoria corta...scrive “Il Corriere del Giorno” il 23 aprile 2016. Si diceva che se la capitale è corrotta, la nazione è infetta, come sintetizzò nel 1955 in un celebre titolo il settimanale L’Espresso. L’equazione ha senso ancora oggi a giudicare da quello che accade in molte città italiane. Compresa Taranto. Si diceva che “se la capitale è corrotta, la nazione è infetta”, come sintetizzò in un celebre titolo nel 1955 il settimanale L’Espresso.  L’equazione ha senso ancora oggi a giudicare da quello che accade in tutt’ Italia. Ma sarebbe ingiusto fermarsi soltanto alla sfera politica. La percentuale di onestà, dignità e trasparenza della classe politica è sicuramente uno degli indicatori dello stato di salute del paese, quello che più appassiona l’informazione e l’opinione pubblica, in particolar modo il popolino grillino, ma non è sicuramente il più pericoloso per la democrazia. La politica non arresta e manda in carcere gli innocenti. Nell’ultima “crociata” dell’ANM contro la politica il premier Renzi intende lasciare Piercamillo Davigo da solo sul ring senza volergli concedere il rango di istituzione all’Anm che non ha. “È un leader sindacale, per giunta pure a tempo. Non vedo perché si debba dare enfasi a dichiarazioni che non piacciono neppure ai suoi associati”, ha dichiarato un sottosegretario del governo al giornalista Marco Conti del quotidiano Il Messaggero, che scrive “Meglio, quindi, lasciare al Csm il compito di riprendere un suo magistrato. Il vicepresidente Giovanni Legnini lo fa con un lungo comunicato ovviamente vistato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che del Csm ne è il presidente. A quelle che definisce in privato «vere e proprie provocazioni», Renzi non intende replicare ufficialmente come invece avrebbe fatto un suo predecessore a Palazzo Chigi”. Una democrazia efficiente si basa su pesi e contrappesi, controllati e controllori nei poteri dello Stato. E se è ben noto ed accertato che il ruolo della “politica” è malato, sfugge a molti lettori e commentatori che il contrappeso “giustizia” non è immune, non è assolutamente messo meglio ed in condizione di dare lezioni di moralismo. Alcuni mesi fa, e cioè nello scorso mese di novembre il CSM, il Consiglio superiore della magistratura ha sospeso dalle funzioni Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione antimafia del Tribunale di Palermo. La signora è soltanto…. indagata per corruzione e secondo l’accusa ne ha fatte veramente di tutti i colori, a partire dall’aver comprato una laurea al figlio. Questo caso, portato ad esempio insegna che la “casta dei magistrati” si sente “intoccabile” mentre in realtà non è esente da responsabilità, come qualcuno vorrebbe fare credere, da infezioni e collusioni, da corruzioni in alcuni casi palesi, altrimenti abilmente occultate. Ma è “infezione” anche se la giustizia è applicata in modo diverso in base all’appartenenza a una casta o all’altra. Anche noi siamo contrari alla carcerazione preventiva in mancanza di un’accertata pericolosità sociale, ma è più che lecito chiedersi chiedo: in base a quale principio si mette in carcere un politico sospettato di aver ottenuto uno sconto sospetto sulla ristrutturazione di casa, mentre un’alta magistrata come la Saguto, accusata di corruzione è tranquillamente a casa sua? Perché, come ha scritto tempo fa Alessandro Sallusti, direttore del quotidiano milanese Il Giornale, ad un imprenditore indagato i magistrati spesso bloccano beni e conti correnti mentre alla dottoressa Saguto, sia pur sospesa per infamia, il Csm ha riconosciuto l’erogazione di un assegno di mantenimento pari ai due terzi dell’ultimo stipendio? Su queste cose l’ANM, l’Associazione Nazionale dei Magistrati taceva e continua a tacere. Com’è possibile che la Saguto abbia combinato per anni tante porcate senza che colleghi e superiori abbiano mai sospettato nulla? Incapacità, complicità, soggezione? Qualunque sia la risposta a queste domande, la conclusione è che siamo di fronte spesso ad una magistratura infetta. E questo causa una sospensione della democrazia ben più grave dei danni che il sindaco Alemanno, il suo successore Marino e soci hanno provocato a Roma, come l’inchiesta del ROS dei Carabinieri su “Mafia Capitale” ha molto bene documentato. Il bravo collega Emiliano Fittipaldi sull’ Espresso dell’aprile 2014 raccontava che “A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò…», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount”. Il compianto Presidente della repubblica Francesco Cossiga, appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: «La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”». Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile e ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno del Csm, di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di Magistratura Democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla!”” Quello cosa pensava e disse il compianto Presidente Cossiga in televisione su Sky Tg24, intervistato dalla giornalista Maria Latella, rivolgendosi al magistrato Maurizio Palamara, predecessore di Maurizio Carbone, alla segreteria dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, lo potete vedere ed ascoltare dalla sua voce. Ma quello campano non è un caso isolato. A Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, anche in Calabria sono stati tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci della ndrangheta. Alla Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi indisturbati per anni facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Nella Procura di Taranto si è visto di tutto e di più. A partire dalla vicenda sul pm Matteo Di Giorgio, che era in servizio alla Procura della Repubblica di Taranto, e com’è noto, venne arrestato l’11 novembre 2010 con l’accusa di concussione al termine di una inchiesta avviata dopo le denunce presentate da alcuni cittadini di Castellaneta che si ritenevano danneggiati dal magistrato.  Il pm potentino inquirente, Laura Triassi (attualmente impegnata nell'”inchiesta Petrolio” a Potenza che sta facendo tremare il Governo)   avallata dal gip Gerardina Romaniello, scrisse che “evidenziano come l’esercizio della funzione di magistrato da parte del dottor Di Giorgio – pubblico ministero in servizio alla Procura della Repubblica di Taranto – sia stato asservito al conseguimento di utilità personali, in gran parte di natura politica, in danno del suo nemico storico, il senatore Rocco Loreto”. Di Giorgio secondo i giudici potentini nella sentenza che il nostro quotidiano ha pubblicato integralmente ha “approfittato della sua funzione pubblica, del prestigio connesso alla sua attività per perseguire interessi privati o politici attraverso l’uso strumentale della sua qualità e dei suoi poteri”. In quella triste vicenda per la magistratura e soprattutto per la giustizia in generale, vi sono stati anche dei magistrati come Aldo Petrucci (procuratore capo a Taranto all’epoca dei fatti) e Pietro Argentino (attuale procuratore aggiunto) che hanno detto il falso come hanno scritto nella loro sentenza i giudici di Potenza, che ne hanno chiesto conseguentemente il rinvio a giudizio, sulla base di valutazioni successivamente confermate dalla Procura, e persino dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Potenza che ha prosciolto Argentino senza però assolverlo dalle sue false dichiarazioni, confermando di fatto le accuse a suo carico, ed infatti la posizione del magistrato di Torricella (che viene dato in partenza dalla Procura di Taranto), è attualmente al vaglio della commissione disciplinare del Csm. E le sue ambizioni a diventare procuratore capo, sono ormai naufragate, dovendo peraltro a breve lasciare anche l’attuale incarico di procuratore aggiunto. Negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, nelle Commissioni Tributarie dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. Ma su tutto questo il nuovo “leader” dei magistrati Piercamillo Davigo ed i suoi predecessori Rodolfo Maria Sabelli ex presidente nazionale dell’ANM e Maurizio Carbone ex-segretario nazionale dell’associazione dei magistrati, quest’ultimo in servizio da non pochi anni proprio presso la Procura di Taranto, non parlano. Hanno la memoria corta. Noi no.

E la chiamano democrazia…E’ solo una contrapposizione tra Comunisti di destra e di sinistra (ceppo comune del socialismo) ed i liberali. O meglio dire, dato l’atteggiamento violento adottato per l’imposizione della loro religione, Fascisti di destra e di sinistra contro i liberali. I fascisti comunisti per le loro nefandezze si nascondono dietro l’impunità della massa, pretendendo che tutto gli sia dovuto. I Liberali sono perseguitati perché isolati dal loro soggettivismo ignavo.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Ecco la nostra collana firmata Pansa. Da oggi il primo romanzo che rilegge le vicende del Paese, scrive Matteo Sacchi, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Non è mai facile raccontare la storia recente, quella che dista da noi meno di un centinaio di anni. Si rischia sempre di incorrere nelle distorsioni da vicinanza, ci si sente toccati dai fatti. Meno che mai è facile farlo in un Paese come l'Italia. La Seconda guerra mondiale, spartiacque fondamentale della modernità, ha spaccato la nazione in due. Si è trasformata anche in guerra civile, con dei vincitori e con dei vinti. Un popolo che si sentiva vinto e sconfitto ha fatto tutto il possibile per scordarsi di essere stato fascista e per nascondersi dietro il mito della Resistenza. Che ci fu, ma fu un fenomeno militare di modesta portata, condotto da poche decine di migliaia di persone, ovviamente escludendo dal novero dei combattenti chi saltò sul carro del vincitore all'ultimo momento. E che fu un fenomeno non certo alieno da ideologie totalitarie, come quella comunista, quanto lo stesso fascismo. Questi concetti possono apparire come ovvi e banali, ma è stato necessario un enorme sforzo per renderli evidenti, rompendo il conformismo degli storici ufficiali. Gran parte del merito in questa impresa va riconosciuto a Giampaolo Pansa il quale, pur non essendo uno storico di professione, ha scandagliato quelle pieghe della storia che molti italiani avrebbero voluto dimenticare. Ora alcuni dei suoi volumi più significativi ritornano in abbinata con il Giornale, riuniti in una collana: «Controstoria d'Italia». Il primo volume sarà in edicola da oggi a 8,50 euro oltre al prezzo del quotidiano. Il titolo è Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo. Si tratta di un romanzo storico che attraverso la finzione letteraria racconta le vicende e gli amori della camicia nera della prima ora Edoardo Magni (personaggio inventato dall'autore). Magni incarna il fascista patriottico e in assoluta buona fede il quale, poco a poco, dovrà rendersi conto dei fatali errori commessi da Mussolini. Dalla scelta folle di aderire alle leggi razziali alla guerra rovinosa e disperata. Gli entusiasmi di Magni danno conto con grande onestà del consenso, quasi unanime, di cui godette il regime («erano tutti fascisti dice Pansa e poi hanno fatto finta di essere stati tutti antifascisti») e di come l'adesione di massa si tramutò in indifferenza e disillusione. Nel caso del protagonista del libro, anche in sincera autocritica (grazie all'incontro con la giovane ebrea Marianna). Pansa nella prefazione, e poi nel testo, dà anche conto con grande precisione di come le violenze iniziali del fascismo fossero strettamente legate alle violenze del «biennio rosso». E anche questo è un pezzo di storia su cui spesso si preferisce sorvolare. Il percorso che inizia con Eia Eia Alalà proseguirà poi con Bella ciao. Controstoria della Resistenza (dal 23 aprile); Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi (dal 30 aprile); La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini (dal 7 maggio); Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa (dal 14 maggio) e infine Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri (dal 21 maggio). E anche in questi volumi Pansa ci mette di fronte ad analisi non allineate e che costringono a riflettere e a uscire dai luoghi comuni. Qualche esempio: De Gasperi? Ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè degli Usa. Il Sessantotto? Un tragico bluff. Andreotti un Belzebù che le ha sbagliate tutte? Assolutamente no.

Il fascismo fu la risposta alle minacce dei "rossi". Nel 1919-20 la sinistra evocò lo spettro della rivoluzione, ma provocò la nascita dello squadrismo. Come racconta Pansa in "Eia Eia Alalà". Scrive Giampaolo Pansa, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". "Tutti i nodi vennero sciolti con il colpo di spada dell'offensiva squadrista. È il calendario a ricordarci la velocità di quell'azione. Un blitz che ebbe inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre del 1922. I rossi cianciavano di rivoluzione, i neri costruirono con i fatti la reazione a tante chiacchiere. Aveva ragione il mio edicolante: la colpa di aver messo in sella il fascismo, e di aver mandato al governo Mussolini, era soltanto dei socialisti. Chi comprese subito quanto era avvenuto fu uno scrittore anarchico, il bolognese Luigi Fabbri, autore di un libro stampato nel 1922 dall'editore Cappelli e intitolato: La controrivoluzione preventiva. La sua tesi era semplice. La rivoluzione tanto predicata dai socialisti non era arrivata e in un certo senso non era mai stata voluta per davvero. Ma le sinistre l'avevano fatta pesare come una minaccia per tutto il 1919 e il 1920. Questo fu sufficiente a provocare la controrivoluzione moderata, di cui il fascismo era il protagonista più impietoso e risolutore. Una bufera che si giovò soprattutto di due armi: la violenza illegale dello squadrismo e la repressione legale del governo liberale, attuata dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia regia, quasi sempre rivolte contro le sinistre. Il risultato fu simile ai giochi di guerra delle Play Station odierne. Le sinistre avevano gridato per due anni di voler fare come in Russia, ma senza saper passare dai proclami alla rivoluzione vera. E i fascisti andarono all'assalto per impedire a chiunque di trasformare in fatti le teorie del bolscevismo nostrano. Gli incauti parolai rossi si erano comportati come l'apprendista stregone: avevano creato il mostro che li avrebbe divorati. Infine le sinistre erano pronte a farsi sconfiggere. Dentro un corpo in apparenza molto solido celavano il virus della discordia e della divisione. Stavano insieme in un solo partito e in poco più di un anno si ritrovarono frantumate in tre segmenti. Nel gennaio 1921, a Livorno, la corrente guidata da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga lasciò il Psi e fondò il Partito comunista d'Italia. Allora accadde un fatto assurdo, che anticipava tutte le pazzie destinate nel futuro a corrodere la sinistra italiana. Mentre il nuovo partito iniziava subito l'attacco ai vecchi compagni, i socialisti rimasti nel Psi rinnovavano all'unanimità la fedeltà a Mosca che aveva voluto la scissione. Anni dopo, un Gramsci costretto all'autocritica avrebbe affermato che la scissione era stata «il più grande regalo fatto alla reazione». Ma in quel 1921, già carico di pericoli per la sinistra, pochi lo compresero. Fra questi c'era Nenni, che scrisse: «A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano». E un altro politico vicino al Psi sfornò un'immagine sempre attuale: «La scissione è il cacio sulla minestra della borghesia». Ma al socialismo italiano una sola frantumazione non bastava. Se ne costruirono una seconda all'inizio dell'ottobre 1922, ventiquattro giorni prima della marcia su Roma. Al diciannovesimo congresso del Psi, la corrente massimalista, sfruttando una lieve maggioranza di delegati, espulse i riformisti di Filippo Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti. I compagni messi fuori dalla vecchia casa formarono un nuovo movimento politico: il Partito socialista unitario. Affidato alla guida di Matteotti, nominato segretario. Gramsci schernì subito il deputato di Fratta Polesine dicendo che era «un pellegrino del nulla». Mentre la sinistra si svenava in una guerra senza quartiere contro se stessa, lo squadrismo fascista cresceva a vista d'occhio e partoriva figure sempre nuove. Molti protagonisti della controrivoluzione in camicia nera il lettore li troverà effigiati in Eia eia alalà. Alcuni di loro emergevano da un'Italia sotterranea e sconosciuta, da mondi estranei alla politica, con un passato torbido, non privo di nefandezze. È il caso di una coppia di amanti, poi divenuti marito e moglie: i conti Carminati Brambilla che hanno un posto di rilievo in questo libro. Mentre scrivevo questo libro mi sono rivolto una domanda. Nell'Italia degli anni Duemila è possibile vedere emergere un regime autoritario non molto diverso dal regime fascista, anche se di colore differente, bianco invece che nero, oppure rosso o rosa? Non è un interrogativo privo di senso. La storia europea del Novecento ci ha insegnato che le dittature nascono in paesi che hanno tre caratteristiche. Sono deboli perché stremati da una guerra o da una crisi economica feroce. Hanno istituzioni democratiche screditate e che non funzionano più, in mano a partiti inefficienti e corrotti. Risultano dilaniati da contrasti sociali molto forti, tra una minoranza di presunti ricchi e una maggioranza di cittadini sempre più poveri. L'Italia del 2014 è così? Esiste un'affinità tra il paese di oggi e quello del 1919-1922? Qualche volta temo di sì".

Classe Balilla, ecco gli allievi del Ventennio. A Segrate (Milano) in mostra circolari diari e quaderni dei bambini della scuola primaria, scrive Antonio Ruzzo, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Tutti in piedi entra la maestra... Quando salutare era un imperativo come credere, obbedire, combattere. Quando ai professori non si dava del «tu» e note e bocciature non erano materia per i giudici del Tar. Quando gli insegnanti erano definiti «apostoli» e «sacerdoti» e avevano la missione di educare la gioventù italiana a «comprendere e rinnovarsi nel Fascismo». Quando di libertà e diritti non si discuteva. Quando a scuola c'era lui insomma. Anni fa. Tanti anni fa che rivivono nella mostra «A scuola col Duce. L'istruzione primaria durante il Ventennio fascista», ideata e realizzata già nel 2003 dall'Istituto di Storia Contemporanea «Pier Antonio Perretta» di Como. Da ieri, e fino alla fine del mese, è allestita a Segrate (Milano) nel Centro Giuseppe Verdi proprio nella piazza dove l'architetto Aldo Rossi realizzò il monumento al partigiano. Nessuna nostalgia. Anzi. A volerla è stata la sezione cittadina dell'Anpi e a ospitarla è una giunta di centrosinistra. «L'idea ci è venuta per celebrare il 25 aprile - spiega Gianluca Poldi, assessore alla cultura di Segrate - e per approfondire un periodo della storia che deve essere affrontato come tale, senza preconcetti. E mi ha fatto piacere che a proporci questa mostra sia stata proprio l'associazione dei partigiani. Poi alla base di tutto c'è lo straordinario lavoro storico dell'Istituto di Storia Contemporanea Pier Antonio Perretta che è un garanzia». In esposizione oltre sessanta pannelli che riproducono per la maggior parte illustrazioni a colori, fotografie e testi ripresi dai manuali scolastici, dai quaderni degli scolari di allora e che, insieme a una serie di quadri riassuntivi, ripercorrono le tappe e i momenti più significativi della scuola di regime. L'Istituto comasco possiede una cospicua raccolta denominata Fondo scuola che comprende anche pagelle, certificati di studio, saggi pedagogici, periodici, libri di narrativa, fotografie. «La maggior parte della nostra raccolta - spiegano i responsabili - proviene dai mercatini dell'antiquariato e da donazioni di privati, ma una ricchissima documentazione la si può trovare negli archivi di molte scuole, soprattutto per quanto riguarda i registri scolastici e i giornali di classe stilati dall'insegnante. Chi ha ideato e fortemente voluto questa mostra è stato Ricciotti Lazzero, giornalista e storico di fama, presidente dell'Istituto Perretta, purtroppo scomparso nel dicembre del 2002, un mese prima dell'inaugurazione della mostra». La scelta di proporre la mostra in occasione della ricorrenza del 25 Aprile, Festa della Liberazione, non è casuale. «Assolutamente no - spiega l'assessore Poldi -. La speranza è che diventi un momento di riflessione per tutti. Mi aspetto che a vistarla vengano i nonni con i loro nipoti, mi aspetto che vengano anche molti studenti, anche se devo ammettere che vedo un po' di pigrizia negli insegnanti. Ma soprattutto mi aspetto che venga visitata e apprezzata senza pregiudizi. Anche perché il materiale raccolto è importante. La grafica di allora a esempio era straordinaria e aveva una grande capacità di sintesi. Si prenda la locandina che apre la mostra, quella dello studente col pennino che ha nella sua ombra la proiezione dell'uomo soldato. C'è tutto il regime, in quell'immagine...». Quella sotto il duce fu una scuola in cui il bambino era un adulto in miniatura, da istruire e mantenere sano nella mente e nel corpo, un potenziale militare. E centrale fu il ruolo dell'Opera Nazionale Balilla, ben presente nelle istituzioni scolastiche: presidi e insegnanti erano tenuti ad aprire le porte alle sue iniziative, a essa era affidato l'insegnamento dell'educazione fisica ai ragazzi. Conoscere «l'istruzione primaria durante il ventennio fascista», come recita il sottotitolo della mostra, significa capirne non solo la struttura e l'evoluzione, ma anche le motivazioni e le finalità: «Voi siete l'aurora della vita, voi siete la speranza della Patria, voi siete soprattutto l'esercito di domani...» diceva Mussolini ai ragazzi. «La mostra commenta la curatrice Elena D'Ambrosio - vuole contribuire a esaltare quella libertà dell'uomo che comincia difendendo i diritti del fanciullo in formazione. Poiché la libertà nasce nelle aule delle scuole elementari, dove per la prima volta al bambino viene consegnato un libro. Quel libro deve essere corretto e leale, senza dottrine, aperto all'ottimismo, chiaro, semplice». Un messaggio che passa dalla storia e arriva ai giorni nostri: «Sì un po' è così - conclude l'assessore Poldi -. Uno sguardo nel passato per capire che l'educazione dei bambini alla libertà è un valore da cui non si deve mai prescindere».

Olocausto provocato dai Nazisti e dai fascisti? Una menzogna a metà. Si censura la parte riguardante i comunisti. Dustin Hoffman choc: "I miei parenti ebrei uccisi dai comunisti". Nel corso di uno show, il premio Oscar ha scoperto il tragico passato della sua famiglia ucraina, vittima della polizia sovietica e dei gulag, scrive Eleonora Barbieri, Sabato 12/03/2016, su "Il Giornale". «Questa è una storia terribile, non è una bella cosa da raccontare ai bambini...». Sarà anche per questo che Dustin Hoffman ha dovuto aspettare fino a 78 anni, per scoprire la verità sulla storia della sua famiglia. Su quel nonno e quei bisnonni di cui suo padre Harry non gli aveva mai parlato, sui quali aveva come eretto un muro. Dietro quel muro c'era la tragedia di un popolo e di un mondo, e anche di una famiglia intera e di un ragazzo in particolare: perché il nonno Frank e il bisnonno Sam Hoffman sono stati sterminati in Russia, anzi in Unione Sovietica, nei primi anni dopo la Rivoluzione; e la bisnonna, Libba, è stata imprigionata in un gulag per cinque anni, prima di riuscire a fuggire e arrivare sull'altra sponda dell'oceano, prima in Argentina e poi, finalmente, a Ellis Island. Era il 1930, Libba Hoffman aveva già 62 anni. I referti medici dicono: affetta da «demenza senile». La donna aveva perso il braccio sinistro, era quasi cieca. Era sopravvissuta a un campo di sterminio, di quelli che servivano a punire i nemici della Rivoluzione. Perché i signori Hoffman erano ebrei. Oggi Hoffman lo dice: «Sono ebreo... Sì, sono ebreo». Ha scoperto tutto grazie a una trasmissione televisiva della Pbs, Finding Your Roots, letteralmente «Scoprendo le tue radici». Ed è stato in diretta, l'altra sera, mentre il conduttore Henry Louis Gates Jr gli raccontava che cosa avevano scoperto sulla sua bisnonna coraggiosa e indistruttibile, che l'attore si è messo a piangere: «Loro sono sopravvissuti perché io fossi qui». La bisnonna Libba era, semplicemente, «un'eroina». Una donna che a 53 anni aveva visto sparire, nel giro di pochi mesi, il figlio e il marito. Era andata così: Frank Hoffman si era già trasferito in America, a Chicago, dall'Ucraina, il suo paese d'origine. Però poi gli erano arrivate le notizie di quei pogrom, quei massacri in cui finivano gli ebrei, ed era accaduto anche a Belaya Tserkov, la sua città. Perciò Frank Hoffman, che in America aveva una vita e anche un figlio (cioè il padre di Dustin Hoffman) era tornato a casa, per salvare i suoi genitori. Tempo di rimettere il piede in patria ed era sparito. Qualche mese dopo, lo stesso destino era toccato al padre Sam. Entrambi erano stati arrestati e poi uccisi dalla Ceka, la polizia segreta dei bolscevichi. Libba non si era data per vinta. Come racconta un trafiletto in un giornale russo del 1921, Libba aveva cercato di corrompere un agente della Ceka, probabilmente per sapere qualcosa del destino del marito e del figlio: e così era finita in una campo di concentramento. Anche se aveva già più di cinquant'anni, Libba era riuscita a sopravvivere. Il lavoro duro, le sofferenze, le condizioni di vita estreme non l'avevano piegata, nonostante tutto. Era fuggita in Argentina. E poi era arrivata in America, a Chicago, dove era morta nel 1944, a 76 anni. Di tutto questo, di questa storia di sacrifici e dolore e separazioni che è intrecciata a una storia molto più grande e altrettanto terribile, Dustin Hoffman non sapeva niente. «Mio padre era ateo» ha raccontato l'attore. Di ebraismo non si parlava, di religione non si parlava in casa sua. Non si parlava, soprattutto, della famiglia paterna, con la quale «non c'erano rapporti» (i suoi si erano trasferiti a Los Angeles). Oggi lui prova a capire. Quelle lacrime che significano? Commozione, certo. «Orgoglio», come ha detto lui, per una donna, la sua bisnonna, che ha dato la vita e anche di più per essere libera, e non si è lasciata piegare dall'orrore, dalla dittatura, dalla perdita dei suoi amori. Anche affetto per il padre, quello che aveva eretto un muro di dimenticanza: «Forse era semplicemente che non voleva fare sapere ai bambini, alla famiglia, perché è tutto così atroce. Magari mio padre, chi lo sa, ha pianto, si è aggrappato alle gambe di suo padre, gli ha gridato: Ti prego, papà, non andare... Povero papà». Oggi, dice Hoffman, «a chi mi chiede: chi sei?, rispondo: sono un ebreo». Certe parole vanno esibite, «portate sulla manica». Bisogna «fare un annuncio», scoprirle, come certe verità di famiglia, anche se non sono delle belle favole da raccontare ai bambini.

"Questa è la democrazia dei rossi, non ci fate ridere ma pena". A scriverlo su Twitter l’1 marzo 2016 è Matteo Salvini dopo la contestazione a Bologna da parte dei soliti "rossi" che hanno appeso il manichino che lo ritrae con tanto di maglietta verde padano a testa all'ingiù come Mussolini.

Si dice che i comunisti una volta mangiassero i bambini…ora li comprano!

“E’ stato un bel regalo all’Italia avere impedito che due persone dello stesso sesso, cui lo impedisce la natura, avessero la possibilità di avere un figlio. Abbiamo impedito una rivoluzione contronatura e antropologica”. Angelino Alfano, parlando delle unioni civili a margine del consiglio Ue Interni a Bruxelles il 23 febbraio 2016, esulta così all’indomani della vittoria sul braccio di ferro all’interno della maggioranza che ha portato alla riscrittura del ddl Cirinnà, sul quale il governo ha posto il voto di fiducia. “Sulle unioni civili ha vinto il buonsenso – ha proseguito il ministro dell’Interno – Abbiamo bloccato ciò che non è permesso in natura”. 

Invece...Nasce il figlio di Vendola, Salvini sbotta: "Disgustoso", scrive “Libero Quotidiano” il 28 febbraio 2016. Dopo lo scoop di Libero sulla nascita di Tobia Antonio, figlio di Nichi Vendola e del suo compagno Eddy Testa grazie a una madre surrogata, scoppia il caso politico. Il primo a commentare è il leader della Lega Matteo Salvini, che su Twitter scrive: "Vendola e compagno sono diventati papà, affittando utero di una donna californiana. Questo per me non è futuro, questo è disgustoso egoismo". Sulla stessa lunghezza d'onda il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: "Questa è la sinistra italiana. A parole sono contro l'utero in affitto. Ma poi usano questo turpe metodo per inventarsi genitori dei figli di altri". La sinistra stessa si spacca: Adriano Zaccagnini, di Sinistra italiana: "Congratulazioni a Vendola e Testa, ma non condivido la tecnica della maternità surrogata, soprattutto se fatta dietro pagamento di denaro". "In questo mondo ci sono tanti bambini senza genitori da aiutare, sostenere o adottare. Non abbiamo bisogno di dare legittimità ad una pratica del genere". A tutti risponde lo stesso Vendola: "Non c'è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca", assicura. "Condivido con il mio compagno una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dalla espressione utero in affitto": "Questo bambino è figlio di una bellissima storia d'amore, la donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita".

Vendola diventa papà, Salvini: "Questo è disgustoso egoismo". Il figlio avuto da Vendola con l'utero in affitto scatena una polemica accesissima. Il mercato dei figli è già realtà. Piovono accuse contro l'ex governatore: "È sfruttamento proletario". Critiche anche da sinistra, scrive Sergio Rame, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Al piccolo è stato dato il nome di Tobia Antonio. La notizia è stata confermata da persone vicine all'ex presidente della Regione Puglia e ha scatenato una pioggia infinita di critiche. "Questo per me non è futuro - tuona Matteo Salvini - questo è disgustoso egoismo". Al leader del Carroccio l'ex governatore della Regione Puglia ha replicato duramente assicurando che non si farà "turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca" da "insulti squadristi". Chi condanna, chi esulta e chi ci scherza su ("Ma Tobia che nome è?"). La notizia della paternità di Vendola sta dividendo il web. Testa, che è il padre biologico del bimbo, è canadese e in quel Paese è possibile avere figli con la tecnica dell'utero in affitto. Grande gioia, si è saputo, è stata manifestata dai diretti interessati e da famigliari e amici della coppia. La notizia della nascita del bimbo era stata anticipata oggi da alcuni quotidiani e da tempo si era a conoscenza che Vendola e Testa avevano compiuto tutti i passaggi, anche burocratici, per avere un figlio. Tanto che c'è chi, come il deputato Gian Luigi Gigli, parla di "sfruttamento proletario". Per Salvini, invece, "affittare l'utero" è uno "schifoso egoismo". Eugenia Roccella, parlamentare di Idea, riconosce amaramente che "il mercato dei figli è già realtà". Anche tra le fila della Sinistra italiana c'è chi storce il naso. Adriano Zaccagnini invita a "non dare legittimità" all'utero in affitto. "È una transazione come altre - tuona - e il figlio un oggetto di un desiderio di chi se lo può permettere". Vendola non ha apprezzato le critiche e dal Canada ha replica duramente. "Non c'è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca", ha replicato sottolineando di aver condiviso con il suo compagno "una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dalla espressione 'utero in affitto'". Dagli studi di Fuori Onda su La7, però, Salvini è tornato ad attaccare l'ex governatore. Pur facendo gli auguri al piccolo appena nato, il leader della Lega Nord ha ribadito che la scelta presa da Vendola e Testa è "un'aberrazione" dal momento che si tratta di "un atto di egoismo di due adulti". "Al centro commerciale - ha quindi concluso - si comprano i dvd, le lavastoviglie, ma non i bambini". Durissima anche la replica di Maurizio Gasparri che fa notare a Vendola che "squadrista è chi strappa figlio a madre". Su Twitter l'hastag #Vendola è di tendenza da ore. E i commenti sono i più disparati. C'è chi scrive: "Ciao, sono Vendola, volevo un regalo e ho comprato un bambino". E chi aggiunge: “Ma una volta i comunisti non li mangiavano bambini? Ora li comprano". E ancora: "Ma ci rendiamo conto? Generare con i soldi un bambino da una sconosciuta solo per dire sono papà. Egoismo assoluto". Ci sono anche tanti che fanno gli auguri all'ex governatore: "Tanti auguri ai neo genitori ed al piccolo". "Moralisti da social smettetela- fa eco un altro - Nichi sarà un padre dolcissimo". E ancora: "Le bestialità che scrivete su Vendola mi fanno capire perché questo Paese è in rovina, basta!". Infine, non mancano gli ironici. Come chi, prendendo di mira l'eloquio vendoliano, scrive: "L'unico problema per il figlio di Vendola è che la ninna nanna durerà tre ore". E infine chi proprio non si fa una ragione per il nome scelto: "Nessuno ha inquadrato il vero problema della questione: ma perchè lo ha chiamato Tobiaaaa?".

Vendola, la nascita di Tobia è un caso politico, scrive il 29 febbraio 2016 “Avvenire”. ​Nichi Vendola e il suo compagno Eddy Testa hanno avuto un bambino tramite la pratica della maternità surrogata. Sabato pomeriggio in una clinica in California, dopo una gestazione portata avanti da una madre in affitto, è nato il piccolo Tobia Antonio. All'indomani del voto sulle unioni civili che ha però escluso le adozioni del figlio del compagno nel caso di coppie gay, saranno i giudici italiani a dover decidere sul riconoscimento della paternità di Vendola (il padre biologico del bimbo è il compagno Eddy). La nascita del piccolo è stata in queste ore al centro di un duro scontro politico e ha riacceso la polemica sulle conseguenze che l'introduzione della stepchild adopotion (stralciata dal ddl sulle unioni civili ma in agguato nel ddl sulla riforma delle adozioni che dovrebbe venire discusso nei prossimi mesi) potrebbe portare. Vale a dire il ricorso alla maternità surrogata in maniera sempre più consistente da parte delle coppie omosessuali. "Il figlio del compagno di Vendola, nato grazie a un contratto di utero in affitto, per cui la madre ha dovuto abbandonare il suo bambino appena nato, potrà essere rapidamente riconosciuto in Italia dal leader di Sel grazie alla nuova legge sulle unioni civili", afferma Eugenia Roccella, parlamentare di Idea. "Se la coppia ricorrerà alla nuova legge, infatti, - spiega - il tribunale consentirà l'adozione a Nichi Vendola senza problemi e senza neppure aspettare la nuova legge sulle adozioni. È chiaro a tutti così - conclude - che la stepchild adoption è già una realtà, e che lo scopo della legge è la legittimazione dell'utero in affitto e della nuova filiazione di mercato". La deputata di Area Popolare Paola Binetti mette in guardia il Pd: "non voteremo una legge sulle adozioni che comprenda la stepchild". "Sappiamo dalla cronaca che un bambino può costare 120mila euro; l'onorevole Rossi ci ha detto che il suo è costato quasi 100mila euro, pensiamo che questa cosa sia una forma di schiavismo", ha detto ancora Binetti. Di "sfruttamento proletario dello stato di bisogno economico di due donne, quella che ha donato gli ovuli e quella che ha affittato l'utero", parla il deputato Gian Luigi Gigli di Democrazia solidale. "La sinistra da paladina dei diritti umani si è trasformata in promotrice di desideri individuali". Di "nuovo modello antropologico" e di "donne ridotte a schiave" parla anche Alessandro Pagano, coordinatore del Comitato Parlamentari per la famiglia chiedendosi come mai le femministe e il presidente Boldrini non hanno nulla da dire. Rocco Buttiglione, vicepresidente dei deputati di Ap, mette l'accento sul dolore di quella donna di cui nessuno parla. "Una mamma senza il suo bambino" che lo ha sentito scalciare e crescere per nove mesi sapendo già che però non sarebbe stato suo visto che "era stato venduto già prima del concepimento". Dal Pd arriva la voce fuori dal coro di Beppe Fioroni che invita il suo partito a non insistere sulle adozioni per le coppie gay concentrandosi invece sui problemi reali del Paese come le tasse e il lavoro. "Il figlio di Vendola? È nato un bambino orfano di madre". Non usa mezzi termini Massimo Gandolfini, portavoce del comitato 'Difendiamo i nostri figli e tra gli organizzatori del Family Day al Circo Massimo. La vicenda del figlio di Nichi Vendola "ci lascia attoniti". Marco Griffini, presidente dell'Aibi, (Amici dei Bambini), esprime un giudizio "totalmente negativo", sottolineando che "l'utero in affitto è una forma di schiavitù nella forma più aberrante". "Dovrebbero restituire il bambino alla mamma, così che possa crescerlo. Mi meraviglio -aggiunge - che una persona che ha fatto della politica una scelta di vita possa fare una cosa simile. Come movimento di famiglie adottive - sottolinea - siamo attoniti". Si congratula per la nascita di un bambino ma resta perplessa sull'utero in affitto Laura Boldrini, presidente della Camera, che da Londra confessa di aver difficoltà ad accettare questa pratica, soprattutto "quando queste maternità avvengono in Paesi in via di sviluppo, quando ragazze povere si prestano". Resta da vedere ora quale sarà il destino del piccolo Tobia Antonio: dovrebbe risultare cittadino canadese, Paese di origine del padre biologico, e di una madre che non desidera essere identificata. Vendola potrebbe adottarlo in Canada e allora potrebbe chiedere in Italia il riconoscimento dell'atto canadese. Oppure potrebbe presentare richiesta di adozione in Italia, che andrebbe di fronte ai giudici sotto la fattispecie di adozione in casi speciali.

Caso Vendola: altro che «diritti», siamo al mercato dell'umano, scrive Marco Tarquinio l'1 marzo 2016 su “Avvenire”. "E venne un tempo…Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore". Karl Marx, Miseria della Filosofia.

"​Gentile direttore, Nichi Vendola, fondatore di Sel, fautore assoluto del ddl Cirinnà sin dalle primissime versioni, ha “avuto” ieri un bambino. Da un ovulo di donna californiana, impiantato in una donna di origine indonesiana, con un seme del suo compagno italo-canadese, il tutto a pagamento, negli Usa. L’avevamo sentito dire: «Ogni volta che leggo di un neonato abbandonato in un cassonetto dell’immondizia, vorrei correre a prendermi cura di quella creatura». Ma è la stessa menzogna evocata (in ordine alfabetico) da Boschi, Cirinnà e Renzi: i bambini orfani non li “prendono in cura” (anche perché ci sarebbero già tante coppie uomo-donna in lista d’attesa), li producono. Sfruttando le donne. Ecco che cosa fanno quelli come Vendola e il senatore del Pd Sergio Lo Giudice. La legge Cirinnà, tra le altre cose, è una legge ad personam per miliardari e comunque per ricchi e potenti". Filippo Sassudelli - Trento.

"Caro direttore, Tg1 Rai di domenica 28 febbraio, ore 13.30. Il conduttore annuncia, testuale: «Paternità per Niki Vendola. In California è nato il figlio biologico del compagno Eddi». A seguire, servizio sulla riforma della legge sulle adozioni, estese a tutti con intervento compiaciuto di Debora Serracchiani alla scuola di formazione del Pd. Quasi tutti i quotidiani on line e i vari siti titolano e riferiscono in termini simili. Per riassumere: utero di donna di origini indonesiane più ovulo di donna californiana (madre biologica) più apporto di uno dei maschi. Se la madre è un «concetto antropologico» – ce lo insegna la coppia costituita dal senatore Lo Giudice (Pd) e compagno – lo è anche il padre… Ma da un paio di anni – “Avvenire” ne ha dato puntualmente conto – circolano le indicazioni Unar anche per i giornalisti, sui termini di genere da usare e da evitare. Le “veline” del ventennio fascista forse erano meno ridicole. Ebbene, in tre giorni: prima il Senato che approva le Unioni civili senza più stepchild adoption (adozione del figliastro), poi l’annuncio di Monica Cirinnà e colleghi di una prossima riforma ad hoc della legge sulle adozioni che apra alle persone omosessuali, poi la notizia su Vendola “padre”. È la «dittatura del pensiero unico», con la complice adesione di molti giornalisti. Papa Francesco ne ha parlato spesso, ed ecco ci siamo. Rimangono pochi uomini politici, pochi mezzi di informazione, ma moltissimi cittadini comuni (inclusi quelli del Family Day) che non tacciono e non si piegano. Il premier Renzi vuole «andare nelle parrocchie» a spiegare le unioni civili. Clericalismo a parte – può incontrare cittadini cattolici in tanti altri luoghi –, venga a spiegarci anche questo, gliene chiederemo volentieri ragione. Nel seggio elettorale, per le amministrative e per il referendum confermativo, decideremo noi". Gianluca Segre - Torino.

Il fatto di cronaca al centro di queste due lettere (e di altre che stanno piovendo in redazione) è già oggetto oggi degli ampi e approfonditi commenti che ho affidato a Marina Corradi e a Francesco Ognibene e questo mi consente di limitarmi, qui, a un paio di sottolineature in risposta ad altrettante specifiche questioni poste dai lettori. La prima annotazione riguarda la natura di «legge per ricchi e potenti» della normativa sulle unioni civili approvata in prima lettura al Senato nonché – arguisco – di altri progetti che, secondo le dichiarazioni di Monica Cirinnà, dovrebbero portare alla cosiddetta “adozione gay”. Se, come intendo, il principale motivo di questa affermazione del lettore Sassudelli è legato al ricorso all’utero in affitto da parte di chi richiede l’adozione del figlio del compagno in un’unione gay, direi che si tratta di una mezza verità. La verità tutta intera è che non tutte le persone omosessuali sono ricche e potenti, ma tutte le madri surrogate “acquistate” da coppie eterosessuali od omosessuali sono povere e senza potere. La seconda sottolineatura è per il linguaggio “politicamente corretto” usato in particolar modo dai notiziari del servizio pubblico radiotelevisivo. Un fenomeno impressionante di camuffamento della dura realtà della cosificazione di una madre senza nome, senza volto e ridotta a pura esecutrice di un contratto padronale. Siglato da un politico di sinistra che ha contribuito a “comprare” gli ovociti di una donna e il corpo di una madre per far “fare” un figlio biologico del proprio compagno e intestarsene a sua volta la paternità legale (all’estero) e politica (in Italia) in violazione di una legge anti–schiavista del proprio Paese. Stavo per ricorrere a un’immagine di papa Francesco o di Benedetto XVI, ma poi ho pensato che a Nichi Vendola era meglio dedicare una citazione di Karl Marx, quella che pubblichiamo qui accanto. Il triste mercato dell’umano cresce, e ha ingressi di destra e di sinistra. Si smetta di chiamarli «diritti».

Per soddisfare un suo desiderio il paladino dei poveri e degli oppressi è andato all'estero come un facoltoso signore, ha reso orfano della madre un bambino e ha eluso la Costituzione e le leggi della Repubblica. Ma non era un uomo di sinistra?": se lo chiede Famiglia Cristiana, parlando del caso del figlio di Nichi Vendola in apertura del sito in un commento di Francesco Anfossi.

Sulla nascita del figlio di Nichi Vendola, dice la sua Vittorio Sgarbi, e lo fa con un post, pubblicato da “Libero Quotidiano” l’1 marzo 2016, di rara violenza su Facebook, nel quale, tra le altre, spiega che "dal culo non esce niente". Di seguito, il post di Sgarbi: “Non può essere, quello appena nato, il figlio di Vendola. Dal culo non esce niente. Vendola ha un marito ed è contemporaneamente padre. Due persone dello stesso sesso non generano. Ma di cosa stiamo parlando? I bambini devono essere concepiti, educati e evoluti sulla base di ciò che la natura consente. Di bambini bisognosi è pieno il mondo, e si possono aiutare in tanti modi. Quel bambino è una persona che si sono costruiti a tavolino, come un peluche. E' insopportabile”.

Qualche ora prima, sulla pagina Facebook del critico era apparso un altro post, che sintetizzava così il pensiero di Sgarbi: “I neonati si attaccano alle tette, non ai coglioni”.

Utero in affitto, Beppe Grillo: perché mi spaventa l’idea di un sentimento low cost. L’intervento del leader dei Cinque Stelle: «Nulla a che fare con l’omosessualità o l’eterosessualità, ma è la logica del “lo facciamo perché è possibile”». La lettera di Beppe Grillo dell’1 Marzo 2016 su “Il Corriere della Sera”. “Le questioni etiche nel periodo del low cost possono assumere degli aspetti paradossali, al limite del ridicolo... scusate: del tragico. Il fenomeno del low cost avvicina molti esseri umani a stati transitori di benessere immaginario quando, nella migliore delle ipotesi, quelle stesse persone stanno facendo da tristi tappabuchi, nelle sempre più disperse, e tante, basse stagioni di ogni cosa: il prezzo dell’albergo di lusso, quello di una vacanza romantica, quello della felicità, e quello dei diritti rende le idee delle persone sempre più confuse! Ed è curioso come il prezzo delle creature viventi possa diventare così basso, e trattabile, proprio quando è altissimo il pericolo di sconvolgimenti irreparabili dello stato sociale e morale di un popolo. Proprio le creature viventi, e tutto ciò che le garantisce in vita, mi sembra non abbiano più un valore percepito. Peggio vanno le cose e più sono le nullità che scorrono sugli schermi utilizzando le parole amore, felicità, dignità umana...come se anche queste stessero subendo una sorta di inflazione. Mentre confondiamo l’economia con la finanza ancora peggio ci comportiamo, anche nel nostro intimo, quando confondiamo quelli che adesso mi permetto di chiamare diritti intimi! Come la paternità, la maternità e l’amore. Sento utilizzare la parola amore in modo talmente pressappochista da provare un dolore, intenso, che nessuna forma di ironia può risolvere. È veramente possibile che si blateri di amore e diritti intimi pensando a Vendola proprio mentre stiamo dimenticando chi ha messo al mondo noi? Mi riferisco a quelli che chiamiamo anziani, quelli che stiamo dichiarando inutili senza neppure più arrossire! E allora: chi sono io per dire alle persone di rinunciare a delle opportunità che appaiono stupefacenti? E se è così: chi sarei io per rivendicare, al semplice scopo di salvarli, i diritti della persona a cominciare dalla sua dignità, per finire con il fatto che si tratta di una certa persona, di una tal coppia oppure di un operaio, di un poliziotto, un pensionato, un bambino in Siria dove ti uccidono i videogiochi dal cielo, insieme a tutti gli individui che compongono il tessuto interstiziale della società. Forse uccidere a distanza degli esseri umani provoca una gioia che io non ho alcun diritto di criticare. Se tutto è possibile, uccidere giocando è diventata una realtà prima che nasca la perversione giusta per gioirne. Quanto è lontano Nichi Vendola da quello che sta succedendo nel mondo reale per permettersi di comportarsi con una majorette che rotea strane mazze colorate guidando un corteo di pareri in svendita. C’è qualcosa del concetto di utero in affitto che mi spaventa. E non ha nulla a che fare con l’omosessualità oppure l’eterosessualità; mi spaventa la logica del «lo facciamo perché è possibile»: un po’ com’è diventato facile attaccare tutto alla bolletta della luce. Così, mi perdo in questi nuovi moti di provare dolore e manifestare gioia, spaventato dalla facilità con cui li modifichiamo. Terrorizzato dal contesto di assoluta disinformazione da cui sentiamo provenire quelle parole. Incredulo e confuso: nessuno vorrà spiegare perché stiamo vivendo nel mondo del precotto low cost delle idee, dei riferimenti morali e della gioia. Scandalizzarsi perché qualcuno trova buffo Vendola ma non dice nulla — oppure dimentica apposta — quello che sta succedendo a chi si suicida per un debito mi spaventa. Insieme a quelle definizioni strane: utero in affitto, soldato, sacrificio, insostenibilità, abbandono... Tutti rinchiusi e allontanati dalla vista mentre si chiacchiera pensando soltanto se ci si è sbiancati a sufficienza i denti da mostrare nell’ennesimo talk show”.

Nichi, vai a vivere in California dove non ci sono squadristi…scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 29 febbraio 2016. “Non c’è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca. Condivido con il mio compagno una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dall’espressione “utero in affitto”. Questo bambino è figlio di una bellissima storia d’amore, la donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita. Quelli che insultano e bestemmiano nei bassifondi della politica e dei social network mi ricordano quel verso che dice: “ognuno dal proprio cuor l’altro misura” (anche se capisco che citare Dante non faccia audience)”. Queste le parole con cui Nichi ha ringraziato il suo pubblico. L’oscar come miglior comunista d’Europa, miglior alchimista, come non esempio in un ruolo da non protagonista e più brutta mammo d’Italia goes to Nichi. Ragazzi l’Oscar l’ha vinto lui. Sì, Di Caprio e Morricone, d’accordo. Uno lo sfottevano, l’altro è vecchio. L’Oscar lo ha vinto Nichi. Punto. Pensate sia facile assemblarsi un figlio? Un pezzo qui, un pezzo lì; la gravidanza da seguire, i ruoli di cui tenere conto – soprattutto a vent’anni da oggi -, le ecografie, i selfie su whatsapp con il pigiamino azzurro in mano – ci siamo quasi! -, i dottori da sentire, le mani da incrociare davanti al caminetto, i bagagli da preparare, le telefonate da fare… Uff! Che stress! Quasi, quasi conveniva avere la patatina per farlo in natura un figlio…Già si sente in casa il piccolo Tobia chiamare i genitori: “Mamma Nichi? Papà 135.000?” Un Oscar non facile per un film impossibile. Nichi, che lo ha vinto anche per la peggior interpretazione di un madre. Riassumendo la situazione che ha portato al riconoscimento più ambito per Nichi Vendola. L’ex governatore della Regione Puglia è diventato mammo/a/e/i/o/u di un bambino del quale il vero padre (o padre naturale o padre genetico o santodioaiutacitu) è Eddy Testa, il quasi quarantenne fidanzato di Vendola, la madre vera (o madre naturale o..etc) è una californiana e l’utero in prestito è di un’indonesiana. Uno spaccio folle di ovuli e spermatozoi, un cast incredibile, inscenato da un signore in lotta per la dittatura del proletariato da anni, già PCI, poi Rifondazione, poi capopopolo di SEL, ora in continua evoluzione a pugno chiuso, che per fare il mammo ha speso più di 100.000 Euro.  Un immenso gettito di umanità per un Nichi che rideva al telefono sui tumori dell’ILVA. E noi, poi, saremmo squadristi perché obbrobriosamente schifati da figuri e situazioni del genere? Fà una cosa Nichi, pigliati a Eddy, al (povero) piccolo Tobia, alla foto di Stalin, Lenin, Mao Tse Tung, Carlo Marx, Cip & Ciop, all’indonesiana, alla California, e vai dove più ti aggrada, magari lontano dall’Italia squadrista, bigotta, cafona e cattolica. È facile fare il mammo col vitalizio degli italiani. Ciao Nichi, insegna agli angeli come si governa la Puglia. And the Oscar goes to…

L’outlet dei bambini, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale” il 29 febbraio 2016. Ho provato a farmi un giro nel supermercato dei feti e ne sono uscito inorridito. Da qualche giorno non si parla d’altro: Nichi Vendola e il suo compagno Eddy sono diventati papà. Grazie a un utero in affitto. E detta così sembra una cosa quasi normale. A qualcuno fa senso, ad altri schifo. Ma ormai questa locuzione “utero in affitto” la abbiamo sentita ripetere così tante volte dalla nostra stupida politica che ci pare normale. Sembra uno dei tanti temi su cui si accapigliano in Parlamento per dare un senso alla loro esistenza o alla loro rendita politica. “Utero in affitto”. Beh pure gli appartamenti si prendono in affitto, anche le automobili. I motorini, i quad, persino i libri e gli smoking. Insomma io sentivo parlare di questo utero in affitto ma non pensavo a cosa volesse effettivamente dire. Era un “sovrappensiero”, come nella vecchia canzone dei Bluvertigo. Poi ho letto un trafiletto sul “Corriere della Sera” nel quale veniva spiegata alla perfezione la dinamica di questa pratica: il costo per i futuri genitori, lo stipendio della proprietaria dell’utero e della donatrice degli ovuli, nel caso ce ne fosse bisogno. E ho letto il nome della più famosa clinica che pratica questo tipo di interventi: Growing Generations. Ho digitato il nome su Google e mi sono fatto un giro di un paio d’ore in questa fabbrica di bambini. Solo così ho capito cosa è l’utero in affitto. Solo sfogliando il catalogo delle “egg donors”, le donatrici di ovuli, mi sono trovato faccia a faccia con quello che non può non sembrare un mercato di esseri umani. Sulla home page del sito scintillano i denti di una famiglia sorridente. Tutti felicissimi e belli. Biondi, mori, lattei, olivastri, con gli occhi chiari o scuri. Tutti i fenotipi. La mercanzia è tutta in vetrina e il magazzino offre tutte le varietà in commercio. Poi si inizia la navigazione: ci sono i menù e le offerte per gli aspiranti genitori, per le aspiranti madri surrogate e per le donatrici di ovuli. Tutto chiaro e preciso, come nelle migliori brochure commerciali. D’altronde qui si paga e si paga pure bene: sborsa tanti soldi chi vuole un nano scintillante e ne riceve altrettanto chi lo ospita durante la gestazione e chi fornisce gli ovuli. Il figlio è un bene di lusso. C’è un calcolatore che in base alle assicurazioni sanitarie e i contratti che stipuli computa immediatamente il costo dell’operazione. Come nei car configurator dei siti delle case automobilistiche: cerchi in lega, sedili in pelle, navigatore. Ma la configurazione del nascituro è appena iniziata. Nella clinica del futuro si può scegliere tutto, basta iscriversi per iniziare lo shopping. Si parte con la scelta del donatore di ovuli: razza (afroamericano, caucasico, asiatico ecc), peso, altezza, colore dei capelli e degli occhi. Si selezionano tutti gli optional. Pura eugenetica. Il sogno di Mengele. Dopo aver smarcato tutte le voci preferite si avvia la ricerca. E, come in un macabro Facebook degli ovuli, compaiono le immagini dei profili delle donatrici. È il social network dei cromosomi. E le donatrici ci tengono a far sfoggio delle loro ottime credenziali genetiche: book fotografico con prole al seguito per dimostrare di avere buoni lombi, video di auto presentazione e curriculum. Più ovuli hanno già dato è più sono affidabili. E più vengono pagate. Una specie di usato sicuro, di certificazione di garanzia. E fa un po’ effetto immaginare il leader di Sel che si mette a selezionare la razza, questa parolaccia che quelli come lui volevano strappare dai dizionari. La stessa filosofia vale per le madri surrogate, cioè le donne che ospiteranno ovuli e partoriranno i bambini. La loro scelta è ancora più complessa, perché durante i mesi di gestazione dovrà interagire con i futuri genitori. Il catalogo è ampio e stilato con minuzia di particolari. Tutta l’operazione (con ovuli e madre surrogata, come nel caso dell’ex governatore, altrimenti si può anche portare un ovulo da impiantare) costa sui 145mila dollari ai futuri genitori. Un servizio per coppie abbienti. Ma non state a preoccuparvi, per chi non ha subito tutta la liquidità il sito ricorda in continuazione che si possono finanziare sino a 100mila dollari con un tasso di interesse del 5 per cento. Un affarone. Alla concessionaria dei figli tutto è possibile. Per ora non fanno leasing ma magari prima o poi fanno anche un buy back, non si sa mai che poi il pargolo rompa i coglioni e i genitori lo vogliano riportare in clinica. Alla madre surrogata, che viene seguita passo dopo passo e stipula un minuzioso contratto legale, vanno almeno 40mila dollari. Alla donatrice 8mila dollari per la prima donazione e dalla seconda in poi 10mila. Tutto calcolato. Tutto stipulato. Tutto perfetto. Tutto normato e tutto incredibilmente anormale. Un meccanismo di ingegneria genetica perfettamente rodato. Ecco, è sfogliando questo catalogo di umanità in vendita che si capisce veramente cosa sono l’utero in affitto e la maternità surrogata, queste locuzioni si staccano dalla strumentalità della politica e assumono la tridimensionalità di una pratica che può cambiare il mondo. Sono le meraviglie della scienza? Ma ne siamo davvero certi? Lasciamo perdere Nichi Vendola e il suo compagno, mettiamo da parte anche il fatto che queste cliniche siano utilizzate principalmente, ma non esclusivamente, da coppie omosessuali. Perché il problema non è quello, non solo quello almeno. Il problema è capire se è giusto costruirsi un figlio “sartoriale” selezionando pure il colore dei capelli e sfruttando – con la consapevolezza altrui, ovviamente – il corpo di un’altra donna. Per soddisfare le proprie voglie, perché si è omosessuali o magari per non portarsi dietro nove mesi di pancia, oppure per non perdere il lavoro a causa della maternità, è giusto far nascere un bimbo perfetto nel ventre di una donna costretta a venderlo per fare soldi? Non è una questione di religione o di fede – che io non ho – è una questione di umanità. Perché è evidente che questo è un mercato e che, in quanto tale, risponde solo alle regole del mercato. Che sono tra le migliori in circolazione. Ma per comprare le scarpe o il ferro, non i bambini. E le donne. Una volta i più poveri erano proletari, che non avevano nulla se non la prole. Ora che i figli sono un bene di lusso si chiameranno uteritari? Ovulitari? Forse stiamo giocando troppo agli apprendisti stregoni, ai piccoli chimici senza accorgerci che siamo solo grandi cinici.

Così Vendola apre la via socialista alla fabbrica di bimbi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale” l’1 marzo 2016. Basta dare uno sguardo ai siti che organizzano l’utero in affitto per capire la dimensione politica del neosocialismo. I soggetti coinvolti sono tre. Il donatore di ovuli (egg donator, in inglese fa più impressione), la proprietaria dell’utero e i genitori surrogati. Tutti e tre hanno un prezzo. Nel mercato degli ovuli si va dagli 8mila ai 10mila euro. La donna che dovrà tenerlo in grembo dai 35mila ai 50mila dollari. Per i genitori il costo supera i centomila dollari. Il sito growing generations propone finanziamenti fino a 100mila dollari, con tassi al 5,99%, per una durata massima fino a sette anni. Immaginiamo che, per il momento, non si possano chiedere ipoteche sui bambini. In questo supermercato si concretizza l’orribile sogno di una sinistra che ci vuole tutti «innaturalmente» uguali. C’è qualcosa che (solo) apparentemente non funziona se, a livello ideale, l’uso di questo supermercato viene condiviso dal pensiero di sinistra-egalitario ed è invece bandito dalla destra-mercatista. Verrebbe infatti da pensare che si tratta di una deformazione del modello capitalistico. Libertari, alla Murray Rothbard, hanno sempre pensato e scritto che gli esseri umani possano disporre come meglio credono delle proprie proprietà, compreso il corpo. In questo caso però le parole chiave non sono quelle dei libertari, ma principi di uguaglianza. Anzi ne sono la loro sublimazione. In un mondo, ritenuto a torto sempre più diseguale, la frontiera da abbattere è quella del diritto alla maternità-paternità. Perché due uomini o due donne non possono essere uguali ad una coppia tradizionale? L’alta marea della lotta alle diseguaglianze dunque si alza. Per i liberali resta ancora la parità di opportunità. Il neosocialismo confuta e aggira il concetto. Con l’utilizzo della tecnica (l’utero in affitto) le opportunità si allargano a tutti. Per il momento, e questa è la drammatica contraddizione di oggi, la tecnica è appannaggio solo delle coppie omo ed eterosessuali più ricche. Ma una volta sdoganato il principio e cioè riconosciuto il diritto universale ad avere un figlio, come un tempo si lottò per il diritto allo studio o alla salute, per quale dannato motivo restringerlo al censo? I liberali di ieri e di oggi combattono contro la folle idea di redistribuire il reddito per azzerare le diseguaglianze, quelli di domani dovranno occuparsi di frenare la tecnica affinché non ci renda tutti uguali.

Le unioni INcivili fanno dei brutti scherzi, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale” l’1 marzo 2016. Il ripugnante caso del figlio di Nichi Vendola e Eddy Testa (nella foto) ha scatenato una serie infinita di obbrobri sotto forma di immagini e affermazioni da parte di tutti. Del resto una legge che di per sé è già un abominio non poteva che generare una serie di altri mostri. A cominciare dalla sua promotrice, Monica Cirinnà, moglie del chiacchieratissimo ex senatore dal 2001 al 2008 Esterino Montino, indagato per le spese pazze del Pd in Regione Lazio nello scandalo Fiorito. Quando si candidò a sindaco di Fiumicino e dovette rinunciare, con molta riottosità, al suo stipendio da senatore, nel 2013 garantì una candidatura sicura a Palazzo Madama alla moglie animalista convinta del Pd. Un senatore in famiglia fa sempre comodo. Questa donna (nella foto mentre si sbellica dalle risate e ne ha un gran motivo), rimasta nell’ombra per tre anni, da sempre riconosciuta solo per essere la moglie di Esterino, è venuta alla ribalta per aver legato il suo nome al disegno di legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. “Un mostro giuridico, ben lungi dal soddisfare le aspettative di gay e lesbiche”, lo definisce l’esperta di diritto di famiglia Daniela Missaglia. Un’entità giuridica informe che svuota dall’interno quelle poche regole che reggevano il diritto di famiglia fino ad oggi. Una bandiera (arcobaleno) sventolabile da una sola parte minoritaria delle coppie di fatto: quella omosessuale. Per gli etero resta pressappoco tutto come prima. L’unica schifezza che per fortuna è stata bloccata in extremis ovvero l’adozione nella forma della stepchild adoption da parte di una coppia gay, è una vittoria di Pirro perché a colpi di sentenze la giurisprudenza la introdurrà – come sta già facendo – anche senza un dettato normativo e al riguardo la stessa Cirinnà va già dicendo di avere pronto un ddl ad hoc, facendo rientrare dalla finestra ciò che non è entrato dalla porta principale. Poi se uno vuole ed economicamente può, fa come Vendola e si fa fare un figlio da una donna indonesiana in Canada, comprandoselo per 10mila dollari come un cesto di insalata al mercato. Il massimo disgusto che ha fatto rivoltare lo stomaco persino alla vendoliana Laura Boldrini. Qualcuno si chiede per caso questo Tobia Antonio come potrà mai crescere? Di sicuro non se lo chiede Denis Verdini (nella foto ride con Riccardo Mazzoni), al quale dei gay non importa assolutamente nulla, come ha avuto modo lui stesso di dire, ma ha a cuore solo l’unione civile con il suo figlio (politico) prediletto, Matteo Renzi: “Io e lui siamo uniti dalla fiorentinità. Siamo franchi, diretti, un po’ alla Monicelli”, ha detto da Vespa. Sì, sicuramente entrambi dei fuoriclasse della supercazzola. E poi c’è chi come Licia Ronzulli, in tutto questo caos primitivo, mette una toppa che è peggiore del buco. “Si vendono e si affittano gli oggetti. No all’utero in affitto. No alla compravendita dei bambini. No allo sfruttamento delle madri in affitto. No al traffico delle madri in affitto”, scrive l’ex eurodeputata sui social. Il tema è di quelli seri ed è impossibile da non sottoscrivere il convincimento della dirigente di Forza Italia. Sotto la frase però la Ronzulli, forse pensando di dare più forza al suo spot, pubblica una sua foto con reggiseno sportivo da pilates, con le spalline abbassate, i capelli scarruffati, un maglione grigio aperto, le mani sui fianchi, la pancia nuda e addominali ben in vista con su scritto a pennarello “Not for sale. Not for rent” (nella foto) invitando i suoi “seguaci” a fare lo stesso. Un messaggio giusto, ma secondo me comunicato male. Una battaglia contro la mercificazione del corpo, mercificando il proprio non inizia sotto i migliori auspici. La Ronzulli, con questa immagine, esprime certamente un concetto condivisibile, ma con una foto di cattivo gusto rischia di sortire l’effetto opposto. Guai poi ad esprimere un parere contrario su Facebook. Ci ho provato ma la Ronzulli, prima ha risposto stizzita che non ha tempo da perdere con certe conversazioni, e poi ha cancellato i tre commenti che hanno osato criticarla. Si salvano, quindi, solo “Brava Licia!”, oppure “Sei bellissima!” ai quali lei risponde con un cuoricino o un bacino. A questo punto mi associo anch’io, visto che oggi è la giornata mondiale dei complimenti. Così non rischio di essere censurato di nuovo. Di cosa sono capaci queste unioni INcivili.

Ed ancora sulla pretesa che ai comunisti tutto gli sia dovuto...

Gli Usa: l'ex Pci voleva rovinare Berlusconi e tutte le sue aziende. Nel maggio '94 l'ambasciatore avvisò la presidenza Clinton: "Il Pds è deciso a distruggere il nuovo premier". Pochi mesi dopo l'agguato dei pm di Milano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 29/02/2016, su "Il Giornale". La sinistra vuole distruggere Silvio Berlusconi. I postcomunisti non accettano la discesa in campo del Cavaliere e hanno deciso di toglierlo di mezzo. Come un abusivo. Le carte della diplomazia Usa, pubblicate oggi per la prima volta dal Giornale, sono un documento straordinario, un'anticipazione di quel che sarebbe puntualmente successo di lì a pochi mesi: l'uscita di scena del premier, azzoppato dall'avviso di garanzia del Pool Mani pulite. L'ambasciatore Usa Reginald «Reg» Bartholomew aveva capito tutto e aveva avvisato Washington e l'amministrazione Clinton. I documenti trovati a Washington al Dipartimento di Stato da Andrea Spiri, professore della Luiss, confermano la previsione dell'accerchiamento e poi dell'attacco letale. È il 4 maggio 1994 quando Bartholomew invia a Washington un documento profetico, chiamato «Profilo del primo ministro incaricato Silvio Berlusconi». Il 4 maggio il governo deve ancora insediarsi, il Cavaliere entrerà a Palazzo Chigi solo il 10 maggio, ma il film è già scritto: il countdown è partito, il Pds non tollera l'idea che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sia stata battuta quando pensava di avere campo libero sulle macerie della Prima Repubblica. A dicembre, ben prima delle elezioni, Bartholomew aveva già incontrato Berlusconi e il Cavaliere gli aveva spiegato che «il suo primo obiettivo, quando ha deciso di entrare in politica, era sconfiggere la sinistra». Il problema è che la sinistra, che verrà presa in contropiede dal clamoroso successo di Forza Italia, ha deciso di far fuori la nascente anomalia in grado di scompaginare i piani di D'Alema e Occhetto. Berlusconi l'ha raccontato subito all'ambasciatore che però ha messo insieme altri indizi e non si fa nessuna illusione su quello che avverrà: «Berlusconi ha riferito, e i contatti giornalistici giurano sia vero, che gli uomini del Pds (e D'Alema in particolare) hanno apertamente fatto sapere che se venissero eletti distruggerebbero economicamente Berlusconi. È stato riferito che D'Alema avrebbe detto (e non l'ha mai smentito) che il suo grande desiderio era quello di vedere Berlusconi elemosinare nel parco. È stato anche riferito che altri esponenti Pds avrebbero detto che lo stesso Berlusconi farebbe bene a lasciare l'Italia in caso di loro vittoria perché l'avrebbero distrutto». Storie note, fra voci e suggestioni, rimbalzate per molti anni nell'arena del bipolarismo italiano. Ma certo, in quel fatale maggio di 22 anni fa, Bartholomew, scomparso nel 2012 a 76 anni, mette in fila gli elementi e prefigura il copione che puntualmente si svolgerà nelle settimane successive: il 10 maggio, solo sei giorni dopo, il Cavaliere giura ma la macchina bellica, per niente gioiosa, è già in moto. I postcomunisti troveranno una sponda decisiva nell'azione della magistratura che il 21 novembre uccide di fatto il governo inviando al premier un invito a comparire per corruzione, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera. Per di più nelle stesse ore in cui Berlusconi è impegnato in una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli. L'effetto è devastante e si somma alle manovre di Palazzo del presidente Oscar Luigi Scalfaro, lo stesso di cui altri report americani, pubblicati ieri in esclusiva dal Giornale, documentano l'ostilità totale verso il Cavaliere. Un intruso da sloggiare prima possibile, come ha svelato agli americani una fonte autorevolissima: l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. «Cossiga - scriverà Bartholomew il 20 dicembre, quando ormai Berlusconi è sull'orlo delle dimissioni - ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Ma il 4 maggio 1994 la breve avventura del Cavaliere deve ancora cominciare. Eppure, con alcuni distinguo e con la necessaria prudenza, l'amministrazione democratica sembra accogliere senza diffidenza l'uomo cresciuto lontano dal Palazzo: «Berlusconi è un uomo che si assume dei rischi... che si è mosso in maniera rapida per colmare il vuoto politico provocato da Tangentopoli». Del resto con straordinaria preveggenza in un altro report, datato addirittura 15 ottobre '92, l'ambasciatore Peter Secchia, a Roma prima di Bartholomew, già aveva battezzato il Cavaliere «come nuovo leader politico», con la benedizione del declinante Craxi. E aveva evidenziato la sua partecipazione a una cena organizzata dal segretario del Pli Renato Altissimo per creare un soggetto politico in grado di raccogliere l'eredità del pentapartito. «Il governo Berlusconi sembra cadere - scrive a dicembre Bartholomew - E poi? Se cade - nota con un affilato giudizio controcorrente - questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro».

Da Scalfaro a Napolitano: le trame anti Cav del Colle nei rapporti segreti Usa. Ecco le carte choc della diplomazia americana che dimostrano il pressing del Quirinale dietro le cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e nel 2011, scrive Stefano Zurlo, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Strategie e complotti. Washington e Silvio Berlusconi. Amministrazioni diverse, repubblicana e poi soprattutto democratica, ma grande attenzione ai volteggi del Cavaliere, alle convulsioni della politica italiana dominata da Berlusconi alle cospirazioni di Palazzo. Un monitoraggio fittissimo e a tratti invasivo lungo un ventennio. Alcune carte inedite, oggi pubblicate per la prima volta dal Giornale, documentano rapporti consolidati e preferenziali con alcune personalità, dubbi e oscillazioni dei presidenti a stelle e strisce e dei loro staff. Una mole di carte che Andrea Spiri, professore a contratto alla Luiss, ha scovato al Dipartimento di Stato di Washington, dopo la progressiva desecretazione dei file fra l'ottobre 2012 e il dicembre 2015. Gli americani mostrano di avere antenne molto sensibili nel nostro Paese e individuano subito, addirittura nell'ottobre '92, in piena tempesta Mani pulite, Silvio Berlusconi come possibile leader di un nuovo partito. Siamo molto prima della discesa in campo, a Washington sono gli ultimi mesi della presidenza di Bush padre, ma i riflettori si accendono subito su un futuro che ancora nessuno conosce. L'ambasciatore Peter Secchia invia un documento classificato come confidential: Le incertezze italiane. La soluzione è un nuovo partito politico? L'ambasciatore ha fatto indagini che riassume con concisione e pragmatismo: «Il segretario del Pli Altissimo ha organizzato una cena di lavoro segreta il 12 ottobre per proporre la formazione di un nuovo partito... La cena si è tenuta il 13 ottobre presso il Grand Hotel. Da quanto viene riferito il gruppo, di cui faceva parte il magnate dei media Berlusconi, così come Francesco Cossiga, ha deciso di chiedere allo stesso Cossiga di formare un nuovo partito... La partecipazione di Berlusconi è di speciale significato, per via della vicinanza di Craxi. La sua apparizione come un nuovo leader politico potrebbe avere la benedizione dello stesso Craxi. Comunque è anche la riprova che la potenza di Craxi, duramente colpito dagli scandali, continua a declinare». In ogni caso, «gli italiani - spiega - sono confusi e cercano il cambiamento». Una discontinuità che porterà a Palazzo Chigi nel '94 proprio Berlusconi. Due anni più tardi, a fine '94, il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew scrive a Washington e descrive con una certa preoccupazione l'agonia del primo esecutivo Berlusconi, minato dall'avviso di garanzia e dalla manovre del presidente Oscar Luigi Scalfaro. «Il governo Berlusconi - nota l'ambasciatore - sembra cadere. E poi? Se cade, questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro verso la politica screditata che ha visto succedersi dalla fine della Seconda guerra mondiale 52 governi. Potrebbe inoltre consolidare la percezione che la politica operi essenzialmente in maniera indipendente e lontana dalla gente». Bartholomew, insomma, ha più di un dubbio sull'operazione in corso a Roma per sloggiare il Cavaliere. Ma non c'è niente da fare. Il 20 dicembre, due giorni prima delle dimissioni, Bartholomew invia una nota a Washington in cui spiega senza tanti giri di parole che il presidente Scalfaro l'ha giurata a Berlusconi e vuole cacciarlo da Palazzo Chigi. A svelargli gli intrighi è stato un testimone eccellente come Francesco Cossiga. «Cossiga - scrive l'ambasciatore rivolgendosi alo staff di Bill Clinton - ha sottolineato che uno dei fattori che stanno incidendo sulla crisi è la rottura irrecuperabile fra Scalfaro e Berlusconi. Cossiga ha riferito che Scalfaro si sentiva profondamente offeso dalle recenti batoste pubbliche ricevute dai berlusconiani, in particolare dal portavoce del governo Ferrara. Cossiga ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Il destino è segnato. Di crisi in crisi si arriva fino all'attualità. E all'ultimo giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. A novembre 2011, con lo spread impazzito e la coppia Merkel-Sarkozy che lo guarda con sorrisetti di scherno, Berlusconi getta la spugna. Il 12 novembre il sottosegretario alla crescita economica Robert Hormats invia una mail a Jacob Sullivan, capo dello staff del segretario di Stato Hillary Clinton. Hormats riprende il report spedito il 9 novembre dall'ambasciatore David Thorne: «Continuano i battibecchi politici, ma la direzione generale è fissata». Segue un misterioso omissis. Quindi Thorne riprende: «Sono anche intervenuti la Merkel e Sarkozy. Lo spread è sotto il picco, ma ancora molto alto. L'Italia sa quello che deve fare. David». «Spero - riprende un per niente galvanizzato Hormats - che Thorne abbia ragione, che l'Italia sappia quello che deve fare. Dovremmo vedere se Monti può farcela con gli insofferenti e se può portare dalla sua parte l'opinione pubblica. Egli è molto brillante, ma le sue capacità politiche e motivazionali andranno verificate». E infatti Monti si rivelerà un disastro.Intanto, Giorgio Napolitano, presunto regista del complotto anti Cav del 2011, annuncia che non risponderà alle domande su quel che successe in quelle settimane. Quel che è accaduto nel 2011 - confida all'Huffington Post - possono ricavarsi da molteplici miei interventi pubblici. Non ritengo ritornarci attraverso mie memorie che al pari dei miei predecessori non scriverò».

Quando De Benedetti voleva creare Forza Italia. Nel '91 l'Ingegnere preparava un partito, ma il Cavaliere gli guastò i piani, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 16/12/2015, su "Il Giornale". La «rivoluzione senza sangue». Fuor di metafora, un nuovo partito pronto a prendere il potere. Nella primavera del '91, dopo il crollo del Muro ma prima dell'incipit di Mani pulite, Carlo De Benedetti e Cesare Romiti, con la probabile benedizione dell'avvocato Agnelli, tramavano per rifondare lo scricchiolante edificio della politica italiana. E per consegnare alle teste d'uovo della vecchia sinistra azionista le chiavi di Palazzo Chigi. Dove si sarebbe insediato Carlo Azeglio Ciampi con la benedizione di schegge importanti del vecchio Pci e della sinistra democristiana. Non era una fiction ma un progetto avanzato che De Benedetti spiegò senza tanti giri di parole a Paolo Cirino Pomicino in quei mesi preinsurrezionali. E che l'ex ministro democristiano lascia balenare in un passaggio del suo ultimo libro, La repubblica delle giovani marmotte (Utet): «Gli ideologi del nuovo pensiero politico, De Benedetti e Romiti in prima linea, furono cosi umiliati nell'anno del Signore 1994, dalla vittoria di un dilettante - più-dilettante di quelli che avevano promosso la rivoluzione senza sangue, della quale De Benedetti mi aveva anticipato il disegno nella primavera del '91».Sì, è il paradosso che l'Italia visse in quegli anni: De Benedetti & soci avevano inventato una sorta di Forza Italia, naturalmente modellata sulle esigenze della sinistra giacobina e giustizialista, ma la creatura ancora in fasce fu uccisa dall'irruzione di Berlusconi e della sua Forza Italia che nel '94 sconfisse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Dietro Occhetto c'erano De Benedetti e la borghesia dei salotti buoni, con forti agganci nella sinistra Dc e nel nascente Pds. Commenta oggi Cirino Pomicino: «Nella primavera del '91 mi incontrai con De Benedetti che mi disse: Stiamo creando un nuovo partito, vuoi fare il mio ministro? Io la presi sul ridere: Mi hai preceduto, sto lavorando a un nuovo soggetto imprenditoriale, vuoi fare il mio imprenditore? Pensavo sarebbe finita lì e invece venti-trenta giorni dopo ottenni altre informazioni e mi resi conto che il disegno era assai dettagliato». L'idea era quella di dare la leadership del Paese ai tecnici, espressione di quella borghesia. E di utilizzare il vecchio corpo del Partito comunista per dare spessore al progetto e garantirgli i numeri o se si preferisce, le truppe di sfondamento. Insomma, si puntava a mettere insieme democristiani e postcomunisti, impresa oggi realizzata nel Pd, ma la stanza dei bottoni sarebbe stata affidata ai tecnici, ai tecnocrati, agli eredi dell'azionismo. «Ma - prosegue Cirino Pomicino - molti fra gli autorevoli imprenditori responsabili dell'originario disegno per far saltare in aria il sistema dei partiti furono azzannati dalla bestia che avevano aizzato». Mani pulite entrò anche in quei salotti vellutati, lo stesso De Benedetti fu arrestato anche se per poche ore dai magistrati di Roma, il vuoto fu infine riempito con sorprendente tempismo dal più dilettante dei dilettanti, quel Silvio Berlusconi che alla fine sbaragliò la sinistra e bloccò il partito delle élite. La guerra fra l'Ingegnere e il Cavaliere sarebbe invece andata avanti fino ai nostri giorni. 

La lobby degli opinionisti: una falange armata del Pd. La conferma in uno studio: la maggioranza degli esperti di politica è riconducibile al partito. Il centrodestra scompare dai talk show. Uno sbilanciamento tutto italiano, scrive Paolo Bracalini, Mercoledì 24/02/2016, su "Il Giornale". È il segreto di Pulcinella, ma all'evidenza empirica stavolta si aggiunge una prova scientifica. La stragrande maggioranza degli esperti di politica italiani, tra autorevoli editorialisti con cattedra universitaria e giornalisti opinion maker, è dichiaratamente di sinistra. Di più, si riconosce proprio nel Partito democratico, altro che intellettuali indipendenti. La ricerca l'ha fatta Luigi Curini, professore associato di Scienza Politica all'Università degli Studi di Milano (la presenterà domattina al policy breakfast dell'Istituto Bruno Leoni di Milano, titolo: It's the ideology, stupid! Le preferenze ideologiche degli esperti di politica in Italia). Il metodo si basa sugli «expert surveys» usati a livello mondiale per ricavare la posizione ideologica politica degli esperti, chiedendo direttamente a loro. Il campione, assolutamente segreto nei nominativi, riguarda un centinaio tra docenti di scienze politiche italiani (molti dei quali poi firmano articoli su giornali o sono ospiti di talk show politici) e giornalisti. Il risultato ottenuto da Curini è schiacciante. La curva della distribuzione degli esperti sull'asse sinistra-destra, cioè da Sel a Forza Italia e Lega Nord, vede assiepati la quasi totalità dei nostri autorevoli opinionisti sulla verticale che conduce direttamente al simbolo del Pd, il loro partito di riferimento. Pochissimi, invece, si definiscono vicini all'area politica di centrodestra, da cui conviene stare molto alla larga se si vuol far carriera nelle università ed essere accolti nei giri giusti. Una delle evidenze più marcate, nota il professor Curini, è infatti «la perdurante scarsa popolarità che idee moderate, liberali o conservatrici (ovvero, e in termini se vogliamo più generali, di centrodestra) sembrano esercitare su chi insegna politica nelle aule dell'università o su chi ne scrive e ne discute sui giornali e media. A parte il 2008, e peraltro anche allora solo marginalmente, in tutti gli altri casi le preferenze degli esperti trovano sempre un unico picco collocato a sinistra della scala ideologica». Se in generale negli altri paesi si osserva un diffusa preferenza per la sinistra tra gli esperti di politica (evidente anche negli Usa con una netta prevalenza dell'ala liberal tra i docenti universitari), l'Italia supera tutti per militanza ideologica degli opinionisti supposti super partes. Nessun Paese, passando dal Giappone e Canada fino a Germania, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna, può vantare un esercito di esperti di politica così spostati a sinistra. Ma la nuova ricerca, ancora in corso e coperta dal segreto scientifico, del professor Curini su un campione diverso, quello dei giornalisti italiani, promette risultati ancora più clamorosi. Naturalmente sempre con lo stesso segno politico: tutti ammassati nell'area del Pd, il partito renziano che si è sempre dimostrato molto riconoscente con gli amici (vedi l'occupazione della Rai). È interessante esaminare, poi, lo spostamento (si fa per dire) degli intellettuali e politologi italiani nel decennio che ha visto la trasformazione dei vecchi Ds nel nuovo Pd. Mentre infatti il loro partito di riferimento si muove leggermente da sinistra verso il centro-sinistra, casualmente anche loro - nelle rilevazioni compiute nel 2006, 2008 e 2013 - passano dal sentirsi di sinistra al centrosinistra. Per puro caso, quindi, si ritrovano a sostenere un partito - prima Ds, poi Pd - che rispecchia esattamente la loro nuova posizione politica. Che coincidenza miracolosa.

La supremazia rossa dalla politica fino al cimitero. Ogni morto ha la sua storia e merita il nostro massimo rispetto. Ma per i nostri media c’è qualche morto che vale di più, scrive Nicola Porro l’8 febbraio 2016 su “Il Giornale”. C’è poco da fare, passano gli anni, nel Pd arriva un cattolico come Matteo Renzi, eppure la supremazia culturale, intellettuale della sinistra non morirà mai. Rita Fossaceca era un medico molisano che lavorava in un ospedale a Novara. Ogni anno dedicava le sue vacanze a un orfanotrofio in Africa. Alla fine dell’anno scorso è stata barbaramente uccisa, con un machete, a due passi da Malindi. Rita era profondamente cattolica, era il segno della sua attività. Nessuno, o pochissimi, l’hanno ricordata. Un cattolico che muore tragicamente in Africa, interessa poco. Valeria Solesin è morta invece a un concerto, quello del Bataclan. Per lei funerali e media da prima pagina. Per Giulio Regeni, barbaramente torturato al Cairo, inchieste, prime pagine ovviamente, e cordoglio delle massime autorità dello Stato. Ogni morto ha la sua storia e merita il nostro massimo rispetto. Ma per i nostri media c’è qualche morto che vale di più. È orribile pensare che, in un’ipotetica e cinica scala dei valori, un «morto impegnato» valga più di un morto cattolico. Ma così è. E tutti appresso. La supremazia culturale della sinistra si manifesta clamorosamente nelle primarie di Milano. Vedete, si può parlare per ore dell’incredibile partecipazione cinese. Ma il punto è un altro. Tutta la Milano che conta è transitata in queste ore nelle sedi del Pd. Professionisti altrimenti riservati, signore della prima cerchia, banchieri, giornalisti, opinionisti, cantanti in fila per Sala o la Balzani. Gli stessi che si vergognerebbero di essere associati a qualunque altro ambiente politico, si fanno fotografare mentre certificano il fatto di essere non solo di sinistra, ma di aderire al programma del Pd. E, per di più, con un’alzata di spalle liquidano chi ricorda loro la brutta scena di una fila così taroccata. Lo possono fare, anche se in fila stanno con i cinesi: perché quello di sinistra è un marchio che funziona, che non ti sporca, non ti impegna. E ti fornisce quel formidabile passepartout che, se qualcuno la fa grossa, è pur sempre «un compagno che sbaglia». Signori, la sinistra funziona sempre. Prendete Brindisi. Arrestano un sindaco del Pd e tutti si affrettano a dire che si era autosospeso. Embè? Dove sono finiti gli indignati per il presunto scandalo di Quarto, dove il sindaco grillino semmai è stata vittima di un ricatto? Essere di sinistra, purtroppo, oggi in Italia aiuta ancora. È meglio che la «destra torni nelle fogne», come ha recentemente detto Ignazio Marino.

L’ostentazione ideologica in luoghi e tempi inopportuni. I comunisti di sinistra (con albori socialisti), spesso, ed i comunisti di destra (con albori di socialismo), molto meno, antepongono la loro religione anticlericale, ad ogni logica, ragione e norma di buon senso. I poveri liberali, presi dal proprio individualismo, scemano di fronte a tanto strabordante potere. I comunisti ostentano non il loro essere, ma la loro appartenenza ad una religione. Non hanno timore di mostrare il comunismo che è in loro, ignari o strafottendosene del fatto che fanno parte di un gruppo retrogrado e non a passo con il terzo millennio.

Contro l’estinzione dell’italianità. Un fiocco o nastro nero per gli emarginati, diseredati, gli ingiustamente condannati o detenuti, i tartassati e le vittime dei reati impuniti e comunque vittime di ingiustizie. Italiani dimenticati dal politicamente corretto e dalla politica oligarchica che li valuta meno di gay ed immigrati. Basta con il comunismo di destra (fascismo) ed il comunismo di sinistra (stalinismo) e con l’ostentazione fuori luogo della loro religione.

Sanremo 9-13 febbraio 2016, quanti cantanti espongono l'arcobaleno. Sul palco dell'Ariston tanti big e ospiti hanno voluto mostrare il proprio sostegno per i diritti delle coppie omosessuali. Con un nastro arcobaleno al braccio (o sul microfono o sulla chitarra), ecco tutti gli artisti che hanno esposto il simbolo nelle dirette di Rai Uno: Elton John, Pooh, Hozier, Valerio Scanu, Dolcenera, Rocco Hunt, Clementino, Francesca Michelin, Arisa, Michael Leonardi, Mahmood, Patty Pravo, Noemi, Enrico Ruggeri, Irene Fornaciari, Eros Ramazzotti, Laura Pausini, i Bluvertigo. Francesco Gabbani, Benji & Fede, Deborah Iurato e Giovanni Caccamo.

Dai partigiani sono nati i fascisti rossi. L'aggressione ad Angelo Panebianco ricorda che non c'è stata e ancora non c'è una chiara demarcazione fra i metodi di una certa sinistra e quelli che erano stati del fascismo, scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/02/2016, su “Il Giornale”. L'aggressione da parte di facinorosi di estrema sinistra ad Angelo Panebianco, (il 23 febbraio 2016) impedito dai loro schiamazzi di tenere lezione, ricorda che non c'è stata e ancora non c'è una chiara demarcazione fra i metodi di una certa sinistra e quelli che erano stati del fascismo. Sono venuti al pettine i nodi non risolti nel 1945, quando gli italiani si illusero, e contrabbandarono l'illusione, che, avendo sostituito la camicia nera che aveva indossato fino a quel momento con quella rossa, la democrazia fosse automaticamente tornata in Italia. In realtà, la Resistenza aveva semplicemente sconfitto il fascismo, ma non aveva ancora instaurato la democrazia nel nome della quale la stessa Resistenza pure era stata combattuta, almeno da una sua parte, quella cattolica, liberale, repubblicana, socialista. Per creare le condizioni di un'autentica forma mentale democratica sarebbe stato necessario riflettere su ciò che era stato il fascismo, perché fosse durato tanto a lungo e quali fossero stati i fondamenti culturali di chi aveva combattuto nella Resistenza da una certa parte, quella comunista, pur meritoria. La mancata riflessione ha finito col rivelare una correlazione fra i metodi squadristi del fascismo e l'intolleranza della sinistra di matrice comunista, allergica alla libertà d'opinione altrui e convinta che in Europa Orientale l'occupazione militare sovietica avesse instaurato democrazie superiori e non semplici dittature. Il fatto che l'Urss avesse contribuito internazionalmente alla caduta del fascismo non ha fatto del suo sistema politico una forma di democrazia superiore a quella borghese. È, perciò, del tutto inutile prendersela ora con i quattro facinorosi che hanno aggredito il professore liberale, e condannarli moralmente e politicamente se non si riflette sull'esito della Resistenza e su ciò che ha significato la caduta del fascismo ad opera di una opposizione che propugnava la nascita anche in Italia di una democrazia popolare che del fascismo aveva la stessa natura totalitaria. La Resistenza non ha cancellato le responsabilità culturali e politiche di chi era stato fascista e, dopo la caduta del fascismo, si era rapidamente trasformato in un (falso) difensore delle libertà conquistate. È questo il pesante lascito culturale e politico della Resistenza sulla nostra giovane e imperfetta democrazia. La verità è che nel 1948 l'Italia è stata salvata dal voto delle donne, che hanno scelto in massa la Democrazia cristiana e i partiti ad essa alleati, allontanando lo spettro di una trasformazione del Paese in una democrazia (si fa per dire) di tipo sovietico per cui si era battuta la Resistenza comunista.

Quando l’amore diventa un nastrino, scrive l'11/02/2016 Nino Spirlì su "Il Giornale". Pensavo di aver visto, sentito e imparato tutto riguardo all’amore. Da quello materno a quello passionale di una puttana lautrecchiana, innamorata del sogno di riscatto. Dall’amore fraterno, al caldo delle pareti di casa, a quello corposo fra commilitoni in battaglia. Fino a quello scomposto dentro ai cessi delle stazioni o nelle umide saune per bugiardi solitari e soli. Ma l’amore a mezzo nastrino, esposto fra le canzoni del festival della canzone piddina, no. Quello non lo conoscevo ancora. E, con me, qualche milione di italiani. Tutto ci saremmo potuti aspettare, compresa la gag ironica di qualche comico strapagato coi dollaroni del canone, ma il gran pavese di bandierine eque e solidali attorcigliate ai microfoni, ai polsi, alle dita dei cantanti, ci ha colti alla sprovvista. Come dire, al ridicolo non c’è mai fine. Io, infatti, sarei sprofondato per la vergogna, solamente a pensare di diventare pennone umano di banali bandiere da gaypride. E su! Prima la rasentavamo, ora ne siamo impastati di scempiaggine e ipocrisia. Così vogliamo risolvere la nostra partecipazione ai “temi sociali”? Con un fiocchetto arcobaleno? O con una parolina buttata lì, fra il liso e il frusto, in una microintervista? Pessimo servizio alla causa. Pessimissimo, oserei azzardare. Sa tanto di “Mi piace” di feisbucchina abitudine. Un clic e via. Si partecipano così, ormai, auguri e condoglianze, dolori e gioie infinite. A Sanremo, lo stesso. Una treccia sciolta di nastrini da fioraia di sette colori, e il frocio è servito. Che pena! Sia gli artisti che i commentatori. Ma, soprattutto, che tristezza i ricchioncelli felici sui social. Che sono pronti a crocifiggere il prete come loro, ma battono le mani e zompettano sulle sedie quando scorgono un accenno di solidarietà alla causa gaya da parte del loro idolo canterino. Se, poi, alla pugna (che spesso non è così grande) partecipa anche l’attorello zigomato di fresco, Evviva! La guerra è vinta! Maddechè, commenterebbe il mio amichetto romano. Bastasse questa ennesima trovata da bancarellari per convincere zia Maria che la nipote lesbica non è “difettosa”! Il problema è che zia Maria morirà convinta che, quella volta che sua sorella scivolò, incinta, per le scale, sicuramente “dentro” qualcosa accadde, e nacque per quel qualcosa la nipotina a cui non piacciono i maschi. Difettosa, appunto. Per cambiarla, questa mentalità disinformata, dovremmo, noi “difettosi” evitare provocazioni e processioni col culo di fuori. Dovremmo viverla, noi per primi, serenamente, la nostra omosessualità. Svegliarci, noi per primi, sinceri, sereni. Fare colazione sereni, andare a lavorare sereni, al cinema, a teatro, al mercato, a scuola, in caserma, in ospedale… Sempre sereni. Parlare con i nostri genitori, i nostri fratelli, gli amici. Perché non siamo né migliori, né peggiori degli altri. Siamo come. Quando lo avremo capito noi, noi per primi, sarà tempo di famiglia. Ora, no. Troppi carri e poca umiltà. Troppo fard. Troppe paillettes. Troppe bugie. Troppo astio. Quasi odio. E silenzi assordanti fra le mura di casa. Mentre fuori è tutto un nastrino. Cretino.

Quanta ipocrisia su una riforma che non serve. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e che non si sognerebbero mai di regolare in tal modo il loro rapporto, o addirittura di sposarsi, avendolo già regolato, grazie alla legislazione vigente, e/o con intese bilaterali, scrive Piero Ostellino, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Mentre nel nostro Stato post-fascista e presovietico - ci sono decine di diritti umani disattesi dalla legislazione pubblica, il Parlamento, invece di porvi rimedio, perde tempo a trovare una forma giuridica che disciplini le unioni civili fra individui dello stesso sesso (che è, poi, la formula ipocrita con la quale la politica, quando non sa come cavarsela, utilizza un sinonimo per non usare il termine autentico nella circostanza matrimonio sarebbe troppo impegnativo). A che servano, poi, le unioni civili se non a produrre consenso a chi le ha proposte è difficile dire. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e che non si sognerebbero mai di regolare in tal modo il loro rapporto, o addirittura di sposarsi, avendolo già regolato, grazie alla legislazione vigente, e/o con intese bilaterali. Che si sentisse la necessità di creare l'istituto giuridico delle unioni civili sarebbe difficile sostenerlo anche da parte di chi è omosessuale, e ciò non tanto per ragioni morali, che restano indiscutibili, e neppure per ragioni giuridiche, bensì, diciamo così, per ragioni di costume. Conosco coppie di omosessuali che non ne hanno mai avvertito l'esigenza e che, tanto meno pensano di sposarsi... convinte, come sono, che il matrimonio sia storicamente l'unione fra un maschio e una femmina...E, allora, che dire? Personalmente, penso che ognuno abbia il diritto di fare ciò che più gli piace, tenuto anche conto che una legislazione, in proposito, esiste già e nessuno se ne lamenta. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e felicemente sotto la legislazione vigente e che non si sognerebbero mai di sposarsi facendo ridicolmente il verso al matrimonio fra individui di sesso diverso. Non ne faccio una questione morale o sociale, ci mancherebbe! anche se la famiglia è sociologicamente il primo nucleo attorno al quale, notoriamente, si è costituita la società civile... Ne faccio solo una questione di senso comune nella convinzione che, dopo tutto, ciascuno ha il diritto di fare ciò che più gli piace, senza che altri ci metta il naso.... La politica, che specula sui sentimenti del prossimo per guadagnare consensi, mi fa francamente schifo... E questo delle unioni civili a me pare ne sia è il caso... Si è usato il sinonimo di unione civile per non usare quello, più impegnativo, di matrimonio, anche se ci sono non pochi omosessuali che si sposerebbero e, quel che è esteticamente peggio, con lo stesso rito e le stesse procedure, di quello fra individui di sesso differente...Una cosa è certa: continuerò ad avere gli stessi rapporti di amicizia e di affetto nei confronti dei miei amici omosessuali, accoppiati o no che siano, anche se non aderiranno all'unione civile e non la celebreranno... cosa di cui, del resto, per parte loro, non mostrano affatto di avvertirne l'urgenza... Faccio pertanto, i miei sinceri auguri a quelli che vi aderiranno e celebreranno un'unione civile, anche se, in tal caso, sarebbe pleonastico aggiungervi il rituale «e figli maschi»... Non ne avranno per la contraddizione che non o consente - e neppure, credo, ne adotteranno (altro problema di cui si discute in questi giorni). Continuerò a frequentarli come prima...

E' mistero sul tweet pubblicato da Francesco Facchinetti sul suo profilo. Durante la prima serata del festival di Sanremo (9 febbraio 2016), il figlio del tastierista dei Pooh ha commentato la scelta di alcuni cantanti di presentarsi con un nastro colorato in mano a fovore delle Unioni civili, scrivendo: "Unica cosa che mi irrita è questo ostentare il sostenere i diritti delle coppie GAY. Non ho nulla contro la cosa ma sembra veramente forzato". E sul social network è subito scoppiata la polemica. Anche Alessandro Gassmann ha replicato: "Non si tratta di ostentare, ma di riconoscere, con i doveri, anche i diritti di TUTTI. Irritato?". Il tweet dell'ex presentatore di X Factor è stato poi cancellato e lo stesso Facchinetti ha dato la colpa a non si sa chi: non è stato lui né le persone che lavorano per lui. E sempre attraverso un tweet ha fatto sapere che ha intenzione di indagare. Ma questo non ha fatto altro che alimentare ancora di più la polemica.

Il Festival di Sanremo 2016 è alla sua seconda serata e continuano gli artisti che si stanno esibendo sul palco del Teatro Ariston mostrando i nastrini arcobaleno a favore delle unioni civili. Nella prima serata del Festival cantanti come Arisa, Noemi, Enrico Ruggeri e Irene Fornaciari, sono saliti sul palco con un nastrino color arcobaleno, a sostegno delle unioni civili. Noemi ha deciso di schierarsi a favore dei diritti dei gay abbellendo l’asta del suo microfono con tantissimi lunghi nastrini colorati. A dar loro manforte è intervenuta Laura Pausini, invitata come super ospite. Nella seconda serata, invece, i primi big in gara a presentarsi con gli ormai famosi nastrini sono stati Dolcenera, Patty Pravo, Valerio Scanu e Francesca Michielin. Anche il super ospite della seconda serata Eros Ramazzotti, ha cantato i suoi maggiori successi con il nastrino arcobaleno.

L’Italietta dei nastri arcobaleno si ritrova sul palco dell’Ariston. Davanti alla tv nell’inutile attesa di frasi shock di Elton John La kermesse canora diventa sponsor del decreto Cirinnà, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo” l’11 febbraio 2016. Guardando Sanremo, vien da chiedersi se sarebbe definibile musica The roastbeef of Old England, vecchia canzone popolare inglese che esalta il vitello arrosto, perchè rende i soldati «valorosi» e «nobilita i cuori». In quelle strofe del ‘700 si ammonisce a non cedere alle raffinatezze culinarie » delle effemminate Italia, Francia e Spagna». No, questa non è musica, chiaro. C’è «effemminate» nel testo, e mai potrebbe trovar albergo nel circone politicamente corretto, questi giorni costretto a camminare sul ciglio della par condicio ideologica in casa di Mamma Rai. Al massimo, mette giù un piedino, per bagnarsi nel gayo oceano, ossequiando il dogma dell’essere al passo coi tempi. E allora ecco i nastrini arcobaleno, portati sul palco per testimoniare l’assenso dell’areopago vip al Ddl Cirinnà. Ecco una giornata consumarsi nell’attesa di di Elton John all’Ariston manco fosse il lancio dello Sputnik. Ci sarà o no il marito? Dirà «datemi un utero in affitto e solleverò il mondo?» Tutta l’Italia videodipendente diventa una immenso salone di parrucchiera, dove si «prevede», si sparla, si duella a colpi di luoghi comuni. Poi, Elton John arriva, dice una cosa scontata, cioè che mai avrebbe pensato di diventare padre, del suo compagno di vita neanche l’ombra. Coitus interruptus. Come le frasette buttata là dalla Pausini sulla necessità di rispettare i diversi (perché c’è qualcuno di mentalmente sano, forse, che vorrebbe sterminarli?), o come qualche battutina dell’ottima Virginia Raffaele, conduttore morale del Festival. E lo spottino sulla famiglia «fondamentale, qualsiasi essa sia», lanciato da Ramazzotti. Anche lui, ieri, con il nastro arcobaleno («questa cosa è importante», ha detto). Feticcio di un impegno fatto coi gadget e non con gli argomenti, una strizzatina d’occhio senza esagerare. Ma se davvero una questione è importante, allora bisogna viverla fino in fondo. Essere di rottura, prendersi responsabilità. Come gli ubriaconi inglesi che cantavano del vitello arrosto. Però, se questo è il campo da gioco, sfidiamo ad alzare la posta. E invitiamo qualche cantante a presentarsi con un nastro nero. Perché? Per il lutto della delle nostre libertà ed essenza. Per i ragazzi che abbiamo perduto all’estero, tipo Valeria Solesin e Giulio Regeni. Oppure per Paolo e Barbara, 40 anni lui e 46 lei, che lunedì l’hanno fatta finita con il gas di scarico della macchina nel mantovano perché sfiancati dai problemi economici. Nero per le ragazze di Colonia, prede carnali nella mattanza islamica di Capodanno. Banale, scontato? Forse, ma almeno guardiamo alle ferite profonde. Perciò, ora vediamo se qualcuno ha il coraggio di portar su questo nastro nero. Se ciò dovesse accadere, poi, tenetevi pure la vostra saga arcobaleno dagli istinti propagandistici mal inibiti, che tanto si è capito dove volete andare a parare. Anzi, l’anno prossimo fate presentare il Festival direttamente da Vladimir Luxuria, che ha già spiegato come si truccherebbe meglio di Gabriel Garko (di sicuro sarebbe intellettualmente molto più vivace). Andate avanti con questo trionfo di giacchette attillate, con questo tripudio di botox gommoso su volti maschili ben piallati. Non è roba per noi.

Un Sanremo arcobaleno tra coccarde e tweet politici. Il Festival della canzone italiana è diventato teatro di diverbi via Twitter tra i politici. Più che delle canzoni si è parlato di unioni civili tra nastrini arcobaleno che svolazzavano sul microfono della metà dei cantanti e difese e accuse al ddl Cirinnà, scrive Micol Treves il 10 Febbraio 2016 su “Il Foglio”. Dopo la pioggia: l’arcobaleno. Coloratissimo. Artistico. Nubifragio sulla città dei fiori per il primo giorno di kermesse, fino a sera. Quando si placa la tempesta, comincia la festa. E coccarde coloratissime sfilano sul proscenio, illuminate dai riflettori, appese ai microfoni di alcuni artisti (Noemi, Stadio, Fornaciari, Bluvertigo, Ruggeri). Cinque su dieci: i numeri danno manforte alla polemica che da ore aleggia su questa 66esima edizione del festival. Su Twitter parte il can can: l’hashtag? #Sanremoarcobaleno. Piomba solidarietà ai cantanti temerari. Conti non commenta. La politica, sì: “Dopo nastri arcobaleno esporre il Tricolore per le foibe”, cinguetta Gasparri”. E ancora il leader della Lega, Salvini, sull’ospitata di Elton John voluta da Rai Uno: “Strapagarlo per esaltare le adozioni gay è una vergogna. Ma è il festival della canzone o un comizio politico?”. Ecco. Pronta la risposta della senatrice Cirinnà: “Sanremo è lo specchio della società italiana, per questo la solidarietà degli artisti nei confronti di un provvedimento tanto atteso non mi sorprende. E' un qualcosa che probabilmente ci racconta che il Paese reale è più avanti della politica. Se la cosa può toccare il dibattito parlamentare? Può aiutare i colleghi più scettici a capire che là fuori c'è un mondo a colori, variegato. Che le convinzioni personali vanno sì difese ma senza perdere di vista il fatto che, come legislatori, siamo chiamati a dare risposte. A tutti. In special modo a chi vive ancora fuori dalla tutela delle leggi”. A buttare acqua sul fuoco, come sempre, come da manuale, è il direttore di rete, Giancarlo Leone: “Ognuno è libero di portarsi le coccarde che vuole. I cantanti non devono neanche informarci. L’iniziativa è loro”. Così, questa mattina in conferenza stampa. Libertà di coscienza. Ma l’iniziativa, da dove arriva? Da gay.it, ovviamente. E da Andrea Pinna, vincitore in pectore di Pechino Express. Le coccarde incriminate sono passate di mano in mano, fino al retro palco dove, si vocifera, il team di Noemi abbia contribuito a farle avere agli artisti. Un successone. “Esibirmi con la coccarda mi è sembrato un modo sorridente, un segnale affettuoso su un tema sul quale mi sembra che si dibatta abbastanza”, ha spiegato Enrico Ruggeri. “Sono contento di avere partecipato a questa iniziativa. Solo in 5 su 10 hanno aderito? Credo perché gli altri non l’hanno intercettata”. E ancora, a proposito di stepchild adoption: “Per adesso non ho un’opinione precisa a riguardo. Per il resto non si parla di diritti ma di logica, non c’è neanche da discutere”. E a chi sostiene che questo sia, ormai, un festival molto (forse troppo, a questo punto) Lgbt, risponde Carlo Conti: “Spero che resti il festival della canzone italiana, ma siamo nel 2016, uno dei temi è anche questo. Il nostro è un evento dove si raccontano tante sfaccettature della società. Noi lasciamo libertà”. Vedremo.

Parla Veneziani: "A Sanremo Povia processato e il monarca dei gay Elton John esaltato", scrive Adriano Scianca il 10 febbraio 2016. "Sanremo si adegua sempre al politicamente corretto. Povia fu processato pubblicamente. Quest'anno, poi, c'era Elton John, che è il monarca del regno dell'omosessualità...". Marcello Veneziani non ha visto la prima puntata del Festival di Sanremo, ma sulla kermesse e sui messaggi ideologici lanciati sembra essersi fatto lo stesso un'idea. E a IntelligoNews dice: "Non è più democrazia, ma dittatura del proprio tempo".

Veneziani, ha visto Sanremo? 

«No, assolutamente no». 

Avrà letto, tuttavia, che quest'anno, fra Elton John e i nastri arcobaleno, c'è stato un tema che ha dominato la prima serata del Festival... 

«In realtà Sanremo si adegua sempre al politicamente corretto, anche in passato c'erano stati dei casi simili. Del resto quando ci fu qualcuno, come Povia, che tentò di proporre una canzone che affrontava l'omosessualità da un altro punto di vista, fu processato pubblicamente. Quest'anno, poi, c'era Elton John, che è il monarca del regno dell'omosessualità, quindi...».

Non crede che sia un po' assurdo prendere il miliardario Elton John come esempio di tipica famiglia gay felice?

«Esattamente. Si prendono sempre casi estremi, o per drammaticità, o per situazioni opposte e non paragonabili con la quotidianità. Di fatto sono modelli non esportabili».

Intanto si va avanti con il ddl Cirinnà. Per il Parlamento è una priorità. La maggioranza degli italiani, tuttavia, la pensa diversamente. È la solita scissione tra Paese legale e Paese reale? 

«Cessato l'appello al popolo, resta l'appello alla modernità. O all'Europa. Si cerca sempre una nuova fonte di legittimità. Non è più democrazia, ma è dittatura del proprio tempo». 

Ha seguito il dibattito di qualche giorno fa fra pediatri e psichiatri sull'opportunità di affidare figli a coppie omosessuali?

«Era un dibattito sul filo tra scienza ed esperienza. Del resto l'impressione è che molti degli studi su questo argomento siano falsificati, escludendo i dati che vanno in una direzione non voluta. Mi sembra assurdo che nessuno sin qui si sia posto il problema di sapere se questa cosa possa portare dei danni ai bambini. Si dice che basta “essere felici”. Nessuno si chiede se sia felice il bambino, però». 

Cosa risponde a chi dice che a un bambino basta l'amore per essere felice? 

«È una motivazione psicolabile. Con l'amore si può giustificare tutto, del resto...».

Ha notato come sul tema delle unioni civili si usi sempre la metafora spaziale già tipica dei marxisti, quella della linea retta in cui c'è chi sta più “avanti” e chi più “indietro” rispetto al senso della storia? 

«Devo dire che questo è l'argomento più forte in favore delle unioni civili, questo determinismo storico per cui ogni opposizione contro lo spirito del tempo è inutile. L'idea di tradizione funziona esattamene al contrario, o quanto meno si basa sulla continuità e non implica che qualsiasi passo avanti sia un progresso, sia pure per finire nell'abisso. L'idea che esistano solo un “avanti” e un “indietro” va contro la multidirezionalità della storia. È l'unico lascito dell'ideologia progressista che è rimasto in piedi». 

Con la differenza che una volta al termine della linea retta c'era la società senza classi, oggi c'è la società senza sessi... 

«O anche la non-società, ovvero una costellazione di casi individuali che se ne vanno per conto proprio. Ed è paradossale che partendo da una seppur vaga ispirazione socialista si sia finiti alle idee della Tatcher secondo cui “la società non esiste”...».

Ma quello arcobaleno è un simbolo cristiano (cooptato poi dal mondo Lgbt), scrive “Papa Boys” il 10 febbraio 2016. Ieri è andata in onda la prima serata del Festival di Sanremo, ci si aspettava il solito spot Lgbt (come accaduto l’anno scorso) ed invece le proteste preventive hanno funzionato. Ovviamente l’egemonia omosex che domina, questo ed altri Paesi occidentali, non poteva rinunciare completamente ad un’occasione così ghiotta per imporsi con prepotenza, sono così apparsi i nastri arcobaleno legati al microfono dei cantanti. Una manifestazione, sicuramente puerile, ma comunque accettabile se pensiamo che il concreto rischio era la promozione plateale dell’utero in affitto da parte di Elton John noto per aver egoisticamente privato due bambini dell’amore materno. Eppure, pochi sanno che l’arcobaleno è da sempre un simbolo cristiano. Lo ha spiegato recentemente padre John Paul Wauck, professore dell’Università Santa Croce di Roma, commentando la scelta della Santa Sede di colorare con l’arcobaleno l’albero di Natale in piazza San Pietro: i colori dell’arcobaleno hanno «un significato biblico: è il segno dell’alleanza di Dio con l’umanità e con tutto il creato». Soltanto negli anni ’90 venne cooptato dal mondo Lgbt, ma è sempre stato importante nel mondo giudaico-cristiano con collegamenti soprattutto per la festa di Natale: «Come segno celeste dell’amore di Dio per l’umanità, l’arcobaleno è un precursore della stella di Betlemme, che annuncia la nascita di Gesù Cristo, il Messia, che è venuto a portare la pace sulla terra. Dal tempo di Noè, Dio aveva preparato un’alleanza di pace e ogni arcobaleno era un promemoria continuo di essa, che si sarebbe compiuta e realizzata in Gesù». E’ stato spiegato che il brano biblico più famoso in cui si fa riferimento all’arcobaleno è il capitolo 9 del libro della Genesi, a conclusione della narrazione del diluvio. A partire dal v. 8 si descrive la stipulazione di un’alleanza tra Dio, da una parte, e Noè, i suoi figli, i loro discendenti (quindi l’umanità intera nella prospettiva del racconto biblico) e tutti gli animali, dall’altra: «Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne (cioè ogni essere vivente, uomo o animale) dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra» (Gen 9,11). Nei successivi vv. 12-16 si insiste sul «segno» di quest’alleanza che è l’«arco sulle nubi», ovvero l’arcobaleno. E’ possibile, comunque, che la descrizione dell’arcobaleno come «segno dell’alleanza» riprenda tradizioni o racconti o convinzioni popolari al riguardo. Un simbolo di pace e di promessa per la cultura cristiana, cooptato prima dai movimenti pacifisti degli anni ’60 e poi dal movimento gay. Non è la prima volta che accade, anche il tema dell’ecologia è un antico valore prettamente cristiano, sensibilità nata nel Medioevo e poi ideologizzata da radicali, malthusiani e neo-ambientalisti. Così come quello della povertà, valore prettamente cristiano poi “saccheggiato” dal marxismo, che sopra vi ha costruito una demagogica e mortifera ideologia. Lo ha spiegato Papa Francesco: «Ho sentito, due mesi fa, che una persona ha detto, per questo parlare dei poveri, per questa preferenza: “Questo Papa è comunista”. No! Questa è una bandiera del Vangelo, non del comunismo: del Vangelo! Ma la povertà senza ideologia, la povertà». E ancora: «Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani».

Un Festival arcobaleno, ma per le foibe un solo minuto. Da due giorni le unioni gay tengono banco a Sanremo. Ma Conti dedica solo una frase al Giorno del Ricordo, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 10/02/2016 su “Il Giornale”. Nastri e bracciali arcobaleno, ospiti che non mancano di parlare del loro concetto di famiglia, battute e appelli vari. Mentre dentro e fuori dal Parlamento tiene banco il ddl Cirinnà, il Festival di Sanremo si è trasformato quest'anno in un lungo spot a favore delle unioni civili e della cosiddetta stepchild adoption, la norma che permette di adottare il figlio del partner. Eppure nel giorno della ricordo ci si aspettava che almeno uno degli intermezzi fosse dedicato a ricordare i morti delle foibe. Soprattutto dopo che da più parti era arrivato l'appello a portare sul palco dell'Ariston oltre alla bandiera arcobaleno anche il Tricolore, simbolo di una strage e un gesto di unità nazionale. Un appello che a quanto pare non è stato accolto, visto che Carlo Conti ha dedicato all'evento nemmeno un minuto e si è limitato a una frase striminzita prima di annunciare Elio e Le Storie Tese. "Ricordiamo per non dimenticare", ha detto il conduttore di Sanremo. A pensar male si direbbe che gli autori si fossero totalmente dimenticati della ricorrenza e che abbiamo buttato lì una frase solo per far contenti i vari Gasparri & Co. Anche se Giorgia Meloni ringrazia su Twitter: "Grazie Carlo #Conti per aver parlato a #Sanremo2016 del #GiornodelRicordo e aver onorato la memoria dei martiri delle # foibe e dell'esodo".

Ma ci pensa il comunistissimo “L’Espresso” a buttarla in “caciara”. "Camerati, attenti". Così i neofascisti sfruttano il giorno del ricordo. Il 10 febbraio si celebrano le vittime delle foibe: le voragini dell'Istria dove tra il 1943 e il 1947 sono stati gettati quasi diecimila italiani per mano dei partigiani jugoslavi. Oggi quella tragedia, ignorata per decenni, è motivo di identità per l’estrema destra del terzo millennio di Casa Pound e Forza Nuova, scrive Michele Sasso il 10 febbraio 2016 su "L'Espresso". Corteo in ricordo dei martiri delle Foibe organizzato da Casapound a Torino nel 2015Il 10 febbraio, che dal 2004 è il giorno del ricordo della tragedia e dell'esilio dei profughi istriani, è una data che divide. Ignorato per decenni, trascurato dai programmi scolastici, il dramma delle foibe è oggi ricordato, oltre che da iniziative istituzionali, da gesti che scaldano i cuori all’estrema destra. Il giorno della «memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati» è stato voluto nel 2004 dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accogliendo la proposta di legge di Alleanza nazionale con la volontà di «chiudere definitivamente una pagina di dolore, con un atto di civile memoria dello Stato italiano». Un capitolo tragico e scomodo, un gesto riparatorio fatto da chi come Ciampi nel 1943 rifiutò di aderire alla Repubblica sociale italiana per raggiungere gli alleati che risalivano la Penisola. Dal dopoguerra il nome “foiba” perde il significato di fenomeno naturale per diventare sinonimo di strage. Le foibe sono cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell'Istria che fra il 1943 e il 1947 sono stati gettati, vivi e morti, moltissimi istriani di lingua e cultura italiana. Si stima che le vittime possano essere quasi diecimila italiani. La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Vengono considerati “nemici del popolo” e quindi sacrificabili. Il massacro si ripete nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Una pulizia etnica per spargere terrore. Graziano Udovisi, l'unica vittima del terrore titino che riuscì ad uscire da una foiba vivo dopo immense torture e 24 ore sotto terra, raccontò la sua storia nel libro-testimonianza “Sopravvissuto alle foibe”. E' morto nel 2010, a 84 anni. Una carneficina che testimonia l'odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta dal maresciallo Tito per eliminare i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra la neonata Repubblica e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce. Nel febbraio del 1947 Roma ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l’Istria e la Dalmazia vengono cedute. Con quella firma trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in patria una grande accoglienza. La sinistra italiana li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo da un paese comunista alleato di Mosca, in cui si è realizzato il sogno del socialismo reale. La vicinanza ideologica con Tito è, del resto, la ragione per cui il Partito comunista non affronta il dramma, appena concluso, degli infoibati. Ma non è solo il Pci del leader Palmiro Togliatti a lasciar cadere l'argomento nel disinteresse. Come ricorda lo storico Giovanni Sabbatucci: «La stessa classe dirigente democristiana considera i profughi dalmati cittadini di “serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe. I neofascisti, d'altra parte, non si mostrano particolarmente propensi a raccontare cosa avvenne alla fine della seconda guerra mondiale nei territori istriani. Fra il 1943 e il 1945 quelle terre sono state sotto l'occupazione nazista, in pratica sono state annesse al Reich tedesco». Un silenzio intorno a questo dramma, che fa tutt’uno con la sconfitta italiana. Nel 1991 si alza il velo: quando i triestini si mobilitano contro il passaggio delle unità corazzate dell’esercito federale jugoslavo che dalla Slovenia devono tornare verso la Serbia, sfruttando il porto giuliano. E riaprendo ferite e ricordi ancora vivi di chi ha avuto fratelli, amici e concittadini finiti nelle foibe per mano di quello stesse divise. «Il silenzio intorno alle foibe è durato troppo a lungo e ha dato l’occasione per una forte polemica e allo stesso tempo creando terreno fertile ad una strumentalizzazione», sottolinea Simona Colarizi, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma: «Da anni l’estrema destra sta cercando una legittimazione del fascismo di Salò, inseguendo il falso mito di italiani brava gente, ma non va dimenticato che la politica di “fascistizzazione” di quei territori del Friuli Venezia Giulia è stata brutale con una reazione altrettanto brutale. Il che non giustifica assolutamente le fobie». Il nazionalismo, la colpa di essere italiani, l’odio per chi si è visto espulso dalla propria terra e non ha avuto nessun appoggio politico. Dimenticando che i morti non sono né “neri” né “rossi”. Né fascisti né comunisti. Un equivoco e un uso pubblico della storia che distorce la storia stessa. Con vittime e colpevoli che cambiano secondo i punti di vista e il colore politico. Così il ricordo delle foibe diventa occasione di divisioni, strumentalizzazioni, adunate in stile Norimberga per cercare colpevoli e vinti. Con una voglia di tornare protagonisti. Si radunano e si schierano con un ordine perentorio: «Camerati, attenti». In prima fila nella corsa a commemorare ci sono i fascisti del terzo millennio di Casa Pound che spiegano così il loro 10 febbraio: «Colpevoli di essere italiani. E per questo assassinati e poi dimenticati, ignorati, cancellati dalla storia: questi sono i martiri delle foibe. Ma l'identità di un popolo e di una nazione nata in trincea non si cancella col sangue, né con le censure sui libri di storia. Per questo tricolori alla mano, saremo nelle piazze e nelle strade di tutta Italia, a ricordare le vittime di quel genocidio e il sacrificio degli esuli istriani e giuliano-dalmati costretti a lasciare le loro case dalla violenza comunista». In questa settimana sono in calendario decine di cortei, fiaccolate, spettacoli teatrali, in grandi città e piccoli centri dal nord al sud del paese. Leit motiv è l’annuncio “Io non scordo”. Da Varese dove tutte le sigle del mondo dell’estrema destra sfilano da tre anni per le vie del centro fino al Trentino Alto Adige, L’Aquila, Lamezia Terme e Siracusa. Con passeggiate commemorative, cortei, fiori sulle lapidi. A Roma Forza Nuova di Roberto Fiore e prevede «omaggio al monumento, conferenza, cena e recital “Foibe, 15.000 fantasmi”. Prima della celebrazione a Trento è sparita la lapide in memoria delle vittime. Il presidente del Trentino, Ugo Rossi ha così stigmatizzato l’accaduto: «Un gesto vile e odioso, tanto più grave considerando che è avvenuto a ridosso del Giorno del ricordo, solennità nazionale istituita per rinnovare la memoria di una tragedia immane. Se l'intento è quello di alimentare divisioni e strumentalizzare la storia per bassi fini, possiamo affermare con certezza che fallirà».

Le Foibe ancora dimenticate (questa volta in un cassetto). Scontro sulla data di inaugurazione della stele: i documenti chiave sono fermi da novembre scorso, scrive Maria Sorbi, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Il sindaco Giuliano Pisapia non si è presentato alla cerimonia per commemorare le vittime delle Foibe. E fin qui nulla di nuovo: non è la prima volta che il sindaco dà forfait e delega a un rappresentante del Comune. Lui che, quando era deputato di Rifondazione Comunista, votò contro la proposta di istituire un giorno per ricordare la strage istriana. La polemica di quest'anno ruota attorno a una questione burocratica, che riguarda il monumento da erigere in piazza Repubblica in memoria di chi subì la violenza dell'eccidio. A quanto pare il documento per decidere la data dell'inaugurazione dell'opera (che, in teoria, era prevista per quest'anno) sarebbe stato dimenticato in un cassetto. Chiuso da mesi. A spiegarlo, durante la cerimonia, è stata l'assessore Carmela Rozza che ha svelato il mistero che si cela intorno alla finora mancata realizzazione del monumento richiesto dal comitato provinciale di Milano dell'associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia nell'ormai lontano giugno 2013. Ebbene, di fatto l'assessore Rozza ha dichiarato pubblicamente che la pratica è ferma in Consiglio di Zona 2. «A seguito di un immediato accesso agli atti dichiara Roberta Capotosti, capogruppo di Sovranità in Consiglio di Zona 2 - ho appreso con stupore che la richiesta di un parere al Consiglio di Zona 2 da parte del Comune giace nei cassetti del presidente del Consiglio di Zona e della sua maggioranza dal 23 novembre scorso e che, fino ad ora, si sono tutti ben guardati dal tirarla fuori e metterne a parte non solo il consiglio tutto, ma nemmeno i capigruppo». «Spiace accertare - conclude Capotosti - che a settant'anni di distanza da quei crimini efferati, e dopo un silenzio assordante che ci ha accompagnati fino al 2004, quando è stata finalmente riconosciuta la ricorrenza, ci sia ancora qualcuno che provi ad insabbiare una pagina vergognosa della storia di questo paese e faccia di tutto per cancellare la memoria e rendere onore ai tanti italiani morti o costretti ad abbandonare le proprie terre, le proprie abitazioni ed i propri averi, negando loro, ancora oggi, perfino la possibilità di farsi, a spese proprie, un monumento a perenne ricordo». «Non si capisce perché abbiano aspettato tanto - commenta Riccardo De Corato, Fratelli d'Italia - e soprattutto perché il Comune non abbia fatto scattare il silenzio/assenso che di prassi avviene dopo un mese». Un tentennare che mette allo scoperto il poco interesse della giunta arancione per la ricorrenza, resa ufficiale solo dal 2004 e fino a poco tempo fa celata anche dagli indici dei libri di scuola. «Comunque, dopo il parere della prossima settimana, non ci saranno più scuse - sostiene De Corato - e la stele dovrà trovare posto in piazza della Repubblica in tempi brevissimi, non facciano slittare l'inaugurazione a dopo le elezioni. Noi non molliamo». In Consiglio regionale invece le Foibe sono stata celebrate in un clima nient'affatto polemico ma commosso: sono state raccolte le testimonianze dirette di alcuni sopravvissuti e sono stati consegnati i premi di un concorso scolastico promosso dallo stessa Regione.

Settant'anni di omertà, ora spunta un'altra foiba. Lo rivela un documento "dimenticato" negli archivi del Ministero degli Esteri. Nella fossa in provincia di Udine 200-800 corpi, sembra vittime di partigiani rossi, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Una nuova foiba sembra tornare alla luce dagli orrori del passato, il giorno del Ricordo del dramma degli esuli istriani, fiumani e dalmati. La fossa comune non si troverebbe nell'ex Jugoslavia, ma in provincia di Udine. Le Foibe scordate dentro un cassetto. I responsabili del massacro, nascosto per 70 anni, sarebbero i partigiani comunisti della divisione Garibaldi-Natisone, che nel 1945 erano agli ordini del IX Corpus jugoslavo del maresciallo Tito. Le vittime nella fossa comune sarebbero fra 200 ed 800. I carabinieri sono stati informati. Ieri, Giorno del ricordo dell'esodo e delle foibe, Luca Urizio, presidente della Lega nazionale di Gorizia, ha reso pubblico un documento «dimenticato» negli archivi del Ministero degli Esteri, che rivela il punto esatto della strage ancora da confermare. Il 30 ottobre 1945 arrivò a Roma un rapporto dell'Ufficio informazioni, gruppo speciale. «La foiba e la fossa comune esistente nella zona di Rosazzo (provincia di Udine, ndr) è ubicata precisamente nella zona chiamata ... (il nome del posto è cancellato per mantenere il riserbo)». L'informativa fa parte delle notizie segrete «Ermete» e riporta che «secondo quanto afferma la popolazione dovrebbero essere sepolti da 200 a 800 cadaveri facilmente individuabili perché interrati a poca profondità». L'Ufficio informazioni indica anche i presunti mandanti: «Il responsabile di detto massacro della popolazione è ritenuto il comandante della divisione Garibaldi-Natisone Sasso coadiuvato dal commissario politico Vanni». L'informativa segreta è rimasta sepolta in archivio fino allo scorso anno, quando l'ha trovata Urizio, che a Roma voleva fare luce sui deportati dei titini da Gorizia nel 1945. «Sasso» è il nome di battaglia di Mario Fantini e «Vanni» quello di Giovanni Padoan, noti fazzoletti rossi della Resistenza passati a miglior vita. Nel documento si indica anche un testimone: «Per avere chiarimenti e indicazioni necessarie per la identificazione occorre interrogare un certo Dante Donato ex comandante Osovano da Premariacco». I partigiani della brigata Osoppo erano stati massacrati dai garibaldini a Porzus nel febbraio 1945 perché si opponevano all'espansionismo titino. «La fossa non è lontana da Bosco di Romagno dove vennero trucidati parte degli osovani - rivela Urizio -. I carabinieri hanno chiesto di non rivelare la località esatta. Sopra i corpi potrebbero esserci delle armi abbandonate». Un altro documento recuperato a Roma del prefetto di Udine, Vittadini, l'11 giugno 1945, conferma che ai garibaldini «sarebbero stati anche di recente consegnati mitra russi con forte munizionamento e con l'ordine di tenersi pronti nel caso che da parte di Tito venisse ordinata un'azione di forza». Urizio ipotizza con il Giornale che «nella fossa comune potrebbero esserci civili e militari sia italiani che tedeschi. Un paese intero era a conoscenza della strage, reato che non va in prescrizione. Spero che dopo 70 anni cada finalmente il velo d'omertà». Agli inizi degli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio, i carabinieri avrebbero cominciato a ricevere vaghe informazioni sul massacro, ma la fossa non è mai stata trovata. Sembra che esista anche una confessione postuma di chi sapeva o ha partecipato alla strage. La Lega nazionale, che storicamente si batte per l'italianità, chiede di fare piena luce. Dagli archivi ministeriali romani sono saltate fuori anche le liste con nomi, cognomi e date di sparizione dei deportati dai partigiani titini nel 1945 a guerra finita. «Gli elenchi allegati si riferiscono a n. 1203 persone scomparse di Gorizia () Si ignora se dette persone siano state deportate in Jugoslavia dai partigiani di Tito o uccise e gettate nelle foibe» riporta un documento del 1° ottobre '45 dello Stato maggiore dell'esercito. «Li stiamo confrontando con le liste di quelli che sono rientrati - spiega Urizio -. A Gorizia non sono tornati in 750-800. L'obiettivo è trovare dove sono finiti per permettere ai familiari di pregare o porgere un fiore». A Gorizia esiste già un monumento dedicato a 665 scomparsi. L'iniziativa bipartisan è stata sostenuta dal comune isontino e dal senatore dem Alessandro Maran. Fra i documenti recuperati a Roma colpisce la lettera del Cln di Gradisca d'Isonzo al presidente del Consiglio, Alcide de Gasperi, del 7 giugno 1946. «L'unione italo-slava di questa zona, che si autodefinisce antifascista non è in sostanza che la continuazione del fascismo in funzione panslavista», scrive G. Francolini seguito da altre firme. «Questi signori, che amano auto definirsi il popolo non rappresentano che se stessi e quella piccola frazione eterogenea la cui unica forza di coesione si manifesta nell'odio contro il popolo italiano».

«Così sabotano il mio film sulla strage più feroce commessa dai partigiani», scrive "Il Giornale" Domenica 11/11/2012. Della maestra elementare, Corinna Doardo, 39 anni, vedova di un sarto, che aveva insegnato a leggere e a scrivere a uno stuolo di bambini, ha scritto Giampaolo Pansa ne Il sangue dei vinti: «Andarono a prenderla a casa, la portarono dentro il municipio e la raparono a zero. La punizione sembrava finita lì e invece il peggio doveva ancora venire. Le misero dei fiori in mano e una coroncina di fiori sulla testa ormai pelata e la costrinsero a camminare per la via centrale di Codevigo, fra un mare di gente che la scherniva e la insultava. Alla fine di questo tormento, la spinsero in un viottolo fra i campi. E la uccisero, qualcuno dice con una raffica di mitra, altri pestandola a morte sulla testa con i calci dei fucili». Del figlio del podestà, Ludovico Bubola, detto Mario, ha riferito Antonio Serena ne I giorni di Caino: «I barbari venuti a liberare il Veneto cominciano a segargli il collo con del filo spinato, finché la vittima sviene. Allora provvedono a farlo rinvenire gettandogli in faccia dei secchi d'acqua fredda. Ma il martire non cede e grida ancora la sua fede in faccia ai carnefici. Allora provvedono a tagliargli la lingua che gli viene poi infilata nel taschino della giacca. Quindi, quando la vittima ormai agonizza, gli recidono i testicoli e glieli mettono in bocca. Verrà poi sepolto in un campo d'erba medica nei pressi, sotto pochi centimetri di terra». Di Farinacci Fontana, che aveva appena 18 anni ed era infantilmente orgoglioso della sua fede nel Duce, compendiata fin dalla nascita in quell'assurdo nome di battesimo mutuato dal cognome di un gerarca fascista, vorrebbe parlare il regista Antonello Belluco ne Il segreto. Ma un conto è leggere certe cose sui libri degli storici revisionisti, un altro conto è guardarle al cinema, e Il segreto è appunto un film. Che nessuno deve vedere, anzi che non si deve nemmeno girare, perché è ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, il più cruento, insieme con quello della cartiera di Mignagola nel Trevigiano, compiuto dai partigiani in un'unica località a guerra già finita, a Liberazione già avvenuta, ad armi già deposte, in un arco temporale che va dal 29 aprile al 15 maggio, forse anche dopo, nessuno può dirlo con precisione. Così come nessuno ha mai stabilito la contabilità esatta della mattanza: c'è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365, come i giorni di quell'atroce 1945.

Secondo il cardiologo Luigi Masiero i giustiziati furono non meno di 600, ma il calcolo potrebbe essere inficiato dal fatto che il medico era stato, come quasi tutti, camicia nera. Un documento dell'arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura la cifra di 900 morti. Don Umberto Zavattiero, a quel tempo prevosto di Codevigo, annota nel chronicon parrocchiale: «30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti. Venivano seppelliti dagli stessi partigiani di qua e di là per i campi, come le zucche. Altri cadaveri provenienti da altri paesi furono visti passare per il fiume e andare al mare». In questa macabra ridda, diventa una certezza un titolo a tre colonne uscito sul Gazzettino soltanto 17 anni dopo, il 28 marzo 1962: «Esumate un centinaio di salme e raccolte in un piccolo ossario». È la prima cappellina sulla sinistra, nel cimitero di questo paese della Bassa padovana. Mezzo secolo fa vi furono tumulati i resti di 114 dei fascisti trucidati. Un'ottantina di loro hanno un volto negli ovali di ceramica. Tanti cognomi scolpiti sulla lapide e una postilla finale: «N. 12 ignoti». Belluco è un padovano di 56 anni, laureato in scienze politiche. Ha lavorato in Rai dal 1983 come programmista e regista per Radio 2 e Rai 3, prima a Venezia e poi a Roma. «Sono entrato grazie a un'unica referenza: l'aver vinto il premio Cento città, indetto dalla casa discografica Rca, che l'anno prima era andato al dj Claudio Cecchetto. In mensa mi chiedevano: “Tu da chi sei raccomandato?”. Tutti avevano un padrino». Nel 1987 lo convoca Antonio Bruni, dirigente della Tv di Stato: «Qua dentro, senza un partito alle spalle, non puoi far carriera. Meglio se ti cerchi un lavoro fuori». Belluco ascolta il consiglio. Si mette a girare spot e filmati per Lotto, Safilo, Acqua Vera, Lavazza, Pubblicità Progresso. Produce audiovisivi per Il Messaggero di Sant'Antonio, documentari, inchieste (sull'ecstasy, sul sequestro di Giuseppe Soffiantini, sul regista Sam Peckinpah). Nel 2006 l'esordio nel cinema con Antonio, guerriero di Dio interpretato da Jordi Mollà, Arnoldo Foà e Mattia Sbragia. La Buena Vista (Walt Disney Company) si offre di lanciare il film, ma il produttore preferisce l'italiana 01 Distribution (Rai Cinema). «Risultato: programmazione pessima. E pensare che in quattro sale di Padova aveva fatto gli stessi incassi del Codice da Vinci». Nel 2011 la sua docufiction Giorgione da Castelfranco, sulle tracce del genio viene qualificata dal ministero per i Beni culturali come film d'essai insieme con Habemus Papam di Nanni Moretti. Nello stesso anno cominciano le riprese de Il segreto, con tanto di marchio della Warner Bros sulla colonna sonora, giacché Belluco sa maneggiare tanto la pellicola quanto il pentagramma, come dimostra il Sanctus scritto a quattro mani con l'amico Pino Donaggio e cantato da Antonella Ruggiero nei titoli di coda di Antonio, guerriero di Dio. Il regista aveva già girato un quarto d'ora, dei 105 minuti previsti dal copione ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, quando gli capita fra capo e collo una catena di sventure difficilmente attribuibili al caso e tutte senza spiegazione: il produttore rinuncia, i contributi ministeriali e regionali vanno in fumo, le banche ritirano i finanziamenti, i collezionisti che avevano messo a disposizione materiale bellico e costumi d'epoca si defilano, la Ruggiero si rifiuta d'interpretare il tema musicale del Segreto, gli avvocati inviano diffide. «Finché un giorno Angelo Tabaro, segretario generale per la Cultura della Regione Veneto, me l'ha confessato chiaro e tondo: “Ho ricevuto telefonate dall'Anpi e dai partiti di sinistra. Non vogliono che esca questo film”».

Perché ha deciso di occuparsi dell'eccidio di Codevigo?

«Non certo per ricavarne un'opera ideologica. Nel 2010 il sindaco del paese, Gerardo Fontana, eletto con una lista civica di sinistra, mi sottopone in lettura due pagine riguardanti questa terribile storia. Sento che c'è materia su cui lavorare. Il tema non mi è indifferente: sono figlio di profughi istriani, i miei nonni e mia madre vivevano a Villa del Nevoso e scamparono alle foibe grazie a un ex repubblichino che faceva il doppio gioco per i partigiani di Tito. Butto giù una sceneggiatura e la invio a Fontana. Lui mi telefona: “Mi hai commosso”. Decidiamo di lavorare insieme al soggetto, che toccò da vicino la sua famiglia».

Ebbe qualche parente assassinato?

«Farinacci Fontana, 18 anni. Era suo cugino. Il padre Silvio, capo delle Brigate nere di Codevigo, si salvò consegnandosi ai carabinieri di Piove di Sacco. Il ragazzo, che non aveva fatto nulla di male, preferì restare in paese. Nonostante fosse stato interrogato dagli inglesi e rilasciato per la sua innocuità, finì giustiziato su ordine di un capo partigiano che faceva seviziare i prigionieri e poi li giudicava alla maniera dell'imperatore Nerone nel circo: pollice verso, morte; pollice in alto, vita. Come recita un proverbio africano, quando gli elefanti combattono, è sempre l'erba a rimanere schiacciata. Farinacci è il personaggio reale di una storia che nel Segreto è basata sulla fantasia. Di lui s'innamora Italia Martin, 15 anni. Ma Farinacci ha occhi solo per Ada, una giovane istriana. Un giorno Italia lo scopre mentre fa l'amore con Ada e per vendetta lo denuncia ai brigatisti».

Quelli sono esistiti davvero, però.

«Sì, la 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini” arrivò a Codevigo il 29 aprile 1945 agli ordini di Arrigo Boldrini, detto Bulow, inquadrata nell'VIII Armata angloamericana del generale Richard McCreery. Vestiva divise inglesi, col basco fregiato di coccarda tricolore. All'epoca Bulow aveva 30 anni. L'ex parlamentare Serena nel libro I giorni di Caino scrive che Boldrini era un comunista con alle spalle un passato di capomanipolo nell'81º Battaglione “Camicie nere” di Ravenna, sua città natale. Finita la guerra, sarà deputato del Pci per sei legislature, vicepresidente della Camera e presidente dell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia. Decorato dagli inglesi con medaglia d'oro al valor militare. Ma nel mio film di Bulow non parlo. Il comandante brigatista ha un nome di battaglia diverso: Ramon».

Al massimo evoca Per un pugno di dollari: «Al cuore, Ramon».

«Boldrini-Bulow s'è sempre difeso sostenendo che in quei giorni si muoveva fra Padova, Bologna, Milano, Venezia e Adria e mai ordinò le brutali uccisioni. Fatto sta che i partigiani venuti da Ravenna rastrellarono un po' in tutto il Veneto appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica sociale italiana e li portarono a Codevigo. Il bilancio dei processi sommari non si discosta molto da quello dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Solo che qui non ci sono un Herbert Kappler e un Erich Priebke che ammazzano con un colpo alla nuca 15 ostaggi in più rispetto all'ordine di rappresaglia. Dunque chi ha la responsabilità dei morti di Codevigo? Si sono forse uccisi da soli?».

Gino Minorello aveva 23 anni ed era l'organista della chiesa di Codevigo. Che cosa potrà aver mai fatto di male per meritare la morte?

«Gottardo Minato, che era il custode del cimitero, ha testimoniato che fu preso assieme a Edoardo Broccadello, detto Fiore, e a Primo Manfrin. Li misero sul ciglio della fossa. Poi diedero una fisarmonica all'organista, ordinandogli: “Suona una marcetta”. Mentre Minorello suonava, spararono a tutti e tre».

Per quale motivo la strage avvenne proprio in questo luogo?

«Siamo a meno di 5 chilometri in linea d'aria dall'Adriatico, in un territorio bagnato da quattro fiumi, Brenta, Bacchiglione, Nuovissimo e Fiumicello, sulle cui rive i prigionieri venivano spogliati, fucilati e gettati in acqua. Il mare doveva diventare la loro tomba, quando non li aspettava una fossa comune. Alcune vittime furono inchiodate vive sui tavolacci che si usavano per “far su” il maiale, come diciamo dalle nostre parti. Della maestra Doardo, forse colpevole di eccessiva severità nell'insegnare le tabelline al figlio zuccone di qualche comunista, restò integro solo un orecchio, come attestato nel referto del dottor Enrico Vidale, che esaminò le salme recuperate».

Mi racconti delle traversie del Segreto.

«Nel 2011 mi rivolgo a Sergio Pelone. Ha prodotto film di successo, come Gorbaciof, e molte opere di Marco Bellocchio, da L'ora di religione a Il regista di matrimoni».

Un produttore di sinistra.

«Maoista, a detta di Sandro Cecca, un mio amico regista. Tutti mi dissuadevano: “Figurarsi se Pelone ti produce Il segreto”. Vado nel suo ufficio a Roma e, in effetti, alle pareti noto varie scritte in cinese: massime di Mao Tse-tung, suppongo. “L'opera mi piace, può diventare un capolavoro”, mi incoraggia Pelone. Propone di chiedere i finanziamenti al ministero per i Beni culturali e alla Film commission della Regione Veneto. A quel punto diventa il capocordata. A Roma su 66 richieste di contributi ne vengono accolte solo 8. Il primo classificato è Alessandro Gassman, che becca 200.000 euro. Il cognome conta. Noi veniamo rimandati alla sessione successiva. A Venezia otteniamo 50.000 euro, un niente. Pelone firma ugualmente l'inizio delle riprese, che comincio a mie spese. Ma a marzo mi comunica che esce dal progetto perché non c'è il budget. Così ci fa perdere i finanziamenti del ministero e della Regione. E pensare che la scenografa Virginia Vianello, nipote di Raimondo, mia grande amica, mi aveva già presentato a Cinecittà Luce, che era pronta a distribuirmi il film».

Il progetto è stato azzoppato.

«E non solo finanziariamente. Dennis Dellai, regista vicentino di Così eravamo e Terre rosse, lungometraggi sulla Resistenza, che aveva promesso di mettermi a disposizione armi, automezzi e divise della seconda guerra mondiale, mi manda i costumi per girare le prime scene, però all'improvviso cambia idea. La nostra producer, Maria Raffaella Lucietto, parla con Davide Viero, aiuto regista di Dellai ed esperto di materiale bellico, il quale balbetta che tiene famiglia e che non vuole mettersi contro l'Anpi e i partigiani. Da quel momento i quattro o cinque collezionisti del Veneto ci chiudono le porte in faccia. “A Belluco non si deve dare niente”, è il passaparola».

Chi altro ha cambiato idea?

«Due del settore produzione se ne sono appena andati. Siccome realizzano audiovisivi per conto di enti pubblici, non volevano inimicarsi uno dei loro committenti».

Sia meno vago: quale committente?

«Flavio Zanonato, il sindaco di Padova. Ex Pci, oggi Partito democratico».

Non starà peccando di complottismo?

«Complottismo? Da Antonveneta mi avevano comunicato che erano disponibili 10.000 euro nell'ambito dei progetti culturali. Peccato che la fondazione bancaria sia presieduta da Massimo Carraro, già parlamentare europeo dei Democratici di sinistra, grande amico di Zanonato. Mai visti i fondi. Altri ci sono stati negati, sempre per motivi ideologici, dalle casse rurali».

Ha finito con le defezioni?

«Le racconto solo l'ultima, quella che mi ha ferito di più. Ingaggio un finalista di X Factor perché mi scriva il tema musicale del Segreto con una tonalità adatta ad Antonella Ruggiero. Spedisco testo, spartito e cover alla solista genovese. Mi scrive Roberto Colombo, il marito: “Veramente un brano interessante. Ad Antonella piace l'idea di poterlo interpretare”. Poi mi chiede: “Ci puoi mandare anche una rapida descrizione del contenuto del film?”. Mando. A quel punto ci comunica che sua moglie “ha pensato di non sentirsi a proprio agio nello sposare le tematiche della sceneggiatura”».

Tematiche politicamente scabrose.

«Le stesse che hanno indotto l'avvocato Emilio Ricci, patrocinante in Cassazione con studio a Roma, a inviarmi una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui mi notifica che il suo assistito Carlo Boldrini, figlio ed erede di Arrigo Boldrini, venuto a conoscenza della mia intenzione di “girare un film sulle tragiche vicende relative alle stragi accadute a Codevigo nella primavera del 1945, ha evidente interesse a conoscere i contenuti della trama e dell'opera, in considerazione della complessità degli accadimenti di quel periodo e delle diverse interpretazioni-storico politiche che si sono susseguite”. Motivo per cui pretendeva una copia della sceneggiatura».

Stando allo Zingarelli, si tratterebbe di un tentativo di censura preventiva.

«L'invito perentorio mi è stato rinnovato dopo cinque mesi con una seconda raccomandata, identica alla prima. Ovviamente non gli ho spedito nulla».

È un fatto che le vicende di Codevigo furono al centro di 24 procedimenti penali riguardanti 108 omicidi, che videro imputati quattro combattenti della 28ª Brigata Garibaldi. Tutti assolti.

«Non è un film processuale. A me interessa di più capire come reagirono i bambini o perché nessuno degli abitanti di Codevigo si oppose a quella spaventosa carneficina. Perciò non comprendo da quale timore sia mosso il figlio di Boldrini, visto che nel mio film la figura del comandante Bulow, suo padre, non compare proprio».

Ha trovato un nuovo produttore per il suo film?

«Mi ero rivolto a Rai Cinema. La risposta mi è arrivata per e-mail da Carlo Brancaleoni, che dirige la struttura Produzione film di esordio e sperimentali: “Le devo purtroppo comunicare che non abbiamo ritenuto la sceneggiatura coerente con la nostra linea editoriale. Il senso narrativo essenziale, la storia d'amore dei due amanti stritolati dai meccanismi della guerra, non trova conforto, a nostro avviso, nel sottofondo storico che intende descrivere e raccontare”. Questa del “sottofondo storico” è da incorniciare. Forse la Rai trova conforto solo nei copioni che prevedono qualche milione di morti».

Dunque il produttore non l'ha trovato.

«No. Però avevo parlato con un amico del regista Dellai, il vicentino Bruno Benetti, imprenditore della Itigroup di Villaverla, che con la One art finanzia anche film statunitensi. Il suo consulente è Marco Müller, già direttore artistico della Mostra del cinema di Venezia, oggi al Festival di Roma. Un giorno dell'anno scorso Benetti mi chiama: “Müller ha letto la sceneggiatura, è rimasto impressionato. Darà l'internazionalizzazione al Segreto”. Passa qualche tempo e l'industriale telefona alla producer Lucietto: “Io non investo neanche 100 euro su un certo tipo di film”».

Adesso come se la caverà?

«Ho un po' di tempo davanti. Prima di fine aprile le riprese non possono ricominciare per motivi meteorologici, visto che l'eccidio fu commesso in primavera. Abbiamo ridotto le spese all'osso. Direttore della fotografia, scenografa e montaggista hanno accettato d'essere pagati a caratura, cioè in percentuale sui soldi che entrano in cassa. Se non entrano, lavorano gratis. C'è chi s'è offerto di noleggiarmi la macchina da presa Alexa per 1.000 euro a settimana: di norma ce ne vogliono 1.500 al giorno. L'investimento iniziale è davvero minimo: 120.000 euro. Mi rifiuto di credere che non vi sia un produttore indipendente, una casa cinematografica, una rete televisiva o anche solo un mecenate che non sia interessato a un film da cui potrebbe fra l'altro ricavare qualche soddisfazione economica».

E se non trova il mecenate?

«Il segreto uscirà comunque, questo è sicuro. Sto ricevendo attestazioni di stima commoventi. L'imprenditore Franco Luxardo, quello del maraschino, esule dalmata nipote di Pietro Luxardo, che col fratello Nicolò e la moglie di questi fu affogato nel mare di Zara dai partigiani titini, ci ha promesso 1.000 euro; a titolo personale, ha voluto precisare, perché non è riuscito a convincere nemmeno il consiglio d'amministrazione della sua azienda a compromettersi con i morti di Codevigo. Gli iscritti all'associazione Comunichiamo italiano, che ha sede a Padova, hanno deciso di autotassarsi. Se proprio non potrò entrare nel circuito normale, mi affiderò a Internet: sul sito Eriadorfilm.it si può fin d'ora prenotare il Dvd del film in edizione speciale, abbinato al libro Il segreto. Ormai ho fatto mio l'impegno dell'Amleto di William Shakespeare: parlerò anche se l'inferno stesso si spalancasse per ordinarmi di tacere».

Ma lei ha simpatia per il fascismo?

«Non vedo come potrei, essendo nato nel 1956. Giorgio Almirante sosteneva che solo chi ha vissuto sotto il Duce può ancora definirsi fascista, perché il fascismo è un'esperienza storica conclusa. Forse pensano che sia fascista perché avevo preparato la sceneggiatura di un film, Questo bacio a tutto il mondo, sulle prime due vittime delle Brigate rosse, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, un appuntato in congedo dei carabinieri e un agente di commercio che furono assassinati il 17 giugno 1974 nella sede di Padova del Msi-Dn, in via Zabarella. Anche in quell'occasione dalla Rai ricevetti la stessa risposta pervenutami per Il segreto: sceneggiatura non coerente con la nostra linea editoriale».

È di destra, allora?

«Sono un cattolico che crede nella dottrina sociale della Chiesa, nella difesa degli ultimi. Ho una buona cultura marxista, quanto basta per capire che non potrei mai essere marxista».

Dove s'è formato la cultura marxista?

«All'Università di Padova ho avuto Toni Negri come insegnante di dottrine dello Stato. Mi ha tenuto sotto esame per un'ora abbondante. Voto: 28. Più di Renato Brunetta, che in economia politica del lavoro mi ha dato 25».

Perché i registi sono tutti di sinistra?

«Perché la cinematografia è un potere politico fondamentale che è stato attribuito alla sinistra fin dalla nascita della Repubblica. Nella spartizione per aree d'influenza, Dc e Psi si sono tenuti il governo, gli enti pubblici, le banche e i consigli d'amministrazione; al Pci sono andati la scuola, la cultura e l'informazione. È sempre stato così e sempre sarà così. Non c'è regime, violenza, pallottola che salga infinitamente sulla Cattedra della Verità. Quando crollerà l'ultimo muro dell'ipocrisia umana, si apriranno le porte agli eserciti senza bandiere e ogni segreto sarà perdonato».

Come mai ha messo questo esergo al copione?

«È caduto il Muro di Berlino, ma non quello di Codevigo. Abbiamo bisogno di verità, dobbiamo abbattere il Muro del silenzio. Italia Martin, la protagonista del Segreto, è la giovane Italia di ieri. Oggi che quest'Italia è diventata vecchia, io mi preoccupo per sua nipote, condannata a portarsi in dote le acredini di allora anche nella Terza, nella Quarta, nella Quinta Repubblica, senza speranza».

Pansa nel mirino dei "baroni rossi". La battaglia di retroguardia degli accademici contro una nuova lettura della storia d'Italia, scrive Giampaolo Pansa, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Più interessanti, anche se scontati, furono gli anatemi che mi arrivarono da un manipolo di intellettuali, quasi sempre docenti di storia in diverse università italiane. Il più accanito si rivelò Angelo d'Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico a Torino. All'inizio del 2004 pubblicò sulla rivista «MicroMega» una lunga requisitoria contro il revisionismo. Scritta in uno stile da burocrate sovietico e in un pessimo italiano, evocava a mio disdoro, «la protettiva ombra del berlusconismo e dei suoi immediati pressi». Il suo stralunato atto d'accusa merita di essere ricordato per una singolare schedatura che lo accompagnava: la lista nominativa di signori che non dovevano permettersi di pubblicare ricerche storiche. Queste lingue da tagliare erano diciotto, compresa la mia. Tra loro c'erano intellettuali stimati come Sergio Romano, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Belardelli, Giovanni Sabbatucci. E giornalisti come Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Silvio Bertoldi, Gianni Oliva, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Antonio Socci, Renzo Foa. «E l'elenco potrebbe continuare» minacciava d'Orsi, «arrivando sino alla più sgangherata frontiera della battaglia per la libertà di stampa». Eppure la faccenda non si concluse lì. Il direttore di «MicroMega», Paolo Flores d'Arcais, andò in orgasmo per la lista d'Orsi e decise di sfruttarla per guadagnare qualche lettore alla sua rivista quasi clandestina. La domenica 8 febbraio 2004 decise di trasferire una parte dell'elenco in un'inserzione pubblicitaria sul paginone culturale della «Repubblica». Una gogna stampata su 646 mila copie. Con un titolo di quelli furenti: Basta con i falsi storici. La manipolazione permanente della verità da parte dei vari... Seguivano i nomi di dieci loschi figuri, compreso il sottoscritto. Un altro gendarme della memoria molto solerte nel pestaggio verbale del Pansa si dimostrò di nuovo un docente di Storia dell'Università di Torino, Giovanni De Luna. Lui aveva a disposizione un quotidiano importante, «La Stampa». Nel 2003 era diretta da Marcello Sorgi, un collega che non digeriva i libri del sottoscritto, ma senza avere il coraggio di dirmelo affrontandomi in modo diretto. Sul «TuttoLibri» del 25 ottobre 2003, De Luna mi dedicò una lunga stroncatura intitolata Pansa, il sangue dei vinti visto con gli occhiali della Repubblica sociale italiana. Il titolo mi inorgoglì. L'accusa era quella che, tanti anni prima, nel 1952, era stata scagliata dall'«Unità» contro un libro del grande Beppe Fenoglio. Colpevole di vedere la guerra partigiana «dall'altra sponda», ossia dal versante dei fascisti. Al professor De Luna dovevo stare sui santissimi. Infatti quando venne intervistato dalla solita Simonetta Fiori di «Repubblica», disse che ero «straordinario nell'intercettare lo spirito del tempo». In parole povere un furbastro che fiutava il vento nuovo berlusconiano a cui accodarsi. Ma devo dedicarmi a un altro docente che mi prese di mira. Un big, così sembra, della ricerca storica: Sergio Luzzatto. Anche Luzzatto, genovese, quarant'anni giusti all'uscita del Sangue dei vinti, insegnava Storia all'Università di Torino. Ma rispetto agli altri gendarmi era un tipo avventuroso che aspirava alla notorietà. Scriveva i pezzi di polemica come un qualunque giornalista pittoresco. Nel dicembre 2002 aveva accettato di presentare a Genova I figli dell'Aquila e quel pomeriggio non mi sembrò che il Pansa gli facesse ribrezzo. Invece Il sangue dei vinti gli suscitò un disgusto profondo. Lo manifestò tutto nell'ottobre 2004. Una sera Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni lo invitarono a Otto e mezzo, il loro talk show sulla Sette, a illustrare un suo pamphlet appena uscito, dedicato alla crisi dell'antifascismo. Accanto a lui c'ero io che avevo pubblicato in quei giorni Prigionieri del silenzio. La vicinanza, penso poco gradita a Luzzatto, mi trasformò nel suo bersaglio. Un ruolo che in fondo mi piaceva, poiché ero sempre attratto dalla rissa culturale, chiamiamola così. Tuttavia io ero soltanto un misero rappresentante di una categoria da aborrire: l'intellighenzia occidentale che, a sentir lui, aveva rinunciato a riflettere sul ruolo storico della violenza come levatrice di progresso. Quella sera Luzzatto mi sembrò un esemplare perfetto del signor Ghigliottina, nostalgico dei tagliatori di teste della Rivoluzione francese. E in quei panni mostrò di essere implacabile. Sostenne che la moralità della Resistenza consisteva anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere molto sangue. Il signor Ghigliottina si rivelò pirotecnico. Sostenne che era sbagliato impregnarsi di buonismo. Spiegò: «Per questo non accetto il pansismo. Ossia la rugiadosa sensibilità di chi si scandalizza e quindi equipara una certa violenza partigiana, che pure Giampaolo Pansa ha avuto il merito di documentare, con quella fascista». Lo ascoltai sorridendo. A me Luzzatto sembrò un uomo delle caverne che esca dal suo antro con la clava e si scateni contro mezzo mondo. Intervistato da Dario Fertilio del «Corriere della Sera», aggiunsi: «Se è vero che l'antifascismo è in crisi, senza volerlo Luzzatto gli spara un colpo alla nuca».

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo, Domenica 01/12/2013, su "Il Giornale". Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle “prove di dialogo” con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

Smaila: “In Italia, due pesi e due misure. Delle Foibe non interessa a nessuno”, scrive il 17/02/2016 Marco Fornasir su “Il Giornale”. «Sei libero domenica 7 febbraio? Mi piacerebbe averti con me a Verona per le celebrazioni del Giorno del Ricordo. Parlerà mia mamma». Il tono di Smaila, sempre un po’ scherzoso, aveva qualcosa di perentorio e ho risposto subito di sì. E’ stata una buona scelta, ho avuto l’occasione di stare con lui in auto un paio d’ore, il tempo di andare a Verona da Milano e ritorno, e ho avuto modo di parlarci a lungo, soprattutto toccando il tema della sua fiumanità, i ricordi legati a Fiume, quella che, per lui nato a Verona, è la sua seconda città. Una chiacchierata in dialetto (io sono di Gorizia) e Smaila ha tenuto a sottolineare che a casa si è sempre parlato dialetto fiumano (i veri fiumani dicono ja per dire sì, retaggio dell’Austria-Ungheria, mentre i croati dicono da), era un modo per rimanere con le radici in Istria e per potersi intendere con i rimasti, i parenti che non se la sono sentita di abbandonare case, beni e attività per venire a vivere in Italia. Ognuno aveva le sue buone ragioni, ma per lungo tempo i rimasti sono stati visti dagli esuli come dei traditori. Oggi il tema dei rimasti è molto vivo e le associazioni degli esuli hanno riallacciato buoni contatti con le Comunità Italiane delle varie città dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Come si viene a scoprire poco a poco, Fiume, pur facendo parte dell’Istria, è proprio sul confine tra Istria e Dalmazia e i fiumani si sono sempre sentiti, e lo sono veramente, un’altra cosa rispetto all’Istria e alla Dalmazia. Fiume era il porto più importante dell’Adriatico, più di Trieste, ed era di fatto lo sbocco al mare dell’Ungheria. Un’importante linea ferroviaria collegava direttamente Fiume a Budapest e qui vivevano molte famiglie ungheresi importanti, proprietarie delle più belle ville di Abbazia. Fiume, come ricorda Smaila, era una vera città colta, evoluta, multi-etnica e multi-culturale nel vero senso della parola. Grazie all’amministrazione austro-ungarica, l’integrazione non era forzata e naturalmente ogni gruppo etnico aveva le sue chiese e seguiva i propri ritmi e le proprie tradizioni, il tutto con un’armonia che oggi, in pieno periodo di globalizzazione, è veramente difficile vedere. Passato l’impero austro-ungarico, a Fiume venne il periodo di d’Annunzio e dei suoi legionari, che sbloccarono la questione fiumana con un atto di forza, facendo di Fiume una città completamente libera (e qualcuno aggiunge anche dissoluta…). Poi arrivò il governo italiano, i fascisti con l’italianizzazione forzata dei cognomi, poi i tedeschi con l’occupazione di quasi due anni, poi i partigiani titini e infine la Federazione Jugoslava. Tutti questi cambiamenti avvennero in meno di trent’anni. La famiglia Smaila, dopo l’esodo, si stabilì in un primo tempo a Lucca e successivamente a Verona, dove, nel 1950, nacque Umberto. Si erano ambientati bene a Verona, ma il cuore batteva forte per Fiume e, già nel 1952, la famiglia Smaila cominciò a passare il confine per andare a trovare i parenti rimasti: genitori, sorelle, fratelli, zii e cugini. I primi anni in treno e dal 1956 con una fiammante Fiat 600, un’auto rivoluzionaria per l’epoca. A quel tempo non c’era l’autostrada e il viaggio era lungo e impegnativo. Soprattutto il passaggio al confine era qualcosa di traumatico, con il controllo certosino di tutto il bagaglio trasportato. Molti esuli avevano chiuso con l’Istria, non volevano più tornare a vedere com’erano diventate quelle terre da sempre considerate italiane. Molti invece, soprattutto spinti dalla presenza dei parenti rimasti, compivano annuali pellegrinaggi nelle loro terre d’origine. Su come avvenivano questi viaggi da Verona a Fiume in 600, Umberto Smaila ha fatto un pezzo di cabaret durante la manifestazione di Verona, intrecciando ricordi e battute, ma al tempo stesso presentando concetti e sentimenti che sono quelli comuni a tutti gli esuli dal confine orientali, per intenderci quelli che hanno pagato interamente il debito di guerra di tutta l’Italia nei confronti della Jugoslavia, 125 milioni di dollari del tempo. Non sono mai stati risarciti dallo Stato italiano (si calcola che finora lo Stato ha restituito loro al massimo il 5%). «Comunque fin dall’adolescenza avevo capito in cosa consisteva il paradiso socialista incarnato nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia» spiega Umberto. «C’erano code dappertutto, in particolare per i generi alimentari. Spesso, quando arrivava il tuo turno, la merce era finita e tornavi a casa con poco o niente. Per questo quando partivamo per le vacanze estive, rigorosamente a Fiume, portavamo un bel po’ di roba, dalla pasta al caffè, dal formaggio grana all’olio di oliva. Molti prodotti non esistevano nei negozi e per i nostri parenti il nostro arrivo era una festa. Le vacanze a Fiume erano caratterizzate da un’ottima cucina» ricorda ancora Smaila. «La nonna Anna (mamma di mio papà Guerrino, aveva fatto le scuole ungheresi e parlava correttamente il magiaro) a 90 anni si faceva tutta la via Monte Grappa per andare al mercato a prendere il pesce fresco per me. La nostra via era ripida e io ancora oggi mi chiedo come faceva a quell’età a percorrerla senza sforzo apparente. La famiglia di mia madre, Giuseppina detta Mery Nacinovich, aveva uno stabile con trattoria sottostante (confiscato tutto dai titini) in via Trieste, dove alla zia Nina avevano lasciato in uso un piccolo appartamento. Qualche volta andavo a dormire da lei e sentivo giù nei giardinetti suonare la fisarmonica con ballate popolari». Riguardo alla cucina, Umberto Smaila ha ricordi affettuosi, limpidi e dettagliati. «Tutte le mie zie facevano a gara per farmi mangiare e penso sempre ai molti piatti prelibati che mi preparavano: le paprike impinide (d’inverno capuzzi impinidi), brodetto di seppie con polenta e un risotto con scampi e sugo di pomodoro, veramente eccezionale. La zia Ninetta era la specialista in goulasch. Gli anni passavano e mangiare mi piaceva sempre. Quando diventai più indipendente, alla fine della vacanza mi recavo da solo in una griglieria, a Susak (un sobborgo di Fiume) e mi ordinavo una doppia razione di rasnici e di civapcici, investendo in un colpo solo i 500 dinari che avevo messo da parte. Era il mio modo di salutare le mie terre». La memoria di Umberto non smette di offrire racconti e aneddoti legati alle sue solide radici istriane. «Finita la prima liceo classico, i miei genitori mi regalarono una Lambretta e per un po’ di tempo d’estate andavo a Fiume in Lambretta, seguendo la 1100 del papà (un’auto più grande e comoda che aveva sostituito la mitica 600). Con quello scooter mi sono divertito alla grande, di sera con mio cugino coprivamo i 10 km che separano Fiume da Abbazia per andare a ballare e al ritorno faceva così freddo che ci lacrimavano gli occhi. Ricordo che una volta mi ero portato a Fiume una fonovaligia Europhon con un filo elettrico di 100 metri, avevo installato il tutto a casa di un’amica e dall’ultimo piano mettevamo le canzoni dei Beatles e ballavamo nei giardinetti sotto casa. Per Fiume era una cosa mai vista prima. Fascino e potenza della cultura occidentale, negli anni 1964/1966 si sentivano solo musiche dei Beatles e tutti volevano vestire i jeans, che compravano negli empori di Trieste. Io stesso portavo ai miei cugini jeans ogni volta che arrivavo a Fiume. Nonostante il regime di Tito non vedesse di buon occhio questa apertura, l’esigenza dei giovani locali di sentirsi uguali ai ragazzi che vivevano all’Ovest era un fiume in piena che non si poteva più contenere. Insieme a mio cugino Paolo ci davamo un gran daffare per movimentare l’estate dei nostri coetanei fiumani. Di giorno si andava con il trolleybus a Cantrida, dove al Bagno Riviera avevamo a disposizione dei trampolini per i tuffi. Il bagno era quello frequentato dai rimasti, mentre i croati frequentavano un altro stabilimento. Lì si parlava italiano, cioè dialetto fiuman». Nel fluire dei ricordi di Umberto Smaila, siamo nel frattempo arrivati a Verona dove ha inizio la celebrazione del Giorno del Ricordo. La mamma di Umberto è fresca di parrucchiere e un po’ agitata per quello che dirà dal palco ai suoi concittadini veronesi, molti dei quali di origine fiumana. La mamma è personaggio di spicco a Verona e viene sempre intervistata come testimone vivente della tragedia del confine orientale. Presto darà alle stampe le sue memorie di fiumana e di esule. «Mia mamma – commenta Smaila – è sempre stata legata al tricolore, ai valori italiani. Mio papà era più legato a Fiume e al movimento autonomista di Riccardo Zanella, che voleva lo Stato Libero di Fiume. Infatti mia mamma ha sempre detto mi son italiana, mentre mio papà diceva mi son fiuman. Io come la penso? Sono orgoglioso di essere di quelle terre e di avere entrambi i genitori fiumani». La celebrazione volge al termine e si riprende la strada di casa. La conversazione prosegue toccando anche la politica. «Io ero critico col regime jugoslavo, ma vivevo un momento spensierato della mia vita e non volevo essere causa di discussioni in famiglia, quando eravamo a Fiume. Lì si evitava di discutere di politica, si parlava più che altro di famiglia e di ricordi. Invece i figli di mio zio Mario fra di loro avevano accese discussioni per motivi politici, io mi tenevo volutamente fuori da quel contesto, mi limitavo a osservare. E’ incredibile come la guerra ha cambiato i destini di una famiglia: io avevo tre zii, cognati di mia madre, che hanno avuto tre cognomi diversi. Il primo, lo zio Romano Bradicich, partì in camicia nera alla conquista dell’Abissinia e si fece ben 11 anni di prigionia sotto gli inglesi, ha vissuto anche lui a Verona. Suo fratello Anselmo era andato a fare il comandante delle navi da crociera a Genova e aveva cambiato il cognome in Bradini, non volendo avere più niente a che fare con le terre natìe. L’ultimo fratello, un comunista in buona fede, era andato partigiano, era rimasto in Jugoslavia e il suo cognome era Bradicic, alla croata. Ci sarebbe da fare un film su una storia così». Siamo quasi a Milano e la nostra conversazione arriva al dunque. «Guarda, la nostra storia non interessa a nessuno in Italia. Negli ultimi tempi, grazie al Giorno del Ricordo e alle altre iniziative che sono sorte (penso allo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi che ha aperto gli occhi ad almeno un milione di persone) si è incominciato a fare un po’ di luce sulla tragedia degli esuli e sull’orrore delle foibe. In Italia c’è una visione camaleontica della storia, basti pensare alla lapide che c’è alla stazione di Bologna per ricordare il passaggio del treno dei profughi dall’Istria, quando attivisti comunisti buttarono sui binari i panini e il latte per i bambini preparato da organizzazioni caritatevoli. Su quella lapide c’è scritto che ci furono incomprensioni. Finchè quella parte politica che ha sempre visto i profughi come fascisti, per il solo torto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito, non capirà di avere completamente sbagliato le sue considerazioni, non si potranno fare passi in avanti. E quella lapide è lo specchio di come stanno le cose. Si celebra l’epopea partigiana come ricetta salvifica per l’Italia, dimenticando un po’ troppo spesso che senza l’aiuto americano non si sarebbero potuti cogliere i risultati raggiunti. Qui tutti hanno la memoria corta, se si pensa che fino a poco tempo fa era una prassi quella di bruciare bandiere americane in certe manifestazioni di piazza; fortunatamente ora questi episodi sono più rari ma bisogna continuare a restringere sempre più gli spazi a certi inutili e idioti estremismi. Per i nostri morti sono sempre stati utilizzati due pesi e due misure, gli infoibati ammazzati dai comunisti titini non hanno mai avuto la stessa considerazione di cui hanno goduto gli ebrei ammazzati dai nazisti nei campi di concentramento. Per questioni di real-politik, comunisti e democristiani hanno fatto a gara nel tentativo di seppellire tutta la vicenda delle terre perdute in Istria e Dalmazia, escludendo questa parte di storia italiana dai libri di storia delle scuole, facendone divieto di parlarne in pubblico. Gli unici che parlarono di quelle vicende furono i partiti di destra, che spesso lo fecero per ottenere dei vantaggi elettorali, con questo però dando poi ragione a chi sosteneva che gli esuli e i profughi erano tutti fascisti. E’ come un cane che si morde la coda, sembra che non ne verremo mai fuori, ma la Giornata del Ricordo, le testimonianze sempre più diffuse e i passi compiuti finalmente da certi politici verso la verità storica tengono accesa la mia speranza e quella di tanti esuli di essere considerati perseguitati alla pari con gli altri. Coloro che lasciarono quelle terre per me sono degli eroi, soprattutto per quanto hanno subito dopo il rientro in Italia e sono italiani due volte, la prima per nascita e la seconda per scelta».

Vivere sotto perenne giudizio. Ognuno di noi, durante la sua esistenza, perennemente, è sempre sottoposto al giudizio degli altri ed a questo deve essere conforme. In famiglia i genitori hanno l’obbligo di educare ed istruire i figli secondo canone generale. A scuola si insegna subdolamente la dottrina di Stato: quella laicista e di sinistra. Nei concorsi pubblici o negli esami di Stato si è sottoposti al giudizio di canoni di Stato attraverso commissari divenuti vincitori o abilitati in virtù del trucco. Nei rapporti confessionali ci si deve attenere al dettato religioso interpretato. Viviamo tra il martello del clericalismo e l’incudine dell’anticlericalismo. In questa democrazia menzoniera non c’è spazio per la libertà.

SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.

La BBC conferma: l’Inquisizione una truffa culturale per colpire la Chiesa. Addio ad uno dei suoi grandi calunniatori, Umberto Eco, scrive il 21 febbraio 2016 antimassoneria. Se oggi pensare al medioevo e alla Chiesa dell’epoca alla maggior parte del popolo poco informato vengono subito in mente roghi, streghe, superstizione e barbarie di tutti i generi lo dobbiamo sicuramente alla massoneria: si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, o almeno quella storia ricca di reticenze, omissioni, spesso di vere e proprie falsità; accuse che si continuano a scagliare anche a distanza di molti secoli. Infatti, una ricerca storica al di fuori dei libri di testo ci dà un quadro chiaro -e del tutto diverso come vedremo- da quello cosiddetto ufficiale. Il 19 Febbraio 2016 se ne va uno dei grandi calunniatori e mistificatori del medioevo e soprattutto, della Chiesa e della Santa Inquisizione. E così Umberto Eco pieno di sè fino all’orlo ha dovuto piegarsi anche lui davanti al ciclo naturale della vita, e alla natura come Dio l’ha creata, a cosa gli è servita tanta superbia se anche lui, “filosofo illuminati”, ha dovuto piegarsi-come i tutti i comuni mortali- alla sua ora? Il suo romanzo “Il Nome della Rosa” è uno dei libri più venduti di tutti i tempi insieme al “Codice da Vinci” di Dan Brown e a “50 sfumature di Grigio”, ciò la dice lunga sui gusti dei lettori occidentali, che sembrano chiedano: “ci vuole meno fede e ci vuole più sesso”. Ateo incallito, Eco ha fatto del suo meglio per trascinare il pubblico mondiale in direzione delle sue vedute personali contro la Cristianità, anche se questo ha significato mentire senza scrupoli. Umberto Eco – intervistato dal Corriere in occasione degli eventi di Charlie Hebdo– si schierò in favore della cancellazione di tutte le religioni, portatrici, secondo lui di odio e di distruzione, appoggiando in pieno il piano di dell’Unica Religione Globale in piena sintonia coi signori del potere e della globalizzazione. Non una parola ovviamente sulle cause reali di questi attentati, -che di islamico, a dir la verità hanno poco o nulla,- ma a questi eventi verranno contrapposti quelli della Santa Inquisizione, come dire? Due false flag a confronto. E fu così che anche Eco ha dovuto chiudere gli occhi e passare dall’aldilà, se abbia invocato la Divina Misericordia– l’unica possibilità di salvezza- non lo sapremo mai, ma sappiamo per certo che le sue menzogne, i suoi romanzi e le sue affermazioni continueranno ad essere riprese dai grembiulini (o massoni senza grembiule) che continueranno a servirsene per attaccare ingiustamente la Chiesa Cattolica e i suoi fedeli.  

Introduzione a cura di Floriana Castro Testo in basso tratto da Appuntiitaliani.com. (Le foto riportate nell’articolo sono tratte dal dalla versione cinematografica de “Il nome della Rosa” di Jean-Jacques Annaud. Raffigurano il falso scenario medievale che si è inculcato nella mente del popolo medio: volti raccapriccianti, torture, donne innocenti accusate e scene di sesso tra presunte streghe e monaci, la più grande mistificazione di tutti i tempi). Finalmente un documentario della BBC, una fonte sicuramente non di parte Cattolica, che smonta il mito sulla Santa Inquisizione con il quale la Chiesa Cattolica è stata calunniata per secoli. Tutto falso signori, è tutto falso. La Chiesa non è quel covo di torturatori sadici depressi e maniaci che ha compiuto stragi, anzi, questa accusa torna al mittente, ossia la propaganda rivoluzionaria francese, i protestanti, gli inglesi anglicani che hanno attaccato la Chiesa Cattolica con accuse infamanti coprendo invece i loro misfatti. Ebbene sì, sono loro i torturatori sadici depressi e maniaci che hanno ucciso e torturato civili soprattutto Cattolici in quanto oppositori dei loro regimi. Basti pensare ai 2 milioni di francesi uccisi dalla massonica Rivoluzione Francese, ai Vandeani trucidati, ai Cattolici perseguitati in Inghilterra, facendo 70.000 vittime. Un clima di terrore quotidiano, ghigliottine, carceri, omicidi e genocidi. Questi sono coloro che accusano gli altri di colpe che invece sono le loro. Forza Cattolici, non fatevi intimidire, la Chiesa non deve chiedere scusa di niente e tantomeno bisogna vivere in soggezione per un presunto passato oscuro. Lo stesso Napoleone, invasa la Spagna, credeva di trovare archivi insanguinati ed invece non trovò niente. Forse avrebbe dovuto indagare sui suoi fratelli a Parigi. Vorrei proporvi questo interessante articolo che riassume i nuovi studi storici sulla cosiddetta leggenda dell’Inquisizione Cattolica, uno dei cavalli di battaglia della Massoneria ma soprattutto del Protestantesimo anglosassone fresco di tradimento nei confronti di Roma ed in competizione con l’egemonia del nascente Impero Spagnolo. Altro interessantissimo documento a supporto dei fatti è il documentario della BBC inglese -fonte sicuramente non di parte Cattolica- che dimostra come i fatti storici siano stati ingigantiti e manipolati in chiave anticattolica dalla propaganda protestante. Naturalmente i cavalieri anticattolici si stracciano le vesti e si inneggiano a difensori della dignità umana solo quando si tratta della storia del Cattolicesimo, dimenticandosi invece delle colpe ben più gravi e maggiori per esempio di Lutero che perseguitò i Cattolici e  fece uccidere 100.000 anabattisti, oppure  degli eccidi  di  Cattolici da parte dell’anglicanesimo, e non dimentichiamo i 2.000.000 di francesi, il 10% della popolazione delle Francia  inclusi i 600,000 Vandeani,  uccisi durante la Rivoluzione Francese, la quintessenza della libertà  e della superiorità anticlericale  ed invece dimostratasi la madre di tutte le dittature. E che dire del Comunismo che fece 100 “milioni” di morti nel mondo, dei quali 30 “milioni” solo in Russia, per i quali però non c’è memoria nè si grida allo scandalo? Per non parlare del genocidio armeno e quello in corso di Cristiani in medio oriente. Nessuna menzione riguardo agli eccidi dell’impero Azteco che sacrificava la popolazione con riti propiziatori  in quantità industriale fino a raggiungere i 30.000 morti ogni anno e che giustamente sono stati travolti dagli spagnoli che hanno letteralmente liberato la popolazione locale da tale tirannia satanica, non solo si vorrà vedere quei territori liberati da quel male, ma si accuserà persino il condottiero spagnolo, Hernan Cortes di inciviltà e barbarie contro quel civile e pacifico popolo. Ma si sà, l’unica liberazione accettabile è quella della dittatura liberale che ha portato guerra in Europa negli ultimi tre secoli ed ora   bombarda civili per esportare la falsa democrazia, nel silenzio totale dei sostenitori degli eroi che avrebbero liberato il mondo dalla millantata tirannia della Chiesa Cattolica

Streghe e Inquisizione: la verità storica oltre i luoghi comuni, di Bartolo Salone. Quando si parla di caccia alle streghe, nell’immaginario collettivo è immediato l’accostamento all’Inquisizione cattolica. Centinaia di migliaia, anzi milioni di donne sarebbero state sterminate per colpa di quell’esecrabile Istituzione, che certa storiografia liberal ci ha abituati a vedere come un covo di fanatici e integralisti religiosi assetati di sangue. Ma sono andate veramente così le cose? La ricerca storica, di recente, ha ribaltato questa prospettiva, dimostrando la falsità di una delle più diffuse “leggende nere” anticattoliche. Possiamo definire la stregoneria come quell’insieme di pratiche che una persona, in particolare relazione col Maligno, possa esercitare per nuocere ai suoi simili (secondo la credenza popolare). Benché si parli sovente di streghe e di caccia alle stesse, in realtà – come risulta dai documenti storici – la persecuzione riguardò, seppur in misura più ridotta, anche gli uomini e, in qualche raro caso, perfino i bambini. Contro un diffuso luogo comune di stampo femminista, va dunque rilevato come la “caccia” non era rivolta al sesso femminile in quanto tale, nascendo invece da una più generale ossessione per il diabolico. Ossessione – e qui va sfatato un altro luogo comune – sorta non nella Cristianità medievale, bensì nell’Europa moderna, proprio in quella osannata Europa della Riforma e del Rinascimento. Se nel Medioevo la credenza nella stregoneria non attecchì presso il popolo si deve proprio alla Chiesa cattolica, la quale, in numerosi Concili dal VI al XIII secolo (si pensi al Concilio di Praga del 563 o di Lione dell’840, fino ad arrivare ai Concili di Rouen e di Parigi, rispettivamente celebrati nel 1189 e nel 1212), condannò come superstiziosa idolatria la credenza che esistessero persone capaci di esercitare la magia nera in forza dei loro rapporti con il diavolo. A partire dalla fine del XIII secolo, le credenze stregonesche, per ragioni storiche che in questa sede non è possibile riepilogare, si fanno sempre più diffuse sia presso il popolo che presso alcuni ecclesiastici ed uomini di cultura. Sul piano dogmatico la posizione ufficiale della Chiesa sulla stregoneria (formulata nei predetti Concili) non muta, tuttavia muta la risposta al fenomeno: streghe e stregoni, proprio perché contravvengono agli insegnamenti della Chiesa e al divieto di esercitare le arti magiche, vengono considerati alla stregua degli eretici, e pertanto la competenza giurisdizionale, nei Paesi cattolici, viene sottratta ai tribunali civili e assegnata ai tribunali inquisitoriali. Secondo una certa vulgata (sostenuta con forza da intellettuali “liberal” e da romanzieri asciutti di storia alla Dan Brown) questo avrebbe segnato l’inizio di una vera e propria mattanza, che nell’arco di tre secoli avrebbe portato al rogo non migliaia, ma addirittura milioni di donne (tutte ascrivibili, manco a dirlo, al fanatismo e alla misoginia propri del mondo cattolico). Fin qui la “leggenda”. La verità è però ben diversa e per rendercene conto basterà riferirsi ad alcuni dati tratti dall’opera più completa ed aggiornata di cui ad oggi si dispone in tema di stregoneria e di caccia alle streghe: si tratta della “Enciclopedia della stregoneria, la Tradizione occidentale” edita nel 2007 dalla Abc-Clio e curata dallo storico anglosassone Richard Golden, per un totale di ben 752 voci, compilate da 172 studiosi di 28 diverse nazionalità. Innanzitutto, facciamo attenzione alla periodizzazione e alla “geografia” del fenomeno: la cosiddetta “caccia alle streghe” (ma, come visto, non mancarono anche roghi di stregoni) va dal 1450 al 1750 (siamo dunque in piena età moderna, non nel “buio” Medioevo) e interessò un po’ tutti i Paesi europei, sia cattolici che protestanti. Quante le persone giustiziate per stregoneria? Centinaia di migliaia o milioni, come ci ripetono alcuni? Ebbene, la cifra “vera” si aggira tra le 30.000 e le 50.000 unità, da “spalmare” nel corso di tre secoli: una cifra considerevole, ma comunque irrisoria se paragonata ai milioni di morti delle grandi rivoluzioni e guerre dell’800 e delle stragi del ‘900, e in ogni caso non tale da giustificare la definizione di “genocidio” né tantomeno di “olocausto”. Un fenomeno prevalentemente cattolico, dovuto alla furia dei tribunali inquisitoriali? Anche questa è una falsità bell’e buona. Infatti nei Paesi che avevano l’Inquisizione, le “streghe” giustiziate furono soltanto 310 (precisamente, 300 in Italia e Spagna e soltanto 10 in Portogallo), a cui si aggiungono (per rimanere in ambito cattolico) i 600 casi della Francia e i 4 dell’Irlanda. La grande massa (tra le 15.000 e le 25.000 vittime) è concentrata in Germania, mentre la piccola Svizzera contribuì al massacro con 3.000, la Scandinavia con 2.000 e la Scozia con 1.000. Si ha quindi conferma che la mattanza fu concentrata soprattutto nei Paesi luterani, calvinisti, anglicani o in quei piccoli Stati tedeschi che non avevano l’Inquisizione cattolica. Dunque, l’Inquisizione costituì non un incentivo (come a lungo ci è stato fatto credere), bensì un freno (e molto efficace) contro la persecuzione delle “streghe”. Le ragioni ci sono spiegate dallo storico Richard Golden in questo modo: “Nelle terre dove regnava la legge dell’Inquisizione cattolica vi furono meno vittime rispetto ad altre regioni d’Europa. Questo si deve al fatto che le tre Inquisizioni applicavano regole omogenee ovunque, avevano propri tribunali composti da giudici con nozioni basilari di diritto e applicavano la legge seguendo canoni universali, rispondendo a un unico potere. In Germania, invece, dove si ebbe il numero più alto di streghe uccise, la realtà era opposta: ognuno degli oltre trecento principati e staterelli aveva un sovrano con un suo tribunale che applicava la legge a piacimento e di conseguenza i pericoli per le presunte streghe aumentavano. I tribunali laici del nord e del centro dell’Europa condannarono a morte molte più streghe di quanto fecero quelli dell’Inquisizione cattolica romana, che facevano maggiore attenzione al rispetto di garanzie legali e di conseguenza limitavano il ricorso alla tortura”. Non penso ci sia bisogno di aggiungere altro, se non che da cattolici realmente maturi e amanti della verità dovremmo imparare ad andare oltre certi luoghi comuni e a guardare con più serenità ed obiettività al nostro passato. E non solo per un dovere di carità verso quanti ci hanno preceduto nella fede, ma anche per saper rispondere a ragion veduta a quanti vorrebbero farci vergognare della nostra fede presentandoci una visione parziale e in molti casi deformata della storia della Chiesa. Introduzione Floriana Castro testo seguente tratto da appuntiitaliani.com

L’eresia, la propaganda e la leggenda della chiesa assassina. La Santa Inquisizione, scrive il 29 agosto 2015 antimassoneria. Sicuramente alcuni lettori al semplice suono della parola “medioevo” avranno già davanti scenari cupi e tenebrosi di cumuli di cadaveri ammassati sui carri nel periodo della peste bubbonica o i roghi della chiesa assassina! Quando parliamo di Inquisizione è proprio il caso di dire: basta la parola. Basta pronunciare il termine Inquisizione ed ecco che noi cattolici restiamo senza parole, ammutoliti. Beh, la chiesa non è più come quella di una volta, oggi i papi non fanno altro che inchinarsi e chiedere perdono davanti a chi ha perseguitato impenitentemente la Chiesa di Cristo. Oggi i papi prendono le distanze dalla tenacia con la quale i loro predecessori hanno difeso l’etica cristiana. Suppliche di perdono che tra l’altro non vengono nemmeno accettate -come nel caso dei valdesi-, che si scissero dalla Chiesa rifiutando la sottomissione alle autorità episcopali ed in seguito combatterono ferocemente la Chiesa Cattolica, anche con la violenza: Essi si diedero alla rapina, al saccheggio, alle stragi di cattolici, a violenze gratuite di ogni genere nel corso dei secoli. Fino a poco più di cent’anni fa misero a punto vari attentati con lo scopo di assassinare San Giovanni Bosco. Invano il vescovo Bellesmaius li richiamò all’ordine. Il papa Lucio III finì per condannarli, nel concilio di Verona e nella Bolla Ad abolendam, del 4 novembre 1184. In seguito i valdesi si organizzarono come setta separata dalla Chiesa. Dallo scisma passarono presto all’eresia. Molto più tardi, verso il 1533, adottarono le principali dottrine della Riforma protestante: Fu questo ad attirare su di essi le repressioni legali sotto Francesco I. Essi furono allora, per ordine del Parlamento di Aix-en-Provence, le vittime di una tremenda spedizione punitiva, durante la quale vi furono migliaia di morti (le cifre variano fra 800 e 4.000 per 22 villaggi distrutti). Oggi i Valdesi si dichiarano ecumenici e desiderosi di collaborare nella Chiesa targata “Vaticano II” dopo aver chiarito alcuni punti teologici con Bergoglio, ricordiamo i punti teologici sulla quale si basano i valdesi: matrimoni gay, sostegno a movimenti LGBT, contraccezione, aborto, eutanasia, testamento biologico (i cui registri, in diverse città, sono gestiti proprio dai valdesi). Chiudiamo la parentesi dei valdesi; andiamo al cuore del problema: cosa ha fatto la chiesa per difendere la sua dottrina nel passato? Davvero gli scenari erano quelli descritti nel libro “Il nome della rosa” di Umberto Eco? E’ vero che tante povere donne innocenti venivano date al rogo solo per tenere un gatto nero in casa? “Come è possibile che la Chiesa cattolica sia stata capace di istituire i tribunali dell’Inquisizione?” domandano e ci ricordano i laicisti e gli avversari della Chiesa. E noi, spesso, non sappiamo che cosa rispondere. Anzi, molti cattolici spesso per ignoranza accusano i cristiani del passato, chiedendo scusa alle presunte vittime. Scusa? Ma conoscete la Santa Inquisizione?

COSA FU L’INQUISIZIONE? L’inquisizione è l’argomento privilegiato dai signori della sovversione per denigrare la storia della Chiesa e con questo pretesto anche la fede cattolica. La Santa Inquisizione fu istituita da Papa Gregorio IX nel 1232, per reprimere eresie, sacrilegi, stregonerie e gravi delitti. Quando ci si trovava davanti a delitti gravi e gli accusati non si pentivano, erano consegnati all’autorità civile, che li castigava secondo la legge. Ovviamente bisogna giudicare le cose secondo la mentalità dell’epoca. In Europa erano tutti obbligati a seguire la religione del re, secondo il principio “CUIUS REGIO, EIUS ET RELIGIO” (di chi è la regione, dello stesso è la religione) per cui un delitto nel campo religioso (eresia) era considerato come attentato contro lo Stato, che interveniva con tutto il peso della legge. Ad accendere i roghi furono prima la gente comune e poi le autorità, tanto che la Chiesa dovette intervenire per avocare a sé il problema. Cioè: in tema di religione solo la Chiesa ha la competenza necessaria nonché la misericordia occorrente affinché sul rogo non ci finisca qualche sprovveduto. Perciò creò l’Inquisizione, un tribunale di esperti teologi con tanto di garanzie che accertava che l'“eretico” fosse veramente tale e non un poveraccio tratto all’eresia da ignoranza. Se l’imputato persisteva nelle sue “idee”, la Chiesa non poteva fare più nulla per lui e passava la mano all’autorità civile. Pertanto, servirsi di questo fatto per attaccare il cattolicesimo e la sua dottrina è storicamente scorretto. Ricordate quanti cristiani furono dati in pasto ai leoni? quanti cristiani furono decapitati ai tempi della Roma pagana? Come mai nessuno ricorda le vittime cristiane sacrificate in nome della “libertà, uguaglianza e fraternità”? E le vittime cristiane durante gli anni 30 in Spagna? e le vittime causate dal Comunismo in Russia e in tutti i paesi comunisti? E i cattolici martirizzati ai tempi dell’istituzione dell’Anglicanesimo in Inghilterra, come si può dimenticare ciò?  Anche perchè stiamo parlando di ben 70.000 martiri uccisi per impiccagione e squartamento che avveniva prima della morte per soffocamento,- Beh, a me non sembra corretto non ricordare mai nemmeno le vittime causate dall’inquisizione protestante, numero assai superiore di quella Spagnola.  Non c’è obiettività…mi sembra ovvio che il bersaglio da colpire è sempre la chiesa cattolica e la sua dottrina. E' abitudine citare il processo e l’atto di abiura di Galileo Galilei, sospettato di eresia.  Il conflitto che egli stava affrontando contro una parte della Chiesa riguardava l’interpretazione di Galileo verso alcuni passi biblici che sostengono l’immobilità della terra e del movimento del sole distorti a favore dell’eliocentrismo. Consideriamo che la Chiesa prima delle prese di posizioni di Galileo era stata favorevole all’ “ipotesi copernicana”. Si evita di chiarire che dopo il processo Galileo non finì sul rogo, ma fu trasferito presso l’arcivescovo di Siena, dopo pochi mesi gli fu concesso di trasferirsi presso la sua abitazione. Pochi conoscono il “segreto” del processo alla quale fu sottoposto Galileo. Proprio di questo “caso” parla il libro “Lezioni da Galileo” recentemente pubblicato da APRA in italiano, scritto dal celebre storico della scienza Stanley Jaki (scomparso nel 2009). Jaki ha smontato diverse leggende, chiarendo che la Chiesa non era affatto interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé e che non lo temeva affatto. Anche perché, come abbiamo scritto, già quattro secoli prima di lui san Tommaso d’Aquino (1225-1274) disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva. Inoltre, diversi pontefici, come Leone X e Clemente VII, si mostrarono aperti alle tesi del sacerdote cattolico Copernico (nessun “caso Copernico”, infatti), tanto che nell’Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana (e lo stesso Galilei ne era consapevole). Nel 1533 papa Clemente VII, affascinato dall’eliocentrismo, chiese, ad esempio, a Johann Widmanstadt di tenergli una lezione privata sulle teorie di Copernico nei Giardini Vaticani. L’opposizione all’eliocentrismo venne invece in modo compatto dal mondo protestante, tanto che Lutero scrisse di Copernico: «Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica». Ancora oggi i protestanti hanno grossi problemi con il mondo scientifico (creazionismo Vs evoluzione) a causa della mancanza di interpretazione della Bibbia. La critica a Galileo da parte della Chiesa fu basata invece dalla mancanza di prove sufficienti a favore dell’eliocentrismo e dunque sulla sua inopportuna presentazione come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. Galilei, inoltre, utilizzò come unica prova l’argomento dell’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare (e avevano ragione loro, non certo lo scienziato pisano). Tuttavia molti ecclesiastici erano d’accordo con Galilei, come ha perfettamente spiegato lo storico ateo Tim O’Neill, «tutta la vicenda non era basata su “scienza vs religione”, come recita la favola della fantasia popolare.

QUANTE VITTIME FECE L’INQUISIZIONE? Nell’immaginario popolare si pensa che i tribunali dell’Inquisizione siano stati istituiti per mandare tutti gli eretici al rogo. Si pensa che tutti gli inquisiti, tutti coloro che cadevano nelle terribili braccia dell’inquisitore finivano al rogo. Questo è quello che si pensa, questo è quanto molto spesso ci viene detto ed insegnato e affermazioni di questo genere zittiscono ogni possibile difesa. Noi ci domandiamo: le cose stanno proprio così? Vediamo qualche dato storicamente documentato, che ci aiuti a formulare un giudizio più vicino alla verità storica. Innanzitutto, ricordiamo che la condanna al rogo per gli eretici era una pena stabilita dal diritto penale e non dal diritto canonico. Non esiste nel diritto canonico la condanna al rogo. Fu l’imperatore Federico II di Svevia, che dichiarò per tutto l’impero – e lui era la massima autorità dell’impero e poteva farlo, allora, – l’eresia come crimine di lesa maestà, e stabilì la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole. Dunque, è vero che quando il tribunale dell’Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva, ma non era la Chiesa a condannarlo a morte, nè era la Chiesa ad ucciderlo. La Chiesa si limitava a riconoscerlo come eretico che rifiutava ogni pentimento. Era il diritto penale e il braccio della legge che prevedevano la morte ed eseguivano la sentenza. Detto questo, entriamo un po’ nel merito e qui emergono sorprese: quale stupore ci coglie tutti se esaminiamo quante sono state le condanne al braccio secolare. L’esame dei dati ci indica che i tribunali dell’Inquisizione furono molto prudenti nel consegnare gli eretici al braccio secolare. I dati, documentati storicamente, non mancano, basta conoscerli. Facciamo l’esempio di Bernardo Gui, che ha esercitato con una certa severità l’ufficio di inquisitore a Tolosa. Bene: dal 1308 al 1323 egli ha pronunciato 930 sentenze. Abbiamo l’elenco completo delle pene da lui inflitte: 132 imposizioni di croci – 9 pellegrinaggi – 143 servizi in Terra Santa – 307 imprigionamenti – 17 imprigionamenti platonici contro defunti – 3 abbandoni teorici al braccio secolare di defunti – 69 esumazioni – 40 sentenze in contumacia – 2 esposizioni alla berlina – 2 riduzioni allo stato laicale – 1 esilio – 22 distruzioni di case -1 Talmud bruciato – 42 abbandoni al braccio secolare e 139 sentenze che ordinavano la liberazione degli accusati. Soltanto l’ 1% ! Questi dati contestano il mito della crudeltà dell’Inquisizione spagnola. E non solo. Lo storico statunitense Edward Peters ha confermato questi dati. Sentiamo che cosa scrive: “La valutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari”. Come vedete, grazie a questi dati, va sfatata la leggenda che tutti coloro che venivano giudicati dall’ inquisizione finivano a rogo. È una leggenda che gli storici hanno smontato, ma che perdura ancora nell’immaginario popolare. Nei documenti inquisitoriali, abbiamo incontrato condanne alla prigione “perpetua e irremissibile”. Ma attenti a non farsi ingannare da certi modi di esprimersi del tempo. Abbiamo condanne al “carcere perpetuo per anni uno”. Solitamente “perpetuo” vuoi dire 5 anni, “irremissibile” vuoi dire 8 anni. La pena dell’ergastolo non era prevista.

CHI ERANO QUESTI CITTADINI CHE L’IMMAGINARIO VUOLE ESSERE STATI PERSEGUITATI PER LE LORO IDEE RAZIONALI? QUALI ERANO QUESTE IDEE? Ora, diciamo subito una cosa molto scomoda e fuori moda: non si deve pensare come è abbastanza diffuso nell’immaginario popolare che i condannati fossero pacifici cittadini adibiti a pratiche religiose del tutto innocue e le donne delle pie sante devote accusate ingiustamente senza alcuna prova, non e’ affatto la verità! essi erano in realtà colpevoli di praticare stregoneria e omicidi rituali, basti pensare a quante donne improvvisate ”ostetriche” compivano aborti fino alle ultime settimane di gravidanza per poi sacrificare i resti delle povere creaturine in rituali satanici. Gli eretici spesso costituivano un autentico pericolo per la pace sociale. Pensiamo ai Catari. Condannavano il matrimonio, la famiglia e la procreazione. Per i Catari non bisognava comunicare la vita, ma distruggere la famiglia, in poche parole: distruggere l’intera società medievale, lottavano anche con violenza contro la Chiesa. Negavano il valore del corpo, che consideravano prigione dell’anima. Questa soffre e si può liberare solo sopprimendo il corpo. Talvolta praticavano il suicidio e istigavano a compierlo, causavano rivolte e caos. I catari erano potenti e privi di scrupoli. L’autorità civile non intendeva permettere che, a furia di vietare la procreazione, l’umanità si estinguesse (tra l’altro, i catari proibivano il giuramento, che era la base della società feudale). Ben pochi sanno tutto questo. I settari sorvegliano attentamente e si affrettano ad intervenire perciò onde soffocare ogni timido accenno (non oseremmo mai parlare di restaurazione cattolica dopo il Vaticano II) di rievocazione della grandezza dell’Europa medioevale: la Leggenda Nera dei secoli caliginosi e bui deve essere mantenuta e un torrente di anatemi è scagliato ogniqualvolta si cerchi di metterla in discussione. Eloquente in proposito un articolo comparso nel maggio 1990 sul New York Times – testata giornalistica di proprietà della ricchissima famiglia ebraica dei Sulzberger – a firma di Dominique Moisi, vicedirettore dell’IFRI, l’Istituto per gli Affari Internazionali francese, intitolato: “Uno spettro ossessiona l’Europa: il suo passato”. Vi si dice: “Disgraziatamente (ora che l’Est si è liberato), nell’ombra esiste un’altra Europa, dominata da uno spirito di ritorno alle sue cattive inclinazioni di un tempo, nei richiami alle nere tentazioni della xenofobia, del razzismo e dello sciovinismo”. “[…] Noi non dovremmo sognare di ricostruire un’Europa cristiana sulle ceneri del mondo comunista o nei limiti di un certo capitalismo. L’Europa che Giovanni Paolo II desidera è quella nella quale la maggioranza degli Europei non si troverà molto a suo agio. La Chiesa – che storicamente è responsabile dell’antisemitismo – non saprà offrire soluzioni a una nuova Europa; soltanto i valori umanisti e le istituzioni democratiche sapranno farlo. O altrimenti il muro di Berlino sarà caduto invano”. Non esiste, né può esistere, una società che non si basi su un corpus strutturato di idee (chiamateli, se volete, valori, princìpi, religione civile) e che non lo difenda se vuole continuare a sussistere, ieri come oggi (basti pensare alle leggi sull’omofobia). (Il corriere della sera equipara l’ISIS ai roghi dell’Inquisizione). Eh si, che fortuna che abbiamo, i tempi sono cambiati, adesso non siamo più nel medioevo. Oggi paghiamo il 50 per cento dei nostri introiti ai prestatori di capitale, mentre nel medioevo il cittadino doveva solo la decima alla Chiesa o al feudatario. Oggi si può liberamente bestemmiare senza vergogna, si può ostentare con orgoglio il peccato, e si possono esigere diritti per i suoi perpetratori; si possono aprire pagine blasfeme su Facebook (in linea con i termini della community) create appositamente affinchè ognuno scriva la propria bestemmia sulla pagina; si possono tranquillamente ammazzare i propri figli nel ventre materno con la benedizione delle istituzioni e i soldi dei contribuenti; si può tranquillamente essere iniziati al satanismo comodamente da casa; ci si può arruolare tra i miliziani dell’ Isis con dei semplici click davanti ad un computer… Un uomo senza radici, infatti, privo di riferimenti, senza terra, senza uno scopo di vita diverso dal piacere e dall’accumulo di beni materiali fine a se stesso, è esattamente il prototipo ricercato dai mondialisti, docile burattino massificato, le cui pretese non travalicano il benessere biologico e la cui visione del mondo – solo a prima vista ampia, essendo egli una specie di apolide senza tradizioni. Che fortuna che abbiamo noi ad essere nati in una società così moderna ecumenica e progressista! 

ANTICLERICALISMO e la Chiesa in Italia. Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia. Volume I - Dalle Origini All'Unità Nazionale. Voce pubblicata il 14/01/2015. Autore: Antonio Trampus. L’espressione anticlericalismo indica generalmente un complesso di idee e di atteggiamenti opposti polemicamente alle posizioni del clero cattolico espresse attraverso il clericalismo e il confessionalismo. L’aggettivo anticlericale, nel senso proprio di chi è ostile al clero, inizia a comparire nella lingua italiana alla metà del XIX secolo, divenendo poi di uso più comune negli anni sessanta e ottanta attraverso periodici come L’anticlericale. Giornale settimanale pubblicato dalla lega popolare anticlericale di Milano (1883) e il saggio di C. Lupano, La gran questione del nostro secolo: clericalismo e anticlericalismo (1889). In questo contesto il clericalismo era identificato nel governo temporale della Chiesa in Italia e l’anticlericalismo, quindi, rappresentava la sintesi delle posizioni di coloro che combattevano questo potere e si battevano per l’unità d’Italia attraverso la scomparsa dello Stato pontificio e con Roma capitale. In senso più ampio, l’espressione anticlericalismo nella cultura contemporanea italiana ha finito per indicare retrospettivamente ogni atteggiamento critico nei confronti del clero cattolico e ogni sua tendenza a estendere la sua influenza nell’ambito della società civile e dello Stato, sin dal tardo Medioevo e dalla prima età moderna. Vi vengono riassunte, quindi, tutte le tendenze razionaliste confluite nella cultura libertina di fine Seicento e in quella illuministica del Settecento. Emblematico e precorritore delle idee anticlericali appaiono, in questo senso, gli orientamenti deisti da chi, come Voltaire, sosteneva la necessità di un credo morale, di una religione naturale e di una concezione di Dio che rifiutava tanto le Chiese organizzate, quanto il loro arbitrio sui temi della superstizione e della tolleranza nonché la corruzione e la cupidigia dell’ordine sacerdotale di Antico Regime. Si tratta di atteggiamenti presenti anche in una parte della cultura illuministica italiana e in particolare negli scritti di Carlantonio Pilati e nei suoi atteggiamenti, vicini al panteismo, espressi in Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia (1767), ove si rinviene un intero capitolo dedicato alla necessità di impedire al clero di abusare del suo potere a danno dello Stato e dei suoi cittadini. Un diverso tipo di anticlericalismo è stato poi individuato storiograficamente nelle posizioni di quanti, in età moderna e dall’interno della Chiesa cattolica, si fecero portatori di esigenze di rinnovamento e di riforma che riportassero il cristianesimo ai suoi valori originari, recuperando i caratteri di umiltà e di carità propri del ministero ecclesiale e rivendicando l’immagine di una Chiesa semplice e povera, come sostenuto anche dai giansenisti. Le origini politiche dell’anticlericalismo risalgono invece alla rivoluzione francese, quando per la prima volta venne costruito un ordinamento statale laico, divenuto nell’Ottocento un modello per quanti si trovarono a combattere l’alleanza fra il trono e l’altare e la coalizione militare rappresentata dalla Santa Alleanza. In questo contesto l’anticlericalismo incontrò le istanze del laicismo e divenne strumento di lotta politica anche attraverso l’esperienza della Carboneria e della massoneria, soprattutto dopo la vicenda della Repubblica romana del 1848-49 e il rafforzamento dell’opposizione antipapale. Nel Regno di Sardegna, nell’agosto 1848, venne soppresso l’ordine dei Gesuiti e tutti i collegi vennero destinati ad usi militari, con una decisione ben presto imitata da altri Stati italiani. Posizioni anticlericali e antitemporaliste si ritrovano in scrittori come Giovanni Battista Niccolini, Francesco Domenico Guerrazzi e Giuseppe La Farina e nella dimensione filosofica e spirituale di Giuseppe Mazzini. Con le leggi Siccardi (1850, 1855) vennero poi aboliti i privilegi del clero nel Regno di Sardegna, tra cui il foro ecclesiastico, il diritto di asilo e la manomorta fino a che, nel 1855, si giunse su iniziativa di Cavour all’abolizione di tutti gli ordini religiosi privi di utilità sociale e al conferimento dei loro beni nella Cassa ecclesiastica. Le cosiddette leggi eversive degli anni 1866-1867 stabilirono infine incameramento nel Demanio dello Stato di tutti i beni appartenenti agli enti soppressi, fra cui le congregazioni religiose, e la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui per la vita religiosa con eccezione dei seminari, delle cattedrali, delle parrocchie e dei canonicati. Con la questione romana l’anticlericalismo divenne un orientamento condiviso da differenti correnti politiche, sia liberali e moderate, sia democratiche, incrociando anche istanze provenienti dalla massoneria. In particolare, la polemica venne assumendo caratteri di radicalità concentrandosi sul potere temporale dei papi, sul clero regolare (specie i Gesuiti, ricostituiti con la Restaurazione) e sul controllo della scuola da parte del clero, almeno fino alla promulgazione delle leggi volute dalla Destra storica. Si tratta di atteggiamenti ripresi e resi popolari anche da Giuseppe Garibaldi attraverso le sue invocazioni a “liberare l’Italia dalla piaga dei preti” e dalla curia vaticana considerata il “governo di Satana”. Si comprendono perciò anche le posizioni assunte dalla massoneria italiana, attraversi il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, che nel 1886 poteva considerare il clericalismo come “destituito dal nerbo principale delle sue forze” e ormai finito “nell’agonia”. L’anticlericalismo trovò poi significativo spazio nel movimento fascista delle origini e venne sostenuto da esponenti della cultura futurista tra cui Filippo Tommaso Marinetti che all’adunata nazionale dei fasci a Firenze del 9 ottobre 1919 auspicò lo “svaticanamento d’Italia”. Si tratta di posizioni sostanzialmente abbondante dal partito fascista in coincidenza con le trattative che portarono alla nascita dei Patti lateranensi (1929). Nel secondo dopoguerra l’anticlericalismo nella vita politica italiana venne espresso attraverso il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista e, soprattutto, attraverso il Partito radicale sorto nel 1955 con l’obiettivo principale di promuovere la laicità dello Stato italiano e una revisione dei Patti Lateranensi in accordo, dal 1973, con la Lega italiana per l’abrogazione del Concordato (LIAC). In questo quadro, e come parziale successo degli orientamenti anticlericali, viene posta anche la revisione dei Patti Lateranensi, avvenuta nel 1984, che ha portato ad abbondare la concezione del cattolicesimo come religione di Stato e ha reso facoltativo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Al clericalismo si contrappone politicamente il laicismo e ideologicamente l'anticlericalismo.

Il Clericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La parola clericalismo indica un agire in senso politico che mira alla salvaguardia e al raggiungimento degli interessi del Clero e, conseguentemente, si concretizza nel tentativo di indebolire la laicità di uno Stato attraverso il diretto intervento nella sfera politica e amministrativa da parte di sostenitori anche non appartenenti al Clero, o talvolta non credenti.

Il clericalismo nel mondo. Furono chiamati «clericali» nella metà del XIX secolo, in Francia e in Belgio, quei cattolici impegnati in politica ed organizzati in movimenti o partiti che si richiamavano esplicitamente alla loro confessione religiosa. I "clericali" francesi che erano stati tra i maggiori sostenitori dell'imperatore Napoleone III, influenzarono pesantemente la sua politica estera, in specie per i rapporti con il Regno d'Italia e per il problema di Roma capitale. L'invasione della Repubblica Romana e la restaurazione di papa Pio IX (1849), il fallito tentativo di instaurare un impero cattolico in Messico (1862-67), l'episodio di Mentana sempre a difesa di papa Pio IX (1867), sono gli esempi più rilevanti della subordinazione politica al Clero durante il regime di Luigi Napoleone che a garanzia dell'inviolabilità della Roma papale aveva stabilito nella città un presidio militare francese ritirato solo dopo la Convenzione di settembre nel 1864. Gli stessi eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina (1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy possono essere considerati come effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. L'affaire Dreyfus (1894) la cui accusa era sostenuta anche dai clericalisti antisemiti, organizzati nello squadrismo dell'Action française, era il segno che, alla fine dell'Ottocento, in Francia era forte la presenza di una Chiesa conservatrice contrapposta ad intellettuali laici, progressisti e in parte massoni. Il termine si diffuse poi in Spagna ed in Italia, meno in Germania e per nulla in Inghilterra, segno di una situazione tipica di aree cattoliche dove possono nascere contrasti tra Clero e società civile. Durante la Guerra civile spagnola i clericali di tutta Europa si schierarono apertamente con Francisco Franco, di cui appoggiarono il regime dittatoriale dopo la vittoria. Unica voce cattolica apertamente contraria fu quella di Jacques Maritain. Durante la seconda guerra mondiale il clericalismo supportò i regimi di Jozef Tisoin Slovacchia e di Ante Pavelić in Croazia. Quest'ultimo si salvò dal processo dopo la guerra grazie alla fuga in Spagna agevolata dal Vaticano. Entrambi i regimi furono ferocemente antisemiti.

Il clericalismo in Italia. Cavour, fin dal 1850 si era messo in luce pronunziando un discorso in difesa delle leggi Siccardi che abolivano il diritto d'asilo e il foro ecclesiastico ancora in vigore dall'età medioevale nel Regno di Sardegna. Formato nel 1852 il "grande ministero" con Urbano Rattazzi, si era proposto di modernizzare il Piemonte laicizzando lo Stato ma dovette scontrarsi nel 1855 con i clericali piemontesi guidati dal vescovo di Casale e senatore, Luigi Nazari di Calabiana contrario alla soppressione degli ordini contemplativi al punto da causare una crisi politica che provocò le dimissioni del primo ministro. Ritornato al governo dovette affrontare un nuovo contrasto con i clericali, questa volta sostenuti dal re Vittorio Emanuele II, per l'introduzione del matrimonio civile in Piemonte che sarà attuato diversi anni dopo. Lo stesso Nazari di Calabiana, nominato arcivescovo di Milano, dopo l'unità d'Italia, nel 1864, si distinguerà per le sue polemiche contro gli intransigenti antiliberali. Fin dal 1857 era comparso sul giornale torinese l'Armonia diretto dal giornalista don Giacomo Margotti l'esortazione diretta ai cattolici: «Né eletti. Né elettori». Non meraviglia quindi che, sebbene lo Stato italiano dichiarasse di rinunciare a ogni controllo giurisdizionalistico, tuttavia i tentativi di regolare i rapporti con la Chiesa secondo la formula cavouriana di «Libera Chiesa in libero Stato», effettuati dallo stesso Cavour tramite il suo collaboratore Diomede Pantaleoni, e in seguito dai primi governanti della Destra storica, fallissero per l'intransigenza del rappresentante papale. Non ancora intransigenti ma cattolici di stretta osservanza, tra il 1861 e il 1878 i credenti italiani si appartano dalla vita nazionale e si esprimono in giornali dal tono estremamente polemico. «Lentamente s'instaura quel costume, che durerà decenni e decenni, fino alla prima guerra europea per cui il cattolico politico ha associazioni professionali, circoli, scuole cui inviare i figli, esclusivamente suoi, forma una società chiusa e riduce gli incontri con persone che non dividano la sua fede al minimo possibile » La data di nascita in Italia del clericalismo coincide con l'emanazione del Sillabo (1864) di papa Pio IX (1846-1878) che, considerandosi "prigioniero dello stato italiano", condannava ogni aspetto del liberalismo e del modernismo dando vita così al movimento degli «intransigenti» cattolici che rifiutavano di riconoscere il nuovo Regno d'Italia. La Chiesa tuttavia, sente la difficoltà di non avere nel Parlamento del Regno d'Italia suoi rappresentanti ed emana una disposizione nel 1866 che consente l'elezione di deputati cattolici purché nel formulare il giuramento allo Stato essi aggiungano, alla presenza di almeno due testimoni, la formula: «salvis legibus divinis et ecclesiasticis» ("salvo quanto dispongono le leggi divine e della Chiesa"). La Camera ritenne nullo il giuramento e da quel momento la voce dei deputati cattolici fu quasi assente dalle aule parlamentari. Questa chiusura della Chiesa influì negativamente sulla politica italiana post-unitaria, acuendo il forte anticlericalismo di gran parte dei politici italiani del tempo. L’allontamento definitivo dei cattolici dalla partecipazione diretta alla vita politica dello Stato italiano si ebbe quando il 30 gennaio 1870 la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari espresse il parere che non fosse conveniente (non expedit) per i cattolici italiani partecipare alle elezioni politiche. Inoltre il Concilio Vaticano Primo iniziato nel dicembre del 1869, che si caratterizzava principalmente per la definizione del dogma dell'infallibilità del Papa quando parla ex cathedra in materia di fede e di morale (18 giugno 1870), rendeva ancora più accentuata la durezza delle posizioni del Clero nei confronti di chi cercasse con esso un compromesso. Ben 55 vescovi "antinfallibilisti", prima della approvazione del dogma si allontanarono dal Concilio che, interrotto dalla presa di Roma, non fu più ripreso. Il 13 maggio 1871 lo Stato italiano emana un originale atto di accordo internazionale unilaterale: la Legge delle Guarentigie (Legge delle Garanzie) voluta dal Parlamento per regolare i rapporti con la Santa Sede dopo la presa di Roma (20 settembre 1870). Respinta da papa Pio IX con l'enciclica Ubi nos e mai accettata dalla Santa Sede, rimase tuttavia in vigore sino alla Conciliazione del 1929. Su questa linea si costituì in seguito l'Opera dei congressi (1874) che può essere considerata come la nascita di un vero e proprio partito cattolico italiano. L'organizzazione rivendicava la rappresentanza del "paese reale" contro lo Stato liberale e si assumeva il compito di coordinare tutte le attività cattoliche di tipo sociale, cooperativistico, scolastico, giornalistico. Dopo la morte di papa Pio IX nel 1878, e l'assunzione al trono papale di papa Leone XIII (1878-1903) che mostrava dall'inizio del suo pontificato attenzione ai problemi sociali, al mondo del lavoro e dei suoi conflitti (vedi Rerum Novarum), sembrava potersi sperare in un'attenuazione dello scontro tra Chiesa e Stato. In un'enciclica del 1885 si raccomandava infatti ai cattolici europei di partecipare alla vita politica dei propri stati per non rimanere esclusi dalle decisioni dei loro governi, ma con la limitazione che questa adesione alla politica attiva «in qualche luogo…non convenga affatto (nequaquam expediat) per ragioni grandissime e giustissime». Ciò che era consentito per i paesi cattolici europei non lo era per l'Italia. Nel 1886 una circolare del Sant'Uffizio recitava così: «A togliere ogni equivoco, udito il parere degli Eminentissimi signori Cardinali inquisitori generali miei colleghi, ho ordinato che si dichiari il Non expedit contenere un divieto (prohibitionem importat) Card. Monaco.» All'interno del partito clericale italiano stava intanto nascendo una corrente che rifletteva l'azione sociale della Chiesa specie nelle campagne dove si organizzavano società cattoliche di mutuo soccorso, cooperative di consumo contadine, sindacati bianchi. Era la nuova corrente della Democrazia Cristiana che chiedeva che la sua azione sociale trovasse legittima rappresentanza e valido riconoscimento nel parlamento italiano. Senza politici che la difendessero l'organizzazione sociale cattolica non poteva sperare di sostenersi. Per questi obiettivi si batterono don Romolo Murri e il sociologo ed economista Giuseppe Toniolo subito osteggiati dai cattolici veneti, dai gesuiti e dalla Curia romana. Se prima non si risolveva il problema del rapporto Chiesa-Stato, sostenevano gli intransigenti, non si poteva affrontare la questione sociale e politica. Per i democristiani risorgeva il muro del non expedit che però sembrava potesse incrinarsi con l'avvento del nuovo papa Pio X (1903-1914), uomo di costumi semplici e popolari. Ma nel 1903 compariva invece sull'Osservatore Romano una nota ufficiale così redatta: «Siamo autorizzati a smentire le voci messe di questi giorni in giro dalla stampa cittadina e dagli altri giornali riguardo all'abolizione del Non expedit, essendo esse assolutamente prive di fondamento.» Nel 1904 Pio X decise di sciogliere l'Opera dei Congressi dove i "sovversivi" di Romolo Murri avevano acquistato la maggioranza. Il Murri sarà sospeso a divinis nel1907 e diventerà deputato nelle file dei radicali. Un altro sacerdote don Luigi Sturzo, che si era distinto in Sicilia per la sua azione sociale, obbedì all'ingiunzione pontificia in attesa di tempi migliori. Nello stesso anno la corrente moderata del clericalismo organizzata nell'Unione Elettorale Cattolica realizzò accordi prelettorali con candidati liberali moderati in maggioranza giolittiani. Giovanni Giolitti in difficoltà dopo lo sciopero generale degli anarco sindacalisti socialisti aveva infatti deciso di ricorrere alle elezioni convinto che la parte moderata del paese avrebbe punito l'ala massimalista dei socialisti. E in quest'occasione stipulò un accordo per cui i candidati liberali avrebbero avuto il voto dei cattolici, ma si sarebbero impegnati a non appoggiare leggi che contrastassero l'interesse del Clero. Il compromesso era sintetizzato dalla formula: «deputati cattolici no, cattolici deputati sì.» Lo stesso papa Pio X si mostrava favorevole in quanto tra i due mali: accordo con i liberali e la nascita di un partito cattolico democratico, che avrebbe portato a divisioni nella Chiesa, preferiva quello per lui minore. Non così la pensavano i cattolici democratici, che parlarono di «prostituzione di un voto.» Giolitti e i socialisti riformisti di Filippo Turati conseguirono una chiara vittoria elettorale, ma l'ingresso dei cattolici aveva prodotto un'accentuazione in senso conservatrice della politica italiana, quando lo stesso partito liberale avrebbe dovuto invece uscire dal suo moderatismo che non soddisfaceva più le classi contrapposte che si andavano viepiù estremizzando. Le difficoltà di governo con i socialisti, dopo l'impresa coloniale in Libia, spinsero Giolitti a ricercare un nuovo accordo con i cattolici con il Patto Gentiloni del 1912. Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916) propose ai candidati del "Partito Liberale" se avessero voluto il sostegno dei votanti cattolici di sottoscrivere i seguenti sette punti programmatici:

difesa delle congregazioni religiose,

difesa della scuola privata,

difesa dell'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche,

difesa dell'unità della famiglia,

difesa del "diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali e religiosi ai quali esse s'ispirino",

salvaguardia di una migliore applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali,

conservazione e rinvigorimento “delle forze economiche e morali del paese”, per un incremento dell'influenza italiana in campo internazionale.

Alle Elezioni politiche italiane del 1913, le prime in Italia a suffragio universale maschile, il Partito Liberale ottenne una schiacciante vittoria con il 51 % dei voti e 260 eletti e di questi ben 228 avevano sottoscritto i sette punti programmatici desiderati dai cattolici. Dopo il sanguinoso intervallo della guerra mondiale, dove il cattolicesimo schierato con i neutralisti aveva apertamente espresso con papa Benedetto XV (1914-1922) la sua condanna per l'"inutile strage", nella crisi degli anni 1919 – 1922 dapprima l'Unione nazionale di Carlo Ottavio Cornaggia Medici (1919), poi il Centro Nazionale Italiano di Paolo Mattei-Gentili (1924) ed Egilberto Martire, provocarono scissioni nel Partito Popolare Italiano fondato da Don Sturzo nel 1919. Il partito che nello stesso anno aveva ottenuto un buon successo alle elezioni, nasceva minato al suo interno per la eterogeneità delle posizioni, e all'esterno per la diffidenza di Pio XI (1922-1939) e della gerarchia. Era quindi inevitabile quella scissione nel 1923 che portò una parte del partito all'opposizione al fascismo mentre l'altra, i clericofascisti, s'illudevano, collaborando con il regime, di condizionarlo. Inizialmente benvisti da Mussolini, i clericofascisti vennero ben presto emarginati sia dal fascismo che dalla stessa Chiesa, salvo la concessione di un qualche ruolo diplomatico per la soluzione della questione romana con i Patti Lateranensi del 1929. Con i Patti Lateranensi sembrò acquietarsi lo scontro tra Chiesa e Stato rappresentato dal regime fascista che colse un vasto consenso popolare dalla pacificazione con la chiesa cattolica. Ma la matrice anarchica e socialista di Mussolini rendeva poco affidabile quella politica di «buon vicinato» che i cattolici si auguravano. I primi dissensi emersero nel 1931 quando il fascismo chiese la chiusura dell'Azione Cattolica, rilanciata invece da papa Pio XI come forza organizzata di presenza nella società. L'alleanza di Mussolini con la Germania nazista e pagana, l'emanazione delle leggi razziali del 1938 resero sempre più difficili i rapporti con il regime fascista. Eletto nel 1939 a pochi mesi dallo scoppio della seconda guerra mondiale, papa Pio XII (1939-1958) passò da una dichiarata neutralità ad una adesione sempre più accentuata alle potenze occidentali e ad una condanna sempre più esplicita dei fascismi e della Russia sovietica, pur rinunciando a clamorosi atti di denuncia. Finita la guerra, per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, la Chiesa appoggiava apertamente la causa monarchica trasformando l'alternativa tra monarchia e repubblica in quella tra cristianesimo e comunismo. Il 1º giugno 1946, il giorno precedente il referendum, lo stesso papa Pio XII, rivolse un appello agli Italiani: senza accennare esplicitamente alla monarchia o repubblica invitò i votanti perché scegliessero tra il materialismo e il cristianesimo, tra i sostenitori e i nemici della civiltà cristiana. Considerato che nella campagna elettorale il fronte repubblicano annoverava in prima linea i partiti marxisti materialisti, sarebbe stato difficile fraintendere il senso di questo appello papale. Nel secondo dopoguerra Pio XII promosse un piano di grande mobilitazione dei cattolici riformando l'Azione Cattolica e sostenendo l'azione mediatica del "Movimento per un mondo migliore " di padre Riccardo Lombardi e di Luigi Gedda, cattolico intransigente, fondatore alla vigilia delle elezioni del 1948 dei Comitati Civici a sostegno della Democrazia Cristiana contro il Partito Comunista Italiano. Gli iscritti al PCI furono scomunicati da Pio XII nel 1949. Suoi i ripetuti tentativi di dirigere la politica italiana come attestano lettere del Pontefice, timoroso per l'elezione (1952) di un sindaco comunista a Roma, dirette al Presidente del consiglio Alcide De Gasperi per indurlo a formare un'alleanza politica in funzione anticomunista con il Movimento Sociale Italiano. De Gasperi si batté invece, nei limiti delle sue convinzioni cattoliche e delle opportunità politiche, per l'aconfessionalità dello Stato contenendo le spinte clericali della destra cattolica e dell'Azione Cattolica di Luigi Gedda. Il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) segnò una svolta nelle posizioni del Clero rispetto alla politica in Italia, e lo stesso Concilio Vaticano II fu espressione di questo nuovo spirito di "aggiornamento" che animava la Chiesa cattolica. In quegli anni la formazione di un governo di centro-sinistra non venne infatti ostacolata dalle gerarchie ecclesiastiche. Anche il pontificato di papa Paolo VI (1963-1978) fu improntato ad uno spirito innovatore, sebbene per alcuni aspetti venissero tenute in considerazione istanze conservatrici che già avevano animato il dibattito nel Concilio. Paolo VI riformò la Curia romana introducendovi prelati da tutto il mondo, volle la riforma liturgica, introdusse la collegialità episcopale con il Sinodo dei vescovi; interrompendo una lunga tradizione, compì alcuni viaggi all'estero, trasformò il Sant'Uffizio, abolì l'Indice dei libri proibiti. Durante il suo pontificato, L'Azione Cattolica guidata da Vittorio Bachelet compì la "scelta religiosa", che segnava la fine del collateralismo dell'associazione alla politica della Democrazia Cristiana. Contemporaneamente, però, l'Azione Cattolica smise di essere l'unica associazione laicale in Italia: in un periodo di fioritura di diversi movimenti ecclesiali, nel 1969 viene fondata da don Luigi Giussani Comunione e Liberazione, caratterizzata da un forte senso di appartenenza reciproca e da una religiosità neointransigente e di impegno sociale (Compagnia delle Opere) e di influsso sulla vita politica. La contrapposizione tra lo stile associativo dell'Azione Cattolica e quello di Comunione e Liberazione avrebbe segnato per i decenni a venire l'associazionismo cattolico del Paese. Nel corso del pontificato di Paolo VI fu introdotto in Italia l'istituto del divorzio (1970) fortemente contrastato dai cattolici, che promossero il successivo referendum abrogativo del 1974 ma ne risultarono sconfitti; nel 1978 fu anche approvata, nonostante le ripetute condanne del Clero, l'interruzione volontaria di gravidanza. Anche in questo caso, il successivo ricorso al referendum non sortì gli effetti sperati dai promotori di parte cattolica. Nello stesso 1978, l'elezione di Giovanni Paolo II, primo papa non italiano dopo molti secoli, determina il progressivo attenuarsi dell'attenzione del pontefice alle vicende politiche dell'Italia, sebbene dal 1985 la Conferenza Episcopale Italiana, sotto la guida del card. Camillo Ruini rivolgesse attenzioni crescenti alla politica e alla società italiane. La fine della Guerra Fredda in campo internazionale (1989-1991) e gli avvenimenti di Tangentopoli (1992) mutarono in pochi anni il panorama politico italiano. La stessa Democrazia Cristiana fu sciolta nel 1993: venne così meno il punto di riferimento dei cattolici nella vita politica italiana. Negli anni successivi, pertanto, il Clero avviò un atteggiamento di dialogo con partiti politici sia conservatori sia progressisti, influenzando significativamente entrambi gli schieramenti. Secondo gli osservatori più critici, tale atteggiamento ha assunto talvolta modi vicini a quelli propri dei gruppi di pressione. In ambiente cattolico il termine "clericale" designa la posizione di coloro che tendono a ridurre al minimo la partecipazione attiva dei laici all'esercizio spirituale del Clero. Ma al di là dei termini del dibattito politico e religioso, per cui si preferisce parlare di "teodem" e "teocon" contrapposti a "laicisti", sembra essere in atto uno scontro tra clericali e anticlericali, considerati, come portatori di un'ideologia relativista, materialista, con l'obiettivo di cancellare o ridurre il ruolo della religione nella vita sociale. Dal punto di vista dei laici, tuttavia, questo scontro si manifesta come un tentativo della Chiesa di imporre, attraverso una strategia di comunicazione e di lobbying, i suoi valori anche a coloro che professano fedi diverse o non credono affatto. Costoro comunque, nell'interpretazione della Chiesa, condividono gli universali principii umani che vanno salvaguardati al di là delle proprie convinzioni religiose o laiche. La contrapposizione non verte più, come in un lontano passato, sulla partecipazione o meno dei cattolici alla vita politica, ma su temi sociali di rilevanza etica, riguardo ai quali, secondo gli esponenti del clericalismo, i cattolici devono battersi per difenderne gli aspetti umani e cristiani. Una questione oggi dibattuta è sul significato da attribuire al termine "ingerenza". La gerarchia cattolica rivendica alla Chiesa, depositaria della tradizione apostolica, il diritto-dovere, secondo la sua funzione, di guidare i fedeli, e di predicare i principi morali, che i cattolici devono seguire. I sostenitori dell'ingerenza del Clero nella vita politica e morale dei cittadini rifiutano l'accusa di clericalismo ed anzi accusano di "laicismo" (ritengono infatti che si possa distinguere fino alla contrapposizione tra laicità e laicismo) chi sostiene posizioni opposte. Cosicché, quando, ad esempio, la gerarchia ecclesiastica si pronuncia sulla fecondazione medicalmente assistita e sulla ricerca scientifica sulle cellule staminali, afferma di farlo da posizioni "laiche" poiché difende il valore della vita (che del resto non è negato neppure dai laici) ritenendolo un valore non solo cristiano, ma umano. Per questo essa giudica legittimo avvalersi di cattolici impegnati nella vita politica, che sostengano non solo le posizioni della Chiesa cattolica, ma anche i principi laici della dignità umana. D'altra parte i laici, non solo rivendicano il diritto di legiferare su questi temi connessi a valori etici, ma obiettano di voler lasciare libera scelta ai cittadini, in nome della loro libertà di coscienza, se aderire o meno alle opportunità che offre la legge. Secondo questa posizione, il Clero non ha l'obbligo di astenersi, secondo la sua missione, da tutti quei pronunciamenti che abbiano significato religioso e morale ma da quelli che vogliano incidere sulle decisioni politiche; il che appare al Clero stesso una negazione della propria libertà di parola e di espressione. In questo senso gli esponenti più propriamente laici sottolineano che lo Stato italiano è costituzionalmente uno Stato non confessionale, come afferma chiaramente il combinato disposto degli art.7 e 8 della Costituzione. Sui rapporti tra Stato e Clero può servire a chiarire il problema quanto ha lasciato scritto nel febbraio 2001 Pietro Scoppola, storico, docente e politico italiano, uno dei principali esponenti italiani del cattolicesimo democratico. «La Chiesa sembra porsi di fronte allo Stato e alle forze politiche italiane come un altro Stato e un'altra forza politica; l'immagine stessa della Chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire a una società inquieta e per tanti aspetti lacerata, motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. La sorpresa e il disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Concilio Vaticano II su una Chiesa popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma anzi è al servizio di un laicato che ha proprie e specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della vita politica e della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice. È legittimo e doveroso per tutti i cittadini, e perciò anche per i cattolici, contribuire a far sì che le leggi dello Stato siano ispirate ai propri convincimenti ma questo diritto dovere non è la stessa cosa che esigere una piena identità tra i propri valori e la legge. È in questa complessa dinamica che si esprime la responsabilità dei cattolici nella vita politica. Urgente si è fatta l'esigenza della formazione del laicato cattolico alle responsabilità della democrazia. Perché mai l'Italia e i cattolici italiani debbono sempre esser trattati come "il giardino della Chiesa"?» Compromesso storico è il nome con cui si indica in Italia la tendenza al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano osservata negli anni settanta. Questo possibile sviluppo politico fu chiamato anche con il nome di terza fase in ambito democristiano, mentre i comunisti preferivano la definizione alternativa democratica. Questa politica in ogni caso non portò mai il Partito Comunista a partecipare al governo in una grande coalizione ai sensi del cosiddetto consociativismo. La proposta dal neo-segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer alla Democrazia Cristiana per una proficua collaborazione di governo (aperta anche alle altre forze democratiche) doveva interrompere così la cosiddetta conventio ad excludendum del secondo partito italiano dal governo. In tal modo, si voleva anche mettere al riparo la democrazia italiana da pericoli di involuzione autoritaria e dalla strategia della tensione che insanguinava il paese dal 1969. Berlinguer si vedeva peraltro sempre più deciso a sottolineare l'indipendenza dei comunisti italiani dall'Unione Sovietica e di rendere quindi il suo partito una forza della società occidentale. Il compromesso venne lanciato da Berlinguer con quattro articoli su Rinascita a commento del golpe cileno che aveva portato le forze reazionarie in collaborazione con gli USA a rovesciare il governo del socialista Salvador Allende (11 settembre 1973). La politica del compromesso storico fu vista negativamente dal Partito Socialista Italiano e da diversi suoi esponenti, in particolare Bettino Craxi e Riccardo Lombardi, che vedevano in questo disegno un chiaro tentativo di marginalizzare il PSI e di allontanare definitivamente l'idea di un'alternativa di sinistra che portasse il PCI al governo, tuttavia con la guida dei socialisti. La scelta di Berlinguer, fondamentalmente legata alla politica di eurocomunismo, era un esempio di politica reale che non riscontrò i favori dell'area di sinistra del suo partito. Il compromesso trovò una sponda nell'area di sinistra della DC che aveva come riferimento il presidente del partito Aldo Moro e il segretario Benigno Zaccagnini, ma non ebbe mai l'avallo dall'ala destra della DC, rappresentata da Giulio Andreotti. Lo stesso Andreotti in un'intervista dichiarò: "secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all'atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista.". Un compromesso minimo si raggiunse mediante l'appoggio esterno assicurato dal PCI al governo monocolore di Solidarietà Nazionale, costituito da Giulio Andreotti nel 1976. L'incontro comunque problematico fra PCI e DC spingerà l'estrema sinistra a boicottare il PCI e porterà i terroristi delle Brigate Rosse a rapire (e in seguito a uccidere) Aldo Moro proprio nel giorno del primo dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV (16 marzo 1978). Caduto quest'ultimo governo per il ritiro del PCI, e senza il prezioso aiuto di Moro, la DC archiviò definitivamente la linea della terza fase col XIV congresso del febbraio 1980, quando prevarrà con il 57,7% l'alleanza tra dorotei, fanfaniani, Proposta e Forze nuove che approvò il cosiddetto «preambolo» al documento finale che escludeva alleanze con il PCI. L'opposizione, composta dall'area Zaccagnini e dagli andreottiani, ottenne il 42,3%. Berlinguer e il PCI tenteranno ancora di riproporre il compromesso storico alla nuova DC di Flaminio Piccoli, ma vanamente. Del resto, la resistenza interna al partito Comunista sarebbe rimasta notevole. Con quella che Macaluso definisce la seconda svolta di Salerno, il 28 novembre 1980, Berlinguer annunciò dopo otto anni di voler abbandonare la linea del compromesso storico per abbracciare quella dell'«alternativa democratica». Ciò significa che l'obiettivo diventava quello di ricercare governi di solidarietà nazionale che escludessero la DC. Decisivo per il mutamento tattico fu il terremoto in Irpinia della sera del 23 novembre precedente e la conseguente denuncia del pessimo modo di operare dello Stato da parte del presidente della Repubblica Sandro Pertini in diretta tv il 26 novembre. Oltre al fatto storico, Moro era un teorico del valore del compromesso in politica, della ricerca dell'accordo e della mediazione. Il compromesso in politica non viene inteso come un atto moralmente negativo e riprovevole, al contrario è il compito principale di chi viene eletto. La politica non deve essere personalizzata, luogo di affermazione del singolo e del suo programma elettorale, sebbene questi abbia avuto la maggioranza delle preferenze alle elezioni. Se in democrazia la maggioranza vince, persegue un fine democratico il compromesso che mette d'accordo la maggior parte dei partiti e dei singoli rappresentanti eletti dal popolo, e ciò resta un dovere anche per chi beneficia di una vasta maggioranza elettorale e parlamentare, laddove l'accordo sia compatibile e non tradisca le attese e il programma dell'elettorato.

Anticlericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'anticlericalismo (nella sua accezione più comune) è una corrente di pensiero laicista, sviluppatasi soprattutto in riferimento alla Chiesa cattolica, che si oppone al clericalismo, ossia all'ingerenza degli ecclesiastici e della loro dottrina, nella vita e negli affari dello Stato e della politica in generale. In quanto "tendenza", non convogliata in un manifesto o in qualche movimento principale, l'anticlericalismo ha subito una serie di evoluzioni storiche e si è sviluppato in molteplici sfaccettature, tanto che è difficile darne una definizione condivisa. Per alcuni esso è l'opposizione allo sconfinamento del clero in qualsiasi ambito diverso dalla pura spiritualità (quindi economia, politica, interessi materiali). Questa forma di pensiero si colloca ideologicamente sia nell'ambito del liberalismo, sia delle sinistre radicali ma anche in alcuni partiti socialisti democratici, ed in Italia, storicamente, nei partiti che traggono origine dal pensiero mazziniano (in particolare, il Partito d'Azione ed il Partito Repubblicano Italiano), nel Partito Socialista Italiano e nel Partito Radicale. Dal punto di vista ideologico e filosofico, talvolta l'anticlericalismo si sviluppa parallelamente a quello della non credenza. L'anticlericalismo esplicito o velato da quella che Torquato Accetto chiamava la «dissimulazione onesta» è tanto più diffuso quanto più il clero, in particolare nei suoi vertici cardinalizi e vescovili, tende a sovrintendere alla vita e all'organizzazione politico-civile dello Stato. In Europa, l'anticlericalismo si è sviluppato lungo parte della storia cristiana ed ha avuto come precursori figure di cristiani come Erasmo da Rotterdam, Immanuel Kant, Paolo Sarpi, Gottfried Arnold e Thomas Woolston, che considerava quale vero unico autentico miracolo di Gesù la cacciata dei mercanti dal Tempio. L'anticlericalismo italiano (tra i primi esponenti sono oggi annoverati personaggi come Marsilio da Padova, Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, il Platina e Giordano Bruno), giungerà ad avere i suoi primi "martiri" nella prima metà del settecento con Pietro Giannone, morto in carcere a Torino, e Alberto Radicati di Passerano, morto esule all'Aia. Vanno poi ricordati gli illuministi francesi - tra i quali Voltaire e Diderot - che si opposero a ogni forma di clericalismo. Elementi anticlericali, secondo alcuni, sono presenti nella prima fase della Riforma luterana che abolisce gli ordini regolari, non riconosce né il sacramento dell'ordine, né l'obbligo del celibato ecclesiastico, proclamando il sacerdozio universale di ogni cristiano che ha la sua guida nella sola Sacra Scrittura. In particolare, gli anabattisti riconoscevano Cristo come unico capo della Chiesa, e negavano il valore della gerarchia e del magistero, affidandosi all'insieme dei credenti e dalla loro quotidiana imitazione dell'esempio di Cristo. La Controriforma inaugurata dal Concilio di Trento è stata anche una risposta a tali istanze antigerarchiche presenti, sia pure con grandi diversità e con differenti gradi di intensità, nel mondo protestante e, per Paesi come l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Austria, la Baviera, la Polonia, la Croazia, l'America Latina un'istanza di rinnovata clericalizzazione non solo della vita religiosa, ma anche nella vita socio-politica, in particolare attraverso il controllo della formazione scolastica e del costume femminile. Nel Settecento si diffonde l'anticurialismo, una tendenza giuridica che si ergeva a difesa dello Stato assolutista contro i privilegi della Chiesa e particolarmente contro le prerogative del Tribunale dell'Inquisizione, che sottraeva allo Stato parte del suo ruolo nell'amministrazione della giustizia. L'origine dell'anticurialismo risale alla seconda metà del Cinquecento, quando a Napoli il viceré spagnolo Pedro Afán de Ribera, che pure represse duramente i valdesi in Calabria, si oppose alla pubblicazione dei decreti del Concilio di Trento e all'istituzione dell'Inquisizione spagnola nel Regno di Napoli. Nel Settecento l'anticurialismo assume l'aspetto di una corrente filosofica e giuridica con autori come il sacerdote salernitano Antonio Genovesi, il cavese Costantino Grimaldi, autore delle Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (Napoli, 1708) e delle Discussioni istoriche teologiche e filosofiche (Lucca, 1725) e il foggiano Pietro Giannone, che a Ginevra, patria del calvinismo, già inviso alla Chiesa per la sua opera storica, compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale, che sarà pubblicato postumo solo nel 1895. Nel 1730 Alberto Radicati di Passerano, esule a Londra, pubblicò un opuscolo anticlericale, sotto il titolo A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion, in cui rigetta il cattolicesimo e ne dipinge una mordace caricatura, sulla scorta degli autori illuministi francesi. Nel 1732 pubblicò la Dissertazione filosofica sulla morte, un'opera in cui rivendicava il diritto al suicidio e all'eutanasia. In tutto il secolo si rafforza anche l'antigesuitismo, un movimento di ostilità contro la Compagnia di Gesù, un istituto religioso simbolo della fedeltà al papa, che si riteneva protagonista di ingerenze clericali in politica e nella scienza. Mentre l'aspirazione illuministica alla libertà diveniva il marchio del secolo, la presenza dei gesuiti si faceva via via inaccettabile, tanto che furono espulsi da tutti gli Stati cattolici, a cominciare dal Portogallo (1750). Il primo Stato italiano ad espellere i Gesuiti fu il regno di Napoli (1767), seguito dal ducato di Parma e Piacenza. Nel 1773 papa Clemente XIV con il breve Dominus ac Redemptor decise la definitiva soppressione della Compagnia di Gesù. Nella seconda metà del XVIII secolo l'infante Filippo I di Parma e il suo ministro Guillaume du Tillot adottarono nel ducato di Parma e Piacenza una politica anticlericale, che poneva pesanti limitazioni nella capacità della Chiesa di acquisire e possedere beni immobili e di ereditare. Addirittura gli ecclesiastici furono esclusi della successione ereditaria delle loro famiglie. Ai vescovi furono proibiti impiegati che non fossero laici e fu loro sottratta la giurisdizione sugli ospedali e sulle opere pie. Con Ferdinando di Borbone non cessarono le vessazioni del clero e papa Clemente XIII fece affiggere un breve di protesta (Monitorium), che suscitò tali reazioni che in breve tempo quasi tutti gli Stati d'Europa presero posizione contro il Papa. A Napoli la tendenza anticuriale è rappresentata in politica dal primo ministro Bernardo Tanucci. Con il concordato del 1741, la Santa Sede aveva concesso larghi privilegi ai monarchi napoletani che erano sempre stati vicini al papato, non prima di lunghe trattative condotte dall'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, che agiva come ministro plenipotenziario del Regno di Napoli ed era egli stesso un uomo di cultura, fiancheggiatore delle tendenze anticuriali. Il Tanucci volle applicare il Concordato in una chiave di imposizione di una politica ecclesiastica statale (regalismo), che andava a infrangere la tradizionale armonia tra il potere civile e quello religioso. Sulla scorta delle rivendicazioni gallicane già applicate in Francia, le entrate di episcopati e abbazie vacanti affluirono alla corona, conventi e monasteri superflui vennero soppressi, le decime abolite e nuove acquisizioni di proprietà da parte delle istituzioni ecclesiastiche tramite la manomorta vietate. La pubblicazione delle bolle papali necessitava della previa autorizzazione reale (il cosiddetto exequatur). Anche le nomine vescovili nel Regno caddero, seppure non direttamente ma solo tramite raccomandazioni, grazie anche all'abilità politica del Tanucci, nelle mani del sovrano. Il Re era soggetto soltanto a Dio, gli appelli a Roma erano proibiti a meno che non vi fosse stato l'assenso del re, il matrimonio venne dichiarato un contratto civile. Papa Clemente XIII reagì con la scomunica, al che Tanucci rispose occupando le enclave pontificie nel territorio napoletano di Benevento e Pontecorvo, che saranno restituite alla Santa Sede solo dopo la soppressione della Compagnia di Gesù. Le proteste dei vescovi contro i nuovi insegnamenti nelle scuole a seguito dell'espulsione dei Gesuiti vennero liquidate come non valide. Uno degli ultimi atti di Tanucci fu l'abolizione della chinea (1776), il tributo annuale che i re di Napoli versavano al papa come segno del loro vassallaggio sin dal tempo di Carlo I d'Angiò. Tuttavia, le proteste popolari costrinsero a ritirare il provvedimento di Tanucci e la chinea fu regolarmente corrisposta fino al 1787. Durante il periodo napoleonico, molti dei regni italiani furono trasformati in stati satelliti della Francia e i loro sovrani vennero deposti; lo stesso papa Pio VII fu deportato in Francia. Proclamando a gran voce i principî della Rivoluzione francese, si abolirono i privilegi tanto del clero che della nobiltà. In realtà la rivoluzione fu, a livello locale, spesso condotta da ecclesiastici e nobili subalterni, che talora colsero l'occasione di tentare in tal modo di ottenere una promozione sociale loro preclusa secondo il precedente ordine tradizionale socio-politico. Le autorità napoleoniche appoggiarono all'interno della Chiesa cattolica le posizioni dei gallicani e dei giansenisti contro quelle degli ultramontani. Furono aboliti ed espropriati gli ordini contemplativi, mentre i beni della Chiesa furono a vario titolo espropriati per finanziare lo Stato. Per la prima volta si mise in discussione l'egemonia sociale del clero a favore delle autorità civili. L'anticlericalismo italiano ebbe notevole sviluppo nella lotta al potere temporale del papa, che costituiva oggettivo impedimento all'unificazione sotto la monarchia sabauda ed alla modernizzazione del Paese. Papa Pio VII, rientrato in Italia, tornò a segregare gli ebrei nel ghetto di Roma, dove resteranno fino alla liberazione nel 1870. Papa Gregorio XVI (1831-1846) bollava il treno come "opera di Satana", mentre il suo segretario di Stato, il cardinal Luigi Lambruschini (1776-1854), osteggiava l'illuminazione a gas e instaurava nello Stato pontificio un regime di arbitrio poliziesco, censura e inquisizione. In questo clima, anche tra gli stessi cattolici liberali italiani presero corpo posizioni di stampo anticlericale; ad esempio, una violenta polemica oppose il padre del cattolicesimo liberale italiano, Vincenzo Gioberti (1801-1852), ai gesuiti e ai cattolici reazionari. Giuseppe Garibaldi, l'eroe nazionale italiano, fu il più celebre degli anticlericali del Risorgimento e definì la Chiesa cattolica una «setta contagiosa e perversa», mentre rivolse a papa Pio IX l'epiteto di "metro cubo di letame". La formazione dello Stato nazionale del 1861 fu preceduta e accompagnata dal tentativo di una riforma religiosa di ispirazione cristiana protestante, sul modello della Chiesa nazionale d'Inghilterra, appoggiata dalle chiese valdesi, memori delle persecuzioni, che, nei propositi di alcuni esponenti delle classi dirigenti piemontesi, si proponeva l'ambizioso obiettivo di sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica: la cosiddetta Chiesa Libera Evangelica Italiana. San Leonardo Murialdo scrisse: «Gesù Cristo è bandito dalle leggi, dai monumenti, dalle case, dalle scuole, dalle officine; perseguitato nei discorsi, nei libri, nei giornali, nel papa, nei suoi sacerdoti». Alla Camera, il deputato Filippo Abignente si augurava «che la religione cattolica sia distrutta d'un colpo». Un altro deputato, Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista e patriota durante le insurrezioni del 1848 nel Regno delle Due Sicilie si riprometteva di eliminare con il potere temporale anche il potere spirituale della Chiesa. Il 20 luglio 1862, espresse senza giri di parole la sua avversione contro il Cattolicesimo: «Noi dobbiamo combattere la preponderanza cattolica nel mondo, comunque, con tutti i modi. Noi vediamo, che questo Cattolicismo è uno strumento di dissidio, di sventura, e dobbiamo distruggerlo.... La base granitica della fortuna politica d'Italia deve essere la guerra contro il Cattolicismo su tutta la superficie del mondo». Dopo la presa di Roma, Petruccelli della Gattina promosse l'abolizione della Legge delle Guarentigie e, durante una seduta alla Camera, gridò: «Il principio generale della rivoluzione Italiana è stato l'abolizione del Papato!». Egli voleva fare del sacerdote «un uomo e un cittadino», dargli «la libertà individuale nei limiti dello Stato» e il «diritto d'invocare la protezione della legge comune», il che significava l'abolizione del foro ecclesiastico. Il giornalista fu anche autore di una controversa opera, Memorie di Giuda, in cui l'apostolo viene raffigurato come un rivoluzionario che combatte l'oppressione romana. Il romanzo suscitò un enorme scandalo e trovò problemi di distribuzione, e La Civiltà Cattolica, il maggiore organo di stampa pontificio, lo etichettò «libraccio infame» e l'autore «sporco romanziere». Secondo il laico Giovanni Spadolini, Cavour volle «fissare e delimitare le competenze specifiche della Chiesa nel suo magistero ecclesiastico, escludendola dalla società civile, dal mondo della politica, dall'istruzione, dalla scienza, dove il dominio incondizionato sarebbe stato quello dello Stato e dello Stato soltanto». Tale tentativo prese avvio nel Regno di Sardegna, con la legge del 25 agosto 1848 n. 777 che espelleva tutti i gesuiti stranieri, ne sopprimeva l'ordine e ne incamerava tutti i collegi, convertendoli ad uso militare. Negli anni seguenti i gesuiti furono nell'occhio del ciclone in tutta Italia e dopo il 1848 (durante il quale alcune residenze gesuite furono assaltate da folle inferocite), saranno soppressi in tutti gli Stati italiani (escluso lo Stato pontificio). La legge del 1848 e le analoghe successive saranno caratterizzate da ostilità verso la Chiesa cattolica che, nella visione dei politici di ispirazione liberale (sovente aderenti alla Massoneria), costituiva un freno al progresso civile, ritenendo che la religione non fosse altro che superstizione, mentre la verità andava ricercata avvalendosi del metodo scientifico. Si trattava di un aperto contrasto con la realtà italiana - e soprattutto piemontese - del primo Ottocento, in cui per assenza d'intervento dello Stato era la Chiesa ad organizzare e finanziare scuole, istituzioni sociali e ospedali. Non di rado docenti e scienziati erano essi stessi ecclesiastici. Secondo la studiosa cattolica Angela Pellicciari «la nuova identità che i grandi del mondo progettano per la nazione culla dell'universalismo romano e poi cristiano è anticattolica, mentre la storia, la cultura e la popolazione sono tutte cattoliche.» A partire dal 1850, furono promulgate le leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850, n. 1037 del 5 giugno 1850, e n. 878 del 29 maggio 1855), che abolirono tre grandi privilegi di stampo feudale di cui il clero godeva nel Regno di Sardegna: il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia dello Stato gli uomini di Chiesa oltre che per le cause civili anche per i reati comuni (compresi quelli di sangue), il diritto di asilo, ovvero l'impunità giuridica di chi si fosse macchiato di qualsiasi delitto e fosse poi andato a chiedere rifugio nelle chiese, nei conventi e nei monasteri, e la manomorta, ovvero la non assoggettabilità a tassazione delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici (stante la loro inalienabilità, e quindi l'esenzione da qualsiasi imposta sui trasferimenti di proprietà). Inoltre, tali provvedimenti normativi disposero il divieto per gli enti morali (e quindi anche per la Chiesa e gli enti ecclesiastici) di acquisire la proprietà di beni immobili senza l'autorizzazione governativa. L'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni venne processato e condannato ad un mese di carcere dopo aver invitato il clero a disobbedire a tali provvedimenti. Fu del 29 maggio 1855 la legge che abolì tutti gli ordini religiosi (tra i quali agostiniani, carmelitani, certosini, cistercensi, cappuccini, domenicani, benedettini) privi di utilità sociale, ovvero che «non attendessero alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi», e ne espropriò tutti i conventi (334 case), sfrattando 3733 uomini e 1756 donne. I beni di questi ordini soppressi furono conferiti alla Cassa ecclesiastica, una persona giuridica distinta ed autonoma dallo Stato. L'iter di approvazione della legge, proposta dal primo ministro Cavour, fu contrastato da re Vittorio Emanuele II e da un'opposizione parlamentare agitata dal senatore Luigi Nazari di Calabiana, vescovo di Casale Monferrato, che determinarono le temporanee dimissioni dello stesso Cavour. Con l'avvento del Regno d'Italia avvenuto nel 1861, il Governo adottò nei confronti della Chiesa (che contrastava l'affermarsi di "compiti di benessere" dello Stato a favore dei cittadini) una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive:

La Legge n. 3036 del 7 luglio 1866 con cui fu negato il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l'obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie.

La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 previde la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese. Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati. Nel tentativo di colmare i gravi disavanzi causati dalla terza guerra d'indipendenza, nel 1866 il primo ministro Giovanni Lanza estese l'esproprio dei beni ecclesiastici a tutto il territorio nazionale e, con la legge del 19 giugno 1873 anche a Roma, la nuova capitale. Negli anni Settanta del XIX secolo il ministro dell'istruzione Cesare Correnti abolì le facoltà teologiche, sottrasse gli educandati femminili siciliani al controllo dei vescovi e infine tentò la soppressione dei direttori spirituali nei ginnasi, ma in seguito alle proteste della Destra dovette rassegnare le dimissioni il 17 maggio 1872. Il tentativo mazziniano di instaurare la Repubblica Romana (febbraio-luglio 1849) fu accompagnato da assassinii di sacerdoti, saccheggi di chiese e requisizioni forzose. Nei pochi mesi di vita della Repubblica, Roma passò dalla condizione di stato tra i più arretrati d'Europa a banco di prova delle nuove idee liberali che allora si diffondevano nel continente, fondando la sua vita politica e civile su principi - quali, in primis, il suffragio universale maschile, la libertà di culto e l'abolizione della pena di morte (facendo seguito, in questo caso, all'esempio del Granducato di Toscana che aveva definitivamente abolito la pena capitale nel 1786) e - che sarebbero diventate realtà in Europa solo circa un secolo dopo. Nella difesa di Roma dall'esercito francese, che accorse a sostenere lo Stato pontificio insieme alle armate austriache, borboniche e spagnole, persero la vita numerosi padri della patria tra cui Goffredo Mameli. Tra i politici di maggior spicco in questa fase storica emerge la figura di Camillo Benso Conte di Cavour, che nel 1861, poco dopo la proclamazione dell'Unita d'Italia, formulò, inascoltato, il principio della «Libera Chiesa in libero Stato», tentando con questa principio di regolare la convivenza tra Chiesa e Stato. Nel 1869 quando venne convocato il Concilio Vaticano I, a Napoli si riunì un anticoncilio di liberi pensatori, soprattutto massoni, organizzato dal deputato Giuseppe Ricciardi. Il Concilio Vaticano I fu poi interrotto dalla presa di Roma e non più convocato. Negli anni seguenti Roma divenne teatro di numerosi episodi di anticlericalismo, soprattutto in occasione di manifestazioni pubbliche: «fra il 1870 e il 1881 si possono contare oltre trenta casi gravi di intolleranza, di provocazione, talora scontri fisici». Per lungo tempo il Papa, rifugiatosi in Vaticano, impose ai cattolici di non partecipare alla vita pubblica del Regno d'Italia con un pronunciamento conosciuto come non expedit. Nel 1850 dopo l'approvazione delle leggi Siccardi nel Regno di Sardegna l'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni fu arrestato per un mese e poi mandato, nelle stesso anno, in esilio a Lione per la sua ferma opposizione alle leggi anticlericali. Dopo l'Unità, circa la metà delle diocesi italiane resterà vacante, per il rifiuto del Governo di concedere il necessario 'placet' o 'exequatur' ai vescovi. Nel 1864 ben 43 vescovi erano in esilio, 20 in carcere, 16 erano stati espulsi e altri 16 morti per le vessazioni subite. A metà degli anni sessanta di 227 sedi vescovili, 108 erano vacanti. I motivi di questi arresti erano spesso arbitrari: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, fu arrestato il 13 maggio 1860 per non aver voluto cantare il "Te Deum" per Vittorio Emanuele II. Nel luglio dello stesso anno il vescovo di Piacenza Antonio Ranza e dieci canonici furono condannati dal tribunale a quattordici mesi di reclusione per antipatriottismo. Si trattò di una condanna politica, perché il vescovo si era allontanato dalla città in occasione della visita del re e non aveva celebrato la festa dello Statuto. Nelle province meridionali, dopo la spedizione di Garibaldi con vari pretesti furono arrestati e processati 66 vescovi. Durante i quattro anni successivi subirono la stessa sorte anche nove cardinali. Il problema delle sedi vacanti si avviò verso la soluzione nell'ottobre del 1871, quando furono nominati 41 nuovi vescovi. Altri 61 saranno nominati negli anni successivi. Tuttavia, nel 1875 Minghetti annunciava ancora alla Camera che delle 94 domande di exequatur presentate per la nomina di nuovi vescovi, soltanto 28 erano state accettate dal Governo. Dopo l'Unità d'Italia si verificarono episodi di intolleranza anticlericale come l'assalto al Congresso cattolico di Bologna del 9 ottobre 1876 e i tumulti in occasione della traslazione della salma di Pio IX il 13 luglio 1881. Nel 1889, l'erezione del monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori avvenne in un contesto di violenta lotta politica in cui si confrontarono le posizioni più oltranziste delle fazioni anticlericali e clericali. L'opera fu realizzata dallo scultore Ettore Ferrari, che più tardi divenne gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Fra i promotori non mancarono toni di sfida al Pontefice, che minacciava di lasciare Roma per rifugiarsi in Austria, e il monumento divenne uno dei simboli dell'anticlericalismo. Francesco Crispi ottenne dal re Umberto I un decreto di destituzione nei confronti del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che aveva fatto una visita ufficiale al cardinale vicario Lucido Maria Parocchi, portando un messaggio per papa Leone XIII. Nello stesso periodo a Roma la Massoneria metteva in scena sotto i Palazzi apostolici banchetti nei venerdì di Quaresima, per dileggiare il digiuno cristiano. Gli episodi di violenza continueranno anche nella prima parte del XX secolo: fra questi l'assalto alla processione del Corpus Domini a Fabriano, avvenuto il 21 giugno 1911, condotto da socialisti e anticlericali, terminò in un clamoroso processo. Il principale esponente dell'anticlericalismo in ambito accademico e culturale fu il poeta e poi docente di letteratura italiana Giosuè Carducci. Pubblicò nel 1860 nella raccolta Juvenilia la poesia Voce dei preti: «Ahi giorno sovra gli altri infame e tristo, Quando vessil di servitù la Croce. E campion di tiranni apparve Cristo!» (Giosuè Carducci, Voce dei preti), e nel 1863 l'Inno a Satana, che poi ristamperà nel 1868 in occasione del Concilio Vaticano I. L'anticlericalismo accademico derivò in larga parte dall'adesione di molti docenti al positivismo e allo scientismo. All'università di Torino il positivismo fece la sua comparsa negli anni sessanta del XIX secolo presso la facoltà di medicina, dove insegnava l'olandese Jacob Moleschott. Cesare Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, Salvatore Cognetti de Martiis, professore di economia politica garibaldino, e Arturo Graf, docente di letteratura italiana, furono celebri esponenti di teorie anticlericali. Il darwinismo ebbe come centri di diffusione Torino, Pavia e Firenze. Anche l'associazionismo studentesco risentì della polemica anticlericale e costituì un anello di quella che poteva apparire una «koinè positivista e anticlericale largamente condivisa nel mondo accademico». Nel 1871 i professori dell'Università di Roma furono chiamati a pronunziare il giuramento di fedeltà al re e allo Statuto. I professori della facoltà di teologia furono esentati dal giuramento, ma in maggioranza si rifiutarono di riprendere l'insegnamento in un ambiente ora ostile. Papa Pio IX li ricevette in udienza dicendo loro: «L'Università, quale ora è divenuta, non è più degna delle vostre dottrine e di voi, e voi stessi vi contaminereste varcando quelle soglie, entro le quali si insegnano errori così perniciosi». Appelli analoghi furono rivolti agli studenti e fu dato vita ad un tentativo di un'università alternativa. Quando però il tentativo fallì, agli studenti fu concesso di frequentare le università statali, ammonendoli però ad evitare l'influsso dei cattivi maestri. All'Università di Catania fu professore di letteratura italiana Mario Rapisardi, spirito anticlericale e garibaldino, che considerava le religioni come intralcio al progresso scientifico e morale. Il ritiro dei docenti della facoltà di teologia diede occasione allo Stato di sopprimere le facoltà di teologia con la legge Scialoja-Correnti del 26 gennaio 1873, determinando la scomparsa degli studi ecclesiastici dalle università di Stato. Al di fuori dell'ambito strettamente accademico, ebbe straordinario successo la letteratura di Edmondo De Amicis, che proponeva con il libro Cuore un codice di morale laica e quella di poeti come Antonio Ghislanzoni, librettista di Giuseppe Verdi, Felice Cavallotti, che fu anche un celebre politico e deputato, e Olindo Guerrini, che nel 1899 fu condannato e poi assolto in appello per diffamazione del vescovo di Faenza. Cavalli di battaglia dell'anticlericalismo divennero in questo periodo una ricostruzione storica in stile illuminista, a volte arbitraria, del Medioevo (i secoli bui), la leggenda della Papessa Giovanna, la classificazione della storia delle Crociate come guerra di religione, e della lotta alle eresie in generale e dell'Inquisizione in particolare come fenomeni dell'intolleranza cristiana (vedi Leggenda nera dell'Inquisizione). L'anticlericalismo non restò confinato alle classi dirigenti, ma trovò eco anche nelle società operaie e di mutuo soccorso di fine ottocento, prevalentemente di ispirazione socialista. Secondo questa ideologia, Gesù Cristo era stato il "primo socialista", ma il suo insegnamento era stato corrotto dalla Chiesa ("dai preti") per tornaconto. Un esempio emblematico di questa ideologia fu La predica di Natale del 24 dicembre 1897 di Camillo Prampolini. Diffuse erano anche le rappresentazioni teatrali di spettacoli anticlericali: ad esempio nel 1851 a Vercelli erano in scena due commedie, intitolate "Gli orrori dell'Inquisizione" e "Il diavolo e i Gesuiti". A Roma il primo carnevale dopo Porta Pia fu organizzato dall'associazione anticlericale "Il Pasquino", che propose numerose parodie. Un enorme dito di cartapesta fu fatto sfilare per le vie di Roma: era il "dito di Dio", una formula tipica con cui la stampa cattolica commentava sventure e disgrazie. L'anticlericalismo trovò eco anche in polemiche giornalistiche, che spesso vedevano confrontarsi giornali di tendenze opposte. A Torino la Gazzetta del Popolo diretta dall'anticlericale Felice Govean, che fu anche gran maestro del Grande Oriente d'Italia, battagliava contro l'Armonia cattolica, diretta da Giacomo Margotti. Le vendite vedevano primeggiare il foglio anticlericale, che distribuiva 10 000 copie contro le 2 000 del concorrente. Il Partito Nazionale Fascista, guidato da Benito Mussolini, fortemente anticlericale e ateo in gioventù, presentava inizialmente, influenzato anche dal futurismo, un programma di "svaticanizzazione" dell'Italia, con progetti di sequestri di beni ed abolizione di privilegi. Ma Mussolini, dopo essere diventato duce dell'Italia fascista, resosi conto del gran peso sociale e culturale che la Chiesa cattolica rivestiva nel Paese, cambiò i suoi propositi iniziali e volle concordare un'intesa con la Chiesa al fine di consolidare e accrescere il proprio potere, ancora instabile, ed ottenere un più ampio consenso di popolo. Tuttavia il capo del fascismo intimamente rimaneva un ateo anticlericale, come testimoniano la sua nota avversione a farsi fotografare accanto a religiosi e la conseguente censura di tutti i ritratti in cui era presente qualche prelato o simile e la confidenza che Dino Grandi fece a Indro Montanelli nella quale raccontava come Mussolini, appena uscito dal palazzo Laterano in cui l'11 febbraio 1929 aveva appena firmato il concordato, bestemmiò pesantemente per sottolineare la sua personale avversione alla Chiesa cattolica e ai preti. L'accordo con la Segreteria di Stato vaticana per la stipula dei Patti Lateranensi, formalmente siglati nel1929 avvenne grazie ad un atteggiamento, nonostante le differenti visuali, diplomaticamente dialogante tra le parti. In cambio il dittatore impose una compressione dello spazio di intervento dell'Azione Cattolica, unica organizzazione giovanile non fascista che sopravvisse durante il regime. Con quest'accordo ci furono alcuni membri del clero, a vari livelli, che diedero la loro adesione, come cittadini italiani, al fascismo. Nello stesso Partito Popolare Italiano, una parte dei membri aderì al governo fascista ante-dittatura, contro il parere di don Luigi Sturzo. Il partito subì una forte crisi che fu determinante per l'ascesa del PNF. Ci furono così aspetti, come nel regime franchista spagnolo, di cosiddetto clericofascismo. Alla caduta del fascismo, mentre i gerarchi e i rappresentanti della monarchia fuggivano, le autorità ecclesiastiche rimasero al loro posto, svolgendo, a volte in collaborazione con il CLN, opere caritatevoli e assistenziali a vantaggio della popolazione, esercitando nel contempo un ruolo civile e sociale. Questo interesse degli ecclesiastici per le questioni politiche ed economiche si scontrava sia con la cultura liberale, che riduceva il problema religioso alla sfera individuale, sia con la cultura marxista, che annoverava le religioni fra le forze reazionarie. Se la Chiesa pretendeva di offrire alla società i valori fondamentali su cui costruire la democrazia, marxisti e liberali consideravano un'indebita ingerenza ogni intervento della Chiesa nell'ambito sociale e politico. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'anticlericalismo ebbe le sue espressioni, seppur in forma minoritaria ed incostante, nel Partito Comunista Italiano, nel Partito Repubblicano Italiano e nel Partito Socialista per divenire centrale nell'attività del Partito Radicale a partire dagli anni settanta, in contrapposizione alla Democrazia Cristiana e all'influenza vaticana nella politica italiana. Uno dei punti principali di contrasto fu la scure censoria che si abbatté sulle migliori opere cinematografiche italiane del dopoguerra, accusati di offesa alla morale o vilipendio della religione cattolica, partendo da La dolce vita di Federico Fellini, a La ricotta di Pier Paolo Pasolini, fino a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Gli anticlericali sostennero che questi furono solo alcuni esempi tra i tanti di come la morale cattolica influenzasse ed imponesse il proprio punto di vista anche in materia di arte e spettacolo. Si impegnò in una lunga filmografia anticlericale il regista Luigi Magni, che diresse Nell'anno del Signore (1969), In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990), una trilogia ambientata nella Roma papalina del Risorgimento. Il fronte laico riuscì ad ottenere l'istituzione del divorzio (1970, confermato dopo il referendum abrogativo del 1974) e la legalizzazione dell'aborto (1978). Nel 1984 il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi attuò una revisione dei Patti Lateranensi, rimuovendo la prerogativa di «Religione di Stato» in precedenza accordata alla Chiesa cattolica. Venne mantenuto, seppur rendendolo facoltativo, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, affidato a insegnanti pagati dallo Stato ma nominati dalla Curia, e l'esenzione dal pagamento delle imposte sugli immobili di proprietà della Chiesa cattolica in cui vengono svolte attività "che non abbiano natura esclusivamente commerciale". Contestualmente venne introdotta la destinazione dell'otto per mille del gettito IRPEF dei contribuenti a 7 confessioni religiose, tra cui la Chiesa cattolica. L'otto per mille viene destinato alle varie confessioni in proporzione delle scelte espresse dai soli contribuenti che forniscono un'indicazione al riguardo. La quota del reddito dei contribuenti che non ha espresso alcuna scelta viene, in altre parole, ripartita tra le confessioni religiose che hanno siglato l'intesa con lo stato italiano in misura pari alla percentuale delle scelte espresse. Per esempio, nel 2000 il 35% degli italiani si espresse a favore della Chiesa cattolica, il 5% circa a favore dello Stato o di altre religioni, e il 60% non espresse alcuna scelta. Di conseguenza, l'87% del gettito è stato devoluto alla Conferenza Episcopale Italiana. Dal 1984 gli anticlericali italiani, inizialmente dell'area anarchica e libertaria, in seguito anche i socialisti, i radicali, i liberali e i comunisti si diedero appuntamento per discutere dei maggiori temi politici di confronto e scontro con il Vaticano, ai Meeting anticlericali di Fano presso i quali, nel 1986, venne fondata anche l'Associazione per lo Sbattezzo. Oggi è contestato, da taluni, in una società sempre più secolarizzata, l'intervento della Chiesa cattolica, mediante indicazioni di comportamento ai fedeli e indicazioni di voto ai parlamentari cattolici, sull'azione legislativa e regolamentare dello Stato. Si ricorda la presa di posizione del cardinale Camillo Ruini nel referendum sulla procreazione assistita del 2005, rivolte in particolare contro l'utilizzo delle cellule staminali embrionali, e quelle di vari esponenti e prelati cattolici contro le unioni civili, l'eutanasia e il testamento biologico, oltre che la controversia sull'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Dalla parte della Chiesa invece si rivendica un diritto alla parola e un dovere morale nella guida del cristiano su questioni etiche.

Anticlericalismo in Francia. «La civiltà non raggiungerà la perfezione finché l'ultima pietra dell'ultima chiesa non sarà caduta sull'ultimo prete.» (Émile Zola). Voltaire, illuminista e anticlericale, autore del motto Écrasez l'Infâme ("schiacciate l'infame"), con cui incitò alla lotta contro la Chiesa e il fanatismo religioso. A partire dall'Illuminismo, si sviluppò in Francia una forte corrente anticlericale, che ebbe la sua piena espressione in alcune leggi varate durante la Rivoluzione Francese, come la costituzione civile del clero, l'obbligo di sposarsi o abbandonare i voti per i preti, la trasformazione delle chiese in templi della Ragione, il calendario rivoluzionario francese e il culto dell'Essere Supremo, l'introduzione del matrimonio civile e del divorzio. Anche Napoleone varò una politica di separazione tra Stato e Chiesa.

In un contesto politico anticlericale, il 7 dicembre 1830 i redattori de L'Avenir, giornale cattolico liberale, riassumono le loro rivendicazioni: chiedono libertà di coscienza, separazione tra Stato e Chiesa, libertà d'insegnamento, di stampa, d'associazione, decentramento amministrativo ed estensione del diritto elettorale. L'anticlericalismo è un tema di particolare rilevanza nel contesto storico della Terza Repubblica e nelle divergenze che ne derivarono con la Chiesa cattolica. Gli eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina(1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy, possono essere considerati come gli effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. Tuttavia, prima del 1905, la Chiesa godeva di un trattamento preferenziale da parte dello stato francese (insieme alle minoranze ebraiche, luterane e calviniste). Nel corso dell'Ottocento, sacerdoti insegnavano nelle scuole pubbliche tutte le materie, religione compresa. E inoltre la Chiesa fu implicata in attacchi antisemiti come nell'Affare Dreyfus. Di conseguenza molti appartenenti alla sinistra chiesero la separazione tra Chiesa e Stato e l'imposizione di una reale laicità. Si noti che la divisione tra "clericali" e "anticlericali" non aderisce esattamente alle categorie di "credenti" e "non credenti" poiché alcuni cattolici, come Victor Hugo, pensavano che la Chiesa non dovesse intervenire nella vita politica, mentre non credenti come Charles Maurras favorivano il potere temporale della Chiesa perché ritenevano fosse essenziale per la coesione del Paese e per i loro obiettivi politici (vedi anche reazionario). Dal punto di vista culturale non mancavano rappresentazioni anticlericali nei teatri, come la commedia Pourquoi elles vont à l'église di Nelly Roussel. In definitiva, la separazione del 1905 tra Stato e Chiesa innescò aspre polemiche e forti controversie, la maggioranza delle scuole cattoliche e delle fondazioni educative venne chiusa e molti ordini religiosi furono sciolti. Papa Pio X reagì con tre diverse encicliche di condanna: la Vehementer Nos dell'11 febbraio 1906, la Gravissimo Officii Munere del 10 agosto dello stesso anno e l'Une Fois Encore del 6 gennaio 1907.

Anticlericalismo in Messico. In seguito alla rivoluzione del 1860, il presidente Benito Juárez, appoggiato dal governo statunitense, varò un decreto per la nazionalizzazione delle proprietà ecclesiastiche, separando Chiesa e Stato e sopprimendo gli ordini religiosi. All'inizio degli anni dieci del XX secolo, i Costituzionalisti di Venustiano Carranza denunciarono l'ingerenza clericale nella politica messicana. Protestavano di non perseguitare il Cattolicesimo, ma di voler ridurre l'influenza politica della Chiesa. Tuttavia, la campagna dei Costituzionalisti non sfociò immediatamente in un nessun'azione formale. Il movimento dei Costituzionalisti rappresentava gli interessi degli Stati Uniti d'America e delle sue lobby massoniche. Successivamente Álvaro Obregón e i Costituzionalisti intrapresero delle misure volte a ridurre la profonda influenza politica della Chiesa cattolica. Il 19 maggio 1914, le forze di Obregón condannarono il vescovo Andrés Segura e altri uomini di Chiesa a 8 anni di carcere per la loro presunta partecipazione ad una ribellione. Durante il periodo in cui Obregón ebbe il controllo di Città del Messico (febbraio 1915), impose alla Chiesa il pagamento di 500.000 pesos per alleviare le sofferenze dei poveri. Venustiano Carranza assunse la presidenza il 1º maggio 1915. Carranza e i suoi seguaci ritenevano che il clero sobillasse il popolo contro di lui attraverso la propaganda. Divennero sempre più frequenti le violenze, tollerate dalle autorità, nei confronti dei cattolici: nel 1915 vennero assassinati ben 160 sacerdoti. Subito dopo che Carranza ebbe il totale controllo del Messico, emanò una nuova Costituzione con l'intento di ridurre il potere politico della Chiesa.

La Costituzione del 1917. Nella Costituzione Messicana furono introdotti articoli anticlericali:

L'articolo 3 rese obbligatoria l'istruzione laica nelle scuole messicane.

L'articolo 5 mise fuori legge i voti religiosi e gli ordini religiosi.

L'articolo 24 proibì il culto fuori dagli edifici ecclesiastici.

Con l'articolo 27 alle istituzioni religiose fu negato il diritto di acquisire, detenere o amministrare beni immobili e tutti i beni ecclesiastici, compresi quelli di scuole e ospedali, furono dichiarati proprietà nazionale.

Con l'articolo 130 il clero fu privato del diritto di voto e del diritto di commentare questioni politiche.

Il governo messicano fu estremamente pervicace nel suo intento di eliminare l'esistenza legale della Chiesa cattolica in Messico. La costituzione ebbe il risultato di acuire il conflitto fra Chiesa e Stato. Per otto anni questi provvedimenti non furono rigorosamente messi in atto dal governo messicano. Intanto le violenze continuavano. Nel 1921 un attentatore tentò di distruggere il più importante simbolo del cristianesimo messicano: il mantello con l'immagine della Madonna di Guadalupe, conservato nell'omonimo santuario. La bomba, nascosta in un mazzo di fiori deposto vicino all'altare, produsse gravi danni alla basilica. Questa politica ebbe termine nel giugno del 1926, quando il Presidente del Messico Plutarco Elías Calles (che affermava che "la Chiesa è la sola causa di tutte le sventure del Messico"), emanò un decreto noto come “Legge Calles”, con cui metteva in atto l'articolo 130 della Costituzione. La Chiesa era urtata dalla rapidità della decisione di Calles e in particolare dall'articolo 19, che prevedeva la registrazione obbligatoria del clero, perché permetteva al governo di immischiarsi negli affari religiosi. La Chiesa cattolica prese quindi posizione contro il governo. I cattolici messicani, di concerto con il Vaticano, risposero inizialmente con iniziative di protesta non violente, tra le quali il boicottaggio di tutti i prodotti di fabbricazione statale (ad esempio il consumo di tabacchi crollò del 74%) e la presentazione di una petizione che raccolse 2 milioni di firme (su 15 milioni di abitanti). Il governo non diede alcuna risposta e la Chiesa decise infine un estremo gesto simbolico: la sospensione totale del culto pubblico. A partire dal 1º agosto 1926, in tutto il Messico non si sarebbe più celebrata la Messa né i sacramenti, se non clandestinamente. Il 18 novembre papa Pio XI denunciò la persecuzione dei cattolici messicani con l'enciclica Iniquis Afflictisque. Lo scontento degenerò in aperte violenze quando oltre 5.000 Cristeros diedero inizio ad una ribellione armata. Il governo messicano e i cattolici ingaggiarono un sanguinoso conflitto che durerà per tre anni. Nel 1927 si formò un vero e proprio esercito ribelle, forte di ventimila uomini, che in seguito aumentarono fino a cinquantamila, al comando del generale Enrique Gorostieta Velarde. All'esercito si affiancavano le "brigate Santa Giovanna d'Arco", formazioni paramilitari femminili che giunsero a contare 25000 membri, tra cui anche giovani di soli 14 anni. Tra il 1927 e il 1929 tutti i tentativi di schiacciare la ribellione fallirono; gli insorti anzi presero il controllo di vaste zone nel sud del paese. La Chiesa messicana e il Vaticano, tuttavia, non diedero mai il loro aperto sostegno alla ribellione (il che non impedì al governo di giustiziare anche numerosi sacerdoti che non ne facevano parte), e agirono per giungere ad una soluzione pacifica. Il 21 giugno 1929 furono così firmati gli Arreglos ("accordi"), che prevedevano l'immediato cessate il fuoco e il disarmo degli insorti. I termini dell'accordo, mediati (o piuttosto imposti) dall'ambasciatore degli Stati Uniti, erano però estremamente sfavorevoli alla Chiesa: in pratica tutte le leggi anticattoliche rimanevano in vigore. Questo periodo di anticlericalismo messicano ha ispirato a Graham Greene la scrittura del romanzo Il potere e la gloria.

Anticlericalismo in Portogallo. Nel 1750 il Portogallo fu il primo paese ad espellere i gesuiti.

Una prima ondata di anticlericalismo si verificò nel 1834 sotto il regno di Pietro IV, quando il ministro Joaquim António de Aguiar decretò la soppressione degli ordini religiosi. Parallelamente, alcune delle più note scuole religiose del Portogallo furono obbligate a cessare l'attività. In questo periodo lo scrittore e politico Almeida Garrett pubblicò la commedia anticlericale A sobrinha do Marquês (1848). La caduta della monarchia a seguito della Rivoluzione repubblicana del 1910 causò un'ulteriore ondata di anticlericalismo. La rivoluzione colpì in primo luogo la Chiesa cattolica: vennero saccheggiate le chiese, vennero attaccati i conventi. Furono presi di mira anche i religiosi. Il nuovo governo inaugurò una politica anticlericale. Il 10 ottobre il nuovo governo repubblicano decretò che tutti i conventi, tutti i monasteri e tutte le istituzioni religiose fossero soppresse: tutti i religiosi venivano espulsi dalla repubblica e i loro beni confiscati. I gesuiti furono costretti a rinunciare alla cittadinanza portoghese. Seguirono, in rapida successione, una serie di leggi anticattoliche: il 3 novembre venne legalizzato il divorzio. In seguito passarono leggi che legittimavano i figli nati fuori dal matrimonio, che autorizzavano la cremazione, che secolarizzavano i cimiteri, che sopprimevano l'insegnamento religioso a scuola e che proibivano di indossare l'abito talare. Inoltre al suono delle campane e ai periodi di adorazione furono poste alcune restrizioni e la celebrazione delle feste popolari fu soppressa. Il governo interferì anche nei seminari, riservandosi il diritto di nominare i professori e determinare i programmi. Questa lunga serie di leggi culminò nella legge di separazione fra Chiesa e Stato che fu approvata il 20 aprile 1911. Il 24 maggio dello stesso anno papa Pio X deplorò la legge portoghese con l'enciclica Iamdudum.

Anticlericalismo in Spagna. Già tra il XV ed il XVI secolo si nota nella letteratura e nel teatro spagnolo la presenza di opere, o parti di esse, di contenuto anticlericale, spesso generate dall'ammirazione per Erasmo da Rotterdam. Si nota quindi Alfonso de Valdés, con la sua Discorso de Latancio y del Arcediano, dove si compiace di descrivere la corruzione della Roma papale punita con il sacco di Roma; a causa del controllo esercitato dal Sant'Uffizio, si trovano tracce di anticlericalismo celato, come nella commedia di Luis Belmonte Bermúdez, El diablo predicador, o negli aforismi perduti di Miguel Cejudo. In seguito alla prima guerra carlista del 1836, il nuovo regime chiuse i maggiori conventi e monasteri della Spagna. In questo contesto, il radicale Alejandro Lerrouxsi caratterizzava per un'oratoria violenta e incendiaria. Dal punto di vista economico la Chiesa cattolica in Spagna fu pesantemente colpita dalle leggi di esproprio e confisca dei beni ecclesiastici, che si susseguirono dal 1798 al 1924: il più famoso di questi provvedimenti è noto con il nome di Desamortización di Mendizábal del1835. Circa un secolo dopo, instaurata la Seconda repubblica e approvata la Costituzione del 1931, proseguì la legislazione anticlericale, inaugurata il 24 gennaio 1932con lo scioglimento in Spagna della Compagnia di Gesù e l'esilio della maggioranza dei gesuiti. Il 17 maggio 1933, il governo varò la controversa Legge sulle Confessioni e Congregazioni Religiose (Ley de Confesiones y Congregaciones Religiosas), approvata dal parlamento il 2 giugno 1933, e regolamentata mediante un decreto del 27 luglio[54]. La legge confermava la proibizione costituzionale dell'insegnamento per gli ordini religiosi, mentre si dichiararono di proprietà pubblica i monasteri e le chiese. La legge fu un duro colpo al sistema scolastico (le scuole gestite dagli ordini religiosi contavano 350.000 alunni) in un Paese dove il 40% della popolazione era analfabeta. Reagì contro la legge papa Pio XI, con l'enciclica Dilectissima Nobis del 3 giugno 1933. Durante la guerra civile spagnola del 1936, molti appartenenti all'armata Repubblicana erano volontari anarchici e comunisti fortemente anticlericali e provenienti da varie parti del mondo. Nel corso dei loro assalti, (in risposta all'atteggiamento del clero, che con toni da crociata si era schierato dalla parte dell'insurrezione antirepubblicana di Francisco Franco e che denunciava spesso gli anarchici alle autorità, condannandoli a morte certa) parecchi edifici di culto e monasteri vennero bruciati e saccheggiati. Al termine del conflitto, la stima delle vittime religiose ascende a più di 6.000 religiosi trucidati, tra cui 259 clarisse, 226 francescani, 155 agostiniani, 132 domenicani e 114 gesuiti. Gli episodi raccapriccianti non furono isolati: stupri di suore, fucilazioni rituali di statue di santi, preti cosparsi di benzina e arsi, taglio di orecchie e genitali "papisti" e persino corride con sacerdoti al posto di tori[55]. La stragrande maggioranza della Chiesa cattolica salutò la vittoria di Franco, militarmente sostenuto da Hitler e Mussolini, come un provvidenziale intervento divino nella storia di Spagna. Nonostante la guerra fosse stata per Hitler nient'altro che il banco di prova della tragedia che stava preparando per l'Europa, papa Pio XII nel suo radiomessaggio del 16 aprile 1939, Con immensa gioia, parlò di una vera e propria vittoria "contro i nemici di Gesù Cristo". La Chiesa cattolica, sotto il papato di Giovanni Paolo II, tra il 1987 ed il 2001 ha riconosciuto e canonizzato 471 martiri della guerra civile spagnola; altri 498 sono stati poi beatificati nel 2007 da Benedetto XVI. Recentemente, anche il premier Zapatero è stato avvicinato all'anticlericalismo per le sue politiche laiche.

Anticlericalismo negli Stati Uniti. L'anticlericalismo statunitense (o meglio l'anticattolicesimo) degli anni cinquanta del secolo XIX trovò espressione nel Know Nothing: un movimento xenofobo ("nativista"), che traeva forza dalle paure popolari che il paese potesse essere sopraffatto dall'immigrazione massiccia dei cattolici irlandesi, ritenuti ostili ai "valori americani" e controllati dal papa. Sebbene i cattolici asserissero di essere politicamente indipendenti dal clero, i protestanti accusavano papa Pio IX di aver posto fine alla Repubblica Romana e di essere un nemico della libertà, della democrazia e del protestantesimo. Questi rilievi fomentarono teorie di cospirazione che attribuivano a Pio IX il disegno di soggiogare gli Stati Uniti mediante un'immigrazione continua di cattolici controllati da vescovi irlandesi obbedienti e personalmente selezionati dal Pontefice. Un'eco di anticlericalismo è presente nelle elezioni presidenziali del 1928, in cui il Partito Democratico candidò il governatore dello stato di New York Al Smith, (il primo cattolico candidato alla presidenza da un grande partito), che fu attaccato come "papista". L'elettorato temeva che "se Al Smith fosse eletto presidente, gli Stati Uniti sarebbero governati dal Vaticano". L'anticlericalismo ha trovato anche esponenti laici, non legati al protestantesimo e all'opposizione agli immigrati, in epoca recente: ad esempio il giornalista anglo-americano Christopher Hitchens, accusato spesso di anticattolicesimo, ateo e antislamista; i laici americani riprendono le posizioni del presidente Thomas Jefferson che fu uno dei più forti sostenitori di uno stato non legato alla religione all'epoca della nascita degli Stati Uniti. Uno dei cavalli di battaglia più recenti degli anticlericali statunitensi è la lotta contro l'ingerenza evangelicista nella politica interna nonché la critica contro il clero cattolico per loscandalo pedofilia che ha coinvolto molte diocesi americane.

Anticlericalismo nella Germania nazista. La propaganda nazista ebbe tratti anticlericali. Ad esempio Himmler, capo supremo delle SS e della Gestapo, riprende alcuni motivi cari all'anticlericalismo: la depravazione e perversione del clero, la svalorizzazione della donna, la corruzione della grandezza di Roma: «Sono assolutamente convinto che tutto il clero e il cristianesimo cercano soltanto di stabilire un'associazione erotica maschile e a mantenere questo bolscevismo che esiste da duemila anni. Conosco molto bene la storia del cristianesimo a Roma, e ciò mi permette di giustificare la mia opinione. Sono convinto che gli imperatori romani, che hanno sterminato i primi cristiani, hanno agito esattamente come noi con i comunisti. A quell'epoca i cristiani erano la peggior feccia delle grandi città, i peggiori ebrei, i peggiori bolscevichi che vi possiate immaginare. Il bolscevismo di quell'epoca ha avuto il coraggio di crescere sul cadavere di Roma. Il clero di quella Chiesa cristiana che, più tardi, ha sottomesso la Chiesa ariana dopo lotte infinite, cerca, dal IV o V secolo, di ottenere il celibato dei preti. [...]dimostreremo che la Chiesa, sia a livello dei dirigenti che a quello dei preti, costituisce nella maggior parte un'associazione erotica di uomini che terrorizza l'umanità da 1.800 anni, che esige che questa umanità le fornisca una grandissima quantità di vittime e che, nel passato, si è dimostrata sadica e perversa. Posso soltanto citare i processi alle streghe e agli eretici.» (Testo del discorso segreto tenuto da Heinrich Himmler il 17-18 febbraio 1937 ai generali delle SS in relazione ai "pericoli razziali e biologici dell'omosessualità. Ciononostante, il Partito del Centro Cattolico di Germania, guidato da Franz von Papen, aveva appoggiato l'ascesa del nazismo in Germania e, nel gennaio 1933, la nomina di Hitler a Cancelliere, di cui von Papen divenne vice-Cancelliere. Nel marzo dello stesso anno, il partito di von Papen votò la concessione dei pieni poteri a Hitler in cambio di privilegi che sarebbero stati concessi alla Chiesa nel Concordato con la Germania nazista, che venne firmato nel 4 mesi più tardi dal cardinale Pacelli (futuro papa Pio XII). Hitler stesso aveva dichiarato più volte ai suoi collaboratori la sua ostilità verso la Chiesa: "Ho conquistato lo Stato a dispetto della maledizione gettata su di noi dalle due confessioni, quella cattolica e quella protestante. (13 dicembre 1941) I preti oggi ci insultano e ci combattono, si pensi per esempio alla collusione tra la Chiesa e gli assassini di Heydrich. Mi è facile immaginare come il vescovo von Galen sappia perfettamente che a guerra finita regolerò fino al centesimo i miei conti con lui... (4 luglio 1942) - I preti sono aborti in sottana, un brulichio di cimici nere, dei rettili: la Chiesa cattolica stessa non ha che un desiderio: la nostra rovina- La dottrina nazionalsocialista è integralmente antiebraica, cioè anticomunista ed anticristiana. (Notte tra il 29 e il 30 novembre 1944) - schiaccerò la chiesa come un rospo " e aveva mostrato con fatti concreti il suo anticlericalismo, violando continuamente il Reichskonkordat. Oltre a far togliere i crocefissi dalle aule scolastiche e pubbliche, nella sola Germania più di un terzo del clero secolare e un quinto circa del clero regolare, ossia più di 8000 sacerdoti furono sottoposti a misure coercitive (prigione, arresti illegali, campi rieducativi), 110 morirono nei campi di concentramento, 59 furono giustiziati, assassinati o perirono in seguito ai maltrattamenti ricevuti.

Anticlericalismo in Argentina. Durante il primo periodo peronista, ci furono alcuni atteggiamenti e leggi anticlericali. Inizialmente i rapporti tra il governo di Juan Domingo Perón e di sua moglie Evita e le gerarchie ecclesiastiche furono buoni, e il peronismo non era affatto antireligioso, ma si incrinarono quando Perón legalizzò l'aborto e facilitò il divorzio, introducendo leggi che ostacolavano l'istruzione religiosa. Il governo di Juan Domingo Perón in un primo momento fu legato alle Forze Armate, e l'esercito e la Chiesa erano all'epoca considerati il baluardo contro le ideologie socialiste e comuniste. La Chiesa, inoltre, sosteneva la dottrina politica della "giustizia sociale", e condivideva con il peronismo l'idea che fosse compito dello Stato mediare nei conflitti di classe e livellare le disuguaglianze sociali. Ci furono, tuttavia, settori della Chiesa cattolica, già reduce dai provvedimenti antiecclesiastici del Messico di Calles un ventennio prima, che accusavano il peronismo di statalismo per l'eccessiva interferenza del governo nazionale nella vita privata e in contesti che non gli competevano. Il motivo della critica era dovuto anche al fatto che spesso lo Stato invadeva le sfere tradizionalmente di competenza della Chiesa nel momento in cui si interessava, ad esempio, dei piani di assistenza e della pubblica educazione. Le alte gerarchie ecclesiali argentine erano rimaste alleate dell'oligarchia, nonostante la Costituzione del 1949 trattasse con moltissimo riguardo il cattolicesimo, facendone religione di Stato nell'articolo 2, e affermasse che il Presidente dovesse essere un cattolico. Nel 1946 il Senato approvò una legge che riaffermava e confermava tutti i decreti stabiliti dalla giunta militare del precedente governo dittatoriale. Tra questi decreti c'era anche la legge sull'istruzione religiosa obbligatoria varata nel 1943. Questa legge era stata duramente discussa alla Camera dei Deputati, ed era passata solo grazie al voto dei peronisti. Gli argomenti che apportarono a favore della legge furono nazionalistici ed antiliberali: si sottolineò il legame esistente tra l'identità della nazione e il profondo cattolicesimo della Spagna, e si enfatizzò il ruolo che la religione avrebbe avuto nella formazione delle coscienze e della società. Questa riaffermazione della legge sull'educazione religiosa, tuttavia, limitò i poteri della Chiesa dando ragione a coloro che all'interno della stessa Chiesa tacciavano il peronismo di statalismo: i programmi scolastici e i contenuti dei libri di testo erano responsabilità dello Stato, il quale avrebbe potuto consultare le autorità ecclesiastiche qualora ce ne fosse stato bisogno; le altre materie scolastiche continuarono ad essere insegnate secondo lo spirito della Legge 1420 del 1884, e quindi continuarono a seguire la tradizione laicista dello stile di formazione argentino; l'educazione scolastica divenne un mezzo di propaganda per il culto della personalità del Presidente e di sua moglie Eva; nel giugno 1950, infine, Perón nominò Armando Méndez San Martín, un massone anticattolico, Ministro della Pubblica Istruzione, cominciando a guardare la Chiesa con sospetto. Durante il suo secondo mandato Perón non condivise l'aspirazione della Chiesa di promuovere partiti politici cattolici. Infine, alcune leggi peroniste provocarono malumori tra i vescovi: nel 1954 il governo soppresse l'educazione religiosa nelle scuole, tentò di legalizzare la prostituzione, di far passare una legge sul divorzio, e di promuovere un emendamento costituzionale per separare completamente Stato e Chiesa. Perón, poi, accusò pubblicamente il clero di sabotaggio. Il 14 giugno1955, durante la festa del Corpus Domini, i vescovi Manuel Tato e Ramón Novoa fecero discorsi antigovernativi. Fu il punto di rottura: durante quella stessa notte gruppi di peronisti attaccarono e bruciarono alcune chiese di Buenos Aires. Perón divenne apertamente anticlericale e, due giorni dopo questi fatti, venne scomunicato da papa Pio XII. Perón venne deposto nel 1955, ma tornò al potere nel 1973. Alla sua morte (1974) il potere passò alla terza moglie Isabelita Perón, che venne deposta a sua volta da un golpe militare. La dittatura di Jorge Rafael Videla, sosteneva la religione come mezzo di controllo sociale, anche se vi furono molti preti e religiosi che finirono nel numero dei desaparecidos. Con il ritorno della democrazia, ci sono stati alcuni contrasti fra la Chiesa e il governo di Néstor e Cristina Fernández de Kirchner.

Campagna elettorale per la Costituzione dell'Ecuador. In occasione del referendum costituzionale del settembre 2008, la Chiesa cattolica ha preso posizione guidando il fronte del no e ha invitato gli elettori a votare contro la proposta dell'Assemblea costituente ecuadoriana perché, a giudizio dei vescovi, la nuova Costituzione non avrebbe tutelato il diritto alla vita del concepito, lasciando intravedere il diritto per le donne all'aborto. La nuova Costituzione ecuadoriana, all'articolo 66.3.a, tutela infatti l'integrità fisica, psichica, morale e sessuale di ogni persona, senza specificare, come avrebbe voluto la Chiesa, un primato del concepito sulla madre. L'articolo 66.9 garantisce il diritto di decidere sulla propria sessualità e orientamento sessuale. L'articolo 66.10 garantisce il diritto di decidere quanti figli generare e quando. Secondo i vescovi gli articoli sarebbero vaghi e generici e permetterebbero l'introduzione del diritto all'interruzione di gravidanza e del matrimonio omosessuale. Il governo di Rafael Correa ha reagito fermamente alle critiche avanzate dai vescovi cattolici, invitando gli elettori a non farsi catechizzare dai preti, accusati, senza mezzi termini, di mentire e di esercitare indebite ingerenze nella politica nazionale. Il presidente del Tribunale supremo elettorale, Jorge Acosta, ha invitato pubblicamente la Conferenza Episcopale Ecuadoriana a registrarsi come soggetto politico per continuare la sua «campagna di catechesi costituzionale», accusandola al contempo di non aver rispettato le norme giuridiche e di non aver nominato un tesoriere per il finanziamento della campagna stessa. L'episcopato cattolico ha invocato il diritto di esprimere la propria opinione richiamandosi alla Dichiarazione universale dei diritti umani e ha protestato per gli epiteti offensivi rivolti a vescovi e sacerdoti nella campagna del governo, costata milioni di dollari. Anche il Centro Latinoamericano dei Diritti Umani ha espresso la sua preoccupazione per gli attacchi verbali del presidente Correa contro la Conferenza Episcopale. Gli elettori ecuadoriani hanno poi, nel referendum, approvato la Costituzione con un'ampia maggioranza di circa il 64% contro circa il 29%. Durante la visita ad limina a papa Benedetto XVI nell'ottobre del 2008, i vescovi ecuadoriani hanno espresso disappunto per i rapporti con il governo ecuadoriano, giudicato anticlericale.

Anticlericalismo negli Stati comunisti. Molti governi comunisti, che praticavano l'ateismo di Stato, sono stati violentemente anticlericali, abolendo le festività religiose, imponendo il solo insegnamento dell'ateismo nelle scuole, chiudendo chiese, monasteri, scuole ed istituti religiosi. Il culto privato rimase ufficialmente consentito, tranne nell'Albania, che imponeva l'ateismo anche nella propria Costituzione. A Cuba le manifestazioni religiose pubbliche sono state rese legali solo nel 1993. In alcuni stati fortemente cattolici, come la Polonia, la Chiesa era tollerata fino a quando restava in ambito religioso e non interferiva o criticava il governo comunista. In Russia, poi Unione Sovietica, nel marzo del 1922 viene decisa la requisizione degli oggetti di culto preziosi appartenenti al clero, ufficialmente allo scopo di rimediare agli effetti della carestie che si erano accompagnate durante la guerra. Tuttavia, molti ritengono che tale provvedimento fosse in realtà finalizzato a provocare la reazione degli ecclesiastici (che consideravano i paramenti liturgici sacri), per poterli perseguitare "con ragione". Infatti si ebbero circa un migliaio di episodi di "resistenza", a seguito dei quali i Tribunali rivoluzionari comminarono la pena di morte a 28 vescovi e 1215 preti e la pena detentiva a circa 100 vescovi e diecimila preti. In tutto, durante tale "iniziativa", vennero uccisi circa ottomila membri del clero. In dicembre viene organizzata una campagna pubblica per irridere il Natale; simili manifestazioni si avranno l'anno seguente anche in occasione della Pasqua e della festa ebraica del Yom Kippur. Migliaia di monaci e sacerdoti sono stati condannati a morte o ai lavori forzati nei gulag durante il regime di Stalin. La separazione tra Stato e Chiesa venne decisa nel territorio dell'URSS il 23 gennaio 1918 dai soviet, poco dopo la fine della Rivoluzione russa. Lo Stato divenne laico e ufficiosamente ateo, sostenendo l'ateismo di Stato, anche se ciò non venne mai sancito esplicitamente nelle Costituzioni, che si limitavano a nominare la religione solo affermando la divisione netta tra Chiesa e Stato e la libertà di culto e coscienza; l'ateismo di stato venne attuato in forma di politica governativa anticlericale e antireligiosa, dal punto di vista pratico e culturale, tramite leggi ordinarie e propaganda. La religiosità venne ridotta a semplice scelta privata, secondo l'ideologia di Lenin e del marxismo, da considerare lecita ma da scoraggiare, al di fuori della sfera personale. La chiesa ortodossa russa fu costretta a rinunciare a tutti i privilegi, come l'esenzione dalle tasse e dal servizio militare per i sacerdoti e i monaci, e per un certo periodo perseguitata. Con la Costituzione sovietica del 1918, emanata per la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poi estesa alle altre repubbliche federate, venne permesso di svolgere formalmente "propaganda religiosa e non-religiosa", anche se svolgere attiva propaganda di religione o di idee ritenute "superstizioni" in luogo o edificio pubblico (come la propaganda religiosa nelle scuole, l'esposizione di immagini religiose nei luoghi di lavoro, le processioni, ecc.) poteva essere sanzionato con multe o lavori forzati fino a 6 mesi. Coloro i quali non svolgevano lavori socialmente utili (non solo ecclesiastici, ma anche ex agenti zaristi, privati, ad eccezione di artigiani e contadini dei colchoz, ecc.) venivano esclusi dal voto e non pagati, restrizione poi eliminata nel 1936. Quindi questi ultimi, una volta esaurite le risorse di cui erano dotati, dovettero svolgere un altro lavoro per sostentarsi, secondo il principio "chi non lavora non mangia". Venne introdotto il matrimonio civile e negata validità legale a quello religioso, vennero distrutte alcune chiese che occupavano suolo pubblico, altre vennero convertite in uffici e musei pubblici e vennero inoltre abolite tutte le feste religiose come ad esempio il Natale o lo Yom Kippur ebraico. Con Stalin il processo antireligioso dello Stato fu completato. La costituzione sovietica del 1924 non conteneva esplicitamente norme sulla religione, in quanto era stata votata come integrazione per sancire la nascita dell'unione federale delle repubbliche come Unione sovietica, mentre per quanto riguarda i diritti e doveri dei cittadini, restò in vigore la relativa parte della costituzione del 1918. Infine, solo in alcune località remote venne concesso di svolgere cerimonie religiose. Secondo fonti ortodosse, nel 1917 erano attive circa 80.000 chiese, mentre è stato calcolato che erano circa 20.000 nel 1954 e 10.000 nel 1965. La Costituzione sovietica del 1936 sancì la libertà di culto privato, e autorizzò solo la propaganda antireligiosa, ribadendo nuovamente la netta divisione tra Chiesa e Stato. Restarono valide le normative penali del 1922 contro le "superstizioni religiose" diffuse in pubblico. Nel 1927 venne approvato l'articolo del codice penale che sanciva, tra l'altro, che svolgere propaganda religiosa in tempo di guerra o crisi, se considerato fatto con lo scopo preciso di abbattere il regime comunista o danneggiare direttamente o indirettamente lo Stato, poteva essere punito anche con la pena di morte. Durante la seconda guerra mondiale, nel1943, Stalin diede una tregua alla campagna antireligiosa e chiese al patriarca Sergio I di Mosca (in seguito a un incontro avvenuto tra i due) di supportare moralmente i soldati al fronte contro i nazisti. Nello stesso periodo Sergio I rientrò a Mosca e morì nel 1944. Stalin concederà poi alla Chiesa ortodossa la possibilità di celebrare funzioni religiose, ma solo all'interno delle chiese autorizzate e nel privato. Con Nikita Khruščёv riprendono le misure più restrittive verso la Chiesa, e si riprende la propaganda attiva dell'ateismo di Stato dopo la tregua iniziata nel 1943 e durata sino al 1954. Soltanto negli anni ottanta, dopo la continuazione della politica antireligiosa dei governi Breznev, Andropov e Cernenko, vi fu una nuova tregua nella lotta attiva contro la religione, a partire dall'ascesa al potere diMichail Gorbačëv. La situazione di tolleranza pratica perdurò fino al 1990, quando Gorbačëv permise la libera propaganda religiosa e instaurò la libertà di culto in via ufficiale, al posto dell'ateismo di stato. Istituì inoltre l'Istituto per l'ateismo scientifico di Leningrado, che durò fino allo scioglimento dell'URSS, nel 1991. Nell'Unione Sovietica vennero introdotti il divorzio (1º dicembre 1917) e l'aborto nel 1920 (reso molto più difficile da Stalin nel 1935, poi reintrodotto nel 1955) e negata la validità del matrimonio religioso (dicembre 1917). Anche in Cina l'anticlericalismo ha comportato la soppressione (spesso anche fisica) del clero di varie religioni, compreso anche il monachesimo buddista del Tibet. La libertà religiosa ufficialmente è assicurata, anche se in realtà alcuni movimenti sono perseguitati e la stessa Chiesa cattolica e la nomina dei suoi vescovi sono subordinate all'avallo del Partito Comunista Cinese.

Anticlericalismo negli stati islamici. Influenzati dall'occidente anche alcuni Paesi islamici, principalmente la Turchia negli anni venti e l'Iran negli anni sessanta, vararono provvedimenti anticlericali contro il clero musulmano. «Per quasi cinquecento anni, queste regole e teorie di un vecchio arabo e le interpretazioni di generazioni di religiosi pigri e buoni a nulla hanno deciso il diritto civile e penale della Turchia. Loro hanno deciso quale forma dovesse avere la Costituzione, i dettagli della vita di ciascun turco, cosa dovesse mangiare, l’ora della sveglia e del riposo, la forma dei suoi vestiti, la routine della moglie che ha partorito i suoi figli, cosa ha imparato a scuola, i suoi costumi, i suoi pensieri e anche le sue abitudini più intime. L’Islam, questa teologia di un arabo immorale, è una cosa morta. Forse poteva andare bene alle tribù del deserto, ma non è adatto a uno stato moderno e progressista. La rivelazione di Dio! Non c’è alcun Dio! Ci sono solo le catene con cui preti e cattivi governanti inchiodano al suolo le persone. Un governante che abbisogna della religione è un debole. E nessun debole dovrebbe mai governare.» Mustafa Kemal Atatürk, militare e politico membro del movimento dei Giovani Turchi e della Massoneria, prese il potere nel 1923. Egli era anticlericale e in favore di un forte nazionalismo, il suo modello di riferimento trovava radici nell'Illuminismo. Aveva l'ambizione di creare una moderna forma di civiltà turca. Durante tutto il periodo e anche oltre, l'esercito rimase il pilastro della nazione e la scuola fu riformata in modo da essere laica, gratuita e obbligatoria. La nuova capitale fu posta ad Ankara, scelta a scapito di Istanbul (due volte capitale imperiale: Impero Romano d'Oriente ed Impero Ottomano). La lingua fu riformata nello stile e nell'alfabeto: l'alfabeto ottomano di origine araba venne sostituito dall'alfabeto latino nel 1928. Nello stesso periodo la storia venne riscritta per dare radici alla nazione, e legarla all'occidente. Kemal, la cui ideologia è detta kemalismo, introdusse il cognome al posto del patronimico arabo: a lui il parlamento assegnò il cognome Atatürk, cioè "padre dei turchi". Usanze islamiche, come portare la barba, i baffi alla turca o i copricapi arabi come il fez furono scoraggiate o vietate (ai militari fu proibito di portare i baffi e tuttora devono essere sbarbati). Dalla rivoluzione del 1908, i diritti delle donne uscirono rinforzati. Nel 1919, sotto l'influsso dei militari, furono adottate misure per cambiare lo status delle donne: la parità con gli uomini fu riconosciuta nel codice civile, il matrimonio civile reso obbligatorio per chi volesse sposarsi, fu introdotto il divieto di poligamia, vietati il ripudio (divorzio unilaterale maschile) e l'uso del velo islamico nei luoghi pubblici (possibilità resa nuovamente lecita solo nel 2011), legalizzata la produzione e la vendita delle bevande alcoliche, resa obbligatoria l'iscrizione a scuola per le bambine, incentivata l'assunzione di donne in vari posti di lavoro e così dicendo. Nel 1934 fu riconosciuto alle donne il diritto di votare e nel 1935 furono elette delle donne al parlamento turco. La Turchia kemalista era risolutamente laica. Il califfato fu abolito il 3 marzo 1924. Questo gesto fu considerato come un sacrilegio da parte del mondo arabo-musulmano. Nel 1928, primo paese del mondo musulmano, l'Islam non era più la religione di Stato e, nel 1937, il secolarismo venne sancito nella Costituzione. Fu adottato il calendario gregoriano, e la domenica divenne il giorno settimanale di riposo. Proseguendo la secolarizzazione delle leggi cominciata nel 1839 dalleTanzimat (riforme) dell'Impero Ottomano, il regime kemalista adottò nel 1926, un codice civile sulla base del codice svizzero, un codice penale sulla base del codice italiano e un codice commerciale basato sul Codice tedesco. Furono abolite le pene corporali previste dalla legge islamica, i reati di apostasia e adulterio. L'anticlericalismo del regime era pronunciato, ma lo spiritualismo musulmano non fu mai completamente abbandonato. L'Islam e le altre religioni, compreso il cristianesimo, erano inoltre controllate attraverso l'Organo per la Direzione degli Affari Religiosi, creato nel 1924. Sotto l'influsso del kemalismo anche dopo la morte del leader continuarono le riforme: fu depenalizzata l'omosessualità, anche se i gay turchi vengono tuttora discriminati, non potendo, ad esempio, far parte dell'esercito. In tempi recenti l'avvento al potere di un partito islamico moderato, anche se non ha abolito lo Stato laico, ha incrementato tuttavia la rinascita di movimenti e sentimenti "islamisti". Nel 2008 i militari, guardiani del secolarismo secondo la visione di Atatürk hanno tentato un colpo di Stato, fallito, in difesa della laicità e contro il governo eletto di Recep Tayyip Erdoğan. Mohammad Reza Pahlavi, scià di Persia, varò la cosiddetta rivoluzione bianca, che modernizzò il Paese in senso occidentale; benché egli, a differenza di Atatürk, fosse un fervente praticante musulmano (nonché formalmente capo supremo dell'Islam sciita duodecimano), era fortemente e violentemente avverso al clero e all'influenza dei mullah. Reza proibì, ad esempio, l'uso del velo in luoghi pubblici e perseguitò il clero che si opponeva alle riforme occidentalizzanti, uccidendo, imprigionando o esiliando i mullah e gli imam, compreso l'Ayatollah Khomeini inviato in esilio nel 1964. Lo scià modernizzò il paese con la forza, ma vietò ogni tipo di opposizione alla sua monarchia. Furono resi legali il gioco d'azzardo, la prostituzione, le bevande alcoliche, istituito il suffragio femminile e il matrimonio civile. Tra il fronte di rivolta alle riforme pahlavidi, soprattutto per la loro impronta giurisdizionalista, si schierò soprattutto il clero sciita perché veniva privato dei benefici assolutisti, nonché gruppi religiosi che si erano opposti alla sua riforma agraria e sociale, che venivano espropriati di molti beni di manomorta, controllati dalle gerarchie religiose. Tuttavia, la sua posizione ambivalente nei confronti della religiosità iraniana, della quale era virtualmente anche il capo (incarnando un modello cesaropapistico), lo poneva in difficoltà impedendogli di prendere provvedimenti drastici onde evitare lo scontento aperto e manifesto delle masse popolari. Alla rivoluzione iraniana, nel 1979, Khomeini prese il potere e lo scià dovette fuggire. I religiosi instaurarono un regime clericale ed islamista, la repubblica islamica, che cancellò le riforme del periodo Pahlavi e perseguitò anche la sinistra che aveva contribuito a combattere l'autocrazia dello scià.

Anticlericalismo oggi in Italia. Il potere temporale dei papi ha cessato di esistere, ad esclusione ovviamente del diritto a legiferare e governare nei limiti territoriali della Città del Vaticano, ma rimangono tuttora fortemente contestati, da parte di alcuni ambienti laici, la ripetuta attività di pressione, diretta e indiretta, esercitata dalla Chiesa, in nome dei propri valori e delle proprie finalità, nella società e nella politica, anche attraverso la ramificata presenza delle sue organizzazioni all'interno di partiti, associazioni, enti pubblici e privati. L'anticlericalismo rimane presente in varie forme in alcuni giornali satirici come il settimanale parigino Le Canard enchaîné, e nel dibattito politico e culturale di vari stati, come reazione all'influsso esercitato dalla chiesa sui partiti politici che dichiarano di richiamarsi ai valori cristiani e sui governi degli stati a maggioranza cattolica. Oggi l'anticlericalismo in Italia si esplica nelle tensioni della attualità politica; l'etica e la morale sono ancora terreno vivo e fertile dello scontro tra parti, tra Stato e Chiesa, tra comunità scientifiche. Tra le questioni dibattute sono sicuramente al vertice la libertà di ricerca scientifica, in particolare sulle cellule staminali embrionali, la procreazione medicalmente assistita sia eterologa che omologa, l'eutanasia e la terapia del dolore, le unioni civili, la legalizzazione dell'aborto, la contraccezione e la pillola RU486. L'anticlericalismo contemporaneo spesso focalizza l'attenzione sugli aspetti più arretrati che ritiene presenti, sia pure con diversi livelli di gravità, in diverse religioni, come l'Islam quali, ad esempio, la condizione di subalternità della donna. In questo senso, si potrebbe ritenere come anticlericale la recente legge varata in Francia che vieta l'uso del velo e dei simboli religiosi all'interno delle aule scolastiche. La possibilità che, su invito del rettore, papa Benedetto XVI potesse inaugurare l'anno accademico all'università la Sapienza di Roma, il 17 gennaio 2008, è stata contestata fortemente da alcuni gruppi studenteschi e da 67 professori, in particolare di materie scientifiche. Richiamandosi ad una lettera aperta di Marcello Cini al rettore apparsa su il manifesto, i contestatori ritenevano inopportuna la visita del papa sulla base di una citazione del Pontefice, risalente ad un suo discorso del1990 tenuto a Parma. L'allora cardinale Ratzinger aveva citato il filosofo Feyerabend: «La Chiesa dell'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione». Questa citazione costituiva, secondo i 67 professori (tra cui il presidente del CNR), una minaccia alla laicità della scienza. La contestazione portò all'annullamento della visita del Papa, che preferì declinare l'invito del rettore, in quanto non era condiviso da tutta l'università.

Alla testa dei cattocomunisti ci stanno i comunisti, con i cattolici che fanno da prestanome, pronti ad essere sfrattati quando necessario, scrive Diego Gabutti il 28 ottobre 2015 su “Italia Oggi”. Vittima prima del libro Cuore e della retorica risorgimentale, poi del fascismo, quindi del clericalismo e del comunismo, infine del giustizialismo e del berlusconismo, mai che sull'Italia brilli una buona stella, come sa bene Massimo Teodori. Radicale storico, uno dei rari intellettuali laici e liberali in un paese di bacchettoni, devoti soltanto a ubbìe ideologiche e a idee fisse religiose, Teodori continua la sua esplorazione dell'Italia sotto sortilegio illiberale (e luogo di catastrofi culturali) con il suo ultimo libro, Il vizietto cattocomunista (Marsilio 2015, pp. 176, 14,00 euro, ebook 9,99 euro). È la storia lunga settant'anni «del connubio tra eredi del Pci e della sinistra democristiana» che ha per capolinea il partito democratico di Matteo Renzi. Teodori ripercorre nel suo libro tutta la vicenda: la guerra di Togliatti contro Benedetto Croce e gli altri nemici del Concordato con la Chiesa, il congresso della gioventù comunista in cui un Enrico Berlinguer poco più che ventenne invitava le giovani militanti a prendere esempio (in fatto di morale sessuale) da Santa Maria Goretti, gl'innumerevoli tentativi d'arruffianarsi la sinistra cattolica, le titubanze in tema d'aborto e di divorzio, l'epoca in cui Berlinguer (sempre lui) predicava il compromesso storico tra comunisti e democristiani contro le derive (non sembra vero, visto il pulpito) clericali e autoritarie, l'odio per il laicismo craxiano, la guerra contro il consumismo e l'elogio dell'austerità, l'invenzione della «questione morale», poi la crisi del comunismo internazionale e la caduta dell'Urss. Arrivano i giorni di Tangentopoli, Craxi se ne va in esilio come Trotzky, i laici si raccolgono intorno al nascente partito di plastica, sparisce la Dc, il Pci cambia nome. In questa generale rovina una sola forza ideologicamente e politicamente attiva porta a casa la pelle: il cattocomunismo, con i suoi ingombri religiosi e i suoi pregiudizi ideologici. Alla testa dei cattocomunisti ci sono i comunisti e i cattolici (tra cui lo stesso Romano Prodi) fanno più che altro da prestanome (come gli «utili idioti» d'un tempo, che potevano essere sfrattati senza preavviso da ogni incarico). Poi Matteo Renzi chiede banco, come a baccarat. Sono i cattolici, non appena il suo astro comincia a salire, a distribuire le carte: la sinistra mesozoica e stalinista, nata con Togliatti nel 1944, viene rottamata di prepotenza. Finiscono tra i rottami anche i cattolici di sinistra troppo compromessi con la Ditta post comunista. Che la storia dei cattocomunisti prosegua oltre, è naturalmente possibile, specie in un paese sventurato come il nostro, che per i mostri della ragion politica ha sempre avuto un debole. Ma il partito renziano, dopo tanti esperimenti falliti, sembra un esperimento finalmente riuscito, diversamente dall'alleanza più o meno organica «tra forze popolari e cattoliche» vagheggiata da Palmiro Togliatti nei primi giorni della repubblica, o dal «compromesso storico» berlingueriano, dalla «solidarietà nazionale» e dall'Ulivo prodiano. Duri tanto o poco, sempre più «catto» e sempre meno «comunista», il partito democratico a guida renziana ha messo definitivamente in crisi la ragion sociale del cattocomunismo. È probabile che già al prossimo passaggio elettorale resti soltanto l'ala cattolica e che i comunisti lascino la scena una volta per tutte. Può darsi, come si diceva, che la storia finisca qui, col trionfo dei cattolici dossettiani d'antan, non si sa se più populisti o più clericali, di cui Renzi è insieme l'erede e la caricatura. E già questo sarebbe un pessimo finale di partita. Ma c'è il rischio che, finita questa storia, ne cominci un'altra, più minacciosa ancora. Se ne intravedono i primi segni nel gesto da Papa Re col quale Francesco I prima ha congedato il sindaco Marino dal Campidoglio e poi ha chiesto scusa ai romani per la sua sindacatura. Stanno tornando i clericali, e i loro «utili idioti» sono i talk show sempre più devoti e i comici televisivi che abbracciano la teologia della liberazione.

Il libro di Massimo Teodori: "Il vizietto cattocomunista. La vera anomalia italiana". Si svelano qui le ambiguità di settant’anni di egemonie cattoliche e comuniste che - combinate nel «vizietto cattocomunista» - hanno reso l’Italia una democrazia anomala. Nei grandi Paesi europei l’alternarsi al potere di conservatori e riformatori ha prodotto l’espansione del benessere e delle libertà. In Italia, invece, la sinistra comunista e postcomunista, confluita con i democristiani nel Partito democratico, è rimasta estranea al riformismo socialista di stampo europeo e ha guardato con ostilità alla laicità dello Stato, con effetti negativi sui diritti civili e la giustizia sociale. L’anomalia cattocomunista italiana è destinata a continuare all’infinito? Con il rigore dello storico e lo spirito critico del laico, Massimo Teodori mette in luce l’intreccio perverso tra il conservatorismo burocratico comunista e il rapace «attaccamento alla roba» dei clericali: dalla versione di Palmiro Togliatti, che votando il Concordato pensava di giocare il Vaticano e ne fu giocato, al fatale moralismo di Enrico Berlinguer, attratto dal mondo cattolico, fi no ai postdemocristiani d’oggi, Matteo Renzi e Sergio Mattarella, assurti al massimo potere con il benestare dei postcomunisti. «Se è vero che Renzi ha rimosso le scorie veterocomuniste - scrive Teodori - è altrettanto incontestabile che non ha tagliato i ponti con il cattocomunismo, la vera palla al piede del riformismo italiano insediato al centro del Partito democratico».

Ora ci impongono lo Stato (diet)etico. "Repubblica" rilancia l'appello "liberal" a mangiare vegano, per essere coerenti coi principi di giustizia anche verso gli animali. Un animalismo caricaturale che cela un'ideologia anti-umanista e totalitaria. Il prossimo passo sarà la dieta di Stato? Scrive Corrado Ocone su “L’Intraprendente" del 27 gennaio 2016. Un virus si aggira per il mondo culturale americano. È contagioso e pericoloso perché causa seri danni all’organismo vitale. Dai sintomi che lo accompagnano potremmo definirlo come la “chiusura della mente occidentale”. Ed è pericoloso perché si annida nel settore dominante delle accademie, del giornalismo, dell’editoria e di certo mondo giornalistico: il pensiero liberal. L’ultima manifestazione è davvero stupefacente: ce ne ha dato notizia, con un certo compiacimento, l’antropologo Marino Niola sulle pagine di Repubblica. Essa si è appalesata sulla rivista onlinecultural-chic “Salon” sotto forma di un appello lanciato agli intellettuali dal medico e psichiatria Steve Stankevicius. In esso, gli sciagurati, che sicuramente come la monaca di Monza risponderanno, sono chiamati a dare finalmente coerenza al loro pensiero a farsi tutti vegani in nome dei “diritti degli animali”. Siete per i diritti di tutti, indifferentemente e a prescindere da quello che essi sono e fanno, fossero pure dei delinquenti? Volete eliminare la sofferenza dal mondo e farci vivere in un eden ovattato di sicura e rassicurante felicità, casomai sotto il manto protettivo di uno Stato e di un welfare che ci accompagni “dalla culla alla bara” in nome di astratti “principi di giustizia”? Bene, dice Stankevicius, non potete non estendere anche agli animali questa etica utilitaristica e, in quanto tale, direi, profondamente immorale. In questo modo di ragionare, che aveva avuto come capostipite qualche decennio fa un sopravvalutato filosofo di Princeton, Peter Singer, vediamo all’opera, quasi in modo paradigmatico, tutte le contraddizioni e tutti i vizi del pensiero liberal. Le contraddizioni, sol che si pensi che quasi sempre coloro che vorrebbero equiparare le bestie agli uomini, in nome dell’astrattissimo concetto di “vita organica” o “sensibile”, sono gli stessi che negano all’embrionela vita in nome del diritto della donna ad abortire (e poi perché fermarsi al mondo vegetale: non sono anche le verdure, seppur a uno stadio minimo, forme di vita?). Ma anche i vizi del pensiero liberal, sia teorici che pratici. I primi sono riconducibili a quello che già Hegel chiamava “intelletto astratto”, incapace di vedere il senso ultimo delle cose del mondo, che è storico e umano. I secondi riconducibili invece all’intolleranza di chi non si limita a fare una personale e legittima scelta dietetica ma, ammantandola di valori etici, vuole imporla agli altri apostrofando come immorale qualsiasi altro regime alimentare. Statene certi: il passo successivo sarà l’imposizione per legge della “dieta giusta”, la “dieta di Stato” (secondo i dettami socialisti dello Stato etico rimodellato come Stato dietetico). Ancora più preoccupante è poi il fatto che al fondo di questo acritico animalismo ci sia un’ideologia ecologista e quindi antiumanista che, sconfessando il valore ultimo della nostra civiltà cristiano-liberale, cioè appunto l’uomo nella sua singolarità e libertà, vuole mettere in discussione lo stesso sistema di sviluppo e civiltà che chiamiamo Occidente. Una civiltà, quella occidentale, che è umanistica perché profondamente cristiana, checché ne possa dire un Papa tendenzialmente succube dei tempicome il Francesco che, ad esempio, fa proiettare bestie di ogni tipo sul cupolone. E che è altresì umanistica perché profondamente liberale, cioè ponente l’individuo al centro di ogni etica e ontologia. Il buon Niola, cercando un supporto alla tesi animalistica, non si accorge di citare per lo più eresie cristiane fondate sul pericoloso concetto di “purificazione” (in uno spettro che va dalla gnosi ai catari) o pensatori profondamente illiberali come Rousseau. D’altronde, e non sembri una esagerazione dirlo qui perché ha una sua logica e coerenza, sembra che anche Hitler amasse gli animali e fosse rigorosamente vegetariano. Tutto si tiene e tutto coopera affinché noi si gridi forte, prima di tutto ai cosiddetti “intellettuali”, di lasciarci vivere e mangiare come meglio ci aggrada. La scelta vegana? No, grazie.

Perseguitato fino alla morte per la lapide "repubblichina". Un monumento in ricordo dell'eccidio di Saccol sul terreno di un ottantenne scatena i partigiani e la sinistra. L'anziano preso di mira ha avuto un infarto, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 05/02/2016, su "Il Giornale". I morti degli sconfitti, quelli di serie B, non hanno mai pace. Soprattutto se credevano nella Repubblica sociale italiana, comprese donne e civili, trucidati senza processo dai partigiani. Prima si scatena la levata di scudi ideologica. Se non basta entrano in gioco burocratiche norme anti abusivismo, applicate da un vigile troppo zelante, che in questo caso coincidono, stranamente, con il politicamente corretto. Alla fine la lapide che ricordava 23 civili e militari della Rsi ammazzati dai partigiani viene tolta. E di mezzo va a finire anche l'ultra ottantenne, testimone della strage e proprietario del terreno dove era stata posta la lapide. Antonio Zanetton è morto in ospedale lo scorso mercoledì. Negli ultimi mesi si sentiva ossessionato dalle intimazioni dei vigili di rimuovere la lapide per gli sconfitti considerata abuso edilizio. «Un volgare pretesto. Prima ci hanno provato con la campagna denigratoria sui media. Poi è arrivata l'azione intimidatoria dei vigili, ma noi quella lapide la rimetteremo al suo posto» spiega a il Giornale, Elena Donazzan, assessore regionale in Veneto, presente all'inaugurazione lo scorso settembre. E aggiunge: «La burocrazia è stata usata come un'arma. Non sapevo che il proprietario del terreno fosse morto, ma per una persona anziana subire denunce e pressioni dei vigili può aver peggiorato le condizioni di salute». La storia ha inizio a Valdobbiadene (nel Trevigiano), a guerra finita, nella notte fra il 4 e 5 maggio del 1945, quando una cinquantina di prigionieri, in gran parte della X Mas, che si erano arresi, vengono passati brutalmente per le armi dai partigiani «rossi». Lo scorso settembre la sezione Piave dei paracadutisti d'Italia inaugura una lapide a Saccol grazie all'interessamento dell'ex senatore di An, Antonio Serena, e di Luciano Sonego nel mirino della sinistra, che li bolla come «pseudo storici» nostalgici. «A 100 metri da qui il 5 maggio 1945 partigiani della Mazzini rinchiusero in una galleria fatta poi esplodere 23 civili e militari R.S.I. - In loro memoria i familiari posero - 2015» era inciso sul marmo. Prima della cerimonia si alzano gli scudi antifascisti dei partigiani dell'Anpi e della Cgil di Treviso. La senatrice Pd, Laura Puppato, emette un comunicato-sentenza: «No a raduni fascisti! (...) è un pretesto per rivisitare la storia». All'inaugurazione è presente Donazzan e pure l'assessore di Valdobbiadene, Tommaso Razzolini, anche se il Comune non concede il patrocinio. Antonio Zanetton, classe 1930, che ospita sul suo terreno la lapide, è un testimone della strage. La storia sembra essere finita, ma in ottobre un vigile troppo zelante del Comune bussa alla porta di Zanetton con un verbale di abuso edilizio. La colpa è l'«installazione di una lapide in pietra (...) in zona sottoposta a vincolo ambientale e paesaggistico». Il sindaco, Luciano Fragonese, scende in campo e ribadisce: «Non strumentalizzate la vicenda. Davanti ad un abuso i vigili non possono far finta di non vedere». L'assessore regionale Donazzan tuona con il Giornale: «Il presunto abuso è un grimaldello burocratico che nasconde una stortura ideologica». L'ex senatore Serena sostiene che «sono state messe delle lapidi dei partigiani senza permessi particolari. Il Comune con la presenza dava il via libera e all'inaugurazione di Soccol c'era un assessore. Poi si è messo di mezzo il vigile troppo zelante». Personaggio che ne ha già combinate parecchie per motivi non ideologici e alla fine è stato rimosso. «Prima però l'anziano proprietario ha subito un vero e proprio stalking. Era ossessionato da questa storia. Per questo faremo un esposto in procura» spiega Serena. Il Comune intima di pagare una sanzione di 2.000 euro per farla finita, ma gli organizzatori vogliono andare davanti ad un giudice. «Ogni volta che arrivavano i vigili Zanetton mi chiamava palesando il suo disagio. Preoccupazione continua, il riposo notturno oramai un dormiveglia e la sua famiglia accusava il colpo di queste denunce dal sapore intimidatorio» racconta Sonego, uno degli organizzatori del ricordo. Zanetton, impaurito e cardiopatico, vuole disfarsi della grana, ma in gennaio finisce in ospedale. Il poveretto muore mercoledì scorso, il giorno dell'ultimatum del Comune, che ha portato alla rimozione della lapide «abusiva». In una maniera o nell'altra missione compiuta: Nessun ricordo per i morti degli sconfitti.

Servello, il Famedio e l'odio che non passa. L'Associazione partigiani contesta la decisione del Comune di ricordarlo tra i milanesi illustri, scrive Giannino della Frattina, Sabato 17/10/2015, su "Il Giornale". Si leggeva ieri su Repubblica un ampio resoconto dell'ennesima fatwa dell'Anpi. L'Associazione nazionale partigiani che ancora una volta si scaglia indignata contro l'ennesimo attentato all'Italia democratica e repubblicana. E soprattutto alla Milano medaglia d'oro allea Resistenza. «È un errore onorare Servello al Famedio» recitava il titolo grande, citando le parole del presidente Roberto Cenati dopo la decisone del Comune di ricordare il politico missino al Cimitero Monumentale. «Sarebbe il primo uomo di destra a cui viene riservato questo onore», sottolinea il vice presidente del consiglio comunale Riccardo De Corato, la cui proposta è stata accettata dalla commissione formata dall'ufficio di presidenza e dagli assessori Franco D'Alfonso e Filippo Del Corno. Un sì unanime e bipartisan. «Forse - aggiunge De Corato - a infastidire è che a deciderlo sia stata proprio un'amministrazione di sinistra». Proprio così. Perché per l'Anpi il reato di leso antifascismo è ancora una volta il desiderio di ricordare un defunto. Il sangue di un vinto arrivato per sua fortuna (e benedizione del destino) a trovare una morte serena nel suo letto, alla veneranda età di 93 anni. Mica da pericoloso eversivo. Appassionato di calcio e grande interista, fu nel consiglio di amministrazione dell'Inter di Helenio Herrera e Angelo Moratti. Dal 1958 in parlamento per il Msi, dal 1996 senatore e capogruppo di Alleanza nazionale alla Bicamerale, traghettò la destra nell'universo berlusconiano. Il 28 febbraio 2006 la comunicazione che non si sarebbe ricandidato. Gianfranco Fini lo ringraziò e il giorno della morte, il ferragosto del 2014, lo ricorderà come «uomo generoso e leale, ci mancherà la sua coerenza e la sua onestà». Ma non solo. Perché nel 2006 il Comune gli assegnò l'Ambrogino d'oro, la massima onorificenza della città. E lo stesso anno Servello fu nominato Grand'ufficiale della Repubblica. Eppure, secondo l'Associazione partigiani, il suo nome non deve essere scolpito nel marmo del Famedio, lì dove viene onorato il ricordo dei milanesi illustri. «Non rinnegò mai il Fascismo», la sentenza inappellabile dei partigiani che gli imputano anche l'organizzazione della manifestazione del 12 aprile 1973, finita negli scontri nei quali venne ucciso l'agente Antonio Marino. Peccato che da quei fatti i vertici milanesi del Msi furono assolti da una sentenza del tribunale. Il resto è vecchio armamentario di una sinistra che vive solo di logoro antifascismo. Un furore ideologico che impedisce di concedere quell'onore delle armi che già la storia ha concesso a chi a Fascismo ormai già morto e sepolto ha dedicato la vita a un impegno fedele all'interno delle istituzioni repubblicane. In un partito, per giunta, rimasto in piedi di fronte alle spranghe dei compagni sotto cui cadde col cranio sfondato il diciottenne del Fronte della gioventù Sergio Ramelli o alle pallottole che uccisero l'avvocato e consigliere provinciale del Msi Enrico Pedenovi. Ma anche agli assalti altrettanto temibili dei tribunali che portarono in carcere tanti giovani innocenti. «Senza di lui - ricordò un commosso Ignazio La Russa il giorno della morte - non avremmo resistito a Milano agli anni della ingiusta criminalizzazione e alla violenza rossa». Pagine della storia d'Italia che l'Anpi vorrebbe stracciare. L'Anpi, un'associazione nella quale ormai se non altro per ragioni anagrafiche, i veri partigiani sono oggi rimasti ben pochi. E che si guarda bene dal ricordare l'adesione al comunismo di Giorgio Napolitano a cui è stato riservato addirittura l'onore di diventare presidente della Repubblica. E, dunque, di tutti gli italiani. Avesse vinto la sua parte (e quella dei partigiani rossi dell'Anpi), a Roma sarebbero arrivati i carri armati russi. E difficilmente avremmo avuto una Repubblica.

La giornalista de L'Espresso: "I fascisti vanno solo menati". Beatrice Dondi, vicecaposervizio all'Espresso online e blogger dell'Huffington Post scrive un tweet al vetriolo durante le manifestazioni pro famiglia gay: "Nessuna tolleranza coi fascisti: vanno menati", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 26/01/2016. La democrazia a modo mio. A modo de L'Espresso e famiglia: o la pensi come loro, oppure meriti solo di essere menato. Il 23 gennaio scorso, mentre le (piccole) piazze italiane erano "invase" dai manifestanti favorevoli al ddl Cirinnà e alla famiglia omosessuale, Beatrice Dondi, giornalista dell'Espresso e blogger dell'Huffington Post, con un passato a Repubblica, ha lanciato in rete un tweet di profondo spirito democratico (si fa per dire). "A me i miei genitori tradizionali hanno insegnato il rispetto e la tolleranza. Tranne che con fascisti. Che vanno menati. #svegliatitalia". "Svegliati Italia" era ed è il motto dei favorevoli alle unioni omo. "Svegliati Italia", tira fuori il manganello e vai a menare i fascisti. Il tweet della Dondi è l'esempio lampante del concetto di tolleranza tramandato in generazioni di famiglie dalla sinistra radical chic. Rimane ancora da capire è a chi si riferisse la bionda giornalista. Se ad inesistenti balilla da "libro e moschetto, fascista perfetto", oppure a tutti coloro i quali credono che il ddl Cirinnà sia un obbrobrio legislativo e un errore politico. A chi crede nel diritto dei bambini ad avere un padre ed una madre, a non essere comprato attraverso la pratica dell'utero in affitto. A chi rivendica il diritto di manifestare al circo Massimo senza essere etichettati come omofobi e fascisti. I lettori mi scusino per l'eccessiva ripetizione del termine "diritto". Solo che, come dice Beatrice Dondi, la libertà a sinistra non è un principio universale. È solo radical chic. Se la pensi come loro sei democratico, altrimenti prima ti etichettano come fascista e poi ti menano. Sperando anche in una medaglia al valore. Perché in fondo il principio valido è sempre (ancora) quello: uccidere un fascista non è reato. E il bello è che la definizione di fascista la danno loro. Così possono decidere a chi affibbiare la "patente democratica" e chi lasciare senza. A me i miei genitori tradizionali hanno insegnato il rispetto e la tolleranza. Tranne che con fascisti. Che vanno menati.  

Testo La Democrazia (prosa) di Giorgio Gaber.

"Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno Stato di organizzarsi, sono arrivato alla conclusione che la democrazia è il sistema, più democratico che ci sia. Dunque c'è, la democrazia, la dittatura, e basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura in Italia c’è stata, e chi l'ha vista sa cos'è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. Io da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico apostolico romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa vuol dire, ma anche romano... Comunque diciamo, come si fa oggi, a non essere democratici?  Sul vocabolario c'è scritto che democrazia, è parola che deriva dal greco, e significa “potere al popolo”. L'espressione è poetica e suggestiva. Ma in che senso potere al popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c'è scritto. Però si sa che dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. E' nata così la famosa democrazia rappresentativa, che dopo alcune geniali modifiche, fa sì che tu deleghi un partito, che sceglie una coalizione, che sceglie un candidato, che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se lo incontri, ti dice giustamente: "Lei non sa chi sono io". Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Il referendum per esempio, è una pratica di democrazia diretta, non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla “variante di valico Barberino Roncobilaccio”, ha effettivamente qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire solo sì se vuol dire no, e no se vuol dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Ma il referendum ha più che altro un valore folcloristico simbolico. Perché dopo avere discusso a lungo sul significato politico dei risultati, tutto resta come prima, e chi se ne frega. Un altro vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari si chiama propaganda, e tu non puoi mai sapere la verità; in democrazia si chiama informazione, che per maggiore chiarezza ha il pregio di essere pluralista. Sappiamo tutto… sappiamo tutto ma anche il contrario di tutto, pensa che bello! Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al tre, al quattro, al sei ma anche al dieci percento, pensa che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12%, non si sa bene di cosa, e che possono aumentare o diminuire a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti abitanti ci sono in Italia, vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: chi va al sud, chi va al nord. Altro che ISTAT! Un’altra caratteristica della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri, come il gioco del Lotto, anche se meno casuale, ma più redditizio. Più è largo il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un grosso problema per chi governa: se ti dà il suo consenso, vuol dire che ha capito, che è consapevole e anche intelligente; se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci: la democrazia non è nemica della qualità, è la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno seguire? Pochi. Pochi, ma buoni. Eeh no, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri! Bisogna allargare il consenso, bisogna scendere alla portata di tutti, bisogna adeguarsi! E un’adeguatina oggi e un’adeguatina domani, e l’uomo di qualità ci prende gusto e… tac! Un’abbassatina. Poi c’è un altro che si abbassa più di lui e… tac tac! Un’altra abbassatina. Ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta! Un’altra caratteristica fondamentale della democrazia, è che si basa sul gioco delle maggioranze e delle minoranze. Se dalle urne viene fuori il 51 vinci, se viene fuori il 49 perdi. Ecco, dipende tutto dai numeri. Come al gioco del lotto, con la differenza che al gioco del lotto il popolo qualche volta vince, in democrazia mai. E se viene fuori il 50 e il 50? Ecco, questa è una caratteristica della nostra democrazia. È cominciato tutto nel 1948, se si fanno bene i conti, tra la destra, DC liberali monarchici missini eccetera eccetera, e la sinistra, comunisti socialisti socialdemocratici eccetera eccetera, viene fuori un bel pareggio. Poi da allora è sempre stato così, per anni. No adesso che c’entra, adesso è tutto diverso, eh è chiaro, è successo un mezzo terremoto, le formazioni politiche hanno nomi e leader diversi. Bè adesso non c’è più il 50% a destra e il 50% a sinistra. C’è il 50% al centrodestra e il 50% al centrosinistra. Oppure, il 50 virgola talmente poco, che basta che a uno gli venga la diarrea che cade il governo. Non c’è niente da fare, sembra proprio che gli italiani non vogliano essere governati, non si fidano. Hanno paura che se vincono troppo quelli di là, viene fuori una dittatura di sinistra. Se vincono troppo quegli altri, viene fuori una dittatura di destra. La dittatura di centro invece? Quella gli va bene. Auguri auguri auguri.

Gaber e la democrazia, scrive Fabio Balocco il 20 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Non mi piace l’Italia di oggi, credo lo si sia capito ampiamente. Non mi piace questo sistema elettorale, ma soprattutto non mi piacciono questi partiti. Non mi piacciono le lobbies a cui i partiti rispondono. Che poi sono sempre le stesse e mi hanno davvero stufato. Che palle! Mi piacciono invece le minoranze, mi piace la democrazia diretta, ma soprattutto mi piace che ci si esponga in prima persona, che la democrazia la facciamo tu, io, voi, noi, che venga su dal basso e non calata dall’alto. Mi piacciono gli ideali, gli impegni, mi piace che il cambiamento cominci dai cittadini. C’era un cantante, sì, proprio un cantante che queste cose le cantava chiare. Un cantante scomodo, a cui oggi non dedicano le vie o le piazze, che non è stato santificato dopo morto. Questo cantante era Giorgio Gaber. Per la carità, mi piaceva De André, lo adoravo, ma lui cantava altre cose. Gaber mi infondeva di più l’urgenza di incazzarmi, e la voglia di scendere in strada e possibilmente condividere con gli altri le stesse idee. Ecco, a Gaber volevo dedicare questo post e volevo ringraziarlo per quello che cantò.

La donna e l’intolleranza: della cultura di sinistra, scrive Remo Bassini l'8 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". La donna, da onorare e rispettare, si sa, è una barzelletta. Giorni fa parlavo con una mia amica psicologa dei danni che la televisione fa, mostrando strafiche al popolo di sesso maschile che guarda il piccolo schermo con la moglie accanto che strafica, ogni giorno che passa, lo è sempre meno. La psicologa mi fa: E non sai i danni che fa la televisione alle donne che sono state operate al seno e che magari sono gonfie… Una mi ha detto: Mi sento spazzatura. La tv spazzatura fa sentire spazzatura chi non dovrebbe, bene. Ma c’è un altro male per alcune donne: l’intolleranza. Della stessa sinistra bacchettona, a volte delle femministe. Una vita fa. Lavoro in fabbrica, io. Dopo il diploma così ho voluto. E sono iscritto al sindacato. Alla Cisl di Carniti. E faccio il sindacalista metalmeccanico in quelle che allora si chiamavano Commissioni interne. Un giorno c’è un’assemblea. Parla un sindacalista a tempo pieno. Forse è meglio non fare uno sciopero con un picchetto davanti alla fabbrica, dice. Poi spiega: I rapporti di forza sono cambiati, non sono più a nostro favore. La donna che mi sta accanto mi sussurra all’orecchio: Cosa vuol dire rapporti di forza? Giorni dopo sollevo la questione al sindacato. Dico che, almeno con gli operai e con le operaie, bisogna usare un linguaggio semplice. Mi risposero in malo modo. Chi non vuole essere tagliato dal mondo, chi non vuole essere sopraffatto deve attrezzarsi a capire. Ricordo perfettamente: era mattino. Sarei andato a lavorare il pomeriggio, turno dalle 14 alle 22. Lavoro, più viaggio, più darsi una ripulita – perché il grasso della fabbrica ti entra dentro la pelle e devi sfregare, sfregare – fa in tutto nove ore. Anche più. Io sono fortunato, perché per esempio non prendo l’autobus, che ci mette una vita. Ho tempo, io, per leggere il giornale al mattino, guardare un film, poi, quando torno a casa. La signora che mi stava accanto no. Al mattino doveva badare al figlio più piccolo, fare la spesa, tenere pulita la casa. Poi andare a prendere a scuola il figlio che frequentava le elementari. Poi preparare da mangiare per tutta la famiglia. Poi, correre in fabbrica. Poi tornare, mettere a letto i figli, azionare la lavatrice perché i bimbi si sporcano, tanto, e il marito pure: lavora in fabbrica pure lui. Verso le undici di sera, facciamo undici e mezzo la signora, stando alla burocrazia sindacale, avrebbe dovuto accendere l’abat jour e mettersi a leggere, preferibilmente l’Unità, e spegnere tutto il resto: la televisione ed eventuali bollenti spiriti del consorte. Altrimenti non si cresce, non si cresce. La sinistra non ammette l’ignoranza. Ma le mondine del vercellese che, nel 1906, presero botte dai carabinieri a cavallo quando si coricavano sui binari per impedire che arrivassero i treni con le crumire cosa leggevano? E i socialisti che le guidavano come parlavano? A proposito di cultura e politica.

La polizia: Casa Pound «tutela i deboli». Giustizia. Violenti solo se provocati dalla «sinistra radicale», secondo l’informativa del Ministero dell’Interno al Tribunale civile di Roma. «Organizza manifestazioni nel rispetto delle leggi e senza turbative dell’ordine pubblico», scrive Eleonora Martini il 2 febbraio 2016 su “Il Manifesto”. Leggere un rapporto della Polizia di Stato sull’organizzazione di estrema destra Casa Pound Italia, è davvero istruttivo. Anche se, comprensibilmente, ha destato molte reazioni di sconcerto l’informativa con la quale la Direzione centrale della Polizia di prevenzione (ex Ucigos) descrive vita e attività dell’organizzazione, capeggiata da Gianluca Iannone, ai magistrati del tribunale civile di Roma che ne hanno fatto richiesta per dirimere una causa intentata dalla figlia di Ezra Pound sull’uso del nome del padre. Secondo il documento trasmesso l’11 aprile 2015 dal ministero dell’Interno, che porta in calce la firma del direttore centrale dell’ufficio, il prefetto Mario Papa, il «sodalizio» che dichiaratamente sostiene «una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio» «organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo a illegalità e turbative dell’ordine pubblico». La Polizia non nega l’uso («spesso») della violenza da parte di alcuni militanti dell’associazione, soprattutto quando infiltrati «nel mondo delle tifoserie ultras calcistiche», ma solo «nei confronti di esponenti di opposta ideologia, anche fuori degli stadi». D’altronde vengono provocati, sembra affermare il report quando spiega in ultima analisi che «la sinistra radicale, in special modo gli ambienti autonomi e quelli anarco-insurrezionalisti, sotto la spinta del cosiddetto “antifascismo militante”, non riconoscono a Casa Pound e alle altre organizzazioni politiche di estrema destra il diritto “all’agibilità politica” sull’assunto che debba impedirsi ai “fascisti” la fruibilità di ogni spazio cittadino, con il conseguente frequente ripetersi di episodi di contrapposizione caratterizzati da contenuti di violenza». Dimentica però, la Polizia di Stato, che nel 2013 anche l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, commentando l’inchiesta «lame» della procura di Napoli aperta dopo diverse aggressioni, che coinvolse alcuni esponenti di Casa Pound, si interrogava «con sgomento sia sul circolare, tra giovani e giovanissimi, di una miserabile paccottiglia ideologica apertamente neonazista, sia sul fondersi di violenze di diversa matrice, da quella del fanatismo calcistico a quella del razzismo ancora una volta innanzitutto antiebraico». Se lo ricorda invece Fabio Lavagno, deputato del Partito democratico, che ha depositato ieri un’interrogazione al governo e sta «raccogliendo le firme necessarie per un’interpellanza parlamentare in modo che il ministro dell’Interno possa riferire in aula a Montecitorio su questa inquietante vicenda». «Va bene che il movimento di estrema destra cerchi forme di legittimazione e visibilità continuamente, non da ultime l’adesione al Family day e le manifestazioni comuni con la Lega di Salvini — scrive il deputato in una nota — vedere però che questa descrizione stia nero su bianco in una nota della Polizia al ministero dell’Interno risulta piuttosto inquietante». Soprattutto quando, aggiunge Lavagno, «si descrive CasaPound come un’organizzazione di bravi ragazzi molto disciplinati, con un’abile strategia linguistica che tende ad eufemizzare i passaggi più scomodi e la natura violenta di cui, come si è visto, è costellata la storia di CasaPound, quasi esclusivamente all’ambito sportivo, luogo tra gli altri di proselitismo all’interno delle tifoserie ultras». Per la Polizia di Stato, infatti, Casa Pound ha come «impegno primario» la «tutela delle fasce deboli» ma rivolge la propria attenzione anche «alla lotta del precariato ed alla difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro la privatizzazione delle aziende pubbliche». E oltre alle «numerose iniziative» intraprese «sotto l’aspetto meramente aggregativo e ludico», CasaPound ha trovato anche il modo di dedicarsi a «tematiche in passato predominio esclusivo della contrapposta area politica» come «il «sovraffollamento delle carceri o la promozione di campagne animaliste». Ecco, il tribunale di Roma ora potrà serenamente giudicare se l’immagine e il nome di Ezra Pound siano stati lesi dall’uso che ne ha fatto l’organizzazione, come sostiene la figlia del poeta.

La polizia promuove CasaPound: "Violenti per colpa della sinistra". Una nota del Viminale fa chiarezza sul movimento di estrema destra: "Manifestazioni sempre nella legalità. Se sono violenti è colpa della sinistra", scrive Claudio Cartaldo, Martedì 02/02/2016, su "Il Giornale". L'informativa del ministero dell'Interno parla chiaro: tra i movimenti di estrema destra e quelli di estrema sinistra non c'è storia. La nota in cui è contenuta la "bastonata" ad antagonisti e centri sociali in favore di CasaPound è contenuta in una informativa inviata dal Viminale al tribunale di Roma, dove è in corso una causa tra la figlia del poeta Ezra Pound e im movimento politico. La famiglia del poeta aveva chiesto di realizzare un documento per descrivere la natura di CasaPound. Relazione inviata l'11 aprile 2015 e firmata dal prefetto Mario Papa. La descrizione che fa la polizia parla di uno "stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne" con l’obiettivo "di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio". I principi che lo guidano, si legge, sono "la tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto 'Mutuo Sociale'". E ancora "l'attenzione del sodalizio è stata rivolta anche alla lotta al precariato ed alla difesa dell'occupazione attraverso l'appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro le privatizzazioni delle aziende pubbliche". Non mancano tematiche una volta di sinistra, come "il sovraffollamento delle carceri, o la promozione di campagne animaliste contro la vivisezione e l’utilizzo di animali in spettacoli circensi". Degno di nota anche il collegamento con la Lega Nord di Matteo Salvini, "di cui si condividono le istanze di sicurezza e l’opposizione alle politiche immigratorie" - attraverso la creazione del cartello elettorale denominato "Sovranità"". Per quanto riguarda la violenza e le manifestazioni, il riconoscimento della polizia è chiaro. "Il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente - scrive il Viminale - e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico". "All’interno del movimento militano elementi inclini all’uso della violenza, intesa come strumento ordinario di confronto e di affermazione politica oltre che quale metodo per risolvere controversie di qualsiasi natura", ma sono reazioni provocate dalla sinistra radicale che "sotto la spinta del cosiddetto 'antifascismo militante' non riconosce il diritto alla agibilità politica". Meglio CasaPound, quindi, dei centri sociali e antagonismi vari. Che se non provocassero, permetterebbero ai movimenti di destra di manifestare nel rispetto delle regole. La relazione della polizia ha lasciato senza parole, ovviamente, parlamentari di Sel e del Pd. Il deputato pd Fabio Lavagno si è detto indignato: "Va bene che il movimento di estrema destra cerca forme di legittimazione e visibilità continuamente, non da ultime l’adesione al Family day e le manifestazioni comuni con la Lega di Salvini, vedere però che questa descrizione sta nero su bianco in una nota della polizia al Ministero dell’interno risulta piuttosto inquietante".

Il Viminale loda le battaglie di CasaPound. E la sinistra impazzisce. Il Viminale sbaglia ad assolvere CasaPound. Dovrebbe, piuttosto, sciogliere l’organizzazione «in applicazione delle leggi Scelba e Mancino». Parole e musica di Fabio Lavagno, deputato del Pd, e di...scrive il 2 febbraio 2016 “Il Tempo”. Il Viminale sbaglia ad assolvere CasaPound. Dovrebbe, piuttosto, sciogliere l’organizzazione «in applicazione delle leggi Scelba e Mancino». Parole e musica di Fabio Lavagno, deputato del Pd, e di Gianluca Peciola, esponente di Sel. Ma perché quest’improvviso rilancio di accuse da parte della sinistra nei confronti di Casapound? Tutto nasce un paio di giorni fa, quando il sito internet «Insorgenze.net» ha svelato l’esistenza di un’informativa del Viminale sull’attività dell’associazione guidata da Gianluca Iannone in cui, nei confronti di CasaPound, vengono utilizzati toni assolutori. L’informativa della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, protocollata N.224/SIG. DIV 2/Sez.2/4333, è frutto di una richiesta della giudice Bianchini del tribunale di Roma. La Bianchini, dovendo esprimersi sulla causa intentata da Mary Pound, figlia di Ezra Pound, contro l’organizzazione che richiama il nome del padre, ha chiesto al ministero dell’Interno di acquisire informazioni sulla stessa organizzazione. Nell’informativa, datata 11 aprile 2015, si descrive un gruppo di associati con «uno stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne» sospinti dal dichiarato obiettivo «di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio». «Il risultato - continua la nota - è stato conseguito anche attraverso l’organizzazione di convegni e dibattiti cui sono frequentemente intervenuti esponenti politici, della cultura e del giornalismo anche di diverso orientamento politico». «L’impegno primario» di CasaPound, secondo il Viminale, è volto alla «tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto "Mutuo Sociale"». Parole che proprio non sono andate giù agli esponenti di sinistra. «Ho depositato un’interrogazione al Governo e sto raccogliendo le firme necessarie per un’interpellanza parlamentare in modo che il Alfano possa riferire a Montecitorio su questa inquietante vicenda» ha annunciato Lavagno. Peciola, dal canto suo, ha ribadito che «le organizzazioni politiche che si richiamano al fascismo devono essere sciolte in applicazione delle Leggi Scelba e Mancino».

“CasaPound attiva nel sociale, centri sociali violenti”. La verità viene a galla, scrive l'1 febbraio 2016 Giuliano Lebelli su “Primato Nazionale”. L’acqua bagna, il fuoco brucia e l’antifascismo militante, avendo lo scopo dichiarato di conculcare violentemente i diritti politici altrui, genera reazioni anche muscolari da parte di chi non ci sta a subire i soprusi. Sono alcune delle verità elementari di fronte a cui è impossibile non convenire. Ma poiché viviamo in un eterno 1984, la verità più evidente sembra anche la più scandalosa. È il caso dell’informativa del ministero dell’Interno inviata al tribunale di Roma dopo richiesta del giudice incaricato della causa mossa dalla figlia di Ezra Pound a CasaPound, nella speranza di ridare il monopolio del nome del padre agli eredi politici di chi lo mise in una gabbia da zoo. Il magistrato, dovendo decidere se l’utilizzo di tale nome da parte del movimento oltraggiasse la memoria del poeta statunitense, ha chiesto al Viminale una nota su Cpi per vederci più chiaro. Nota che, tuttavia, non ha ricalcato le “inchieste” del gruppo L’Espresso su CasaPound, dato che in un aula di tribunale gli accostamenti suggestivi non valgono (non varrebbero neanche nel giornalismo, se è per questo), ma si è limitata a elencare i fatti. Apriti cielo. Il tam tam è nato sui siti dell’estremismo di sinistra per poi rimbalzare persino su Repubblica. Indegno, inaudito, inaccettabile: su Cpi esiste una sola verità ed è quella scritta su immortali tavole della legge da professionisti specchiati e noti pacifisti come Saverio Ferrari e luminari simili. Deragliare da quella versione non si può. Ma cosa dice il rapporto dello scandalo? Che CasaPound si è sempre contraddistinta per “lo stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne” e che ha l’obiettivo “di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio”. E non è chiaro, fin qui, cosa ci sarebbe da contestare. Andiamo avanti: fra gli obbiettivi politici di Cpi, si scrive, c’è “la tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto ‘Mutuo Sociale'”. E poi, “l’attenzione del sodalizio è stata rivolta anche alla lotta al precariato ed alla difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro le privatizzazioni delle aziende pubbliche”. Di nuovo, basta essere minimamente informati sulle attività del movimento per sapere che questa è una mera descrizione della realtà. E l’eterna accusa circa l’uso della violenza? Il Viminale scrive che “il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico”. Per smentire questa frase basterebbe ricordare qualche manifestazione di Cpi terminata con vetrine sfasciate e macchine in fiamme, ma, sfortunatamente per Repubblica, non ce ne sono. Si sottolinea anche il ruolo provocatorio della sinistra estrema che, “sotto la spinta del cosiddetto ‘antifascismo militante’ non riconosce il diritto alla agibilità politica” a CasaPound. È forse questo che fa indignare? Ma la negazione dell’agibilità politica di Cpi è esattamente il tema identitario dichiarato che cementa le frange dell’estrema sinistra. L’unico modo per smentire il ministero potrebbe essere quello di dichiarare finalmente che Cpi ha diritto di fare politica. In caso contrario, e in presenza di comportamenti conseguenti, Cpi questo diritto è solita prenderselo da sé.

La sinistra intollerante, scrive Caino Mediatico il 31 marzo 2011 su “The Front Page”. Angela Azzaro è una giornalista di sinistra, abbastanza radicale. Scrive su Gli Altri, sta con la Fiom e non con Marchione per dirne una. Vorrebbe una sinistra di sinistra e non “sinistra” né sinistrata. Si è fatta le ossa con la Liberazione di Bertinotti e con Sansonetti. Ha creduto al post comunismo in senso libertario e liberal, alla non violenza, alla lotta di liberazione sessuale del femminismo. E’ quello che si capisce dai suoi articoli e dai suoi post su Facebook. Ma la rivista de sinistra alfabeta2 le censura un pezzo perché troppo filoberlusconiano. I suoi ex colleghi “fedeli alla linea” su Facebook la definiscono uno scarto. In un bel pezzo sul Foglio, Angela racconta di questa strana definizione e delle tante critiche che fioccano per le sue posizioni antimoraliste (sulla prostituzione) e garantiste, soprattutto per la carenza di antiberlusconismo DOCG. I giudici della “NormaSinistra”, come li definisce, sono anche enti certificatori dell’antiberlusconismo, che è la norma non transitoria n.1 della loro “costituzione materiale”; la inseguono magari nascosti dietro nickname, nelle presentazioni e ai party (rigorosamente casti) ove milita la sinistra capitolina. Dall’articolo del Foglio viene fuori un quadretto della sinistra per bene delizioso. L’antropologia del compagno nel giusto (un regista al buffet) che la deride o la insulta, ma alza la voce e si indigna se lei risponde per le rime. Ho idea che tra i danni (involontari?) del berlusconismo vero e presunto ci sia un peggioramento netto del Dna della sinistra mutante. Una vera e propria regressione antropologica. Come quelle famiglie sperdute nella campagna americana, che perso il lavoro, la speranza, cominciano a riprodursi tra loro e sfornano serial killer. Non aprite quella porta! I comunisti delle origini si occupavano sì di stigmatizzare l’incerto, il dubbioso, il dialogante. Che fosse socialdemocratico, estremista infantile o semplicemente riformista era relegato nella categoria del dissidente e doveva essere isolato, per emendarlo, criticarlo e rieducarlo. Tardivamente si accolse l’idea che potessero scontrarsi diverse idee, ma entro certi limiti, superati i quali c’era la scissione. Oppure la organizzazione in correnti dove presto tornava a prevalere, atomizzata, la lotta all’altro, ma per ragioni più pratiche. Anche se atrocemente divisi, paradossalmente il dissidente e il consenziente puntavano a convincere l’avversario, ad insinuare nel suo elettorato sottili e crescenti contraddizioni. Oggi no. La lotta al berlusconismo ha cancellato tutto ciò nel pragmatico Bersani e nel poetico Vendola, nel tattico D’Alema e nello pseudoecumenico Veltroni. Via Berlusconi senza se e senza ma, bando a ciò che gli somiglia: la tv commerciale, la gnocca, i consumi, Drive In. Chi si estranea dalla lotta è pagato, o è triste o è la vera ragione delle sconfitte della sinistra ieri, oggi e per omnia saecula saeculorum, amen. Per non dire dei newcomers, giudici in politica, questurini, giornalisti repubblichini, intellettuali imbolsiti vecchi e nuovi: quelli incitano al linciaggio. Tutti come Travaglio all’insegna del nemico interno che è peggio di quello esterno. Ogni dubbio puzza di intelligenza con il nemico. Taci il nemico ti ascolta. La compagna che sbaglia, la Azzaro non manca nelle sue esternazioni di auto-ironia e appare su Facebook con una parrucca viola. Loro invece hanno icone variegate e altisonanti: Garibaldi, Saviano, la Costituzione, Napolitano, a seconda delle convenienze. Non è che li disegniamo così: è che sono diventati più cattivi. Vogliono vincere non convincere, schizzano veleno nei post, indignazione contro gli adulteri e gli adulterati. Vedono la pagliuzza e non la trave. E vogliono disegnare il bersaglio sulla schiena di quelle/i che si definiscono compagni/e come Angela Azzaro o Piero Sansonetti perché ripescando libertà di pensiero e spirito contestario dal loro rimosso di ex rivoluzionari in pantofole rischiano di metterli in mutande. Persino nei cocktail delle terrazze parioline non tollerano alter ego dissidenti.

Con una sinistra così intollerante una cultura condivisa non è possibile, scrive Giuliano Cazzola l'11 Agosto 2009 su “L’Occidentale”. La società della comunicazione è una specie di animale feroce che divora le notizie. Sono sufficienti pochi giorni perché quanto appariva in prima pagina sui maggiori quotidiani finisca presto nel dimenticatoio. Nessuno parla più, infatti, dell’ultima in ordine di tempo aggressione ad un ministro della Repubblica, davanti alla stazione di Bologna, il 2 agosto scorso. Si vuole forse attendere un altro anno per ragionare non solo sul da farsi in questo caso, ma anche per riflettere sul clima d’intolleranza di cui è protagonista la sinistra? Quando una nazione è talmente divisa da non ritrovarsi insieme a festeggiare le ricorrenze della sua storia è bene prenderne atto e trarne le conseguenze. Le vittime della strage del 2 agosto 1980 non sono state colpite perché avevano in tasca delle tessere di partito. Peraltro i partiti di allora oggi non esistono più: o sono scomparsi o hanno cambiato tante volte identità che hanno fatto perdere le proprie tracce. Erano persone comuni che attendevano in una sala d’aspetto di seconda classe, alla Stazione Centrale di Bologna, i treni che li avrebbero portati a destinazione. Probabilmente – se il destino non li avesse fatti trovare in quel luogo alle 10,25 di quel giorno maledetto – oggi voterebbero più o meno come gli altri italiani. E tanti di loro, nel 2008, avrebbero contribuito alla vittoria del centro-destra. Ecco perché quei gruppi di attivisti di sinistra - che domenica in Piazza Medaglie d’Oro hanno contestato un ministro della compagine di Berlusconi (ovvero del Governo legittimo di questo Paese)  - non hanno alcun diritto di impadronirsi della memoria di quei poveri martiri e di decidere – loro – chi abbia o meno la possibilità di parlare, soprattutto quando il rappresentante del Governo era su quel palco, insieme alle altre Istituzioni, per rispondere ad un preciso invito dell’Associazione dei familiari delle vittime. Se nella cerimonia del 2 agosto la piazza concede il diritto di parola soltanto ad esponenti e ministri dei partiti di sinistra, mentre quelli di centro destra devono essere lì solo per sottoporsi alla gogna, qualunque sia la loro storia, qualunque cosa dicano o facciano; se i cittadini che partecipano ai riti di quel giorno hanno come principale obiettivo quello di contestare pesantemente e di offendere volgarmente una personalità che ha il solo torto di essere un avversario politico (in quanto tale meritevole non solo di critiche, ma di odio irriducibile, di disprezzo e beffa), non resta allora che prenderne dolorosamente atto soltanto in un modo: nel trentennale della strage, l’anno prossimo, vi lasceremo la piazza, la cerimonia, le bandiere e gli striscioni, i comizi, i fischi e le pernacchie. Quei caduti, quei nostri caduti, quei morti di noi tutti, il centro destra li commemorerà per conto suo. Con proprie iniziative, sicuri che nell’Aldilà nessuno protesterà. Perché – come afferma il grande Totò nella poesia A livella – i morti sono gente seria, le gazzarre polemiche le lasciano tutte a vivi.  E’ inaccettabile che delle forze di minoranza (alcune delle quali tanto ignorate dagli italiani da non fare più parte delle assemblee elettive) si arroghino il diritto di rilasciare patenti di legittimità costituzionale, appropriandosi con violenza delle piazze, quando viene il momento di ritrovarsi insieme per rinsaldare le radici comuni di un popolo. E’ vero: una componente costitutiva del Pdl non faceva parte dell’arco costituzionale che ha consentito al Pci di essere un protagonista della vita politica del dopoguerra anche quando i suoi parlamentari si alzavano in Aula inneggiando all’Armata Rossa mentre massacrava i patrioti ungheresi. Ma An ha reciso con chiarezza e da tempo il cordone ombelicale con il fascismo. Dal canto suo l’elettorato di Forza Italia è più o meno lo stesso di quei partiti democratici che hanno garantito all’Italia di rimuovere le macerie della guerra, di crescere come un grande Paese civile e di sviluppare la propria economia. Mai come adesso l’Italia potrebbe ritrovarsi intorno a valori comuni, consentendo così alle forze nazionali di contrastare, con l’esempio e l’azione politica bipartisan, i processi separatisti che covano sotto la cenere. Ma se la logica continuerà ad essere quella della discriminazione, della <cittadinanza imperfetta>, dell’accusa perenne di usurpare il potere, è ora di ribadire chiaro e forte che il centro destra non si sottoporrà più all’esame di idoneità da parte di tanti <cattivi maestri> prepotenti e intolleranti. Vogliono tenersi anche il 25 Aprile? Si accomodino. Noi faremo approvare una leggina con la quale proclameremo <Festa della Libertà> il 18 aprile, in ricordo di quella radiosa giornata del 1948, quando, sotto la guida della Dc, l’Italia collocò le sue istituzioni nel campo della democrazia.

La democrazia secondo la sinistra, scrive il 17 dicembre 2015 Indianalakota. “Mettere fuorilegge la Destra”. Questa è la democrazia secondo la sinistra! Sindacati, Anpi e partiti di sinistra si rivolgono al Quirinale con una petizione scritta a Mattarella per mettere fuorilegge qualsiasi cosa non sia di sinistra, cioè associazioni come: Casa Pound, Forza Nuova, Lealtà e Azione e tutte le altre che non sventolano bandierine rosse distruggendo intere città ogni volta che manifestano. Come fanno, invece, questi poveri deficienti che berciano: “Il fascismo è un crimine, non un’opinione come altre: quelle organizzazioni di estrema destra vanno messe fuorilegge”. Invece il comunismo è libertà e pace, vero cari i miei ignorantoni? Quei milioni di morti causati dal comunismo e affini non contano per voi? Ricordo ai poveri idioti che innanzitutto il fascismo non esiste più da un’ottantina d’anni e che la legge, creata ad hoc, punisce solo chi cerca di ricostituire il partito fascista, non l’ideologia! Quella non si può nè punire nè vietare perchè la nostra cara Costituzione permette a chiunque libertà di pensiero e di opinione anche quella di riunirsi in associazioni. Anche a voi comunisti che esistete ancora e osate sventolare una bandiera con falce e martello alla faccia dei milioni di morti del comunismo! Siete così sfigati che volete tappare la bocca a chiunque non la pensi come voialtri pecoroni belanti (con tutte le mie scuse alle pecore per l’infelice paragone con questi senza palle qui). Provateci pure! Vediamo quante persone firmeranno la vostra petizione contro la libertà di pensiero e di opinione degli altri! Poi noi faremo la nostra per eliminare voi! Associazioni, centri sociali di stupidi ragazzotti ignoranti che non conoscono la storia e che ogni volta che manifestano non sono capaci di fare altro che casino e distruggere col passamontagna in testa e qualche arma in mano. Oltre che occupare abusivamente case ed edifici, ubriacarsi e drogarsi. Da quel che so vi gode molto la gente, bravi! I sindacati (ma esistono ancora?) la loro bella figurina di merda l’hanno già fatta da tempo…..L’Anpi…..ma esistono ancora questi vecchietti??? Vogliamo ricordare anche i loro crimini durante la guerra oppure non contano perchè hanno vinto? Se è vero che avete combattuto per la libertà, siate coerenti! La “democrazia”, per essere tale, prevede la diversità di opinioni. Non solo la vostra! A quando una petizione per eliminare anche Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia ecc.? Paura di perdere le elezioni e di trovare gente con le palle che vi fa lavorare e rispettare le leggi invece di andare in giro a bighellonare e dire cazzate? Chi non conosce Casa Pound sappia che è un’associazione che difende ideali come la famiglia, la patria, gli animali e l’ambiente. Tantissime le loro manifestazioni contro la vivisezione, i circhi e gli zoo. E per i diritti degli italiani. Voi invece cosa propagandate? IL NULLA! Al massimo la liberalizzazione delle droghe (eh sì perchè quelle meritano libertà) per rincoglionirvi ancora di più, le famiglie gender alla faccia dei diritti dei bambini, e l’invasione degli extracomunitari senza controllo. Perchè voi sapete solo andare contro gli altri, soprattutto contro gli italiani e la Nazione. Perfino io qui sui social ho subito discriminazioni e insulti perchè non sono di sinistra ma di destra! E essere di destra non significa affatto essere fascisti o nazisti, cercate di capirlo per bene, anche se fa molto comodo insultare e discriminare le persone perchè non la pensano come voi: certa gente non è in grado di ascoltare le opinioni altrui e di rispettarle, meglio gli insulti facili. Sei di destra? Allora sei fascista, nazista, klu klux klanista….Anche qui su WordPress ho visto diverse persone smettere di seguirmi perchè sono di destra. E so che ne perderò ancora dopo questo articolo. Paura del confronto? Io non sono qui per compiacere nessuno: ho le mie idee e le mie opinioni, condivisibili o meno, e sono abituata a dire quello che penso. Nella vita reale ho diversi amici di sinistra, non cretini come quelli dei centri sociali, con cui condivido certe cose e su altre mi scontro in piena democrazia e rispetto. Infatti siamo amici da anni! Io ogni modo io sto con Casa Pound!!!! Non certo con chi cerca di tappare la bocca agli altri.

Maurizio Belpietro su “Panorama”: Pericolosa l'intolleranza di sinistra. C'è una cultura di odio, una violenza che per ora è verbale, ma che non è detto resti tale. Punta alla demolizione di chi la pensa diversamente: nemici di cui sbarazzarsi. Giampaolo Pansa si occupa sul Riformista dell'intolleranza che «troppa gente di sinistra» nutre nei confronti di chi non la pensa in un certo modo. Ha tratto spunto da un paio di lettere inviate al Giornale da persone che lamentano d'essere state insultate in treno e in autobus per il solo fatto di avere tra le mani una copia del quotidiano milanese. Il frasario usato contro di loro va da «fai schifo!» a «sei un servo di Berlusconi». Pansa, nel commentare le due lettere, riferisce di un episodio analogo di cui è stata vittima una sua lettrice, assalita a male parole perché, mentre era in attesa di un treno, leggeva il libro La grande bugia, documentata denuncia dei falsi storici e dei crimini commessi in nome della lotta di liberazione. Naturalmente la madre degli imbecilli è sempre incinta e si potrebbe concludere che i due lettori del Giornale e la signora sono stati sfortunati e hanno avuto il guaio d'incappare in compagni di viaggio maleducati e fanatici. Ma Pansa, che fu cronista del Corriere della sera negli anni in cui «la sinistra menava e sparava», parole sue, «e Montanelli era ritenuto un fascista insieme ai suoi lettori», non minimizza. Anzi, siccome il diavolo si nasconde nei dettagli, spiega che scruta l'orizzonte con qualche timore. Le aggressioni, gli insulti, le intolleranze sono il sintomo, il dettaglio per citare Giampaolo, che segnala una malattia più estesa, un settarismo strisciante che tracima e che rischia di bruciarci tutti. C'è infatti una parte di sinistra che non si limita a contestare le idee che non le piacciono, ma assale chi ne è portatore o, semplicemente, lettore. E non si tratta di pochi scalmanati. Dietro c'è una cultura di odio, una violenza che per ora è verbale, ma che non è detto resti tale. È una cultura da vecchi stalinisti, che punta alla demolizione, all'annientamento di chi la pensa diversamente. Colpisce con furia, senza rispetto degli avversari, che vede come nemici di cui sbarazzarsi. Per questa cultura chi manifesta opinioni dissonanti non ha dignità né onore, non ha diritto di parola, fa schifo e basta. Non è un uomo, ma un servo. Forse qualcuno penserà che io enfatizzi pochi episodi, ma, siccome tocco con mano da tempo questo sentimento di rancore, posso assicurare che nelle mie parole non c'è esagerazione: mi limito a riportare le opinioni che si trovano online e a sintetizzare gli insulti e le minacce. A differenza di Pansa, però non penso che il clima di intolleranza sia bipartisan. Non ho notizia di lettori della Repubblica o dell'Unità presi a male parole da qualche energumeno. E nemmeno di ingiurie contro chi appartiene a uno schieramento di sinistra. Ho provato a chiedere ad Antonio Padellaro, che del quotidiano che fu comunista è stato direttore, se gli è mai capitato di ricevere lettere di persone che segnalavano lo stesso trattamento riservato ai lettori del Giornale e se a lui stesso fossero arrivate offese, e la risposta è stata no. La stessa domanda l'ho rivolta ad altri giornalisti ritenuti di sinistra. La risposta è stata ancora no. Non voglio dire che a destra siano tutti angioletti, sempre pronti a comprendere le ragioni altrui. No, anche lì ci sono comportamenti esecrabili. Ma penso che l'intolleranza sia patrimonio della sinistra. Di più: che faccia parte del suo dna. E credo che chi si candida a diventare leader di un partito democratico per definizione non possa ignorare questo tema. Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Ignazio Marino diano un segnale di civismo nei confronti di quegli italiani che sono la maggioranza del Paese. Evitino di considerarli tutti servi sciocchi di Silvio Berlusconi e impediscano che siano vittime dell'odio coltivato a sinistra. Sarebbe il miglior inizio per chi ambisce a governare l'Italia e a riunificarla.

Lo studio americano: a sinistra i più ottusi e intolleranti, scrive Gianni Candotto, il 18 novembre 2013 su “Quelsi”. Il bestseller “the Righteous mind” di Johnatan Haidt, docente universitario di psicologia sociale in molte università americane, di dichiarate tendenze liberal, ovvero di sinistra, scopre quello che Guareschi già diceva tanti anni fa: le persone di sinistra sono di solito più ottuse, estremiste, chiuse e intolleranti. Guareschi li disegnava con tre narici, violenti e pronti a cambiare idea appena arrivava il “Contrordine compagni!” dei capi del partito rosso, Haidt invece fa uno studio approfondito iniziato nel 2004 e conclusosi dopo migliaia di esperimenti con la pubblicazione del suo bestseller nel 2012. Certo Haidt dice di averlo pubblicato, non a caso è di sinistra, con lo scopo di aiutare la sinistra americana a non essere troppo chiusa e autoreferenziale e migliorare il partito democratico perché non sottovaluti la componente emotiva dell’elettorato. Un altro scopo dichiarato del suo lavoro era capire come mai la destra prendesse più voti della sinistra tra gli operai, fatto che nella mentalità progressista dell’autore rappresentava un paradosso. Una delle parti intuitivamente più semplici da capire di questo studio è il sondaggio proposto a 2000 americani che si definivano liberal (in Italia sarebbero a sinistra del PD) sui valori e le convinzioni dei conservatori: ne è venuto fuori un quadro paradossale dove le persone di sinistra avevano una visione caricaturale di quelli di destra visti come dei bruti, ignoranti, razzisti, omofobi. Lo stesso sondaggio fatto al contrario mostrava come i conservatori fossero estremamente più tolleranti e aperti a capire le opinioni degli altri. In poche parole molto più democratici. L’esperimento intuitivamente funzionerebbe anche in Italia. Il professor Haidt in questo vede la difficoltà dei liberal di capire i sentimenti dei conservatori, perché si è accorto che alcuni valori naturali che fanno parte della mente umana, come autorità, famiglia e senso del sacro vengono identificati con razzismo, omofobia e fondamentalismo religioso dai liberal, in particolari quelli più accesi. Gli stessi liberal riescono a concepire solo tre fattori che sono radicati nella mente umana, cioè la salute, la libertà e l’equità, sui sei che secondo gli studi di Haidt compongono l’intelletto politico dell’individuo. Mentre però per i conservatori libertà, salute ed equità sono valori accettati anche se declinati in maniera differente, per i liberal gli altri tre sono valori rifiutati tanto che al solo nominarli hanno reazioni pavloviane di rigetto. Questa in sostanza la dimostrazione pratica della mancanza di elasticità mentale e apertura delle persone di sinistra. L’autore poi si sposta sulla pratica quotidiana sostenendo che internet ha peggiorato la mentalità degli estremisti, portandoli a leggere solo siti di informazione che si adattano alla propria mentalità. Se lo studio è intuitivamente plausibile, le soluzioni che propone tuttavia lasciano alquanto perplessi (è dopotutto un liberal anche lui), come quella di invitare le famiglie dei parlamentari a vivere a Washington perché imparino a scambiarsi opinioni tra famiglie di destra e di sinistra. In Italia tale studio è stato tradotto con un titolo molto fuorviante: “Menti tribali: perché le brave persone si dividono su politica e religione”. Senza leggere gli studi dei liberal americani, è sufficiente rivedersi le vignette di Guareschi.

Come la macchina dell’intolleranza di sinistra ha messo all’angolo la castigatrice delle censure liberal, Kirsten Powers, scrive Mattia Ferraresi il 14 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Che la sinistra si scagli con intenzioni intolleranti contro un libro che descrive l’intolleranza della sinistra è la perfetta chiusura del cerchio. Il nuovo libro di Kirsten Powers, “The Silencing: How the Left Is Killing Free Speech”, non era ancora sugli scaffali quando i commentatori liberal hanno preso ad attaccarlo, provando involontariamente la verità del suo contenuto. Powers ha compilato una rassegna di boicottaggi, licenziamenti, disinviti di università a personaggi non allineati alla cultura liberal prevalente, dall’ex ceo di Mozilla, Brendan Eich, cacciato per una donazione perfettamente legale a sostegno della campagna per il matrimonio tradizionale, fino a Christin Hoff Sommers, femminista non convenzionale che regolarmente vede sfumare inviti delle università per le proteste preventive di professori e studenti liberal. Aveva così tanti esempi per illustrare la guerra da sinistra contro la libertà di espressione che ha dovuto sacrificare un paio di capitoli. Obama bastona la sinistra non allineata sul libero scambio “Quello che mi ha colpito – ha spiegato Powers – è che la sinistra illiberale mi ricorda i fanatici religiosi, ma di una religione secolarizzata. La persona religiosa media ha il proprio credo, ma non cerca di licenziare chi la pensa diversamente. Solo i fanatici lo fanno. Per loro non è sufficiente credere, non riescono a tollerare che altri non credano in quello in cui credono loro. Devono dimostrare che sono moralmente superiori alle persone con le quali sono in disaccordo”. William Buckley diceva già una vita fa che “i liberal vogliono sentire altri punti di vista rispetto al loro, ma sono scioccati quando scoprono che esistono altri punti di vista”. Ai liberal questa rappresentazione non è piaciuta. Si badi bene: non sono gli esempi di intolleranza elencati nel libro a essere sotto attacco, quanto l’autrice, secondo un classico schema di attacco incentrato sulla delegittimazione dell’autore invece che sulla confutazione delle sue tesi. Esempio: per smontare le accuse di usare i fondi in modo improprio e illegale contenute in un’inchiesta, il team di Hillary Clinton non si prende la briga di rispondere punto su punto, ma si limita a screditare l’autore, mettendolo nella schiera degli urlatori della destra zoticona, confinandolo nel girone dei cospiratori che ancora insistono a dire che Obama è un musulmano nato in Kenya, o forse una lucertola gigante venuta dallo spazio. Allo stesso modo Oliver Willis di Media Matters, osservatorio progressista dei media, bolla Powers come una “impiegata da Fox News, anti choice che scrive per la Heritage Foundation”, e ne conclude: “Sì, continuate a dirmi che è una democratica”. Chi lavora in un osservatorio dei media sa che è più efficace presentarla come una controfigura ideologica di Sarah Palin invece di entrare nel merito, magari ricordando che Powers ha iniziato la sua carriera nell’Amministrazione Clinton e sosteneva il matrimonio gay quando Hillary era contraria. Era ed è ancora pro life, ma non anti choice. Poi si è convertita al cristianesimo, ma è tuttora a favore del matrimonio omosessuale, e si definisce una liberal nonostante le rappresentazioni distorte della sinistra che concede libertà di parola soltanto a chi esprime concetti con cui è d’accordo. 

In tempi di Bassissimo Impero, può accadere che i nostalgici della maxitangente Enimont denuncino la malcapitata Guidi, per sputtanamento sentimentalistico delle “gesta epiche” di Tangentopoli, scrive Antonella Grippo l’11 aprile 2016 su “Il Giornale”. Gli appetiti economici di un fidanzato mandrillo non ti consegneranno alla posterità. Anche se a sfrattarti è il PD di renziano conio. Il partito in questione, del resto, sconta una certa inattendibilità, quale gendarme dell’etica pubblica, nonostante i suoi trascorsi simil-giustizialisti. Agli albori degli anni ’90 infatti, la mattanza giudiziaria di Mani Pulite risparmiò le “anime belle” del postcomunismo (PDS), tradizionalmente immuni al virus della mazzetta e dei finanziamenti illegali. La grande stampa italiana, all’epoca, s’incaricò di certificarne l’immacolatezza. Ai più avveduti non sfuggì il fatto che gli eredi del partito di Gramsci, in realtà, avevano già ceduto in “comodato d’uso” la titolarità della lotta politica alle Procure. Abdicandovi. Una sorta di masochistica e mortificante diserzione dall’agire politico in prima linea. Di più. La cosiddetta “rivoluzione giudiziaria” si configurò come la variante vicaria della palingenesi berlingueriana. La medesima nomenklatura, lungo tutto il ventennio successivo, darà in subappalto ai Pubblici Ministeri l’opposizione a Silvio Berlusconi. Una vera e propria goduria a beneficio degli amanti dell’iconografia patibolare. L’ossequio alla bulimia puritana della base. Insomma: il primato della politica dilaniato dalle fauci del basic instinct delle masse sanguinarie. Da Togliatti a Javert, perfida creatura manettara di Victor Hugo, il passo fu breve. L’epopea di Renzi sembra contraddire la tendenza del recente passato. La magistratura, nella percezione del nerboruto leader, acquisisce, sin dai primordi, un ruolo inedito: quello di foglia di fico e di prestanome del Palazzo, che non è propriamente abitato da francescani con le pezze al culo. Matteo, in tempi altamente sospetti, coltiva, infatti, il culto di Cantone e di Gratteri, indicandoli, addirittura, come possibili Ministri, allo scopo di rastrellare facili consensi, in nome di un’improbabile catarsi. Contestualmente, dopo aver trombato Lupi, a quanti reclamano le dimissioni dei sottosegretari indagati risponde: “Non mi faccio dettare la linea dagli inquirenti.” E cita Montesquieu. Intanto, in un ineffabile gioco delle tre carte,” impiega” le icone togate, quali garanti della virtù di Stato. Altro che separazione dei poteri! Siamo al meticciato dei medesimi. Come se non bastasse, il Nostro, nel mezzo della bufera Guidi e similari, attacca la Procura di Potenza, rea, a suo dire, di non aver mai quagliato. Come dire: se non vai a sentenza, sei uno sfigato. Poi brandisce un’arma spuntata contro l’uso perverso delle intercettazioni, salvo ritirarsi in buon ordine subito dopo. Il sospetto di un’operazione quantomeno schizofrenica non può dirsi fugato. L’orizzonte, allo stato, appare nebuloso: non è verosimile ritenere interdetta la migrazione delle prerogative della Politica nella direzione dei Palazzi di Giustizia. Nonostante il gradasso. Ad ogni buon conto, Renzi, potrebbe chiamare in correità ideologica Benedetto Croce, che, nel merito, sentenziava: “La petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica non è altro che una volgare manifestazione dell’inintelligenza (mancanza di intelligenza) circa le cose della Politica.”  Tradotto: gli innocenti non sempre hanno la stoffa degli statisti. Con buona pace di Davigo. Ma questa è un’altra storia. Complicatissima. Cuperlo e le min(on)oranze funebri del Pd non capirebbero.

Qualche dubbio sul caso Matei. Condannata per "l'omicidio dell'ombrello", che sconvolse l'opinione pubblica, era uscita per buona condotta. Ora ci torna. Grazie all'opinione pubblica, scrive il 13 aprile 2016 su "Panorama" Maurizio Tortorella. Mi rendo conto che non è facile per un giornalista scrivere a favore di una donna condannata per omicidio: è così anche se l'omicidio non è volontario, ma preterintenzionale, cioè è causato da un atto che non intende causare la morte, ma va oltre le intenzioni dell'omicida. Non è per nulla facile nemmeno fare il giudice, e mi rendo conto anche di questo. Ma credo che nella storia di Doina Matei qualcuno debba pur dire che la giustizia italiana non può decidere in base alle urla di piazza, alla negatività dell'opinione pubblica, allo strepito di un social network. Non è questa la giustizia: se esistono regole, vano rispettate prescindendo dalla piazza, dall'opinione pubblica. La storia. Dorina Matei è la 20enne che nell'aprile 2007, nella metropolitana di Roma, aveva duramente litigato con una povera ragazza, la coetanea Vanessa Russo. Nella colluttazione seguita al litigio, Matei aveva ucciso Russo colpendola all'occhio con la punta dell’ombrello. Aveva anche tentato di fuggire con un’amica, ma era stata arrestata pochi giorni dopo, vicino a Macerata. Matei era stata ovviamente processata e alla fine era stata condannata definitivamente a 16 anni di carcere. Dopo quasi nove anni scontati in prigione, grazie alla buona condotta aveva da poco aveva ottenuto da un giudice una misura alternativa al carcere per i quasi otto che le restavano da scontare. Il suo errore è stato pensare di poter usare uno di quei permessi per andare a Venezia. Per fare un bagno al Lido. E per sorridere davanti a un obiettivo. Le sue foto, postate su Facebook, sono state pubblicate alcuni giorni fa dai giornali. E subito i social network si sono riempiti di ovvia indignazione. I giornali si sono riempiti di facile indignazione. I bar sport si sono messi a urlare di indignata indignazione. Si sono mossi anche i pesi massimi del giornalismo. Massimo Gramellini, sulla Stampa, ha scritto: "Nove anni di carcere per un omicidio rappresentano la vergogna del legislatore italiano (...). Oggi però la questione sono le foto di felicità diffuse dall’assassina. Doina Matei ha tutto il diritto di essere contenta, visto che la legge glielo consente. Ma ha diritto di mostrare la sua contentezza al mondo, e quindi anche ai parenti della vittima, attraverso un social network?". Francamente, io non so rispondere a questa domanda. È una questione complessa, che attiene alla coscienza, alla sensibilità. E mi rendo conto della pena e della infinita sofferenza che hanno provato e continuano a provare i familiari della ragazza uccisa nove anni fa. Ma non credo che nulla di tutto questo sia pertinente con la questione di giustizia che il caso oggi incarna. Perché Dorina Matei, dopo il can-can che ho appena descritto, è stata riportata in cella, perché le è stata sospesa la semilibertà. E allora, mi spiace, ma io continuo a pensare che di certo Dorina Matei sia stata condannata giustamente per quel che ha fatto, però oggi penso anche che, se alla base di tutto c'è la protesta dell'opinione pubblica, riportare in carcere Doina Matei non sia un atto di giustizia. Un giudice stabilisce che, anche se sei un'omicida, dopo 9 anni di carcere hai diritto alla semilibertà? Immagino lo faccia in base alle norme, alle leggi, rispettando procedure e calcoli. Userà anche il buon senso. Insomma, farà correttamente il suo lavoro. Questo credo perché ho fiducia nella giustizia. Ma allora quel giudice non torna sulle sue decisioni perché l'opinione pubblica si rivolta contro un sorriso in una fotografia, come fanno pensare le cronache. Forse per la condannata era previsto il divieto a sorridere finché non avesse finito di scontare la pena, o la proibizione di pubblicare una foto su Facebook. Ma se è così, questa è una prescrizione che può essere scritta solo in un detestabile "Codice della giustizia a furor di popolo", non nel Codice penale o nel Codice di procedura penale di uno Stato di diritto. Doina Matei è certamente colpevole del delitto che le è stato ascrittto. Aveva ovviamente cercato di chiedere scusa ai genitori di Vanessa Russo: “Ho invocato il loro perdono, non ho avuto risposta. Tocca a me, ora, piegarmi a quel silenzio”. La morale ipocrita di questa vicenda è che, in quel silenzio, non avrebbe però mai dovuto sorridere, come scrive oggi la penna che meglio di ogni altra incarna l'opinione pubblica. Ecco la colpa, nuova ed estrema, di Doina Matei. Dice giustamente Beniamino Migliucci, presidente dell'Unione delle camere penali: "Non conosco le motivazioni del giudice di Venezia, ma posso dire che una foto sorridente postata su un social non è un motivo sufficiente per sospendere il regime di semilibertà". Prosegue Migliucci: "Forse i giudici l'hanno ritenuto un comportamento inopportuno. Forse le foto sono state scattate nell'orario lavorativo. Forse hanno risentito della pressione dei media". Se il motivo è il terzo, allora esiste un caso Matei che qualcuno, forse un ministro della Giustizia, dovrebbe affrontare con coraggio. Una volta tanto senza piegarsi al populismo giudiziario.

Il valore liberale trascurato dei «Promessi Sposi», scrive Nicola Porro, Domenica 10/04/2016, su "Il Giornale". Esiste un testo, che abbiamo letto tutti, che avrebbe dovuto formare qualche generazione di italiani allo spirito liberale. Sono I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Recentemente lo ha ricordato Alberto Mingardi, ma il primo a scoprirne la sua portata liberale fu Luigi Einaudi che in una delle sue Prediche Inutili sottolineò: «Manzoni scrisse pagine stupende sui pregiudizi popolari intorno alla scarsità ed all'abbondanza del frumento e della farina, agli incettatori ed ai fornai; ché ogni volta che il discorso cade oggi sul rincaro dei viveri, sui prezzi al minuto e all'ingrosso, sulle malefatte degli accaparratori e degli speculatori, si leggono sui fogli quotidiani e si ripetono nei comizi gli stessi luoghi comuni che l'ironia manzoniana aveva bollato; e cadono le braccia». Il capitolo a cui ci riferiamo è il 12esimo, quello della «Carestia». In una Milano affamata il popolo dà l'assalto ai forni e il governatore Ferrer e i magistrati commettono un errore economico dietro l'altro. Manzoni racconta quel clima favolosamente e nelle prime pagine del capitolo, prima dell'arrivo di un Renzo spaesato ma di buon senso («Chi fa il pane, se fanno a pezzi i forni?», si chiede), racconta il paradosso, così attuale, di chi voglia controllare la formazione dei prezzi. Il prezzo, ci spiegheranno poi Milton Friedman e soci, non è altro che una magnifica, per la sua sinteticità, informazione. Non far funzionare bene il meccanismo di rialzo e ribasso dei prezzi, mina l'essenza di un mercato, racconta una storia non vera. E che prima o poi porterà ad uno scoppio. Ma ritorniamo ai Promessi sposi. È un crescendo. Prima la cultura del sospetto: Dopo un rincaro «nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza si suppone tutt'a un tratto che ci sia grano abbastanza». I prezzi non riflettono, per un collettivista, la scarsità di un bene, quanto la decisione di pochi nel determinarli. Se ci pensate è alla base delle differenza tra un'economia di mercato ed una di Stato. Meglio, molto meglio di un manuale di economia, l'economista Manzoni ci spiega come funziona il meccanismo dei prezzi e con una scrittura piatta e ironica avrebbe dovuto far capire a milioni di studenti che non è attraverso il controllo dei prezzi che si combattono improvvisi rincari di un bene. Anzi al contrario. Fissare un tetto ai prezzi, controllarli centralmente, porta all'effetto esattamente contrario: nessun incentivo a produrre di più il bene scarso e tanto meno interesse da parte di eventuali esportatori di supplire al deficit che si è formato. Per questo Einaudi nella predica inutile (Un libro per seminaristi e studenti) dice: «Forse la sola prosa da cui sia possibile, con l'aiuto di un insegnante non del tutto fuori dalla vita di oggi, trarre qualche immediata applicazione economica, è il capitolo sulla carestia nei Promessi sposi».

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

Staino e il manuale per compagni incazzati. Con il romanzo a fumetti "Alla ricerca della pecora Fassina", Bobo si imbatte nell'ultima grande tragedia della Gauche nostrana, dove Renzi è incollato allo smartphone, Cuperlo è un attore shakespeariano e Cofferati viene alle mani con Veltroni. Dedicato a "un pubblico adulto di sinistra", scrive Maurizio Di Fazio il 13 aprile 2016 su "L'Espresso". “Istruzioni per l’uso: la lettura è consigliata a un pubblico adulto di sinistra accompagnato da figli o conoscenti giovani, che possano tenerlo per mano nelle scene più crude in cui l’Autore affonda le mani nella carne viva delle contraddizioni ideologiche”. L’Autore è uno che di guerre fratricide ed epico-comiche interne al Pci prima, e al Pds, Ds e partito democratico poi, se ne intende benissimo, visto che le disegna e racconta in controluce biografica dal 1979, anno di nascita di Bobo, alter ego suo e di più di una generazione. Torna in libreria (per Giunti) Sergio Staino, tra i giganti della satira politica non soltanto italiana. Una statura che conferma in questo suo nuovo e ricco romanzo a fumetti, nonostante giusto pochi mesi fa Sergio/Bobo avesse confessato di essere ormai semicieco: si intitola “Alla ricerca della pecora Fassina” e ha per sottotitolo “Manuale per compagni incazzati, stanchi, smarriti ma sempre compagni”. Con la passione di sempre, engagé ma dissacrante, Staino eleva a memento artistico l’ultima grande cronaca di una tragedia annunciata in seno alla Gauche tricolore: lo strappo di Civati e Fassina e la nascita di ulteriori movimenti alla sinistra del Pd. Un distacco che matura all’ombra del Renzismo (“malattia infantile del Dalemismo”) e di un segretario-premier multitasking, “sempre incollato al suo smartphone dal quale controlla e dirige tutto e tutti, sorvolando su ogni difficoltà e dissenso con il suo ormai proverbiale “Ce ne faremo una ragione” scrive nella prefazione Ellekappa. Nel libro, Matteo Renzi salta da un impegno (e da una promessa) all’altro, con ogni mezzo di trasporto possibile; e tra lui, superdigitale e post-Agesci e dallo sguardo affilato e l’analogico e vetero-romantico ed ex berlingueriano Bobo è tumulto continuo. Anche in senso fisico. Con un sottofondo tuttavia di sentimenti indefiniti condivisi. Sono finiti i tempi del centralismo democratico, il web 2.0 dà l’illusione di avere rivoluzionato ogni dialettica tra base e classe dirigente e il meta-internettiano Bobo chiede dal vivo (e a gran voce) al suo segretario, con strattoni e imprecazioni se necessario, di farsi guida magnanima per i suoi più alti quadri e di non abbandonare a se stessa, quindi, la pecorella smarrita Fassina. Come nella parabola evangelica del buon pastore, che lasciò novantanove pecore nel deserto per andare alla ricerca dell’unica perduta. Bobo il tesserato e militante esemplare, libero e critico ma rispettoso delle regole e delle sintesi di partito, né con l’ortodossia genuflessa né con la fronda autolesionista, si imbarca in quest’operazione improba: riportare all’ovile la fuggiasca “pecora Fassina, una pecora focosa, ma generosa”. Sanare l’ennesima ferita inferta al giovane corpo del partito democratico, posseduto da vecchi e purulenti demoni di scissione. E lo fa eleggendo a compagno di viaggio, nel girone infernale delle polemiche, tale marlonbrando, un piccolo Virgilio Rom, pure qui rovesciando i canoni della vulgata che ci attanaglia. Quello che ne vien fuori è un affresco picaresco, corale e pittoresco del nostro paesaggio politico progressista, su cui continua però a soffiare imperterrita la speranza di Staino. Meglio parlarsi apertamente e prendersi per i fondelli che covare sordi rancori, suscettibili di divorzi brucianti e repentini. E mentre cerca Fassina Bobo si imbatte, in ordine sparso, in Gianni Cuperlo a teatro nei panni di un attore scespiriano; in Romano Prodi ed Eugenio Scalfari che dispensano saggi consigli nel deserto; in Walter Veltroni in balia dei suoi aneliti cinematografici; in Sergio Cofferati con cui viene alle mani; in Fabrizio Barca, Matteo Orfini, Pier Luigi Bersani e un manipolo di seguaci delle teorie complottiste di Giulietto Chiesa. E poi l’incontro-choc con Denis Verdini, che cerca di irretirlo dichiarandosi anch’egli “comunista”, forte della sua fede massonica di stampo “socialista mazziniano”. E tanto altro che non vi sveliamo. La lettura è sconsolante, ma appassiona, e tra le strisce prendono forma alcuni pensieri fermi nella testa di Bobo/Staino, uomo e artista idealista ma pragmatico. Ha senso scimmiottare i vari Tsipras, Podemos e Corbyn, o si rischiano solo sarabande di fallimenti? Esistono delle alternative credibili e auspicabili a Renzi? “Siamo stati contro la Cina e a favore dell’Albania. Poi contro Natta e di nuovo a favore di Berlinguer. Poi contro Occhetto e a favore di D’Alema. Poi contro Veltroni e a favore di D’Alema. Poi contro Prodi e a favore di D’Alema. Poi contro D’Alema e a favore di un qualsiasi giovane purché degli ex Ds. Ora sei contro Renzi, ok. Ma a favore di chi? Dimmelo! Che ci vengo anch’io” grida Bobo a un certo punto all’anziano compagno Molotov. “A favore di chi? Se lo sapessi non sarei qui” gli risponde il gagliardo marxista-leninista. “Ti piace Civati?”. “Quel fighetto milanese? Mai”. “Cofferati?”. “Dopo Bologna basta, non mi fido”. “Fassina?”. “Uno che ha fatto il sottosegretario con Monti? Mai”. “Allora tornare a D’Alema?”. “Ma se sono loro ad averci condotto qui!”. Per il compagno Molotov, Renzi è un po’ il male assoluto e piuttosto se ne andrebbe con i grillini. Per Bobo e Sergio Staino questo no, questo mai. Chiunque ne sia pro tempore il leader, il partito c’è già ed è quello democratico. E con Molotov sono botte.

ANTIFASCISTA UN PO' FASCISTA.

L'eterno fascismo italico, scrive Giorgio Bocca il 17 ottobre 2008 su "L’Espresso”. Le favole menzognere ma consolatrici sono meglio della verità. L'attivismo più apparente che reale aiuta a campare. Le paure irrazionali ma diffuse sono più importanti della realtà. Il quotidiano "il Giornale" ha pubblicato una lunga lettera di "un ragazzo di Salò", un professore emerito di ordinamento giudiziario dell'università di Bologna, Giuseppe di Federico, il quale racconta che a dodici anni, nel 1944, voleva arruolarsi nelle brigate nere di Salò per riparare al disonore di aver cambiato alleato, la Germania nazista, nel corso della guerra. Il professore rivendica di aver scelto la fedeltà a un alleato razzista, imperialista, stragista, che Benedetto Croce definiva "nemico dell'umanità", come "fedeltà nelle cose in cui credo senza curarmi troppo delle convenienze". Nel caso, senza curarsi del fatto che gli alleati nazisti stessero mandando nelle camere a gas milioni di innocenti. Sul tema del tradimento dell'alleato molti italiani a Salò e dopo Salò si rifiutarono di capire che la fedeltà a un'alleanza criminale è iniqua e che il suo tradimento è giusto e doveroso. Forse perché da millenni la cultura del potere predica la rassegnazione dei sudditi, degli 'ometti', dei cittadini comuni, dei sottoposti. Ma il diritto esiste, è un diritto naturale che non ha bisogno di essere codificato, è il diritto insopprimibile di ribellarsi al dispotismo quando esso arriva alla malvagità totale, alla rottura di ogni contratto sociale, all'ingiustizia imposta e proclamata. Chi rifiuta, come il professore emerito, il diritto degli italiani occupati dai nazisti a tradire l'alleanza voluta da Mussolini per paura e convenienza, più che per ragioni ideologiche, rifiuta il diritto umano a scegliere tra il giusto e l'iniquo. Il professore emerito dice a sua scusa che lui non sapeva delle atrocità del nazismo, che solo "quando tornò dall'America un mio zio ci disse che le atrocità erano vere e a lui non potevamo non credere. Fu un vero shock per tutti noi". Ma dietro al ritorno attuale di un modo di sentire, più che di pensare, neofascista, c'è qualcosa di peggio del non sapere, c'è un'affinità al fascismo eterno e in particolare al fascismo italiano che il berlusconismo rappresenta in modo spontaneo: le favole menzognere ma consolatrici sono meglio della verità, l'attivismo più apparente che reale aiuta a campare, le paure irrazionali ma diffuse sono più importanti della realtà. Le statistiche dicono per esempio che l'Italia è uno dei paesi più sicuri del mondo, con il più basso numero di rapine e di omicidi? Non importa, la gente coltiva le sue paure; il metodo più semplice per vincerle era quello usato dal fascismo che ignorava i delitti nell'informazione, oggi invece si pecca in senso opposto, ma sono due facce della stessa falsificazione della realtà. Il ritorno al fascismo eterno congenito degli italiani è un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti: tutto ciò che si lega in qualche modo a quell'archetipo, a quello stampo, a quello stile ha fortuna, tutto ciò che gli si oppone è nel migliore dei casi superato, noioso, retorico. Fascista l'Italia di oggi? Ma dove? Ma come? Tutti o quasi pronti a negare l'evidenza: che l'informazione economica, politica, criminale è sempre più asfittica, legata ai padroni, che quella televisiva che dipende dalla pubblicità, cioè dal potere economico, è quasi inesistente, ridotta alle pillole informative incomprensibili e contraddittorie dei telegiornali, che il parlamento è esautorato, che il il governo può fare e dire tutto quello che gli fa comodo, anche di aver impedito la terza guerra mondiale, anche di aver ripulito il paese dalle sue soverchianti immondizie, anche di garantire i risparmiatori da qualsiasi crisi mondiale, e gli italiani ci stanno, come ai tempi in cui il duce sfidava il mondo stando su un mucchio di letame.

Mussolini: “Italiani, popolo di voltagabbana!”, scrive l'11/07/2017 Giovanni Terzi su “Il Giornale". Non si danno pace neanche l’estate gli antifascisti di professione. Evidentemente devono coprire il buco lasciato dal loro crollo elettorale. Ormai se la prendono pure con gli stabilimenti balneari. Sono rimasti ancora al ‘900 a prendersela col Duce. Visto che a loro piace la storia, gli proponiamo un tuffo nel passato, con questa intervista a Benito Mussolini. Colloquio virtuale con un personaggio storico tra domande attuali e risposte attinte dalla sua vita, dalle opere di cui è autore e da quelle che lo riguardano. Tra le fonti per questa intervista: “Colloqui con Mussolini” di Emil Ludwig Mondadori 1950, “Dux” di Margherita Sarfatti, Mondadori 1982, “Mussolini l’uomo e l’opera “di Giorgio Pini e Duilio Susmel, La Fenice, Firenze 1955.

Duce, posso darle del “lei”? il “voi” è acqua passata. E come debbo chiamarla?

«Mi dia del “lei” e mi chiami Benito. Lo so era il nome di un rivoluzionario sudamericano, ma la mia famiglia era rivoluzionaria da sempre, socialista e di sinistra ed anch’io lo sono stato».

Quando?

«Fin dalla mia prima gioventù. Ero iscritto al partito socialista ma nel settembre del 1911, quando il governo Giolitti decise di invadere la Libia, mi ribellai anche ai vertici del mio partitoa Filippo Turati e a Claudio Treves che, riunitisi a Milano, nell’appartamento di Anna Kulishoff, in piazza Duomo, avevano deciso di dichiararsi solidali con Giolitti».

Fu quando guidò la rivolta di piazza a Forlì, assieme a Pietro Nenni?

«Sì, il 25,26,27 settembre 1911. Fui arrestato e processato. Al processo mi risentii moltissimo. Ammettevo tutto meno l’ultimo capo d’imputazione che respinsi con tutto me stesso “atto indegno di un combattente”. Che vergogna!»

E quanto le dettero?

«Cinque mesi di reclusione. Dopodiché me ne andai in Svizzera ma da lì a poco tornai in Italia, a Milano perché il partito mi aveva affidato la direzione dell’Avanti.»

Durò poco però. Nel famoso libro “Dux” di Margherita Sarfatti si legge “si congedò dall’Avantisenza volere l’indennità giornalistica e neppure lo stipendio in corso, e persino rifiutando quel migliaio di lire che la direzione del partito lo supplicava di accettare per i bisogni della famiglia. Eppure, fondava ora un giornale proprio. Per i suoi detrattori aveva accettato “l’oro francese”: un’accusa un po’ dura …

«Ma neanche per sogno era arrivato il momento di scendere in campo con le armi in pugno contro l’impero austriaco, nostro oppressore da secoli. Fondai il Popolo d’Italia e lo chiamai “quotidiano socialista”».

Lei si sentiva più uomo politico capo del governo o più giornalista?

«Le rispondo con le esatte mie parole che riportò Margherita Sarfatti nel suo “Dux”: andando al governo, spesso e volentieri prendevo dei fogli e scrivevo qualche cosa che poteva interessare agli italiani. Ciò aveva l’apparenza di solenne delle note ufficiose o ufficiali che dir si voglia. Erano in realtà dei piccoli articoli».

A proposito di Margherita Sarfatti brillante giornalista bella signora ebrea che per molti anni fu legata a lei da passione amorosa, che opinione aveva di lei come uomo?

«Nell’ultima edizione di “Dux” si legge “…benché abbia dato alle donne, con molta generosità, il diritto di suffragio amministrativo, al condottiero romagnolo la donna appare tuttavia sempre, da egoista maschile, bella e destinata a piacere”».

Benito è vero che il famoso giudizio “Governare gli italiani non è impossibile ma inutile” lei lo copiò da Giovanni Giolitti?

Ma neanche per sogno! Il giudizio è mio e la frase è mia. Ed è anche la verità. Del resto basta girarsi indietro e dare uno sguardo alle vicende degli italiani nei secoli: sempre divisi, sempre pronti a passare da una barricata all’altra e sempre pronti a cambiare bandiera ai primi accenni di maltempo».

Lei cita continuamente “Dux”. Ma nel 1938, quando furono varate le leggi razziali, il Ministero dell’educazione nazionale lo fece ritirare da tutte le librerie, e la Sarfatti dovette fuggire negli Stati Uniti.

«Perché insiste su questo tasto? Io ho sempre avuto la massima considerazione per gli ebrei. Il Ministro degli Interni del mio primo governo, Finzi, era ebreo, l’amministratore del Popolo d’Italiaera ebreo, tra i fascisti della prima ora molti erano ebrei. Ma ciò che mi fece optare per le leggi razziali fu l’ostilità della finanza mondiale dominata dalle lobby ebraiche, nei confronti dell’Italia…»

A proposito di ebrei anche l’altro celebre libro a lei dedicato e destinato a restare nella storia, fu scritto da un ebreo.

«Sta parlando dei “Colloqui con Mussolini” scritto da Emil Ludwig, grande scrittore e storico tedesco di stirpe e religione ebraica. Mi feci intervistare nel 1932 per due settimane gli dedicai un’ora ogni pomeriggio».

Ci può ricordare alcune risposte che diede alle domande di Ludwig?

«Incominciamo da quella sull’amicizia. Gli dissi che non potevo avere amici sia per il mio temperamento sia per il mio concetto degli uomini. Gli precisai che gli amici più fedeli erano quelli più lontani; erano chi non aveva mai voluto niente».

Nel libro c’è anche un capitolo dedicato alla fede…

«In gioventù ogni misticismo mi era estraneo ma negli ultimi anni era cresciuto in me il convincimento che potesse esservi una forza divina nell’universo. A Ludwig precisai che “divina” non significava per forza “cristiana”».

La pensa sempre così?

«No ora so che Dio è il Cristo. Ma lo sapevo già a Gargnano quando, pochi giorni prima della fine, ricevetti l’assoluzione dopo essermi confessato».

Con riferimento alla crisi economica del ’29 Ludwig le chiese” perché data la sua battaglia contro le barriere doganali, non fonda l’Europa?” che cosa rispose a questa domanda?

«Risposi così: sono vicino a questa idea, ma il tempo non è ancora maturo. Vedremo nuove rivoluzioni e solo da esse sorgerà il nuovo europeo».

Mussolini e l’estate dei morti viventi, scrive il 10 luglio 2017 Luigi Iannone su “Il Giornale”. Questa estate gravata dalla calura e grondante di barconi che preannunziano l’invasione prossima ventura, sarà pure ricordata come quella dei ‘morti viventi’. Quella nella quale saranno riesumati i defunti del 1945: da Mussolini ai gerarchi di Salò fino ai ‘Padri della Patria’ …tutti fuori dalle tombe utili a tempestare di noiosi déjà vu le nostre giornate. Priorità nel dibattito pubblico saranno lunghe sedute parlamentari per mettere a punto codicilli e commi da cui poter poi prendere spunto per legiferare su un reato inafferrabile e fantomatico quale “l’apologia del fascismo”. Frutto acidulo di una antica e sempre riproposta tragicommedia che riassicurerà alle nostre serate un minimo di brio in vista di qualche altro tormentone in grado poi di farci scavallare anche l’inverno, e così via, in un supplizio senza fine. E così disquisiremo di un tizio che sfoggia nel suo stabilimento balneare gagliardetti e frasi del ventennio; oppure di quell’altro che si è fatto un selfie in posa marziale e petto villoso; o dell’altro ancora che, sui social, cita la solita frase di Evola o Almirante e a supporto si incornicia a latere col suo saluto romano. Fatto salvo il folklore e la superficialità che si desume da tante testimonianze di machismo internettiano, da foto, simboli e armamentario vario, come si può concepire che un tema così marginale possa – ancora oggi – entrare a pieno titolo nel dibattito pubblico, investendo con virulenza e tossicità parlamento e partiti? Come è possibile che vengano tirate fuori vecchie parole d’ordine e paventati pericoli per la democrazia? In una ipotetica scala da uno a cento che tenesse conto delle necessità dei cittadini italiani questa vicenda sarebbe ben oltre il centesimo posto. Lo sanno tutti. E allora come è possibile tutto questo? Come ci salta in mente di discutere del nulla? Una risposta forse c’è, ed è quella più banale: la grancassa mediatica suona forte perché quando il pasto è succulento, chi arriva prima ne può trangugiare la parte più sostanziosa. Fare perno sulla ideologia, tentando di scovare i fascisti del terzo millennio e magari qualche nostalgico fuori tempo massimo, può rappresentare la medaglia che il ‘buon democratico’ deve sempre appuntarsi al petto per ostentarla poi ai suoi sodali. Perché solo in questo modo un antifascismo che tende a riesumare dei morti (perché – sappiatelo – il fascismo è morto e sepolto con Mussolini!) si può ritemprare di apparente energia vitale. D’altra parte vanno avanti così, grazie ad un metodo sperimentato per 70anni. L’antifascismo è infatti tra tutte le professioni quella più remunerativa. Lo diceva Flaiano, e poi Longanesi, e poi ancora Prezzolini il quale sempre andava sostenendo che <<in Italia non c’è stata una rivoluzione antifascista. Gli antifascisti hanno vinto mediante le bombe americane e inglesi, e le truppe negro-brasilio-polacche. Se non ci fosse stato l’esercito alleato, mai gli antifascisti avrebbero fatto cadere Mussolini. E, se Mussolini non avesse fatto la sciocchezza di dichiarare la guerra, oggi avrebbe un monumento a Times Square>>. Ma tali considerazioni vanno ribadite in gran segreto perché derivanti da verità fattuali che attengono alla Storia, argomento che loro non conoscono. Infatti, pur avendola scritta e riscritta a piacimento, non la conoscono. Essi sono ancora fermi alla religione laica dell’antifascismo in assenza di fascismo e a parole d’ordine trite e ritrite e, di conseguenza, impongono a tutti gli altri di conformarsi nei giudizi finali. In realtà, i democratici del terzo millennio assurgono a metafora tutta italiana di quella petrarchesca devianza che porta ad esaminare solo il “particulare” e da qui trarre considerazioni di carattere ‘universale’. E perciò possono far passare l’idea che se un tizio fa il saluto romano in Valle d’Aosta, tale accadimento possa scatenare in tutta la penisola frotte di architetti e urbanisti pronti a collocare fasci littori sui frontoni di ogni edificio pubblico e amministratori locali a cantare ‘faccetta nera’ tenendo al contempo ben stretti per i testicoli gli immigrati appena sbarcati. Ma non è così, e lo sanno! Mentono spudoratamente sul fronte storiografico perché sanno bene di aver falsificato i fatti del passato a uso e consumo di quella ideologia comunista che ha paralizzato i processi culturali del nostro Paese. Ma mentono senza ritegno quando strumentalizzano episodi spesso legati al folklore e profetizzano eventuali rigurgiti totalitari. Mentono perché sanno bene che, in questo tempo misero, la dittatura è quella tecnocratica, è quella del capitalismo finanziario, quella degli speculatori, dei burocrati di Bruxelles, delle banche che ‘saltano’ dalla sera alla mattina lasciando sul lastrico migliaia di risparmiatori, delle multinazionali che utilizzano le delocalizzazioni per licenziare; quella che confonde la bioetica con l’eugenetica, la libertà di scelta con l’anarchia, il folklore con la tirannia.

Fascismo sul web, Fiano: "non è opinione, è un crimine". Il deputato dem Emanuele Fiano canta vittoria per l'arrivo alla Camera della sua legge contro l'apologia del fascismo. Centrodestra e M5S contrari: mina il diritto d'opinione, scrive Francesco Curridori, Lunedì 10/07/2017 su "Il Giornale". Il deputato dem Emanuele Fiano, figlio di sopravvissuto ad Auschwitz, canta vittoria. La sua legge contro l’apologia del fascismo arriva oggi in Aula alla Camera. "Com’è possibile - si chiede Fiano intervistato da Repubblica - che in oltre 70 anni di storia della Repubblica non sia stato messo nel codice penale il reato di apologia di fascismo e di propaganda, che c’è solo come articolo della legge Scelba del 1952?" Ora, con la sua legge il reato di apologia sarà punibile con la reclusione da 6 mesi a 2 anni con l’aggravante per il web. Una legge che, a suo dire, arriva tardi "ma nel momento giusto per risvegliare le coscienze". "Noi continuiamo a sottovalutare un contesto altamente infiammabile come quello del disagio sociale e della reazione all’emergenza immigrazione", aggiunge. La legge trova però la ferma opposizione dei grillini che in commissione Affari costituzionali hanno presentato un documento in cui sostengono che la legge mini la libertà di opinione. "Immagino che tutto il centrodestra si opporrà alla legge con l’aggiunta dei 5Stelle: un fatto molto preoccupante. A me rimane per sempre la frase che disse Giacomo Matteotti: 'Qui non si tratta di reati di opinione, perché il fascismo non è un’idea, è un crimine' ", dichiara il renziano Fiano che interviene anche sul aso dello stabilimento balneare di Chioggia che inneggia al fascismo. "C’è oggi una sorta di benaltrismo, per cui si dice che i problemi sono la mancanza di lavoro, di pensione, di futuro. E allora perché occuparsi di vecchie cose. Ma - spiega Fiano - è il contrario, perché la crisi economica e la questione dei migranti sono il terreno di coltura per le idee neo fasciste e di estrema destra e razziste". L'altro problema, per Fiano, è il fascismo su Facebook e sul web: "Pochi giorni fa ce n’era una che è stata bloccata in cui si propagandavano i discorsi di Goebbels: aveva 8 mila e 500 seguaci".

M5S: "Legge contro l'apologia di fascismo è liberticida". Renzi: "Liberticida era il regime". È scontro duro tra il Pd di Matteo Renzi e il M5S sulla proposta di legge presentata da Emanuele Fiano che introduce nel codice penale il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista, scrive Raffaello Binelli, Lunedì 10/07/2017, su "Il Giornale".  Punire "chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco". Nel mirino, dunque, saluti romani e gadget "nostalgici". Con l'aggravante se la propaganda avviene attraverso strumenti telematici o informatici. Nettamente contrari alla bozza di legge i deputati del Movimento 5 Stelle: "Il provvedimento in esame si palesa sostanzialmente liberticida". Lo hanno scritto, nero su bianco, in un parere consegnato alla Commissione Affari costituzionali della Camera. I deputati di M5s, tra cui Danilo Toninelli e Fabiana Dadone, scrivono che la norma vuole indicare come penalmente rilevanti anche "condotte meramente elogiative, o estemporanee che, pur non essendo volte alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, siano chiara espressione della retorica di tale regime, o di quello nazionalsocialista tedesco" e dunque "il provvedimento in esame si palesa quale sostanzialmente liberticida". Per M5s dovrebbero essere penalmente rilevanti "le sole condotte che risultino oggettivamente offensive, in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione. L’approvazione del provvedimento determinerebbe, quindi, l’entrata in vigore di una norma illegittima ed in parte priva di concreti effetti, se non, in alcuni casi, in merito all’abbassamento delle pene edittali" e dunque M5s ha espresso parere contrario. Emanuele Fiano, primo firmatario della legge, ironizza: "Li ringrazio per la chiarezza, la differenza tra le nostre idee è per me un vanto". Durissima la stoccata del segretario Pd, Matteo Renzi: "Liberticida era il fascismo non la legge sull’apologia del fascismo. Bisogna dirlo al M5S: era il fascismo liberticida. Almeno la storia!". Il senatore democratico Andrea Marcucci: "Il M5S alla Camera contro il reato di apologia di fascismo. Più chiaro di così...".

Apologia di fascismo, ora è scontro politico. M5S e destre: "È una norma liberticida". Il ddl Fiano prevede pene più dure per chi inneggerà al fascismo, anche sul web. Pd e sinistre favorevoli: «Colma un buco normativo». Pentastellati, centrodestra e destra attaccano la legge: «Inammissibile, introduce un reato d'opinione», scrive Federico Marconi il 10 luglio 2017 su "L'Espresso". Una nuova legge contro l'apologia di fascismo, con un'attenzione particolare ai social network: è questa la norma in discussione alla Camera che sta accendendo le polemiche. La legge Fiano - dal nome del deputato Pd promotore della legge - prevede pene da 6 mesi e 2 anni per chi sarà responsabile di "propaganda attiva di immagini o contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco e delle relative ideologie”, ma anche per chi richiamerà “simbologia e gestualità” dei due partiti. Pene che diventano più dure se il reato sarà perpetrato sui social network: la propaganda “attraverso strumenti telematici o informatici” costituirà infatti un’aggravante del delitto, comportando un aumento di un terzo della pena. «Il ddl sull’apologia di fascismo è un passo avanti» afferma il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri: «Vuole introdurre un reato specifico nel codice penale, fino ad oggi mancante, in quanto ci si rifaceva solo alla legge Scelba (del 1952, ndr)». Il provvedimento ha subito attirato le polemiche. Secondo il Movimento 5 Stelle si tratta di una norma “liberticida” e infatti in un parere consegnato alla Commissione Giustizia della Camera, i pentastellati bocciano il testo di legge in quanto punirà “anche condotte meramente elogiative, o estemporanee che, pur non essendo volte alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, siano chiara espressione della sua retorica”. «La proposta Fiano è scritta coi piedi solo per andare sui giornali - afferma Danilo Toninelli -  Piuttosto votiamo la Legge Richetti sui vitalizi invece di fare propaganda». La posizione dei 5S è condivisa dalle destre. «Questo è il modo del Pd di guardare avanti per il futuro dell'Italia, introdurre nel nostro ordinamento un unico reato d'opinione perché si potrà impunemente inneggiare a Stalin e a Osama Bin Laden - commenta duramente Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia -  la verità è che taluni personaggi del Pd restano profondamente illiberali, faziosi e comunisti dentro». Sulla stessa lunghezza d’onda Renato Brunetta («perché non introdurre in legge Fiano anche apologia comunismo?») e il segretario della Lega Matteo Salvini: «Nel 2017 non ha senso un reato d’opinione. Un conto sono le minacce, gli insulti o l'istigazione al terrorismo, altra cosa sono le idee, belle o brutte, che si possono confutare ma non arrestare. Le idee non si processano». Uniti in difesa della legge sono sinistra e centrosinistra. Il segretario Pd Matteo Renzi polemizza con i 5 Stelle: «Liberticida era il fascismo, non la legge sull’apologia di fascismo». Da Largo del Nazareno interviene anche il presidente Dem Matteo Orfini: «A non essere né di destra né di sinistra si finisce come il M5s: a difendere l'apologia di fascismo». «Caro Beppe Grillo il fascismo fu una dittatura terribile. Liberticidi sono quelli che oggi lo elogiano, non quelli che lo combattono» è la reazione di Arturo Scotto di Mdp. «Promemoria per Lega e M5S: i neofascisti sono razzisti, prevaricatori, le loro azioni, la loro propaganda e le loro provocazioni vanno contrastate duramente» il commento di Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana: «Chi pensa che facciano folklore diventa loro complice» Per il segretario del Psi Riccardo Nencini la posizione dei pentastellati non deve sorprendere: «Per forza non ritengono reato l’apologia del fascismo, i vertici vengono da lì. Basta chiedere ai due 'Di' (con riferimento a Di Battista e Di Maio ndr)».

Il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione viene garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Nonostante ciò, il Parlamento ha più volte legiferato contro l’apologia di fascismo. Per questo la legge Fiano non può essere considerata una novità assoluta. La prima norma a occuparsi del tema è stata nel 1952 la legge Scelba, che realizzava le disposizioni della XII norma transitoria e finale della Costituzione. La legge prevedeva il carcere per chi si fosse impegnato nella riorganizzazione del partito fascista o avesse commesso apologia di fascismo. La norma fu ampliata prima nel 1975, poi nel 1993 dalla legge Mancino, che puniva chi avesse propagandato «idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale ed etnico, istiga a commettere discriminazioni e organizza movimenti che hanno tali scopi». Anche la Corte Costituzionale si è espressa sulla questione. La prima volta nel 1957: i giudici affermarono che l’apologia di fascismo «per assumere carattere di reato deve consistere in un’esaltazione tale da poter condurre alla riorganizzazione del partito fascista». Nel 1958 la Corte stabilì che il saluto romano «costituisce reato se commesso in circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste». Per questo, nel 2016, la Corte di Cassazione ha deciso l’assoluzione di un tifoso di Bolzano che si era presentato allo stadio con una maglietta di Mussolini, degli esponenti di Casapound di Milano che esponevano bandiere con croci celtiche per le vie della città, o un gruppo di “camerati” che a un funerale “omaggiavano” l’amico defunto con il saluto romano. «Non è punibile il gesto in sé, va collocato all’interno di una manifestazione con fini di proselitismo e propaganda politica» la sentenza della Cassazione. Con la legge Fiano le cose potrebbero andare diversamente.

Scontro parlamentare sull’apologia di fascismo, Toti: “Nessuno sano di mente può sostenere o rimpiangere i regimi”, scrive Katia Bonchi il 10 luglio 2017 su "Genova 24". “Non credo che ci sia in Italia qualcuno che sostiene il fascismo, né che inneggi a regimi totalitari di qualsiasi colore e certamente è già previsto come reato dalle clausole transitorie della nostra Costituzione che sembra in vigore nonostante i molti assalti e attentanti degli ultimi mesi, quindi il dibattito sull’apologia di fascismo credo che sia un dibattito piuttosto sterile perché non vedo chi possa essere l’apologeta del fascismo in questo Paese”. Dribbla le polemiche con la consueta scioltezza il governatore della Regione Liguria Giovanni Toti e a chi gli chiede cosa ne pensi del dibattito in aula che vede la Lega Nord a fianco del M5S e contro il Pd sulla proposta di legge che punisce la propaganda via web del fascismo. Ma gli arresti? Le denunce? E la recente sentenza della Cassazione? “Ci sono arresti di ogni genere e la criminalità si annida nelle più diverse forme o assume colori e giustificazioni le più disparate ma non credo che qualcuno intellettualmente sano o innesto possa rimpiangere o fare apologia di fascismo. Se lo fa commette un reato e fanno bene ad arrestarlo così’ come chi fa apologia dei teppisti da stadio che vanno a picchiarsi alle partite e così come chi fa apologia di prodotti contraffatti o dello sfruttamento di lavoro minorile”.

Il fascismo a intermittenza, scrive l'11 luglio 2017 Beppe Grillo. Incredibilmente il Pd, nelle sue imprese di distrazione di massa, è stato colto dal desiderio irrefrenabile di proporre un restyling del reato di apologia di fascismo. La legge che sanziona quelle poco edificanti trovate nostalgiche previste nei dettagli dall'articolo 4 della legge Scelba del 1952. Per le crisi nostalgiche sono già previste pene e sanzioni: la reclusione (da 6 mesi a 2 anni) e una multa da 206 a 516 euro. Ancora, dal 1993, esiste anche la legge Mancino, che sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista, e aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Vengono (o meglio dovrebbero essere) puniti anche l'utilizzo di simbologie legate a questi movimenti politici. Cerchiamo di analizzare quello che sta succedendo: l’Italia è una Repubblica che nasce dalle ceneri del fascismo e fonda i suoi valori sulla democrazia ed il lavoro. Come mai il Pd, che sta mercificando questi due pilastri fondanti della Repubblica, si è messo in testa di fare una nuova versione della legge che sancisce comportamenti e tentativi di ripristinare il fascismo? Non sono del tutto fessi, e questo forse ne è il primo segno concreto. Non è di sicuro farina del sacco del giovane paggio, sempre più impegnato a reggere lo strascico delle banche mentre convolano a nozze miliardarie a spese dei cittadini. L’unico modo per colpire delle opinioni in Italia è coinvolgere il fascismo. La mano morta sulla democrazia di Renzi prosegue insinuando, non agendo apertamente, che inizia ad esserci bisogno di fare delle leggi sul come la si pensa. Leggi (per lo più immaginarie) che tinteggino loro, la sinistra frou frou, da progressisti e gli altri come oscuri conservatori. Cosa volete che sia avere dato la fine ai diritti dei cittadini, dei lavoratori e dei pensionati. Sono sicuri che gli italiani si lasceranno ancora ipnotizzare da un dibattito inutile su di una legge inutile. Il loro nuovo schema mediatico è il fascismo a intermittenza. Quando i partiti e i media che gli strisciano attorno non sanno più come contrastare una posizione di buon senso del MoVimento 5 Stelle gridano al fascismo. Fino a qualche settimana fa, infatti, il MoVimento era fascista perché voleva accendere i fari sul comportamento delle Ong nel mar Mediterraneo. Poi contrordine compagni: "la frase "chi critica la gestione dell'immigrazione e il ruolo delle ONG negli sbarchi in Italia va apostrofato come fascista" contiene un errore di stampa e pertanto va letta: "chi critica la gestione dell'immigrazione e il ruolo delle ONG negli sbarchi in Italia è chiaramente un grande statista"." Così il ministro Minniti, che ha rubato le nostre proposte senza applicarle, e Renzi, che ha fatto suoi gli slogan della Lega, sono diventati fascisti? Assolutamente no! Ora, scrivete compagni: "fascismo vuol dire non votare la legge scritta coi piedi di Fiano", tanto gli italiani non se ne accorgeranno. I giornali hanno dimostrato obbedienza cieca, pronta, assoluta. Ed ecco il titolo vergognoso "Di Maio e Di Battista sdoganano il regime" in un articolo di Repubblica che oramai raggiunge vette di propaganda che Il Popolo d'Italia neppure si sognava. Una vera legge antifascista dovrebbe colpire tutti gli assolutismi tramite la prevenzione: ma colpirebbe proprio loro, perché continuando a mentire sistematicamente ad un popolo stanno ponendo le fondamenta del fascismo o di qualunque altra reazione assolutista. Non sappiamo cosa vorrà dire domani essere fascisti, sappiamo cosa vuol dire oggi: il governo metterà la fiducia sul decreto banche per dare altri 17 miliardi di euro pubblici e salvare il culo dei banchieri mentre 10 milioni di italiani sono a rischio povertà e 250.000 emigrano ogni anno. Ma questo non è fascismo, è solidarietà. Scrivete compagni! Scrivete!

Caro Fiano, il fascismo non si combatte così. Dalla pancia del Paese affiorano pulsioni di estrema destra e il Pd pensa di affrontarle con divieti, bollini e punizioni per il Web. Bisogna invece combattere ogni giorno l'egemonia culturale reazionaria, sempre più diffusa. Non è facile, certo, ma è l'unico modo, scrive Fabio Chiusi l'11 luglio 2017 su "L'Espresso". Ci sono diverse tentazioni antidemocratiche nel dibattito sorto intorno alla legge Fiano contro la propaganda fascista. La prima, dei sostenitori, è definire “fascista” chiunque vi si opponga, quando naturalmente non servono nostalgie del Ventennio per porre una semplice domanda: che cosa è, esattamente, “propaganda”? Il testo parla di “immagini” e “contenuti propri” di fascismo e nazismo, delle “relative ideologie”, di richiamarne pubblicamente “la simbologia e la gestualità”. In alcuni casi, abbastanza per identificare uno squadrista; in molti altri - dalla satira alla ricerca, passando per tutte le sfumature consentite dalla libera espressione in democrazia - no. Non perché essere fascisti è un’opinione come le altre, ma perché un conto è criminalizzare la violenza e il razzismo come metodo di lotta e seduzione politica, o vietare la ricostituzione di un partito totalitario, come nelle già vigenti leggi Scelba e Mancino; un altro è criminalizzare un braccio teso, la vendita di un santino del Duce o la diffusione di una sua foto su Facebook per la loro sola esistenza. Proprio su Internet peraltro, secondo la norma, essere fascisti è di “un terzo” più grave: perché? Il principio della rete come aggravante di reato è un concetto che ruota nelle menti dei legislatori italiani almeno dal ddl Lauro del 2009, in cui il senatore Pdl ipotizzava un aumento di pena per il proposto, e bocciato, reato di “istigazione ed apologia dei delitti contro la vita e l’incolumità della persona” nel caso fosse compiuto tramite “telefono, Internet e social network”. Oggi si parla di “strumenti telematici e informatici”, ma è singolare pensare che una trasmissione televisiva più o meno velatamente razzista, o un titolo di giornale, siano minori veicoli di propaganda. Singolare, a meno che non si inquadri l’idea all’interno dell’ossessione che i liberal di tutto il mondo hanno sviluppato per la propaganda digitale dopo l'elezione di Donald Trump - senza peraltro prendersi la briga di definirne i contorni, o spiegarci perché dovrebbe essere più pericolosa di quella “offline”. Anche questa di criminalizzare la propaganda e le menzogne che oggi chiamiamo inspiegabilmente “fake news”, invece di neutralizzarle con le idee, i fatti e la civiltà, è una tentazione antidemocratica, tale da avere allarmato perfino lo Special Rapporteur ONU per la libertà di espressione, David Kaye. Il problema è che quando si sfonda la soglia della criminalizzazione della propaganda ideologica non si sa bene dove si va a finire. Certo, c’è una diffusa e montante tentazione autoritaria a destra, al punto che sempre più è il linguaggio dei Salvini e delle Le Pen a fare quella che Antonio Gramsci chiamava “egemonia culturale”: un rapporto di dominio, sì, ma più subdolo e pervasivo perché fondato sul consenso, prima che sulla coercizione, e sempre “necessariamente pedagogico”. Anche questo è un dato di realtà con cui fare i conti, utile per decifrare gli strepiti di chi maschera la volontà di giustificare, assolvere, minimizzare dietro al faro del libero pensiero. Ma una volta rotti gli argini, le acque fluiscono verso anfratti che potrebbero allagare la stanza della democrazia, più che quella degli estremisti, sempre peraltro dotata di insospettabili anfratti. Pubblicare un testo di propaganda fascista diventa dunque reato, anche quando è di interesse storico? Un video su YouTube con i discorsi di Joseph Goebbels - il vero padre della propaganda contemporanea, che andrebbe studiato nel dettaglio, non consegnato all’oblio - è materia da codice penale? Domande che, in una certa misura, si ponevano già, ma che oggi si ripropongono con maggiore forza. Domande che somigliano molto da vicino a quelle poste nei mesi in cui i terroristi di ISIS occupavano il web con le loro strategie di comunicazione. E cosa è più democratico, tentare la via difficile - mostrando ma contestualizzando, diffondendo ma senza essere megafoni - di ottenere una opinione pubblica informata e adulta abbastanza da valutare da sé l’orrore, o pretendere - nell'era della disintermediazione, uno sforzo quasi certamente vano - di trattarla come un consesso di infanti a cui appiccicare un bollino rosso, un divieto, così che il male finisca sotto il tappeto? E ancora: cosa distingue essenzialmente la propaganda estremista, o fondamentalista, da quella politica? Il passo, insegnano i regimi autoritari di oggi, non di ieri, è più breve di quanto sembri. Si pensi alla Cina, e alla recente norma che prevede lo screening, da parte di due revisori, di ogni contenuto audio-video pubblicato in rete, con conseguente censura di tutti quelli che non aderiscono ai “valori di fondo del socialismo”. Nessuno sostiene che Fiano e i sostenitori della sua legge abbiano Pechino come modello; il pericolo, tuttavia, è aprire le porte a una ratio che rende possibile adottarlo, se ritenuto necessario. Resta poi l’ultima obiezione, più profonda: che il fascismo è un cancro difficile da estirpare, un male apparentemente incurabile della contemporaneità che è meglio prevenire, dissolvere piuttosto che risolvere. Inutile fare di Cinque Stelle - gli epuratori a mezzo blog - e leghisti improbabili difensori delle libertà civili: se si vuole privare il fascismo del terreno che lo fa germogliare, bisogna inaridirlo ogni giorno, non con le leggi ma con la dimostrazione quotidiana del rispetto di rapporti di vita e potere democratici, da parte di ogni fazione politica. L’intolleranza non si batte coi divieti, né tantomeno scimmiottandone slogan e forme, ma con l’intransigenza e l’orgoglio di appartenere a un mondo in cui si ha memoria di che accade un saluto romano dopo l’altro. Coltivare la passione del passato e della verità storica, incentivarla in ogni forma: questo sì si sottrae a ogni tentazione antidemocratica. E, infatti, sembra proprio l’ingrediente mancante al dibattito in corso.

Pd contro la spiaggia "fascista": "Togliere subito la concessione". Polemica per lo stabilimento di Chioggia che inneggia al Ventennio. Il Pd chiama in causa Minniti: "Servono provvedimenti urgenti". E ne chiedono la chiusura, scrive Sergio Rame, Lunedì 10/07/2017, su "Il Giornale". La sinistra è pronta a far chiudere lo stabilimento Punta Canna di Chioggia. L'hanno già ribattezzata "la spiaggia fascista". E sono pronti a tutto pur di togliere a Gianni Scarpa, 64enne di Mirano, la concessione. "La spiaggia fascista di Chioggia va chiusa e la concessione demaniale revocata, ponendo fine a questa autentica vergogna", ha tuonato il deputato Antonio Misiani che nei prossimi giorni presenterà una interrogazione parlamentare al ministro degli Interni Marco Minniti per "sollecitare provvedimenti urgenti". Francesco Storace, presidente del Movimento Nazionale, se la ride. E prende in giro il Pd e la sinistra che in queste ore si stanno armando contro lo stabilimento Punta Canna. "Gli antifa, frustrati più che mai, non hanno 'gnente da fà - commenta Storace - non hanno capito, Sala, Repubblica, Boldrinova, che di loro ce ne freghiamo abbastanza. Hanno scoperto una spiaggia a Chioggia. Non sopportano che rendiamo onore ai nostri Caduti". A far infuriare la sinistra sono i cartelli esposti da Scarpa all'interno dello stabilimento. "Zona antidemocratica e a regime - si legge - non rompete i c...". A far scoppiare la polemica è stato un articolo di Repubblica. "Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità - scrive il 64enne di Mirano - difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d'uomo, se non ti piace me ne frego!". E ancora: "Servizio solo per i clienti... altrimenti manganello sui denti". E poi frasi di Ezra Pound, braccia al cielo e inni fascisti. "Qui valgono le mie regole", spiega Scarpa raccontando che, in passato, le regole prevedevano il divieto di ingresso ai "bambini e ai buzzurri". Negli ultimi tempi ha deciso di aprire il lido ai bimbi. Tutta la spiaggia è costellata da scritte e immagini del Ventennio, compresa la foto di un bambino che dice: "Nonno Benito, per un'Italia onesta e pulita torna in vita". "Questa vicenda è di una gravità inaudita", tuona il piddì Misiani. Che poi attacca: "L'apologia di fascismo è un reato punito dalla legge. Che questo reato venga sistematicamente commesso su un terreno demaniale è un fatto incredibile ed è sconcertante che tutto questo sia stato tollerato per così tanto tempo, come se la propaganda e la simbologia nazifascista fosse una questione folkloristica". Walter Verini fa eco parlando di "storia incredibile e vergognosa". Questa mattina, come rivela Repubblica, sono già arrivati gli agenti della Digos e della polizia scientifica, inviati dal questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi.

Ordine e disciplina: lo stabilimento è fascista. Vicino alla spiaggia cartelli e slogan che ricordano il Ventennio. E il caso arriva in Parlamento, scrive Lunedì 10/07/2017 "Il Giornale". A chi la spiaggia? A noi! Un «posto al sole» Gianni Scarpa, 64 anni, titolare del lido più fascista d'Italia se l'è già ritagliato. A scovare a Chioggia il suo «ducesco» stabilimento balneare è stato ieri il quotidiano La Repubblica che ha dedicato all'argomento un ampio reportage, pubblicando inoltre sul sito la registrazione della voce di Scarpa che arringa i «suoi» clienti con piglio mussoliniano. Nel giro di poche ore tutta Italia ha scoperto la vocazione «totalitaria» dello Scarpa con inevitabile corollario di polemiche politiche e interrogazioni parlamentari. «Gli antifascisti, frustrati più che mai, non hanno gnente da fa. Non hanno capito, Sala, Repubblica, Boldrinova, che di loro ce ne freghiamo abbastanza. Hanno scoperto una spiaggia a Chioggia. Non sopportano che rendiamo onore ai nostri Caduti. Indagano se ci scappa un bel saluto romano. Certo, altro su di noi non ci può essere, come capita a voi lestofanti. Magari presto vi potrebbe capitare di cantare Sala libero... Sarà una lotta di liberazione...». È quanto scrive su Facebook Francesco Storace, presidente del Movimento Nazionale. Ma che succede, in realtà, nel «nero» lido Punta Canna di Chioggia dominato dal camerata Scarpa? Già all'ingresso si capisce tutto: «Zona antidemocratica e a regime, non rompete i c...». Più avanti, i cartelli sono ancora più eloquenti: «Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità. Difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d'uomo, se non ti piace me ne frego!»; «Servizio solo per i clienti... altrimenti manganello sui denti». E poi un profluvio di frasi di Ezra Pound («Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui»), braccia tese e saluti romani. Un'insegna indica i servizi igienici: «Questi sono i gabinetti per lui, per lei, per lesbiche e gay». Il proprietario, per spiegare la sua ideologia, non ricorre a giri di parole: «Qui valgono le mie regole. La democrazia mi fa schifo. M i fa schifo la gente sporca. E i tossici li sterminerei tutti». In passato, le «regole» prevedevano il divieto di ingresso anche ai «bambini» (oltre che ai «buzzurri»), ma piano piano Scarpa si è addolcito e ora sono tollerati anche il bambini. Che Scarpa chiama, simpaticamente, «piccoli balilla». Intanto da oggi sarà in discussione a Montecitorio la legge 3243 che chiede l'introduzione dell'articolo 293-bis del codice penale, per punire «chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco».Il passato ritorna.

Chioggia, il prefetto scende in campo contro la spiaggia fascista: "Rimuovere tutti i cartelli", scrive il 10 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Dopo la denuncia del quotidiano La Repubblica, il prefetto di Venezia Carlo Boffi "esegue": ha adottato immediatamente l'ordinanza contro lo stabilimento di Gianni Scarpa, 64enne di Mirano, il quale ha dedicato il suo spazio a Benito Mussolini. "Spiaggia fascista". Così l'ha chiamata il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Al titolare della concessione balneare di Punta Canna di Chioggia è stata intimata "l'immediata rimozione di ogni riferimento al fascismo contenuto in cartelli, manifesti e scritte presenti all'interno dello stabilimento". In poche ore sono arrivati gli agenti della Digos e della polizia scientifica, inviati dal questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi. Nel mirino, i cartelli esposti da Scarpa all'interno dello stabilimento che inneggiano al Ventennio. "Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità - scrive il titolare dei bagni, 64 anni -, Difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d'uomo, se non ti piace me ne frego!". E ancora: "Servizio solo per i clienti... altrimenti manganello sui denti". In uno sgabuzzino, c'è scritto: "Camera a gas". Per il caso - proprio mentre la politica si infiamma il dibattito in Parlamento sull'apologia di fascismo - è mosso il prefetto di Venezia. Nell'ordinanza ha ordinato al titolare dello stabilimento di astenersi dall'ulteriore diffusione di messaggi contro la democrazia "visto il pericolo concreto ed attuale che la persistenza di tali comportamenti possano provocare esplicite reazioni di riprovazione e sdegno nell'opinione pubblica, così vivamente turbata, con conseguenti possibili manifestazioni avverse e di riflesso, il rischio di turbative dell'ordine pubblico". 

Pd e Cinque Stelle si azzuffano su chi è più antifascista. Lo stabilimento balneare di Chioggia in stile "Sturmtruppen" messo sotto inchiesta e diffidato dal prefetto: "Via i simboli antidemocratici", scrive Antonio Angeli su “Il Tempo” il 10 Luglio 2017. Mentre lo stabilimento balneare "nostalgico" di Chioggia viene diffidato dal prefetto e dovrà rimuovere la scritte considerate "fasciste", grillini e piddini si azzuffano su chi è più "democratico" e sinceramente " antifascista. È surreale la polemica, che giunge con la presentazione oggi in Parlamento della legge Fiano per infliggere pesanti condanne ai "trafficanti" di gadget del Ventennio, che si è scatenata tra MoVimento 5 Stelle e Pd. «La proposta di legge Fiano contro la propaganda del regime fascista e nazifascista - affermano i 5 Stelle - è l'ennesima legge scritta con i piedi dal Pd. Una legge che per capirci, senza l'emendamento M5S approvato a prima firma Ferraresi in commissione, poneva uno sconto di pena a chi avesse propagandato le ideologie fasciste. È tutto vero e documentato: il Pd voleva una legge che faceva sconti ai fascisti. Grazie al M5S non sarà possibile». Così in una nota il gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle alla Camera. «La legge in questione - attacca il relatore di minoranza Vittorio Ferraresi - è stata criticata da diversi giuristi. Parliamo di un pastrocchio non necessario, visto che esistono già due leggi in vigore che puniscono l'apologia del fascismo che per noi è da condannare senza se e senza ma. Questa legge non serve al nostro Paese perché si andrà a sovrapporre alla legge Scelba e alla legge Mancino, infatti i comportamenti previsti in essa come le manifestazioni di propaganda e il saluto romano, come ricorda la Corte di Cassazione, sono già punibili e puniti». «Questa proposta maldestra è scritta talmente male da non distinguere fra prodotti propagandistici e prodotti storico-artistici. Il paradosso è che potremmo vedere chiuso il Foro Italico o l'intero quartiere Eur», ironizza Ferraresi. «Mentre questo governo regala i soldi alle banche e ignora i problemi dei cittadini, noi non cadiamo negli squallidi tentativi del Partito democratico di metterci addosso l'etichetta di fascisti. Così come non cadremo in quelli berlusconiani di definirci comunisti. Per noi questo provvedimento rischia seriamente di essere incostituzionale, la stessa Costituzione antifascista che il Pd e Fiano volevano stravolgere. L'antifascismo - conclude l'esponente M5S - per noi è un valore, per loro un spot». E intanto il prefetto di Venezia Carlo Boffi ha emesso l'ordinanza con la quale si impone al titolare della concessione balneare di Punta Canna di Chioggia l'immediata rimozione di ogni riferimento al fascismo contenuto in cartelli, manifesti e scritte presenti all'interno dello stabilimento. All'ingresso dello stabilimento balneare sono esposti i "principi" a cui "devono attenersi" i bagnanti: ordine, pulizia, disciplina. Si tratta, hanno spiegato i titolari, di battute goliardiche che non vogliono offende nessuno. Ma dopo la campagna di Repubblica e del Corriere, lo stabilimento in stile "Sturmtruppen" si è trovato nella bufera. Con il provvedimento del prefetto viene anche ordinato al titolare dello stabilimento di astenersi dall'ulteriore diffusione di messaggi contro la democrazia «visto il pericolo concreto ed attuale che la persistenza di tali comportamenti possano provocare esplicite reazioni di riprovazione e sdegno nell'opinione pubblica, così vivamente turbata, con conseguenti possibili manifestazioni avverse e di riflesso, il rischio di turbative dell'ordine pubblico. Il provvedimento sarà notificato all'interessato nella giornata di oggi dalla Questura di Venezia».

Altro che apologia, nel lido incriminato solo tanta volgarità. La sinistra scambia frasi triviali per l'esaltazione del fascismo, scrive Lodovica Bulian, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". Benvenuti allo stabilimento «fascista» di Chioggia che ama tutti: «Amo i gay amo le lesbiche, amo tutta la gente che si comporta bene». Regole della spiaggia: «Ordine, disciplina, pulizia. Poi divertitevi». Ma prima ricordate: «La zona è ad alta frequentazione di gnocche e gnocchi». Dunque, «massima educazione e non rompete i co...!». E mentre i bagnanti asciugamano sotto braccio se la ridono ormai da tre anni, da quando cioè i cartelli campeggiano all'ingresso del lido accusato di apologia e loro sono evidentemente appagati dalla grossolana personalità del titolare, il Pd e la sua sinistra vedono il Duce dappertutto. Un incubo. E per un giorno trasformano il bagnasciuga nel veneziano in una pericolosa sacca di rinascita del fascismo in Italia. Interrogazioni parlamentari, denunce, richieste di revoca della concessione a quel gestore, Gianni Scarpa, che si divertirebbe a far rivivere il Ventennio in uno «spazio pubblico». Eppure per condannare le sconcertanti banalità rivestite dalle espressioni di cattivo gusto di un «bagnino», come si definisce lui, non serviva scomodare le bandiere dell'antifascismo. Bastavano quelle contro le volgarità contenute nelle istruzioni di un comune manuale di galateo. Ma guai a ridurre tutto a «goliardate e folklore», ammoniscono i democratici. Che pure nei gabinetti, con quel cartello «per lui, per lei, per gay e per lesbiche», leggono un messaggio «omofobo, razzista e discriminatorio». Poi il gender friendly non era una vittoria della sinistra? E che dire di quei continui richiami all'ordine e alle regole da rispettare in riva al mare, che declinati in rime improvvisate che hanno attratto le telecamere dei tg? Spie di un sovvertimento della democrazia come sotto Mussolini, sentenziano i dem. Insomma, per loro in spiaggia non c'è posto per il sarcasmo. Tutto per gli indignati sarebbe un cristallino rimando al Duce. Tanto che sotto la tempesta mediatica il prefetto di Venezia ha fatto rimuovere con un'ordinanza le installazioni, e ha messo al bando messaggi vocali come quelli registrati da Repubblica, in cui tra le risate in sottofondo degli uditori si sente invocare lo «sterminio dei tossici». Anche la citazione mussoliniana «l'onestà deve cominciare dall'alto se si vuole che sia rispettata dal basso» per i piddini è una chiara incitazione alla violenza. L'inconfondibile prova del fascismo galoppante sotto l'ombrellone. Come quella, all'entrata, di Ezra Pound: «Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui». Elementi sufficienti a ottenere una revoca della concessione, chiedono in Parlamento, perché mica può fare come «a casa sua», Scarpa. Che così accoglieva i bagnanti: «In un paese devastato dai ladri istituzionali e maleducati qui ci sono le regole». Troppo fascista. «Non è tollerabile che uno spazio pubblico sia affidato ad una gestione portatrice di messaggi inaccettabili e illegali», è la voce unica dal Pd a Si a Mdp, che portano il caso al ministro dell'Interno. E così anche quel minaccioso «zona antidemocratica», scritto all'ingresso del parcheggio, è finito sul tavolo del prefetto. Che l'ha preso alla lettera.

Boldrini: "I monumenti fascisti offendono chi ha liberato il nostro Paese". La Boldrini riprende la sua crociata contro i monumenti fascisti: "Offendono i partigiani. Lo Stato non ignori le manifestazioni d'ispirazione fascista", scrive Chiara Sarra, Martedì 11/07/2017, su "Il Giornale". "Non commento i provvedimenti che sono in Aula, ma ci sono persone a disagio quando passano sotto i monumenti fascisti". A dirlo è Laura Boldrini che a margine del convegno "Europa, quale Futuro" non commenta la proposta di Fiano sull'apologia di fasciamo in discussione alla Camera, ma non rinuncia a ribadire la sua idiosincrasia verso i simboli di una storia passata che vorrebbe cancellare. "Per quanto riguarda queste manifestazioni di ispirazioni fascista, noi non possiamo sottovalutarle", ha detto la presidente della Camera, "Lo abbiamo visto dalle manifestazioni al cimitero di Milano, alla spiaggia con lo stabilimento balneare, alle liste con il littorio fascista, alle irruzioni nei consigli comunali". E poi ha aggiunto: "Ci sono persone che si sentono colpite da questo, a volte anche offese". Ad esempio i partigiani che ha accolto alla Camera in occasione delle cerimonie per la Liberazione, "Non accade altrettanto in Germania dove i simboli del nazismo non ci sono più. Io rispetto la loro sensibilità, ma è evidente che in Italia questo passaggio non c'è stato. Però non possiamo nemmeno sottovalutare il fatto che ci siano alcune persone che hanno dedicato la loro giovinezza a liberare il nostro paese che si sentono poco a loro agio quando passano sotto certi monumenti". Già nell'aprile 2015 la Boldrini aveva lanciato la sua crociata contro la scritta "Dux" che campeggia sull'obelisco del Foro Italico a Roma, scatenando mille polemiche.

Il delirio della Boldrini: propone di cancellare i monumenti del Duce. La presidente della Camera scatena l'ilarità della Rete: "Abbattiamo la stazione Termini?", scrive Massimo Malpica, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". La stazione di Milano Centrale con i suoi simboli imperiali? Il «Colosseo quadrato» dell'Eur con le sue grandi iscrizioni? Il «Palazzo dei Marescialli», ora sede del Csm, con le sue aquile e le sue teste elmettate? Abbattere, grazie. Sono simboli fascisti, creano «disagio» ai partigiani. E se abitate a Sabaudia o a Latina sono guai. Insomma, occhio: nessuno è al sicuro. Nemmeno i tombini. Già, a volte ritornano anche le pessime idee. E così Laura Boldrini, presidente della Camera, a differenza di Paganini si ripete. Con lo stesso spartito, l'abbattimento dei monumenti fascisti, e le stesse citazioni. E scatenando oggi come allora in egual misura ilarità e polemiche. Ad aprile del 2015, dopo aver ricevuto i partigiani a Montecitorio per il 70esimo anniversario della resistenza, fece suo il «disagio» manifestato da alcuni ospiti per essere costretti a vedere nelle città i simboli del Ventennio. Nel mirino finì in particolare l'obelisco del Foro Italico, e Boldrini propose almeno di «togliere la scritta» Mussolini Dux. Seguì un'ondata di polemiche insolitamente trasversali e la Boldrini fece retromarcia parlando a RaiNews24: «I partigiani hanno manifestato il loro disagio, ma io mi sono sottratta a questo esercizio di abbattimento». E dunque, concluse, «L'obelisco rimane lì, nessuno vuole abbattere niente». Questione chiusa? Macché. Arriva Emanuele Fiano con la sua legge e qualcuno chiede un parere alla Boldrini, a margine di un convegno. E lei prima dice di non voler «commentare i provvedimenti che sono in Aula». E poi - come riporta il Tempo - rispolvera la stessa storia, il medesimo aneddoto dei partigiani che, alla Camera, due anni fa le parlarono del «disagio» provato passando nelle città sotto ai simboli di quel fascismo che hanno combattuto. E che «non accade altrettanto in Germania, dove i simboli del nazismo non ci sono più». E dunque «non possiamo sottovalutare il fatto che ci sono persone che si sentono poco a loro agio quando passano sotto certi monumenti». Insomma, tregua finita. Ad appena 74 anni dalla fine del regime fascista, la crociata boldriniana contro obelischi, monumenti e tombini che offendono i partigiani può ripartire. E con essa l'ilarità della rete. Twitter si scatena: «Praticamente è come se gli egiziani abbattessero le piramidi perché costruite da popoli resi schiavi», «Buttiamo giù la stazione Termini, Ponte Flaminio, il ministero degli Esteri?», «Boldrini rivendica il metodo Isis per le architetture del Ventennio», «Un secolo fa, la sinistra consegnava il paese al fascismo. Un secolo dopo, prima di ritirarsi sull'Aventino, lo vuole in macerie», e via cinguettando. Il sito termometropolitico.it, poi, si preoccupa anche di ricordare alla terza carica dello Stato che quella postilla sui tedeschi demolitori di simboli nazisti è una discreta panzana. Molti monumenti all'odor di svastica sono ancora in pieno uso in Germania, dall'Area dei raduni di Norimberga alla Haus der Kunst di Monaco, fino all'Olympiastadion di Berlino, realizzato per le Olimpiadi del 1936. Ma ricordato in Italia per i mondiali di 70 anni dopo. il trionfo del 2006. Quando, per fortuna, era ancora in piedi.

Fascismo, Mussolini a Boldrini "In punizione dietro l'obelisco". Alessandra Mussolini intervistata a La Zanzara ha commentato la legge Fiano e l'uscita della Boldrini sui monumenti fascisti: "Io sono un reato vivente, lei una poveretta", scrive Gabriele Bertocchi, Martedì 11/07/2017, su "Il Giornale". "Per dirla alla Fantozzi, questa legge Fiano è una cagata pazzesca": parole di Alessandra Mussolini, deputato di Forza Italia, ospite a La Zanzara su Radio 24. E ancora: "Se approvano questa minchiata mi autodenuncio e mi metto una maglietta con la scritta 'W Nonno. Poi voglio vedere". Poi la nipote del Duce punge la Boldrini: "È da cacciare". "Qualche volta - ammette la Mussolini - quando vado in giro mi riconoscono e mi fanno il pugno chiuso e a me parte la manina tesa, un piccolo polso teso (il saluto romano, ndr). Loro fanno il pugno, a me parte il polso, è spontaneo, mi si alza la mano autonomamente, è un fatto genetico. A me si alza il polso, volete mettermi in galera? Il dna è questo, cosa volete. E' una cosa inconscia". "Mussolini - dice la parlamentare - fa ancora paura agli imbecilli. Questa è la verità. Ha fatto un sacco di cose positive per l'Italia, lo dice la Storia. Ha fatto di tutto. Molte cose positive. Io sono di parte. Se uno trova un magistrato zelante - dice -può darsi che uno dice Vota Mussolini e ti mandano in galera. Io con la legge Fiano sono un reato vivente". "Questa legge - ribadisce - non è una priorità, non c'entra niente. Il sindaco di Predappio del Pd ci campa coi cimeli di mio nonno. C'è la cripta della mia famiglia, che vogliono fare, distruggerla? La legge si può estendere a tutto. Anche firmare un santino di mio nonno come ricordo. I delinquenti non vanno in galera mentre qui si punisce la discendenza di una famiglia. Hanno paura di una cartolina, di una seduta spiritica. Fatelo contro l'islamismo radicale non su queste minchiate di proporzioni stellari. Se vogliono abbattere qualcosa abbattano tutto, ordinamenti, monumenti, codici, obelischi, strade, ospedali". "La verità è che spesso mi dicono: se in questa fase ci fosse stato Lui..."- racconta la nipote del Duce. Cruciani poi chiede quali cimeli del fascismo possiede: "Ho di tutto: busti e un bellissimo ritratto in lana del '33 di mio nonno, ho un arsenale". Il conduttore poi imbecca la Mussolini con una domanda sulla Boldrini, che ha dichiarato che alcune persone provano fastidio quando passano vicino a un monumento dell'epoca fascista. Secco il commento delle deputata: "Una poveretta, è da cacciare, si deve dimettere. Non si deve più sedere, deve stare in piedi, in punizione dietro l'obelisco".

Il monito di Pasolini: «Attenti al fascismo degli antifascisti», scrive Luciano Lanna il 16 luglio 2014. Quarant’anni fa, il 16 maggio 1974, Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere della Sera uno dei suoi editoriali che ancora oggi restano nell’immaginario continuando a farci interrogare sul cuore del "caso italiano". Il tema era oggettivamente pasoliniano: "Il fascismo degli antifascisti". E il ragionamento che il poeta vi svolgeva era la continuazione di quanto andava spiegando da oltre un mese, a cominciare dall’editoriale "Gli italiani non sono più quelli", del 10 giugno, a quello su "Il potere senza volto", del 27 giugno, sino alle note riflessioni sulla rivoluzione antropologica e l’omologazione in Italia, dell’il luglio. Si tratta di alcuni degli articoli che verranno poi raccolti in un libro nel novembre 1975 nell’ultima opera pubblicata in vita da Pasolini: Scritti corsari. In tutti quegli articoli l’autore denunciava il fatto che nessuno in Italia si mostrava in grado di comprendere quanto stava realmente accadendo: «Una mutazione della cultura italiana, che si allontana tanto dal fascismo che dal progressismo socialista». In realtà, precisava Pasolini, era in atto un fenomeno devastante e inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla trasformazione del sistema di Potere: «L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è or- mai la stessa…». Sino al passaggio più importante: «Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E anche guardando ai giovani che in quel 1974 si chiamavano e venivano definiti "fascisti", Pasolini spiegava che si trattava di una definizione puramente nominalistica e che portava fuori strada: «È inutile e retorico – concludeva fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo,-nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Il problema, semmai, era il nuovo Potere, non ancora rappresentato simbolicamente e dovuto alla omologazione della classe dominante, il quale stava omologando la società italiana. Si trattava – annotava preoccupato Pasolini – di un una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre». E la strategia della tensione ne era a suo avviso una spia significativa che ne svelava l’altra faccia della medaglia…Pasolini insomma, in totale controtendenza rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a cogliere e contrastare il volto disumano del nuovo potere piuttosto che a rimuovere il problema rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo massimo. «E bisogna avere il coraggio – aggiungeva – di dire che anche Berlinguer e il Pci hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni». Perché infatti, si domandava il poeta, rilanciare trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva antifascista (che oltretutto portava fuori strada) invece di aggredire dalle fondamenta il nuovo potere senza volto, magari con le sembianze di una società democratica e di massa, «il cui fine è riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»? E in questo passaggio Pasolini aggiungeva un’autocritica inedita e importante: «In realtà – confessava ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale… Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla…». Chissà quanto si sarebbe scongiurato di quanto è avvenuto dopo in termini di messa in moto dell’antifascismo militante, della conflittualità destra/sinistra e dello stesso spontaneismo armato successivo – se si fosse dato ascolto, allora, a Pasolini? Ma la storia non si fa con i "se" e quanto lui scriveva oggi vale soprattutto come controcanto a una vicenda ancora tutta da analizzare storiograficamente. Importante, inoltre, il fatto che il succo dell’articolo del 16 luglio riguardasse il "silenzio" mediatico e politico sui vincitori del referendum del 13 maggio, Marco Pan- nella e i radicali. Di fronte all’affermazione crescente di un potere a vocazione totalitaria – che si reggeva sul patto Dc-Pci-Confindustria-cultura consumista – i radicali apparivano a Pasolini come il solo fenomeno irriducibile ed eccedente. «Nessuno dei rappresentanti del potere – annotava – sia del governo che dell’opposizione, sembra neanche minimamente disposto a compromettersi con Pannella e i suoi. La volgarità del realismo politica sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobale il suo scandalo». Il Partito Radicale e il suo leader Marco Pannella erano, spiegava il poeta, i reali vincitori del referendum sul divorzio del 12 maggio e proprio questo non gli veniva perdonato da nessuno. Ma, «anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella e i suoi compagni – scriveva Pasolini – vengono ricusati come intoccabili. Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di tribuna libera». Antifascismo pretestuoso e fuori tempo massimo, da un lato, e censura della presenza radicale, dall’altro. Una domanda è inevitabile: quanto c’è, quarant’anni dopo, di continuità con quella logica del potere?

Così antifascisti da sembrare fascisti, scrive Michele Brambilla, Martedì 22/04/2008, su "Il Giornale". Qualcuno la attribuisce a Mino Maccari, qualcun altro a Ennio Flaiano. Ma se la paternità della battuta è incerta, l’efficacia è a volte certissima: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti». Quello di cui ci occupiamo oggi è uno di quei casi in cui la battuta funziona. Lo raccontiamo prendendo per mano il lettore, accompagnandolo passo dopo passo, perché altrimenti in lui sorgerebbe il dubbio di essere finito su scherzi a parte. Invece è tutto vero, come si può facilmente verificare. Basta entrare in Internet e collegarsi al sito ufficiale dell’Anpi, associazione nazionale partigiani: anpi.it. Parlo dell’Anpi nazionale, non di una qualche sezione locale gestita magari da un tizio un po’ sopra le righe. Dunque. Entrate nel sito, vi apparirà una home page e sentirete in sottofondo le note di fischia il vento/ urla la bufera/ scarpe rotte/ eppur bisogna andar. È una musica che desta una certa emozione, lo dico senza alcuna ironia, anche don Camillo si commuoveva quando dalla piazza del paese arrivavano le note dell’Internazionale suonata dalla banda comunale. Torniamo alla home page dell’Anpi. La prima notizia è l’annuncio della manifestazione programmata per il 25 aprile. Un link rimanda al «Manifesto unitario delle forze democratiche antifasciste»: è il documento ufficiale della «grande manifestazione nazionale», in programma a Milano venerdì prossimo. Il manifesto comincia con un ricordo dei giorni che furono. Il nazifascismo, la lotta di liberazione, il sacrificio di decine di migliaia di partigiani, infine il risultato di quella lotta: la Costituzione («fra le più avanzate di quelle esistenti») e la nascita della democrazia. Dopo di che si arriva ai giorni nostri. E qui citiamo testualmente dal «manifesto unitario»: «Ma a sessant’anni dal primo gennaio 1948, da quando essa entrò in vigore, l’Italia sta correndo nuovi pericoli. Emergono sempre più i rischi per la tenuta del sistema democratico, come evidenti si manifestano le difficoltà per il suo indispensabile rinnovamento. Permangono, d’altro canto, i tentativi di sminuire e infangare la storia della Resistenza, cercando di equiparare i “repubblichini”, sostenitori dei nazisti, ai partigiani e ai combattenti degli eserciti alleati (...). Conclusione: «Per questi motivi, per difendere nuovamente le conquiste della democrazia, il 25 aprile anniversario della Liberazione assume il valore di una ricorrenza non formale. Nel ricordo dei Caduti ci rivolgiamo ai democratici, agli antifascisti, per una mobilitazione straordinaria in tutto il Paese». Dunque quella di venerdì non sarà la solita commemorazione della Resistenza, ma una ricorrenza «non formale», una manifestazione «straordinaria». Questo perché il momento è eccezionale, «l’Italia sta correndo nuovi pericoli», «la tenuta del sistema democratico» è «a rischio». Berlusconi come Mussolini? Bossi come Hitler? Maroni come Kesselring? Alemanno come Kappler? Ci sarebbe da sorridere, se non fosse che ogni volta che il centrodestra vince le elezioni in Italia si rispolverano bella ciao e lo spettro delle deportazioni, la fine della democrazia e il ritorno del mito della razza. Ci sarebbe da sorridere, se non fosse per l’impressionante dispiegamento di firme a sostegno di questo «manifesto unitario» che chiama l’Italia in piazza contro la ri-nascente dittatura: oltre all’Anpi e a tutte le associazioni combattentistiche e partigiane, Pd, Prc, Sdi, PdCI, Sd, Verdi, Italia dei Valori, Cgil, Cisl e Uil, Arci, Acli e tanti altri ancora, abbiamo citato solo quelli che rappresentano tutto il centro sinistra e la sinistra istituzionali. Ieri il segretario della Uil Lombardia si è dissociato, e c’è da sperare che oggi molti altri seguano il suo esempio. Purtroppo però l’equiparazione vittoria del centrodestra-fine della democrazia non è solo una trovata di qualche funzionario dell’Anpi e di partito, ma una fissazione di gran parte del mondo progressista italiano, specie quello più influente nei giornali, nella cultura, nel mondo degli spettacoli. Fissazioni che danneggiano anche (e forse soprattutto) la stessa memoria storica della lotta al nazismo e al fascismo; certamente la danneggiano più di qualsiasi testo revisionista. La Resistenza viene gettata nel ridicolo non dai libri di Giampaolo Pansa, paragonato a uno Starace quando non a un Goebbels, ma da questi «comitati permanenti» sempre in lotta contro orbaci e camicie nere che esistono solo nella loro fantasia. Accanto al ridicolo c’è però un aspetto inquietante. Nel «Manifesto unitario», così come in tanti discorsi o articoli, si fa riferimento ai valori della democrazia, ma i primi a non rispettare la democrazia, e a invocare contro di essa l’uso della piazza, sono proprio coloro che non accettano l’esito di una consultazione elettorale. Chi va a governare ci va perché così ha voluto il popolo italiano, non perché ha fatto un colpo di Stato. E se si giustifica l’esito del voto con i «condizionamenti» delle televisioni, si torna a cadere nel ridicolo: da quando c’è il bipolarismo, si è andati a votare cinque volte, e gli italiani hanno sempre scelto una volta una coalizione, e una volta quell’altra. Priva al tempo stesso del senso del ridicolo e dell’accettazione della volontà popolare, è questa sinistra - più che Maccari o Flaiano - ad aver dato vita al detto popolare secondo il quale tra fascisti e antifascisti, perlomeno quanto a intolleranza, non c’è poi tanta differenza.

Peggio dei fascisti ci sono solo gli antifascisti, scrive il 12 Luglio 2017 Filippo Facci su "Libero Quotidiano". È proprio una legge stupida, come tutte le leggi che non saranno neanche dannose perché si riveleranno inutili, all' italiana, accomodate, non applicate, aggiustate a colpetti di giurisprudenza, una pacchettina sulle spalle dell' onorevole Pd Emanuele Fiano (primo firmatario) che incasserà l' ennesimo medaglione richiesto dalla comunità ebraica, che beninteso, fa il proprio lavoro di eterna recriminazione e sfruttamento dei sensi di colpa di destra e sinistra: ma quando riesce a mettere d'accordo i grillini e Salvini e persino la logica, beh, qualche domanda la Comunità dovrebbe porsela. Per esempio questa: non sarà mica stupida davvero, una legge come questa? Ma stupida-stupida, controproducente, buona per rendersi antipatici a qualsiasi persona assennata di qualsiasi partito. Serviva proprio, la legge? C'era l'attualità della «propaganda del regime fascista e nazifascista» da punire sino a 2 anni e 8 mesi? Se proprio obbligati, potevate fare almeno una legge finto-moderna che prevedesse un'aggravante per i trascurati siti internet che fanno propaganda fascista e nazista, insomma una cosa magari egualmente criticabile, ma almeno tecnica, aggiornata, sul pezzo. Invece la legge si occupa di «immagini» e «simboli» e loro «produzione, distribuzione, diffusione o vendita»: di che cosa. Esattamente? Di che parliamo? Parliamo dei manigoldi che vendono magliette col profilo di Mussolini, degli scemotti che si fanno fotografare mentre fanno il saluto romano, del sangiovese con l' etichetta del Duce, dei vecchietti che alle fiere militari vendono cimeli per rincoglioniti nostalgici (vera ossessione di Fiano da anni) e quindi di busti, gagliardetti, paccottiglia, poi ecco, ci sarebbe il problema dei francobolli e delle monete e delle riviste e dei manifesti, le foto, i vestiti, tutto il collezionismo, l' arte, in teoria l' architettura, magari l' Eur. Nel marzo del 2015 il tribunale di Livorno aveva assolto quattro tifosi veronesi che avevano fatto il saluto romano durante una partita, in quanto slegato, il saluto, a un concreto pericolo di una concreta riproposizione di un movimento politico fuorilegge: il Pd di Emanuele Fiano invece li avrebbe voluti incarcerare, presumiamo. L' anno scorso l'ebreo Filippo Bolaffi (amministratore dell'omonima casa d' aste nata con la filatelia più d' un secolo fa) la mise così: «Io non terrei mai in casa certi reperti, ma proibirli significa negare la storia». Così sulla Stampa nel gennaio 2016. E dovevano ancora approvare un'altra legge stupida e inapplicata, quella sul negazionismo storico (giugno 2016) che introduceva la galera da 2 a 6 anni quando la propaganda e l'incitamento all' odio razziale si fossero fondate «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra». Fu un altro inutile casino, perchè si citavano «la Shoah o i crimini di genocidio» come se appartenessero a una classificazione storica tra loro diversa (festeggiò solo l'Unione delle Comunità Ebraiche, infatti) e come se sulla definizione dei genocidi (altri genocidi) non fioccassero disaccordi di natura storica: bene, ora si lasciava tutto nelle mani dei magistrati. Morale: uno studioso di sinistra come Marcello Flores (direttore dell'Istituto storico della Resistenza e curatore della Storia della Shoah per Utet) si ritrovò indirettamente d' accordo con Carlo Giovanardi o con Pietro Ichino: quella legge era un pasticcio infernale. Quello degli armeni fu genocidio o massacro? E che si doveva fare coi libri serissimi che nelle biblioteche negavano certi crimini di guerra come fece anche Montanelli con l'uso dei gas italiani in Etiopia? E quello di Srebrenica fu genocidio o no? E che dire dei tribunali di Buenos Aires che negarono lo status di genocidio alla repressione militare argentina? E che dire di quei libri che ancor oggi giustificano o «contestualizzano» i milioni di morti dello stalinismo? Persino Giorgio Napolitano scrisse cose imbarazzanti sul ruolo di Solzenicyn durante l'intervento sovietico a Budapest nel 1956, che facciamo? Ecco, a proposito: l'anno scorso Il Giornale allegò una copia del "Mein Kampf" come documento storico: non fu propaganda? I libri no, i francobolli sì? Parentesi: in Italia il "Mein Kampf" è sempre stato pubblicato da un'editrice decisamente di sinistra (la Kaos) che editava anche libri di Karl Marx, Dario Fo, Luigi Pintor e Mino Pecorelli: significa che il suo pubblico di sinistra era sensibile alla propaganda nazista? No, ovviamente: significa solo che i libri non si censurano (mai) e che le idee non sono (mai) reati anche se ieri l'onorevole Fiano spiegava ai grillini che «il fascismo non è un'idea, è un crimine». Una scemenza che non bisogna aver paura di definire scemenza, perché confonde le idee con gli uomini che se ne impossessano: criminali erano Stalin o Mao, non il comunismo di Karl Marx; criminale era Pol Pot, non il Partito dei Lavoratori in cui prosperò; criminale era Hitler, non il nazionalsocialismo che gli preesisteva da trent' anni; Emanuele Fiano può ritenere criminale anche Mussolini, se vuole, non sarebbe il solo, ma non il fascismo dei precursori Marinetti, D' Annunzio, Prezzolini, Papini, Georges Sorel (col suo sindacalismo rivoluzionario) e tutto ciò che fa comunque parte delle idee, non degli uomini che se ne sono fatti scudo. Non dei vecchietti che il Pd di Renzi vorrebbe punire, rompendogli le palle perché collezionano cimeli nostalgici che gli ricordano la giovinezza. E poi? Che cosa faremo? Lasceremo che inneggiare a Stalin o a Bin Laden invece resti normale? Proibiremo anche quello? Rischieremo di dover dar ragione all' onorevole Renato Brunetta che provocatoriamente (speriamo, diosanto) ieri proponeva di introdurre nella legge Fiano anche l'apologia di comunismo? Ma basta domande. La risposta l'abbiamo già tutti: è una legge stupida. Filippo Facci

Così le violenze comuniste lanciarono il Fascismo verso il potere. In edicola con il Giornale (a 9,90 euro oltre al prezzo del quotidiano) il secondo volume della Storia del fascismo del giornalista Giorgio Pisanò, scrive Matteo Sacchi, Sabato 8/07/2017, su "Il Giornale". Qui Pisanò racconta alcuni momenti fondamentali del passaggio dal fascismo movimento al fascismo come partito unico ormai fuso con le strutture dello Stato (una fusione sempre imperfetta, visto il perdurare della monarchia). Pisanò racconta nel dettaglio il periodo 1921-1922 mettendo in luce alcuni dei passaggi più critici della presa del potere da parte di Mussolini. Nell'agosto del 1921 il leader fascista aveva voluto un patto di pacificazione con i socialisti e questo scatenò le tensioni con i fascisti più intransigenti come Dino Grandi. Ne nacque una crisi profonda del movimento per uscire dalla quale, paradossalmente, risultarono salvifiche le violenze del neonato partito comunista. Furono esse ad aumentare le simpatie verso il movimento e a consentire a Mussolini di riprendere il controllo degli «arrabbiati» nel novembre del '21. Si passò così dal movimento al partito.

Alle prime elezioni le "beghine" salvarono la nostra democrazia Gli intellettuali del Pci invece la tradirono. Le votazioni politiche del '48 che videro il trionfo della Democrazia cristiana sancirono che il Paese era spaccato in due. Schiacciati dai conflitti della Guerra fredda, i liberali si trovarono confinati in un ruolo di contorno, scrive Giampietro Berti, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". Il 18 aprile 1948 si svolgono le prime elezioni politiche generali in Italia a suffragio universale. Si vota per la formazione della Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica. Il risultato elettorale sancisce la vittoria schiacciante della Democrazia cristiana (48,5%) sulle sinistre (31%). Inizia l'età del centrismo prolungatosi fino ai primi anni Sessanta. Seguiranno il centrosinistra e, più tardi, negli anni Settanta, il latente compromesso storico fra DC e PCI; infine, nel decennio seguente, il protagonismo del Partito socialista guidato da Bettino Craxi. Il periodo si chiude con Tangentopoli e la fine della cosiddetta prima Repubblica. Il 18 aprile segna dunque una svolta storica fondamentale perché pone, per quasi mezzo secolo, la sostanziale centralità della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale. Ma da questa data non inizia solo un futuro, ma si chiude anche un passato, precisamente quello segnato dalla caduta del fascismo e dalla ripresa della democrazia liberale entro il trapasso dall'istituto monarchico a quello repubblicano. Il 18 aprile, dunque, è uno spartiacque decisivo perché in questo crinale si svela in modo inequivocabile la verità politica della storia italiana; mostra, cioè, che la maggioranza degli italiani è di orientamento moderato e, allo stesso tempo, rende evidente che la sinistra tale è - e tale rimarrà - una forza minoritaria, specialmente se si orienta verso l'area comunista. Per dar conto di queste affermazioni bisogna riflettere sui cinque anni che contrassegnano il passaggio dal fascismo alla democrazia: 1943-1948. La prima cosa da dire è questa. La Resistenza, insorgenza sacrosanta, non può essere considerata propriamente un fenomeno popolare perché coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una zona grigia aspettando la fine della guerra. Non sono solo i numeri a dirlo, ma, soprattutto, quello che avvenne dopo il 25 aprile 1945. Fin da subito la coalizione antifascista mostra i segni di questa realtà, la sua precaria unità. Dietro ad essa non c'è un popolo unito e concorde: è diviso politicamente, ideologicamente, culturalmente. Passato il vento del Nord rappresentato dalla brevissima presidenza di Ferruccio Parri, giugno-dicembre 1945, la normalità democratica impone alla guida del governo il democristiano Alcide De Gasperi, ovvero impone chi rappresenta di fatto - anche se non ancora in modo elettoralmente accertato e legittimato - la maggioranza degli italiani. Il referendum a suffragio universale (votano per la prima volta anche le donne), tenutosi il 2 giugno 1946 per la scelta istituzionale fra repubblica e monarchia, conferma questa constatazione circa la preminenza dell'orientamento moderato. Considerando le responsabilità e le gravi compromissioni della casa regnante con il regime fascista, lo scarto della vittoria repubblicana (54%) a fronte della sconfitta monarchica (46%) è deludente. L'Italia è spaccata in due. Al Sud - che non ha conosciuto la lotta partigiana - la maggioranza della popolazione vota per la monarchia (a Napoli l'80%), al Nord per la repubblica (a Trento l'85%). Nella stessa Napoli scoppiano violente proteste da parte di militanti monarchici, nove di essi rimangono uccisi dalla polizia (un centinaio i feriti), quando si crede che il risultato elettorale sia stato manipolato. A parte le accuse monarchiche per presunti brogli nel conteggio delle schede, è certo che se si tiene conto dei voti nulli (tra schede bianche, annullate e contestate, circa 1 milione 500 mila) il divario tra monarchia e repubblica scende da 2 milioni a 250 mila: dopo tutto quello che era successo! Umberto II (re da meno di un mese), e tutta la sua famiglia, sono costretti all'esilio. Le contemporanee elezioni, tenutesi sempre il 2 giugno 1946 e sempre a suffragio universale, per l'Assemblea costituente sembrano ancora risentire del clima resistenziale e smentire quanto abbiamo appena asserito, ma non è così. Il voto vede l'affermazione dei tre partiti di massa, i quali raccolgono il consenso di tre quarti dell'elettorato: socialisti 20, 07%; comunisti 19, 09%; democristiani 35,02%. Poco consistente appare un terzo polo laico, liberale e democratico: repubblicani 4,04, azionisti 1,08, liberali 6,08. I socialisti e i comunisti, insieme, sorpassano i democristiani, ma si tratta di una vittoria effimera perché all'interno del partito socialista esiste una frattura tra coloro che, capeggiati da Pietro Nenni, vogliono continuare l'alleanza con i comunisti e coloro che, capeggiati da Giuseppe Saragat, se ne vogliono staccare. Questa frattura si consumerà definitivamente nel gennaio 1947 con la scissione di Palazzo Barberini, che porterà alla costituzione del partito socialista dei lavoratori italiani guidato da Saragat (in seguito partito socialista democratico). Sebbene le elezioni dell'Assemblea costituente abbiano registrato la mancanza di una forte componente liberal-democratica, la Carta costituzionale, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, recepisce per fortuna, almeno nella prima parte, alcuni princìpi fondamentali del liberalismo riguardanti le istituzioni e i diritti politici. Significativo, dell'esistenza della preminenza dell'orientamento moderato degli italiani, è quanto avviene con l'amnistia promossa nel giugno 1946 da Palmiro Togliatti, allora ministro di Grazia e Giustizia, per molti reati avvenuti negli anni immediatamente precedenti. Il capo comunista sceglie la pacificazione nazionale perché non può fare altrimenti, essendo impossibile epurare la maggioranza della classe politico-amministrativa che era stata fascista ed era, a sua volta, espressione della maggioranza degli italiani che, volenti o nolenti, si erano compromessi con il fascismo. Del resto, fin dal marzo 1944 Togliatti, con la svolta di Salerno, aveva realisticamente riconosciuto l'impossibilità di una rivoluzione socialista, data la presenza militare in Italia degli angloamericani. Con lo stesso spirito pacificatore egli farà poi votare dai deputati del suo partito l'articolo 7 della Costituzione che accoglieva il Concordato fra Stato e Chiesa del 1929 firmato da Mussolini. Nel corso del 1947 la contrapposizione a livello internazionale fra l'Occidente e il mondo comunista si fa sempre più netta. A Est cala la Cortina di ferro che taglia in due l'Europa, attraverso una linea che va dal Baltico all'Adriatico, da Stettino a Trieste. La Guerra fredda impone una scelta di campo ben precisa, che comporta due antitetiche visioni del mondo, due diversi modi di vivere la società civile, l'economia, la democrazia, la (sacrosanta) libertà degli individui: è uno scontro di civiltà. Si deve scegliere fra comunismo o anticomunismo, non c'è una terza possibilità: o l'Oriente comunista egemonizzato dall'Unione sovietica, o l'Occidente delle democrazie liberali guidato dagli Stati uniti d'America. Tutto ciò non può non ripercuotersi nel nostro Paese. Nel giugno De Gasperi dà vita al suo quarto ministero, senza socialisti e comunisti. Il governo, che alla fine dell'anno sarà formato da democristiani, socialdemocratici, liberali e repubblicani, nasce pressoché in coincidenza con la decisione degli Stati uniti d'America di avviare il Piano Marshall, che permetterà all'Italia, come ad altri Paesi europei, una rapida e benefica ricostruzione economica. All'inizio del 1948 la polarizzazione politica delinea i due campi contrapposti che si fronteggeranno nelle future elezioni. Da una parte la Dc e i suoi alleati, dall'altra il Fronte Popolare composto da comunisti e socialisti. Non c'è spazio per un autonomo polo laico e liberale, né per un rifermento classicamente conservatore; ininfluente risulta, infine, l'estrema destra monarchica e missina. Anche la Chiesa cattolica contribuisce a questa radicalizzazione intervenendo direttamente nella contesa. Luigi Gedda, su indicazione di papa Pio XII, fonda, nel febbraio dello stesso 1948, i Comitati civici, che in poche settimane raggiungono il numero di ventimila. La loro rapida diffusione su tutto il territorio nazionale avviene grazie al sostegno dell'episcopato e dell'Azione cattolica. Ad essi viene demandato il compito di sensibilizzare politicamente gli elettori e condurre materialmente alle urne anziani e malati, che avrebbero altrimenti disertato il voto. La Dc trova un forte aiuto anche nel gesuita Riccardo Lombardi, il microfono di Dio, le cui predicazioni portano nelle piazze, collegate via radio, milioni di fedeli. Si fronteggiano dunque, con una mobilitazione ingente, due eserciti: decine di migliaia sono i militanti che ovunque, da entrambe le parti, organizzano comizi, affiggono manifesti, praticano un proselitismo capillare, convincendo casa per casa gli elettori indecisi. Da un lato i 300mila volontari dei Comitati civici legati a 22mila parrocchie, coadiuvati dai 600mila iscritti all'Azione cattolica, dall'altro il PCI, con più di 2 milioni di iscritti e 36mila cellule. Tra i più famosi manifesti elettorali, rammentiamo quello del Fronte Popolare raffigurante Garibaldi che prende a ombrellate De Gasperi e quello della DC che ammonisce l'elettore ricordandogli che nel segreto della cabina elettorale «Dio ti vede e Stalin no». Si arriva così alla vera e propria resa dei conti del 18 aprile. Si vota un solo giorno, domenica. Quasi 27 milioni di persone si recano a votare, il 92,23% degli aventi diritto (non vi sarà più in Italia un'affluenza così alta alle urne). Il risultato, come abbiamo detto, è noto: la DC vince con un margine di vantaggio che non lascia dubbi sulla volontà degli italiani. A questo punto non si può non riflettere, polemicamente, sul significato di questa vittoria, dovuta al voto di molta parte dell'elettorato socialmente e culturalmente tradizionale, con un apporto non secondario di tante persone anziane, per lo più donne (definite dalla sinistra sprezzantemente beghine). Si deve dire infatti che l'opinione pubblica progressista e gran parte degli intellettuali dell'epoca votarono, a stragrande maggioranza, per il Fronte Popolare. Pertanto se fosse stato per loro anche l'Italia avrebbe conosciuto il tragico destino delle democrazie popolari comuniste dell'Est europeo: decenni di miseria e di dittatura. Come disse Benedetto Croce: «beneditele quelle beghine perché senza il loro voto oggi noi non saremmo liberi».

Gli antifascisti militanti? Sono fascisti. Secondo Del Noce entrambe le posizioni erano figlie della filosofia di Gentile. E ne auspicò il superamento, scrive Francesco Perfetti su “Il Giornale”. Quando venne chiamato nel 1970 a insegnare all'Università di Roma storia delle dottrine politiche, prima, e filosofia della politica, poi, Augusto Del Noce, che aveva appena compiuto sessant'anni, era già considerato uno del maggiori filosofi cattolici del Novecento. Alcuni lavori - in particolare Il problema dell'ateismo (1964) e Riforma cattolica e filosofia moderna (1965) - erano diventati classici per il loro carattere innovativo e per l'attenzione al problema della modernità oltre che per le suggestioni che fornivano ai fini di un discorso interpretativo in chiave filosofico-culturale della storia moderna e contemporanea. Proprio in quell'anno, il 1970, Del Noce pubblicò un libro, L'epoca della secolarizzazione, ora riproposto dall'editore Nino Aragno (pagg. XII-356, euro 20), che raccoglieva alcuni saggi scritti negli anni immediatamente precedenti. Era ancora viva l'eco della contestazione studentesca e della generale ubriacatura per le tesi di Herbert Marcuse sull'«uomo a una dimensione» e per le vaneggianti utopie politico-sociali degli epigoni della cosiddetta «scuola di Francoforte». Quella contestazione era diretta, soprattutto, al di là dei suoi aspetti eversivi, contro la società tecnocratica e consumistica. Ma aveva una vocazione rivoluzionaria che si manifestava nella proposta di un mondo perfetto, tutto terreno, privo di limiti morali, fondato sul rifiuto del principio d'autorità, sull'esaltazione dell'erotismo, sull'ateismo. Già da tempo Del Noce, riflettendo sugli avvenimenti e sul costume di quegli anni, era giunto alla conclusione che, dietro le manifestazioni di contestazione della civiltà tecnocratica e consumistica che tendeva a «disumanizzare» l'individuo, ci fossero una profonda crisi di religiosità e l'abbandono dei cosiddetti «valori tradizionali». Il nuovo volume, appunto L'epoca della secolarizzazione, sistematizzava le sue riflessioni in argomento e dava loro una forma organica che si traduceva in una suggestiva visione generale della storia contemporanea intesa come «storia filosofica», cioè come storia caratterizzata dal fatto che, dall'epoca della rivoluzione russa, una filosofia, il marxismo, si era incarnata in istituzioni politiche e aveva finito per condizionare tutti gli avvenimenti. Da quel momento, infatti, ci si era dovuti confrontare, per aderirvi o per combatterlo, con il marxismo giunto al potere e la storia era diventata così «storia filosofica». Ma non basta: essendo il marxismo, intrinsecamente, ateismo ne conseguiva che tutta l'età contemporanea, quella successiva al 1917, poteva ben essere qualificata come «epoca della secolarizzazione» caratterizzata dall'espansione dell'ateismo e dai tentativi, spesso destinati a fallire, di resistere a questa deriva. All'interno di questa «epoca della secolarizzazione» si potevano individuare due periodi definiti, rispettivamente, «sacrale» e «profano»: il primo, quello delle grandi religioni secolari (comunismo, fascismo, nazionalsocialismo), il secondo quello della cosiddetta «società opulenta» dalla quale, e contro la quale, era scaturita la contestazione. È intuitiva la forza dirompente di questa interpretazione della storia contemporanea. Basti pensare al fatto che essa metteva in crisi tutti i discorsi storiografici che parlavano di una «epoca del fascismo»: essendo infatti - al pari del comunismo e del nazionalsocialismo - soltanto un «momento» dell'«epoca della secolarizzazione», il fascismo non poteva dare il proprio nome a un intero periodo storico, tanto più che le tre «religioni secolari» avevano, ognuna, proprie caratteristiche evidenziabili solo in relazione al marxismo. Per quanto, al momento della pubblicazione del volume di Del Noce, fossero già apparsi i primi tomi della grande biografia mussoliniana di Renzo De Felice destinata a rinnovare sul terreno metodologico gli studi storici liberandoli dalle passioni politiche e dai condizionamenti ideologici, era ancora largamente diffusa l'interpretazione apocalittico-demonologica del fascismo. Contro di essa, e contro la conseguente elevazione a mito della Resistenza, le tesi apparentemente provocatorie di Del Noce rappresentarono un momento di svolta e segnarono l'inizio di una riflessione profonda, di natura filosofico-culturale, su tutte le vicende della storia contemporanea. Nel suo volume del 1970, che resta ancora oggi un testo fondamentale per la comprensione dell'età contemporanea, sono contenuti, sia pure in germe, gli argomenti che Del Noce, in seguito, avrebbe sviluppato e precisato in molti altri lavori contro il «progressismo laico», sotto specie di «neoilluminismo», e contro il «progressismo religioso», sotto specie di «neomodernismo». Ma, in particolare, sono presenti le premesse della sua interpretazione del fascismo e dell'antifascismo quale si sarebbe sviluppata dalla riflessione suggeritagli dalla lettura del breve ma intenso saggio di Giacomo Noventa intitolato Tre parole sulla Resistenza (Castelvecchi). Personalità in penombra nel mondo intellettuale del tempo, Noventa era l'eretico della Torino degli anni Venti e Trenta, la Torino di Piero Gobetti e di Giacomo Debenedetti, di Mario Soldati e di Carlo Levi. Aveva sostenuto che il fascismo era stato un «errore della cultura» e non già un «errore contro la cultura» secondo le tesi della «scuola torinese» da Gobetti a Bobbio, per la quale l'essenza del fascismo era l'anticultura o, se si preferisce, la rivolta contro la cultura. Del Noce, anch'egli un eretico - ma della Torino anni Trenta e Quaranta, la Torino di Leone Ginzburg e di Ludovico Geymonat, di Norberto Bobbio e di Cesare Pavese - avrebbe precisato e sviluppato questa intuizione sottolineando la comune sostanza filosofica del fascismo e dell'antifascismo: l'attualismo di Giovanni Gentile cui attingevano sia il rivoluzionarismo di Mussolini sia l'intransigentismo morale di Gobetti. E sarebbe giunto a parlare della continuità del fascismo nell'antifascismo e ad auspicare il superamento e l'abbandono della contrapposizione fascismo-antifascismo. Un auspicio ancora valido.

Vietata la festa di CasaPound, ma che antifascismo è questo? Si chiede Piero Sansonetti su "Il Garantista". Quando quasi mezzo secolo fa ho iniziato a far politica, nel 1968, erano due gli slogan che mi appassionavano di più. Il primo era semplice: “Vietnam rosso”. Il secondo – sempre di due sole parole – ancora più semplice: “Vietato vietare”. Il primo di questi due slogan non aveva niente di utopistico. E dopo circa sette anni si realizzò. Il secondo slogan veniva dalla Francia: “Il est interdit d’interdire”. Ma fu tradotto in tutto il mondo. Gli spagnoli dicevano: “Prohibido prohibire”. Gli inglesi e gli americani dicevano “it is forbidden to forbid”. Questo slogan invece era sommamente utopistico. Presumeva una completa rivoluzione: dei cervelli e delle anime. E probabilmente quella rivoluzione era impossibile. Lo slogan vietato vietare è il più radicale degli slogan mai gridato dalla sinistra politica. Perché mette in discussione tutto, sinistra compresa. Soprattutto mette in discussione il potere, le sue forme e il suo stesso diritto di esistere. Non c’è niente di più sovversivo al mondo. E niente di più tenuto. Mettere in discussione il potere, vietare i divieti, vuol dire costringere tutti a “strupparsi”, a pensare, a non accoccolarsi sulla potenza di chi comanda. Impresa quasi impossibile. E così non c’è niente da stupirsi se la sinistra italiana, compatta, in queste ore ha chiesto di vietare la Festa nazionale di Casapound. Ed è felice di averlo ottenuto, questo divieto. Si sente più forte, più viva: chi vieta è vivo, esiste. Le cose sono andate così. CasaPound (che è l’organizzazione che raccoglie i cosiddetti fascisti del terzo millennio) aveva deciso di organizzare la sua Festa nazionale a Milano, per questi giorni di metà settembre. Poi però la sinistra milanese e l’Anpi hanno chiesto al Comune, al prefetto e alla questura di vietare la manifestazione di CasaPound perché Milano è una città antifascista. Nonostante la scombiccheratezza della richiesta, la richiesta è passata. CasaPound ha deciso allora di ritirarsi in un paesino della cintura milanese che si chiama Castano Primo. Qui il sindaco prima ha dato l’autorizzazione, poi all’ultimo momento l’ha ritritata. A questo punto la tensione è salita a mille perché CasaPound ha deciso di tenere lo stesso la sua festa visto che ormai è troppo tardi per programmare un nuovo spostamento. Che senso ha, nel 2015, vietare una festa politica, sia pure di una organizzazione che ha parecchio a che fare con le nostalgie fasciste? Ovviamente non ha nessun senso, salvo quello di riaffermare la forza e la prepotenza dello Stato. E’ chiaro che nessuno pensa neppure lontanamente che oggi in Italia ci sia il rischio di un golpe guidato dai fascisti (forse dei colpi di mano istituzionali ce ne sono stati, ma i fascisti non c’entravano niente), e dunque il gusto è solo quello di riaffermare il diritto a reprimere e a proibire. Quello che colpisce è che questa onda reazionaria e proibizionista sia cavalcata dalla sinistra, quella moderata, quella moderatissima, quella più radicale o estremista, i centro sociali: tutti. Come si spiega? In un modo solo: che ormai la politica è diventata solo un gioco di “gruppi”, di piccole caste, di ceti politici. Con nessun legame più con le idee, con il pensiero, coi principi. E l’antifascismo, da religione della libertà come la concepiva Calamandrei, è diventa semplicemente una etichetta che serve a farsi riconoscere, senza più nessun valore libertario e antirepressivo. Come la maglietta della Roma, o dell’Atalanta. Ieri ho provato a esprimere su Twitter questo concetto, in fondo così banale. E cioè l’idea che proibire è una attività fascista (senza per questo voler insultare nessuno, semplicemente per dare un po’ grossolanamente l’idea della differenza tra chi concepisce la politica come divieto e chi come libertà). Sono stato sommerso dalle proteste e dagli insulti. Per esempio, Paolo Ferrero, che è il segretario di Rifondazione comunista, mi ha risposto rovesciando la mia frase. Ha scritto: “Proibire la festa di CasaPound è una tipica iniziativa antifascista”. Confermando una visione poliziesca dell’antifascismo e della lotta politica che lascia pochissime speranze. E dimostra anche una buona dose di autolesionismo. Chiunque capisce che se oggi si leva la parola ai fascisti, sarà facilissimo, domani, toglierla ai comunisti o a chiunque altro, con la scusa che la loro è una ideologia non democratica. Non fece così Mario Scelba, il più reazionario dei ministri dell’Interno di tutta la storia della Repubblica? Non è che bisogna essere dei geni per capire queste cose. Temo che il problema sia più serio: che quando si ha in mente che la libertà è una complicazione da limitare, specie da parte di chi fa politica, poi è logico che l’unica attività che si ritiene degna è quella di vietare: la droga, il sesso, l’indipendenza, la piccola illegalità, e poi magari l’alcool, l’aborto, l’omosessualità. E naturalmente il fascismo, e poi il comunismo e tutto i resto. Altro che vietato vietare. Lo slogan che ha vinto è un altro: veto, ergo sum!

C’è un antifascismo un po’ fascista, continua Sansonetti. Esistono tre modi di concepire l’antifascismo, e quindi di celebrare il settantesimo anniversario della Liberazione, che cade sabato prossimo, 25 aprile. Il primo è un modo freddo e storico. Che si limita a osservare la grandiosità di quella data che rappresenta la caduta del nazi-fascismo, e cioè di un fenomeno e di una leadership politica dell’Europa occidentale che trascinò l’intero continente sull’orlo del baratro, al limite della fine della civiltà. E’ talmente gigantesco l’obbrobrio politico creato dal fascismo e dal nazismo – e che ha avuto il suo apice nel razzismo e nello sterminio della popolazione ebraica e dei rom – che la sua sconfitta militare (in Italia sancita dall’ingresso a Milano dell’esercito anglo-americano) segna uno spartiacque nella storia del nostro paese e del continente. Il secondo è il modo della retorica. Il più diffuso. L’antifascismo proclamato non come un valore ma come una “appartenenza”. Una bandiera. L’antifascismo come luogo degli eletti, al di fuori del quale c’è solo feccia e vermitudine, e dunque chiunque non entri con baldanza e convinzione nel cenacolo antifascista, e non si sottoponga ai riti e alle giaculatorie, è condannato ad essere scacciato tra i reietti. Questo è l’antifascismo più diffuso. E’ l’antifascismo delle cerimonie, ed è una specie di sotto-ideologia, dai confini molto vasti -dalla vecchia Dc ai centri sociali – che ha permesso per anni alle forze politiche di sinistra di rinunciare ad una propria struttura politica – di idee e di progetto – perché questa struttura era sostituita dal pacchetto-già-pronto dell’antifascismo e della militanza antifascista. Dentro questo antifascismo non ci sono idee o valori: c’è “identità”. Anzi, questo modo di concepire l’antifascismo è esso stesso “identità”. E questa “identità”, siccome è molto debole, labile, perché non sia dispersa, è “militarizzata”. Poi c’è un terzo modo di pensare l’antifascismo. Ed è quello di ricercare, di ricostruire e poi di affermare i suoi valori. Quali sono i suoi valori? Sono il rovesciamento delle caratteristiche più reazionarie del fascismo, e cioè delle caratteristiche che lo hanno portato alla condanna della storia. Proviamo ad elencarle. L’autoritarismo. L’illiberalismo. L’intolleranza e la richiesta di appartenenza. Il militarismo. Il pensiero unico. La violenza, fisica e culturale. L’arroganza. Il senso di superiorità. Il razzismo e la xenofobia. Lo statalismo. La repressione. Il disprezzo per lo stato di diritto. L’antifascismo del “terzo tipo” è quello che trasforma in valori la lotta contro queste tendenze. Ed è un antifascismo attualissimo, perché queste tendenze non solo sono presenti, e radicate, nello spirito pubblico italiano di oggi, ma sono larghissimamente maggioritarie e prevalenti. E sono trasversali, uniscono destra e sinistra, così come fu trasversale il movimento fascista. Quasi tutte queste tendenze si ritrovano, esasperate, (ma in misura variabile) nel leghismo, nel grillismo, nel travaglismo. E si ritrovano anche, meno esasperate, ovunque. Il “renzismo”, se lo vogliamo chiamare così, non è certo esente dalla retorica fascista, sia nei suoi aspetti autoritari (riduzione del parlamento a bivacco di manipoli …) sia nel suo linguaggio politico (spianiamo tutto, chissenefrega del dissenso, abbasso i vecchi evviva la giovinezza, se avanzo seguitemi…). E anche nella violenza della polemica politica. Dei tre tipi di antifascismo che ho citato, il primo è scarsamente rilevante, il secondo è dilagante, il terzo è del tutto marginale. E come tutti gli antifascismi che si rispettano è quasi clandestino…Il problema drammatico è che l’antifascismo di secondo tipo, quello retorico e militarista, che ha dominato il dibattito politico durante tutto il tempo della prima e della seconda repubblica, oggi sta assumendo caratteristiche sempre più militariste, autoritarie e intolleranti, quasi sovrapponendosi allo stesso fascismo. E’ un antifascismo di tipo fascista. E tuttavia è l’unico antifascismo con diritto di parola. Se fino a qualche anno fa il suo limite era l’assenza di pensiero e il trionfo del conformismo, ora le cose si sono complicate, perché si è mescolato con i grandiosi populismi di destra e di sinistra di questi anni, ed ha subito un fortissimo degrado. Basta ascoltare le posizioni di gran parte del mondo politico e giornalistico sull’immigrazione. Sono posizioni che sempre più spesso “sdoganano” principi di tipo nazista. E alle quali non si oppone quasi nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica. Oppure basta seguire le polemiche più diverse, su tanti giornali, e la carica di intolleranza e di rifiuto del dialogo, e di senso di superiorità che vi si trova. Mi ha colpito un articolo di Antonio Padellaro – persona mite e seria – pubblicato ieri sul “Fatto”. Giustamente Padellaro in quell’articolo rivendica il diritto ad essere “buonisti” e rivendica persino il valore della tolleranza contro quello dell’intransigenza. E una riga esatta dopo aver scritto questo, si ricorda che sta scrivendo sul “Fatto” e si rivolge ai suoi avversari politici, che ha visto in un certo talk show, e li definisce la “feccia di qualche zoo del Nord-est”. E’ questo il problema: a nessuno viene in mente che rivendicare la tolleranza e definire feccia chi dissente (a qualunque titolo e su qualunque posizione) non funziona.  E però ci avviamo a celebrare un 25 aprile in questo clima. Che non credo sia molto diverso da quello del 1922.

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

La Salva Silvio salva anche i banchieri. E Renzi perde consenso. Si allunga la lista dei beneficiari inconsapevoli del decreto fiscale. Oltre Berlusconi, la manina aiuterebbe anche i grandi banchieri, partendo da Passera e Profumo. Il governo dovrà riscrivere gran parte del decreto. E rimediare ai danni di reputazione, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. La prima settimana dell’anno per Matteo Renzi è stata un disastro. La polemica sul volo di Stato per la settimana bianca, per una sciata senza casco (come immortalato prontamente da Chi), ma soprattutto il codicillo Salva Silvio, con il mistero della manina che l’ha fatto comparire, con una dinamica ancora tutta da chiarire, nel decreto sul fisco approvato prima di Natale. Respinta al mittente la richiesta delle opposizioni, di Giuseppe Civati e del senatore Massimo Mucchetti di riferire alle camere («Gli atti del consiglio dei ministri non sono oggetto di informativa» ha sentenziato Maria Elena Boschi), l’episodio avrà ancora i suoi strascichi. In parte sulla reputazione del governo, in parte sul destino stesso del decreto, che è stato congelato ma che dovrà esser riscritto, secondo il premier dopo il voto per la successione al Quirinale. Una settimana pessima, insomma, fatta finire in anticipo solo dalle tragedie francesi, dagli attenti e dalle sparatorie e dal terrorismo che hanno giustamente cambiato l’agenda dei giornali. I danni però ci sono, o almeno così sostengono i sondaggisti. Danni al governo, e non al Pd, che tiene e anzi sale in alcune rilevazioni. Renato Mannheimer dice che «con gli scivoloni dell’ultima settimana il premier e il governo perdono tra i quattro e i cinque punti». Roberto Weber di Swg conferma: «Più che il volo di Stato è la non chiarezza sulla episodio di Berlusconi a determinare l’erosione. Come fatti in sé, e in relazione ai dati dell’economia. Nel senso che mentre il dibattito è monopolizzato dalla questioni tipo salva Berlusconi, il cittadino vede i dati della disoccupazione, quelli dell’Istat, gli indicatori economici e la sfiducia aumenta». Matteo Renzi cerca chi ha scritto il salva-Silvio, la minoranza dem riprende vigoreDel Salva Silvio però bisognerà parlare ancora. Il governo potrà anche non chiarire la genesi dell’articolo 19 bis, che introduce la soglia di non punibilità per l’evasione, senza escludere neanche la frode, e che quindi avrebbe “graziato” Silvio Berlusconi, ma del merito bisognerà comunque discutere. Come bisognerà discutere di un’altra aggiunta fatta last minute al decreto e che riguarda il comma 4 dell’articolo 4 che depenalizza le dichiarazioni fraudolente. Per alcuni critici sarebbe un regalo ai grandi banchieri, che quindi non lasciano solo Silvio Berlusconi nell’elenco dei beneficiari inconsapevoli della riforma. Tra i nomi, i classici Alessandro Profumo e Corrado Passera, coinvolti nelle partite di titoli derivati. La lista che si allunga di possibili beneficiari, poi, fa crescere in parlamento l’idea che sul decreto sul fisco il governo abbia per così dire accettato molti suggerimenti esterni, consigli estranei al ministero dell’economia, i cui tecnici non riconoscono la paternità, ma estranei anche all’ufficio legislativo di palazzo Chigi diretto dall'ex capo dei vigili fiorentini Antonella Manzione, almeno per quanto riguarda il processo creativo, perché la fedelissima di Renzi non è certo nota per le competenze in materia fiscale.

Salva Silvio, Pier Luigi Bersani attacca Renzi: "Più sincerità e chiarezza". «Matteo dà da bere agli ubriachi» è la metafora di Bersani sugli evasori e la soglia di non punibilità del 3 per cento introdotta dal governo. E Mucchetti (Pd) chiede che il premier riferisca in aula sul mistero della “manina”, continua Luca Sappino su “L’Espresso”. Non servono molte parole a Pier Luigi Bersani per fulminare Matteo Renzi sulla vicenda del decreto sul fisco, quello del pasticcio dell’articolo 19 bis, che alza la soglia di tolleranza per la frode fiscale, ed è ormai noto come il codicillo “Salva Berlusconi”. «Renzi parla tanto di proporzionalità per l'evasione fiscale, ma mi pare che il senso sia che chi ha di più può evadere di più», aveva detto già ieri l’ex segretario, a margine della riunione dei deputati del Pd, alludendo al fatto che l’articolo non interessa solo a Silvio Berlusconi, ma anche e soprattutto i grandi gruppi industriali che quel 3 per cento lo potrebbero applicare a bilanci molto ricchi. Per Eni, ad esempio la soglia di non punibilità penale si tradurrebbe, secondo i calcoli fatti dal Sole 24 ore e da Libero, in 419 milioni di euro, per Enel in 216, Unicredit 130, Telecom 16 milioni, e così via. A "L’aria che tira", su La7, Bersani ha però detto di più: «Ci vogliono più sincerità e chiarezza. Il modo per uscire da questa situazione non è aspettare il 20 febbraio, ma affrontare subito il decreto nel prossimo consiglio dei ministri e togliere quella parte del 3 per cento». Così la voce più forte della minoranza del Pd critica la scelta del premier che vorrebbe invece congelare il testo fino a dopo l’elezione del presidente della Repubblica, compiendo una forzatura delle procedure che vorrebbero l’atto approvato dal governo nelle disponibilità del Parlamento che è sovrano, entro i trenta giorni, nel determinare il calendario per arrivare alla valutazione e al suggerimento di eventuali correzioni. Questa è infatti la strada che propone la minoranza dem: Renzi lasci fare al Parlamento, raccolga le note e poi modifichi questo stesso testo. Il tutto molto prima del 20 febbraio. Il premier però preferisce fare a modo suo anche perché così, evidentemente, riesce a tenere sotto pressione Silvio Berlusconi e a tenere più ordinati i voti di Forza Italia, fondamentali nella delicata partita del Quirinale. Bersani continua il suo attacco: «Renzi ha dato un messaggio a un pezzo di Italia con quel 3 per cento: essere leggeri sul tema fiscale è come dare da bere agli ubriachi. Il punto è che concetto abbiamo di fedeltà fiscale in questo benedetto Paese. Renzi si è preso la responsabilità del decreto, la manina è la mia ha detto e ha risolto, ma io non riesco a fargli i complimenti». Ancora: «A Renzi voglio chiedere: abbiamo inventato l'evasione in proporzione? Non esiste in nessun posto al mondo una cosa così. La frode fiscale è un reato in tutto il mondo...». Bersani poi invita a non gridare al complotto degli antiberlusconiani: «Tiriamo via il riconoscimento della frode come hanno chiesto anche le associazioni degli imprenditori», nota l’ex segretario, «e non dimentichiamoci che la cosa l'ha tirata fuori il Sole 24 ore», e non qualche ex girotondino. Bersani, che evidentemente ha letto bene il giornale economico, dice anche un’altra cosa: «C'è da ripulire altro nel decreto...» aggiunge riferendosi agli altri punti controversi del testo prodotto dal governo. Oltre alla soglia percentuale di non punibilità sul reddito aziendale, infatti, c’è da rivedere, ad esempio, la depenalizzazione dell’emissione di false fatture sotto i mille euro, e l’aumento del limite da 50 mila a 150 mila per la dichiarazione infedele. Anche per questo, per Bersani, potrebbe non esser un cattiva idea che Renzi sia chiamato dalle Camera a riferire sulla vicenda della manina e di come sia stato scritto il decreto votato nel consiglio dei ministri del 24 dicembre. «Certo non guasterebbe» dice l’ex segretario. La richiesta è stata avanzata da Massimo Mucchetti, senatore dem, intervenuto in aula a titolo personale, come ha subito precisato il renziano Tonini. Per Mucchetti, Renzi dovrebbe spiegare «quale testo è stato licenziato dal Ministero; quale testo è arrivato in Consiglio dei ministri e, se ci sono state modifiche, chi le ha apportate; se in Consiglio dei ministri c'è stato dibattito, e chi è intervenuto nel dibattito; quale testo, infine è stato varato e come, in base a quali procedure, è stato poi ritirato». Il dubbio è che si sia potuta essere sì «una centralizzazione delle decisioni politiche in capo al Consiglio dei ministri, ma che poi le decisioni collegiali siano state modificate in modo monocratico, il che pone un problema di governance democratico». E sì, sarebbe forse coerente con il carattere del premier, ma non proprio gradito dalla Costituzione. La proposta è stata salutata con favore dal Movimento 5 stelle, dalla Lega e da Sinistra Ecologia Libertà. «Mi associo a Mucchetti» ha detto poi Pippo Civati, ormai lontanissimo dal governo, che oggi ha presentato con Sel una proposta per inserire il conflitto di interessi nella Costituzione: «Secondo me parla a nome di tutti gli elettori del Pd e del centrosinistra che si chiedono come siano andate le cose. Altro che manina, è una manona ed è un fatto di estrema gravità».

Visco e il club delle manette. Le colpe di Visco e della Orlandi in un impasto velenoso fatto di antiberlusconismo e voglia di colpire Renzi e le imprese, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questa storia delle depenalizzazioni fiscali che rischia di affondare proprio non ci va giù. La delega votata dal Consiglio dei ministri è inciampata nella franchigia del tre per cento. Si è attivato un impasto velenoso fatto di tre ingredienti principali: lo sperimentato antiberlusconismo mediatico, la chance per la sinistra Pd di dare una bottarella al proprio segretario e cioè Renzi, e l'ideologia antimpresa per la quale le tasse sono belle e i privati evasori. Si rischia così di buttare a mare un passo avanti in materia fiscale e penale. Il circuito dei soliti ha funzionato alla grande. La vera manina da cui è partito tutto è quella dell'ex ministro Visco: in questo caso molto visibile e pubblicata sul blog laVoce.info. Intorno a lui la cortina politica della sinistra Pd e dei suoi vecchi assistenti, a partire da Fassina. In fila i burocrati che con il Pci di un tempo e con Visco poi si sono formati. E poi l'Agenzia delle entrate: ha giocato la sua moral suasion (e qualcosa di più), con la tosta Rossella Orlandi, che dalla scuola dura e pura di Visco arriva. In un primo tempo la vicenda non è stata ben capita anche da Confindustria: in fondo fu proprio il giornale della Confindustria, in un editoriale, a celebrare l'arrivo della Orlandi. Ma la buona stampa per questo nobile circoletto di manettari (burocrati che ben vedono le manette anche per errori od omissioni fiscali) non si ferma qua. Corriere e Repubblica (quest'ultima per riflesso condizionato) fanno il resto. I maligni insinuano che non c'è praticamente azionista del Corsera immune da un problemuccio fiscale e che il direttore, in uscita, abbia voluto dare l'ennesimo segno della sua indipendenza. Molto più probabile che a contare siano stati piuttosto gli storici rapporti con la Procura di Bruti Liberati. Non è un mistero che il grande esperto di reati finanziari (risalito dopo le vicissitudini kafkiane di Robledo) e anima del nuovo costoso scudo fiscale e cioè Francesco Greco non veda di buon occhio le depenalizzazioni. Purtroppo questo club continua ad alimentare un'ideologia antimpresa che deprime investimenti e sviluppo. Si è ormai formata una giurisprudenza, un corpo di norme e consuetudini, e una classe burocratica che (spesso in buona fede e ciò è anche peggio) picchia su chi fa impresa e ha una partita Iva come su un tamburo. Come negli anni '70 i pretori del lavoro hanno contribuito a distruggere un sano rapporto di relazioni industriali e attraverso le loro interpretazioni giurisprudenziali hanno reso lo Statuto dei lavoratori una camicia di forza, così oggi la magistratura sembra essersi assunta la responsabilità storica (e forse ideologica) di combattere con ogni mezzo e ultra petita l'evasione fiscale. Per chi pensa che la nostra sia una deformazione basta sottoporsi quotidianamente alla lettura del pregevole (è detto senza ironia) bollettino dell'Agenzia delle entrate (fate però uno sforzo, voi di Fisco oggi , di scrivere anche per noi umani). Vi citiamo solo due numeri recenti. Solo pochi giorni fa l'austera pubblicazione riportava una sentenza della Cassazione di dicembre. Sentite cosa scrivono: «La sentenza 52038/2014 ha confermato che, per l'omesso versamento delle ritenute certificate, la crisi dell'impresa non scrimina il reato. A tal fine, né l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti né l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori e neppure la mancata riscossione di crediti vantati e documentati sono situazioni - anche se provate - idonee a integrare lo stato di necessità e, dunque, a escludere il dolo». Ve la facciamo semplice: se un imprenditore dimostra di essere senza una lira perché non lo hanno pagato o perché ha preferito corrispondere gli stipendi ai propri dipendenti e non versa i contributi entro 60 giorni per una cifra annuale superiore a 50mila euro, rischia la galera. Il bollettino è ancora più chiaro: «Rafforzando la linea interpretativa più severa, la Corte di cassazione, con la sentenza 52038/2014, ha spiegato come siano rari i casi in cui la crisi di liquidità scrimina il reato e quindi che è punibile per evasione fiscale l'imprenditore nonostante il mancato versamento dipenda da uno choc finanziario dell'azienda». Senza pietà. Prima si paga lo Stato e poi i dipendenti e fornitori. Sia chiaro, qua nessuno chiede di girarsi dall'altra parte e fischiettare se un imprenditore non versa i contributi. Sono infatti previste sanzioni e interessi. Si dice solo che forse la galera in questi casi non ha senso. La sentenza della Cassazione è stata pubblicata proprio mentre tutto il circoletto dei manettari si lamentava dell'indulgenza governativa in merito ai reati fiscali. Di esempi ne potremmo fare altri centomila. Ci preme ricordare un'altra decisione di queste settimane. Una leggina (benedetta) aveva previsto che quando la Guardia di finanza si presentava in azienda non potesse bloccarvi per più di trenta giorni (Articolo 12 del disatteso Statuto dei contribuenti). Una verifica che fosse durata più di un mese avrebbe reso nullo l'accertamento. Una tagliola niente male. Con un'ordinanza di novembre la Corte suprema ha deciso che il termine è ordinatorio e non perentorio. Sapete cosa vuol dire? Che siete fottuti. Dovrebbero rimanere in azienda o nei vostri uffici non più di trenta giorni (peraltro non è necessario che siano consecutivi, altra assurdità), ma se invece ci mettono le tende non succede nulla. Niente di niente. Lo Stato vi prende per i fondelli. In termini perentori, mica ordinatori.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

Falce e minareto: la predilezione della sinistra per gli islamici porta al suicidio della nostra civiltà, scrive il polemista polemologo di Giancarlo Matta. Falce e minareto: è un dato di fatto che la gente di sinistra (qui alludo principalmente ai politici dei vari ranghi) mostri una esagerata predilezione per gli islamici, contraddicendo pertanto i propri ideali, guadagnandosi il giustificato disprezzo di coloro che ragionano (anche tra i suoi elettori), e non di rado anche coprendosi di ridicolo. E probabilmente anche scavandosi la fossa (se non in senso immediatamente letterale - almeno per ora -, quanto meno in senso politico) con le proprie mani. Voglio segnalare in proposito, alcuni esempi e comportamenti persistenti:

-le Amministrazioni Locali prevalentemente di sinistra (le quali dovrebbero essere atee…), che concedono agli islamici per lo più gratuitamente o quasi, immobili per la realizzazione di moschee;

-gli Istituti Scolastici Pubblici prevalentemente diretti da persone ideologicamente di sinistra, che inibiscono le tradizioni e le celebrazioni tipiche della nostra cultura per “non offendere” gli islamici;

-le Asl prevalentemente dirette dalla sinistra, che tollerano le illecite pretese degli islamici di essere visitati da medici del sesso a loro gradito;

-gli impedimenti capziosi dei parlamentari di sinistra, alla emanazione di norme più severe di quelle peraltro esistenti (ma spesso disapplicate) in materia di abbigliamento “religioso” in luogo pubblico, nonostante le evidenti accresciute esigenze della pubblica sicurezza;

-le grottesche “reverenze” di politicanti di sinistra, porte agli islamici in occasione delle loro festività, con la concessione di spazi pubblici dove essi esigono illegittimamente la separazione fisica tra i due sessi, e addirittura vestendosi come loro;

-il perdurante silenzio delle “femministe” (ovviamente di sinistra) sulle violenze che gli islamici commettono verso le donne;

-la simpatia scomposta “a senso unico” manifestata da politicanti di sinistra verso le organizzazioni armate medio-orientali che combattono gli israeliani;

-la pelosa indifferenza dei politicanti di sinistra in materia di tutela dei minori, notoriamente spesso costretti a indossare determinati abbigliamenti e/o a rispettare determinati riti dannosi alla salute;

-l’omertà inammissibile dei politicanti di sinistra sulle alleanze dei nazisti con gli islamici, storicamente accertate;

-l’indegno riconoscimento della qualifica di “combattenti” conferito da politicanti di sinistra agli islamici terroristi che si suicidano per assassinare a tradimento civili indifesi, definendoli assurdamente “kamikaze” (mentre è storicamente noto come questi ultimi fossero dei veri militari che si sacrificavano combattendo solo contro altri militari);

-l’abdicazione tragicomica alle proprie funzioni di tutela dei lavoratori da parte dei sindacati di sinistra, in materia di igiene e sicurezza del lavoro quando a “lavorare” sono gli islamici;

-lo scriteriato incoraggiamento da parte di Amministratori Locali progressisti, delle iniziative di “nuoto islamico” = pratica che crea “disintegrazione” non certo “integrazione” nella nostra società.

-eccetera… .

Il fallimento epocale tanto del comunismo che dell’islamismo dovrebbero essere sufficientemente evidenti ovunque. Di fronte al fallimento di un “ideale” gabellato come nobile (il comunismo, la legge islamica), i rispettivi sostenitori puntano il dito contro l’elemento umano e non contro i loro ideali = “ci si deve impegnare di più, fare meglio… .” Tuttavia, a un certo punto, quando l’obiettivo mai è conseguito, e i disastri sono dinnanzi agli occhi di tutti, sarebbe logico e necessario incolpare quegli stessi ideali, e abbandonarli alla discarica della Storia. I “rossi” - comunque si chiamino - soffrono probabilmente della sindrome “cupio dissolvi”: ne consegue l’atteggiamento del “tanto peggio tanto meglio”. Gli islamici si rendono conto di essere in ritardo rispetto al resto del mondo in quasi tutti i settori dell’attività umana: una consapevolezza che è causa di disperazione e aggressività. Ambedue le forze rappresentano una minaccia per la Libertà in Italia, e in Occidente. Propongo sinteticamente un paragone storico (azzardato?): come la civiltà romana cadde -anche poiché indebolita al suo interno dal “cristianesimo”- per le aggressioni dei barbari dal nord, così la civiltà italiana rischia oggi di cadere -anche poiché indebolita al suo interno dal “comunismo”- per le aggressioni degli islamici dal Sud. L’ “amore” che molte persone ideologicamente di sinistra manifestano -con azioni e omissioni- per gli islamici (al di là dei comunque meschini interessi di “bassa corte” elettorale), “amore” al quale gli islamici replicano con odio malcelato, oltre che essere un importante punto debole da sfruttare a talento di chi combatte ambedue, è anche interessante materia di studio per psichiatri.

Nel blog Lux/ilcannocchiale ho trovato due pezzi molto interessanti che vi sottopongo e vi consiglio, se avete tempo, di visitarlo e leggere altre pubblicazioni, che sono certa troverete molto interessanti, scrive “Lisistrata”. Dal mio punto di vista sono riflessioni completamente condivisibili, ben articolate, approfondite e mai preconcette, ma analitiche e trattate con estrema intelligenza e lucidità: Perché la maggior parte della sinistra è affascinata e sta dalla parte dell'Islam. C’è una domanda che spesso mi tormenta e a cui fatico a dare una risposta: perché larga parte della sinistra sembra affascinata e spesso sta dalla parte dell’Islam? L’Islam (il termine significa “sottomissione”) è esattamente il contrario dei valori ai quali storicamente la sinistra fa riferimento; la sinistra si è sempre vantata di aver difeso gli ideali di progresso peccando semmai per eccesso e non per difetto; l’Islam è la negazione del progresso, di ogni progresso, sociale, politico, economico, scientifico. Diventa allora per me indispensabile porre alcune domande al “popolo” della sinistra.

Alle femministe (ma ce ne sono ancora? Me le ricordo bene in piazza a gridare: “è mia e me la gestisco io”) a tutti quelli, uomini e donne, che credono e si battono per la parità tra i sessi e per le pari opportunità, a chi ha condotto battaglie per il divorzio e per l’aborto dico: leggete un attimo:

Corano, IV Sura: Versetto 15: “Se le vostre donne avranno commesso azioni infami , portate contro di loro quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah apra loro una via d'uscita.”

Versetto 34: ”Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande”.

Sura II: Versetto 228: ”Le donne divorziate osservino un ritiro della durata di tre cicli, e non è loro permesso nascondere quello che Allah ha creato nei loro ventri, se credono in Allah e nell'Ultimo Giorno. E i loro sposi avranno priorità se, volendosi riconciliare, le riprenderanno durante questo periodo. Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio.” Tale iman Mohammed Kamal Mustafa ha scritto pure un Vademecum sul modo di picchiare le mogli. E sapete di dov’è? Non si trova in Iran o in Iraq o in Pakistan, ma è consigliere della Federaciòn Espanola de Entidades Religiosas Islàmicas e l’esimio iman di Valencia, Abdul Majad Rejab, gli ha dato ragione sentenziando:”L’iman Mustafa è islamicamente corretto. Picchiare la moglie è una risorsa”, mentre l’iman di Barcellona, Abdelaziz Hazan, ha aggiunto:”L’iman Mustafa si limita a riferire ciò che è scritto nel Corano. Se non lo facesse, sarebbe un eretico”. E non stiamo parlando di terroristi, questo è l’Islam istituzionale delle moschee, è la parola di alcuni tra i più prestigiosi iman europei. Alle femministe, alle donne in genere quindi chiedo: tutto ciò non contrasta con la nostra Costituzione? La Costituzione Italiana non stabilisce l’uguaglianza tra i sessi? Non difende la libertà delle donne? Non vieta atti discriminatori? Non sostiene che i coniugi godono di uguali diritti e doveri? Avete mai fatto una manifestazione per i diritti delle donne islamiche? Non per quelle di Kabul, ma per quelle che abitano a Milano, Genova, Roma, Napoli. Oppure, perché non ne organizzate una a Rabat, o a Teheran, o a La Mecca, o a Medina, o a Damasco? Oppure i valori in cui credete non sono universali (neppure quelli della nostra Costituzione) e valgono sono per la nostra cultura? Parità tra i sessi, uguaglianza e dignità, divorzio e aborto non sono valori di “sinistra”? Allora chi li nega, chi li calpesta continuamente è di destra? Quindi l’Islam è di destra?

Ai comunisti atei di una volta (ma ce n’è rimasto qualcuno?) quelli che si sarebbero mangiati i preti a colazione, quelli che il Papa non deve intromettersi, a questi mi permetto di ricordare quanto diceva Feuerbach:”La religione è l’infanzia dell’umanità. La gloria di Dio si fonda esclusivamente sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana”. E Marx rincarava la dose: “La religione è il gemito della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, così com’è lo spirito di una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l’oppio per il popolo. La critica della religione è dunque, in germe, la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra.” A loro dunque chiedo: non è forse l’Islam un potentissimo narcotico delle masse? Il sintomo di una condizione umana e sociale alienata? Il frutto di una società malata? (sempre citando Marx) Oppure questi paradigmi sono valsi solo per la religione cristiana dell’800? Cosa ne pensate di una religione totalizzante che, di fatto, riconosce come unica legge suprema ciò che insegna il Corano, che aspira a teocratizzare ogni Stato? Ve li mangiate anche loro a colazione? Non insorgete? Perché domani potrebbero aspirare ad uno stato islamico italiano fondato sulla Sharia. Se abitaste in uno dei vari paesi islamici, come potreste far valere il vostro sacrosanto diritto a pretendere una legge fatta dagli uomini e per gli uomini? Vi siete mai chiesti che fine fareste? Non sentite ribollire il sangue nelle vene? E’ giusto che in molti paesi islamici le altre religioni siano discriminate? Fa parte della loro cultura e quindi va bene così? Dal Corano:

Versetto 85: “Chi vuole una religione diversa dall'Islàm, il suo culto non sarà accettato , e nell'altra vita sarà tra i perdenti.”

II Sura: Versetto 191: ”Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell'omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.”

Sura IV: Versetto 84: ”Combatti dunque per la causa di Allah - sei responsabile solo di te stesso e incoraggia i credenti. Forse Allah fermerà l'acrimonia dei miscredenti. Allah è più temibile nella Sua acrimonia, è più temibile nel Suo castigo.”

Versetto 89: “Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate.” Beh certo, se applicassimo a questi versetti un’analisi testuale e una critica ermeneutica anziché prenderli alla lettera, forse non sarebbero così devastanti. Peccato però che questo non avviene o qualcuno è al corrente di un Islam moderato che interpreta il Corano con un taglio laico e ammette la critica testuale? La libertà di professare la religione che si vuole e quindi anche di professarsi apertamente ateo è un valore di sinistra? Quindi chi lo calpesta è di destra? Quindi l’Islam è di destra?

E ancora: nei matrimoni misti, sapete darmi dei dati statistici su quale sia la percentuale relativa alla conversione alla fede cristiana del coniuge musulmano? E quale sia invece la percentuale opposta? Può un musulmano, liberamente, cambiare la sua religione e diventare cristiano? No, non può! E può una donna musulmana sposare un uomo di un’altra fede religiosa? NO, non può! Questo non è forse un atto discriminatorio? Considerare un’altra religione inferiore o addirittura da eliminare non è razzismo?
Ai ragazzi e alle ragazze dei centri sociali chiedo: ma se foste in un paese islamico, i vostri centri esisterebbero? Potreste andarci a bere una birra, farvi una canna, ascoltare un po’ di rock e, perché no, farvi una scopata? Perché non aprite un centro sociale in un qualsiasi paese islamico? E’ troppo “occidentale” aprire un centro sociale alternativo al modello “occidentale”? Se poi vi fanno storie, un po’ di sana disobbedienza civile. E che ci vuole, lo fate in tutta Europa non avrete certo timore a farlo là, o sì? La liberalizzazione delle droghe leggere non è forse un tema di sinistra? Ma come la pensano gli islamici in proposito? Essere contro le droghe leggere vuol dire essere di destra? Quindi l’Islam è di destra?

A tutti gli omosessuali, uomini e donne, di destra e di sinistra, chiedo: non vi pare un po’ troppo facile fare le manifestazioni a New York, a Londra, a Roma (sì, proprio dove c’è il Papa), a Parigi? Perché non farne una dove chi si dichiara omosessuale è veramente discriminato e rischia la vita o il carcere? Che so, a La Mecca (l’equivalente di Roma per i cristiani), al Cairo, a Teheran, nei territori palestinesi, perché non lottare per gli omosessuali arabi? E dei matrimoni tra omosessuali cosa ne pensano gli islamici? Avete mai provato a chiederglielo? Noi gli omosessuali dichiarati ce li abbiamo in parlamento e mi sembra giusto: avete conoscenza di qualche omosessuale che sieda in qualche parlamento di un qualsiasi stato islamico? (ma ci sono i parlamenti, lì?) Maometto, secondo la tradizione islamica, condannò l'omosessualità maschile: "Dio maledirà due volte chi commetterà il peccato di Lot". I giuristi più legati alle norme coraniche considerano che la sodomia debba essere trattata come la fornicazione e punita allo stesso modo. In molti paesi arabi è ancora prevista la pena di morte o il carcere per chi è sorpreso in atti omosessuali; in Palestina gli imam spesso emettono sentenze che scagionano un omicida che abbia ucciso un omosessuale. Secondo le antiche interpretazioni giuridiche della legge sacra, gli sposati non schiavi saranno messi a morte per lapidazione, mentre uno scapolo libero riceverà 100 frustate e sarà esiliato per un anno. Nelle sentenze che seguono i processi per sodomia appare tuttavia spesso l'accusa di "matrimonio tra uomini": questo, in riferimento alle antiche norme coraniche pare permetta ai giudici di condannare a morte anche degli omosessuali non sposati.

Quanto al lesbismo, pare che non sia esplicitamente considerato dalla legge islamica: secondo Maarten Schild, autore di "Sessualità ed erotismo maschile nelle società musulmane", il sesso tra donne è considerato in quanto "sesso fuori del matrimonio e quindi paragonabile all'adulterio", la pena tradizionale è sempre quindi la morte o le cento frustate. Abd al-Azim al Mitaani, sceicco e professore all'università religiosa di Al Azhar (Il Cairo), dice in un intervista riportata dal Manifesto del 25 ottobre 2001: "Per quanto riguarda la sodomia, la maggior parte dei dottori dell'Islam considera che sia l'attivo che il passivo devono essere messi a morte”. E precisano anche che se una bestia viene sodomizzata, l'uomo deve essere giustiziato e l'animale abbattuto. L'omosessualità è attualmente illegale in 26 paesi islamici: Afghanistan, Algeria, Bahrain, Bangladesh, Bosnia, Iran, Giordania, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Mauritania, Marocco, Oman, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Sudan, Siria, Tajikistan, Tunisia, Turkmenistan, Emirati Arabi uniti e Yemen. Tra questi, l'Iran, la Mauritania, l'Arabia Saudita, il Sudan e lo Yemen prevedono la pena di morte; il Pakistan prevede la fustigazione ed almeno due anni di carcere; in Malesia la pena arriva fino a 20 anni e negli Emirati Arabi fino a 14, mentre in Bangladesh e libia la pena è rispettivamente di 7 e 5 anni di carcere. L'Iran è comunque il paese più zelante nel reprimere l'omosessualità: dal 1980, quando i fondamentalisti hanno preso il potere sotto la guida dell'Ayatollah Khomeini, oltre 4000 gay e lesbiche sono stati giustiziati, stando a quanto riferisce il gruppo in esilio per i diritti dei gay, Homan.

Se questi temi sono di “sinistra”, allora chi nega tutto questo e non solo a parole, ma con la violenza, è di destra? O no? Allora l’Islam è di destra? E di quella peggiore?

A tutti i laici (e io sono tale), a quelli che sostengono che lo Stato e la religione devono restare separati, cosa ne pensate delle teocrazie? La teocrazia è la negazione della democrazia, o no? E’ vero o no che nessun paese islamico ha sottoscritto presso l’ONU la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo? E’ vero o no che nei paesi islamici la Sharia è l’unico riferimento per ciò che riguarda i diritti umani? Avete mai provato a chiedere a un islamico cosa ne pensa, ad esempio, di Dante Alighieri che ha messo Maometto all’inferno, o di Voltaire, o di Darwin e dell’evoluzionismo, o di Freud, o della psicanalisi, ecc.ecc.? Qual è il riferimento massimo, per un laico, che consente una convivenza democratica? Forse la Costituzione? E per un islamico? Forse il Corano e, di conseguenza, la Sharia? Avete mai provato a chiedere ad un islamico:”Ma se dovessi scegliere tra obbedire alla Costituzione del paese che ti ospita o a quello che ti comanda il Corano, come ti comporteresti? In caso di contrasto, a cosa dai la precedenza?” Beh, fatelo, chiedeteglielo!

Ai pacifisti senza ma e senza se, ai sostenitori di una società multiculturale, ai sostenitori dell’integrazione ad ogni costo, chiedo: ma siete sicuri che loro, gli islamici, vogliano integrarsi? Leggete per favore, il Corano punisce l’integrazione: Corano, III Sura: Versetto 12: “Di' ai miscredenti: " Presto sarete sconfitti. Sarete radunati nell'Inferno. Che infame giaciglio!".

Versetto 216: ”Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete.”

Sura IV: Versetto 74: ”Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l'altra. A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso ,daremo presto ricompensa immensa.”

Sura V: Versetto 33: ”La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l'ignominia che li toccherà in questa vita; nell'altra vita avranno castigo immenso”.

Visto che noi italiani abbiamo una crescita demografica pari a zero o poco più, mentre i musulmani che stanno qui si raddoppiano ad ogni generazione (un buon musulmano deve avere almeno 5 figli per moglie) cosa accadrà tra 50-80 anni? Cosa accadrà quando loro saranno il 50% della popolazione o forse di più? A questo, ci avete mai pensato? Cosa accadrà allora? Perché questa non è un’opinione, accadrà perché è una pura e semplice questione matematica. Se la democrazia rappresenta per loro più un mezzo piuttosto che un fine, cosa potrà accadere nel momento in cui saranno (o potranno essere) la maggioranza relativa della popolazione? Volete qualche dato: eccolo! .Considerando i regolari e gli irregolari, il numero di musulmani che vivono in Italia risulta essere stimato oltre il milione. In Europa il loro numero si attesta sui dieci milioni, ed è costantemente in aumento. Infatti, il numero dei neonati musulmani nella Comunità Europea ogni anno è pari al 10%; a Bruxelles arriva al 30% e a Marsiglia tocca il 60%. Sto esagerando? Sono paranoico? L’anno era il 1974, la sede l’Assemblea delle Nazioni Unite, il personaggio l’algerino Boumedienne: cosa disse? Ecco:”Un giorno milioni di uomini abbandoneranno l’emisfero sud per irrompere nell’emisfero nord. E non certo da amici. Perché vi irromperanno per conquistarlo. E lo conquisteranno popolandolo coi loro figli. Sarà il ventre delle nostre donne a darci la vittoria”. Recentemente in parlamento è stata votata una legge sacrosanta che tutela gli animali in quanto esseri “senzienti”, cioè capaci di provare dolore; a prendere a calci un cane si rischia il codice penale. Agli animalisti chiedo: ma la macellazione halal praticata dagli islamici che consiste nello sgozzare l’animale ancora vivo e lasciare che muoia dissanguato in una lenta agonia, vi sembra rispettosa di un essere “senziente”? Non avete nulla da dire? Nulla da obiettare? Cosa dicono i verdi animalisti? Se da un punto di vista antropologico il relativismo culturale è una teoria che ha solide radici teoriche (in pratica dice che ogni cultura elabora modalità diverse per rispondere agli stessi fondamentale bisogni, quindi ogni cultura ha la sua dignità e ogni azione, anche la più orrenda, se inserita nella cultura d’origine assume un suo significato) cosa accade quando una cultura “trasmigra” in un altro territorio dove c’è una cultura diversa? Insomma, semplificando, se ognuno a casa sua è libero di fare ciò che gli pare, cosa accade quando c’è chi lo vorrebbe fare a casa degli altri? Fin dove arriva il confine tra ciò che può concedere l’ospite al suo ospitato? Perché anche per i cannibali mangiare l’uomo è un fatto “culturalmente normale”, ma non per questo permetteremmo ad un cannibale di mangiarsi qualcuno a casa nostra. Il principio di reciprocità (io ti permetto di fare a casa mia ciò che tu mi permetti di fare a casa tua) può essere considerato una forma di valido compromesso? Alla fine ritorno alla domanda iniziale: cosa accomuna un militane della sinistra, un comunista, un ex-comunista, un laico all’Islam? Ad un iman? Ad un ayatollah? Agli ulema? Nulla…sembrerebbe…eppure…Tu l'hai capito perché la sinistra sta dalla parte dell'Islam? “Tu lo hai capito, Lei lo ha capito perché la Sinistra sta dalla parte dell’islam?” E tutti rispondevano:”Chiaro. La Sinistra è terzomondista, antiamericana, antisionista. L’Islam pure. Quindi nell’Islam vede ciò che i brigatisti chiamano il loro naturale alleato”. Oppure:”Semplice. Col crollo dell’URSS e il sorgere del capitalismo in Cina, la Sinistra ha perduto i suoi punti di riferimento. Ergo, si aggrappa all’Islam come a una ciambella di salvataggio”. Oppure:”Ovvio. In Europa il vero proletariato non esiste più, ed una Sinistra senza proletariato è come un bottegaio senza merce. Nel proletariato islamico la Sinistra trova la merce che non ha più, ossia un futuro serbatoio di voti da intascare”. Ma sebbene ogni risposta contenesse un’indiscutibile verità, nessuna teneva conto dei ragionamenti sui quali le mie domande si basavano. Così continuai a tormentarmi, a disperarmi, e ciò durò finché m’accorsi che le mie domande erano sbagliate. Erano sbagliate, anzitutto, perché nascevano da un residuo rispetto per la Sinistra che avevo conosciuto o creduto di conoscere da bambina. la Sinistra dei miei nonni, dei miei genitori, dei miei compagni morti, delle mie utopie infantili. La Sinistra che da mezzo secolo non esiste più. Erano sbagliate, inoltre perché nascevano dalla solitudine politica nella quale avevo sempre vissuto e che invano avevo sperato d’alleggerire cercando d’annaffiare il deserto proprio con chi lo aveva creato. Ma soprattutto erano domande sbagliate perché sbagliati erano  i ragionamenti o meglio i presupposti su cui esse si basavano. Primo presupposto, che la Sinistra fosse laica. No: pur essendo figlia del laicismo partorito dal liberalismo e quindi a lei non consono, la Sinistra non è laica. Sia che si vesta di nero sia che si vesta di rosso o di rosa o di verde o di bianco o d’arcobaleno, la Sinistra è confessionale. Ecclesiastica. Lo è in quanto deriva da un’ideologia che s’appella a Verità Assolute. a una parte il Bene e dall’altra il Male. Da una parte il Sol dell’Avvenir e dall’altra il buio pesto. Da una parte i suoi fedeli e dall’altra gli infedeli anzi i cani-infedeli.

La Sinistra è una Chiesa. E non una Chiesa simile alle Chiese uscite dal cristianesimo quindi in qualche modo aperte al libero arbitrio, bensì una Chiesa simile all’Islam.

Come l’Islam, infatti, si ritiene baciata da un Dio custode del Bene e della Verità.

Come l’Islam non riconosce mai le sue colpe e i suoi errori. Si ritiene infallibile non chiede mai scusa.

Come l‘Islam pretende un mondo a sua immagine e somiglianza, una società costruita sui versetti del suo profeta Karl Marx.

Come l’Islam schiavizza i suoi stessi fedeli, li intimidisce, li rincretinisce anche se sono intelligenti.

Come l’Islam non accetta che tu la pensi in modo diverso e se la pensi in modo diverso ti disprezza. Ti denigra, ti processa, ti punisce, e se il Corano ossia il Partito le ordina di fucilarti ti fucila.

Come l’Islam è illiberale, insomma. Autocratica, totalitaria, anche quando accetta il gioco della democrazia. Non a caso il 95% degli italiani convertiti all’Islam vengono dalla Sinistra o dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il 95% dei musulmani naturalizzati cittadini italiani, idem. (Il mascalzone che non vuole il crocefisso nelle scuole o negli ospedali e che ai suoi confratelli scrive Andate a morire con la Fallaci viene dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il suo compagno è stato addirittura in carcere per sospetta connivenza con le Brigate Rosse).

Come l’Islam, infine, la Sinistra è anti-occidentale. E il motivo per cui è anti-occidentale te lo dico con un brano del saggio che negli Anni Trenta il liberale austriaco Friedrich Hayek scrisse a proposito della Russia bolscevica e della Germania nazionalsocialista.

Ecco qua. “Qui non si abbandonano soltanto i principi di Adam Smith e di Hume, di Locke e di Milton. Qui si abbandonano  le caratteristiche più salde della civiltà sviluppatasi dai greci e dai romani e dal Cristianesimo, ossia della civiltà occidentale. Qui non si rinuncia soltanto al liberalismo del 1700 e del 1800, ossia al liberalismo che ha completato quella civiltà. Qui si rinuncia all’individualismo che grazie a Erasmo da Rotterdam, a Montagne, a Cicerone, a Tacito, a Pericle, a Tucidide, quella civiltà ha ereditato. L’individualismo, il concetto di individualismo, che attraverso gli insegnamenti fornitici dai filosofi dell’antichità classica poi dal Cristianesimo poi dal Rinascimento poi dall’Illuminismo ci ha reso ciò che siamo. Il socialismo si basa sul collettivismo. Il collettivismo nega l’individualismo.  E chiunque neghi l’individualismo nega la civiltà occidentale” Oriana Fallaci, “La forza della ragione” pp.221-225.

Sinistra e musulmani in piazza contro terrorismo e l'islamofobia. Migliaia in piazza Duomo a Milano contro il terrorismo. Ma anche per ribadire opposizione totale a una destra definita "razzista e portatrice di odio". Quasi che la responsabilità degli attentati fosse sua, scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Bandiere della pace, "Bella Ciao", falci e martelli. E poi Emergency, le Acli, No Tav e No Muos, curdi e attivisti pro Palestina. Tra i partecipanti alla manifestazione indetta oggi a Milano per condannare gli attentati contro Charlie Hebdo sfila il classico repertorio di sigle e movimenti della sinistra radical chic. Tra loro, un discreto numero di musulmani, molti giovani, qualche famiglia con bambini. Gli slogan sono quelli di sempre, a favore del multiculturalismo e dell'integrazione, contro la destra italiana definita "xenofoba" e "razzista". Cose già viste e riviste, oggi riproposte per l'ennesima volta in occasione della celebrazione delle vittime di Charlie Hebdo. Due le parole d'ordine: no al terrorismo e no al razzismo. Dei fondamentalisti il primo, della destra il secondo. Due parole d'ordine messe naturalmente in correlazione: il terrorismo che alimenta il razzismo è a sua volta, in parte, il prodotto di una politica intollerante e discriminatoria. Questa è la tesi soprattutto della sinistra, presente al gran completo a partire dagli alti gradi della giunta Pisapia (il sindaco non c'è, ma manda i suoi saluti): "nous sommes Charlie", prima di tutto. E poi passiamo a contrastare il pericolo verde-nero. Più diritti, più integrazione, più moschee: è questa la ricetta proposta per rispondere agli attentati di Parigi. Una ricetta che, per la verità, è la stessa degli ultimi quindici anni. A sinistra, i fatti degli ultimi giorni hanno cambiato poco, in termini di proposte. Più lineare la posizione dei musulmani (non moltissimi tra le migliaia di persone radunatisi all'ombra della Madonnina): i giovani di "Partecipazione e spiritualità musulmana" esibiscono cartelli con l'hashtag "non in mio nome". Rivendicano la differenza tra Islam e terrorismo, ma c'è anche chi non rinuncia all'idea di porre un limite alla satira, "quando offende la libertà e la sensibilità, soprattutto in campo religioso". Per il rappresentante legale del Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche Milanesi) Reas Syed l'espressione "terrorismo islamico" è un ossimoro. Syed rivendica il messaggio di pace dell'Islam e ribadisce che le azioni di chi compie attentati in nome di Allah non siano attribuibili all'Islam tout-court. Tra la sinistra radicale, però, c'è anche chi identifica il problema con la destra e l'Islamofobia. "Salvini è la barbarie e questa piazza è la risposta alla barbarie - attacca il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero - La condanna del terrorismo è nettissima e bisogna sapere che chi semina odio lavora ad alimentare queste dinamiche". Parole dure, pronunciate in una piazza dove appena tre mesi fa il leader della Lega radunava centomila persone per dire no all'immigrazione clandestina, in quella che è stata la maggiore manifestazione della destra italiana degli ultimi anni. Ora sotto le guglie del Duomo la sinistra rosso-arancio torna contarsi con gli slogan di sempre. All'indomani delle stragi parigine, le parole più emblematiche sono quelle di Cecilia Strada, presidente di Emergency e figlia di Gino: "No alla violenza e no al terrorismo". Ma anche "No a chi odia e specula sui fatti di sangue per calcolo elettorale". Porte chiuse agli "islamofobi" quindi, anche se i partiti nel mirino rappresentano milioni di italiani. D'altronde in Francia il Front National di Marine Le Pen è stato escluso dalla grande manifestazione nazionale di domani. Anche qui, in gran parte, la piazza sembra approvare. In corteo c'è posto solo per chi condanna il terrorismo. E l'islamofobia.

Così la sinistra con la kefiah ha creato l'Italia saudita. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica. Per noi è più dura che per gli altri, visto che veniamo da decenni di andreottismo islamico, un barile di petrolio a me e una licenza d'uccidere a te, che ha sminuzzato e invertito la storia, la geografia, i valori, allevando due generazioni di arraffatori politicamente corretti e ipocriti. Di quell'andreottismo furbo e affarista, sminuzzatore e insabbiatore si è nutrita una sinistra felice di mettersi la kefiah e, quando possibile, passeggiare su e giù a braccetto con Hezbollah. L'Italia è stata la patria degli intrugli più disgustosi fra servizi segreti che hanno coperto stragi senza senso apparente (Ustica? Bologna?) perché loro il senso lo conoscevano benissimo. L'Italia dei killer a caccia di dissidenti, come quelli libici con diritto di uccidere nel 1980, l'Italia di Daniele Pifano con il lanciamissili sul balcone per abbattere un aereo israeliano, l'Italia che lascia ammazzare italiani ebrei alla sinagoga e che subisce senza fiatare l'attacco a Fiumicino; l'Italia con la kefiah arafattiana, in intrallazzo libanese, in affari sottosabbia con emirati e con tiranni di ogni dimensione e sorta, perché gli affari sono affari e con la speranza che così agendo alla fine qualcuno ti è grato e l'immunità si può comperare. Errore. Nella crociata appena scatenata e di cui la Francia vede le prime ferite non si fanno prigionieri, non si scontano cambiali, non esistono club di benemerenza. L'Italia fronteggia la nuova crisi in condizioni molto peggiori della Francia che, con i suoi sei milioni di musulmani registrati e perfino autoctoni, ha almeno consapevolezza del problema. Da noi no. Da noi la crociata che ci viene scagliata contro attraverso la paura (per ora, e tocchiamo ferro) con gli insulti, con le bugie e con un sostanziale antisemitismo strisciante che fa da miccia ai fuochi fatui delle discariche sembra apparentemente lontana: come guardare un cinghiale che ti carica con un binocolo rovesciato. Le carte si sono ormai rovesciate e da crociati che fummo noi europei - noi? e che c'entriamo noi? - ora siamo la Gerusalemme assediata da truppe militari e mediatiche, tagliagole e gente pronta a farsi saltare in aria senza batter ciglio. Ce la può fare l'Italia in mezzo alla tempesta di lava, colma com'è di pregiudizi e di oblio? Abbiamo visto ieri di che cosa si tratta. La crociata che la parte più aggressiva e sincera dell'Islam ha lanciato contro l'Occidente non potrà essere respinta soltanto con i corpi speciali chiamati a recuperare ostaggi e vendicare la libertà di espressione, prima ancora che la libertà di stampa. Che si tratti di una crociata contro di noi è ormai evidente. I nuovi crociati islamici si radunano per vie visibili sentieri militari carsici elettronici, tornano addestrati nelle patrie matrigne in cui sono nati ma che odiano, e assediano la nostra Gerusalemme al cui interno si commettono delitti impronunciabili come la parità dei diritti delle donne, la loro istruzione, la graduale garanzia di una vita sessuale gioiosa nel rispetto dell'età e del libero arbitrio. E poi il più satanico dei nostri peccati: la Storia. Abbiamo incoraggiato la Storia a svolgersi separando idee e secoli, costumi e mode, abbiamo festeggiato le nostre contraddizioni. I crociati islamici chiedono con le armi in pugno che il tempo resti inchiodato su un orologio di legno in cui tutti, sempre, ovunque, vestano, parlino, agiscano, in modo tale da non rendere possibile la distinzione fra un'era e un'altra, un prima e un dopo. I nuovi crociati che ci assediano con le catapulte per rovesciarci fuochi di angoscia e fiumi di sangue nelle nostre redazioni satiriche, nelle nostre scuole, nei luoghi simbolici come le torri di Babele di Manhattan, perché non vogliono che il mondo conosca le rughe del progresso, ma soltanto la levigatezza viscida dell'immobilità. Si legge che i nuovi combattenti giovanissimi dell'Isis, o del Jihad, o di al Quaida sono «entusiasti». Ebbri di entusiasmo, febbricitanti per il desiderio di infliggere la morte, la punizione, la vista orrenda delle decapitazioni, l'immagine dei bambini uccisi uno a uno in ginocchio nelle scuole. La loro adrenalina, quella dei nuovi crociati, scorre felice e divampante nelle loro arterie pulsanti e quell'adrenalina accende la furia della distruzione. Quel che i nuovi crociati islamici vogliono, anelano, sognano, è soltanto la distruzione. Chiamano Califfato la liberazione dalla libertà, la liberazione dalla ricerca scientifica, la liberazione da Mozart, da Michelangelo, da Picasso. La liberazione dalla scienza che produce ricerca e medicine, mentre l'estro dei liberi detta letteratura, musica popolare e poesia. E - i nuovi crociati - odiano più di tutti gli ebrei che originati da Giudea e Samaria, sicché per loro un supermercato kosher è un giusto obiettivo e un bambino ebreo di sei mesi un nemico da catturare. Finora la nostra Gerusalemme assediata ha traccheggiato, finto di non capire, agito con una colpevole lentezza zavorrata dai sensi di colpa che sono il più complicato frutto della civiltà occidentale. I due fratelli Kouachi, carnefici miserabili dei giornalisti armati di sola matita, sono stati uccisi nella tipografia di Dammartin - evidentemente non si poteva far altro - malgrado la raccomandazione di prenderli vivi. Ha prevalso il criterio di salvare le altre vite umane. Ma quanti sono disposti ad ammettere che sarebbe stato etico, giusto, buono e opportuno che i due Kouachi fossero stati interrogati, se presi vivi, con tutta la crudele energia necessaria per far loro dare tutte le informazioni utili per questa guerra? Ma l'Occidente assediato è ipocrita, prova orrore per le sue stesse armi e finge di credere che i nuovi crociati siano vittime, sue vittime, e li assolve in anticipo per ogni mostruoso show in cui si spengono vite. L'Occidente si flagella per le antiche crociate di mille anni fa, ma ignora che l'urbanistica e la paesistica italiana, i paesi arroccati sulle colline difesi da un maniero sono state stravolte dai predatori islamici che per secoli hanno stuprato, schiavizzato, deportato le nostre coste. Può farcela a resistere questo nostro Paese slogato dalla furbizia? Capirà che in modo pacato e sereno, senza furie inutili o grida di guerra, si deve preparare a una guerra, deve combattere e non farsi sopraffare? I nuovi crociati contano sulla nostra storica vocazione a fare il pesce in barile, meno interessato al pesce, molto al barile.

Non siamo tutti Charlie. Siamo politicamente corretti, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. Non siamo tutti Charlie. È inutile ripeterlo ossessivamente e prenderci in giro. Purtroppo, o semplicemente perché siamo diversi. Facciamocene una ragione. Siamo con Charlie Hebdo, ma non siamo Charlie Hebdo. Perché viviamo in un Paese che le vignette le cancella con la gomma dell’insofferenza e dell’arroganza, che incarcera i giornalisti e che detesta la critica. Viviamo in un Paese bigotto che vezzeggia gli islamici e minaccia di incarcerare chi sbeffeggia il capo dello Stato. Figuriamoci quanto sarebbe durato Charlie a queste latitudini; un settimanale che prende di mira Dio, Maometto e il Papa. Giovannino Guareschi è finito in galera per una risata di troppo. Difatti in Italia riviste di satira feroce e corrosiva non ce ne sono. E se ci sono, come il Vernacoliere, si dilettano a punzecchiare gli slombati politici italiani o gli innocui cattolici. Guai a toccare l’Islam. Più che per paura della vendetta dei maomettani (almeno fino a questa settimana) per il timore di finire sotto il tiro dei potenti gendarmi del politicamente corretto. La strage in redazione – in quella redazione – è un simbolo. Una sventagliata di mitra lanciata al sorriso dell’Occidente. Ci hanno buttato giù tutti i denti, ma noi dobbiamo sorridere anche sdentati. Perché quella è la nostra forza, deve essere la forza della nostra cultura. Il sorriso e l’irriverenza. Dobbiamo cercare di essere un po’ Charlie, di avere quello spirito, applicato alle nostre idee.  La solidarietà va bene. Ma togliamoci dalla testa di essere tutti Charlie. Perché dopo che ci hanno bruciato la redazione non so in quanti continueremmo a disegnare con costanza e a testa alta la nostra condanna. Mi viene in mente una frase di Ezra Pound: se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui.

Le Pen e Salvini i grandi esclusi. La sinistra non li vuole in piazza. Alla faccia dell'unità nazionale: Front National e Lega restano emarginati. Sono persone non gradite. Li temono più del terrorismo? Scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Alla faccia dell'unità nazionale. La minaccia terroristica dovrebbe ricompattare un Paese, senza distinguo. Ma la sinistra, anzi, le sinistre di Francia e Italia fanno comunella e stabiliscono chi possa partecipare o meno alle manifestazioni di solidarietà per le vittime delle stragi jihadiste. Questi prefetti del «buonismo» hanno perciò deciso che le patenti di presentabilità non vanno rilasciate alla Lega e al Front National. Sembra che abbiano più paura di Matteo Salvini e di Marine Le Pen che dei terroristi islamici. Così alla manifestazione di ieri, organizzata dal Pd, Sel, Anpi e compagnia cantante in piazza Duomo a Milano, la Lega non è stata invitata. Stessa musica a Parigi, dove la gauche caviar ha escluso il Front National dalla grande kermesse che si terrà oggi e dove sfileranno, oltre agli esponenti della sinistra francese anche quelli nostrani, con il premier Matteo Renzi in testa. «Mi fa pena pensare che Renzi sfilerà per le strade di Parigi, quando con le sue politiche a favore dell'immigrazione di massa è complice di quello che rischia di accadere in futuro - ha detto il segretario della Lega Salvini - L'islam è pericoloso, nel nome dell'islam ci sono migliaia di persone in giro per il mondo, e anche sui pianerottoli di casa nostra, pronte a sgozzare e a uccidere». Salvini, assieme ai militanti milanesi, ha distribuito ieri le vignette satiriche di Charlie Hebdo nei pressi del Palasharp, area nella quale la giunta rossa di Milano vuole autorizzare la costruzione di una moschea. «Sono preoccupato - ha aggiunto il leader leghista - perché sia il governo Renzi sia la giunta Pisapia non hanno capito cosa stanno facendo. La Lega farà tutto il possibile affinché le moschee non siano aperte, anche con referendum». Che si tratti di temi sensibili, lo ammettono tutti. Ma la sinistra, nonostante l'acclarata emergenza, appare miope, se non cieca. E il minimizzare il pericolo attentati e negare l'evidenza sulla minaccia jihadista, come hanno scelto di fare il presidente socialista François Hollande e la sua corte salottiera, ha fatto abbassare la guardia a un intero Paese, permettendo una strage senza precedenti a Parigi. Il nostro governo vuole copiare gli errori francesi? Ci auguriamo di no. Hollande e il suo esecutivo, come abbiamo già scritto nei giorni scorsi, erano più preoccupati dell'ascesa del Front National che del pericolo islamico incombente. Così hanno messo la sordina a tutti gli episodi premonitori per non portare ulteriori consensi al partito in ascesa della Le Pen. «In Francia, da tempo i presidenti di sinistra hanno paura di essere accusati di razzismo quando attaccano il terrorismo - ha affermato in un'intervista a La Repubblica il tesoriere del Front National, Walleran de Saint Just - E così anche noi veniamo tacciati di xenofobia, in modo vergognoso, solo perché siamo contro i terroristi. Questo atteggiamento deprime i francesi, che si sentono poco protetti. La sinistra ha una grande responsabilità morale e politica». Quindi, in Francia come in Italia, chi denuncia apertamente le minacce del fondamentalismo viene discriminato, isolato, delegittimato. Strategia molto cara ai post comunisti. Ma sono sicuri di essere al riparo facendo gli ignavi? Credono forse che il loro «politicamente corretto» impedisca al jihadista di turno di tagliargli la gola? Poveri illusi, gli integralisti islamici hanno un'unica parola d'ordine: gli infedeli devono essere cancellati. Per questo fanno ridere quando parlano di valori, di Occidente, di unità nazionale e allo stesso tempo discriminano una parte consistente del Paese. «È squallido che con i cadaveri ancora da seppellire ci sia qualcuno che isola altri, come la Lega e la Le Pen - ha spiegato Salvini - Poi saremmo noi a strumentalizzare? Noi rappresentiamo la maggioranza degli italiani». Sì, è davvero squallido attaccare le opinioni di una partito piuttosto che condannare i terroristi islamici.

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Un divario destinato a diventare voragine. Il divario con la cultura occidentale è destinato a diventare una voragine. Gli ospiti devono osservare le nostre regole, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. I fatti tragici di Francia sono l'ennesima conferma che esiste un abisso tra la cultura occidentale e quella di stampo islamico, che è sostanzialmente rimasta al Medioevo e non accenna a evolversi, anzi sta assumendo sempre di più i caratteri del fondamentalismo. Anche gli islamici immigrati da decenni si sono guardati dall'integrarsi nella nostra società e hanno conservato gelosamente abitudini e costumi atavici della loro terra, trasmettendo ai figli e ai nipoti tradizioni che collidono con le nostre. Altrimenti non si giustificherebbe che molti giovani della seconda e terza generazione, allevati e cresciuti in Europa, siano reclutati da gruppi terroristici animati dal desiderio di combattere contro le nazioni che li accolgono e che hanno concesso loro la cittadinanza con ogni diritto connesso. Non è il caso di dire che la nostra civiltà è superiore, ma non vi è dubbio che sia assai diversa e non si concili con quella improntata agli insegnamenti coranici, spesso interpretati arbitrariamente e/o pedestremente allo scopo di piegarli a scopi politici o bellici. La Bibbia contiene numerosi versi che incitano alla violenza simili a quelli del Corano, ma è indubbio che i cristiani ne abbiano offuscato il significato letterale: ora si attengono al Vangelo, considerando l'antico Testamento una sorta di libro mitologico. È altresì vero che nel secolo scorso, quindi abbastanza recentemente, la cultura occidentale ha espresso mostruosità attraverso regimi totalitari e sanguinari, il nazifascismo e il comunismo, ma è un dato che essi sono stati abbattuti o sono implosi sotto la spinta di movimenti democratici maggioritari. Non si può infine negare che dalle nostre parti abbia avuto il sopravvento l'Illuminismo, cui si deve la prevalenza dell'intelligenza personale sui dogmi religiosi, e ciò ha favorito una distinzione netta fra etica sacra e etica civile, la cui convivenza è realizzabile a condizione che non si sovrappongano, a rischio che una di esse sia annullata. Per noi occidentali sono inconcepibili sia lo Stato etico sia la teocrazia, che, invece, dominano nei Paesi dove gli islamici hanno trasformato in leggi i propri principi. Va da sé che teocrazia e democrazia sono antitetiche e, pertanto, incompatibili. I musulmani del resto, quelli immigrati nelle nazioni politicamente evolute, difficilmente riconoscono il primato dei codici democratici e obbediscono piuttosto ai precetti coranici, tramandati di padre in figlio, che stridono con il laicismo, accettato di buon grado perfino dagli italiani, per secoli succubi di un cattolicesimo oscurantista. I contrasti fra le due civiltà sono insanabili, e sembrano addirittura destinati ad accentuarsi: mentre l'Occidente progredisce anche sul piano dei diritti umani e civili, il Medio Oriente rimane fermo, ingessato nei pregiudizi. Tutto questo non significa che i cristiani europei e americani abbiano tutte le ragioni e nessun torto. Il terrorismo è un fenomeno relativamente nuovo e cominciato per ritorsione contro di noi, autori di autentiche invasioni militari in Irak, Kuwait e Afghanistan (per citarne alcune) che hanno inasprito i rapporti, esasperato gli animi e provocato centinaia di migliaia di vittime che hanno acceso lo spirito di vendetta nelle popolazioni aggredite. Sappiamo che certe iniziative belliche sono state assunte dagli Stati Uniti e alleati non con finalità umanitarie, bensì economiche: per vari lustri l'obiettivo non era liberare popoli oppressi da satrapie ed esportare la democrazia tra gente che non sa nemmeno cosa essa sia, bensì per succhiare petrolio e controllare (male) il mondo. Anche di questo bisogna tenere conto se intendiamo capire: ciò che accade oggi è la conseguenza anche di quanto accaduto in passato. Dopo di che è buona cosa persuadersi che andare d'accordo si può, ma con metodi diversi da quelli adottati sino ad ora. Il terrorismo si vince concedendo a tutti piena libertà, ma ciascuno a casa propria e non in quella di altri. E gli ospiti si comportino da ospiti e non da contestatori: si adattino allo stile di chi li ha invitati o tornino in patria. La base del rispetto è non intromettersi nelle vicende che non ci riguardano. A ogni Paese va data la facoltà di trovare al proprio interno il modo di risolvere i propri problemi, anche mediante la guerra civile. E gli Stati Uniti si mobilitino soltanto su gentile richiesta e non per ristabilire l'ordine a essi caro, ma sgradito a chi lo subisce. Viceversa saremo sempre in guerra.

Perugia, gruppo di stranieri profana una statua della Madonna. Un gruppetto di immigrati ha distrutto una statua della Vergine e ci ha urinato sopra. Ma il vescovo ammonisce: "Non è un atto di odio religioso", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Una profanazione rivoltante, che ha offeso la sensibilità di tutta Perugia. Una statua della Madonna distrutta e presa a calci da un gruppo di vandali stranieri, che sopra l'immagine sacra avrebbe anche orinato. Un uomo stava pregando davanti alla Madonnina di via Tilli, inginocchiato con la fotografia di una persona cara in mano, quando è stato aggredito da un gruppo di stranieri che lo hanno insultato e gli hanno strappato la foto dalle mani. Quindi si sono accaniti contro la statua della Vergine, scaraventandola giù dall'edicola e spezzandola in due. Quindi, racconta la Nazione, hanno aggravato l'oltraggio spingendosi fino ad orinarci sopra. Venerdì, fortunatamente, la statua è stata ricollocata nella sua collocazione originaria e sul luogo della profanazione è stato recitato un Santo Rosario di riparazione. Dalla Diocesi è arrivata una ferma condanna dell'atto sacrilego, ma anche un invito a "non attribuire questo episodio a un gesto di odio religioso". "Per l'Islam la figura di Maria è molto importante: è la Madre del profeta Gesù concepito nella verginità e la Beata Vergine è la donna più santa - ha commentato il vescovo ausiliare di Perugia-Città della Pieve, mons. Paolo Giulietti - Molti musulmani vengono in preghiera nei santuari mariani del Medio Oriente. Non si può attribuire questo gesto di vandalismo, che come ho detto va condannato in ogni senso, ad un episodio di odio religioso. E' importante non alimentare la diffidenza reciproca soprattutto in questo momento."

Complotti e teoremi: imbecilli scatenati sul web. I dietrologi sono scatenati, negano persino l'esecuzione del poliziotto: "Poco sangue", scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Un partito dell'imbecillità politicamente connotato a sinistra. È quello che sta emergendo, soprattutto sui social network, in questi giorni successivi agli attentati terroristici di Parigi. Un partito transnazionale che ha le sue propaggini nel nostro Paese e che ha una sua precisa carta d'identità «ideologica»: cercare di difendere l'Islam in quanto alternativo all'Occidente e agli Stati Uniti. Parlare di America non è un caso. Come dopo l'11 settembre anche in questi giorni su Facebook e Twitter spuntano strane manifestazioni che mettono in dubbio la veridicità dei fatti. In particolar modo, ha suscitato molti dubbi l'uccisione del poliziotto Ahmed Merabet: «Non si vede il bossolo» e «c'è poco sangue» sono i capisaldi dei complottisti. Che sono sicuri della volontà della Cia o del Mossad di creare un nemico in realtà inesistente. Certo, vista la commozione suscitata dai massacri molti tendono a frenarsi, ma alcuni non ci riescono proprio. Il caso più eclatante in Italia è stato quello del Movimento 5 Stelle: il blog di Grillo ha lasciato spazio a una considerazione del professor Aldo Giannuli che non ha messo in dubbi che la strage sia stata di matrice islamica, ma che gli attentatori siano stati «lasciati fare» da qualcuno. E fin qui siamo nella classica dietrologia all'italiana. Poi, che deputati grillini come Bernini o Sibilia (quello dei microchip) abbiano dato corda a queste tesi, enfatizzando l'omicidio dell'economista antieuro Bernard Maris nella sede di Charlie Hebdo , è un altro paio di maniche. Anche il rigoroso Fatto Quotidiano tra i blog del proprio sito internet ha ospitato l'intervento di una giornalista, Ludovica Amici, che ha scritto: «Chi paga questi jihadisti, chi li addestra e chi li arma, considerato che giravano con dei kalashnikov? I due fratelli potrebbero aver combattuto in Siria con armi fornite loro dal governo francese». Insomma, la verità sembra sempre accertata, ma potrebbe anche essere differente da quella che tutti sembrano osservare. Un po' come Piazza Fontana: dietro c'è sempre un «grande capo» che ha orchestrato tutto. Oppure, ci sono Paesi che in qualche modo si sentono discriminati, a torto o a ragione, che ne approfittano per fare propaganda. Ad esempio, una televisione russa ha sostenuto che gli attentati siano stati organizzati ad hoc per aumentare la pressione contro Mosca. Stesso discorso in Turchia dove la laicità dello Stato viene da più parti messa in discussione. Dietro la strage ci sarebbero servizi segreti deviati con lo scopo di «far crescere l'islamofobia», ha scritto il quotidiano Yeni Safak . Sempre in Turchia c'è chi vede il dittatore siriano Bashar al-Assad, nemico dichiarato dell'Isis, come ispiratore del clima da guerra fredda. E anche in Paesi moderati come la Georgia è stato hackerato il sito della catena francese di supermercati Carrefour con un messaggio eloquente: «Siamo musulmani, il Corano è il nostro libro, crediamo e lavoriamo per Dio, maledetto sia Charlie Hebdo !». Non è un caso: dappertutto l'Islam è l'ultima ancora di salvezza contro il capitalismo americano dopo il crollo dell'Urss. E torniamo così al grillino Bernini. «Non a caso tutte le guerre moderne dell'America nascono da una menzogna!», ha scritto. Come volevasi dimostrare.

La nostra lotta al terrorismo? I giudici condannano Allam. Il verdetto contro il giornalista a Milano, nei giorni degli attentati in Francia. Per le toghe ha offeso i musulmani, ma nel 2007 aveva solo predetto: "Tentano di imporci lo stato islamico", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Siamo tutti Charlie Hebdo. Però l'asticella della libertà di parola non è fissata una volta per tutte. Oscilla, può salire ma può anche scendere ed essere compressa quando le parole sono un atto d'accusa. Capita, è capitato in questi giorni drammatici innescando un cortocircuito inquietante fra la tragedia di Parigi e il palazzo di giustizia di Milano. Dove Magdi Cristiano Allam, giornalista e scrittore, è stato bacchettato per il suo j'accuse contro l'Ucoii, l'Unione delle Comunità islamiche italiane. Nessun legame diretto, ci mancherebbe, fra l'Italia e la Francia, però una vicenda su cui riflettere. Dunque, Allam, oggi editorialista del Giornale e in passato vicedirettore del Corriere della sera , viene condannato per un articolo in cui attacca il volto più importante dell'Islam italiano. In primo grado Allam era stato assolto: i giudici del tribunale civile di Milano gli avevano fatto scudo dietro il principio della libertà di critica. Oggi quella protezione viene tolta dalla corte d'appello che capovolge il verdetto e condanna Allam a risarcire l'Ucoii. Un dietrofront clamoroso, proprio nelle ore in cui la Francia e l'Occidente vivono una delle pagine più buie della loro storia e il mondo intero si interroga sulle ambiguità dell'Islam e si chiede dove passi il confine fra l'Islam cosiddetto moderato e quello più radicale. Nel pezzo pubblicato il 4 settembre 2007 Allam racconta la storia di Dounia Ettaib, allora vicepresidente dell'Associazione donne marocchine, aggredita da alcuni connazionali vicino alla moschea di viale Jenner a Milano. Un grave episodio di intimidazione, ancora più grave perché accaduto nelle nostre strade. Allam definisce «tutti noi italiani vittime, inconsapevoli o irresponsabili, pavidi o ideologicamente collusi, che non vogliamo guardare in faccia la realtà, che temiamo al punto di essere sottomessi all'arbitrio o alla violenza di chi sta imponendo uno stato islamico all'interno del nostro traballante stato sovrano». Parole, come si vede, attuali che paiono scritte dopo la tragedia del giornale satirico francese. Parole che in primo grado i giudici avevano ritenuto non censurabili perché frutto delle legittime opinioni di Allam. Ora il giudizio cambia e arriva la condanna. Nel pezzo Allam faceva anche i nomi e i cognomi di chi sosteneva le tesi dell'Islam più radicale e aveva chiamato in causa l'Ucoii: non c'è «alcun dubbio che nelle moschee e nei siti islamici dell'Ucoii e di altri gruppi islamici radicali si legittimi la condanna a morte degli apostati e dei nemici dell'Islam». Sarebbe questo il punto controverso che avrebbe portato alla condanna di Allam: per i magistrati non si tratterebbe di libertà di critica ma di diffamazione. «La verità - spiega al Giornale l'avvocato Luca Bauccio, legale dell'Ucoii- è che Allam ha scritto il falso. Non è vero che l'Ucoii dia una qualche forma di copertura alle tesi dell'Islam più violento. Anzi, l'Ucoii è l'unica associazione di matrice islamica che abbia firmato la Carta dei valori e ammessa alla Consulta dell'Islam». Il tema è difficile e scivoloso, ma certo Allam è uno degli opinionisti più acuti e duri nei confronti dell'Islam. E della minaccia che oggi le schegge militarizzate del jihidaismo rappresentano per l'Italia. L'articolo incriminato si concludeva con una domanda angosciante che otto anni dopo è ancora lì, pesante come un macigno: «Continueremo a imitare lo struzzo votato al suicidio nell'attesa che i terroristi islamici attuino la loro giustizia qui a casa nostra?» Un quesito che Allam rilancia oggi: «Io racconto la realtà dell'Islam che i tanti commentatori politically correct non vogliono sentire: l'Islam è incompatibile con la nostra democrazia e la nostra civiltà. In gioco non c'è solo la mia libertà di parola, ma quella di tutti noi».

L’urlo di Khomeini: «L’Islam è tutto, la democrazia no». La scrittrice intervistò il leader della rivoluzione iraniana nel 1979. Indossava il chador. Ma alla fine dell’incontro se lo tolse. L’ayatollah scavalcò il velo e sparì. Scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista all’ayatollah Khomeini, uscita per il «Corriere della Sera» il 26 settembre 1979. Nella stanzaccia, assiso con le gambe incrociate sul tappetino bianco e blu, immobile come una statua e coperto da una tunica di lana marrone, stava il padrone dell’Iran, il gran condottiero dell’Islam: Sua Eccellenza Santissima e Reverendissima Ruhollah Khomeini. Era un vecchio molto vecchio. E appariva così remoto dietro la superbia, così vulnerabile, insieme solenne, da farti dubitare che avesse soltanto gli ottant’anni dichiarati secondo un calcolo approssimativo, comunque ipotetico, visto che lui stesso ignorava la sua data di nascita. Era anche il più bel vecchio che avessi mai incontrato. Volto intenso, scolpito ad arte, con quelle rughe che lo incidevano a colpi d’ascia in solchi legnosi, quella fronte altissima sul naso importante e ben disegnato, quelle labbra sensuali e imbronciate da maschio che ha molto sofferto a reprimere le tentazioni della carne o forse non le ha represse mai. E quella barba candida, compatta, davvero michelangiolesca. Quelle sopracciglia severe, di marmo, sotto le quali cercavi i suoi occhi con una specie di ansia. Gli occhi infatti non si vedevano perché teneva le palpebre semiabbassate, lo sguardo ostentatamente fisso sul tappetino, quasi volesse dirmi che non meritavo nessuna attenzione. O quasi che dedicarmi attenzione offendesse il suo orgoglio, la sua dignità. Traboccava dignità, questo è certo. Non potevi immaginarlo in mutande, attribuirgli il ridicolo che caratterizza i dittatori. Anzi, al posto di esso coglievi una misteriosa tristezza, un misterioso scontento che lo consumava come una malattia. E in tale scoperta registravi sbalordito i sentimenti che suscitava a osservarlo: un rispetto ineluttabile, una tenerezza inspiegabile, una scandalosa attrazione di cui provavi invano vergogna. Lo aveva scritto proprio lui il Libro Azzurro? Era stato proprio lui a scaraventare tutti nella catastrofe, dipendevano proprio da lui tante infamie, tanti obbrobri? Sì, e che non me ne dimenticassi. Che non mi lasciassi distrarre dal suo enigmatico carisma, sedurre dal suo fascino di antico patriarca. E mentre Bani Sadr si insediava al suo fianco, Salami si sistemava a riguardosa distanza, mi accucciai dinanzi al nemico: decisa ad attaccarlo subito, ignara dell’altrui viltà che all’inizio avrebbe turbato il progetto.

Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani. Ogni sua decisione, ogni suo desiderio è un ordine. E sono molti ha portato la libertà, semmai ha finito di ucciderla. Rimase con le palpebre semiabbassate, lo sguardo fisso sul tappetino, e con voce talmente fioca da sembrare l’eco di un sussurro compilò una risposta che Bani Sadr riferì in preda a uno strano imbarazzo. «Conosciamo il suo lavoro e il suo nome. Sappiamo che lei ha viaggiato per molti Paesi e molte genti vedendo guerre, interrogando uomini forti. La ringraziamo dunque degli omaggi che ci porge e delle sue condoglianze per la scomparsa dell’ayatollah Talegani.» Stava prendendomi in giro oppure Bani Sadr non gli aveva tradotto la mia domanda? Mi rivolsi smarrita a Salami. Con un lieve cenno della testa, Salami mi fece capire che il vigliacco non aveva tradotto la domanda. «Traducila tu!» La tradusse, sia pure impallidendo. Ma le palpebre rimasero semiabbassate, le invisibili pupille continuarono a fissare il tappetino, e non un cenno di emozione incrinò la voce fioca che centellinava ogni parola. «L’Iran non è nelle mie mani. L’Iran è nelle mani del popolo. Perché è stato il popolo a consegnare il paese al suo servitore, a colui che vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente s’è riversata nelle strade a milioni e senza la minaccia delle baionette. E questo significa che in Iran c’è libertà, che il popolo segue gli uomini di Dio. E questo è simbolo di libertà.» Bè, sapeva difendersi. Aveva perfino neutralizzato possibili provocazioni sulla natura di quella morte facendo per primo il nome di Talegani, quindi impedendo su tal soggetto un colpo alla mascella. Lanciai un’occhiataccia a Bani Sadr per avvertirlo di non combinare altri scherzi e continuai.

No, Imam Khomeini: forse non mi sono spiegata bene. Mi permetta di insistere. Volevo dire che siamo in molti, in Iran e fuori, a definirla un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo tiranno, il nuovo scià della Persia. Ma dalla risposta che Bani Sadr mi dette fu chiaro che anche stavolta aveva inventato una domanda innocua, e per questo era venuto a Qom, s’era imposto come traduttore: per manipolar l’intervista e non correre rischi. «Sì, la sconfitta del tiranno ci ha portato un’epoca densa di valori e di moralità. Noi ce ne rallegriamo e ci sentiamo onorati di interpretar quei valori e tale moralità. Apprezziamo dunque la seconda domanda e...» «Stop!» Zittii Bani Sadr e di nuovo mi rivolsi a Salami che di nuovo confermò il tradimento con un lieve cenno della testa. Allora mi chinai su Khomeini cercando di farmi capire in qualche lingua al di fuori del farsi. «No, Imam, no! Il signor Bani Sadr non mi traduce. Il ne me traduit pas. He does not translate me. Understand, comprì? Ho detto che oggi è lei il dittatore, il tiranno, lo scià. Aujourd’hui c’est vous le dictateur, le tyran, le nouvel shah. Vous. Comprì? Today it is you the dictator, the tyrant, the new shah. Understand?» Capì. O almeno intuì. Infatti le sue palpebre si sollevaron di colpo, e mentre un lampo feroce mi trafiggeva con la violenza di una coltellata vidi finalmente i suoi occhi: intelligentissimi, duri, terrificanti. Però fu un attimo, e passato quello tornarono a concentrarsi sul tappetino. Fissando il tappetino sibilò a Bani Sadr qualcosa che doveva esser tremendo perché il visuccio malinconico diventò grigio, i baffetti parvero vibrare di panico, e rivoli di sudore presero a colare giù per le tempie, le guance, il collo. Poi una mano michelangiolesca come la barba si levò con sdegno a indicargli che era destituito dall’incarico e un indice imperioso ordinò a Salami di sedergli accanto per sostituirlo. Tremando d’emozione Salami si alzò e sedette alla sua destra. «Non aver paura, traducigli quello che ho detto. E chiedigli se ciò lo addolora o lo lascia indifferente» lo incoraggiai. Salami tradusse coraggiosamente. Khomeini restò imperterrito. «Da una parte mi addolora, sì, perché chiamarmi dittatore è ingiusto e disumano. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nemici. Con la strada che abbiamo intrapreso, una strada che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. No, non m’illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e divorarci si mettano zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, a lei risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alla donne?».

No, non mi risulta, Imam. E io non l’ho accusata di tagliare i seni alle donne. Però anche senza tagliare i seni alle donne lei fa paura. Il suo regime vive sulla paura. Hanno tutti paura e fanno tutti paura. Anche questa folla che la invoca fa paura. La sente? Dalla finestra alle sue spalle giungeva il frastuono degli scalmanati dietro il primo e il secondo posto di blocco. «Zandeh bad, Imam! Payandeh bad!» E spesso soffocava le nostre voci. «Lo sento eccome. Lo sento anche di notte».

E che cosa prova a sentirli gridare così anche di notte? Che cosa prova a sapere che per vederla un istante si farebbero ammazzare? «Ne godo. Non si può non goderne. Sì, godo quando li ascolto e li vedo. Perché il loro grido è lo stesso con cui cacciarono l’usurpatore, perché sono i medesimi che lo cacciarono, e perché è bene che continuino a bollire in quel modo. Finché i nemici interni ed esterni non saranno domati, finché il Paese non si sarà assestato, bisogna che bollano. Devono essere accesi e pronti a marciare quand’è necessario. E poi il loro è amore».

Amore o fascismo, Imam? A me sembra fanatismo, e del genere più pericoloso. Cioè quello fascista. Chi potrebbe negare che oggi esiste in Iran una minaccia fascista? E forse un fascismo s’è già consolidato. «No, il fascismo non c’entra. Il fanatismo non c’entra. Io ripeto che gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, per applicare i comandamenti dell’Islam. L’Islam è giustizia, nell’Islam la dittatura è il più grande dei peccati, quindi fascismo e islamismo sono due contraddizioni inconciliabili».

Forse non ci comprendiamo sulla parola fascismo, Imam. Io parlo del fascismo come fenomeno popolare, per esempio del fascismo che gli italiani avevano al tempo di Mussolini quando le folle applaudivano Mussolini come ora applaudono lei. E gli obbedivano come ora obbediscono a lei.  «No, quel fascismo si verifica da voi in Occidente, non tra i popoli di cultura islamica. Le nostre masse sono masse mussulmane, educate dal clero e cioè da uomini che predicano la spiritualità e la bontà, quindi quel fascismo sarebbe possibile soltanto se tornasse lo scià oppure se venisse il comunismo. Gridare il mio nome non significa esser fascisti, significa amare la libertà». Ora che le mie domande gli venivano riferite, l’attacco era facile. Però a ciascuna si difendeva meglio, con la bravura di un campione che riesce a schivare qualsiasi colpo cattivo o imprevisto, la resistenza di un incassatore che non si piega nemmeno se gli tiri un pugno nel basso ventre, e faceva questo usando due tecniche rare: l’imperturbabilità e la sincerità. Dopo avermi trafitto con quel lampo feroce non aveva più alzato gli occhi e, senza mai staccare lo sguardo dal tappetino, senza mai muovere un dito o un muscolo, senza mai cambiare il tono della sua voce fioca, rispondeva a ogni accusa o insolenza. Non riuscivo a scomporlo. E non ci riuscivo perché, ecco il punto, credeva fermamente in ciò che diceva: credendoci, non aveva bisogno di ricorrere alle furbizie o alle bugie con cui si difendono sempre gli uomini di potere. Quasi ciò non bastasse, gli piaceva il duello con la straniera che aveva viaggiato per molti Paesi e per molte genti ma ora se ne stava ai suoi piedi ingoffata da chili di cenci a lei estranei, e in segreto gioiva dei suoi assalti.

Allora parliamo della libertà, Imam Khomeini. In uno dei suoi primi discorsi lei disse che il nuovo governo avrebbe garantito libertà di pensiero e di espressione. Tuttavia questa promessa non è stata mantenuta e basta che uno vada contro i suoi precetti perché lei lo maledica e punisca. Per esempio, chiama i comunisti Figli di Satana, le minoranze curde Male sulla Terra...«Lei prima afferma e poi pretende che io spieghi le sue affermazioni. Addirittura pretenderebbe che io permettessi i complotti di chi vuol portare il Paese alla corruzione. La libertà di pensare e di esprimersi non significa libertà di congiurare e corrompere. Per più di cinque mesi io ho tollerato coloro che non la pensano come noi, ed essi sono stati liberi di fare ciò che volevano, ciò che gli concedevo. Attraverso il signor Bani Sadr qui presente ho perfino invitato i comunisti a dialogare con noi. E in risposta essi hanno bruciato i raccolti di grano, hanno dato fuoco alle urne elettorali, hanno reagito con armi e fucili, riesumato il problema dei curdi. Così quando abbiamo capito che approfittavano della nostra tolleranza per sabotarci, quando abbiamo scoperto che erano nostalgici dello scià, ispirati dall’ex regime nonché dalle forze straniere che mirano alla nostra distruzione, li abbiamo messi a tacere.»

Imam Khomeini, ma come può definire nostalgici dello scià uomini che contro lo scià si sono battuti, che dallo scià sono stati perseguitati e arrestati e torturati, che insomma hanno tanto contribuito alla sua caduta? I vivi e i morti a sinistra, dunque, non contano nulla? «Non contano nulla perché non hanno contribuito a nulla, non hanno servito in nessun senso la rivoluzione. Non hanno né combattuto né sofferto, semmai hanno lottato per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla nostra vittoria, non hanno avuto nessun rapporto col movimento islamico, non hanno esercitato alcuna influenza su di esso. Anzi, gli hanno messo i bastoni fra le ruote. Durante il regime dello scià erano contro di noi quanto lo sono ora, e ci odiavano più dello scià. Non a caso l’attuale complotto ci viene da loro e il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una vera sinistra ma di una sinistra artificiale, partorita e allattata dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e per distruggerci».

In altre parole, quando parla di popolo, lei si riferisce soltanto ai suoi fedeli. E secondo lei questa gente s’è fatta ammazzare per l’Islam, non per avere un po’ di libertà. «Per l’Islam. Il popolo s’è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto, anche ciò che nel suo mondo viene chiamato libertà e democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto, l’Islam ingloba tutto, l’Islam è tutto».

Non capisco. Mi aiuti a capire. Che cosa intende per libertà? «La libertà... Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole senza essere costretti a pensarne altre... E anche alloggiare dove si vuole... Esercitare il mestiere che si vuole...». Bè, incominciava a barcollare e con un po’ di sforzo si poteva forse colpirlo alla mascella.

Alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e nient’altro. Pensare quanto si vuole ma non esprimere e materializzare quello che si pensa. Ora capisco meglio, Imam. E per democrazia cosa intende? Perché, se non sbaglio, indicendo il referendum per la repubblica lei ha proibito l’espressione Repubblica Democratica Islamica. Ha cancellato l’aggettivo Democratica, ha ridotto l’espressione a Repubblica Islamica, e ha detto: “Non una parola di più, non una di meno”. Si riprese subito. «Per incominciare, la parola Islam non ha bisogno di aggettivi. Come ho appena spiegato, l’Islam è tutto: vuol dire tutto. Per noi è triste mettere un’altra parola accanto alla parola Islam che è completa e perfetta. Se vogliamo l’Islam, che bisogno c’è di aggiungere che vogliamo la democrazia? Sarebbe come dire che vogliamo l’Islam e che bisogna credere in Dio. Poi questa democrazia a lei tanto cara e secondo lei tanto preziosa non ha un significato preciso. La democrazia di Aristotele è una cosa, quella dei sovietici è un’altra, quella dei capitalisti un’altra ancora. Non potevamo quindi permetterci di infilare nella nostra Costituzione un concetto così equivoco. Poi per democrazia intendo quella che intendeva Alì. Quando Alì divenne successore del Profeta e capo dello Stato Islamico, e il suo regno andava dall’Arabia Saudita all’Egitto, e comprendeva gran parte dell’Asia e anche dell’Europa, e questa confederazione aveva ogni tipo di potere, egli ebbe una divergenza con un ebreo. E l’ebreo lo fece chiamare dal giudice. E Alì accettò la chiamata del giudice. E andò, e vedendolo entrare il giudice si alzò in piedi. Ma Alì gli disse, adirato: “Perché ti alzi quando io entro e non quando entra l’ebreo? Davanti al giudice i due contendenti devono essere trattati nel medesimo modo”. Poi si sottomise alla sentenza che gli fu contraria. Chiedo a lei che ha viaggiato per molti Paesi e per molte genti: può fornirmi un esempio di democrazia migliore?».

Sì. Quella che permette qualcosa di più che alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e pensare senza esprimere ciò che si pensa. E questo lo dicono anche gli iraniani che, come noi stranieri, non hanno capito dove vada a parare la sua Repubblica Islamica. «Se non lo capiscono certi iraniani, peggio per loro. Significa che non hanno capito l’Islam. Se non lo capite voi stranieri, non ha importanza. Tanto la cosa non vi riguarda. Non avete nulla a che fare con le nostre scelte.» Menomale: l’atmosfera incominciava a riscaldarsi. Quindi non era impossibile fargli perder le staffe. Bastava tener testa alla sua resistenza di incassatore. Rincarai la dose.

Forse la cosa non ci riguarda, Imam, però il dispotismo che oggi viene esercitato dal clero riguarda gli iraniani. E, visto che siamo qui per parlare di loro, vuol spiegarmi il principio secondo cui il capo del Paese dev’essere la suprema autorità religiosa e cioè lei? Vuol spiegarmi perché le decisioni politiche devono esser prese soltanto da coloro che conoscono bene il Corano e cioè da voi preti?. «Il Quinto Principio sancito dall’Assemblea degli Esperti nella stesura della Costituzione stabilisce ciò che lei ha detto e non è in contrasto col concetto di democrazia. Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro e del futuro presidente della Repubblica. Se io non esercitassi tale sovrintendenza, essi potrebbero sbagliare o andare contro la legge cioè contro il Corano. Io oppure un gruppo rappresentativo del clero, ad esempio cinque saggi capaci di amministrare la giustizia secondo l’Islam».

Ah, sì? Allora occupiamoci della giustizia amministrata da voi del clero, Imam. Cominciamo con le cinquecento fucilazioni che in questi pochi mesi sono state eseguite in Iran. Mi dica se lei approva il modo sommario con cui vengono celebrati questi processi senza avvocato e senza appello. «Evidentemente voi occidentali ignorate chi erano coloro che sono stati fucilati. O fingete di ignorarlo. Si trattava di persone che avevano partecipato ai massacri, oppure di persone che avevano ordinato i massacri. Gente che aveva bruciato le case, torturato i prigionieri segandogli le braccia e le gambe, friggendoli vivi su griglie di ferro. Avremmo dovuto forse perdonarli, lasciarli andare? Quanto al permesso di rispondere alle accuse e difendersi, glielo abbiamo concesso: potevano replicare ciò che volevano. Una volta accertata la loro colpevolezza, però, che bisogno c’era dell’avvocato e dell’appello? Scriva il contrario, se vuole: la penna ce l’ha in mano lei. Si ponga le domande che desidera: il mio popolo non se le pone. E aggiungo: se non avessimo ordinato quelle fucilazioni, la vendetta popolare si sarebbe scatenata senza controllo. E i morti, anziché cinquecento, sarebbero stati migliaia».

Lo saranno, di questo passo, Imam. E comunque io non mi riferivo ai torturatori e agli assassini della Savak. Mi riferivo alle vittime che con le colpe del passato regime non avevano nulla a che fare. Insomma, le creature che ancora oggi vengono giustiziate per adulterio o prostituzione o omosessualità. È giustizia, secondo lei, fucilare una povera prostituta o una donna che tradisce il marito o un uomo che ama un altro uomo? «Se un dito va in cancrena, che cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo, oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini. Ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette. Nell’Islam noi vogliamo condurre una politica che purifichi. E affinché questo avvenga bisogna punire coloro che portano il male corrompendo la nostra gioventù. Che a voi occidentali piaccia o non piaccia, non possiamo permettere che i cattivi diffondano la loro cattiveria. Del resto voi occidentali non fate lo stesso? Quando un ladro ruba, non lo mettete in prigione? In molti Paesi, non giustiziate forse gli assassini? Non lo fate perché, se restano liberi e vivi, infettano gli altri e allargan la macchia della malvagità? Sì, i malvagi vanno eliminati: estirpati come le erbacce». Aveva detto questo con la solita imperturbabilità. Era venuta anche una mosca, mentre parlava, ed era andata a posarsi sulla sua mano sinistra: grattandosi il capino con le zampette e abbandonandosi a ogni sorta di capriole e di danze. Ma lui non aveva neanche fatto il gesto di liberarsene, le aveva addirittura permesso di salire fino alla sua barba dove ora giocava tutta contenta fra i peli bianchi. E mi faceva impazzire perché mi distraeva e perché stava diventando il simbolo della mia impotenza. Possibile che non barcollasse almeno un poco, che non si arrabbiasse almeno per un secondo? L’unico segno di cedimento era il respiro che di risposta in risposta diventava più fievole denunciando la debolezza del vecchio che ogni tanto ha bisogno di un sonnellino. Sicché, oltre all’irritazione, c’era l’angoscia che mi si addormentasse sotto il turbante. Bisognava impedirlo.

«Imam Khomeini, come osa mettere sullo stesso piano una belva della Savak e un cittadino che esercita la sua libertà sessuale? Prenda il caso del giovanotto che ieri è stato fucilato per pederastia...» «Corruzione, corruzione. Bisogna eliminare la corruzione».

Prenda il caso della diciottenne incinta che poche settimane fa è stata fucilata per adulterio. «Bugie, bugie. Bugie come quelle dei seni tagliati alle donne. Nell’Islam non accadono queste cose, non si fucilano le donne incinte».

Non sono bugie, Imam. Tutti i giornali iraniani hanno parlato di quella ragazza incinta e fucilata per adulterio. Alla televisione c’è stato anche un dibattito sul fatto che al suo amante fosse stata inflitta soltanto una pena di cento frustate sulla schiena. «Se a lui hanno dato cento frustate e basta, vuol dire che meritava le frustate e basta. Se a lei hanno dato la pena di morte, vuol dire che meritava la pena di morte. Io che ne so. Lo chieda al tribunale che l’ha condannata. E poi basta parlare di queste cose: libertà sessuale eccetera. Non sono cose importanti. Uhm! Libertà sessuale. Che cosa significa libertà sessuale. Tutto questo mi stanca. Basta!» Ecco, succedeva. Si addormentava.

Allora parliamo dei curdi che vengono fucilati perché vogliono l’autonomia, Imam. Parliamo...«Quei curdi non sono il popolo curdo. Sono sovversivi che agiscono contro il popolo come quello che ieri ha ammazzato tredici soldati. Io quando li catturano e li fucilano ne provo un gran piacere. Basta. Non voglio parlare neanche di questo, basta. Sono stanco. Voglio riposare». Intervenne Ahmed, con l’aria del principe ereditario cui spetta applicare i desideri del re. «L’Imam ha ripetuto basta. L’Imam è stanco e vuole riposare. L’Imam non vuole più parlare di queste cose». «Allora parliamo dello scià». «No, deve salutarlo e lasciar che riposi. L’ora è passata da almeno mezz’ora. Lo saluti e se ne vada». Ma la parola «scià» era giunta ai divini orecchi. E aveva ottenuto quello che neanche la mosca sulla mano poi sulla barba era riuscita a ottenere con le sue danze e le sue capriole. Inaspettatamente l’immobile turbante si mosse e gli immobili occhi dimenticarono il tappetino per posarsi su Salami. «Ha detto scià?». «Sì, Eccellenza Santissima e Reverendissima». «Che cosa vuol sapere dello scià?». «Ha chiesto che cosa vuoi sapere dello scià» sospirò Salami con espressione preoccupata.

Questo, Imam. Qualcuno ha ordinato di ammazzare lo scià all’estero e ha chiarito che il giustiziere verrà considerato un eroe. Se poi morirà nell’azione, andrà in Paradiso. È lei quel qualcuno? «No! Io non voglio che sia giustiziato all’estero. Io voglio che sia catturato e riportato in Iran e processato in pubblico per cinquant’anni di reati contro il popolo, inclusi i reati di tradimento e di furto. Furto di capitali. Se muore all’estero, quel denaro va perduto. Se lo processiamo qui, ce lo riprendiamo. No, no: io lo voglio qui. Qui! Lo voglio tanto che prego per la sua salute come l’ayatollah Modarres pregava per la salute dell’altro Pahlavi, il padre di questo Pahlavi che era fuggito anche lui portandosi dietro un mucchio di soldi. So che è malato. Me ne dispiace perché potrebbe morire di malattia. Guai se morisse di malattia e mentre sta all’estero».

Ma se vi desse quei soldi, lei smetterebbe di pregare per la sua salute? «Se ci restituisse il denaro, quella parte del conto sarebbe saldata. Ma resterebbe il tradimento che egli ha commesso contro l’Islam e contro il suo Paese. Resterebbe il massacro del Venerdì Nero, il massacro del 15 Kordat cioè di sedici anni fa, e non si può perdonargli i morti che ha lasciato dietro di sé. Soltanto se i morti resuscitassero io mi accontenterei di riavere il denaro che lui e la sua famiglia hanno rubato».

Intende dire che l’ordine di catturarlo e riportarlo in Iran vale anche per la sua famiglia? «Colpevole è colui che ha commesso il reato. Se la famiglia non ha commesso reati, non vedo perché dovrebb’essere condannata. Appartenere alla famiglia dello scià non è un crimine. Non mi risulta ad esempio che il figlio Reza si sia macchiato di colpe verso il popolo, quindi non ho nulla contro di lui. Può rientrare in Persia quando vuole e viverci come un normale cittadino. Che venga».

«Io dico che non viene». «Se non vuol venire, non venga».

E Farah Diba? «Per lei deciderà il tribunale».

E Ashraf? «Ashraf è la gemellaccia dello scià, ladra e traditrice come lui. Per i crimini che ha commesso dev’essere processata e condannata come lui. Sì, voglio anche la gemellaccia».

E l’ex primo ministro Bakhtiar? Bakhtiar dice che ha già pronto un governo per sostituire il governo di Bazargan. E aggiunge che presto tornerà. «Che torni, che torni. Magari a braccetto del suo scià. Così in tribunale ci vanno insieme. Se Bakhtiar dev’essere fucilato o no, ancora non posso dirlo. Però so che dev’essere processato, e devo ammettere che mi piacerebbe molto vedermelo riportare insieme allo scià, mano nella mano. Lo aspetto».

A morte anche Bakhtiar, dunque. A morte Ashraf la gemellaccia, a morte Farah Diba, a morte tutti. Imam Khomeini mi permetta una domanda che naturalmente esula dalla morale di una rivoluzione: è noto che le rivoluzioni non perdonano, non conoscono la pietà. Lei come uomo, anzi come prete, ha mai perdonato nessuno? Ha mai provato pietà, comprensione per un nemico? «Che cosa, che cosa?»

Ho chiesto se sa perdonare, provar pietà, comprensione. E, visto che ci siamo, le chiedo anche questo: ha mai pianto? «Io piango, rido, soffro. Sono un essere umano. O crede che non lo sia? Quanto al perdono, ho perdonato la maggior parte di coloro che ci hanno fatto del male. E quanto alla pietà, ho concesso l’amnistia ai poliziotti che non avevano torturato, ai gendarmi che non s’eran resi colpevoli di abusi troppo gravi, ai curdi che hanno promesso di non attaccarci più. Ma per coloro di cui abbiamo parlato non c’è perdono, non c’è pietà, non c’è comprensione. Ora basta. Sono stanco. Basta». Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo.

La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador? E allora i terribili occhi che fino a quel momento mi avevano ignorato come un oggetto che non merita alcuna curiosità, si levarono su di me. E mi buttarono addosso uno sguardo molto più cattivo di quello che m’aveva trafitto all’inizio. E la voce che per tutto quel tempo era rimasta fioca, quasi l’eco di un sussurro, divenne sonora. Squillante. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene.»

Prego? Credevo d’aver capito male. Invece avevo capito benissimo. «Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno a uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. «Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo». E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero. Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”contro Travaglio e Luttazzi: che c'entra l'editto islamico con quello bulgaro? Bene, ora spiegaci che c’entra l’editto islamico con l’editto bulgaro, spiegaci che cosa c’entra - caro Marco-senza-vergogna-Travaglio - la vostra industrietta macinasoldi con la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi che graffiavano nella carne viva del pianeta: la religione, l’islam, l’ebraismo, l’Occidente, la crisi. Spiegaci che cosa cazzo c’entra (scusa la parola cazzo, ma fa sempre satira) con le vostre cazzate dove il rischio massimo era una reprimenda di Sandro Bondi; che cosa c’entra cioè il martirio vero (inteso come pericolo di vita) con il martirio finto (inteso come requisito di carriera). La rivista Charlie Hebdo rischiava la pelle ogni giorno senza guadagnarci granché, si faceva il mazzo per sopravvivere sul mercato: non pretendeva d’essere inserita d’ufficio nella tv di Stato con programmi scadenti, roba che poi moriva da sola anche nella tv privata (come a La7) perché semplicemente non faceva ascolti: vero Luttazzi?, vero Guzzanti?, vero Dandini?, eccetera. Le vignette danesi riprese dai francesi giocavano in un altro campionato, non erano le mutande di Anna Falchi o le cacche di Daniele Luttazzi o il Papa sodomizzato all’Inferno che tanto piaceva a Sabina Guzzanti, non erano le barzellette sporche per le quali voi presunti satiri scomodavate Senofonte e l’articolo 21 della Costituzione, ergendovi a oppressi. Gli ammazzati di Hebdo non facevano comizi a manifestazioni di capi-partito come Grillo o Di Pietro, non andavano in vacanza con fonti univoche e poi politiche come Ingroia, non facevano spettacolini teatrali e libri e dvd e pseudo-lezioni universitarie e monologhi in prima serata da Santoro: facevano satira per davvero e li ricorderemo come esempio coraggioso di libertà di opinione, non li ricorderemo per “l’odore dei soldi” di cui non è rimasto nulla se non i soldi (tuoi) e l’odore (vostro). Gli ammazzati di Hebdo non pretendevano immunità giudiziarie e civili per autoproclamazione, non pretendevano di poter dire tutto quello che volevano su chi volevano e come volevano: senza mai pagarne un prezzo, perché “la satira non si processa”. Non evocavano di continuo il regime e la censura, non pretendevano di essere intoccabili persino da una magistratura peraltro acclamata, insomma: non avevano bisogno di pararsi il sedere col diritto di satira ogni volta che gli scappava una cazzata. Perché loro, la satira, non la facevano su Ruby e sulla Carfagna, non la facevano dicendo nano e ciccione o piegandosi su cartacce giudiziarie d’accatto: loro la facevano sulle libertà individuali e collettive sin dagli anni Sessanta, mica su Berlusconi per vent’anni di fila. E ora tu, macchietta rinsecchita e senza sorriso, a sangue caldo torni a romperci le palle coi tuoi ciclostile sul regime, e a pagina 22 del Fatto Quotidiano ospiti pure l’equilibrato Luttazzi che si paragona ai francesi e scrive testualmente che «non c’è bisogno di trasferirsi nei Paesi arabi per trovare resistenze alla satira sulla religione», rivelandoci di aver ricevuto minacce di morte e d’esser stato costretto a mesi sotto scorta. Ma certo, è un paragone calzante, dietro casa di Luttazzi erano pronti Ferrara e la Santanché coi kalashnikov, c’era anche un piano per prendere ostaggi nel fortino clandestino della Raidue targata Freccero. O forse no, Travaglio e Luttazzi non dicevano sul serio. Forse era satira anche quella, dev’essere così. Comunque occhio: i tre terroristi francesi li hanno seccati, Ferrara e la Santanchè e Berlusconi sono ancora in giro.

Marco Travaglio, travaso di bile: insulta Filippo Facci (e si auto-smentisce), scrive “Libero Quotidiano”. Filippo Facci attacca la "macchietta rinsecchita" Marco Travaglio, e la "macchietta rinsecchita" perde la testa. La firma di Libero ha accusato il vicedirettore del Fatto Quotidiano per l'improvvido paragone tra "editto islamico" in riferimento alle stragi parigine e l'editto "bulgaro" di berlusconiana memoria, ricordandogli che i redattori di Charlie Hebdo si guadagnavano da vivere rischiando (davvero) la vita, mentre Travaglio si guadagna da vivere recitando lo stesso copione, trito e ritrito e stratrito, ormai da vent'anni. Apriti cielo, Marco Manetta ha dato di matto. La livorosa risposta è arrivata sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, in cui dà a Facci del "poveretto con le mèches" per poi aggiungere: "Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone". Peccato che il paragone lo ricordi proprio Travaglio nella riga successiva, in cui in preda all'abitudinario travaso di bile ricorda che lui ha scritto: "Quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa". Dunque, continua, "ho semplicemente sbeffeggiato l'ipocrisia di una classe politica e giornalistica", e dunque, aggiungiamo noi, ha fatto quel paragone insensato che sta cercando di negare.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: il maestrino Marco Travaglio trafitto dai suoi stessi forconi. Marco Travaglio ha fatto bene a lasciare lo studio di Servizio Pubblico giovedì sera: anche se l’ha fatto senza calcoli e solo per un’alterigia da lesa maestà, per cedimento. In questo modo l’attenzione è finita sul suo delimitato scazzo con Michele Santoro e non su come ci si era arrivati: non su un’intera puntata, cioè, che aveva logorato Travaglio minuto dopo minuto e aveva alluvionato un modo di fare giornalismo e opposizione, se c’è differenza. Tutt’altro discorso meriterà un giorno Michele Santoro, che per anni si è portato la bestia in casa - accudito e viziato come un gatto siamese cui tutto è concesso - salvo accorgersi, in un momento di resipiscenza dettata dai tempi, che una bestia restava: anche quando non serve, anche quando la ragionevolezza sta palesemente da un’altra parte, anche quando, soprattutto, non è chiaro se esista ancora un pubblico (una piazza) a cui rivolgersi senza sfasciare veramente tutto. Hai voglia a dire a Travaglio - come ha fatto Santoro - che anche lui deve rispettare le regole: quali? Le regole erano che Travaglio poteva miagolare a piacimento, poteva graffiare anche le tende e il divano, tanto il padroncino alla fine lo coccolava. Se poi i tempi ora esigono un’altra sensibilità, intesa come variante dell’intelligenza, beh, giovedì sera era inutile chiederla a Travaglio: lui ha un format solo, ed è la sua egolatria. Nel rivedere l’episodio solo via internet, come avrà fatto la maggioranza, si potrebbe anche pensare a una trascurabile scossa umorale e magari funzionale agli ascolti, anche se giunta fuori tempo massimo. Non è così. L’onnipotenza del monologante è andata in crisi progressivamente, man mano che la pacatezza imbolsita del governatore Claudio Burlando distillava graniti argomentativi poggiati via via su interventi di altri, e applausini, puntualizzazioni di Santoro, battute sulla figuraccia genovese di Grillo, soprattutto il candore dei ragazzi seduti in trasmissione, quegli «angeli del fango» che hanno trafitto Travaglio coi suoi stessi forconi. Travaglio ha avuto più spazio di chiunque, non escluso il suo monologo di quasi undici minuti che al solito ha spazzolato in superficie l’universo mondo: da Renzi ai giudici in ferie, da Burlando al Mose, da Scajola alla Protezione Civile, pretesti per battutoni che Maurizio Crozza, in confronto, pare Oscar Wilde. Ma, blocco dopo blocco, tirava un’aria che lo lasciava lì come un coglione. Intanto Burlando, accusato genericamente di essere un cementificatore, convinceva con la sua aria dimessa e con un’immagine di politica intesa come arte del possibile: «Noi possiamo aggiustare quello che in passato si è fatto male, dobbiamo fare cose realistiche... La differenza tra chi fa un discorso e prende applausi, e chi governa a lungo perché ha preso voti, è questa qui: noi dobbiamo fare cose realistiche, e voi - rivolto a Travaglio - potete anche dire cose che realistiche non sono». E fin qui ci poteva anche stare. Infatti a indebolire i nervi di Travaglio è stato il successivo intervento di Stefano, un cosiddetto angelo del fango che in pratica ha difeso tecnicamente gli argomenti di Burlando. E la critica di un ragazzino pesa a Travaglio più di qualsiasi altra, perché sale dalla stessa Piazza Tahrir in cui pescano lui e Grillo. «Travaglio ha fatto un discorso che forse non vede completamente la realtà», ha detto il ragazzo, che peraltro abita dove il fiume è esondato e conosce bene il quartiere. Travaglio intanto restava lì coi suoi appuntini, il quadernino, la lezioncina imparata per l’occasione. Poi Santoro è intervenuto a difesa del ragazzo ed è pure partito l’applauso, come è meglio spiegato nel dialogo riportato in questa pagina. Burlando a un certo punto ha pure detto: «Lei, Travaglio, non è informato». E Travaglio: «Sono informatissimo». Ma era sempre più chiaro che non era vero. Travaglio era lì per fare le veci di Ferruccio Sansa, campioncino di contraddizioni diciamo così, ineleganti: difende in tv l’ex sindaco Adriano Sansa anche perché è suo figlio, ne scrive sul Fatto Quotidiano, attacca Burlando che ha attaccato suo padre, inoltre scrive anche di Grillo dopo aver arringato le genti a un V-day e dopo aver collaborato con Grillo e, peraltro, abitando affianco a Grillo, sulle colline di Sant’Ilario. Ma una parte della realtà, giovedì sera, è venuta fuori lo stesso. L’ex sindaco Adriano Sansa, negli anni Novanta, si limitò a un’opera di pulizia dei corsi d’acqua ma non proseguì i lavori anti-alluvione cominciati in precedenza da Burlando. È solo una parte della realtà, ma questo è venuto fuori durante la puntata di Servizio Pubblico. E quindi è vero.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

Lettera di Buzzi al Garantista: «Sono innocente». Caro Sansonetti, sono il famigerato Salvatore Buzzi, arrestato il 2 dicembre nell’inchiesta Mafia Capitale, che ti scrive la notte di Natale per chiederti di darmi un attimo del tuo tempo. Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi. E la gloriosa cooperativa 29 giugno, ove lavoravano 1254 persone, è stata commissariata e nessuno ha ricevuto né stipendio né tredicesima, causando gravi disagi a tutti i lavoratori, in gran parte svantaggiati. Sono stato condannato a mezzo stampa e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me? Io mi reputo una persona seria e onesta, che ha lavorato tanto per creare un gruppo cooperativo ove lavorano migliaia di persone e che non ha mai rubato nulla alle aziende che amministra. Conosco Carminati da oltre 30 anni e l’ho frequentato dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze; non ho mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne! I miei rapporti con lui sono sempre stati alla luce del sole e non ho mai nascosto la sua frequentazione, era lui il maniaco della sicurezza, ma constato che è servita a poco. Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici; casomai sono io che ho subìto qualche “delicata estorsione” da qualche solerte funzionario e/o dirigente. Sto provando a far uscire le mie ragioni e ho scritto una lunga lettera al mio avvocato, articolata sui punti più controversi, per farla avere a Rosi Bindi nella sua funzione di presidente della Commissione Antimafia della Camera. La lettera spiega analiticamente molti episodi che mi sono contestati. Non ti chiedo di credermi a priori, ma ti chiedo di chiamare il mio avvocato e documentarti anche sulle fonti della difesa, e se ti convinco anche un po’, aiutami nella mia solitaria battaglia per far valere le mie ragioni e riconquistare l’onore perduto. Certo ho detto tante parole in libertà, ma sfido chiunque nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso: e io ho avuto le microspie in ufficio e in auto per due anni. La Procura, inoltre, censura con aggettivi dispregiativi la semplice attività di lobbing, del tutto legittima. Siamo in uno Stato di diritto e non in uno Stato etico. Non voglio rubarti ancora tempo, ti chiedo solo di documentarti sulle ragioni della difesa con la serietà che ti contraddistingue. Augurandoti buone feste ti porgo i miei più cordiali saluti.

«Buzzi in galera sulla base di chiacchiere», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. All’indomani della lettera che Salvatore Buzzi ha indirizzato dal carcere di Nuoro al nostro direttore, ci è sembrato opportuno, visto che le ragioni dell’accusa sono stranote e mediaticamente avvincenti, cercare di comprendere anche le istanze della difesa, ad oggi poco esplorate, per usare un eufemismo.

«Buzzi resta in galera – ci spiega il suo legale Alessandro Diddi – sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare le esultanze proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica sui conti correnti. È in galera sulla base di chiacchiere».

«Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi», scrive Salvatore Buzzi in una lettera scritta a mano la notte di Natale dal carcere di Nuoro che è giunta al Garantista soltanto ieri «Sono stato condannato a mezzo stampa – spiega il patron della Cooperativa 29 giugno a Piero Sansonetti – e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me?».

Difficile, visto il clima di gogna mediatica venutosi a creare, ignorare anche solo parte delle accuse rivolte a Buzzi da tribune e talk di ogni genere. E ancor più difficile, dato il visibilio scandalistico suscitato da ”Mafia capitale”, porsi semplici domande come ”E se fosse tutta una montatura?”, oppure, “Ma Salvatore Buzzi che cosa ne pensa di questa inchiesta? E se ha intenzione di difendersi, su quali basi?”. Temi di questo genere sono piuttosto invisi, e suonano quasi come sacrileghi. Ma modestamente confortati dalla Costituzione, ci è parso doveroso parlare della vicenda Buzzi, con Alessandro Diddi, il legale che lo rappresenta.

Avvocato, Buzzi è attualmente detenuto nel carcere di Nuoro ed è stata respinta l’istanza di scarcerazione. Su quali basi il suo cliente resta in cella?

«Salvatore Buzzi resta in galera sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare affermazioni ed esclamazioni proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non c’è stata nessuna verifica amministrativa. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica su conti correnti e libri mastri. È in galera sulla base di chiacchiere».

Ma quali sono dunque i gravi e sufficienti indizi di colpevolezza che dovrebbero trattenerlo in carcere?

«Ogni volta che Buzzi diceva al telefono ”Abbiamo vinto!”, il carabiniere all’ascolto ne deduceva che aveva vinto grazie a una turbativa d’asta. A nessuno è venuto in mente di verificare se dalle carte risultassero irregolarità».

In assenza dei verbali di aggiudicazione, si presume che gli appalti che si è assicurato Buzzi sono frutto di azioni delittuose.

«Gioire per una gara vinta, non è la stessa cosa che gioire perché un piano criminale è andato a compimento. Le gare possono essere vinte legittimamente, e dai miei riscontri stanno emergendo numerose assurdità in proposito».

A che cosa si riferisce?

«Intrapreso lo studio dei fatti contestati, ed avuto accesso alle relative carte, mi sono imbattuto in gare d’appalto nelle quali le cooperative di Buzzi erano l’unico concorrente in lizza. Mi spiega quale utilità avrebbe il pagamento di una tangente, per una gara alla quale partecipa un solo concorrente? E in secondo luogo faccio un’altra rivelazione. Si parla di corruzione per alcune gare che, dati alla mano, non sono state vinte dalla cooperativa di Buzzi. Ma allora a che cosa sarebbe servito elargire mance così generose e tessere trame tanto diaboliche?»

Nella lettera che ci ha inviato, Buzzi ammette di aver detto “tante parole in libertà”. “Ma sfido chiunque – ha scritto nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso”. Soltanto eccessi verbali, dunque? È questa la colpa del suo cliente?

«Chi è di Roma, o ci vive da molto tempo, sa molto bene che in questa città vige una “romanitas” del tutto dissimile da quella augustea. Il linguaggio in voga, in pressoché ogni ambiente, è sempre molto colorito e guascone. Si tende a dar vita a dialoghi intercalati da eccessi caricaturali, spavalderie assortite, battutacce a volte esilaranti. E talvolta ci scappano anche improperi e si fa la voce grossa, per darsi l’aria da rodomonte. È questo che fa delle intercettazioni uno strumento talvolta pericoloso: l’interpretazione letterale di parole in libertà come tante ne diciamo tutti noi nelle conversazioni private di ogni giorno».

E ritorniamo alla domanda di prima: reputa fondata la carcerazione preventiva?

«In qualità di docente universitario, e non come suo avvocato, la reputo una scelta irragionevole. Pericolo di fuga? Non ce n’è, Buzzi è da due mesi un sorvegliato speciale. Reiterazione del reato? Un po’ complesso, visto quello che Buzzi ormai rappresenta per l’opinione pubblica. Inquinamento delle prove? Proprio no, perché tutto è stato sequestrato».

E in qualità di avvocato?

«In qualità di avvocato non posso che constatare come la nostra giurisprudenza abbia intrapreso da qualche tempo una bruttissima china. L’idea di trattenere in carcere qualcuno sulla base dei “gravi indizi di colpevolezza” è diventata piuttosto desueta. Sempre più spesso si fa strame delle garanzie che normano le esigenze cautelari. Con il risultato che noi tutti siamo meno a piede libero di quanto possiamo immaginare. Finire in prigione, è diventato più semplice di quanto ciascuno di noi si aspetta».

A un certo punto Buzzi ci scrive: «Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici». Che cosa può dirci di questi rapporti intrattenuti con la politica?

«Buzzi ha fatto versamenti legittimi e documentati a fondazioni politiche che ne hanno sostenuto le istanze. Sono state considerate erogazioni illecite e invece ce n’è regolare traccia. Buzzi ha sostenuto candidature, ha pagato eventi e manifestazioni».

Buzzi dice peraltro di non aver mai sottratto un euro dalle aziende che amministra. Nessun contraccambio da queste attività?

«Buzzi non è l’inventore geniale di un business fatto sulla pelle delle persone disagiate. Le cooperative come quelle di Buzzi lavorano nel sociale, e hanno bisogno dell’aiuto dello Stato che le finanzia nel tentativo di colmare il gap tra un libero cittadino e uno svantaggiato. Chi darebbe lavoro a ex carcerati come quelli cui Buzzi ha dato un orizzonte di vita nuova e dignitosa? È del tutto evidente che il fondatore di una cooperativa esprima la propria predilezione per questo o quel candidato più sensibile ai temi sociali. E del tutto legittimo che possa scegliere di sostenere questa persona o quell’altra. Questa si chiama democrazia, non corruzione. Siamo un Paese di grandi ipocriti».

Ci ha colpito molto un altro passaggio della lettera. Buzzi dice che non solo non ha mai corrotto, e che casomai è stato lui ”a subire qualche delicata estorsione da qualche solerte funzionario e/o dirigente”. Ne parliamo?

«Su questo aspetto devo attenermi al momento al segreto professionale. Mi limito a ricordare su tutti la vicenda dell’appalto per il Cara di Castelnuovo di Porto. Il giudice del Tar Linda Sandulli sospese l’assegnazione dell’appalto a Buzzi: deteneva quote in una società che faceva manutenzione nello stesso centro».

Lui di sinistra, Carminati di destra: quanto appeal mediatico ha avuto l’idea di larghe intese delinquenziali in questo caso?

«Buzzi è sempre stato e resta un comunista. La conoscenza di Carminati l’ha fatta in carcere trent’anni fa. Ma Buzzi lo ha frequentato solo a partire dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze».

Il suo cliente tiene a precisare che non ha «mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne».

«Tutta la vicenda si è innescata nel 2010, perché Carminati venne sospettato di aver avuto un ruolo nella rapina di un caveau. Da allora si cominciarono a conoscere vita, morte e miracoli di quest’uomo, sebbene venne riconosciuto del tutto estraneo al delitto per il quale partì la sua ”marcatura a uomo”. Intercettazione dopo intercettazione, venne il momento dell’incontro tra Buzzi e Carminati in un bar. Carminati si offrì di mediare per un credito che Buzzi doveva riscuotere. E da lì, successe il pandemonio. Se Carminati non avesse fatto capitolino in questa vicenda, altro che mafia capitale. Salvatore Buzzi avrebbe continuato a godere della fama di uomo buono, intelligente, e impegnato».

Caro Buzzi, assurdo accusarti di essere un mafioso, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Se Salvatore Buzzi fosse milanese, probabilmente lo conoscerei. Sarebbe uno dei tanti ex detenuti con cui avrei avuto contatti e collaborazione in qualche mia veste istituzionale. E la Cooperativa 29 giugno sarebbe stata una di quelle con cui avrei organizzato il lavoro, interno e esterno alle carceri milanesi di S. Vittore, Opera e Bollate, come la Cooperativa Alice e le altre. L’avrei frequentato, sarei andata a qualche pranzo come quello della famosa fotografia cui partecipò anche l’attuale ministro Poletti, magari sarei diventata sua amica, sapendo benissimo che non stavo frequentando l’oratorio della mia parrocchia. Perché i casi sono due: o si crede nella Costituzione e in tutte le leggi che predicano il reinserimento dei detenuti o non ci si crede. Nel primo caso, bisogna sapere quanto sia fondamentale il lavoro per dare speranza non solo a chi esce dal carcere di poter fare una vita normale, ma anche a tutti noi, perché sappiamo che quell’ex detenuto difficilmente commetterà ancora reati. Ben vengano quindi quelli come Buzzi cha hanno la capacità di mettere in piedi una cooperativa che dà lavoro a 1254 persone. E male, anzi malissimo fa il governo se cerca, come sta facendo, di intralciare in qualche modo questo tipo di attività. La lettera di Buzzi mi colpisce prima di tutto per questo aspetto della vicenda, perché conosco tanti “Buzzi”, ogni tanto “sfrutto” le loro capacità professionali e manuali dando loro qualche lavoretto in più, qualche aiuto a muover le mani nella direzione giusta. Ma la lettera di Salvatore Buzzi pone anche ben altri problemi: mostro, mafioso, corruttore. Questa è oggi la sua fotografia, questo sono le sue impronte digitali, il suo dna. Mostro per il solito circo mediatico-giudiziario messo in piedi da magistrati esibizionisti e giornalisti in toga. Su questo punto, caro Salvatore, non c’è speranza. Tu stesso ti sei domandato, quando eri ancora libero e rispettato, come mai sia stato arrestato Claudio Scajola per quella vicenda assurda che ha riguardato un altro mio ex collega parlamentare, Amadeo Matacena. Neanche io ho capito perché, e posso dare una sola spiegazione: se arresti, conquisti qualche titolo e qualche foto sui giornali. Altrimenti, poche righe in cronaca. Ma neanche mi convince l’incriminazione di Matacena, visto che anch’io, insieme a Vittorio Sgarbi, fui indagata per otto mesi per lo stesso reato, “concorso esterno in associazione mafiosa”. E so che è un reato inesistente. Come lo so io, lo sanno e lo dicono in tanti, così come in tanti, quelli che lo conoscono, sanno bene che Buzzi non è un mafioso. Dove sono i tartarughini, con la testa nascosta, i garantisti del Pd? Se la loro identità politica non è più quella del giustizialismo, come vent’anni fa, si facciano sentire. Se devono “far pulizia” nel Pd romano, la facciano, problema loro. Ma alzino la voce per dire che non si deve più confondere la giustizia con la morale e che vogliono uno Stato di diritto laico e rispettoso nei confronti del “signor chiunque”. Le mie esperienze, sia giudiziarie che politiche, mi hanno reso non solo sensibile, ma anche molto diffidente nei confronti delle Grandi Inchieste, soprattutto se basate sulla contestazione del reato associativo, come contenitore che tutto comprende e tutto giustifica. E mi sta molto sulle scatole un Procuratore (che non conosco ) che fa conferenze stampa e che crea un nuovo reato, l’associazione mafiosa in salsa romana, solo per poter usare tutti gli strumenti, anche persecutori, consentiti per i reati più gravi, come il 416-bis. E altrettanto non apprezzo un ministro che applica l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (che andrebbe abolito subito) a indagati che non sono neppure accusati di omicidi e stragi. Si vogliono forse creare nuovi “pentiti” come Scarantino? Purtroppo la storia giudiziaria di questo paese, se e quando fa giustizia, la fa molti anni dopo, quando la reputazione e la vita di tanti sono ormai rovinate. Ma so per esperienza che far uscire qualche voce dal silenzio e dal vocio urlante del consueto circo a volte a qualcosa serve ed è giusto farlo. Io so che Salvatore Buzzi non è un mostro e non è un mafioso. Non so se sia solo un lobbista, come lui dice, o anche un corruttore o un concusso. Questo, ma solo questo, lasciamolo alla magistratura. Ma, si spera, a una magistratura requirente normale, senza elmetto e senza selfie.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

Ma la gente sa cosa succede nei tribunali?

Giornata di ordinaria follia al tribunale di Roma tra prostitute, burini e magistrati oberati dall’obbligo penale. Luglio 14, 2014, scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Basta passare un giorno in aula giudiziaria per capire quanti oneri assurdi e pretese inverosimili gravano sulle spalle di pm e giudici. Come mai nel repertorio dei suoi elettrizzanti tweet Matteo Renzi sfiora appena quel filo che porta dritto al circuito mediatico-giudiziario? “Riforma della giustizia in 12 punti”. Così ha promesso il nostro ganzo leader. Se ne riparlerà in autunno. Ma intanto che ciofeca di hashtag è per un guascone che prende l’Europa con un «se si facesse un selfie sarebbe il ritratto della noia»? Paura di rimanere attaccato al filo, folgorato dal circuito? Sia come sia, può capitare anche al nostro simpatico incantatore di serpenti di ritrovarsi per caso, come è capitato alla canaglia che scrive, dentro l’iCloud del sistema giudiziario disegnato dalla più bella costituzione del mondo. Grazie a Dio, se sei solo un testimone (ma stai alla larga dai processi a Berlusconi), una volta di difesa, l’altra di accusa, puoi stare tranquillo: non corri alcun rischio di finire metamorfizzato in un insetto da espellere dalla società. Certo. Ricoprire ruoli opposti nel giro di qualche giorno, fa un bell’effetto. Specie se ti ritrovi rimbalzato tra Roma e Milano. In tribunali di due pianeti diversi. Come testi della difesa siamo stati convocati a Milano. Dove a dispetto dell’architettura fascista, l’amministrazione della giustizia sembra ispirarsi a una efficienza da tecnicalità ospedaliera. Entri al palazzaccio e, al di là dell’odore e sudore di carte, la sensazione è quella che puoi aver provato in un reparto di terapia intensiva. Convocazione alle 9 del mattino. Minuti di attesa in compagnia di persone stranamente in angoscia per essere testimoni della difesa. C’è un direttore di carcere («perché mi hanno convocato? Cosa ho fatto?») e c’è il pannelliano insolente («questi non sanno neanche chi è Beccaria, desolante che se ne siano impipati dell’amnistia»). Poi, come una botola, si apre la porticina dell’aula dell’udienza. L’impiegata fa l’appello, stila l’ordine di comparizione testi, prende nota di eventuali richieste. Arriva il tuo turno. Reciti l’orazione secondo verità, declini le generalità, rispondi ad avvocati e pm. Il giudice tace, non tradisce emozioni, ascolta. Incombe un silenzio da sala operatoria. Sbrigata la deposizione, vieni gentilmente accomiatato. «Si può accomodare». E sei messo alla porta con neanche una mosca che vola. Seicento chilometri più a sud è tutta un’altra musica. A Roma ci arrivi la sera prima. Pernotti. Non puoi fare altrimenti. L’udienza è fissata alla stessa ora, sullo stesso fuso orario della giustizia ambrosiana. Insomma, sono le 9 del mattino e nell’aula della cittadella giudiziaria capitolina non c’è anima viva. Passa un quarto d’ora e arriva un tizio che ha l’aria del mio pony fornitore di giornali. Ha una sua grazia nella strampalata t-shirt che indossa e nel trasportare una pila di fascicoli che finirà sulla scrivania della corte in un bel tonfo rimbombante per tutta l’aula. Verso le 9.30 si appalesano avvocati e altri tizi, seguiti da cai e semproni. In piedi, salutiamo la messa in moto della macchina giudiziaria: entra il giudice monocratico. Breve conciliabolo con il cancelliere. Partono le udienze. E il giudice sale in cattedra. Dirige il traffico delle domande dell’avvocatura. Azzittisce chi chiacchiera. Interroga i testi con puntiglio e vivacità oratoria. Giganteggia per autorità e competenza. Si avverte in lui addirittura un tocco di umanità e l’acume di non dare per scontato alcun elemento istruttorio. Insomma, ha un impianto da persona non supponente, cerca di capire, entra nei dettagli. Il problema è quella pila lì. Fascicoli che si affastellano sul suo tavolo senza una apparente logica. Delitti gravi e reati bagatellari sono sullo stesso piano e finiscono nello stesso ingorgo. È sufficiente lo spettacolo di una mattina di udienze romane per avere la fotografia della giustizia italiana. Che in virtù dell’obbligo dell’azione penale è come un gigante a cui è stato assegnato l’impossibile compito di risolvere tutti i conflitti e lenire tutte le disgrazie in seno alla vita di un popolo. E in più con un assurdo peso sulle spalle, gravando sul gigante-magistrato pure la faticaccia di traversare le sabbie mobili del giudizio alla luce abbacinante dei media. Che, inevitabilmente, heideggerianamente, invariabilmente, invece della trasparenza realizzano il rumore e l’oscuramento di tutto. Colpisce vedere un pubblico ministero caricato dell’intera casistica che passerà al vaglio della corte nel corso di questa giornata di prima estate. Come farà a studiarsi i contenuti della quotidiana pila di fascicoli e presentarsi a dibattimento in aula sapendo quello che fa, quello che dice, quello che chiede come sentenza? Quanto alla spicciolata di cause che scorrono sotto i nostri sensi, si comincia da una denuncia per violenza privata, rissa, danni per traumi fisici, psicologici, morali eccetera. La montagna si rivelerà il topolino di una baruffa chiozzotta tra donne. Con tre-quattro equipaggi di volanti intervenuti su segnalazione della titolare di una macelleria che testimoniano cose al limite dell’ilarità. A un certo punto spunta il mancato pagamento di una “prestazione”. «Scusi – fa il giudice al poliziotto – che genere di prestazioni?». «Beh, pare che una signora non avesse pagato la parrucchiera». «Ah, la parrucchiera. Ma che c’entra la macelleria?». «C’entra perché l’altra signora è l’esercente di carni e la rissa è avvenuta proprio davanti al suo negozio». «Ma ci sono stati feriti?», chiede il giudice a un altro poliziotto di una seconda volante presente sulla scena del delitto. «No». «Ah – riprende il giudice – non ci sono stati feriti… Dunque si è trattato di un alterco. È così?». «No – interviene il pm – è stato infranto un vetro e distrutto un telefono…». «Quale vetro e quale telefono?», incalza il giudice. In breve, dopo la sfilata delle volanti, l’assenza di feriti e nessun bollettino medico, si viene a sapere che il vetro infranto è in realtà un vetro scheggiato e il telefono di cui nessuno dei testi ricorda la tipologia è un cordless della macellaia che nella concitazione – non si è capito per colpa di chi e perché – è stato raccolto in pezzi a terra. L’udienza viene aggiornata a novembre. Sempre con lo stesso pm, ma con un diverso avvocato d’ufficio, segue il caso di una donna di colore che ha rubato due camicette in un grande magazzino. Di nuovo, sporta denuncia da parte del direttore del negozio, «anche se la signora si è mostrata collaborativa quando è stata scoperta e fermata dalla guardia privata», il pm non può far altro che rappresentare l’obbligo dello Stato a perseguire il reato. Risultato? Sentenza costituzionalmente ineccepibile e umanamente abominevole. La povera incensurata si becca sei mesi di carcere e 800 euro di multa. Segue vicenda notte magica italiana. Una bella, giovanissima e molto ben equipaggiata brasiliana è testimone d’accusa e parte lesa in una movimentata avventura notturna avuta con un giovanotto, iniziata in discoteca e finita prima a letto e poi a botte. Due sono le versioni. La bella sostiene che dopo essere stata convinta dal giovanotto a passare la notte con lui in cambio di un “regalo” (mille euro), già ubriaca di beveroni e dopo essersi fatta convincere a strafarsi anche di cocaina, al settimo rapporto sessuale ha detto basta, sono stanca, non ce la faccio più. Il giovanotto a quel punto, per non sapere né leggere né scrivere, avrebbe preteso la restituzione del “regalo” e pure le chiavi dell’automobile di lei». La bella descrive tutto nei minimi particolari. In estrema sintesi: «Intorno all’una di notte il tale mi ha avvicinato in discoteca e mi ha offerto il “regalo” in cambio della notte insieme. Saremo arrivati a casa mia alle tre, alle sei mi ha menata, è scesa la mia amica, gli ha spruzzato lo spray al peperoncino, lui è scappato, poi però mi ha chiesto scusa e mi ha restituito il regalo e le chiavi. Mi chiedeva di perdonarlo perché stava fuori di testa (“ho moglie e figlio”, diceva), poi la polizia se l’è portato via e io sono andata con la mia amica al pronto soccorso. Perdevo sangue dal naso. Avevo paura». Domanda il giudice: «E al pronto soccorso cosa le hanno detto? Dico, le hanno riscontrato ferite? Ha detto di essere stata presa a calci in faccia, è così?». «Sì, è così, ma il naso non era rotto e il medico mi ha dato una settimana di riposo». Versione della bestia (presunta). Ammette la nottata folle. Ma smentisce che abbia preso a calci la bella («che sennò cor peso che c’ho ’a sdrumavo»), la circostanza dei sette rapporti sessuali («ecche so’ Tarzan?!»), l’ora del fattaccio («ma quali tre de mattina, sarò arivato a’e cinque»). Poi si rivolge al pubblico forse cercando gli occhi della bella: «Aò, ma se stavo nudo sur letto, strafatto, t’ho visto che me rubbavi nei pantaloni…». Ma non fa in tempo a finire la frase che il giudice lo richiama: «Scusi, forse non ha capito, deve rivolgersi alla corte, non all’uditorio». Il ragazzotto cerca di biascicare una replica e il giudice stavolta si incazza: «E non mi dia sulla voce! Si limiti a rispondere alle domande! Ha capito?». L’imputato si stremisce e tace. «Le ho chiesto se ha capito. Ha capito?» «Sì, sì, signor giudice, me scusi…». Ed è come un pallone sgonfio che per un po’ risponde solo a monosillabi. «Sì, no, no, sì, sì, sì…». Ma toccato sul soldo arriva la scarica di adrenalina: «Eh no, giudice, ma quali mill’euri! So’ arivato da lei a’e cinque: e che je davo, mill’euri pe’ du ore? J’avrò dato trescento… mannò, che dico, saranno stati duscento ar massimo. Poi quann’ho visto ’a mano ’nfilata nella tasca dei pantaloni nun c’ho visto più: aò, j’ho detto, ma che stai affà?! E j’ho dato ’no schiaffo. E l’ammetto: pure ’no spintone, ma carci no». «Prosegua», fa il giudice un po’ scettico. «E che je devo dì? So passato prima da un amico a prenne i sordi». «Ma scusi, non aveva già con sé i mille euro del “regalo”?». «Vabbè, mica potevo annà ’ngiro senza sordi». «Ah, “in giro senza soldi”, dice lei», ironizza il giudice. «Sì vabbè, c’avevo questi mille, che poi duscento l’ho dati a lei, ma poi dar mio amico ne ho presi artri cinque-seicento e…». «Dunque, dopo che alla signorina ha restituito il “regalo”, aveva con sé altri cinque-seicento euro. Soldi che le servivano per cosa?». «Ma quali sordi? Quella nun m’ha ridato niente, so’ scese queste cor peperoncino, nun c’ho capito più niente, è arrivata ’a polizia e m’ha portato ar gabbio». «Ci sta dicendo che i soldi li ha lasciati nell’appartamento della signorina?». «Embè, io quelli nun l’ho più rivisti, là li ho lasciati, che tra peperoncino e strafatto di alcol e cocaina com’ero nun c’ho capito più niente». L’udienza viene aggiornata al 2015. Causa quarta e testimone d’accusa un’istruttrice di polizia. Il caso riguarda un automobilista fermato senza Rc auto. Seguiva verbale di sequestro dell’auto, apposizione dei sigilli, intervento del carro attrezzi, trasferimento del veicolo medesimo presso un box indicato dal proprietario dell’auto. Fatto avvenuto nel 2010. «L’anno seguente – prosegue il teste della polizia – nel corso di un sopralluogo constatiamo che all’indirizzo indicato non c’è alcun box e neanche il veicolo». Ennesimo obbligo di legge, scattano denuncia e processo a carico del proprietario. Processo che si attorciglia su carte, verbali, carri attrezzi e su chi ha firmato cosa e per conto di chi. La sostanza è che l’auto è sparita. Il pm conclude la sua breve requisitoria con una richiesta di assoluzione perché «non sappiamo dove è stato portato il veicolo, il box non è mai esistito, il bene è scomparso». Camera di consiglio: l’imputato è assolto. Siamo solo a metà mattina. Sotto i nostri occhi scorre la povera Italia. E potrebbe essere chiunque incappi in un colpo di testa, una disgrazia, nell’irruzione del male o del burocratese. C’è il marito che picchia la moglie un giorno sì e l’altro pure. C’è la vertenza per danni patrimoniali tra soci di una srl. Una per diffamazione a mezzo stampa e un’altra che non inizia nemmeno causa vizio di notifica. La giornata del giudice, del cancelliere, degli avvocati, dei testi e degli imputati, non è ancora finita quando lasciamo l’aula. Roma ci ha riconciliati con la legge. Roma non è il porto delle nebbie. Roma è la luce abbagliante sulla guida a fari spenti nella notte della giustizia italiana.

E poi ci meravigliamo della realtà che ci circonda, aliena ai controlli.

Mafia Capitale: “tra fascisti e ladroni”, scrivono quelli di sinistra. Sì, proprio quelli che indicano la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei propri occhi. In un mondo di sopra, di sotto, di mezzo, nessuno si salva: cittadini ed istituzioni.

Dopo gli arresti di ex terroristi neri e affaristi che tenevano in pugno la Roma di Alemanno, è caccia al tesoro della banda. Ecco la storia dell’inchiesta , al loro dire profetica, condotta da "l'Espresso", scrive Lirio Abbate.

Quella scattata martedì 2 dicembre 2014 è solo la prima ondata di uno tsunami giudiziario che ribalterà il ventre di Roma. Una metropoli finita nelle mani della “ Mafia Capitale ”, l’organizzazione guidata da Massimo Carminati, “er Cecato”: una leggenda nera costruita in quarant’anni di crimini dal terrorismo di destra all’epopea della Magliana, rimasti quasi sempre senza conseguenze giudiziarie. «Un bandito ricco», talmente ricco da faticare per nascondere i soldi che ha accumulato con i suoi traffici. Un manager che ha costruito il suo potere dominando quello che chiamava «il mondo di mezzo»: la sterminata zona grigia che unisce il Palazzo alla strada, quella dove - si vantava - comandava lui. L'azione in cui è stato fermato sulla sua Smart in via Monte Cappelletto, una stradina di campagna a Sacrofano, poco lontano dalla sua abitazione, l'ex terrorista dei Nar al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il boss era pronto a darsi alla fuga e per la cattura i carabinieri del Ros hanno chiesto la collaborazione del nucleo "cacciatori" dell'Arma di Roma. Carminati si compiaceva del suo ruolo. Anche quando l’inchiesta de “l’Espresso” nel dicembre 2012 svela per la prima volta la sua rete criminale, si mostra spavaldo, convinto di sapere sfruttare la fama criminale per moltiplicare gli affari senza bisogno di minacce. Ma sono proprio quelle parole registrate dalle microspie a fornire l’ossatura giuridica per l’inchiesta che adesso lo ha travolto. Nonostante contromisure ad alta tecnologia, come i jammer per disturbare gli apparati d’ascolto, i carabinieri del Ros del generale Mario Parente sono riusciti a intercettarlo mentre istruiva i suoi “soldati” e illustrava la sua strategia mafiosa, indicando i politici collusi, e i pubblici ufficiali corrotti, e il canale migliore per investire all’estero. Quelle lunghe conversazioni, spesso captate nella stazione di servizio di Corso Francia che aveva trasformato in ufficio a cielo aperto, offrono l’affresco cupissimo della devastazione morale di una capitale: un sacco proseguito per anni che ricorda quello storico dei Lanzichenecchi. Come tutte le mafie anche questa ha la sua trasversalità politica. Il nucleo sono i vecchi camerati, che adesso hanno messo giacca e cravatta come l’ex sindaco Gianni Alemanno, indagato. Ma la rete poi si è estesa a tutti i partiti, mettendo letteralmente a libro paga esponenti di destra, sinistra e centro. «Se Carminati, il capo dell’organizzazione viene dall’eversione dell’estrema destra romana, il suo braccio destro Salvatore Buzzi, ha un passato nell’estrema sinistra già condannato in maniera definitiva per un omicidio del 1980. Buzzi è oggi al comando di una serie di cooperative composte da ex detenuti che operano nel sociale e gestiva per l’organizzazione criminale appalti nelle aziende municipalizzate e del Comune di Roma», spiega il procuratore Giuseppe Pignatone. Ma come dice Buzzi in una intercettazione «la politica è una cosa, gli affari sò affari». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. E che affari. Gli investigatori hanno sequestrato beni e depositi per un valore di duecentodieci milioni di euro. Ma sanno che c’è molto di più e puntano sul cuore del tesoro. Vogliono trovare le cassaforti e gli investimenti in cui i fascioladroni facevano fruttare i proventi del loro impero. Tutte le tracce portano a Londra, dove sono “rifugiati” molti ex dell’eversione nera e dove Carminati ha molti amici, che nell’ultimo anno si sono presi cura anche del figlio de “er Cecato” spedito lì in fretta e furia. Dopo aver trafficato in pietre preziose e in oro dall’Africa, il boss del “mondo di mezzo” potrebbe aver nascosto in Inghilterra il suo forziere. Nella City ha fatto tanti investimenti immobiliari, a partire da Notthing Hill dove ha acquistato di recente appartamenti. Operazioni confessate, sempre a sua insaputa, davanti alle microspie. Lui che ammette di essere ricco sfondato, di avere tanti milioni ma deve nascondere bene il patrimonio: ufficialmente è nullatenente, non può giustificare un tesoro così grande. Per questo ha scelto la strada di Londra, dove vorrebbe far trasferire definitivamente il figlio. «Ho pensato, apro una o due attività. Andrea sta lì. Anche se fa un altro lavoro però controlla. A questo punto ha un reddito», dice “er Cecato” che accenna a tante conoscenze nella City. «Avrebbe il mondo lì...», facendo comprendere che pure in Gran Bretagna ci sono molte persone a sua disposizione. "Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros. Per gli investigatori i contatti londinesi gli sono stati garantiti dal latitante Vittorio Spadavecchia, un veterano della comunità neofascista di Londra. Spadavecchia ha un passato nei Nuclei armati rivoluzionari, è arrivato in Inghilterra nel 1982, costretto alla latitanza dalle condanne per gli omicidi del commissario della Digos romana, Franco Straullu, e di altri poliziotti. È stato condannato pure per numerose rapine messe a segno per finanziare il terrorismo nero. Secondo le indagini, è con lui che uno dei complici di Carminati, Fabrizio Testa, pianifica assieme al rampollo del capo investimenti economici «di varia natura», come l’acquisto a Londra di un immobile e l’apertura di un ristorante: il primo passo per creare una catena di locali. Una holding che potrebbe venire decifrata mettendo le mani sul “libro nero”, il registro occulto custodito dalla “cassiera” del clan, Nadia Cerrito «che contiene una vera partita doppia del dare e avere illecito, dei destinatari delle tangenti - uno dei costi illegali sostenuti dall’organizzazione per il raggiungimento del suo scopo nel settore economico-istituzionale; che contiene l’indicazione dei soggetti cui vengono veicolati i profitti, come Carminati, shareolder ed esponente apicale dell’organizzazione illecita o come Testa, testa di ponte di mafia capitale verso la politica e la pubblica amministrazione; che contiene una rappresentazione del conto economico illecito dell’organizzazione, con una specifica rappresentazione delle relative disponibilità extracontabili». Non bastano i soldi però per impadronirsi di una metropoli. Perché un uomo al di sotto di ogni sospetto come Carminati riesca ad assemblare una simile macchina di potere e farla marciare indisturbata per anni servono coperture che vanno più in alto. Nell’atto d’accusa dei magistrati si fa riferimento a questo “terzo livello”, citando rapporti con istituzioni statali, forze dell’ordine e servizi segreti. L’altro fronte dell’inchiesta, che deve decifrare quanto il sistema criminale fosse affondato nel cuore dello Stato. Ma c’è pure una dimensione orizzontale della collusione, un magma di complicità minute, dai medici ai commercialisti, dai palazzinari ai burocrati, che hanno garantito la prosperità della rete. Il rapporto che Carminati aveva creato con gli imprenditori viene spiegato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino: «Le indagini hanno consegnato una fotografia preoccupante, perché sovrapponibile al modus operandi delle mafie tradizionali nel rapporto con gli imprenditori, che si rivolgono all’organizzazione per avere protezione dall’aggressione della malavita predatoria. Di fronte a questa richiesta scatta la tutela dell’organizzazione mafiosa e, a fronte della protezione accordata, l’organizzazione non chiede soldi, ma di entrare in affari con l’impresa. E ci riesce ottenendo un punto di riferimento imprenditoriale, facce pulite attraverso cui realizzare i propri interessi criminali». E poi aggiunge: «Carminati spiega così il suo approccio con gli imprenditori: “l’obiettivo è entrare in affari, instaurare un rapporto di tipo paritario che garantisce vantaggi reciproci. Mi puoi anche dire che mi dai un milione per guardarti le spalle, ma dall’amicizia nasce un discorso che facciamo affari insieme. Io ho fatto questo discorso a tutti, devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi. Gli faccio guadagnare un sacco di soldi”. L’obiettivo è dunque acquisire attività economiche che significa avere appalti e servizi, soprattutto verso le pubbliche amministrazioni». Quelle romane erano cosa loro. Al Comune negli anni di Alemanno avevano trovato sempre le porte aperte, inserendo uomini di provata fedeltà in strutture chiave come l’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, o l’Ente Eur, di cui era amministratore delegato Riccardo Mancini (arrestato). Ma anche il cambio di giunta e l’arrivo della sinistra del sindaco Ignazio Marino non intacca i loro business. Buzzi si vanta di potere contare su sei dei nove assessori designati. Ora l’assessore Daniele Ozzimo e il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, entrambi del Pd, sono finiti sotto inchiesta e si sono dimessi. Il partner di Carminati sostiene di non avere problemi neppure con la Regione Lazio, dove ha chi gli tiene i rapporti con il governo di Nicola Zingaretti. E poi c’è Luca Odevaine, un tempo braccio destro di Walter Veltroni al Campidoglio e ora fondamentale per fare affluire nelle cooperative dei fascio-ladroni quei profughi che «valgono più della droga». Ma oltre ai politici stipendiati con un mensile fisso ci sono quelli pagati a prestazione: una percentuale per ogni appalto. Nomi e cifre censite proprio nel «libro nero» che adesso tutti vogliono recuperare.

Mafia Capitale: Da "Er Cecato" a "o Pazzo" L'alleanza che detta legge nella Capitale. Il clan fascio mafioso di Carminati e la camorra napoletana di Michele Senese detto "O Pazzo" che a Roma Nord ha investito in ristoranti e locali. E al suo servizio ha "La batteria di picchiatori di Ponte Milvio" con a capo Diabolik. Il leader degli Irriducibili della Lazio, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Roma Nord. Ponte Milvio. La zona diventata famosa dopo il film “Tre metri sopra il cielo” diventata il luogo simbolo della Capitale per gli innamorati di tutto il mondo, che qui facevano la fila per attaccare il loro lucchetto in segno di amore eterno. Poi il XX municipio ha deciso, all'unanimità, la rimozione dei lucchetti «per motivi di sicurezza e decoro». Però a Ponte Milvio negli stessi anni, e ancora oggi, scorrazza una banda ben più pericolosa dei gruppi organizzati di innamorati che si spingevano fin qui per legare alle ringhiere la loro promessa di fedeltà. Questa zona chic di Roma, infatti, è sotto l'influenza della  Mafia Capitale di Massimo Carminati detto “Er cecato”, finita sotto inchiesta dalla procura antimafia di Roma che ha iscritto cento persone nel registro degli indagati, tra cui l'ex sindaco Gianni Alemanno, e ha arrestato 37 persone. Una cosca fatta da manager, vecchi terroristi neri, imprenditori rossi, politici e reduci della Magliana. Un ibrido criminale la cui scoperta sta rivoltando dall'interno il potere romano. Ma Carminati non è solo su quel territorio. Da lui dipendono altri boss. In particolare gli uomini di Michele Senese detto "o Pazzo". Nei rapporti degli investigatori vengono descritti questi equilibri criminali di Roma Nord. I detective la chiamano la “Batteria di Ponte Milvio”. Particolarmente agguerrita e pericolosa con a capo, scrivono gli inquirenti, Fabrizio Piscitelli, conosciuto con il soprannome di Diabolik e noto per essere il capo ultras degli Irriducibili della Lazio. Da settembre scorso è in carcere per traffico di droga. Non solo, la guardia di finanza gli ha sequestrato pure oltre 2 milioni di euro di beni. E scoperto che aveva in mano la commercializzazione dei gadget della sua squadra del cuore. Ai suoi ordini uno stuolo di picchiatori stranieri, albanesi e rumeni. Ma non finisce qui. L'analisi dei carabinieri del Ros va in profondità e scopre che la Batteria Diabolik è al servizio dei «napoletani insediati a Roma nord tra cui i fratelli Genny e Salvatore Esposito che fanno capo a Michele Senese». “O Pazzo” è considerato dagli inquirenti uno dei quattro Re della Roma criminale così come aveva anticipato “l'Espresso” nell'inchiesta del 2012 sui sovrani della mala capitolina. Il gruppo legato a Senese, scrivono gli inquirenti, controlla diversi locali commerciali nella zona: «tra cui il pub Coco Loco, loro abituale luogo di ritrovo». Il boss Senese è considerato un camorrista a tutti gli effetti. La sua carriere inizia nella formazione del padrino Carmine Alfieri. Contrapposti alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. E proprio negli anni della guerra tra i due clan che Senese sceglie Roma come base logistica per i traffici e gli investimenti. “Er Cecato” Carminati e “O Pazzo” Senese hanno rapporti cordiali. E soprattutto interessi in comune. Si sono incontrati spesso e anche dopo l'arresto di Senese sono stati registrati ulteriori contatti tra i due clan. Ora pure Carminati è in carcere. Ma il loro regno non è ancora al tramonto.

Eppure la storia racconta un’altra cosa.

Scandalo di Capodanno 2015: Vigili assenteisti dagli a Marino, scrive Aurelio Mancuso su “Il Garantista”. Il diluvio di certificati medici giunti il 31 dicembre, insieme a permessi per donazione di sangue, assistenza parenti o per gravi motivi, per cui l’83,5% dei vigili urbani dell’urbe ha marcato visita, è un altro grave segnale che si abbatte su una città colpita già dalle inchieste su mafia capitale. Non sfugge a molti osservatori, che sia in atto un tentativo, perlomeno varie azioni anche indipendenti tra loro, di disarcionare un sindaco ritenuto scomodo, non compatibile rispetto a comportamenti, abitudini che si sono sedimentate. Si percepisce che la “casta” compiacente, o peggio che si faceva corrompere o si associava ai progetti criminali sugli appalti, sulla povera gente, sia la parte più esposta di un andazzo generale coerente con la volontà di aggirare le regole, di utilizzarle per condizionare la politica, per mantenere sempre un clima di emergenza. Di tutto questo si avvantaggia sicuramente Matteo Renzi, che ha buon gioco a scrivere su twitter: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano ”per malattia il 31dic. Ecco perché nel 2015 cambiamo regole del pubblico impiego. #Buon2015». Così un episodio gravissimo, collegato anche all’atteggiamento degli autisti della metro A che solo in sette su ventiquattro si son presentati la sera di Capodanno, diventa immediatamente questione nazionale, rende “inevitabile” l’intervento del governo, per correggere le storture come quelle emerse a Roma. I vigili non vogliono che parta la rotazione prevista dalla riforma varata dal comandante e appoggiata convintamente da Marino e, avevano minacciato un’assemblea sindacale proprio nella notte di San Silvestro, gesto poi rientrato, che però in molti sospettano sia stato trasformato in quello che è avvenuto: uno pseudo sciopero. La prima reazione del Campidoglio non lascia dubbi su come la pensa Marino: «Stigmatizza l’atteggiamento di quanti hanno cercato di sabotare i festeggiamenti del Capodanno con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata». Lo staff del sindaco accusa che le divergenze sorte nelle ultime settimane sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario accessorio: «Sono state prese a pretesto per venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri. Perciò sarà rigorosamente ricostruita l’intera vicenda a favore dell’autorità giudiziaria e di garanzia. Ogni condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente». Le opposizioni se la prendono però con il sindaco. Giovanni Toti consigliere politico di Fi denuncia: «Roma città fuori controllo: 83,5% dei vigili assenti a Capodanno. Macchina amministrativa bloccata e il Pd non vuole votare». Gli fa eco Matteo Salvini, segretario della Lega: «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema della città: il sindaco Marino». Ogni occasione è buona per contestare il sindaco chirurgo, però nessun esponente della passata maggioranza di centro destra che ha amministrato la capitale, riconosce ciò che ai cittadini romani appare lampante: negli scorsi anni la macchina comunale è stata abbandonata e questo ha determinato un generale abbassamento del rispetto delle regole, ma soprattutto degli utenti che ogni giorno subiscono un generalizzato disservizio. Marino non ci sta e anche lui su facebook lapidario scrive: «Non sono riusciti a guastare la festa. In 600 mila abbiamo passato il capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto. Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità». E’ probabile che molti impiegati pubblici non abbiano compreso che dall’emersione dello scandalo “mondo di mezzo”, Roma è diventata il luogo su cui si giocherà la credibilità non tanto del primo cittadino ma del presidente del Consiglio, intenzionato, come segretario del Pd, attraverso il commissariamento di rivoltare come un calzino il partito locale e, con azioni dell’esecutivo, tra cui la riforma Madia in discussione al Senato, di rimuovere tutte le posizioni di rendita, privilegi, comportamenti lassisti. Per chi ancora avesse dubbi è lo stesso sindaco a chiarire: «Ringrazio il premier Renzi e il ministro Madia per il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa. Chi ha finto di essere malato, chi ha inventato scuse ne dovrà rendere atto nei modi previsti dalla legge e assumersi le propria responsabilità. A chi ha lavorato e lavora per la città vogliamo ribadire la nostra gratitudine e quella dei romani». I sindacati confederali dopo un giorno di silenzio, ieri hanno emanato un comunicato stampa: «Stigmatizziamo con forza i disagi che si sono verificati nella notte di capodanno, è nostra opinione che le responsabilità di quanto successo vadano ricercate comunque a 360 gradi, e gli abusi se accertati, puniti. Anche questa volta non abbiamo in nessun modo dato indicazioni ai lavoratori difformi da quanto previsto dalle norme, contratti e regolamenti». La premessa, che serve a chiamarsi fuori da ogni responsabilità, però è più chiara quando lascia il posto alla risposta politica: «Pretendiamo che sulla vicenda si faccia totale chiarezza. Anche perché le dichiarazioni di queste ore da parte di amministrazione e governo che sparano nel mucchio finiscono per alimentare polemiche dannose e strumentali che non risolvono i problemi. Quanto sta accadendo non fermerà le nostre rivendicazioni, invece dimostra come sia indispensabile per cambiare le cose ricercare soluzioni condivise con il coinvolgimento dei lavoratori». Il Garante per gli scioperi e persino la magistratura valuteranno l’accaduto, rimane che, i sindacati scrivono: “Bisogna interrogarsi sul clima di esasperazione”, rischiando di fornire un lasciapassare culturale a chi ha utilizzato giuste tutele per scopi non nobili. Alcuni però, vigili interpellati dalle agenzie si sono difesi: «Non possono obbligarci a farlo. Alle 19 del 31 hanno fatto scattare la reperibilità. Non c’era nessun motivo. La reperibilità si fa per motivi di emergenza, come la neve, alluvioni, terremoti o altre calamità. Solitamente la notte di Capodanno lavoravamo in 700 in straordinario. L’anno scorso ce ne sono stati 450. Quest’anno era in strada solo chi aveva il turno. Niente straordinari. Quindi tutto è in regola».

Capodanno 2015 a Roma, l'83,5% dei vigili in turno si dà malato. Il comandante: "Diserzione che infanga l'intero corpo". Polemiche per l'incredibile numero di certificati per malattia, donazione sangue e disabilità giunti. Sullo sfondo lo scontro sul contratto decentrato. Il Campidoglio: "Tutto è andato bene grazie ai sostituti reperibili". Ma il vicesindaco accusa: "Un dato inaccettabile, a rischio la sicurezza dei cittadini". Ritardi anche nella metro e Atac ammette: "A San Silvestro, presenti solo 7 autisti su 24", scrive “la Repubblica”. Per la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili che dovevano lavorare era assente per malattia, donazione sangue, disabilità. A renderlo noto è il Campidoglio. "La serata e la nottata si sono svolte senza intoppi per la mobilità e la sicurezza delle 600 mila persone che hanno festeggiato l'arrivo del 2015 nelle strade della Capitale, a via dei Fori Imperiali e al Circo Massimo. Il servizio degli agenti della Polizia locale di Roma Capitale è stato garantito grazie al previdente ricorso all'istituto della pronta reperibilità, affinché si potesse disporre di un numero sufficiente di personale da impiegare nei servizi di viabilità finalizzati alla sicurezza stradale. Sono state impiegate circa 470 unità, 240 dalle ore 18.00/19.00 (75 di reperibilità) e circa 230 dalle ore 24.00 (45 di reperibilità). Inizialmente, i servizi di Capodanno prevedevano di impiegare circa 700 unità, come nei precedenti anni, in turno straordinario. Ma la mancata adesione allo straordinario aveva indotto il comando del corpo a disporre una ridistribuzione di tutto il personale". Il comunicato del Campidoglio fa riferimento alla dura battaglia dei giorni scorsi, con i vigili che avevano deciso di riunirsi in assemblea e il Prefetto che li aveva richiamati perchè lavorassero. "Dopo il differimento dell'assemblea sindacale dei giorni scorsi, prevista proprio per il 31 dicembre a ridosso della mezzanotte, già ieri pomeriggio era apparso chiaro che, a fronte della iniziale disponibilità di 1000 agenti (in servizio ordinario per il turno di seminotte) si sarebbe giunti progressivamente a 165 unità, per un totale di 835 assenze dell'ultima ora (-83,5%), motivate da malattia, donazione sangue, legge 104, legge 53 art. 19 ecc.. Inoltre, per il turno di notte dal numero iniziale di 300 unità previste si sarebbe arrivati a 185 unità, con 115 assenze riconducibili alle medesime  motivazioni (percentuale di assenza del 38%). Ciononostante, proprio grazie alla reperibilità, è stato possibile garantire tutte le chiusure stradali, nonché governare l'afflusso e il deflusso dei tantissimi cittadini e turisti in strada a festeggiare". "Il dato delle assenze per malattia e altre motivazioni, pari all'83,5% è talmente rilevante numericamente da essere inequivocabile e inaccettabile. E poteva essere molto grave per la città di Roma. Tanto più perché arriva nel momento in cui, per altri versi, stiamo cercando un terreno comune di confronto, per concludere positivamente la questione sul contratto decentrato", commenta in una nota il vicesindaco Luigi Nieri. "Nessuno mai, e io per primo, mette in dubbio il legittimo diritto di sciopero per i lavoratori, o il duro ma leale dialogo con l'amministrazione sulle questioni sindacali. Altro - prosegue Nieri - è la mancata assunzione di responsabilità di fronte alla città e ai romani, in occasione di un appuntamento fisso, popolare e seguitissimo, che ieri ha portato in strada a festeggiare il nuovo anno oltre 600mila persone. Il mio più sincero ringraziamento va invece a tutti gli agenti che ieri sera sono scesi in strada per lavorare, con senso di responsabilità e del dovere, per permettere al resto dei cittadini di divertirsi". Parla anche il comandante generale della polizia locale Raffaele Clemente: "Gli agenti che hanno lavorato ieri sera e ieri notte hanno compiuto un eccellente lavoro e per questo li ringrazio, a nome dell'amministrazione, della città e mio personale. Diversamente, non posso che stigmatizzare l'atteggiamento di quanti, tra i miei colleghi, hanno cercato di sabotare, con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata, la festa popolare del Capodanno, cercando di mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini ma anche il buon nome dell'intero Corpo degli agenti della Polizia locale e della città di Roma. Le divergenze sorte nelle ultime settimane o mesi, sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario accessorio  -  conclude Clemente- non dovrebbero essere prese a pretesto per venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri . Per questa ragione, per un evidente bisogno di equità nei confronti di quanti ieri hanno prestato il proprio dovere con professionalità e spirito di abnegazione sarà rigorosamente ricostruita l'intera vicenda a favore delle autorità giudiziaria o di garanzia. Ogni eventuale condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente".

L'ATAC. E nella notte di San Silvestro, rallentamenti fino a 20-25 minuti d'attesa sulla metropolitana A, secondo quanto sostiene la stessa azienda che parla di corse più lente a causa dell'assenza di conducenti nel turno straordinario 23.30-2.30, cioè quello oltre l'ordinario orario di chiusura del servizio metropolitano, organizzato in occasione della notte di San Silvestro. Nello specifico, sui convogli della linea A della metro - dove sono in totale 150 i macchinisti in servizio - erano disponibili solo 7 conducenti sui 24 che sarebbero stati necessari a garantire la regolarità del servizio. Per questo, fanno sapere dall'azienda, le corse sono state più lente dalle 23.30 fino a fine servizio, "circa 10-15 minuti di attesa a fronte di 5". "E' stato invece regolare il servizio sulla linea B", garantiscono dall'Atac.

Vigili malati, «azioni disciplinari». E il comandante va in procura. Madia: «Attivato l’ispettorato». Indagine interna in Campidoglio, all’esito della quale gli atti potrebbero essere inviati alla magistratura. Anche l’Autorità di garanzia sugli scioperi apre un procedimento, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera”.  Più di otto vigili su dieci in malattia e solo sette macchinisti su 24 alla guida dei treni della metro A: smaltiti i brindisi e i fuochi d’artificio, è bufera sull’astensione di massa della notte di Capodanno. Il primo a intervenire è il premier Matteo Renzi, che su Twitter scrive: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dicembre. Ecco perché nel 2015 cambiamo le regole del pubblico impiego #Buon2015». Poco dopo il commento del presidente del Consiglio, ecco l’affondo del ministro Marianna Madia: «Ispettorato ministero Funzione pubblica subito attivato per accertamenti violazioni e sollecito azioni disciplinari» assicura in un tweet la titolare della Pubblica amministrazione. E nel pomeriggio il comandante dei vigili, Raffaele Clemente affida l’indagine interna alla sua vice Raffaella Modafferi: dovrà portare alla luce la verità e metterla a conoscenza delle autorità interessate: quella giudiziaria (nel caso si ravvisassero reati penali), quella amministrativa (per uso e valutazioni interne) e, infine, quella di garanzia (Garante degli scioperi). Poi nella serata del 2 gennaio il premier Renzi è tornato sulla vicenda con un post su Facebook: «Il 2015 sarà l’anno della riforma costituzionale e della nuova legge elettorale. Ci occuperemo di cultura, scuola, Rai, green-act, lavoro. Di pubblico impiego, di modo che non accadano più vicende come quella di Roma dove la notte del 31 dicembre l’83% dei vigili urbani è rimasto a casa per malattia o donazione sangue». La linea dura di Palazzo Chigi è condivisa dal Campidoglio, il vice sindaco Luigi Nieri aveva annunciato in mattina dell’avvio dell’indagine interna aggiungendo: «In tempi rapidi si avranno dei risultati, in base a questi si deciderà se interessare la magistratura». Su Facebook il sindaco Ignazio Marino da un lato esulta per la notte di festa filata liscia anche senza municipale, dall’altro avverte che la «fuga» dalle strade avrà conseguenze:«Non sono riusciti a guastare la festa. In 600 mila abbiamo passato il Capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto. Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità. Ringrazio il premier Matteo Renzi e il ministro Marianna Madia per il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa». «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema di Roma: il sindaco Marino!». ha commentato su Facebook il segretario della Lega, Matteo Salvini. E contro il sindaco, su questa vicenda, si sono schierati numerosi esponenti di centrodestra: da Alfio Marchini («città paralizzata dall’incapacità amministrativa del sindaco») a Giorgia Meloni, Fratelli di Italia («Roma non merita un sindaco che non ha neanche il controllo del suo personale»). In realtà per «interessare la magistratura» (sono le parole di Nieri) non si attende la fine dell’indagine interna. Già a fine mattinata il comandante dei vigili, Raffaele Clemente, viene notato nei corridoi di piazzale Clodio. Al primo piano del palazzo di giustizia infatti incontra il procuratore aggiunto Maria Monteleone: l’accordo è che per ora la magistratura resta in stand by, in attesa dell’esito dell’ispezione avviata dal Comando generale della polizia municipale. Questa durerà alcuni giorni e al termine, se emergeranno indizi di reati, gli atti verranno inviati alla procura. E non solo il governo. Anche l’Autorità di garanzia per gli scioperi avverte che aprirà un procedimento di valutazione sull’«epidemia» della notte di San Silvestro. Al termine delle verifiche, potrebbero essere adottate le sanzioni previste dalla legge, perché lo sciopero nei servizi pubblici essenziali è possibile - ricorda il garante - solo all’interno delle regole della 146 del ‘90. Sul fronte politico, mentre il Pd prende le distanze dall’astensione di massa della municipale, Forza Italia ne approfitta per attaccare Palazzo Chigi sul Jobs act. «Pur potendo accampare altrettante rivendicazioni - osserva il capogruppo democratico in Campidoglio Fabrizio Panecaldo - non per questo poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, medici, infermieri, fornai, trasportatori, operai, volontari, assistenti sociali si sono dati malati in massa abbandonando la comunità a se stessa. Su questa vicenda si deve andare fino in fondo». Alessandro Cattaneo, di FI, sottolinea che se da una parte «non si possono legittimare certi comportamenti», dall’altra i vigili «possono dormire sonni tranquilli, grazie a un Jobs act che non ha toccato minimamente la pubblica amministrazione». Anche l’Udc, attraverso il vicesegretario vicario Antonio De Poli, vuole punire la municipale: «Contro i fannulloni serve una linea dura. Vanno individuati i responsabili che hanno permesso una situazione così grave e anomala». Nè la polizia municipale trova un qualche sostegno nelle associazioni dei consumatori. È drastica l’Aduc, che propone di ricominciare da zero: «Se per il Capodanno di Roma Caput Mundi si presentano 165 vigili sui 900 previsti, vuol dire che occorre sciogliere il Corpo e definire nuovi assetti. Stessa sorte dovrebbe toccare all’Atac, che con sette autisti presenti su 24 sulla linea A della metro ha creato non pochi disservizi». A difendere la municipale, insomma, restano solo (alcuni) sindacati, che giustificano i vigili assenti con motivazioni diverse. Per Franco Cirulli, della Uil, «la maggior parte ha donato il sangue e, come previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro degli enti locali, era esentata dal servizio». Il segretario del Sulpl Stefano Giannini sostiene invece: «La maggior parte delle assenze non è stata per malattia, ma per ferie. La verità è che è stato tenuto in servizio un numero di agenti non in grado di coprire l’ordinario. C’è stato un errore di valutazione». E Stefano Lulli, dell’Ospol, precisa: «Il dato delle malattie, a quanto ci risulta, è stato di meno del 50%. Considerati gli agenti malati da giorni, il numero relativo al solo 31 dicembre si abbassa ulteriormente. I medici, poi, le hanno certificate». Anche secondo Lulli c’è stato «un problema di disorganizzazione del comando. In tanti stavolta non hanno aderito volontariamente allo straordinario e questo non è stato calcolato. Il tutto in un Corpo che ha 2.500 agenti in meno rispetto a quelli che dovrebbe avere».

Vigili assenti a Roma la notte di Capodanno, ennesima figuraccia "capitale". La ripicca sindacale dei caschi bianchi che non vogliono accettare le nuove regole, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. L'unica vera malattia che può aver tenuto a casa l'83% dei vigili urbani di Roma la sera di Capodanno si chiama “ricatto”. Da mesi infatti i caschi bianchi sono sulle barricate contro l'introduzione del contratto decentrato (che interviene anche sul salario accessorio) e il piano anti-corruzione che, tra le altre cose, prevede la rotazione degli agenti sui territori. Così, quando il Prefetto ha vietato che si riunissero in assemblea a ridosso della mezzanotte del 31 dicembre, improvvisamente loro si sono ammalati, hanno dovuto prestare assistenza a parenti disabili o sono stati colti da un irrefrenabile slancio di generosità e sono andati a donare il proprio sangue. L'ultima notte dell'anno, mentre per le strade del centro di Roma, tra via dei Fori Imperiali e il Circo Massimo, c'erano 600mila persone che festeggiavano l'anno nuovo. Con i rischi per la sicurezza che si corrono ogni volta che tanta gente si concentra in uno spazio limitato. Tutto è andato bene solo perché era stato disposto l'istituto della pronta reperibilità proprio per far fronte al forfait rifilato non tanto ai propri superiori, ma alla città stessa, dalla stragrande maggioranza dei 700 caschi bianchi cui era stata chiesta la disponibilità a fare un turno straordinario. Ma è stata, lo stesso, l'ennesima figuraccia “capitale. Il comandante Raffaele Clemente ha parlato senza mezzi termini di tentativo di sabotaggio, di una “diserzione che infanga l'intero corpo. Il sindaco Ignazio Marino ha accusato i vigili assenti di essere “ingiustificabili”. Il vicesindaco Luigi Nieri ha definito le assenze “inequivocabili e inaccettabili” e fatto sapere che è stata aperta un'indagine. A livello nazionale il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia ha annunciato l'invio di ispettori e sollecitato azioni disciplinari. Il premier Matteo Renzi ha twittato: “Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dic. Ecco perché nel 2015 cambiamo regole pubblico impiego”. Il sindacato Sulpl ha giustificato gli agenti con la scusa del “piano ferie sbagliate” mentre il Garante sugli scioperi ha fatto sapere che sarà aperto un procedimento di valutazione. I romani, nel frattempo, hanno già fatto le loro. Quella dei vigili urbani è sempre stata tra le categorie meno amate. E non solo per la raffica di multe che in una città caotica e indisciplinata come Roma è facilissimo prendere. Ma soprattutto per i tanti casi di corruzione, minacce, estorsioni a loro carico svelati da inchieste giudiziarie più o meno recenti che hanno travolto non solo i semplici dipendenti ma addirittura i massimi vertici. Adesso sarà anche peggio. Perché venendo meno - è il giudizio dei più - a senso del dovere e responsabilità, hanno dimostrato di guardare solo al proprio giardino. Il loro egoismo li sta già esponendo – basta dare un'occhiata ai social network - a critiche ancora più dure da parte di chi li considera dei super garantiti che piantano grane se vengono spostati da una parte all'altra della città per evitare insani radicamenti. La loro autorevolezza è sotto zero. Nessuno ci sta a subire ripicche. Soprattutto non ci sta una città che ambisce oggi a ospitare un evento internazionale come i Giochi olimpici. E che invece si ritrova puntualmente ostaggio una volta dei tassisti, l'altra dei bancarellari abusivi, un'altra ancora dai ristoratori e baristi del centro. O rallentata da quei 17 macchinisti della metro che, sui 24 necessari, non erano in servizio la notte di Capodanno. O addirittura messa sotto scacco proprio da chi, per la divisa che veste, dovrebbe invece garantirne la sicurezza, l'ordine, il decoro.

"I vigili assenteisti non sono una sorpresa. Da anni raccontiamo lo sfascio di Roma". Parla il fondatore di "Roma fa schifo", uno dei blog più letti della capitale, in prima linea nel contrasto al degrado. "La loro è un'opera di sabotaggio. Speravano ci scappasse il morto?" Scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”. «I vigili urbani volevano che ci scappasse il morto», dice il fondatore del blog “Roma fa schifo”: «Bastava leggere le pagine Facebook loro e dei loro sindacati per capire che si preparavano a un sabotaggio, per protesta contro la rotazione del personale e la riforma dello stipendio accessorio. I vigili urbani si occupano della sicurezza, e sabotarla significa sperare che ci scappi il morto. È gravissimo, come se avessero scioperato i medici del pronto soccorso». A Roma, la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili era assente per malattia, donazione sangue o disabilità. E sulla linea A della metro erano disponibili solo 7 conducenti su 24, con i passeggeri che hanno atteso i treni anche per 20-25 minuti. Una figuraccia di cui parla tutta Italia, ma che sicuramente non ha sorpreso gli autori del blog più letto dai romani, “Roma fa schifo”, che da anni attacca il malcostume degli impiegati pubblici come una delle tante varianti del degrado della Capitale. Ma chi c'è dietro questo discusso sito? C'è Massimiliano Tonelli. Romano, 36 anni, cresciuto tra Montesacro e San Giovanni, si è laureato in scienze delle comunicazioni a Siena. In questa intervista si racconta per la prima volta, e sul caso dei vigili dice come al solito parole forti e chiare: «È un problema locale, perché a Torino ci si vergognerebbe di “buttarsi malati”, mentre a Roma ce ne si vanta al bar. Ma è anche un problema nazionale, di leggi sul pubblico impiego, e quindi è un autogol pazzesco, che consentirà al governo, speriamo, di mettere finalmente mano a una riforma». Tonelli è cofondatore e anima di un network di blog che fustiga Roma e i costumi dei romani: Degrado Esquilino, Cartellopoli, Pro Pup Roma (a favore dei parcheggi sotterranei), Bike-Sharing Roma. Ma il più famoso di tutti è appunto Romafaschifo.com (sottotestata: chi ha ridotto così la città più bella del mondo?), un blog in cui i cittadini raccontano e fotografano la decadenza della città, dalle piccole illegalità alle varie mafie, e che Marino stesso un anno fa ammise di leggere con grande attenzione. Ci lavorano, racconta Tonelli, «4-5 persone, più centinaia, anzi migliaia di potenziali reporter, cittadini comuni che ogni giorno ci mandano circa 150 tra foto e segnalazioni su tutto ciò che non va, sono loro i veri padroni del sito, su cui infatti non trovi il mio nome da nessuna parte». È un blog anche discusso, per i toni usati dagli utenti e dagli stessi gestori. Ma è un simbolo di una città stanca, un vero fenomeno per chi vive nella capitale e non solo, visto che Tonelli ultimamente ha attirato l'attenzione della grande stampa internazionale, da “Der Spiegel” a “Business Week”, dalla “Bbc” alla tv pubblica tedesca, che gli sta dedicando un documentario. E il tutto è tanto più sorprendente se si pensa che Tonelli di lavoro fa altro, ovvero gestisce il sito del Gambero Rosso e, dopo aver lasciato Exibart.com, nel 2011 ha fondato la rivista online Artribune.com.

Come è iniziato il progetto di Roma fa schifo?

«L'idea ci è venuta a fine 2007, in piena epoca Veltroni. All'inizio era uno dei siti del nostro network, ma con il tempo ha acquisito un'importanza particolare. Merito della giunta Alemanno, che diciamo ci ha dato molto materiale. Siamo partiti dalla “teoria delle finestre rotte”, che ha ispirato quello che forse è il nostro unico mito, ovvero il sindaco di New York Rudolph Giuliani, capace di risollevare una New York che stava messa persino peggio della Roma di oggi. Se c'è una finestra rotta, va subito riparata, altrimenti presto verranno rotte altre finestre, e in quell'area arriveranno graffitari, gang, prostitute e scippatori. Insomma, bisogna partire dalle piccole cose, da piccoli comportamenti asociali come chi urina per strada o chi non paga il biglietto sui mezzi di trasporto».

Quando è arrivato il salto di qualità?

«Prima con l'apertura del profilo Facebook, che oggi ha 70mila fan, e con l'account Twitter, che hanno avuto un effetto moltiplicatore sul nostro successo. Ma il vero boom lo abbiamo registrato nell'ultimo mese. Siamo passati da 35-40 mila a 440 mila utenti unici al giorno prima con la pubblicazione delle foto della “fellatio di Castel Sant'Angelo”, un rapporto orale fotografato in pieno giorno sul Lungotevere, ennesima dimostrazione del degrado della città. E poi con un articolo sul sindaco Marino. Picchi che hanno fatto interessare al nostro progetto anche grandi gruppi editoriali, anche se, lo dico subito, non siamo in vendita, continueremo a finanziarci con i banner di Google AdSense. Tuttavia è chiaro che, se avessi altro personale, farei riprendere con più continuità le nostre continue campagne, da quella per lo scuolabus all'aumento delle strisce blu fino allo spazzamento meccanico delle strade».

Se dovesse scegliere tra le tante, quali direbbe che sono le vostre battaglie?

«I cartelloni abusivi, la lotta contro i camion-bar, la sosta selvaggia. Tutti temi su cui i grandi nemici sono il benaltrismo e chi dice «poracci, lasciateli lavora'». Ecco, quello è il segnale. Quando qualcuno dice «ben altri sono i problemi» significa che stiamo toccando un nervo scoperto e dobbiamo picchiare duro. Oggi comunque la situazione più esplosiva sono gli scippi sotto la metro da parte delle gang di minorenni».

Vi siete fatti un bel po' di nemici. In generale più di destra o di sinistra?

«I più accesi sono gli estremi, di entrambi i campi. Da un lato gli antagonisti, i centri sociali, che difendono le occupazioni e ci danno dei palazzinari perché siamo a favore di una trasformazione edilizia intelligente. Pensano che siamo fascisti, ma i veri fascisti sono loro, con i loro slogan vecchi di 40 anni sulle “colate di cemento”. Il loro “poraccismo” è nemico dello sviluppo di Roma, perché le grandi aree urbane, come Parigi, sono le uniche a veder crescere il Pil, e invece a Roma nessuno investe. Dall'altra parte c'è Casa Pound, che ci ha denunciato per diffamazione».

Mai ricevuto minacce serie?

«Solo dai writer, che mi telefonano di notte o scrivono sotto casa. Una cosa non molto simpatica, soprattutto per mia moglie e mia figlia. Veniamo alle note dolenti, come il linguaggio spesso violento che usate verso chi vi critica. O il fatto che sembrate giustificare certe reazioni dei cittadini, come chi, tanto per fare un esempio recente, riga le auto parcheggiate sulle strisce pedonali. Il nostro tono volutamente sprezzante fa parte di un'operazione di comunicazione. È un lavoro giornalistico aggressivo, sì. Vogliamo svegliare la gente di questa città prepotente e ignorante, far capire loro che le buche, i manifesti abusivi, i parcheggi in doppia fila sono l'illegalità, non devono più essere la normalità».

Il vostro linguaggio è sprezzante anche verso gli immigrati. Parlate di “vu cumprà”...

«Un'espressione che continueremo a usare».

...e date voce a cittadini che, soprattutto quando si parla di rom, non usano mezze misure.

«Ascolti, la nostra posizione sugli immigrati è questa. Sono una grande opportunità, specialmente economica, come dimostra il Pil che riescono a generare. Poi, è vero, ci sono stranieri che creano problemi, ma mai quanti ne creano i romani. Diro di più, e l'abbiamo scritto pochi giorni fa a proposito dei rom: noi non siamo capaci di accoglierli. Tanti rom sanno benissimo che qui non c'è certezza della pena, e ci sono leggi per cui se sei una minorenne incinta nessuno ti può toccare. I rom ci sono in tutta Europa, ma solo in Italia ripuliscono i turisti in metropolitana. È lo stesso motivo per cui gli immigrati del Bangladesh, se sono ingegneri, vanno a Londra, e se non hanno qualifiche finiscono per vendere i fiori a Roma. Non sappiamo attrarre immigrazione qualificata».

Prima che scoppiasse il caso di Mafia Capitale, il sindaco Marino era nell'occhio del ciclone per la vicenda delle multe non pagate per la sua Panda. Voi, controcorrente e anche un po' a sorpresa, scriveste un post in sua difesa, che ricevette 34mila condivisioni su Facebook. Lo definiste “sindaco marziano” lodando le sue 10 discontinuità, che i poteri romani, Pd incluso, non gli avevano perdonato: la chiusura della discarica di Malagrotta, i camion-bar via dal centro, l'aumento delle strisce blu, le pedonalizzazioni, la battaglia contro i cartelloni abusivi, la pulizia nelle municipalizzate, i soldi tolti ai consiglieri comunali per la "manovra d'aula", le unioni civili, i risparmi per le forniture, la rotazione dei vigili urbani sul territorio.

«Non era una difesa, perché all'inizio di quell'articolo scrivevamo che forse neanche si era reso conto quali poteri avesse sfidato... Abbiamo voluto solo dire: attenzione, chi vuole la testa di Marino vuole la conservazione. A cominciare dal Pd locale, che è un grandissimo problema per questa città, dalla questione dei cartelloni ai lavori pubblici».

E le altre forze politiche?

«Forza Italia è uguale al Pd, ma meno elegante nelle sue “zozzate”. I grillini, poverini, sono completamente inutili. Per questo dico che, se vogliono dimostrare di servire a qualcosa, dovrebbero entrare in maggioranza, chiedere un assessorato, magari sulla scorta dei 10 punti che abbiamo segnalato sul nostro sito».

Pensa che il vostro sito abbia aiutato a cambiare i romani?

«Sì, a quel 10 per cento che ci scrive: «Prima di conoscervi non vedevo certe cose». È solo una minoranza, ma non fa più finta di niente e si ribella a una grande brutalità, quella dell'abitudine al degrado. D'altronde la “Ryan Air generation” è stato un dramma per i politici italiani. Chiunque con pochi euro può andare a Londra, Parigi o Madrid e vedere che, nonostante la crisi, le altre città europee funzionano».

Ha votato più a destra o a sinistra?

«Sono tanti anni che non voto. Direi mai a destra. Forse l'ultima volta avrò votato qualcosa tipo la Lista Dini».

Il sindaco migliore chi è stato?

«C'è poco da scegliere. Sono anche contro il mito di Petroselli e Argan, che non ci hanno certo lasciato in eredità una città europea. Potrei salvare un po' il primo Rutelli».

Alfio Marchini le piace?

«Mi sembra un populista, che cerca gli applausi. A Roma serve un sindaco che cerchi i fischi, se vuole davvero cambiare la situazione».

A luglio un deputato del Pd, Michele Anzaldi, l'ha proposta come assessore alla cultura.

«Non mi interessa scendere in politica, anche se un po' tutti i partiti, in privato, mi chiedono consigli, perché ho il polso del territorio».

Però Roma non fa solo schifo, su. Ci dica una cosa bella di questa città.

«Non è una città provinciale, né razzista, né chiusa. Può essere una piattaforma interessante anche a livello culturale, se venisse dotata di una informazione adeguata. E poi questo è un momento eccezionale per il cibo a Roma, c'è una bella scena enogastronomica. Lo dice uno che lavora per il Gambero Rosso».

Quanto sei sporca Roma: il malaffare dell'Ama e l'emergenza immondizia. L'azienda rifiuti, l'Ama, spreca fiumi di milioni senza pulire. E senza multare chi insudicia la città. Un disservizio che lede ulteriormente l'immagine della Città eterna. E Che viene denunciato da tempo. Senza risultati, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Un cassonetto ingombro di rifiuti nel centro di Roma Là dentro, in una stanza ad alto isolamento dell’istituto Spallanzani, il medico di Emergency contagiato dal virus sta lottando contro Ebola. Qua fuori, vicino all’ingresso dell’ospedale al numero 292 di via Portuense a Roma, i netturbini dell’Ama hanno abbandonato due camioncini pieni di rifiuti. Le portiere sono aperte, non le hanno nemmeno chiuse a chiave. La Grande Tristezza ti colpisce ovunque. Non c’è bisogno di dritte e soffiate. Se cerchi, trovi. Piazza di Santa Maria Maggiore è una rassegna di cassonetti, rifiuti abbandonati, un cartello divelto, bottiglie lasciate sui gradini. Non appena se ne vanno i turisti, davanti alla basilica e intorno alla fontana comincia il balletto dei ratti. Grandi e piccini. Corrono, raccolgono tra i rifiuti scarti di cibo, si arrampicano a beretti. Chissà quale malsano protocollo prevede che carichi di immondizia maleodorante siano parcheggiati per tutto il weekend proprio davanti a uno dei centri europei più importanti per la cura delle malattie infettive. O forse sì, la risposta è chiara. Basta scorrere l’elenco degli arrestati nell’operazione antimafia che in queste ore ha coinvolto Gianni Alemanno, l’ex sindaco della capitale ed ex ministro Pdl. Franco Panzironi da esperto in incremento delle razze equine è stato amministratore delegato dell’Ama, l’azienda municipale dei rifiuti. Giovanni Fiscon con 220 mila euro di stipendio record è l’attuale direttore generale dell’azienda e in Ama può contare sulla moglie. Tutti amici degli amici di Alemanno, dicono le ultime inchieste: da quella sugli sprechi di parentopoli all’ultima sul boss neofascista Massimo Carminati. Panzironi e Fiscon ovviamente sono innocenti fino al terzo grado di giudizio. Ma in questo clima di allegra famiglia in camicia nera, qualche furgone, qualche cassonetto, qualche sacco può sfuggire al controllo. E continua a sfuggire. Magari vi sarà capitato di vedere sacchetti o rifiuti ingombranti abbandonati per strada, perfino in pieno centro: non è difficile a Roma. Sapete quante multe sono state date per questa sciagurata abitudine? Venticinque in tutto il 2014, da gennaio a ottobre. E se avete pestato una cacca sul marciapiede, in attesa che vi porti fortuna, forse vi incuriosisce conoscere quanti siano i proprietari di cani multati nell’ultimo anno: zero. Perché stupirsi? Se proprio volete chiamare i vigili, provate a cercarli al bar in piazza di Santa Maria Maggiore all’Esquilino: la notte tra il 23 e il 24 novembre ce n’erano addirittura sei in piacevole servizio in divisa per un’ora. Ma il diario di viaggio dell’ultima settimana nel cuore della Grande Tristezza va ben oltre il malcostume. Le pagine romane da martedì raccolgono anche ritagli di cronaca nera: criminalità, politica, appalti e i neofascisti della banda della Magliana ancora lì, in cima alla piramide a muovere soldi e burattini. Turno di notte: sei vigili, due auto, un'ora al bar. Dalle 00.20 all'1.19 sei agenti della Municipale in divisa, tra cui due graduati, con due macchine di istituto hanno chiacchierato al bar-gelateria davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Dopo un'ora sono stati avvicinati da un passante infuriato perché era stato appena aggredito dietro l'angolo da due persone. A quel punto i vigili sono saliti in auto e se ne sono andati, però nella direzione opposta rispetto a quella indicata Il premier Matteo Renzi ha detto e ripetuto di aspettare il 15 dicembre, giorno della consegna dei collari d’oro agli italiani che si sono distinti nello sport, per annunciare la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Sull’immagine della capitale nel mondo, però, prima dei collari sono arrivate le manette. Spese fuori controllo per centinaia di milioni. Manager incompetenti. Roma e i romani spremuti. E le casse portate al default. La mafia non è mai stata dalla parte della gente. Né della buona amministrazione. Qualcuno lo segnalava da anni, confrontando la spesa corrente con la totale mancanza di piani per il futuro. Sono i ricercatori dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale, istituita dodici anni fa dal consiglio comunale. Anche quest’anno, cinque analisti e un direttore tecnico hanno lavorato per oltre tre mesi. Dal loro rapporto sul 2014, pubblicato il 24 novembre, non si salva nessuno. Sentite qua: «Nonostante una specifica previsione del regolamento del consiglio comunale, sin dal 2002 non si è mai svolta un’apposita seduta per l’esame e la discussione della relazione annuale». Fantastico: dal 2002 cinque analisti e un direttore tecnico vengono pagati dal Comune e il loro prezioso lavoro da dodici anni viene puntualmente infilato in un cassetto o buttato nel cestino. Non bisogna però essere pessimisti: «La sensibilità e l’attenzione dimostrata dal presidente Coratti nei confronti dell’attività dell’agenzia sicuramente farà sì che tale mancanza venga sanata, dando l’opportunità all’Assemblea capitolina di confrontarsi sull’intero assetto dei servizi pubblici locali». Complimenti all’onorevole Mirko Coratti, presidente Pd dell’Assemblea capitolina, il consiglio comunale romano. Cioè no, un momento: Coratti è tra gli indagati in Comune, corruzione aggravata e finanziamento illecito. Martedì i carabinieri gli hanno perquisito l’ufficio e si è subito dimesso. Anche lui ovviamente è innocente fino a prova contraria. Ma con l’aria che tira, la qualità dei servizi pubblici rischia di non essere più in cima all’agenda. E quando mai lo è stata? È duro il lavoro dell’analista a Roma se oggetto dell’indagine è la pubblica amministrazione: «L’aspetto relativo ai poteri di accesso e di acquisizione della documentazione e delle notizie utili nei confronti dei soggetti gestori e degli uffici di Roma Capitale», denuncia l’agenzia, «dovrà a nostro avviso essere oggetto di uno specifico atto di indirizzo da parte dell’assessore e del segretario-direttore generale, viste le difficoltà, i ritardi e talvolta forse una certa ritrosia a voler mettere tempestivamente a nostra disposizione i dati e le informazioni richieste». Se non ci riescono loro, che sono stati incaricati dal Comune, figuriamoci cosa può succedere a un cittadino qualunque quando va a protestare agli sportelli. Eppure, calcolando le spese e il personale apparentemente sulle strade, la Grande Tristezza dovrebbe essere lucida come il marmo della Pietà di Michelangelo. Sulla pulizia non sorveglia soltanto la polizia municipale. Ai vigili si aggiungono agenti del “Nucleo decoro urbano di Roma Capitale” e gli ispettori dell’Ama, appositamente formati tra gli ottomila dipendenti dell’azienda pubblica. Negli ultimi mesi sono addirittura aumentati. Meno male. Nel 2014 la violazione contestata con maggiore frequenza dagli agenti accertatori dell’Ama, così vengono chiamati, è quella dell’uso scorretto dei bidoncini condominiali, nelle zone dove la raccolta dell’immondizia viene fatta porta a porta: 6 multe al giorno. E quante volte succede che i camion dell’Ama non riescano a svuotare i cassonetti, perché sono circondati da auto in sosta selvaggia? Vigili, agenti del decoro, accertatori dell’Ama sono rigorosissimi: due multe al giorno in una metropoli di due milioni e 889 mila abitanti. È una media: a volte sono quattro, a volte zero. E nascondere rifiuti nel cassonetto non corrispondente? Una multa al giorno. Lavoro durissimo. Forse è per questo che nell’ultimo anno si è rinunciato a punire chi non raccoglie le cacche dei cani da parchi e marciapiedi e chi getta rifiuti per strada: zero contravvenzioni. «Dato che le strade di Roma sono tutt’altro che pulite né sono prive di escrementi di cani sui marciapiedi, il fatto che non siano state fatte multe... assume una connotazione sociale assolutamente negativa», scrivono gli analisti nella relazione che il consiglio comunale non ha mai esaminato, «in quanto avalla comportamenti collettivi incivili e individualisti che danneggiano direttamente e indirettamente l’immagine della città e della popolazione romana, creando inoltre un danno economico: quantificabile nelle maggiori spese di pulizia a carico di tutti i cittadini». Dal 2009 al 2013 l’attività di vigili, agenti e accertatori per difendere il pubblico decoro è comunque aumentata toccando la ragguardevole produzione di 39 verbali al giorno: suddivisi per municipio sono due verbali al giorno, un record per i quartieri di Roma. Soddisfatti del risultato ottenuto, nel primo semestre del 2014 i controlli sono crollati a otto sanzioni al giorno, una ogni due municipi. Poche? Tante? Nei primi dieci mesi del 2013 l’Amsa di Milano ha emesso 49.769 multe per violazione del regolamento dei rifiuti, 170 al giorno, di cui 2.000 solo per il decoro urbano: «Mentre a Roma veniva elevata una sanzione ogni 263 abitanti, a Milano ne veniva emessa una ogni 25: anche se la città lombarda non si può certo definire dieci volte più sporca della capitale», è scritto nella relazione dell’agenzia inutilmente consegnata al consiglio comunale. Mantenere la città pulita costa meno che pulirla spesso. Sanzionare i cittadini incivili è più corretto che far pagare tutti. Intanto pagano tutti. Soltanto per il lavaggio e la pulizia delle strade il piano finanziario 2014 prevede l’impiego di 171 milioni: cioè 60 euro per ciascuno dei residenti romani, neonati inclusi, con un aumento del 60 per cento in dieci anni per le pulizie e del 138 per cento per la rimozione dei rifiuti abbandonati. E i risultati non si vedono. Ma pagano anche gli italiani. A Roma la raccolta differenziata nel 2013 si è fermata al 31 per cento e l’immondizia continua a finire in discarica, violazione che non riguarda soltanto la capitale: per questo, la Corte europea di Giustizia pochi giorni fa ha condannato l’Italia a 40 milioni di multa una tantum e 42,8 milioni per ogni semestre di ritardo nell’attuazione delle misure obbligatorie. Altri soldi che saranno sottratti agli investimenti, alla città. Che però si trasformavano in ricchezza per i nuovi boss, intercettati mentre mettevano le mani sui contratti milionari per la differenziata e per la raccolta delle foglie. Perfino gli appalti per la manutenzione del verde sono un enigma a carico dei romani. Da Monte Sacro alla periferia Nord-Est costano 0,38 euro al metro quadro, a Nord-Ovest appena al di là del Tevere li pagano 250 euro al metro: il 6.578 per cento in più. E i cartelloni? La selva pubblicitaria che accompagna i turisti da Fiumicino e Ciampino e nel resto della capitale ha reso al Comune appena 265 mila euro in tutto il 2013. A Genova, la città del sindaco Ignazio Marino, su una superficie molto più piccola sempre nel 2013 hanno incassato un milione e 60 mila euro. Certo, sono genovesi. Ma a Roma non resta nulla: si spendono 900 mila euro all’anno per la rimozione dei cartelli abusivi. Allora, chi è il regista della Grande Tristezza? Gianni Alemanno? Il salotto dei suoi uomini manager? Massimo Carminati? Una capitale cresciuta a immagine e somiglianza di un boss non ha futuro se perfino il consiglio comunale da dodici anni se ne frega della qualità dei servizi. Nel frattempo chissà se l’ex sindaco indagato, la sua alleata Giorgia Meloni e quelli di Casa Pound avranno l’onestà di tornare in piazza: «Porteremo il tema della sicurezza in Assemblea capitolina», ha scritto Alemanno sul suo blog il 17 novembre. Ora che è evidente quanto la mafia sia salita in alto, ha ragione: Roma non è mai stata così insicura.

Vigili: gag, disavventure e scandali. I retroscena dello scontro con Marino. I vigili romani sono il doppio dei milanesi e fanno un terzo delle multe. L’intervento di Cantone, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Scherzi del destino. Per aver osato scrivere che dei vigili urbani a Roma si nota soprattutto l’assenza, il giornalista del Corriere Maurizio Fortuna è stato querelato da ventotto di loro. Pochi giorni dopo il recapito della citazione, ecco la notizia che la sera di San Silvestro l’83,5% degli agenti in servizio era scomparso. Chi si dava malato, chi donava il sangue, chi stava con la mamma inferma... Questa «diserzione di massa», per dirla con il comandante Raffaele Clemente, è l’ennesimo episodio della guerra dichiarata a Ignazio Marino. Certo non per la bacchettata a un agente troppo galante con una bella automobilista senza patente, come quella appioppata nel film «Il vigile» al pizzardone motociclista Otello Celletti, alias Alberto Sordi, dal sindaco Vittorio De Sica: prontamente ricambiato con una multa per eccesso di velocità. Qui il conflitto è di ben altre proporzioni. E c’è da augurarsi che non vada a finire allo stesso modo, con la macchina del sindaco nella scarpata e il vigile che lo scorta all’ospedale. Il culmine dello scontro, a novembre: quando Marino e Clemente hanno deciso la rotazione degli incarichi. L’iniziativa, senza precedenti, ha scatenato una rivolta. Capitolo chiuso con l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone che ha definito la rotazione non solo «legittima», ma «un meccanismo a tutela delle persone per bene». Però gli animi non si sono placati affatto. Il rapporto fra i vigili e Marino è sempre stato turbolento. Un mese dopo il suo insediamento il loro capo Carlo Buttarelli, messo lì da Gianni Alemanno, se n’è andato sbattendo la porta. Al suo posto è stato chiamato un colonnello dei carabinieri selezionato con procedura pubblica. Nonostante tre lauree, però, Oreste Liporace non aveva tutti i requisiti previsti e ha dovuto gettare la spugna. Allora è arrivato un poliziotto della squadra anticrimine della Questura di Roma: Clemente, appunto. Senza provocare, anche in questo caso, manifestazioni di giubilo da parte di quanti hanno interpretato tale nomina, al pari di quella tentata in precedenza, come un gesto di aperta sfiducia verso la polizia municipale. Il cui capo proveniva di regola dai ranghi interni. Anche se poi non sempre tutto filava liscio. Dicono tutto le disavventure del predecessore di Buttarelli, il comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani incaricato di sostituire quel Giovanni Catanzaro pizzicato dal Messaggero a parcheggiare la sua Alfa Romeo in una zona off-limits vicino a piazza di Spagna: sul cruscotto un permesso per disabili. Rimosso da Walter Veltroni, Catanzaro sfiora nel 2008 la candidatura al consiglio comunale con l’Udc. Dieci mesi fa Giuliani viene arrestato con l’accusa di corruzione. Dicono i giudici che prendeva tangenti dalla società incaricata di ripulire l’asfalto dopo gli incidenti stradali. Lui si proclama estraneo: «Sono sempre stato ligio ai miei doveri». Mesi prima, un’altra disavventura. Lo scenario, questa volta, un concorso per 300 aspiranti vigili. Giuliani presiede la commissione d’esame quando parte un’inchiesta della Procura di Roma nella quale si ipotizza il reato di falso ideologico. Alemanno revoca tutti e comincia un autentico Calvario. Da allora si sono alternate ben tre commissioni ma i risultati del concorso, bandito ormai cinque anni fa, non ci sono ancora. Le indagini che riguardano Giuliani, invece, si stanno per chiudere. Nemmeno il rapporto degli ispettori inviati dal Tesoro a verificare i conti della capitale è tenero nei giudizi. Sostiene per esempio che dal 2010 al 2013 siano state erogate ai vigili indennità di responsabilità per quasi 23 milioni in eccesso rispetto ai livelli considerati legittimi. Segnalando anche una serie di anomalie come la maggiorazione notturna concessa per le fasce orarie 16-23 e 17-24, nonostante i contratti nazionali la prevedano solo dalle 22 alle 6 del mattino. A Roma i vigili sono potentissimi: addirittura più del sindaco, si è sempre detto. Se ne contano 6.077. Tuttavia ce ne sono costantemente in giro per la città che ha il più alto numero al mondo di auto (oltre 70 ogni cento abitanti) da un minimo di 105, la sera, a un massimo di 993, la mattina. Ovvero, dall’1,7 al 16,3% della forza complessiva. Il tutto fra strade disseminate di vetture in seconda fila e mai una contravvenzione sotto il tergicristallo, neppure davanti a un comando della polizia municipale. E la produttività? Spiega molte cose il confronto con Milano contenuto nello studio Sose-Ifel sui costi standard. Mentre Roma spendeva per gli stipendi dei vigili il 14,5% più del «fabbisogno standard», Milano risparmiava il 38,3%. Con 154 multe mediamente a testa fatte a Roma contro le 370 di Milano. E le 27.990 sanzioni di altro genere elevate dai seimila vigili romani contro le 79.870 dei poco più di tremila loro colleghi milanesi. Talvolta, dobbiamo riconoscerlo, le condizioni non sono facili. Come capita a chi deve misurarsi con un infernale caos di lamiere: ricorrendo a gesti e movenze tanto eleganti da affascinare perfino Woody Allen. Che nel suo film «To Rome with love» ha immortalato la scena del bravissimo vigile Pierluigi Marchionne sulla pedana di piazza Venezia mentre dirige il traffico, nemmeno fosse un direttore d’orchestra. Proprio lì, dove una volta il giorno della Befana si portavano regali ai pizzardoni in segno di riconoscenza. Altri tempi...

In un giorno 393 assunzioni. Quel rapporto del Tesoro su Roma. Dal 2000 al 2012, quasi 95 mila aumenti. Solo tra il 2008 e il 2012 sono stati impegnati per il salario accessorio dei dipendenti comunali 340 milioni di euro, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Davvero un mercoledì da leoni, quel 25 novembre del 2009, per 393 vigili urbani con contratto a termine. Nel giro di una mattinata presentavano domanda di assunzione a tempo indeterminato, l’ufficio del personale verificava simultaneamente il possesso dei requisiti e il Comune di Roma sfornava istantaneamente il provvedimento di stabilizzazione. Firmato: Mauro Cutrufo, senatore del Pdl e vicesindaco. Peccato che la rapidità da salto nell’iperspazio di questa apparentemente complessa procedura faccia a pugni con quanto affermato nell’ormai arcinoto rapporto degli ispettori del Tesoro sui conti della Capitale. Cioè che in base alle norme allora vigenti quelle stabilizzazioni erano illegittime. Giudizio estendibile a tutte le 2.781 pratiche del genere, di cui ben 500 relative ai vigili urbani, concluse fra il 2007 e il 2010. Che nella gestione del personale il Comune di Roma non rappresentasse il top del rigore, era risaputo. Ma lo scenario delineato in quel rapporto, soprattutto per gli anni che hanno preceduto l’attuale amministrazione, va oltre ogni immaginazione. E ben si comprende il sindaco Ignazio Marino, che descrive l’inqualificabile diserzione dei vigili la sera di San Silvestro come «una ritorsione» per aver lui voluto cambiare certe regole inconcepibili, quali per esempio quelle che garantiscono una valanga di indennità: le più assurde. Perché a toccarle, tutti i 26 mila dipendenti del Comune, tanti quanti i lavoratori della Fiat in Italia, ci rimetterebbero qualcosa. A cominciare da quel salario accessorio che dovrebbe essere collegato a mansioni specifiche ed è sempre stato invece distribuito a chiunque senza particolari motivi. Una pioggerellina fitta e incessante che ha innaffiato tutti dal 2008 al 2012 con oltre 340 milioni di euro. Del resto, che il merito sia sempre stato una variabile ininfluente nel folle panorama retributivo del Comune di Roma lo dimostra una nota del Dipartimento risorse umane del dicembre 2011, nella quale si precisa che per non intascare il compenso di produttività bisogna «aver riportato una valutazione inferiore a 66 punti» e «aver lavorato un numero di giornate inferiore a 110». Cioè, essersi presentati sul posto di lavoro meno della metà del tempo stabilito per contratto. Regole, dunque, che giustificano l’assenteismo e il lassismo. Tanto più, notano gli ispettori, che non è prevista alcuna differenza nella somma corrisposta a chi viene valutato 66 e chi invece prende 100. Ma chi bada mai a una simile inezia, quando la pioggerellina è studiata apposta per bagnare indistintamente ognuno? Prendete le «progressioni orizzontali», termine che definisce i semplici aumenti di stipendio. Dal 2000 al 2012 sono state distribuite ben 5 volte, per un totale di 94.994 gratifiche: effetto di 94.994 valutazioni positive sul rendimento individuale. Quelle negative, 15. E sarebbe interessante sapere che cosa avevano combinato per meritarsele. Sputato in faccia al direttore? Mai andati a lavorare? Rubato? Spesa complessiva, 245,8 milioni fra il 2008 e il 2012. Alla quale si deve sommare quella per un’altra pioggerellina altrettanto stupefacente e copiosa per il capitolo delle indennità. Spesso e prelibato come un millefoglie. Indennità legata all’effettiva presenza in servizio, ovvero una somma erogata in più oltre allo stipendio per il semplice fatto di andare a lavorare. Indennità manutenzione uniforme. Indennità per l’attività di sportello al pubblico. Indennità oraria pomeridiana. Indennità annonaria. Indennità decoro urbano. Indennità di disagio: anche se non si capisce, sottolinea il rapporto, di quale disagio si tratti. E le promozioni, usate esclusivamente «per aumentare la retribuzione ordinariamente corrisposta ai dipendenti». Una slavina, a dire degli ispettori, non proprio legittima: 2.721, nei soli anni 2010 e 2011. E le assunzioni a tempo determinato fatte «intuitu personae» anche quando non riguardavano solo lo staff di fiducia dei politici. E le retribuzioni accessorie dei dirigenti, andate in orbita fra il 2001 e il 2012 passando in media da 45.640 a 88.707 euro l’anno procapite con una impennata del 94,3%. Premiando, per giunta, pure chi avrebbe dovuto essere sanzionato: «Non risulta», sostiene il rapporto, «che a nessun dirigente sia stata negata l’erogazione della retribuzione di risultato». Qualche papavero comunale, poi, prendeva pure compensi dalle società municipalizzate che si andavano ad aggiungere a uno stipendio già non particolarmente modesto. Il che prefigura, dicono gli ispettori, la violazione del principio «di onnicomprensività della retribuzione». Un caso? Il rapporto cita la partecipazione alla Commissione di accordo bonario di Roma metropolitane, la società incaricata di tenere i rapporti con il general contractor della Metro C, del capo dell’Avvocatura comunale Andrea Manganelli. Il quale «nel solo 2013 avrebbe percepito la somma di 53.614 euro e 14 centesimi», anche se «la natura di società in house di Roma metropolitane», stigmatizza il documento del Tesoro, «non sembrerebbe consentire la corresponsione di simili compensi». Fatti singolari. Come «singolare» viene giudicato l’aumento di 1,7 milioni del fondo per gli incentivi economici dei dirigenti, per di più «proprio nell’anno, il 2008, in cui lo Stato si è accollato il debito del Comune di Roma». Una goccia nel mare, in grado però di spiegare molte cose. Per esempio, come sia stato possibile che nel 2012 la spesa corrente di Roma capitale fosse superiore «di circa 900 milioni», per gli ispettori, a quella del 2007. Mentre sull’efficienza delle strutture comunali e la qualità dei servizi offerti ai cittadini, per carità di Patria, forse è meglio sorvolare.

I «pizzardoni» romani: assenteisti, scansafatiche e pure saccenti. La Capitale è tornata al vigile approfittatore in stile Alberto Sordi, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”. «Ahò, signori onorevoli assessori della giunta comunale! Ahò, signori industriali! Ahò, signor sindaco! Io qui faccio crollare il governo!». In un batter d’occhio, il pizzardone Otello Celletti (l’Alberto Sordi de Il vigile di Luigi Zampa, 1960) è diventato il simbolo della notte degli assenteisti, dei vigili romani che a Capodanno hanno marcato visita. Celletti, impettito nella sua divisa da vigile motociclista, è uno e trino. Scansafatiche mammone, un approfittatore che dispensa giudizi a destra e a manca: «Er pennello deve passà prima orizzontale e poi verticale, sennò ce lasci ‘a striscia...». Non appena indossa la divisa, da raccomandato, diventa un fustigatore di costumi, persino nei confronti delle autorità. Ha un solo cedimento verso Sylva Koscina. Alla fine (terza identità), impara con chi essere severo e con chi no. La vicenda degli assenteisti finirà forse nel nulla, all’indignazione seguirà la rassegnazione. È la Roma statale e parastatale, con i suoi privilegi quasi intoccabili, difesi dalla compiacenza dei sindaci e dalla complicità dei sindacati. È la «Roma di mezzo», la Roma della mezza-porzione, la Roma dove persino la criminalità organizzata pare cialtrona e millantatrice. È Roma-Italia mezza «ladrona». Otello non farà crollare nessuno. Dovrà solo decidersi, «tra una guera e n’antra, de fà quarcosa ». Anche solo assentarsi dal lavoro.

La bandiera del certificato, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Al Sindaco De Blasio, che è il loro capo, i poliziotti di New York hanno mostrato le terga. Al sindaco Marino, che è il loro capo, i vigili di Roma hanno mostrato il certificato. Esporre mille terga, per quanto possa apparire paradossale, significa metterci la faccia. Procurarsi mille certificati falsi significa al contrario nascondere la faccia, imbrogliare e degradarsi. Da un lato c'è il coraggio sfrontato della ribellione, fosse pure per ragioni non condivisibili, dall'altro lato c'è la viltà stracciona, fosse pure per ragioni condivisibili. Qui poi non c'è neppure l'assenteismo dei fannulloni, non c'è l'accidia del travet che Brunetta perseguitava come il pelandrone assistito. Questi sono i ceffi di Stato che usano la truffa del certificato-patacca come lotta sindacale, sino all'odioso ricorso, per disertare, alla donazione del sangue e, peggio, all'assistenza retribuita dei familiari disabili (legge 104), atti generosi ridotti a trucchi pelosi, norme di civiltà usate come forconi, la libbra di carne di Shylock il mercante di Shakespeare. E la regia sindacale, che a New York rimanda alla ribellione ostentata dei simboli e mai all'insubordinazione agli ordini, a Roma rimanda al reato associativo che è molto alla moda nella capitale come ha denunziato anche il Capo dello Stato nel messaggio di fine anno. Ed è drammatico che a questo reato di falso, commesso insieme ai medici di famiglia, concorrano tutti i sindacati, per una volta uniti nella difesa della malattia simulata e spacciata per diritto alla protesta. Siamo ben al di là delle già ridicole indennità, da quella per tenere pulita e in ordine la divisa a quella per il servizio in strada (e dove, se no?), sino alla bizzarria poetica della "seminotte", l'invenzione più creativa del contratto integrativo dei vigili, con inizio (non è uno scherzo) alla 15,48 che è, come dire, due minuti prima delle quattro meno dieci, un orario che evoca il binario 9¾ della stazione di Harry Potter dove si respirava corno di bicorno in polvere e tritato di unghie di cavallo. È un pentagramma di comicità corporativa che sicuramente sta facendo schiattare di invidia gli orchestrali e i coristi dell'Opera di Roma che l'umidità retribuita la subiscono soltanto al calar del sole e non al suo semicalar. A New York, secondo il sindacato dei poliziotti, de Blasio ha offeso la dignità degli agenti perché ha consigliato al proprio figlio (Dante, di origine afro-italiana) di "stare attento alla polizia". A Roma, secondo il sindacato della polizia municipale, Ignazio Marino e il comandante Raffaele Clemente, da lui nominato, hanno offeso la dignità dei vigili perché li hanno obbligati alla rotazione nei quartieri trasformandoli così in presunti corrotti, senza più distinzione tra onesti e disonesti. Ma cosa c'è di più disonesto di 835 certificati falsi? E come può un vigile restare legittimato come controllore delle regole se è il primo che le viola, e per di più in questo modo così meschino e cacasotto? Chi sceglie la ribellione deve pagarne il prezzo e non rifugiarsi nella miseria del certificatuzzo del dottorino di famiglia connivente e correo. E non sto parlando della ribellione del pugno chiuso alla Tommie Smith alle Olimpiadi del 1968, ma soltanto di chi fa sciopero sapendo che perderà il salario. Chi si ammala invece lo conserva. E addirittura lo ruba chi fa finta di ammalarsi. E va bene che la medicina è una scienza incerta, duttile e spaziosa, ma la flogosi che subisce l'influsso sindacale, l'agente patogeno che si scatena in un intero Corpo, imprevedibile, imprendibile e inqualificabile come un pirata della strada, è una deriva triste dell'Italia del certificato, quella della visita fiscale che non sgama più nessuno, e non solo perché avviene in fasce orarie governabili dal finto malato ma anche perché costa troppo alle strematissime amministrazioni. Punito con pene irrisorie, quasi sempre con la multa, e in attesa di depenalizzazione, il falso certificato medico chiama, suscita e raduna tutti i fantasmi dell'Italia rancida dell'inguacchio, del disertore vile, del pavido che si rintana in un letto. Ma attenti a riderne e a evocare il solito Alberto Sordi e la commedia all'italiana, il paese degli assenteisti, dei sempre stanchi, degli sfaticati, del "dottore è fuori stanza", della pubblica amministrazione che tutti vorrebbero giustamente riformare e qualcuno sogna di punire. La verità è che, morta ormai la faccia bonaria di Roma e persino della piccola corruzione tollerata, anche il poliziotto municipale si rivela più fellone dell'ultimo degli automobilisti che supera la fila invadendo la corsia d'emergenza. E il trucco della malattia non è più la risorsa dello studente pelandrone che, per marinare la scuola, alza il mercurio al caldo di un termosifone, o della recluta che si infilava il mezzo toscano sotto l'ascella, o ancora del coscritto che si infliggeva ferite di ogni genere sino al taglio di un dito e alla simulazione della pazzia. Qui è persino più deludente del Badoglio di Tutti a casa il sindacato che mette il falso certificato al posto del riscatto sociale di Di Vittorio e della concertazione di Luciano Lama. C'è anche, nell'epidemia di finti malati, l'ennesima prova dell'inutilità dell'Ordine dei medici che non è intervenuto, non ha represso, non ha intimidito, non ha sospeso, e non ha neppure aperto un'indagine. Tutti ci aspettiamo che Marino licenzi, che il comandate Clemente punisca, che la magistratura metta sotto accusa e nessuno si domanda cosa pensano dei certificati bugiardi i presidenti dell'Ordine di Roma, Roberto Lala, e dell'Ordine nazionale, Amedeo Bianco, anche loro assenti ingiustificati in uno scandalo che dissolve nella nostalgia pure i versi di Gianni Rodari: "Chi è più forte del vigile urbano? / Ferma i tram con una mano. / Con un dito, calmo e sereno, /tiene indietro un autotreno: / cento motori scalpitanti / li mette a cuccia alzando i guanti. / Sempre in croce in mezzo al baccano: / chi è più paziente del vigile urbano?".

Vigliacchi di Stato. I complici sono i sindacati che li proteggono e il governo che ha salvato i dipendenti pubblici dal jobs act, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Penso a un amico imprenditore che un anno fa ha dovuto chiudere l'azienda e oggi lotta contro una depressione che non gli dà tregua. Penso ai cassintegrati che dopo aver perso il lavoro stanno perdendo anche la speranza di ritrovarlo. E, senza andare lontano, penso ai tanti colleghi rimasti a casa per i tagli nell'editoria che vagano per le redazioni superstiti a caccia di una collaborazione, anche sottopagata. E poi penso ai vigili urbani di Roma che la notte del 31 si sono dati in massa malati per festeggiare in famiglia o perché arrabbiati con il sindaco Marino in quanto «pagati male». Penso queste cose e provo rabbia e vergogna. Comodo non lavorare avendo garantito a vita il posto di lavoro. Facile protestare per avere più soldi sapendo che comunque vada non perderai un centesimo. Da vigliacchi è poi farlo mettendo a rischio la sicurezza dei cittadini in una notte cruciale per la sicurezza. Manifestato tutto il disprezzo possibile per questi incoscienti, è ora di smascherare i protettori degli statali fannulloni e furbetti. I sindacati, ovviamente, complici dello sfascio strutturale e morale del pubblico impiego. Ma anche una certa politica che non ha mai avuto il coraggio di mettere in riga gli oltre tre milioni di italiani con il posto di lavoro garantito a vita. Parliamo di un esercito di elettori che fa paura anche a Matteo Renzi. Il quale ieri si è detto indignato per i fatti di Roma e ha annunciato misure severe. E pensare che solo pochi giorni fa ha graziato gli statali stralciando di suo pugno la loro posizione dalla nuova legge sul lavoro che prevede il licenziamento in tronco per fannulloni, imbroglioni e incapaci. Senza quell'intervento salvifico, oggi si potrebbero cacciare i vigili di Roma che si sono inventati malattie inesistenti. Questi signori a Renzi devono fargli un monumento, ma se fossi nei panni del premier non ne andrei fiero. A fare il duro con i lavoratori dipendenti, le partite Iva e gli artigiani per poi calare le brache con una massa di privilegiati non si va lontano. E se poi quei privilegiati vestono pure una divisa, l'indignazione per noi comuni mortali è ancora più forte. Nei loro confronti e verso il malato vero, che è chi ci sta governando in questo modo assurdo.

Vittorio Feltri parla dei vigili assenteisti, scrive “Libero Quotidiano”. Nel suo editoriale Il Giornale, prende spunto dalla vicenda di Roma per spiegare come la colpa di tale lassismo sia dei vigili solo a metà e spiega come a partire dagli anni Settanta "il sindacalismo sfrenato prese il sopravvento sul senso del dovere". Parla, anzi scrive, con cognizione di causa perché racconta di quando lui stesso, poco più che ventenne, fu assunto in un'amministrazione provinciale. Era stato assunto come impiegato. Guadagnava 100mila lire al mese "in un'epoca in cui con 500mila compravi un'utilitaria". Ricorda come tutti si dessero da fare, forse perchè controllati ma lui invece non riusciva a stare seduto alla scrivania per più di dieci minuti. "Benché fossi pigro e svogliato non fui cacciato. Ero intoccabile come tutti i colleghi. I quali tuttavia non mi somigliavano, alcuni erano fulmini di guerra e coprivano le mie manchevolezze con santa rassegnazione giudicandomi probabilmente inabile". Feltri ricorda l'attivismo, la voglia di fare che regnava negli uffici, il rispetto che avevano  verso il cittadino. E ammette: "Li guardavo mentre smantettavano sulla macchina meccanografica e pensavo: questi sono scemi, chi glielo fa fare di ammazzarsi di lavoro? In realtà lo scemo ero io. Tant'è che nel giro di due o tre anni mi trasferirono di qua e di là nel tentativo di trovarmi una collocazione giusta affinché rendessi quanto gli altri. Alla fine andai in cerca di fortuna e mi è andato di lusso". 

Tutti uniti, anche Cantone: «Linciamo i vigili, sono fannulloni!», scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Ogni tanto l’Italia, che è un paese diviso – su tutti i piani – trova dei punti in comune e si unisce. Si riscopre, come dire?, Nazione. Da un po’ di tempo il nemico comune era il ceto politico, ribattezzato ”La Casta” dai giornalisti. I giornalisti hanno la specialità di trovarsi sempre alla testa di questi rari fenomeni di riunificazione nazionale. Ora però sembra che l’odio contro i politici non sia più sufficiente. Perché è diventato troppo universale, troppo scontato. Ormai persino i politici hanno accettato l’idea che il male dell’Italia siano i politici, e dunque diventa persino inutile bastonarli. E’ sufficiente che essi riconoscano la superiorità morale e il dritto al comando della magistratura ( e degli stessi giornalisti), cosa che fanno, di buon grado, quasi tutti. Allora occorre trovare un nemico nuovo, che sia davvero il simbolo dei mali dell’Italia, della sua stoltezza, dell’infigardaggine, dei privilegi. In queste feste natalizie si è trovato il nemico nella figura del ”vigile urbano di Roma”. Bersaglio perfetto. Ha due caratteristiche che difficilmente si trovano nella stessa persona: è ”antipatico” al popolo, perché fa le multe. E al tempo stesso é popolo. Il vigile è un lavoratore, che sgobba e ha uno stipendio piccolino. E dunque può perfettamente diventare il simbolo del male, con una specie di ”transfert”, che serve a linciare un personaggio ”antipatico” e indicare contemporaneamente nel ”lavoratore” il colpevole dei mali della nostra economia. E dunque sul vigile urbano, sull’odio per lui e per il suo essere fannullone, può benissimo unificarsi la rabbia popolare, sollevata dai giornalisti, e l’intransigenza del potere, dell’establishment, che ha bisogno assoluto di ”criminalizzare” una figura tipica di lavoratore per affermare, nel senso comune, che il problema dell’Italia sta nella scarsa produttività e nei costi eccessivi del lavoro. Cosa è successo a Roma nella notte di Capodano? Niente di grave, sembrerebbe, perché non pare che ci siano stati seri inconvenienti nella gestione del traffico. Però si è scoperto che una gran quantità di vigili urbani che avrebbe dovuto essere in servizio, o reperibile, aveva presentato certificato medico per starsene a casa. Intendiamoci bene: questi vigili non si sono sottratti al normale orario di lavoro, ma semplicemente allo straordinario. Per svariate ragioni, tra le quali la loro contestazione a una serie di norme varate recentemente dal comando dei vigili, che riguardano proprio la regolamentazione dello straordinario. La massiccia astensione dal lavoro è un atto che sta a metà tra la scelta personale e la protesta. Naturalmente si può dire: ma l’assenteismo non è una forma di protesta, le proteste devono svolgersi dentro le regole stabilite dalla legge e organizzate dai sindacati. Forse però, se si dice così, non si capisce che la crisi, la recessione, e in parallelo la morte dei partiti politici e l’epocale indebolimento dei sindacati, rendono inevitabile il nascere di forme di ribellione nuove, e anche fantasiose. E’ assurdo considerare l’assenteismo contro gli straordinari un semplice atto di vigliaccheria e di irresponsabilità: è in modo limpido un atto di lotta. Poi ciascuno è autorizzato a dire che è una lotta sbagliata, che i metodi sono illegittimi, che questi fenomeni vanno fronteggiati e vinti – così come tante volte si dicono queste cose anche delle più legalitarie battaglie dei sindacati – però bisognerà capire che i ”ribelli” non resteranno fermi ad aspettare gli schiaffoni e rimbrotti del potere, si muoveranno, cercheranno di resistere, di spuntarla. Il conflitto, lo scontro sociale, non è solo una affermazione teorica: è esattamente questa roba qui, questi atti di indisciplina di massa. Il problema vero è la debolezza oggettiva dei ”ribelli”. Sono isolati in modo totale. Persino la Cgil ha paura di difenderli, intimidita, impaurita dalla furia della ”politica per bene” – di destra o di sinistra, leghista o grillista – e dei grandi giornali. Non c’è una sola voce che si leva in loro difesa. Nessuno che avanza un dubbio sulla necessità di linciarli, di preparare subito delle leggi speciali contro di loro, magari – chessò – di dare anche a loro il 416 bis (associazione mafiosa…)!. Non lo dico solo per scherzo: mi ha colpito il fatto che contro i vigili, in questa crociata anti-lavoratori, si è gettato a capofitto anche Cantone, il mitico commissario anticorruzione voluto da Renzi e applaudito dai magistrati. Che cavolo c’entra Cantone con l’astensione dal lavoro dei vigili urbani? C’entra, c’entra, perché il cerchio deve chiudersi: lotta alla corruzione, lotta ai lavoratori, lotta all’articolo 18, potere ai ”giusti”, ai giudici, ai giornalisti, ai saggi, a i tecnocrati, agli imprenditori, agli eletti…Sapete come dicevano i greci? Agli ”aristos”.

E su di questo passo. E poi il paradosso. «Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.

De Cataldo: "Giustizia, un'utopia da difendere". E' un’aspirazione che spesso non si realizza, ma bisogna continuare a lottare per vederla trionfare. Anche se la crisi economica ha inciso profondamente sui diritti e rimesso in discussione molte conquiste sociali. Il commento dello scrittore, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”. “Processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo”. La citazione non appartiene a un nichilista dell’Ottocento, ma al grande giurista Salvatore Satta. Intende, Satta, che il processo è un mistero. Come la vita, aggiunge: il mistero del processo, il mistero della vita. Sublime astrattezza di un Maestro: ma realmente la giustizia è, o può essere considerata, un mistero? Nella percezione di grandi artisti e narratori sembrano prevalere altri sentimenti. Prendiamo il giudice Briglialoca, immortalato cinque secoli fa da François Rabelais. Per decidere le cause che gli sono affidate, questo onesto e stimato magistrato si affida al lancio dei dadi. Vince colui «che per primo arriva al numero di punti richiesto dalla sorte giudiziaria, tribuniana, pretoriale». Però, almeno una volta, Briglialoca sbaglia, e scrive una sentenza “ingiusta”. E finisce sotto processo. Assolvetemi, invoca l’anziano e stimato giudice, se ho sbagliato è stato per colpa della vecchiaia: la vista è debole, leggendo i dadi ho preso un “4” per un “5”. Nell’episodio del processo a Briglialoca, il genio ribaldo di François Rabelais coglieva il senso di sbigottito sgomento che, al suo tempo, segnava il rapporto fra l’esercizio della giustizia e la sua percezione diffusa. La giustizia. Una partita che si gioca fra misticismo e gnosi. Una tenebrosa palude avvolta dalle nebbie di un linguaggio iniziatico, un viaggio interminabile nelle lungaggini di un formalismo astruso. E, alla fine, l’inganno di un lanciatore di dadi, per giunta dalla vista debole. Come se la dea della bilancia e della spada del mito fosse destinata a trasformarsi, ironicamente, nell’altra sua sorella, la Fortuna dagli occhi bendati che premia o punisce a caso. Sentimento di ingiustizia, indignazione venata di umorismo per le alchimie dei chierici e sarcasmo per l’uso “casuale” della legge. Questo troviamo in Rabelais: razionalità, più che mistero. E l’elogio della durata del processo che fa Briglialoca non si comprende se non si ricorda che, per antica prassi, ai giudici si donavano “sportule”, cioè bustarelle, tanto più ricche quanto più sottili erano le questioni da affrontare: come dire, più la tiri per le lunghe, e più guadagni. Nei secoli a venire, molti altri grandi spiriti ci hanno fornito rappresentazioni ironiche, amare, disperate, ilari della giustizia. Si pensi all’Azzeccagarbugli che tramortisce il povero Renzo a colpi di latinorum; al giudice di Collodi che condanna Pinocchio proprio perché innocente; al corrotto ubriacone Azdak che nel “Cerchio di gesso del Caucaso” di Bertolt Brecht fa la scelta giusta perché risponde alla morale della strada infischiandosene del diritto; al cupo guardiano delle leggi del “Processo” kafkiano; agli eroi dei romanzi di John Grisham alle prese con le storture, spesso atroci, del sistema giudiziario dell’Impero Americano. La giustizia, in tutte queste narrazioni, o non è definita affatto, o lo è in negativo. Ciò che affiora, accanto allo sbigottimento e alla critica, è qualcosa di molto diverso dal mistero. È la tensione verso un oggetto indefinibile: sappiamo confusamente ciò che è giustizia, ma non vediamo mai attuato questo nostro ideale. Tutto ciò si può definire aspirazione. Un’aspirazione che, a guardare alla Storia, fende realmente i secoli e i millenni come la spada fiammeggiante delle antiche icone. Se per Satta il giudizio finale, l’unico che abbia veramente un senso, è rimesso all’Uno che non ha bisogno di punire, perché gli basta giudicare, l’uomo pratico coglie, nella rappresentazione degli artisti, la dialettica continua fra la tensione verso il giusto e i limiti della Storia. E solo trascinata nell’aula della Storia la giustizia accantona l’alone metafisico del mistero per farsi esperienza concreta, vicenda dialettica, dialogo continuo fra luce e oscurità. Nel nome di ciò che è giusto donne e uomini, in tutte le terre conosciute, hanno conosciuto l’ostracismo, la repressione, il martirio. E giusto, peraltro, non necessariamente coincide con legale. Il codice di Hammurabi legittimava il padrone a uccidere il proprio schiavo e l’altrui: in questo caso, l’omicida se la cavava con una modesta multa. Le leggi razziali di Mussolini, inique e ingiuste, erano leggi, pertanto legali. Oggi la schiavitù è un crimine represso dalle convenzioni internazionali. E la nostra Costituzione vieta il razzismo. Ciò che all’antico re babilonese e al dittatore di Predappio appariva giusto e legale oggi è universalmente ritenuto ingiusto e illegale. Quando parliamo oggi di giustizia, dunque, parliamo, in termini storici, dell’ultimo segmento (in ordine di tempo) di un lunghissimo percorso costellato di lotte, contese, guerre e massacri. E in termini oggettivi siamo autorizzati a spendere la parola progresso. Poiché la maggior parte di noi, almeno nei paesi occidentali, vive in regimi democratici, sicuramente preferibili ai regni assolutistici dominati dall’arbitrio. Le Corti internazionali giudicano dei crimini contro l’umanità commessi da individui che, un tempo, furono condottieri e capi di Stato riveriti e acclamati: e anche questo, sino a pochi anni fa, sarebbe stato impensabile. Con il passare del tempo, l’aspirazione generica e indeterminata alla giustizia cresce e si fa sempre più concreta. Abbraccia la legittima pretesa di diritti che si vanno affermando sull’onda di un altro progresso, quello scientifico, e di un’accresciuta sensibilità sociale: il diritto alla salute, al lavoro, all’ambiente. Tuttavia, la stessa Storia che induce a un cauto ottimismo impone un diverso ordine di riflessioni. Le Corti internazionali non sono riconosciute da alcune grandi nazioni, che si rifiutano di aderirvi. E se operano è perché appena vent’anni fa, nel Mediterraneo, a poche miglia dalle nostre coste, nell’ex-Jugoslavia si perpetravano il genocidio e lo stupro etnico. La giustizia, per chi era internato in un campo “etnico” non poteva che essere un’aspirazione: e ancora oggi lo è per i tanti afroamericani che protestano contro le violenze poliziesche o per le donne soggiogate dai regimi sessuofobici, e di esempi se ne potrebbero citare a dozzine. Dopo l’11 settembre, come rivela l’agghiacciante rapporto del Senato statunitense, la prima democrazia al mondo ha praticato la tortura. La crisi economica che stiamo attraversando ha inciso profondamente sui diritti dei lavoratori. Molte delle conquiste sociali degli anni passati sono rimesse in discussione. Lo Statuto dei lavoratori è un ferrovecchio. Il sindacato un inutile orpello. Il welfare è sul banco degli imputati. Mentre l’aspirazione alla giustizia non cessa di crescere, si fa strada nella collettività un crescente senso di sfiducia e disaffezione verso le istituzioni. Gli elementi di ottimismo e di pessimismo si bilanciano, rianimando, sotto diverse spoglie, il costante e irrisolto rapporto dialettico fra la giustizia a cui si aspira e quella che si vede realizzata. È vero che dai tempi di Hammurabi molto è cambiato: ma se possiamo accettare di definire la giustizia come un’aspirazione, non possiamo parlarne in termini di conquista irreversibile. Non c’è niente di irreversibile in questa storia millenaria. La tensione fra lo schiavo e il padrone è il nodo centrale intorno al quale ruota la vicenda della giustizia come aspirazione. In questa corrente dialettica il progresso non può che stare dalla parte dello schiavo. O per meglio dire, delle molteplici maschere che lo schiavo assume nel corso del tempo: il combattente per la libertà di opinione, la donna violata, il profugo in fuga dalla guerra, la vittima della mafia, il minore abusato, il precario senza diritti, il condannato che espia la pena e cerca di reinserirsi. Un’aspirazione che dobbiamo tenerci ben stretta, e per la quale bisognerà ancora e ancora combattere.

Che volete che sia. Con questi italiani!

Palazzo, le sparate dei politici non fanno ferie. Dagli insulti di Gasparri alla crisi Pascale-Silvio. E la cagnolina della Biancofiore, i selfie di Renzi, le analisi economiche di Belen e il mutuo di Razzi. Tra panettoni e cotechino, i politici non hanno mancato di rilasciare dichiarazioni surreali anche sotto l'albero. Ecco le peggiori, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”.

Michaela Biancofiore, onorevole di Forza Italia: "Non partirò mai per le festività natalizie senza la mia cagnolina, la carlina Puggy. Vive in simbiosi con me, ne soffrirebbe troppo" (19 dicembre 2014)

Matteo Renzi, ospite di Antonella Clerici e Bruno Vespa, nel salotto di “Un mondo da amare” (Raiuno): "È come se l’Italia non sapesse farsi i selfie..." (19 dicembre 2014)

Antonio Razzi, la vita grama del senatore berlusconiano (La Zanzara): "Ammé dello stipentio di parlamentare non me rimane niente. Non posso manco aiutare i miei due figli operai. Non è che ti restano in tasca 12mila euro al mese, ci sta da pagare la quota al partito, ci stanno da pagare i collaboratori, alla fine devi stare attento a non finire a mangiare sagne e facioli..." (19 dicembre 2014)

Silvio Berlusconi, su Twitter: "Tutti mi chiedono come sto. E come volete che stia? In libertà condizionata" (22 dicembre 2014)

Matteo Salvini, il grande quesito della Vigilia, su Facebook: "Amici, una curiosità: ma voi ci credete agli Oroscopi?" (24 dicembre 2014)

Barbara Mannucci, ex deputata Pdl, ora stregata da Matteo Salvini: "Salvini è la nostra ultima spiaggia. Che uomo coraggioso. Che energia. O ci salva lui, oppure non abbiamo speranza. Salvini è come Berlusconi nel '94 , è da allora che non sento tanto calore". (Nel 2011 diceva: "Berlusconi è la luce, resterò con lui fino alla fine. Sarò la sua Claretta Petacci") (20 dicembre 2014)

Andrea Orlando, ministro della Giustizia, intervistato da Libero: "Mi mancano pochi esami per laurearmi in Giurisprudenza. Interruppi gli studi per andare a lavorare..." 21 dicembre 2014)

Don Ferdinando, parroco di Villasanta, comune alle porte di Monza, durante la messa della Vigilia di Natale: "Babbo Natale è solo un ciccione ubriacone, inventato dalla Coca-Cola per simboleggiare il consumismo..." (24 dicembre 2014)

Il Mago Otelma, intervistato da Libero: "Simpatie grilline? Le nostre simpatie vanno a tutti coloro che difendono la libertà dei cittadini e tutelano la legalità democratica. Noi leggiamo nella mente del 'duce invitto' (Renzi) una smodata ambizione, una protervia lancinante, una ebbrezza superumana che bene riecheggia Zarathustra... La sua è stata abile propaganda, sapiente utilizzo dei media asserviti e ruffiani, disinvolto impiego di una retorica laurina..." (30 dicembre 2014)

Silvio Berlusconi, dal messaggio di auguri pubblicato sul proprio profilo Facebook: "… Il programma che noi metteremo in pratica, ove avessimo responsabilità di governo, è la formula liberale del benessere e della crescita che ha funzionato sempre e dovunque sia stata realizzata. È un programma in tre punti. Il primo punto: meno tasse. Il secondo punto: meno tasse. Il terzo punto: ancora meno tasse" (24 dicembre 2014)

Beppe Grillo, in passato il leader 5 Stelle aveva elogiato il "modello" Argentina, ora è il turno della Russia: "Fare la fine del Rublo se usciamo dall'Euro? Magari!" (27 dicembre 2014)

Roberta Pinotti, ministro della Difesa, in un'intervista rilasciata a Tv2000, la tv della Cei: "Mi sono iscritta al Pci nell’89, l’anno della svolta di Occhetto che chiamò a raccolta anche Acli e Caritas. Votavo Pci, lo sentivo il partito più attento a quelli che ritenevo gli ultimi, secondo una mia lettura del Vangelo" (27 dicembre 2014)

Mario Borghezio, l'eurodeputato leghista dice la sua sul rinvio a giudizio di 34 “guardie padane” (Il Giornale): "Si figuri che il capo delle famigerate camicie verdi era il generale Pollini. Di professione faceva il guaritore. Credo che imponesse le mani... Fra l’altro il nocciolo duro dell’organizzazione era composto da ex alpini con i capelli bianchi e una discreta propensione all’alcol" (29 dicembre 2014)

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi durante la conferenza stampa di fine anno ha fatto riferimento a ''Ogni maledetta domenica'', il film in cui Al Pacino interpreta il ruolo di un allenatore di football americano che riesce a condurre la squadra alle finali del campionato. Matteo Renzi, durante la conferenza stampa di fine anno: "Mi sento un po' come Al Pacino in Ogni maledetta domenica, un coach che dice ai suoi che ce la possono fare" (29 dicembre 2014)

Maurizio Gasparri, il vicepresidente del Senato scatenato su Twitter, anche durante le festività natalizie: "Il Liverpool scarica Balotelli? Un vu gioca' del pallone". "Non vado pazzo per i sanpietrini, ma l'idea di venderli è così da deficiente che meriteresti che te li tirassero in fronte Ignazio Marino". "Sei proprio un deficiente Ignazio Marino". Ad un utente: "Te nu spreca' la corda chiudi l'hanno in bellezza, buttate!". Rispondendo a NaOh: "Io capodanno da solo? Ora vado dagli amici e tu stasera stai a casa, la vita da Rom è dura". Rispondendo a Maria Teresa, che lo critica tirando in ballo la "Repubblica delle banane": "Lei è una nota esperta di banane a giudicare dalle foto, addio" (29 dicembre 2014)

Giuseppe Pecoraro, prefetto di Roma, intervistato da Repubblica in merito all'inchiesta su Mafia Capitale: "A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato, Gianni Letta. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza" (30 dicembre 2014)

Francesca Pascale, la fidanzata di Silvio Berlusconi spegne sul nascere le voci di una possibile crisi di coppia: "Crisi? Ma quale crisi? Io e il presidente Berlusconi siamo sempre una coppia quasi normale. Una coppia in cui quel 'quasi' c’è sempre stato, e riguarda la differenza d’età. E chi si scolla da lui?". "Non ero a Madrid, vuole che le mandi le mie coordinate geografiche via WhatsApp? Sono ad Arcore, con 'lui', certo. L'unica emergenza è un'altra: mancano gli struffoli". "E a chi si dava pensiero anche di sapere come stessero i miei cagnolini, annuncio che si preparano a festeggiare con noi. Dudù è in ottima forma, e Dudina... non so se posso dirlo... diciamo che è entrata nell’età adulta" (31 dicembre 2014)

Antonio Razzi, l'incredibile ammissione del senatore di Forza Italia, come se nulla fosse... (Repubblica.it): "Io avrei ottenuto qualcosa per passare con Berlusconi? Magari! Non volevo perdere il posto di lavoro. Io volevo rimanere alla Camera perché volevo pagarmi il mutuo. È stato un atto di salvarmi la mia paca... Chi è quel lavoratore che non si salva la sua paca? Era un modo per difendere i miei diritti. Mi mancava tre anni per la penzione svizzera. E così ho detto, se salvo il governo io mi salvo tutto e almeno pago il mutuo. Sennò chi lo paga il mutuo? Lei?" (22 dicembre 2014)

Brunetta: "La legge c'è, basta applicare la mia riforma". L'ex ministro della Pa: "Ridicolo nascondersi dietro il ddl Madia", scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”.

Onorevole Brunetta, lei è stato per anni simbolo della lotta ai «fannulloni» nella Pa. Cosa pensa dell'episodio romano?

«È un episodio grave che rischia di tramutarsi in un boomerang per chi se ne è reso responsabile. Ma certo colpisce che la sinistra dopo aver combattuto le mie leggi oggi scopra che esistono fannulloni e assenteisti. Quando lo dicevo io mi insultavano».

Renzi invoca nuove regole per il 2015.

«Nascondersi dietro il disegno di legge Madia è ridicolo. Le regole per combattere fannulloni e assenteisti ci sono già e portano il mio nome. Vanno applicate subito, senza scuse, e vanno stigmatizzati certi comportamenti sempre, non solo quando c'è il caso mediatico. È stata la sinistra, è stata la Cgil a combatterle. Sono stati i governi Monti, Letta, e anche il governo Renzi, da oltre 10 mesi, a non applicare queste regole».

In concreto come sono state disattese?

«Proprio sull'assenteismo dei dipendenti. Io pubblicavo i dati delle assenze di tutti i dipendenti della Pa, mensilmente e nel dettaglio. Con la fine del governo Berlusconi questo non è più accaduto. Avevamo ottenuto risultati importantissimi. Ad esempio l'obbligo dei certificati medici online sia del pubblico che del privato con la trasmissione in tempo reale all'Inps. Se vogliono sapere quali medici hanno fatto i certificati, possono farlo in un attimo».

Contro la sua riforma ci furono ribellioni da parte dei dipendenti pubblici?

«No, anzi, la Cgil mise in campo 13 scioperi, tutti falliti, tutti con una partecipazione media del 4%. Il consenso nella Pa era alto, tranne nel Pci-Pds-Ds-Pd, tranne nella Cgil, tranne tra gli intellettuali come Scalfari o Merlo, tranne i cantanti, gli attori e i comici».

Renzi da amministratore locale come si pose rispetto alla sua riforma?

«La applicava salvo dire: "Ma non sono mica Brunetta". Quando era presidente della Provincia di Firenze gli proposi una scommessa: se con la mia riforma tra i tuoi dipendenti l'assenteismo si riduce più del 40% mi regali una Montblanc; se meno del 40% te la regalo io. Vinsi la scommessa, ma la Montblanc non me l'ha mai regalata».

In malattia per cento milioni di giorni all’anno. Non solo per motivi di salute: le assenze dei dipendenti toccano il 20% nel settore pubblico e il 13% nel privato. Brunetta stimò un costo annuo per la PA di 6,5 miliardi, anche se il fenomeno è in calo. Sono tutte giustificate? Scrive Paolo Baroni su “La Stampa”. Solo a causa delle malattie in un anno, il 2013, l’ultimo censito dall’Inps, vanno in fumo oltre 108 milioni di giornate di lavoro: 77,6 nel settore privato e 30,8 nel settore pubblico, dove si registra un totale di 4.838.767 «eventi». In pratica l’altro anno ognuno dei 3 milioni e trecento mila travet si è ammalato una volta e mezzo nel giro di 12 mesi. In media, ferie comprese, le assenze dal lavoro toccano il 20% nel settore pubblico ed il 13 in quello privato. Ma le motivazioni, come insegna la vicenda dei vigili romani, non si limitano alle sole malattie, ci sono infatti permessi di vario tipo ed i giorni concessi dalla legge 104 per l’assistenza ai disabili. Un «danno», per la pubblica amministrazione, che qualche anno fa, quando Brunetta lanciò la sua crociata contro i «fannulloni», venne stimato in 6,5 miliardi di euro l’ anno. L’ultimo monitoraggio della Funzione pubblica, che però si ferma ad agosto 2014, calcola che su 4705 amministrazioni prese in esame, in media ogni dipendente si è assentato per 0,558 giorni per cause di malattia (con ministeri e agenzie fiscali che arrivano a 0,987 e le università che si fermano a 0,218). Con picchi particolarmente alti al ministero della Giustizia (1,827 giorni/dipendente) e alla Difesa (1,218). Per lo più si tratta sempre di malattie di breve durata: gli eventi che comportano assenze superiori ai 10 i giorni, infatti, pesano appena per 0,023 giorni per ogni dipendente. Gli «altri motivi», ovvero le varie tipologie di permesso, pesano molto di più: la media per dipendente è infatti pari a 1,001 giornate perse al mese (1,804 nelle comunità montane e 1,739 nelle università). A livello regionale ci si ammala molto di più al centro (0,725 giorni/dipendenti) ed al Sud (0,607) che nel Nord est (0,386) e nel Nord Ovest (0,403). Dal ministero assicurano che i dati sulle assenze dei dipendenti pubblici saranno aggiornati nei prossimi giorni. Per ora questo ultimo monitoraggio ci dice che rispetto all’anno precedente le assenze di malattia sono scese del 9% e quelle per «altri motivi» del 15,3%. Nulla rispetto ai picchi fatti segnare all’avvio della riforma Brunetta, quando nel giro di pochi mesi si registrò un crollo del 36% delle assenze coi giorni di malattia pro-capite scesi da 1,04 a 0,64. «Da Monti in poi - denuncia oggi l’ex ministro di Fi - i governi di turno non hanno più creduto in questa operazione. I dati non vengono più pubblicizzati e in pratica la lotta all’assenteismo è stata abbandonata. Peccato perché ora con certificati medici e ricette on line la Pa avrebbe nuovi importanti strumenti che potrebbe utilizzare». La pubblicità dei dati, dettagliati per tipologia di amministrazione e territori, in effetti, è lo strumento più efficace per contrastare questi fenomeni. Per legge tutto è infatti on line e pubblico: basta accedere ai vari siti e cercare il link «amministrazione trasparente». E così facendo, ad esempio, si scopre che al Comune di Roma (nel terzo trimestre 2014) i tassi di assenza, ferie comprese, oscillano tra il 25 ed un pericoloso 42%, con una quota che spesso supera il 10% tra malattie e permessi. Quanto ai vigili urbani già a fine 2013 facevano segnare picchi significativi di malattia (7,4% il gruppo di Montemario), di permessi legge 104 (3,01% al Tuscolano) e di permessi «vari» (5,95% al Prenestino). Ma del resto se anche alla Corte dei Conti, dove operano i nostri censori degli sprechi, in un terzo degli uffici si sfora il 30% di assenze, si capisce bene come l’assenteismo sia ancora una malattia nazionale. 

Da sinistra si grida al lupo nero, indicando la pagliuzza nell’occhio altrui.

Padrini, terroristi, servizi segreti e massoni: così dalla Magliana è nata mafia Capitale. Quarant'anni fa i capi di 'ndrangheta e banda della Magliana si riunivano al Fungo. Lo stesso luogo dove è cresciuto Massimo Carminati. E che ritorna nell'inchiesta su Mafia Capitale. Che sembra sempre più l'evoluzione criminale della vecchia banda di Romanzo Criminale, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. C'è un filo nero che attraversa gli ultimi decenni della storia criminale italiana. È un cordone che unisce l'Italia: da Reggio Calabria a Roma. Dalla 'ndrangheta a Mafia Capitale, passando per la banda della Magliana, terrorismo nero, servizi segreti e massoneria. Con un luogo che ritorna oggi come ieri: il Fungo, zona Eur, Roma. «Con Mancini (Riccardo, l'ex numero uno di Euro Spa inquisito nell'inchiesta su Mafia Capitale ndr) abbiamo fatto dieci processi quando eravamo ragazzini... stavamo al Fungo insieme... cioè... ma... con tante altre persone... che magari hanno fatto carriera... che in questo momento magari non sono indagate». Massimo Carminati rievoca il passato dei “neri” di Roma. Lui racconta e intanto le cimici piazzate dagli investigatori del Ros dei carabinieri intercettano. Carminati ricorda gli anni '70, gli anni di piombo, quando la gioventù neofascista della Capitale si incontrava in un luogo simbolo, che ritorna anche nell'inchiesta Mafia Capitale. Il punto di ritrovo di cui parla “er Cecato” è il Fungo. Un acquedotto costruito negli anni '60 all'Eur, a pochi chilometri dalla Magliana. Sotto questa struttura di cemento armato che assomiglia a un enorme fungo si ritrovavano i giovani della destra radicale, molti dei quali sono poi finiti nei nuclei armati rivoluzionari. L'ala più feroce dell'eversione di destra. Ma all'ombra del Fungo, nel ristorante panoramico all'ultimo piano della torre, si sono incontrati pure altri personaggi da romanzo criminale. Alcuni dei quali condividono con il boss di Mafia Capitale il credo fascista e il fiuto per gli affari, di qualunque colore essi siano. È una storia che comincia quarant'anni fa. Nel 1975. In un 'Italia stremata dalla tensione sociale e politica provocata dalle bombe, dal lavoro sporco dei servizi deviati e dagli accordi sottobanco tra organizzazioni mafiose, estremisti neri e 007. Il Paese era terrorizzato. E il peggio doveva ancora arrivare. Solo un anno prima c'era stata la strage dell'Italicus, sei anni prima il massacro di piazza Fontana a cui seguì, l'anno dopo, la bomba che fece deragliare il treno a Gioia Tauro. È in questo contesto di terrore e tritolo che il 18 ottobre '75 allo stesso tavolo siedono tre capi 'ndrangheta tra i più influenti nell'organizzazione calabrese e alcuni esponenti della banda della Magliana. Il summit si è tenuto proprio al Fungo. E qui che la polizia di Stato interviene e arresta Paolo De Stefano, don Peppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale. «Tale riunione, lungi dall'essere una mera riunione conviviale costituiva invece una vera e propria riunione mafiosa ad alto livello» si legge nelle informative dell'epoca. Paolo De Stefano verrà ucciso dieci anni dopo. L'agguato che gli costò la vita diede il via alla seconda guerra di mafia a Reggio Calabria. Il clan De Stefano però è tuttora il più potente della città. E nell'organizzazione calabrese è la famiglia che conta di più, quella che negli anni ha saputo creare relazioni più solide con il potere: hanno protetto la latitanza del terrorista neofascista Franco Freda; hanno giocato un ruolo importante nella rivolta dei Boia chi molla per Reggio capoluogo; l'avvocato Giorgio De Stefano, ucciso nel '77, è stato, secondo alcuni pentiti, il contatto tra 'ndrangheta e servizi segreti. Tra spioni ed estrema destra, i De Stefano sono cresciuti e dal poverissimo quartiere Archi dove hanno mosso i primi passi, hanno allungato i tentacoli fino in Francia, radicando i propri affari a Roma e Milano. E proprio nel capoluogo lombardo, stando alle recenti indagini dell'antimafia reggina, ha sede il cuore finanziario del clan. L'indagine Breakfast sta scavando nei segreti societari della 'ndrangheta governata dalla famiglia De Stefano, e ha scoperto complicità nella Lega Nord, con l'ex tesoriere Francesco Belsito, e con uomini un tempo dell'avanguardia armata nera, come Lino Guaglianone, anche lui come Massimo Carminati, ex Nar, e precisamente ex tesoriere del nuclei armati rivoluzionari. Non solo, ma nei rapporti investigativi gli inquirenti segnalano più volte la vicinanza dei De Stefano alla banda della Magliana, «di cui sono noti i collegamenti con la destra eversiva e i servizi segreti». Al Fungo c'era anche Pasquale Condello, detto “il Supremo”. Come i De Stefano è cresciuto nel quartiere Archi. Insieme hanno conquistato Reggio, salvo poi dividersi in una guerra durata sei anni e con mille morti ammazzati. Dopo il sangue è tornata l'armonia e la città è stata divisa equamente. Ancora oggi è pax mafiosa. Il profilo di Giuseppe Piromalli detto “Mussu stortu” è simile a quello di don Paolino De Stefano. Le loro famiglie si uniscono alla fine degli anni 70' per fondare una 'ndrangheta più moderna. Sono i precursori della strategia delle alleanze trasversali con pezzi delle istituzioni e di altri gruppi mafiosi. E sono i promotori dei grandi business con la droga. Per farlo hanno dovuto annientare i vecchi capi bastone. Una volta eliminati è iniziata la loro ascesa criminale. Peppe Piromalli trascorreva molto tempo nella Capitale. L'interesse della 'ndrina di Gioa Tauro era quello di allargare la zona di influenza. Un particolare che verrà confermato dal pentito della banda della Magliana Antonio Mancini, “l'Accattone”. I Piromalli ritornano nell'indagine della procura antimafia di Roma su Mafia Capitale. I pm e i militari del Ros hanno infatti scoperto come la banda de “er Cecato” avesse stretto un patto con i clan calabresi, in particolare con i Mancuso, attraverso però un parente del boss Piromalli, dipendente delle cooperative del braccio destro di Carminati, Salvatore Buzzi. Quel giorno di quarant'anni fa al Fungo accanto ai mammasantissima della 'ndrangheta c'erano “er Gnappa” Manlio Vitale e “er Pantera” Gianfranco Urbani. Personaggi di spicco della Magliana. Manlio Vitale con Massimo Carminati ha condiviso più di qualche avventura malavitosa. Nel 2000 sono stati indagati per il furto nel caveu all'interno del Palazzo di giustizia. E nella sentenza sulla banda della Magliana i loro nomi vengono accostati spesso. Vitale come Carminati frequentava il Fungo. D'altronde era zona loro. Per questo gli 'ndranghetisti sono stati invitati  in quel ristorante. Non solo. Il nome de “er Gnappa” spunta negli atti di Mafia Capitale. Fino a qualche anno fa, almeno da quel che risulta agli investigatori, frequentava Riccardo Brugia, «compare e braccio destro di Carminati». Brugia secondo gli inquirenti è «dotato di una rilevante storia criminale personale e legato al Carminati da una profonda amicizia e dalla comune militanza nei gruppi eversivi dell’estrema destra». «Er Pantera» invece è morto qualche mese fa. Nella banda, alcuni collaboratori di giustizia, lo indicavano come il manager delle relazioni con le altre organizzazioni. Con la 'ndrangheta ma anche con i clan catanesi, in particolare con la cosca di Nitto Santapaola (famiglia alleata con Piromalli e De Stefano). Fu lui, dicono i testimoni, a tenere i contatti con le 'ndrine di Reggio Calabria e a instaurare il traffico di eroina con la Tailandia. Ora che molti dei protagonisti della riunione del Fungo non ci sono più, l'eredità di quei rapporti è passata di mano. A Roma comanda Mafia Capitale e le sue alleate. Una in particolare, la 'ndrangheta. In fin dei conti, quindi, poco è cambiato. Se non il clima. Per questo l'organizzazione guidata da “er Cecato” in un certo senso sembra l'evoluzione criminale della banda dei testaccini, l'anima più borghese del gruppo della Magliana. Un salto di qualità obbligato. Lo stesso passaggio che hanno dovuto mettere in atto le altre mafie. In questo nuovo contesto rapinatori e i killer hanno sempre meno spazio. Ciò che non muta sono le alleanze di un tempo. E spesso ritornano gli stessi cognomi, gli stessi personaggi. Segno che il capitale di relazioni e conoscenze accumulato negli anni passati frutta ancora oggi. E che la mafia più che rottamare riadatta al nuovo corso i vecchi arnesi.

L’altra faccia della medaglia, invece, è la trave nascosta negli occhi della sinistra.

Lo scandalo dei falsi iscritti Pd: "Tesserate persone inesistenti". Una giornalista della Stampa ha ottenuto una tessera dei dem fornendo false generalità: nessun controllo, nessuna richiesta di documenti. Si paga, si firma e si ottiene la tessera, scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Iscriversi al Pd romano è facile. Facilissimo. Tanto facile che basta scrivere un nome falso e un indirizzo mail di fantasia, pagare la quota di iscrizione e la tessera salta fuori senza alcun controllo. Nessuna richiesta di documenti, carta d'identità, patente, codice fiscale: niente di niente. Questa la clamorosa scoperta della cronista de La Stampa Flavia Amabile, che è riuscita ad iscriversi ad una sezione capitolina del Partito democratico fornendo generalità inventate ed ottenendo la tessera del partito senza problemi. Quello delle tessere è stato a lungo un grosso problema per il Pd nazionale, con il numero degli iscritti soggetto a cali di centinaia di migliaia di persone da un anno con l'altro. In Piemonte si sono registrati casi di anziani pagati per iscriversi al partito e votare, in Puglia è stato segnalato un numero di tessere triplo rispetto a quello degli iscritti. Proprio a Roma, alle primarie per il sindaco della primavera 2013, si erano viste file di rom fuori dai seggi, con conseguenti polemiche sulla regolarità del voto. Ora, anche in seguito allo scandalo di Mafia Capitale, il presidente del partito Matteo Orfini, aveva annunciato di voler fare "pulizia" nel Pd romano, passando ai raggi x gli ottomila iscritti della capitale. Sempre su La Stampa, l'esponente democratico ammette di "non essere sorpreso" per la facilità con cui si possono ottenere tessere false, ma chiede anche di "non crocifiggere nessuno" in attesa che "ci si abitui al rispetto delle regole". Iscriversi agli altri partiti, chiosa la Amabile, non è però così semplice. Complice anche una situazione finanziaria che non permette strutture sul territorio articolate come quelle del Pd, spesso l'iscrizione alle formazioni politiche richiede la compilazione di formulari online oppure all'interno di circoli dove i nuovi arrivati vengono "esaminati" più attentamente. Solo a Sel, scrive la cronista del foglio torinese, "nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento".

Venti euro e zero controlli per una tessera falsa del Pd. Nome di fantasia, niente documenti né codice fiscale: il numero di finti iscritti può crescere anche in questo modo. La tessera finta e la ricevuta del versamento con cui la nostra cronista si è iscritta con nome falso al Pd, scrive Flavia Amabile su La Stampa. Da cinque giorni ho in tasca una tessera del Pd totalmente falsa. Non è stato poi troppo difficile ottenerla, mi è bastato dare il primo nome che mi è venuto in mente. Nessuno mi ha chiesto né una carta d’identità né una patente. Mi è stato specificato che anche il codice fiscale non è importante: conta solo versare i 20 euro necessari. Vuol dire che due anni sono stati presi e buttati via. Era l’aprile del 2013 quando esplosero le polemiche intorno alle primarie per il sindaco di Roma con le file di rom fuori dai seggi denunciate da Cristiana Alicata - allora dirigente del partito nel Lazio - e ignorate. E poi lo scandalo delle tessere gonfiate, le rivelazioni dell’inchiesta Mafia Capitale e il commissariamento. Tutto questo non sembra aver ancora insegnato nulla al Pd romano. Matteo Orfini, il presidente del partito mandato dal segretario Matteo Renzi a fare pulizia tra i circoli della capitale, dieci giorni fa aveva annunciato di voler iniziare il suo lavoro dagli 8mila iscritti nella capitale per passare le loro tessere ai raggi X. Ha ragione perché iscriversi al Pd in alcuni casi è davvero troppo semplice. Molto dipende dal fatto che è l’ultimo partito ad avere una presenza davvero capillare sul territorio, oltre 6mila circoli, un punto di forza dal punto di vista elettorale ma anche un’opportunità per chi abbia voglia di sottrarsi ai controlli centrali e usare partito e tessere per i propri interessi. La lista completa dei circoli non è semplice da trovare, sul sito del Pd c’è una mappa 2.0 molto bella ed avanzata con le regioni da cliccare. Peccato che non funzioni. Per trovare l’elenco dei circoli della capitale è più utile andare a cercare sul sito del Pd Roma. Nella mia zona di residenza ne sono indicati almeno sei. Due sono semichiusi perché, fatta eccezione per i circoli storici, gli altri si appoggiano a strutture dove affittano spazi per poche ore a settimana: trovarli aperti al primo colpo è difficile. Il terzo tentativo è in via Galilei 57, un enorme locale al piano terra gestito da diverse associazioni. Per il Pd devo tornare di giovedì, dopo le 18. Giovedì 18 dicembre alle sei sono lì, accolta con incredulità e una certa emozione da un giovane pieddino: deve essere trascorso molto tempo dall’ultimo nuovo tesserato arrivato a sostenere il partito. Mi fa entrare nella stanza a disposizione del partito una volta a settimana, racconta che pagano 400 euro al mese per averla e che 15 dei 20 euro della mia futura tessera andranno al circolo, gli altri 5 alla federazione. Mi spiega che è in corso l’ultimissima fase del tesseramento 2014 ma che per avere la tessera del 2015 bisognerà aspettare almeno sei mesi. Lo rassicuro, voglio sostenere il Pd, verserò la mia quota comunque e inizio a compilare i moduli. Invento un nome, lo scrivo. Invento un numero di telefono, lo scrivo. Sbaglio il codice fiscale, sto per scriverlo di nuovo in base al nome che ho inventato ma il giovane mi spiega che non è necessario, a loro non serve. Scrivo di essere disoccupata, invento una mail che sarà uno scherzo aprire al ritorno a casa per ricevere le comunicazioni, firmo, pago, ringrazio, saluto, vado via. Flavia Alessi è iscritta: non una parola su di me, sui motivi che mi hanno portata a scegliere all’improvviso il Pd. Quando il giorno dopo Flavia Alessi prova a forzare ancora di più il gioco iscrivendosi anche agli altri partiti si trova di fronte ad un’atmosfera molto diversa. Nessuno ha più soldi a sufficienza per tenere aperte tante strutture, i tesseramenti avvengono esclusivamente online oppure all’interno di circoli dove si è talmente pochi che tutti si conoscono e i nuovi arrivati vengono osservati con attenzione. Resta una possibilità aperta solo con Sel: nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento. Ma è più facile che in questo momento faccia gola un eventuale assalto al Pd che a Sel.

Militante democrat a sua insaputa. Branco mette alle corde i furbetti. L'ex campione del mondo Branco si ritrova tesserato e scrive a Renzi: cancellato, scrive Matteo Basile su “Il Giornale”. Guai a farlo arrabbiare. Non perché sia cattivo o violento, tutt'altro. Ma perché nella sua più che ventennale carriera di pugile, che lo ha portato ad essere l'europeo più titolato di sempre, Silvio Branco ha imparato molte cose. Tra queste a non farsi mettere i piedi in testa e a guardarsi dalle fregature. Figuriamoci se uno così, abituato a combattere per ottenere risultati, si fa prendere in giro da un partito politico. Succede che nella sua Civitavecchia, città dove Branco è un monumento vivente, il pugile, ritirato solo lo scorso anno dall'attività agonistica alla soglia dei 48 anni, si sia di fatto ritrovato iscritto a sua insaputa al Partito democratico. Lo scorso 20 dicembre infatti si è tenuto in città il congresso straordinario del Pd, con la presentazione delle piattaforme politiche e dei candidati alla segreteria. Inevitabile che nei giorni che hanno preceduto il congresso, come da mondo e mondo accade in ogni partito politico prima di ogni convention, sia scattata la corsa al tesseramento, con i vari dirigenti in prima linea per cercare di «accaparrarsi» quanti più delegati possibili. Missione compiuta si penserebbe dando uno sguardo ai dati, ancora ufficiosi. Un boom in controtendenza rispetto al resto d'Italia e altamente discostante rispetto al clima di anti politica che regna nel Paese: secondo il partito sarebbero state sottoscritte ben 700 tessere in più rispetto all'anno precedente, senza contare che c'è tempo per iscriversi ancora fino a domani, 31 dicembre. Branco, in passato delegato allo sport del Comune visto il suo ruolo di «ambasciatore» italiano del pugilato nel mondo, viene a sapere che anche lui risulta essere nell'elenco dei nuovi iscritti. Un colpo basso che non accetta. «Mi è stato detto che ero tesserato ma non avevo fatto nessuna richiesta né firmato nessun documento - racconta il campione al Giornale - Allora ho messo le mani avanti e inviato una lettera diffidando il partito dall'iscrivermi a qualsiasi lista». Una lettera di fuoco inviata da Branco al segretario del partito Matteo Renzi, al presidente Matteo Orfini e alla commissaria di Civitavecchia Michela Califano. E visto che Branco, come detto, non è solo un grandissimo campione ma in città è un'autentica icona, i dirigenti hanno subito pensato di evitare problemi eliminando il nome del pugile. Una figuraccia del genere, con il tesseramento di un volto tanto noto a sua insaputa, non avrebbe certo giovato al Pd. «Quando ho appreso la notizia mi sono molto amareggiato - confessa Branco - Probabilmente fossi stato il fruttivendolo del paese non ci sarebbe stato clamore e sarebbe stato iscritto a sua insaputa. Nulla contro nessuno, sia chiaro, ma certo non mi va di essere preso in giro». Il campione del mondo dei pesi mediomassimi e dei massimi leggeri, ha quindi evitato il finto tesseramento sul nascere ma pare che a Civitavecchia siano stati in molti a diventare militanti del Pd a loro insaputa. Magari non famosi come Branco ma di certo utili, utilissimi a fare numero. Alla faccia della trasparenza e della correttezza.

Il manicheismo assoluto dell’inchiesta Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani…

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

Roma, l’ex pm Sabella in giunta: “Difficile capire chi sono gli onesti”. Dopo il via libera del Csm, il sindaco Marino presenta il nuovo assessore alla legalità. L’attacco dell’Unione camere penali: “Prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia”, scrive Giuseppe Pipitone su “L’OraQuotidiano”. “Quando vivevo a Palermo mi occupavo di ricerca di latitanti, la battuta che mi viene è facile: in quel caso sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevo dove stavano, qui probabilmente si sanno dove stanno le persone ma non si sa chi essi siano in realtà”. Con una battuta fulminante, Alfonso Sabella ha esordito come nuovo assessore alla Trasparenza e Legalità del comune di Roma. Nella giornata di ieri il Csm ha infatti dato il via libera all’aspettativa chiesta dal magistrato con quattordici voti a favore, tre  astenuti e otto contrari ( i vertici della Cassazione Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani, più molti membri laici). Stamattina quindi l’ex pm è entrato nella nuova giunta varata dal sindaco Ignazio Marino. “Per me è un grande acquisto per Roma. Un acquisto necessario se si pensa che nei cinque anni precedenti la mafia aveva raggiunto posizioni di vertice. Con la nostra amministrazione non ci è riuscita però aveva tentato in diversi modi. Io credo che la presenza di una personalità come Alfonso Sabella scoraggerà anche i tentativi” ha detto il primo cittadino capitolino, che ha presentato la nuova giunta stamattina in Campidoglio . La nomina dell’ex pm della procura di Palermo arriva dopo il clamore suscitato dall’inchiesta Terra di Mezzo, che ha svelato l’esistenza della Mafia Capitale, l’organizzazione criminale con al vertice l’ex estremista nero Massimo Carminati. L’arrivo nella giunta capitolina di Sabella è stato bacchettato dall’Unione delle camere penali che ha bollato la nomina come “pericolosa per la democrazia“. I penalisti denunciano una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Per l’Unione camere penale “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. Nato a Bivona, piccolo comune in provincia di Agrigento nel 1962, fratello di Marzia, anche lei pm a Palermo, Sabella entra in magistratura nel 1989 e non si iscrive mai ad alcuna corrente delle toghe. All’inizio fa il pm a Termini Imerese, poi nel 1993 viene trasferito a Palermo: sono i mesi successivi alle stragi di Capaci e via d’Amelio e a dirigere la procura del capoluogo è appena arrivato Gian Carlo Caselli. Sabella diventa subito uno dei fedelissimi del magistrato piemontese e inizia a condurre le indagini su decine dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, che reggevano l’organizzazione criminale dopo l’arresto di Totò Riina. In breve tempo finiscono in manette a decine:da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca, passando da Pietro Aglieri, Cosimo Lo Nigro e Carlo Greco: l’ala militare dei corleonesi è decimata in pochi mesi. Dopo l’esperienza come dirigente dell’ufficio ispettivo del Dap, Sabella viene trasferito prima a Firenze e poi diventa giudicante a Roma.

Pecoraro e l'incontro con Buzzi: "Mi sento pugnalato alle spalle. A Letta dissi: chi mi hai spedito?". Intervista al prefetto: "L'ho ricevuto in segno di rispetto per l'ex sottosegretario. Gli spiegai che non potevano arrivare altri profughi a Castelnuovo", scrive Mauro Favale su “La Repubblica”. "Quando Salvatore Buzzi andò via, dopo l'incontro con me, telefonai a Gianni Letta e gli dissi: "Gianni, ma chi mi hai mandato?". E lui? "E lui mi risposte: "Non lo farò più". Giuseppe Pecoraro ha festeggiato poche settimane fa il sesto anno da prefetto di Roma. Un anniversario che ha anticipato di poco la bufera su mafia capitale che lo vede primo attore in campo: da un lato sono i suoi uffici che stanno analizzando gli atti del Campidoglio e che dovranno relazionare al Viminale sulle infiltrazioni criminali nel Comune di Roma in vista di un eventuale scioglimento. Dall'altro, proprio in questi giorni, Pecoraro è costretto a difendersi per aver incontrato il 18 marzo scorso, nei suoi uffici, proprio Buzzi, il ras delle cooperative, braccio destro di Massimo Carminati, finito in carcere accusato di associazione mafiosa.

Quello stesso giorno di marzo, prefetto, partì dai suoi uffici una lettera, indirizzata al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore, nella quale si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo. E ora è finito sotto accusa per questa coincidenza temporale.

"Trattare così questa vicenda la giudico una carognata, una pugnalata alle spalle".

L'incontro e la lettera, però, ci sono stati?

"Sì, certo. Ma quella lettera non è l'unica di quel giorno. Sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili con posti disponibili o del consiglio territoriale per l'immigrazione. E tra queste c'è anche la 29 giugno di Buzzi".

Dalle carte della procura emerge che quel pomeriggio lei ha incontrato il capo della 29 giugno dopo l'interessamento dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.

"A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza".

Ma è prassi che un prefetto riceva il rappresentante di una cooperativa e non anche gli altri?

"Vedere i presidenti delle associazioni è una cosa normale, soprattutto se si tratta di presidenti di cooperative che collaborano con la prefettura. Non sa quante volte ho incontrato monsignor Feroci della Caritas, così come molti altri".

E cosa disse a Buzzi?

"Gli dissi che per Castelnuovo non c'erano possibilità e non potevo cambiare idea. Il mio è stato un no motivato perché lì esisteva già il Cara, il centro per richiedenti asilo, e quel Comune non era in grado di ricevere nuovi immigrati. Tra l'altro, anche il sindaco di Castelnuovo si era sempre lamentato dell'alto numero delle persone nel centro".

E allora come si spiega che Buzzi esce dal suo incontro e, al telefono, racconta che era andato tutto bene? Millantava?

"Questo non lo posso sapere. Forse avrà pensato che avrebbe potuto provare a fare pressioni sul sindaco di Castelnuovo o credeva di poter nuovamente passare per Letta".

Cosa che fece?

"No, Letta l'ho sentito io, subito dopo quell'incontro".

E cosa gli disse?

""Ma chi mi hai mandato?"".

E lui?

""Non lo farò più", mi rispose. E, in effetti, né lui né nessun altro mi ha mai più parlato di Buzzi".

Disse così a Letta perché Buzzi non le fece una buona impressione?

"Sì, non mi aveva convinto particolarmente".

La commissione antimafia potrebbe doverla risentire.

"Ho parlato con la presidente Rosy Bindi, le ho dato la mia massima disponibilità. In ogni caso, loro hanno già la documentazione che dimostra come a quella lettera non fu poi dato alcun seguito".

La storia, dunque, è chiusa?

"Per me sì. Ovviamente gli articoli di giornale usciti in questi giorni verranno valutati dai miei avvocati".

Chi è Giuseppe Pecoraro, il prefetto in guerra che bisticcia con Marino e fa il commissario di se stesso. Lo schizzo di fango da “mafia capitale”, il lungo e difficile rapporto con il Comune di Roma, gli scazzi sulla monnezza e l’assenza di “avveduta precauzione” sciasciana, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Prefetto lo è, Giuseppe Pecoraro, burocrate di lunga carriera ma di non evidente propensione a vestire i panni del classico prefetto: l’uomo uguale fra tanti uomini uguali, rassicurante funzionario al servizio dello stato, ventriloquo della direttiva superiore che, quando è eroe (nei film), lo è alla maniera del “prefetto di ferro” di Pasquale Squitieri con Giuliano Gemma: un uomo che per non adeguarsi ai poteri grigi viene infine promosso (e di fatto rimosso). Il prefetto Pecoraro non soltanto è, di questi tempi, necessariamente diverso dai suoi simili che lavorano nell’ombra discreta delle stanze prefettizie, ché lo si trova un giorno sì e l’altro pure sui giornali per una divergenza di opinioni con il sindaco di Roma Ignazio Marino (sulle nozze gay come sulla cosiddetta mafia capitale) o per quella visita che Salvatore Buzzi, presunto co-boss al fianco di Massimo Carminati, tributò proprio al prefetto, a proposito di un centro accoglienza in quel di Castelnuovo di Porto. C’è poi che il prefetto Pecoraro, prima di tutto per fisiognomica, poco si adatta all’immagine di prefetto alla Elio Petri (quello che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” si presenta col fazzoletto bianco nel taschino identico a quello degli altri innumerevoli prefetti in fila con abiti indistinguibili). Si dà il caso, infatti, che Pecoraro abbia sembianze e movenze da sceriffo più che da protagonista meticoloso di riti da vecchia provincia – indimenticabile resta il prefetto che non vuole farsi trasferire nonostante la sequela di scocciature in “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, libro Sellerio adorato da Leonardo Sciascia, ritratto di prefetto e prefettessa nell’aria immobile di una Toscana-deserto dei tartari, dove il Natale si trasforma in incubo di notabili in visita e teorie di dame relegate nella stanza “a parte”, quella delle donne, a parlare del più e del meno incrociando le piume dei cappelli. “Avveduta precauzione” dei prefetti, la chiamava Sciascia in “Invenzione di una prefettura”, una piccola storia della prefettura di Ragusa, e chissà se Pecoraro, col senno del poi, vorrebbe averla avuta, quella “avveduta precauzione”. Fatto sta che oggi il prefetto dice che sì, Buzzi l’ha ricevuto per rispetto verso l’ex sottosegretario Gianni Letta che gliel’aveva inviato, ma che dopo averlo ricevuto ha prontamente telefonato a Letta per lamentarsene (“chi mi hai spedito?”) e Letta poi se n’è quasi scusato (“non lo farò più”). E dice il prefetto che, dopo la visita di Buzzi, aveva sì inviato una lettera al sindaco di Castelnuovo di Porto in cui si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo, ma che “trattare così questa vicenda”, com’è stata trattata in questi giorni sui giornali, con tanto di titoli su di lui, il prefetto, “è una carognata e una pugnalata alle spalle”, perché quella lettera era stata inviata in automatico e ce n’erano altre dello stesso tenore inviate a Guidonia, a Ciampino, a Rocca Priora, ad Anguillara “e, in copia, alla Questura”. Lungi dal risparmiare dalle luci della ribalta il prefetto, figura tradizionalmente destinata alle pur gloriose penombre della burocrazia, ieri il Corriere della Sera, a firma Fiorenza Sarzanini, raccontava della “gara europea bandita dalla prefettura di Roma” nel 2013 e vinta da una delle coop di Buzzi (la Eriches 29) per gestire il centro accoglienza della discordia (quello di Castelnuovo di Porto) e dell’“esposto del prefetto”, così si leggeva sul Corriere, “contro il giudice Tar ‘nemico’ della coop” di Buzzi. Tuttavia non era cosa inconsueta, per Pecoraro, il ritrovarsi alla ribalta. E’ capitato infatti, pochi giorni fa, che Pecoraro comparisse sul Messaggero, intervistato come parte in causa nella infinita querelle con il sindaco Marino (“se non sapeva il prefetto, che ricevette il capo delle coop, come potevo sapere io”?, aveva detto Marino, e Pecoraro avevo risposto senza salamelecchi prefettizi: “Buzzi era estraneo ai miei uffici; nell’amministrazione Marino, invece, ci sono tre indagati”). E non basta: qualche giorno dopo il prefetto, al giornale RadioRai, aveva parlato della commissione d’accesso agli atti del Comune. Scherzo della sorte vuole, infatti, che Pecoraro sia al tempo stesso l’uomo dell’incontro in prefettura con Buzzi ma anche e soprattutto l’uomo che controlla chi con Buzzi avesse a che fare: dalla prefettura provengono i commissari che devono leggere gli atti del Campidoglio in vista della relazione sul tema “infiltrazioni criminali” al Comune di Roma (in teoria anche a rischio scioglimento). E alla radio il prefetto se ne usciva con la profezia che molto faceva indispettire il sindaco: “… Può venire fuori che ci sia la necessità di uno scioglimento…”, diceva Pecoraro; “immagino che il prefetto sappia molte cose e non le possa dire proprio perché fa il prefetto… ”, diceva Marino. E Matteo Orfini, commissario per il Pd romano, su Twitter scriveva che il prefetto gli pareva intento, ultimamente, a “fare più dichiarazioni e interviste di Matteo Salvini”. “Il ministro Alfano venga in Aula a riferire e valuti l’opportunità di avvicendare il prefetto Pecoraro dopo otto anni di permanenza nella capitale”, dicono intanto, da Sel, i deputati Arturo Scotto e Filiberto Zaratti, mentre il consigliere radicale Riccardo Magi fa notare che “alcuni dei fatti più gravi su cui si indaga”, per esempio per quanto riguarda affidamenti e campi rom, “sono avvenuti in regime commissariale per l’emergenza rom. Non è che il commissariamento mette al riparo dall’illegalità”. Nemmeno nei momenti di massima insofferenza per le processioni locali in cui si dovevano fare passettini accanto a preti e autorità “all’andatura del santo”, e lasciare che la banda “rintronasse il cervello”, il prefetto defilato de “L’ultima provincia” avrebbe potuto immaginare di assurgere al livello di visibilità cui è assurto Pecoraro (e non da oggi). Il prefetto, infatti, è già stato, in tempi di governo Berlusconi (ministro dell’Interno Roberto Maroni), “commissario delegato per il superamento dell’emergenza rom” per la regione Lazio e la città di Roma, e commissario all’emergenza rifiuti in tempi di Comune guidato da Gianni Alemanno e di Regione guidata da Renata Polverini. “Prefetto in guerra”, lo chiama Massimiliano Iervolino nel libro “Roma, la guerra dei rifiuti”, in cui si narra la vicenda della tentata “sostituzione” della discarica di Malagrotta e della ricerca di un sito alternativo (molti vip contestarono il prefetto per via dell’ipotesi Corcolle, nei pressi di Villa Adriana. Si mobilitarono Giorgio Albertazzi, Franca Valeri e Urbano Barberini, quest’ultimo al grido di “è come mettere i rifiuti a Luxor o alle Piramidi”). Alla fine il prefetto si dimise da commissario per l’emergenza rifiuti, senza rinunciare a essere prefetto a modo suo. (Intanto dovrà pronunciarsi, dopo aver ricevuto le “memorie” delle aziende coinvolte, sui primi due commissariamenti di appalti decisi da Raffaele Cantone, presidente dell’Authority anti-corruzione).

Manca un progetto. E Totti è l’alibi della grande schifezza, scrive Sandro Medici su “Il Manifesto”. Marino e la nuova giunta di Roma. Non bastano gli assessori-commissari. E il pm Sabella arriva. Il sindaco Ignazio Marino prova a ripartire. Rinnova la sua giunta e tratteggia quel che d’ora in poi dovrebbe connotare la sua amministrazione: impegno a perdifiato e legalità assoluta. Un nuovo inizio. Con cui si tenterà di riprendere quel faticoso cammino che finora non è apparso particolarmente smagliante, e con cui si proverà a bonificare quel grumo politicomafioso che ha insidiato e a tratti aggredito il Campidoglio. I tre nuovi assessori, più gli altri tre subentrati nei mesi scorsi, hanno ridisegnato sensibilmente l’assetto iniziale: e non sfugge che siano l’esito dei tanti tormenti che hanno attraversato la politica comunale. Al di là delle singole soggettività, tutto questo rimescolamento è la rappresentazione di quanto sia ancora precaria e incerta la prospettiva su cui la città dovrebbe ritrovare fiducia e convinzione. Tra annunci e rassicurazioni, sorrisi e pochi applausi, Roma continua a non avere una strategia di sviluppo, un progetto di rilancio, una visione generale sul suo futuro. È doveroso insistere sulla necessità di superare il trauma politico-criminale che ha investito la politica amministrativa. Anzi, è obbligatorio: c’è da recuperare una credibilità infranta e smarrita. Ma è davvero inevitabile affidarsi a una pletora di commissari, tutori, garanti e supervisori? Forse la politica (almeno a Roma) non è più nelle condizioni di reagire e di responsabilizzarsi. Ma allora, viene da chiedersi, cos’è diventata la politica (almeno a Roma)? L’impressione è che, già esile in partenza, l’amministrazione Marino si sia ulteriormente indebolita: sfiorata dalle pratiche corruttive ereditate dal passato, ma anche per limiti propri. Ed è difficile che l’ingresso di un magistrato in giunta possa migliorare l’impronta politica del Campidoglio. Anzi. Non foss’altro perché il neo-assessore alla legalità, oltre a vantare riconosciuti meriti antimafia, viene ricordato anche per la sua “negligenza” in occasione della terrificante repressione nel 2001, durante il G8 a Genova. L’Associazione Giuristi democratici ricorda che Alfonso Sabella era allora il coordinatore delle attività penitenziarie, comprese quelle nel carcere di Bolzaneto, dove ai molti fermati fu riservato un trattamento ai limiti della tortura. Tanto che in un’ordinanza del Tribunale di Genova viene definito «negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo», poiché «non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». Storie vecchie, certo. Ma comunque dolorose. Soprattutto perché rimandano alla contraddittorietà del profilo politico con cui il sindaco Marino connota la sua amministrazione, non senza imbarazzi nei ranghi della sua maggioranza, che tuttavia non provocano particolari sussulti. Una maggioranza che appare sostanzialmente obbligata a sostenere il suo sindaco: per le note vicende giudiziarie, ma anche perché paventa il pericolo che diversamente possa andar peggio. E così, senza dissensi né contrasti, si approvano politiche economiche antipopolari, si persiste nei processi di privatizzazione, si spengono le esperienze culturali indipendenti e diventa anche possibile approvare delibere inguardabili, come quella che l’altro ieri ha sancito l’utilità pubblica dello stadio della Roma. Per quanto si possa “amare” la squadra giallorossa, autorizzare l’edificazione di un milione di metricubi tra funzioni direzionali, commerciali e d’intrattenimento, sol perché neces­ari a realiz­are un impianto sportivo privato, non è precisamente catalogabile come vantaggio sociale o utilità pubblica. Eppure così è andata. Totti è un alibi perfetto per promuovere questa grande schifezza.

L’ombra di Bolzaneto sul nuovo assessore di Roma, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Gli spettri delle torture subite dai manifestanti contro il G8 a Genova si affacciano sul Campidoglio. E’ arrivato ieri sera l’ok del Csm per l’aspettativa che Alfonso Sabella, giudice presso il tribunale romano, attendeva per poter rispondere positivamente all’offerta di Ignazio Marino, il sindaco di Roma che lo ha voluto come assessore alla Legalità e alla Trasparenza dopo i fatti di Mafia Capitale. La nomina di Sabella viene oggi pesantemente criticata dall’associazione Giuristi Democratici di Roma che rievoca – tramite un comunicato – il ruolo avuto da Sabella durante il G8 di Genova. Il magistrato che a questo punto entrerà nel governo della Capitale della città – si legge nel comunicato dove i giuristi democratici esprimono perplessità riguardo l’idea di nominare Sabella assessore alla legalità- durante i fatti di Bolzaneto era il coordinatore “dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria”, e dunque era anche deputato a sovrintendere su ciò che accadeva alla caserma Bixio. Per i fatti del G8 Sabella finì a processo e la sua posizione fu archiviata. Tuttavia, scriveva il Tribunale nell’archiviarlo, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi»: così i giudici del Tribunale di Genova nella sua ordinanza del 24 gennaio 2007; e ancora: «Alfonso Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e che, pur trovandosi nella speciale posizione di “garante” (…), non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». La posizione di Sabella fu stralciata da quella degli altri imputati e per lui venne chiesto il non luogo a procedere. «A Bolzaneto vide che i detenuti erano tenuti in piedi con la faccia contro il muro, ma non fu testimone diretto delle violenze più gravi, né della loro sistematicità, quindi non avrebbe potuto impedirle», scrivevano i Pubblici Ministeri nel richiedere al Gip l’archiviazione per Sabella. Il giudice, dopo l’ordine di un supplemento di indagini a carico del magistrato, e nonostante l’avvocato di Sabella stesso avesse chiesto il processo, dispose l’archiviazione scrivendo nell’ordinanza le parole sopracitate. Ma la dichiarazione di Sabella che fece indignare all’epoca – e che oggi vengono ricordate dai Giuristi Democratici per sollecitare Ignazio Marino affinchè torni sui suoi passi – fu la sua opinione in merito all’operato degli agenti penitenziari durante le giornate terribili del G8 di Genova: secondo il magistrato Sabella il loro comportamento è stato «esemplare». I Giuristi Democratici di Roma infatti scrivono nel comunicato: «Sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi». E viene anche ricordata la frase di Sabella, pronunciata nel 2001: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare»; secondo il magistrato, infatti, non sarebbero stati gli agenti penitenziari a picchiare i manifestanti durante il vertice genovese: «Qualcuno è stato. Ma i fermati sono arrivati alla caserma di Bolzaneto già ricoperti di ecchimosi», aggiungeva Sabella, allora, nell’intervista.

Mafia Capitale, penalisti contro assessore-pm Sabella: “Prassi pericolosa”, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al 'prestito' in Campidoglio. Ad avviso dell’Unione delle camere penali "la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa". Da magistrato ha fatto scattare le manette ai polsi di pezzi da novanta di Cosa Nostra: da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca eppure la nomina di Alfonso Sabella all’assessorato alla Legalità di Roma viene considerata pericolosa dai penalisti. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al ‘prestito’ in Campidoglio. Secondo l’Unione delle camere penali è una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Ad avviso dell’Unione delle camere penali, “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. L’ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo, guidato da Gian Carlo Caselli, sarà quindi il nuovo assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino. Una figura di garanzia fortemente voluta dal primo cittadino dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Sabella fu pm nel 1993, nel day after delle stragi mafiose che spazzano via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza mai iscriversi ad alcuna corrente della magistratura. Sabella è stato anche al vertice del Dap, dove aveva imposto una regolamentazione feroce delle spese. Il suo incarico dura appena due anni: nel 2001 a dirigere l’amministrazione penitenziaria arriva Giovanni Tinebra, e i due magistrati entrano subito in contrasto. Il risultato è che dopo pochi mesi Sabella viene allontanato su ordine diretto dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli. Oggi il plenum del Csm ha dato l’ok a maggioranza al collocamento fuori ruolo con quattordici  voti a favore, otto contrari e 3 gli astenuti. In particolare hanno votato contro molti consiglieri laici e i vertici della Cassazione, il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani; si sono invece astenuti i togati Ercole Aprile e Maria Rosaria San Giorgio, oltre al consigliere laico Renato Balduzzi. “Ovviamente per me è una notizia molto positiva. Sabella credo abbia una competenza in materia anche amministrativa di appalti e contratti tale da poterci garantire che, ancora più di prima, con la nostra giunta tutto avverrà nella piena legalità e nella trasparenza” ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino. “Si tratta di un magistrato con una reputazione straordinaria – aggiunge – e che ha lavorato al fianco di Gian Carlo Caselli per molti anni. Ha condotto alcune delle operazioni di contrasto alla mafia più importanti come l’arresto di Brusca”.

Comunque se i politici onesti son questi?

«Pd, rimborsi fasulli per 2,6 milioni» Sotto inchiesta 6 parlamentari laziali. Dopo il clamoroso caso Fiorito (Pdl), anche il centrosinistra colpito dalle indagini sui brogli nel bilanci del Lazio. La Procura di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i fondi regionali 2010-2012; rimborsi maggiorati su taxi, biglietti ferroviari e aerei, scrivono Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che (elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2 milioni e 600 mila euro. E se per i consiglieri pidiellini della giunta di Renata Polverini - Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo - sono già scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso. Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento. Fra gli indagati, infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi - già nella segreteria del sindaco di Roma, Ignazio Marino - e del tesoriere Mario Perilli. Indagato anche il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli. Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in Procura per rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie, pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce. Perfettamente bipartisan le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla politica.

Ostriche e fagiani, ecco gli sprechi del Pd. Chiusa l’inchiesta dei pm di Rieti sui rimborsi utilizzati per scopi privati Quarantuno gli indagati. Coinvolti 15 ex consiglieri della Regione Lazio, scrivono Augusto Parboni e Martino Villosio su “Il Tempo”. Pesce crudo e ostriche al Pantheon, tanto per andare sul classico. Ma anche guizzi più fantasiosi, come le battute di caccia e i fagiani gustati al ristorante, le sagre di provincia finanziate con i soldi dei rimborsi, lo sfizio di pubblicare la propria autobiografia messo in conto al Gruppo. Il campionario delle prodezze compiute con i soldi pubblici dai consiglieri regionali si aggiorna e impreziosisce di nuovi spunti, e stavolta il «merito» - in base alle accuse della procura di Rieti - è tutto del Gruppo Pd protagonista al consiglio regionale del Lazio nel triennio 2010-2012. Fiorito impazzava, la procura di Roma setacciava gli scontrini del gruppo Pdl alla Pisana, l’opposizione Pd guidata da Esterino Montino fremeva d’indignazione e chiedeva le dimissioni della giunta Polverini. Adesso però i magistrati di Rieti, partiti un anno e mezzo fa dalla denuncia di un blogger locale, hanno chiuso un’indagine corposissima, di cui nei mesi scorsi aveva parlato Il Tempo . E nelle loro carte, c’è l’epicentro di un nuovo devastante terremoto per l’immagine del Partito Democratico non solo a livello locale. L’elenco delle spese contestate ai 15 ex consiglieri regionali Pd indagati, cinque dei quali nel frattempo diventati senatori e due nel frattempo deceduti, è sterminato e imbarazzante. Ci sono i pranzi e le cene offerti ad amici e simpatizzanti, a colpi di otto, dieci e ventimila euro, certo. Ma anche, incredibile eppure vero, le battute di caccia a Fiumicino, dove c’è chi si fa fa mettere in conto perfino i 25 fagiani centrati dalle proprie doppiette e poi serviti in tavola, totale 50 coperti. Il direttore del circolo che ospitò il banchetto racconta alla Guardia di Finanza quella fondamentale riunione di partito: a un certo punto qualcuno si sarebbe alzato, avrebbe fatto un discorsetto elogiativo sul Pd, per poi rimettersi serenamente a mangiare. Col denaro altrui vengono pagate le multe della macchina, i biglietti per i viaggi personali in treno e in aereo, gli omaggi enogastronomici per le festività, gli addobbi per l’albero di Natale, l’olio extrovergine per cucinare a casa, financo la bottiglietta d’acqua da 0,45 centesimi. Vengono retribuiti soggetti incaricati di gestire i profili dei consiglieri sui social nerwork, si assumono familiari e conoscenti come portaborse violando ogni normativa vigente e pagando alcuni di loro senza che abbiano lavorato un solo giorno. C’è chi invece avrebbe sovvenzionato una sagra del tartufo con 5000 euro scrivendo sulla fattura «convegno». Chi è accusato di aver dato 8.000 euro per finanziare i graffiti del museo del Quadraro, a Roma. Una suora di Fara in Sabina chiede un contributo per gli immigrati e lo riceve segnando su un pezzo di carta «prestazione occasionale». Il tentativo di rinascita di Paese Sera, nel 2011, è finanziato con 26 mila euro senza uno straccio di contratto. Alcuni imprenditori emettono inoltre fatture per operazioni inesistenti o fatture gonfiatissime, per poi dividere con il consigliere amico. Mentre il sindaco di Rieti Simone Petrangeli, anche lui indagato, si sarebbe fatto regalare video e manifesti per la campagna elettorale. I 15 ex consiglieri avrebbero distratto con «spese non inerenti i fini istituzionali» 2 milioni e 600 mila euro, la metà dei fondi che la Regione ha versato al gruppo per quei 3 anni. Dopo 200 controlli incrociati e 300 testimoni ascoltati, i 13 rischiano il processo. Cinque sono oggi senatori: Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini. Spicca poi nel lungo elenco di questa chiusura indagini il nome di Marco Di Stefano, oggi deputato Pd già sulla graticola perché accusato di corruzione e altro dalla procura di Roma nell’inchiesta su Enpam. Avrebbe speso 36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. L’ex tesoriere del gruppo, il reatino Mario Perilli (fulcro dell’inchiesta) avrebbe invece sovvenzionato la «famosa» sagra del tartufo con 5000 euro, L’ex capo segreteria del sindaco di Roma Marino, Enzo Foschi, i graffiti del Quadraro. Non manca il nome di Esterino Montino, grande fustigatore all’epoca dello scandalo Fiorito dai banchi del gruppo Pd alla Pisana, oggi sindaco di Fiumicino. Più o meno le accuse sono le stesse accuse per tutti, peculato, truffa aggravata, fatture false, illecito finanziamento. Gli indagati in totale sono 41, tra cui 23 collaboratori dei consiglieri Pd, mentre 16 persone sono state segnalate alla procura. Ci sono anche accertamenti in corso su 27 presunti evasori totali. Nell’inchiesta ci sono anche altri esponenti del Pd del Lazio, imprenditori, professionisti, fornitori, collaboratori. E non finisce qui, gli occhi della procura e della Guardia di Finanza di Rieti sono già puntati sulle spese di altri gruppi protagonisti della precedente consiliatura.

Chi ha paura di chiamarla mafia, scrive Francesco Merlo su “la Repubblica”. Il famoso "la mafia non esiste" si è trasformato in "la vera mafia sta altrove", ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss babbìano sempre. Dagli antenati don Calò e Genco Russo  -  "noi la chiamiamo amicizia"  - sino ai nipotini Carminati e Diotallevi: "Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di cani sciolti". E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con "baciamo le mani" ma con "li mortacci tua". Nell'idea che "questa non è mafia " c'è anche, e forse soprattutto, l'autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non vuole scoprirsi e accettarsi come complice. "La mafia è diventata policentrica", disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che a quell'epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo l'antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero "che uccidono con la risata" ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi incretati, l'innocenza della truffa d'Oriente alla precisione della lupara d'Occidente. E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì, ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. È vero che c'è una profondità di differenza, anche in termini di fuoco e di simboli, perché all'Atac non sono trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede dell'Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati. Infatti sono già all'opera gli esperti che, a partire dall'oziosa ovvietà che Roma non è Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che sale verso Nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso Sud, è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità. L'abusivismo di piazza Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le "croste" dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ... ... sono già identità meridionale e scenografia di mafia anche se l'Opera di Roma è al tempo stesso uguale e distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro ... Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma propone scenari nuovi. Il potere a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è oppressione bum bum. A Roma l'affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d'auto di Santapaola ma anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private di Aiello e Cuffaro. Certo, l'innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con l'amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati. E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei in Legambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da un'azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo l'elezione, concesse a prezzi d'affitto stracciati i locali di Via Pomona? A Roma sono tutti "amici", ma non nel senso dell'omertà palermitana. Fra sacrestie e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, "il ponte Andreotti" congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. C'era di tutto in quel pezzo di storia contemporanea ma non c'era la mafia. C'era l'assassinio di Pecorelli, di cui furono accusati e poi assolti  -  guarda caso  -  Andreotti e Carminati. Ma non era ancora mafia. Tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla mafia. Quel Pd criminale che ieri su Repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale è l'erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine. Come può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei con sarcasmo che quell'apostolato civile possa essere diventato mafia. Buzzi, nell'intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra. Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato sostituito dal monatto manzoniano? Com'è possibile che il funzionario del sol dell'avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi? E sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un brandello di idealismo, una distopia più che un'utopia. Quella spada giapponese di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato armamentario culturale, da Evola a Guénon all'antimodernità del Samurai di Mishima con l'arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l'orsuto attor giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità, che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale, una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole. Come reagirebbe Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia, candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini. A Roma i fascisti a non sono più fascisti, sono mafiosi. Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare "mafia" la mafia la chiamavano "la mano nera". La mafia infatti non è mai un trapianto, non è un'emigrazione. E adesso è "romana de Roma", cioè una gran confusione circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot che si preannuncia longevo e solido perché è vero che "natura non facit saltus", ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la violenza della mafia, ma in un'eternità di foresta.

Così Mafia Capitale voleva conquistare l'Italia. Tra tangenti, appalti e grazie a politici amici. Il clan di Massimo Carminati aveva il progetto di allargare i suoi interessi criminali all’intera Penisola, senza fermarsi alla città di Roma. Ecco attraverso quali personaggi e con quali alleanze puntava a "scalare" il Paese, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Sognavano di costruire un impero. Tra tangenti, ricatti e minacce, la “mafia Capitale” si sentiva in grado di arrivare ovunque. Continuava a impadronirsi di imprese, puntava agli appalti miliardari nel Lazio e in tutta Italia, mettendo a libro paga altri politici, altri burocrati, altri professionisti, altri dirigenti pubblici. Fino a tentare persino la scalata al Viminale. Ogni emergenza per loro si trasformava in denaro sonante. Emergenza neve, emergenza abitativa e soprattutto emergenza immigrati erano parole magiche, capaci di farli “spiottare”, ossia incassare subito milioni. Ma soprattutto di costruire altre alleanze oscure: nuovi ponti tra il “Mondo di Mezzo” e i piani alti del potere. Massimo Carminati è solo il vertice di questa piramide criminale, una vera associazione mafiosa nata e cresciuta nel cuore di Roma. Nell’ultimo decennio il “Nero” è riuscito a tra sformare una banda di eversori e rapinatori in una potente organizzazione che mostra sul territorio la capacità effettiva di incutere timore e soggezione attorno a sé, e in molti casi ha usato la forza dell’intimidazione per piegare uomini dei partiti, dello Stato e delle imprese. Ma l’arresto dell’estremista di destra e di altre 36 persone è solo la prima scossa di un terremoto che avrà ripercussioni per molti mesi. I magistrati guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Michele Prestipino hanno iscritto su l registro degli indagati un centinaio di persone per reati collegati alla mafia, fra loro anche l’ex sindaco Gianni Alemanno. La trascrizione di un anno e mezzo di intercettazioni mostra uno spaccato del malaffare romano che va oltre, mostrando rapporti incredibili tra grandi imprenditori e boss della strada, tra politici e pregiudicati. È Roma Capoccia, che non ammette presenze meridionali: nessun emissario di ’ndrangheta, camorra o Cosa nostra era ammesso. Per entrare nel loro territorio i padrini dovevano venire a patti, con accordi che saranno oggetto delle prossime fasi dell’inchiesta. Il lavoro dei pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli è solo all’inizio. Ci sono ancora altri complici imprenditoriali e criminali nella rete di Carminati su cui si indaga. E c’è un tesoro da recuperare in giro per i continenti. Il boss si vantava di mettere da parte un milione l’anno (ma gli investigatori pensano che siano decine all’anno), denaro investito soprattutto all’estero per non creare sospetti: è l’oro di Roma sulle cui tracce si sono messi gli uomini del Ros dei Carabinieri e della Guardia di finanza. In questa storia di mafia non ci sono coppole e lupare, ma una schiera di persone perbene che consapevolmente si mettono al servizio della rete di Carminati. La figura forse più inquietante è quella di Luca Odevaine, 58 anni: dal 2001 vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, poi nominato da Nicola Zingaretti direttore di polizia e protezione civile della provincia di Roma. Siede nei comitati nazionali che devono trovare una sistemazione per i profughi che attraversano il Mediterraneo. L’affare più ricco, perché come dice Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno” e braccio destro di Carminati, «con gli immigrati si guadagna più del traffico di droga». Odevaine viene chiamato «il Padrone» per la sua capacità di influire sullo smistamento dei profughi e sull’accreditamento dei centri di accoglienza. Più ne sbarcano, più strutture servono e ogni persona vale 35 euro al giorno. Con l’operazione Mare Nostrum il ritmo diventa frenetico: i centri vengono riempiti nel giro di pochi giorni. È una miniera d’oro: 150 milioni di euro da incassare, praticamente senza controlli. Odevaine sostiene di avere convinto il prefetto Morcone - con cui dice di avere preso appuntamento tramite Veltroni - a concentrare i flussi sulle regioni centro-meridionali «tanto al Nord non li vogliono». E spinge Buzzi ad aprire altre strutture di accoglienza in Sicilia, Lazio, Campania. Al telefono se ne citano almeno sette gestite dagli accoliti di Mafia Capitale. Creano un accordo con la più potente arciconfraternita religiosa impegnata nell’assistenza, spartendosi alcuni contratti e ipotizzando interventi del Vicariato di Roma su Alfano per smuovere altre commesse. Odevaine invece grazie al suo ruolo parla con tutti i responsabili del Viminale. È esperto, si mostra efficiente: offre soluzioni ai dirigenti del ministero, ai sindaci e alle imprese. E intasca soldi nella sede della sua fondazione personale. Nelle indagini è stata filmata anche la consegna di una misteriosa busta da parte di un alto dirigente de La Cascina, azienda legata alla Compagnia delle Opere ciellina. Una relazione preziosa, che sembra aprire le porte per altri business. Come i subappalti dell’Expo milanese. E soprattutto gli appalti negli ospedali della Regione Lazio: un contratto colossale, quasi 200 milioni. Si discute di entrare nella partita grazie all’accordo tra Compagnia delle Opere e coop rosse, cavalcando il feeling politico tra Pd e Ncd che ispira il governo nazionale, dove il consorzio ciellino poteva contare sulla benevolenza dei ministri Alfano e Lupi. I soci di Carminati dovevano garantire l’operatività su Roma. E il boss parla del modo di arrivare a Nicola Zingaretti e al suo staff per accaparrarsi l’affare. Puntano pure sul premier Renzi, senza riuscire ad avvicinarlo. Ma Buzzi comunque contribuisce alla cena di finanziamento capitolina del presidente del Consiglio: un evento tenuto all’Eur, poco lontano da quel fungo di cemento dove trent’anni fa nacque il gruppo neofascista che ancora domina la capitale. Odevaine fa le cose in grande. Ed è lui a spiegare che per il salto di qualità la rete romana deve trovare alleati imprenditoriali. Discute di contratti enormi, che finora non sono stati oggetto di indagine, come quello per il centro immigrati di Mineo, il più grande di tutti. «I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo perché Lupi, il ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…». Valuta in parecchi milioni il vantaggio ottenuto dall’azienda parmense. Poi su un’altra gara per i rifugiati Odevaine assicura: «Il presidente della Commissione lo faccio io… è una gara finta». Mafia Capitale, come in precedenza la banda della Magliana, ha continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra. Gli investigatori del Ros lo scrivono nelle loro informative ai pm: «le altre organizzazioni criminali presenti nel territorio riconoscevano la forza del sodalizio diretto da Carminati». Chiunque volesse fare affari all’interno del grande raccordo anulare, doveva chiedere il permesso al “Cecato”. Perché qui è lui che comanda. E si scopre che il referente di Cosa nostra a Roma è il vecchio Ernesto Diotallevi, che si definisce in una intercettazione il «capo dei capi». Lui è legato a Riina e ai mafiosi siciliani fin dai tempi di Pippo Calò. Anche lui pare in grado di arrivare a chiunque. Mario Diotallevi, figlio del boss, intercettato lo scorso anno mentre parla con il padre, gli riferisce che avrebbe avuto un appuntamento con Aurelio De Laurentiis «al quale avrebbe proposto di acquistare la villa di Cavallo da destinare ad un giocatore del Napoli calcio».Cosa nostra è ben rappresentata da boss palermitani che hanno lasciato l’isola e si sono trasferiti all’ombra del Colosseo. I siciliani avrebbero fornito a Carminati sicari per commettere omicidi, ma anche appoggio “logistico”: se servivano armi i picciotti sapevano a quale porta bussare. Racconta un collaboratore di giustizia che il gruppo del siciliano Benedetto Spataro aveva anche effettuato “lavori” per conto di Carminati che, in una circostanza, aveva anche venduto ai catanesi delle armi. «Benedetto le ha prese da Carminati qui a Roma e le ha portate in Sicilia», ha dichiarato il pentito Sebastiano Cassia. I legami dell’ex Nar arrivano anche in Campania. A Michele Senese e a tutta la galassia a lui riconducibile. Ci sono legami con i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, e con il figlio di quest’ultimo, Luigi, alias “Gigino a’ Nacchella”. Tutti e tre esponenti di spicco del clan camorristico facente capo alla famiglia Licciardi, già parte della “alleanza di Secondigliano”, e legatissima a Senese. Con loro la banda di Carminati faceva affari di piccolo calibro, ma vigeva un rapporto di mutuo soccorso. Non si pestavano i piedi, anzi, spesso si trovavano a condividere le stesse zone di influenza e a darsi una mano. Il 23 gennaio scorso i carabinieri del Ros registrano una conversazione nell’ufficio di una coop di Buzzi. Quest’ultimo racconta a Carminati un episodio che collega i romani con i calabresi e la ’ndrangheta. Buzzi, riferendosi ad un uomo della sua cooperativa, con orgoglio dice al “Cecato”: «... è tremendo.. gli ho visto fare una volta una trattativa con la ’ndrangheta... ce fai sparà gl’ ho detto.. a trattà su 5 lire … gl’ho detto scusa “e questo rompeva il cazzo” ce sparano sto giro... in piena Calabria!». Investigatori e magistrati evidenziano come in passato Carminati ha goduto della protezione «derivante da legami occulti con apparati istituzionali». I camerati di un tempo adesso hanno fatto carriera e sono diventati «rappresentanti politici o manager di enti pubblici economici». Lo spiega lo stesso boss in un’intercettazione: «Io a loro li conosco... c’ho fatto politica... ma poi ognuno ha preso la sua strada. Chi è diventato un bandito da strada, chi si è laureato... A quei tempi ci stava gente che adesso sta nell’ufficio studi della Banca d’Italia, ci sta Fabio Panetta che è il numero tre della Bce. L’unico della Banca d’Italia che si è portato Draghi. Io ci ho fatto le vacanze insieme per tutta la vita è uno dei miei migliori amici, ogni tanto mi chiama... mi ha chiamato proprio dopo l’articolo (de “l’Espresso” ndr), mi ha detto “a Ma’ sei sempre rimasto il solito bandito da strada”, mi ha detto. Gli ho detto “sì, tu sei sempre rimasto il solito stronzo che stai lì a leccare il culo alla Bce”». Panetta ha smentito rapporti recenti con “il Nero”. Ma le parole sono indicative delle relazioni che Carminati può vantare. «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile?» dice in una telefonata alla compagna Salvatore Buzzi, «perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo!». Alla sua compagna Alessandra Garrone, che come lui è stata arrestata, Buzzi racconta: «Massimo non mi dice i nomi perché non me li dice… Tutti! Finmeccanica! Ecco perché ogni tanto adesso… Quattro milioni dentro le buste! Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l’ho portati a tutti!’ tutti!”». La Garrone lo interrompe: «A tutto il Parlamento!». E lui precisa: «Pure a Rifondazione». Carminati si interessa molto alle vicende del gruppo statale. Disprezza Lorenzo Cola, il faccendiere legato ai vertici di Finmeccanica, per la collaborazione con i magistrati che ha fatto finire in cella il commercialista Iannilli, nella cui villa ha abitato fino all’ultimo. In occasione dell’arresto, è preoccupato che la moglie di Iannilli possa parlare con gli investigatori. E in effetti una relazione dei carabinieri riporta le confidenze fatte dalla donna. Al militare parla di come Lorenzo Cola avrebbe fatto consegnare somme di denaro all’amministratore delegato di Alenia. La moglie del commercialista svela che esiste una organizzazione che ha forma piramidale «a tre livelli: al vertice ci sarebbe Lorenzo Cola, al secondo livello ci sarebbero i “controllori”, non meglio identificati, al terzo livello ci sarebbe “l’esercito”, ovvero le persone come Iannilli. Cola, che avrebbe sempre utilizzato Iannilli come un bancomat, sarebbe arrivato ad estorcergli troppo denaro». E suo marito «nel corso degli anni è stato molto “generoso”, tanto che non avrebbe potuto più far fronte alle pretese di Cola e quindi si sarebbe rivolto a Massimo Carminati per ricevere protezione. Quest’ultimo si sarebbe presentato a Cola intimandogli di desistere dalle sue intenzioni». La donna ha dipinto Carminati «come un uomo che ha aiutato lei e la sua famiglia in un momento di grande difficoltà, affermando che non è un “bandito di strada”, è “omologo” di La Russa ed Alemanno, avendo scelto “la strada anziché il Parlamento, ma che “... è uno di loro...”». Ecco, il Mondo di Mezzo, appunto.

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive Sabino Labia su “Panorama”. In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma.

Il furton al caveau della Banca di Roma del Tribunale. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Il Guercio nella terra dei ciechi e tutte le storie di Mafia Capitale, scrive Mariagrazia Gerina su “Internazionale”. Roma sotto inchiesta per mafia. Non più capitale ma “mondo di mezzo”, dove tutto si rimescola: affari, criminalità e politica. La procura di Roma che un tempo era definita il “porto delle nebbie” ha deciso di riscrivere la storia della città. Cento indagati, i palazzi della politica perquisiti, mille e centoventitré pagine fitte di intercettazioni, di nomi, di mazzette. Da cinque giorni, tutti le compulsano ossessivamente. Sono pagine che fanno a pezzi la politica romana, rischiano di distruggerne la credibilità. Hanno provocato finora reazioni scomposte, dichiarazioni d’innocenza anche da parte di chi non era indagato, dimissioni. La confusione regna. Il Partito democratico (Pd) di Roma è stato commissariato, la regione Lazio ha bloccato tutte le gare d’appalto, in Campidoglio si pensa a una giunta d’emergenza “capitale” con dentro il Movimento 5 stelle per allontanare il rischio di scioglimento del comune. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, invoca: processi subito. Già perché in quel migliaio e passa di pagine c’è di tutto, ma non ci sono ancora condanne o assoluzioni. Eppure da lì bisogna ripartire per diradare le nebbie del mondo di mezzo. Dai nomi, dai soldi, dalle intercettazioni. E da quello che di questa inchiesta, fin qui, è stato scritto. Nel film Johnny Stecchino (1991), il comico toscano Roberto Benigni raccontava la mafia con una battuta: “La piaga di Palermo è il traffico”. Adesso finalmente è chiaro che anche a Roma il problema non sono i varchi elettronici e le multe. C’è voluta una corposissima ordinanza con i suoi 100 indagati e 37 arresti, perché tutti si svegliassero una mattina, il 2 dicembre, per leggere nero su bianco: a Roma c’è la mafia. Ed è arrivata fino al Campidoglio.  Qualche anno fa, sembrava quasi sconveniente nominarla. Si cominciò a parlare di “Quinta mafia” a metà degli anni duemila per il basso Lazio. Mentre a Roma si era già diffuso il contagio. Adesso bisogna fare i conti con la “Mafia Capitale”. Una mafia “originale” e “originaria”, perché nasce a Roma ed è diversa da tutte le altre. Ha dalla sua la fluidità della criminalità romana: armata e per questo temibile. Così la descrive Flavia Costantini, il giudice per le indagini preliminari, che ha dato questo nome alla nuova organizzazione. In cima, Massimo Carminati, il primo nella lista degli arresti, er Cecato o anche il Pirata (per la ferita all’occhio), l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari, che aggiorna antichi rapporti per tenere in pugno il Campidoglio. Negli anni settanta si muoveva con scaltrezza tra l’estrema destra armata e la banda della Magliana, negli anni duemila è il “Re di Roma”, come lo definisce il giornalista dell’Espresso Lirio Abbate, capace di mettere d’accordo i clan, ma anche di ottenere informazioni da poliziotti infedeli. È lui, secondo Flavia Costantini, il “capo indiscusso di Mafia Capitale”. Carminati può disporre direttamente anche di alcuni dei più stretti collaboratori del sindaco Alemanno, controlla politici e imprenditori, estorsioni e appalti comunali. La storia della nuova consorteria tracciata dal giudice Flavia Costantini coincide con la sua biografia criminale, mutua le sue principali caratteristiche organizzative dalla banda della Magliana, ma “ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma”. Dietro, c’è perfino una filosofia criminale. Quella ormai nota del “Mondo di mezzo”, da cui prende nome l’inchiesta condotta da Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dallo stesso procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Copyright di Massimo Carminati: “È la teoria del mondo di mezzo compà”, spiega l’ex terrorista in un monologo interrotto appena dagli “embè” e i “certo” dei suoi collaboratori: Ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi… cazzo è impossibile… capito come idea? … è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra… si incontrano tutti là… allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno… e tutto si mischia… Quando la procura di Roma la intercetta, Mafia Capitale è già approdata alla “fase matura” e ha rimestato parecchio nel mondo di mezzo. A Roma, dal 2008, governa Gianni Alemanno, il primo sindaco della capitale che viene dall’estrema destra. Indagato, assicura di non aver mai conosciuto Carminati. Le intercettazioni raccontano invece i rapporti diretti del Pirata con alcuni dei suoi uomini di fiducia. Con il capo della sua segreteria, Antonio Lucarelli, ex Forza nuova. Con Luca Gramazio, allora capogruppo del Popolo della libertà. Lui e suo padre, Domenico Gramazio, vengono avvistati insieme a Carminati a piazza Tuscolo, alla fine del 2012. Discutono del bilancio comunale, ipotizzano gli inquirenti. Nel luglio del 2013 di nuovo tutti e tre sono a cena dar Bruttone. Un’altra volta è Luca Gramazio da solo a incontrare Carminati, che gli passa della documentazione. Sul campo rom di Castel Romano, ipotizzano i magistrati. Il rapporto più stretto der Cecato è con Riccardo Mancini, un passato di militanza nell’estrema destra, fino al 2012 amministratore delegato dell’azienda che gestisce i beni immobiliari dell’Eur, plenipotenziario del sindaco per i rapporti con gli imprenditori e della sua campagna elettorale nel 2008. “È lui che ce sta a passà i lavori buoni perché funzioni questa cosa”, confida Carminati a un uomo di fiducia. Il “grassottello”, lo apostrofa Carminati. Qualche volta non si comporta bene agli occhi dell’associazione: “Lo so, ma poi… io… gli ho menato, eh?”, rivendica con toni da boss. E se rinvia i pagamenti: “Mo’ ‘o famo strillà come un’aquila sgozzata”. Quando sa che sta per essere arrestato per la presunta tangente su un appalto del trasporto pubblico da 600mila euro, Carminati fa in modo di assicurarsi che non parli: “Se deve tenè er cecio ar culo”. Nel mondo di mezzo tra affari, criminalità e politica non c’è alcuna differenza di stato. Ed è da questa incredibile terza dimensione che spunta l’altro protagonista di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse romane che diventa sodale del Pirata. Una parabola quasi più sorprendente di quella di Carminati. La sua storia e quella della cooperativa di ex detenuti da lui fondata tocca il cuore della sinistra romana, prima ancora di arrivare a riempire il portafoglio di alcuni esponenti dell’attuale Partito democratico. La cooperativa 29 giugno, oggi una rete di cooperative che conta più di mille dipendenti, prende nome da un convegno sulle misure alternative al carcere che si tenne a Rebibbia nel 1984. Condannato per omicidio all’inizio degli anni ottanta, a Rebibbia Buzzi mette in scena con altri detenuti uno spettacolo, Antigone (“le leggi degli dèi sono più importanti delle leggi degli uomini…”), si lancia in una piccola impresa di imballaggio di pomodori, insomma, si comporta da “detenuto modello”, sotto gli auspici di Miriam Mafai, Laura Lombardo Radice e Pietro Ingrao, che ai pomodori di Rebibbia dedica addirittura un articolo sull’Unità. Uscito dal carcere, fonda la 29 giugno e grazie ad Angiolo Marroni – ala migliorista del partito romano e assessore al bilancio della provincia, suo vero mentore fin dal periodo del carcere – ottiene il primo appalto assegnato con grande urgenza per il taglio dell’erba sulla via Tiberina. Quasi trent’anni dopo, lo ritroviamo mattatore della scena. A capo di una “holding” che dà lavoro a 1.200 persone e fattura 59 milioni di euro. In queste ore spunta anche la sua presenza, poche settimane fa, alla cena romana di finanziamento del Partito democratico, con il segretario Matteo Renzi. Ma nell’inchiesta c’è la foto di un’altra cena, organizzata da Buzzi nel 2010: al suo tavolo siedono il presidente della Legacoop e futuro ministro Giuliano Poletti; il sindaco di Roma Gianni Alemanno; Franco Panzironi, al vertice della municipalizzata dei rifiuti; Luciano Casamonica; il futuro assessore alla casa della giunta guidata da Ignazio Marino, Daniele Ozzimo; e c’è, immancabile, Angiolo Marroni, diventato nel frattempo garante dei detenuti del Lazio, insieme al figlio Umberto, oggi deputato, all’epoca capogruppo dei democratici in Campidoglio. Buzzi ne ha fatta di strada. E ha un nuovo sodale che sa aprirgli, nella Roma governata da Alemanno, anche le porte per lui ancora chiuse. Si chiama Massimo Carminati, il “Re di Roma”. Per Buzzi: l’uomo che portava “i bustoni di soldi a Finmeccanica”. Buzzi ha difficoltà a parlare con il capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per farsi sbloccare un pagamento? “Allora chiamiamo Massimo”, racconta lo stesso Buzzi, “e faccio: ‘Guarda che qui c’ho difficoltà a farmi fa’… i trecentomila euro’”. A quel punto – prosegue il racconto, con tanto di dialoghi mimati – Carminati gli dice: “Va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene parlare con te”. “Aò”, chiosa Buzzi, “alle tre meno cinque scende, dice ‘con Massimo, tutto a posto domani vai…’”. “Io c’ho i soldi suoi”, confida in un’altra intercettazione. “I soldi suoi, lui sai, m’ha detto quando… c’aveva paura che l’arrestavano perché se l’arrestava… se parlava quello il prossimo era lui poi…”. E ancora racconta che Carminati gli avrebbe detto: “Guarda qualunque cosa succede ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te, non li devi dà a nessuno, a chiunque venisse qui da te… nemmeno mia moglie”. E aggiunge: “Non so’ soddisfazioni?”. Il ruolo che gli inquirenti assegnano a Buzzi nell’associazione guidata da Carminati è quello di organizzatore: “Gestisce, per il tramite di una rete di cooperative, le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico e negli altri settori oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo, si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. Le cooperative nate all’ombra del Partito comunista al servizio della Mafia Capitale. Ma la scoperta più inquietante dell’inchiesta è quella del “libro mastro” ritrovato in casa della segretaria personale di Buzzi, Nadia Cerrito, che, arrestata, ha già cominciato a parlare. Un libro nero dove Buzzi tiene con precisione la contabilità occulta delle somme pagate e delle persone a cui sono destinate. Argomento da cui il fondatore della 29 giugno sembra ossessionato. Le intercettazioni sono piene di nomi accompagnati da cifre. Pesci grandi e piccoli della politica romana, ma anche funzionari e dirigenti comunali (in casa di un funzionario dell’ufficio giardini sono stati trovati 572mila euro). È in questa contabilità orale che tutto davvero si rimescola. E che Buzzi millanta rapporti anche con molti nomi del Partito democratico. Quello del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, che, indagato, si è dimesso il giorno degli arresti. “Me so’ comprato Coratti”, annuncia Buzzi all’inizio del 2014, che parla di 150mila euro promessi per sbloccare un pagamento relativo al “sociale”. Per incontrarlo si serve del suo capo segreteria, Franco Figurelli: “Gli diamo mille euro al mese”. Altro nome del Partito democratico è quello del consigliere regionale Eugenio Patanè. “Voleva 120mila a lordo”, sostiene Buzzi (siamo a maggio di quest’anno), richiesta che spiega di aver ricevuto per conto suo da un intermediario. “Gli abbiamo dato diecimila per… per carinerie, e finisce lì, non gli diamo più una lira”, chiosa in una successiva conversazione. È seccato Buzzi quando i conti non gli tornano: “A Panzironi che comandava gli avemo dato il 2 virgola 5 per cento, 120 mila euro su 5 milioni… mo’ damo tutti ’sti soldi a questo?”. Parlano di un appalto per la raccolta dei rifiuti. Franco Panzironi, a cui Buzzi paga 15mila euro ogni mese (“l’ho messo a 15 al mese”), è l’ex amministratore delegato dell’azienda per i rifiuti. Altro fedelissimo di Alemanno, finito agli arresti. Socio fondatore della sua fondazione, la Nuova Italia. Sulla fondazione del sindaco Alemanno piovono bonifici. Nel novembre del 2012, in particolare, arrivano 30mila euro dalle cooperative di Buzzi, proprio nel momento in cui il comune approva i provvedimenti di bilancio. In ballo ci sono i soldi per le aree verdi, per i campi rom e per i minori dell’emergenza in Nordafrica. Smista soldi Salvatore Buzzi. E smista anche i voti. L’11 maggio 2013, a pochi giorni dalle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale, Buzzi parla con Gianni Alemanno al telefono. “Allora? Ma è vera ’sta storia del disgiunto?”, s’informa il sindaco uscente. “Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo e Alemanno”, conferma Buzzi e ride. “Eh, questo… questo mi onora molto”, replica il sindaco. E Buzzi, ridendo: “Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh!”. Daniele Ozzimo, eletto con 5.317 preferenze, diventa l’assessore alla casa nella giunta guidata da Ignazio Marino. Si è dimesso anche lui, come Coratti. Nelle intercettazioni, un sms della sua ex moglie, Micaela Campana, responsabile welfare nella segreteria di Matteo Renzi, al presidente della 29 giugno: “Bacio, grande Capo”. In realtà Buzzi, qualche mese prima, sembrerebbe essersi entusiasmato a un altro scenario: “Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco, eh!”. Poi la storia va diversamente e Umberto Marroni si candida alla camera. Ma il fondatore della 29 giugno è uomo dalle strategie larghe: “Mo’ c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è…”. Qualche differenza c’è: “I nostri sono molto meno ladri di quelli della Pdl”, confida. Comunque rassicura: “Io pago tutti… finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti”. Specie quando c’è la campagna elettorale per le comunali: “Questo è il momento che pago di più…”. Quando Alemanno viene battuto da Ignazio Marino (sui giornali è spuntato un finanziamento anche alla sua campagna elettorale), non si arrende: di amici in giunta ne conta sei su nove, ma non fa i nomi. “Dacce ’na mano perché siamo messi veramente male con la Cutini”, si lamenta dell’assessore alle politiche sociali (quota Sant’Egidio) con il vicesindaco Luigi Nieri, di Sinistra ecologia libertà, con cui invece mostra un buon rapporto. Mentre l’ex segretario del Partito democratico romano, ora commissariato da Matteo Orfini, Lionello Cosentino lo considera “proprio un amico nostro”. In Campidoglio Buzzi cerca incontri, sponsorizza nomine (come quella di Walter Politano, che Marino ha subito rimosso da responsabile della trasparenza). E s’interroga anche su come “legare a sé” il giovane di punta nel gabinetto del sindaco, Mattia Stella (che non è indagato), già segretario del presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. Sono giorni frenetici, in cui tentare di tessere una nuova tela: “Bisogna vendersi come le puttane”, gli suggerisce Massimo Carminati, il mondo di mezzo. Buzzi da una parte, Carminati dall’altra. In mezzo i politici che si mettono al loro servizio. A leggersi le pagine dell’ordinanza, sembra proprio che Mafia Capitale voglia prendersi tutto: la gara d’appalto per la raccolta differenziata, quella per la manutenzione delle piste ciclabili, la nevicata del 2012, che mise in ginocchio la città governata da Alemanno, e la raccolta delle foglie. Ma anche cemento, affari nell’edilizia. A Roma, in questa città dove niente funziona, dopo la lettura di “Mondo di mezzo”, niente è più come prima. Neppure le foglie che ostruiscono i tombini. Certo, sotto tutta un’altra luce rispetto alle manifestazioni delle scorse settimane, si legge la vicenda dell’accoglienza dei migranti e dei campi rom nella capitale. Due settori su cui l’associazione punta molto. Nelle intercettazioni si parla in particolare del campo rom di Castel Romano, che è stato già costruito, in un mese e mezzo. “A me ’na grande mano per quel campo nomadi me l’ha data Massimo perché un milione e due, seicento per uno, chi cazzo ce l’ha”, rivela Buzzi. Che poi briga perché i fondi siano previsti nell’assestamento di bilancio. Ma è sulla vicenda dei migranti che Buzzi punta ancora di più. Detto con le parole del presidente della 29 giugno: “Tu c’hai un’idea di quanto ce guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. E il suo “socio”, Sandro Coltellacci, presidente della cooperativa Formula sociale: “Qui stiamo a parlà della cooperazione sociale a Roma”. Ed è a proposito di immigrati che spunta la figura di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto quando il sindaco era Walter Veltroni. Odevaine è uno dei nomi più sorprendenti dell’inchiesta Mondo di mezzo. L’uomo a cui Veltroni aveva affidato tutta l’area della sicurezza, dalle occupazioni delle case ai campi rom, chiamato poi da Nicola Zingaretti a coordinare la polizia e la protezione civile della provincia. Anni dopo lo ritroviamo al fianco di Salvatore Buzzi, che lo vorrebbe capo di gabinetto del sindaco Marino: “Lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese…”. L’interesse di Buzzi è legato all’incarico che Odevaine, consulente anche del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, ricopre presso il Tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, come rappresentante dell’Unione delle province italiane. Gli inquirenti parlano addirittura di un “sistema Odevaine”. “Cioè chiaramente stando a questo tavolo nazionale… e avendo questa relazione continua con il ministero… sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… da Mineo… vengono smistati in giro per l’Italia…”, spiega Odevaine al telefono. “Se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a tavoli per l’accoglienza… da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro”. Ora le gare e gli appalti si fermano. In Campidoglio, come in regione (anche lì, Buzzi millanta contatti e un uomo a busta paga per tenere i rapporti con il presidente Nicola Zingaretti). Il mondo di sopra è congelato. Il mondo di sotto, in carcere. Quello delle cooperative pulite è sconvolto. Nella politica romana, sono in tanti a tremare. Alle volte Carminati sembra proprio il Guercio in una terra di ciechi.

Mariagrazia Gerina è una giornalista freelance. Scrive per l’Espresso e per il Fatto Quotidiano. Ha lavorato per molti anni all’Unità, occupandosi soprattutto di Roma e di Campidoglio. Con Marco Damilano e Fabio Martini ha scritto Walter Veltroni. Il piccolo principe (Sperling & Kupfer 2007).

Mafia Capitale. La lunga scia di sangue e affari sporchi che avvolge Roma da 60 anni, scrive Gianni Rossi su “Articolo 21”. La Casta politica italiana non vuole proprio fare i conti con la storia patria. Dall’analisi del substrato capitolino, a partire dal Dopoguerra ad oggi, si possono capire le origini di “Mafia capitale” e il perché  dell’improntitudine e dell’incapacità della classe politica di qualsiasi colore di sottrarsi all’abbraccio tentacolare della Piovra.

Roma “Capitale corrotta = Italia nazione infetta”. A 60 anni di distanza dalla prima grande inchiesta giornalistica sulla speculazione edilizia a Roma e gli intrecci con la finanza vaticana e il “generone capitolino” (pubblicata sull’Espresso l’11 dicembre 1955, a firma di Manlio Cancogni), siamo ancora ad interrogarci sulle cause e la diffusione di quel virus che ha nel suo DNA un intreccio perverso tra malaffare, politica e “poteri forti” dello stato. Quel “generume”, come lo ribattezzò il grande Giorgio Bocca, che viveva e vive all’ombra del Cupolone, che si ritrova in circoli esclusivi, che frequenta salotti di anziane “signore” vedove di esponenti della destra romana, che si genuflette nelle ovattate stanze vaticane, che sfoggia abbigliamenti d’altri tempi per omaggiare gli ospiti illustri nei cortili vaticani come “maggiordomi d’ancien regime”, che si divide solo allo stadio Olimpico  tra le due opposte tifoserie, che sopravvive alle intemperie economico-politiche e ai rivolgimenti delle amministrazioni capitoline, continuando a mungere  affari e stringere alleanze. Quel generone  comprendeva un tempo i rampolli della nobiltà decaduta, “papalina e nera”, esponenti di primo piano del mondo politico e governativo, specie democristiano, massoni più o meno “coperti”, ecclesiasti di peso nella Curia, alti ufficiali, dirigenti dei servizi segreti, palazzinari, vertici di alcuni quotidiani. Erano gli anni del “Sacco di Roma”, quando i politici del centrosinistra di allora e gli affaristi in corsa per cementificare ovunque, in barba alle leggi urbanistiche, dovevano comunque passare per le stanze cardinalizie della Società Generale Immobiliare, il nucleo dorato della finanza vaticana, che negli anni Settanta passò nelle grinfie di Michele Sindona. A quel generone, dalla fine degli anni Settanta si è aggiunta una “Cupola” criminale, dalle fattezze mafiose, ma che ha tratto spunto nei modi di operare dai primi e vi ha aggiunto una spregiudicatezza e una efferatezza sconosciuta. Una Cupola che ha di fatto soppiantato i modi felpati di un tempo con l’arroganza e la violenza da “Romanzo criminale”. Ma a bloccare ogni indagine giornalistica e a stroncare qualsiasi denuncia c’era allora la Casta giudiziaria raccolta nel “Porto delle nebbie” del Palazzaccio, che veniva in soccorso alla classe politica e affaristica del momento, “sopendo e troncando”, fino alle avocazioni e ai trasferimenti in procure minori.

1978 – 1979: gli anni della “svolta”. Un giorno forse si scopriranno i fili che tennero insieme nel ‘78 personaggi delle Brigate Rosse, esponenti della Banda della Magliana, apparati deviati dei servizi e massoni “piduisti” durante e dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della DC, Aldo Moro, l’uomo dell’apertura governativa al PCI. Una brutta fine la fece anche il giornalista Mino Pecorelli, perché si vantava si saperne molto e di rivelare nomi e cifre, che avrebbero squarciato il velo dell’ipocrisia che coprivano gli intrecci perversi. Moro e Pecorelli furono dunque le vittime ancestrali che segnano il confine della “Terra di mezzo”: il punto di convergenza e di non ritorno tra malavita organizzata, ambienti dell’estrema destra terroristica e del brigatismo rosso, settori dei servizi deviati, massoneria coperta, mondo degli affari e della politica che conta. Qualcuno che ne sapeva più degli altri è purtroppo morto, portando con sé i segreti inconfessabili di quel “delitto di stato”. Si era battuto per liberazione di Moro, aveva perso e si era dimesso dal governo. Più tardi salì al Colle, con un accordo bipartisan e un’unanimità mai più ripetuta. Le sue carte e le sue registrazioni non sono mai state ancora lette né decifrate. E forse non sarà sufficiente neppure aprire gli “armadi della vergogna” di Forte Braschi per decrittarne i segreti tra gli impolverati faldoni. Ma una concomitanza salta agli occhi: da quel periodo, i reduci della Banda della Magliana estendono i loro tentacoli mafiosi e, nonostante sanguinarie vendette personali ed alcune coraggiose indagini, il sistema di quei balordi si è andato affermandosi e incuneandosi negli sulla vita politica e affaristica della Capitale. Durante il periodo epico e di rottura col passato della seconda metà degli anni Settanta, grazie alla Rinascita democratica, sociale e culturale avviata dalle “amministrazioni rosse” con i sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere), Roma sembrava aver chiuso per sempre con l’epoca dei palazzinari, con le periferie “accattone” (850 mila abitanti reclusi in quartieri fuorilegge per il Piano Regolatore, senza servizi primari e trasporti), con la malavita rozza e “pastasciuttara”. La città fu restituita ai suoi abitanti, le periferie divennero parte integrante del sistema urbanistico, l’integrazione generò un circuito virtuoso di convivenza e di drastica diminuzione dell’allarme sociale e criminale. Ma sotto, sotto, covavano i prodromi degli epigoni del “Signore degli anelli”.  In realtà i “Signori delle tenebre”  cominciavano ad uscire dal mondo dei morti per conquistare la “Terra di mezzo” e volare verso le vette rarefatte di Valinor, utilizzando i mostri della “Terra di sotto” per stroncare qualsiasi opposizione. Una mitologia, creata dallo scrittore inglese Tolkien, cara ai giovani della destra più nostalgica e violenta che, abbandonati i pestaggi  e gli assalti ai “rossi”, negli anni Ottanta s’infilano i golfini di cachemire, indossano cappotti loden e si introducono negli ambienti del generone romano.

Dalla “corruzione partitica a quella parcellizzata”.Con gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI, l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi “cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra: tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “ di massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi, la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili, ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne “capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti, a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28 paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20. Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.

Mafia Capitale, Ancora una volta la magistratura commissaria la politica italiana, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se restiamo inchiodati a discutere di 416 bis, a proposito dell’ordinanza “Mafia Capitale” che ha letteralmente sconquassato la vita politica e amministrativa di Roma e del Lazio, cioè se la fattispecie dell’associazione di tipo mafioso contestata dalla procura di Roma sia corrispondente o no al vasto fenomeno di corruzione che ha provocato arresti, indagini e dimissioni a catena, non ne usciamo vivi, schierati in trincea di opinione da una parte o dall’altra. Certo, è una battaglia di garanzia e di diritti, ma questo non è tutto. Non ci vuole la zingara per immaginare – come ha già scritto il direttore di questo giornale – che i pubblici ministeri e il procuratore capo Pignatone sapessero benissimo quale valanga stessero provocando. Quale valanga politica. Non solo l’evidente questione se il Comune di Roma vada sciolto e commissariato, dato che è “quasi giurisprudenza” – quanto meno è la teoria di Gratteri, procuratore di Reggio Calabria, non proprio l’ultimo in merito – che basti anche solo la “infiltrazione mafiosa” di un assessore perché tutto il consiglio vada sciolto. E dato che questa teoria è stata largamente applicata, al Sud almeno, non si capisce perché Roma dovrebbe godere di uno statuto privilegiato. E l’altro versante, quello che lambisce il ministro Poletti, in quanto già capo della Lega delle coop, anche se non c’è alcuna sussistenza di reato né tanto meno alcuna indagine in merito, non è un effetto collaterale da meno. Sarà un effetto mediatico, ma di questo campa la politica. D’altronde, ci si obietterà, non ci più sono “santuari” inaccessibili e il tribunale di Roma, come altri, non è più un “porto delle nebbie” dove tutto si insabbia, e è meglio così. Il punto perciò è che l’indagine “Mafia Capitale”, al di là degli aspetti folckloristici sul “Pirata o “er Cecato” Carminati e su tutta la mole di intercettazioni che lasciano trapelare avidità e pochezza nel mondo dell’amministrazione della cosa pubblica, è soprattutto una “cosa politica”. L’indagine “Mafia Capitale” è una questione squisitamente politica. Era il 17 febbraio 1992 quando arrestarono Mario Chiesa, socialista, che ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, e che venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire. Era l’inizio di Tangentopoli. Il “mariuolo” – come lo definì Bettino Craxi – Mario Chiesa sarà il primo tassello di un domino che getterà giù l’impianto politico della Prima repubblica. È una storia che tutti sanno. Si ricordano meno alcuni caratteri della vita politica di allora, in senso sociale, ampio, di partecipazione. Alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 – poco dopo l’arresto di Chiesa, perciò – votarono per la Camera in 41 milioni 479.764, cioè l’87,35 per cento degli italiani; e per il Senato, in 35 milioni 633.367, cioè l’86,80 per cento. Alle elezioni politiche del 1994, quando ormai Tangentopoli era un diluvio, un giudizio universale, e Berlusconi era sceso in campo votarono per la Camera in 41 milioni 546.290, cioè l’85,83 per cento; e per il Senato, votarono in 35 milioni 873.375, cioè l’85,83 per cento. Sono dati dell’archivio del ministero dell’Interno, e sono numeri incommensurabili rispetto la partecipazione attuale al voto. Il sindaco Marino, per dire, che di questo stiamo parlando, è stato eletto con il 45,05 per cento degli aventi diritto di voto. Meno di uno su due romani andò a votare. Lo sconquasso politico di Tangentopoli non provocò il vuoto, o quanto meno il vuoto della po-itica che non esiste in natura fu colmato da Berlusconi e dalla Lega, mentre i grandi partiti di massa ancora tenevano. Aggiungo un paio di dati: nel 1991 gli iscritti al Pci/Pds sono 989.708, quasi un milione; l’anno prima ne aveva un milione 264.790 e nel 1987 un milione e mezzo. Insomma, siamo dopo la caduta del muro di Berlino e c’è sconcerto, ma il “partito comunista più forte dell’occidente” tiene ancora botta. Se li confrontiamo, questi numeri – tratti dalle ricerche dell’istituto Cattaneo – con la sconfortantissima polemica tutta intestina sugli iscritti attuali del Pd, che non arrivano nemmeno ai trecentomila, si capisce di costa sto parlando. E gli iscritti alla Democrazia cristiana, sempre nel 1991, erano un milione 390.918, mentre l’anno prima ne aveva sopra i due milioni. Ora, la differenza evidente tra l’indagine “Mafia Capitale” con altri episodi di corruzione della cosa pubblica, tanto per dire il “caso Fiorito” che pure portò alle dimissioni della giunta Polverini, con il suo contorno di feste da Trimalcione e sprechi privati giustificati da pizzini volanti, sta nel carattere di “sistema”: mentre il caso Fiorito, che pure riguardava una pletora di consiglieri che allegramente spendevano i lauti soldi dei loro stipendi ha aspetti erratici e casuali – e peraltro molti si appellavano alle larghe maglie di discrezionalità che la legge offriva loro –, quello che risulta e risalta dall’indagine della procura di Roma è un “sistema” di gestione di flussi finanziari, con la triangolazione tra soggetti pubblici, soggetti privati, cooperative sociali. È qualcosa, insomma, che somiglia molto più a una Tangentopoli che a una Parentopoli. L’anomalia, insomma, è quel signore che teneva in casa centinaia di migliaia di euro “bloccati”: gli altri spendevano, compravano case, automobili, affittavano ville, insomma alimentavano e drogavano il Pil della città, con l’economia criminale. Certo, Tangentopoli era il “sistema Italia” e qui parliamo di un “sistema Roma”. Però, la valenza politica di Roma Capitale è sempre stata tale da avere un risvolto nazionale. Che sia implicato o meno un ministro. La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali di qualche giorno fa, e si capisce di cosa stia parlando. Il professor De Rita è intervenuto più volte recentemente a proposito del declino dei “corpi intermedi” – della politica, delle istituzioni – e della fragilità complessiva che questo comporterebbe nel sistema Paese, un vuoto non sostituibile con il verticismo e l’avocazione verso il centro che il presidente del Consiglio sembra privilegiare. Il fatto è che il renzismo non sembra coprire il vuoto della partecipazione politica, anzi all’opposto sembra incassarne gli effetti. Non è solo una caduta di stile la battuta arrogante di indifferenza rispetto la scarsa affluenza alle urne. Forse è vero che la magistratura vuole mostrare di poter tenere sempre sotto schiaffo la politica, qualsiasi. O forse, in un certo senso l’indagine della procura di Roma di Pignatone sembra dare una mano al renzismo. È un’indagine rottamatoria. E di lunga durata. E in quanto tale ne prolunga la vita, lo rende ineluttabile. Proprio l’opposto di Tangentopoli. E la risposta politica è: si commissaria il partito, si avocano a sé le decisioni. Se sarà il caso, si procede anche sfidando le urne a livello locale: si può vincere anche con il trenta per cento di voti, o pure meno. Forse, non è di questo che ha bisogno Roma. E neppure il Paese…

Bentornati nel “porto delle nebbie”, scriveva già Ferruccio Sansa su Il Fatto Quotidiano del 13 agosto 2011. Il “porto delle nebbie”. Il Tribunale di Roma si porta addosso il titolo conquistato tra gli anni ’70 e ‘90. Sospetti, indagini contese con altri tribunali, dalle schedature Fiat allo scandalo dei petroli, passando per i fondi neri Iri e la Loggia P2. Un elenco che tocca anche Tangentopoli, con le inchieste romane che, per usare un eufemismo, non produssero gli effetti di quelle milanesi. I magistrati romani oggi ripetono: “Non siamo più il porto delle nebbie”. E, però, ecco il procuratore aggiunto Achille Toro (ormai ex), che patteggia una condanna a 8 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio per l’inchiesta G8. Ecco il procuratore Giancarlo Capaldo sotto inchiesta del Csm per la cena con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e il suo braccio destro Marco Milanese, all’epoca indagato a Napoli. Così a qualcuno tornano in mente inchieste approdate a Roma per finire archiviate o apparentemente dimenticate. Pare finita nel nulla l’inchiesta arrivata nella Capitale su Alfonso Pecoraro Scanio, ministro delle Politiche agricole nel governo Amato e dell’Ambiente nell’ultimo Prodi. La Camera ha negato al tribunale dei ministri l’utilizzo delle intercettazioni del pm Henry John Woodcock. Eppure nella richiesta del Tribunale dei ministri si legge: “Dalle intercettazioni emerge che l’imprenditore Mattia Fella si è interessato al reperimento di una sede per una fondazione che sarebbe stata intitolata al ministro nonché all’acquisto per conto del ministro, di un terreno nei pressi di Bolsena dove quest’ultimo avrebbe dovuto realizzare un complesso agrituristico dotato di piscina ed eliporto. Infine, dalle telefonate risulta che il ministro ha sempre manifestato disponibilità a esaudire le richieste del Fella”. Fella ambiva a stipulare convenzioni con il ministero e con l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e alla nomina del fratello Stanislao in una commissione ministeriale, il ministro in cambio avrebbe ottenuto “numerosi spostamenti con un elicottero pagato da Fella per 120 mila euro; numerosi viaggi-soggiorno in Italia e all’estero per decine di migliaia di euro; l’acquisto di un terreno – pagato 265 mila euro da Fella – per l’edificazione di un agriturismo biologico e di una villa con piscina ed eliporto, destinato al ministro”. Pecoraro Scanio ha sempre negato ogni addebito. Archiviato anche il fascicolo sugli appalti per i centri di accoglienza che vedeva tra gli indagati Gianni Letta, accusato di abuso d’ufficio, turbativa d’asta e truffa aggravata per aver favorito, questa la tesi dei pm, imprese legate al gruppo “La Cascina” vicino a Cl, a Giulio Andreotti e al segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. L’indagine parte da Potenza: Woodcock lavora su una presunta organizzazione specializzata nell’aggiudicarsi commesse pubbliche truccando le gare. Il 6 agosto 2008 Angelo Chiorazzo (dirigente Cascina) è a Palazzo Chigi. Letta chiama il capo dell’immigrazione al ministero, il prefetto Morcone. Due giorni dopo Chiorazzo torna alla carica. Dopo il secondo incontro, Letta richiama Chiorazzo: “Il prefetto di Crotone mi dice che vuole che lei vada o lunedì o martedì… perché poi lui va a Cosenza dove è stato trasferito e dice: "E’ meglio che lascio le cose fatte". Allora, la aspetta in Prefettura… eh… a nome mio”. Ma l’inchiesta si concentra anche su altri appalti, come quello da un milione e 170mila euro per il Cara di Policoro (Matera), aperto a tempo di record e affidato a società legate ai Chiorazzo. Secondo la Procura di Roma, però, in questa vicenda non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante. Il pm Sergio Colaiocco nell’aprile 2009 ha fatto archiviare l’accusa di associazione per delinquere contro Letta e Morcone. A suo avviso, lo stato d’emergenza legittimava tutto, quindi anche le altre accuse dovevano cadere. Secondo Woodcock, invece, l’emergenza non farebbe venir meno l’obbligo di chiedere 5 preventivi prima di assegnare un appalto milionario con un paio di telefonate. Ma alla fine anche il pm di Lagonegro, cui l’inchiesta era stata affidata per competenza, archivia. Nel dimenticatoio pare finita anche la vicenda in cui era indagata Daniela Di Sotto, all’epoca signora Fini. Cioè moglie del vice-premier Gianfranco. È il 19 aprile 2005 quando gli investigatori della Procura di Potenza registrano una telefonata imbarazzante: “Io sono andata a sbattermi il culo con Storace”, allora presidente della Regione Lazio. A parlare era appunto Daniela Fini. Il suo interlocutore era l’allora segretario di suo marito Francesco Proietti, poi divenuto deputato. Lo “sbattimento” di Daniela con Storace secondo l’accusa avrebbe prodotto risultati. Scrive Woodcock: “Proietti e Di Sotto fanno esplicitamente cenno all’interessamento profuso dalla donna presso Storace affinché la clinica Panigea – di cui Di Sotto era socia – operasse in regime di convenzione l’esecuzione di esami costosi”. La richiesta della Panigea è dell’11 febbraio, il parere favorevole Asl è del 14, la delibera della giunta è del 18. Basta una settimana. Ma a beneficiare della convenzione non saranno Di Sotto e Proietti, bensì la loro socia Patrizia Pescatori. Cognata di Gianfranco Fini. Il pm Sergio Colaiocco ha anche archiviato un’inchiesta (partita da De Magistris, prima di approdare a Roma) sull’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Al centro dell’indagine i rapporti tra l’esponente politico e l’imprenditore Antonio Saladino. Ma la Procura di Roma non condivide le accuse: Mastella non avrebbe compiuto i reati contestati nell’inchiesta Why Not almeno nel periodo in cui era ministro. Non emergono, secondo il pm, “elementi diversi dall’asserita esistenza di rapporti di amicizia tra Saladino e Mastella” e quindi si esclude che vi siano “fonti di prova che depongano per la sussistenza di reati commessi a Roma”.

Procura romana porto delle nebbie. Mele: "parlarne male è una moda", scriveva Nese Marco su Corriere della Sera (25 settembre 1992). Dicono che nel "manuale Cencelli" (la guida pratica per la spartizione dei posti di potere) l'incarico di capo della Procura di Roma equivalga a due ministeri. E si può ben capire. Il più importante ufficio italiano della pubblica accusa ha gli occhi direttamente puntati sul "Palazzo". Dicono che talvolta i suoi sguardi verso i potenti siano troppo benevoli. I maligni insinuano che proprio adesso ne abbiamo una prova sotto gli occhi. I giudici milanesi hanno fatto arrestare sette alti papaveri romani. Dovevano muoversi quelli di Milano? A Roma non si erano accorti di nulla? Domande più che legittime. Però, almeno stavolta, non si può dare la croce addosso ai magistrati della capitale. La loro parte contro i pubblici amministratori corrotti la stanno facendo. Hanno messo dentro assessori, industriali, personaggi di grosso calibro. La "Tangentopoli" romana coinvolge finora almeno ottanta inquisiti. "Facciamo meno chiasso dei milanesi, ironizza un sostituto procuratore, per questo le nostre inchieste passano inosservate". C'è anche chi polemizza per i sette arresti ordinati da Milano. "Vedremo, dicono alla Procura, se gli episodi contestati si sono svolti al Nord o nella capitale. Se la corruzione e il versamento delle mazzette sono avvenute a Roma, i milanesi dovevano semplicemente passarci le carte per una questione di competenza". Accetta di parlare anche il capo della Procura, Vittorio Mele, che si è insediato da quasi tre mesi. "Non abbiamo riguardi per nessuno. Bisogna considerare, però, che in materia di pubblica amministrazione le indagini non sono semplici. Ci vuole un episodio. Come è capitato a Di Pietro con Mario Chiesa. Quando mi sento dire: voi che fate, non vi muovete?, mi viene da considerare che gli episodi su cui indagano i colleghi milanesi si riferiscono agli anni Ottanta. Allora potrei dire: cosa facevano loro mentre la corruzione si diffondeva, e cosa facevano gli imprenditori? Non lo dico in tono polemico, ma solo per spiegare che non è facile smascherare i corrotti. Soprattutto se non si ha la fortuna di trovare persone disposte a parlare". A Milano questa fortuna l'hanno avuta. "Ne sono felice per loro, dice Mele, ma anche noi stiamo facendo la nostra parte. Io sono arrivato qui da poco, ma in passato, ricordo che un'inchiesta della Procura romana ha fatto cadere la giunta del sindaco Signorello. E oggi, per citare solo alcuni casi, abbiamo in piedi inchieste sugli assessori Lamberto Mancini, Arnaldo Lucari, Carlo Pelonzi. Ma io voglio perfezionare le indagini. Sto pensando a un pool di sostituti solo per le inchieste sulla pubblica amministrazione". Il nuovo Procuratore vuole cancellare anche la brutta nomea di Roma affossatrice di scandali. Alla richiesta di strappare l'inchiesta sugli ex ministri Bernini e De Michelis ai magistrati veneziani ha risposto no. Ha rinunciato a sollevare conflitto di competenza. "Non volevo che domani mi potessero accusare, dice Mele, di essermi intromesso allo scopo di insabbiare. Eppure, a ogni occasione rispunta la storia della Procura romana che è un porto delle nebbie. La verità è che parlare male di questo ufficio è una moda". Adesso, forse, le cose sono cambiate. Ma in passato le accuse alla Procura romana non erano fantasie. E' successo di tutto in quei piccoli uffici male illuminati. All'inizio degli anni Settanta erano state registrate le conversazioni telefoniche tra il boss mafioso Frank Coppola e Natale Rimi, figlio di un capomafia, che si era inserito alla Regione Lazio. Quando gli inquirenti andarono ad ascoltare i nastri, scoprirono che erano stati manomessi, tagliati e ricuciti. Poi cominciò l'epoca dei processi strappati ad altre città. Il primo fu quello per la strage di piazza Fontana, fatto spostare a Roma perchè nello stesso giorno erano esplose bombe anche nella capitale e questo doveva considerarsi il segno di un unico disegno eversivo. Stessa sorte subì l'inchiesta sui petroli. Quella avviata a Genova. La conducevano tre giovani pretori che vennero definiti "d'assalto" perchè avevano osato mettere sotto torchio alcuni personaggi importanti. Anche nelle inchieste sul terrorismo Roma fece la parte dell'arraffatutto. A Milano avevano ordinato l'arresto di Franco Piperno. A Roma fecero altrettanto, contestando però un reato più grave, il delitto Moro. Fra mille polemiche, l'inchiesta passò a Roma, ma le accuse vennero subito smontate. Ci fu un tempo in cui i Procuratori della capitale lasciavano il loro ufficio con un marchio indelebile. A Giovanni De Matteo è rimasta la brutta fama di aver favorito i fratelli Caltagirone, palazzinari legati ad Andreotti. Il suo successore, Achille Gallucci, è passato alla storia per il caso dei cappuccini. A suo avviso, ne bevevano troppi al Consiglio superiore della magistratura, un segno di spreco, che Gallucci bollò come peculato. I maligni dissero che lo scopo di Gallucci era solo quello di far cadere il Csm. E tutte le forze politiche ammisero che si trattava di uno scontro a carattere istituzionale. Un'operazione oscura, mentre divampava lo scandalo P2. Gallucci è stato forse il più chiacchierato Procuratore. Non c'è caso scottante, non c'è scandalo politico-finanziario che non sia passato per le mani di Gallucci, dai fondi neri Montedison, all'Italcasse, alla Sir, alla Rosa dei Venti, alle banche, al caso Calvi. Tutti gli episodi più infelici e sinistri della nostra storia recente.

Mafia Capitale, parlano 2 sbirri: “Nel 2003 avevamo scoperto tutto ma siamo stati bloccati.” Da chi? Si chiede Infiltrato.it. Ieri sera, 4 dicembre 2014, ad Anno Uno, è andato in onda una clamorosa video-denuncia, in cui 2 ex poliziotti della Mobile di Roma ha raccontato la loro assurda vicenda: “Nel 2003 avevamo già scoperto e denunciato Mafia Capitale. Ma siamo stati bloccati.” Da chi?, chiede il cronista. Ecco la risposta, che lascia a bocca aperta. Stefano Bianchi ha incontrato ad Ostia Gaetano Pascale e Piero Fierro, ex poliziotti della squadra mobile di Roma. I due agenti già lo scorso anno avevano rivelato al cronista de ilfattoquotidiano.it Luca Teolato gli insabbiamenti delle inchieste da loro condotte. Nel 2003 Pascale aveva messo le mani sulla mafia di Ostia, prima che lo facesse l’inchiesta “Nuova Alba”. Ma è stato fermato da qualcuno. “Questa cosa ha favorito i narcotrafficanti” – dichiara Fierro – “La prendo con ironia ma bisognerebbe scappare da ‘sto Paese. Ho fatto un giuramento: essere fedele alla patria. e da allora ho preso solo calci in faccia”. E rivela: “Nel 2003 eravamo arrivati alle stesse conclusioni del 2013. C’è stato un solo problema: c’hanno fermato. La mafia e la politica dividono lo stesso territorio: o si mettono d’accordo o si sparano. Voi avete mai visto un politico sparato a Roma?”. E aggiunge: “A Roma c’era Pippo Calò. Secondo voi una volta morto lui hanno tirato giù la saracinesca e scritto ‘chiuso per ferie’. Ho cercato solo di fare il mio dovere: lo sbirro. Ero pagato per questo. poco, ma per questo”. Come raccontava anche Repubblica, “la parola fine alla mafia di Ostia-Roma poteva essere scritta 10 anni fa. Perché quei nomi e cognomi eccellenti della malavita, quei traffici di droga e quei giri di armi, quell'impero economico su cui stavano mettendo le mani i clan (e che fanno parte anche dell’inchiesta Mondo di Mezzo, ndr), erano sotto la lente di un pool di investigatori a cui qualcuno recise le ali. Piero Fierro, agente pluridecorato della polizia di frontiera e Gaetano Pascale, eccellente investigatore della Narcotici alla Mobile, insieme ad altri cinque colleghi erano a un passo dalla verità. Ma qualcuno decise di stroncare la loro carriera, di metterli fuori dai giochi. E oggi i sette poliziotti sono in pensione, con cause per mobbing ancora aperte (seguite dall'avvocato Floriana De Donno) e procedimenti penali che li hanno trascinati da un giorno all'altro nella bufera, archiviati.” Lo Stato ha fermato, deliberatamente, alcuni dei suoi agenti migliori per proteggere i mafiosi. E allora le domande che ci poniamo sono: chi li ha fermati? Chi si voleva proteggere?

Gen. Antonio Pappalardo su “Agora Magazine”: «La mafia a Roma e nello Stato». Nel 1991 ero Comandante del Gruppo Carabinieri Roma 3, con sede in Frascati. Avevo alle dipendenze circa 1.500 uomini, che dovevano soprattutto vigilare affinché la camorra napoletana non si infiltrasse dal sud nella capitale. Un giorno, bello per la giustizia, ma brutto per i politici corrotti, il Capitano della Compagnia Carabinieri di Ostia mi comunicò, estremamente preoccupato, che aveva scoperto un vasto giro di corruzione politica, che investiva i massimi palazzi del potere di Roma. Lo rassicurai: poteva tranquillamente svolgere le sue indagini, colpendo qualsiasi palazzo del potere. Ci sarei stato io dietro le sue spalle. Ed il bravo capitano mollò ceffoni a tutti, senza guardare in faccia a nessuno. La magistratura di Roma, venuta a conoscenza dei fatti, insabbiò tutto, così meritandosi l’appellativo di porto delle nebbie. Qualche mese dopo scoppiò Tangentopoli a Milano e quella magistratura – si è scoperto dopo, per un fine politico, quello di annientare il PSI, che si poneva come ostacolo alla fusione DC-PCI - avviò un’indagine a tappeto, mandando tutto il sistema politico della Prima Repubblica all’aria. Si buttarono nel fango l’acqua sporca e il bambino, favorendo la nascita di nuovi movimenti politici che continuarono, stavolta indisturbati, a rubare. Ancora di più! Mentre dal 2003 al 2006 ero Capo di Stato Maggiore della Divisione Unità Specializzate, un ufficiale dei carabinieri, che non può non essere considerato un fellone, si sfogò dicendo che il ROS Carabinieri, nato per combattere la mafia e il terrorismo, si stava occupando troppo della corruzione politica, dando fastidio a parecchi potenti della Repubblica. Quei potenti, se il ROS non fosse stato frenato, si sarebbero ricordati al momento opportuno di noi, giungendo persino a proporre  l’eliminazione della stessa Arma dei Carabinieri. Questi cialtroni ci hanno provato e le voci sull’eliminazione dell’Arma, con l’attribuzione di tutti i poteri alla Polizia di Stato, con l’assorbimento da parte di essa delle stazioni carabinieri, si sono moltiplicate. Ma noi nel 2004 mandammo a farsi benedire il suggeritore malefico mandato dai politici. Oggi, dopo tanti anni di silenzio, dovuti a diversi fattori, non ultimo quello di aver mantenuto al comando del ROS un uomo ricattabile, il nostro reparto speciale è esploso mettendo in luce la grave corruzione politica e mafiosa che pervade Roma e i palazzi del potere. Dopo tanti anni si è capito che il cancro non è a Milano (là c’era una metastasi), ma a Roma dove tutti gli intrallazzi nascono e crescono. Bravi i nostri solerti e incorruttibili investigatori del ROS! Certo, se si fossero mossi subito a seguito delle indagini della Compagnia di Ostia, questo cancro si sarebbe scoperto in quegli anni e molti mascalzoni, che sono stati eletti in Parlamento, oggi sarebbero da anni in galera. Comunque, la colpa non è di loro, ma di qualcuno, che volendo rimanere attaccato alla poltrona ed occuparne delle altre, maggiormente prestigiose, gioca come il gatto con il topo, che viene lasciato libero, ma subito dopo riacciuffato. Il COCER, che dovrebbe vigilare affinché non si facciano brutti giochi o scherzi all’Arma, non guarda nella giusta direzione e si occupa di aspetti secondari. Si limita a guardare la pagliuzza negli occhi di qualche comandante, di mentalità ristretta e ottusa, e non guarda, invece, nell’occhio di qualcuno, che ha la trave. I Delegati non sanno che di talune gravi mancanze, da loro non rilevate, saranno un giorno giudicati, perché solo Dio è eterno. Tutti gli altri, prima o poi, sebbene protetti dai soliti potenti e prepotenti, passano! Palermo, 3 dicembre 2014. Gen. Antonio Pappalardo.

La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso", scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

Così le coop hanno riempito Roma di profughi e campi rom. "Gli immigrati rendono più della droga". Ecco perché, nonostante il tetto di 250 profughi, a Roma ce ne sono più di 2.500, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. "Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno". Massimo Carminati aveva un braccio destro proveniente dall'estrema sinistra. Ma Salvatore Buzzi, 59 anni, arrestato con il presunto capo della "Mafia Capitale", intercettato dai carabinieri diceva candidamente che "la politica è una cosa, gli affari sò affari". E lui, condannato in passato per omicidio, si era inventato prima una cooperativa sociale con ex detenuti, poi aveva creato un piccolo impero nel settore. Capace di mettere al tavolo - in senso letterale - esponenti di destra e di sinistra, a lui Carminati aveva chiesto di "mettersi la minigonna e battere" per ingraziarsi la nuova giunta Marino. Perché, grazie alla sua cooperativa e al sodalizio con l'ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine, facevano tutti una "paccata" di soldi coi fondi per l'accoglienza degli immigrati e per la gestione dei campi nomadi. "Quando la Lega denunciava che c’è gente che si arricchisce grazie alla presenza di Rom e immigrati eravamo razzisti: adesso che a Roma è venuto fuori, forse abbiamo ragione noi?". La denuncia di Matteo Salvini corre su Facebook. E incarna un mal di pancia tutto romano nei confronti del Campidoglio. Il bubbone capitolino esplode a pochi giorni dalle proteste e dagli scontri di Tor Sapienza. Altro che accoglienza, dietro al traffico di immigrati e profughi ci sarebbe un vero e proprio giro d'affari. Che guarda alle cooperative rosse. Il link col welfare è proprio Buzzi, il "braccio destro imprenditoriale" del Nero. Il gip Flavia Costantini nell'ordinanza d’arresto descrive "il suo ruolo apicale indiscusso, la sua posizione di primazia nel settore dell’organizzazione volto alla sfera pubblica, la sua presenza operativa in tutti i numerosissimi reati commessi nel settore". Lui, signore delle coop, lo dice chiaramente in un’intercettazione allegata all’ordinanza di circa 1200 pagine: "Il traffico di droga rende meno". L’affare dei centri di accoglienza per rifugiati e immigrati è, secondo la procura di Roma, garantito da Odevaine, descritto nell’ordinanza come "un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati". I fondi per i centri d’accoglienza sono un piatto ricco. Gli inquirenti lo chiamano, appunto, "sistema Odevaine". "La gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell'ordinanza del gip Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione". Un sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici che "si dividono il mercato". La "qualità pubblicistica" di Odevaine sta tutta nella possibilità di sedere al Tavolo di coordinamento nazionale insediato al ministero dell’Interno e, al tempo stesso, di essere uno degli esperti del presidente del Cda per il Consorzio "Calatino Terra d’Accoglienza", l'ente che soprintende alla gestione del Cara di Mineo. In una intercettazione è lo stesso Odevaine a spiegare al commercialista che, "avendo questa relazione continua" con il Viminale, è "in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…". Siriani, libici, tunisini e iracheni. Tutti smistati a Roma, tra Caracolle e Tor Sapienza. I residenti delle banlieue capitoline lo dicevano che, forse forse, erano un filino troppi. È lo stesso Odevaine a spiegare il perché: "I posti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) che si destinano ai comuni in giro per l'Italia fanno riferimento a una tabella tanti abitanti tanti posti Sprar... per quella  norma a Roma toccherebbero 250 posti... che è un assurdo... pochissimo per Roma, no?... allora... una mia... un mio intervento al ministero ha fatto in modo che... lo Sprar a Roma... fosse portato a 2.500 per cui si sono presentati per 2.500 posti... di cui loro... secondo me ce n'hanno almeno un migliaio". Insomma, a Roma erano destinati 250, ma grazie allo zampino di Odevaine i posti sono lievitati a dieci volte tanto, in modo che almeno mille venissero "ospitati" nelle case accoglienza di Buzzi. Per questo "servizio" l'ex vicecapo gabinetto di Veltroni riceveva un regolare stipendio da 5mila euro. La cupola di Mafia Capitale specula (e fa affari) con qualsiasi emergenza della Capitale. Dal maltempo ai protocolli per la prevenzione del rischio, dal servizio giardini del comune alla raccolta differenziata. Ma, soprattutto, con i fondi per la costruzione e la gestione dei campi nomadi. Gli inquirenti hanno, infatti, messo a nudo la capacità di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione dei bilanci pluriennale in modo da "ottenere l’assegnazione di fondi pubblici" per rifinanziare i campi nomadi, la pulizia delle aree verdi e il progetto "Minori per l’emergenza Nord Africa". Tutti settori in cui operano le società cooperative di Buzzi. "Noi quest'anno abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato - spiega lo stesso Buzzi - ma tutti i soldi... gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull'emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero".

Inchieste e scandali, quante ombre sulle cooperative rosse, scrive Alessandro Genovesi su “Ibsnews”. Dentro gli scandali degli ultimi tempi, su tutti l'EXPO, un ruolo nient'affatto marginale è stato giocato dalle cosiddette cooperative rosse. Si guardi, tanto per non fare nomi, al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d'asta e utilizzazione di segreti d'ufficio. Per il manager di Manutencoop i PM della procura della Repubblica di Milano avevano addirittura chiesto anche l'applicazione di misure cautelari. Tuttavia il giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta, ritenendo che nei confronti di Levorato non sussistessero le esigenze cautelari richieste dal codice di procedura penale. Un'ombra piuttosto imbarazzante per il mondo delle coop, da sempre legato a doppio filo alla sinistra, in tutte le sue diverse declinazioni (PCI-PDS-PD). Vedasi, ad esempio, il caso di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo Renzi dopo essere stato per anni Presidente di Legacoop. Ma gli intrecci delle cooperative vanno al di là della politica. Sentite, a tal proposito, cosa ha detto la segretaria CGIL, Susanna Camusso, in occasione del congresso di Rimini del mese scorso: "Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene". Parole dure e inconsuete, se si pensa al triangolo PCI-COOP-CGIL che per decenni ha costituito un inscalfibile centro di potere e di interesse. Parole, ci permettiamo di osservare, anche tardive: da molti anni oramai le cooperative si comportano alla stessa maniera delle aziende di tipo "capitalista", vale a dire mettendo, nella scala delle priorità, molto avanti i profitti e molto indietro i diritti dei lavoratori-soci. Quando va bene. Perché quando va male, ad essere aggirate sono le norme del codice penale. Oltre al caso Manutencoop, ancora tutto da dimostrare, sono in corse altre indagini che coinvolgono altri colossi del mondo cooperativo. Si pensi alla CMC, società con sede a Ravenna che si occupa di costruzioni, finita agli onori della cronaca per il caso del "porto fantasma" di Molfetta, cantiere aperto - secondo l'ipotesi accusatoria della procura di Trani - per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. La CMC, per non farsi mancare nulla, è implicata anche nell'inchiesta sulla bonifica dell'area Rho-Pero, che fa parte dell'operazione Expo, con l'accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il lavoro della cooperativa. Anche altri due giganti del mattone come Coopsette e Unieco sono finiti nell'occhio del ciclone l'anno scorso quando, in occasione dell'arresto del Presidente della regione Umbria Maria Rita Lorenzetti, i magistrati hanno ipotizzato l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata proprio a finanziare indirettamente le due cooperative, entrambe in odore di fallimento. Insomma, altro che solidarietà e tutela del lavoro. Le COOP sono ormai perfettamente integrate nel capitalismo all'italiana, dove la spintarella, l'aiutino e la mazzetta la fanno da padrone, alla faccia dei "sacri" valori del libero mercato.

Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 maggio 2014. L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale. Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.

"Mafia Capitale". "A Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato Mafia Capitale, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso", ha anche detto Pignatone in conferenza stampa il 2 dicembre 2014. "Ci sono approfondimenti in corso sul personale di forze dell'ordine ma l'operazione non si chiude oggi: la posizione di alcuni è al vaglio per favoreggiamento".

Non è più vero che il crimine non paga; rende, eccome. Perfino ai magistrati. Dopo le mazzette a giudici romani.

A volte ritornano anche i titoli dei giornali. Quello, celebre, dell’Espresso suonava così: “Capitale corrotta=nazione infetta”. Era il 1956, ma sembra ieri, nel senso proprio di ieri, se si guarda all’inchiesta esplosiva che a Roma ha appena portato in carcere 37 persone, indagandone altre cento per una serie di reati gravissimi, a partire dall’associazione mafiosa. Un intreccio tra affari, politica e delinquenza che sembra evocare anche un altro e più recente titolo di film e di puntate televisive tratte dal libro “Romanzo criminale”. Cinquantotto anni fa l’inchiesta a puntate dell’Espresso a firma Manlio Cancogni, denunciò con questo titolo, diventato famoso, la corruzione e la speculazione edilizia che strangolavano Roma. Oggi la situazione è molto peggiorata e Roma continua ad essere la vetrina di un’Italia ormai preda delle mafie, della corruzione politica e dello sfacelo ambientale. “Capitale corrotta, Nazione infetta” è il titolo della celebre inchiesta de L’Espresso del 1955, a firma di Mario Cancogni, sulla speculazione edilizia di Roma; un titolo riproposto diverse volte in occasione di scandali con conseguente indignazione popolare, come fu per Tangentopoli e come è stato negli ultimi mesi in occasione delle inchieste sugli appalti o sul finanziamento pubblico dei partiti. E’ un titolo che ci ricorda come in sessant’anni di vita democratica del nostro Paese alcuni vizi del potere non siano mai tramontati, seppur con declinazioni diverse a seconda delle circostanze e dei periodi storici.

"A Roma mi sento come nella mia Palermo" dice Maurizio Crozza truccato da Padrino nella copertina di "diMartedì" del 2 dicembre 2014 su La7. "I carabinieri hanno voluto fare un omaggio a Michelangelo: rinvio a giudizio universale, dall'affresco a tutti al fresco".

"Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...", così Massimo Carminati nell'intercettazione di una conversazione tra lui e il suo braccio destro Brugia. "Carminati ha creato sinergie illecite con mondi diversissimi tra di loro - spiega il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone nel corso della conferenza stampa - La teoria del mondo di mezzo è un mondo in cui tutti si incontrano indipendentemente dal proprio ceto. Un mondo in cui tutto si mischia. Carminati parla con il mondo di sopra (ossia la politica e gli imprenditori) e con quello di sotto, ossia quello criminale. E' al servizio del primo avvalendosi del secondo soprattutto per il suo vantaggio".

"Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros.

Un approfondimento a 360 affinchè si superi quel vizio italiano per il quale, per partito preso, si considera criminale solo la parte avversa.

Mafia e politica a Roma, Buzzi: "C'ho quattro cavalli che corrono col Pd e tre col Pdl", scrive di Rita Cavallaro su “Libero Quotidiano”. Mafia Capitale, alla fine, è venuta alla luce. Ci sono voluti due anni d’indagini dei carabinieri del Ros, che hanno effettuato pedinamenti e intercettazioni. Giorno dopo giorno le «gesta» del gruppo dell’ex Nar Massimo Carminati sono finite sulle 1.249 pagine di ordinanza che hanno fatto scattare i 37 arresti di ieri e un centinaio di avvisi di garanzia. Nel faldone c’è di tutto: l’estrema destra eversiva che ha terrorizzato Roma negli anni ’70, ma anche insospettabili manager e politici locali. Che parlano, al telefono e in strada. Sicuri di non essere ascoltati e di poter controllare affari e appalti in barba alle regole della gestione pubblica. Le intercettazioni descrivono la cupola nera. E danno addirittura il nome all’operazione dei carabinieri. «Mondo di mezzo» nasce infatti dalle parole di Carminati, che in gergo spiega l’intreccio tra Mafia Capitale e amministratori. È l’11 gennaio 2013 e l’ultimo Re di Roma descrive con una metafora al suo braccio destro, Riccardo Brugia, i rapporti con i politici. «È la teoria del mondo di mezzo compà...ci stanno...come si dice...i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. Ci sta un mondo...un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello...il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra...cioè...hai capito?...si incontrano tutti là...ma non per una questione di ceto...per una questione di merito, no?...allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno». Carminati si sente il padrone della città: «È il re di Roma che viene qua, io entro dalla porta principale». Lo dice chiaramente a un interlocutore davanti a un bar a Vigna Stelluti: «Nella strada tanto comandiamo sempre noi, nella strada tu c’avrai sempre bisogno». Non solo nella strada, anche nei palazzi, tanto che il «cecato» si prende la libertà di lamentarsi dell’ad di Eur Spa, Riccardo Mancini, chiamato «il sottoposto». «Vede io che gli combino...a me non mi rompesse il cazzo...a me me chiudesse subito la pratica là», dice a un sodale. In un’altra intercettazione diceva «passo le ’stecche» (la sua parte, a Mancini, ndr) per i lavori che fa, però l’altro giorno gli ho menato». Nelle carte ci sono pure le preoccupazioni dell’organizzazione criminale sulla probabile vittoria di Ignazio Marino al Campidoglio. Secondo gli inquirenti Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Carminati, «pone in essere l’avvicinamento dei decisori pubblici, sia con la vecchia che con la nuova amministrazione, in funzione degli interessi del sodalizio». E infatti, con l’avvento della nuova giunta, Buzzi entra in azione. «Eloquente esempio», per i magistrati, è l’attività di Buzzi che, «secondo l’indicazione strategica di Carminati di “mettere la minigonna e andare a battere con la nuova amministrazione”, nell'immediatezza del cambio di maggioranza politica al comune di Roma» cerca «con Coratti, presidente dell’assemblea Comunale di Roma Capitale» di intessere rapporti. A tal proposito a pagina 138 si citano Mirko Coratti e Franco Figurelli, suo capo segreteria, i quali, venivano interessati da Salvatore Buzzi affinché si occupassero di aggiudicarsi una gara d’appalto all’Ama, l’azienda dei rifiuti, di sbloccare i pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma e di pilotare la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento. «Oh, me so’ comprato Coratti», dice Buzzi, che racconta anche come Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Sempre Buzzi parla con un’amica degli affari fatti con la gestione delle cooperative di immigrati. Dice la donna: «Perchè su Tivoli non è che un cantiere che ti guadagna miliardi». Lui: «Apposta tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh. Il traffico di droga rende di meno». Con un imprenditore, infine, Buzzi, spiega come funziona il sistema: «Tu li voti, vedi, i nostri sono molto meno ladri di...di quelli della Pdl». E poi aggiunge più avanti nella conversazione: «Ma lo sai agli altri soldi che gli do’ Giova’? Ma tu lo sai perché io c’ho lo stipendio, non c’hai idea di quante ce n’ho... non ce li hanno… pago tutti pago...Anche due cene con il sindaco settantacinquemilaeuro ti sembrano pochi? Oh so centocinquanta milioni eh. I miei ti posso assicura’ che non li pago». «Mo’ c’ho 4 cavalli che corrono col Pd e 3 col Pdl».

Roma tra mafia, sangue e giochi di potere nel libro "Grande raccordo criminale". Nell'inchiesta di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti (Imprimatur), le connivenze e la violenza che stringono da tempo la Capitale e che oggi sono culminati con gli arresti di Massimo Carminati e altre cento persone. Eccone alcuni stralci, scrive “L’Espresso”. «E’ la terra di mezzo, i vivi sopra e i morti sotto, noi siamo nel mezzo, un mondo in cui tutti si incontrano, perché anche il sovramondo ha interesse che qualcuno del mondo di sotto faccia qualcosa nel suo interesse». Massimo Carminati, arrestato oggi con l’accusa di essere a capo della mafia Capitale, descrive così la terra di mezzo, quella in cui la criminalità e il potere si incontrano per fare affari. Quella in cui la corruzione lascia il posto alla violenza solo quando è necessario ribadire chi comanda. E’ Carminati per gli inquirenti a scegliere i dirigenti dell’Ama, l’azienda dei rifiuti di Roma, e persino il presidente della Commissione Trasparenza in Campidoglio ai tempi del sindaco Gianni Alemanno, oggi indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Ed è sempre lui a tenere legami con l’ex vice capo di gabinetto della giunta Veltroni, Luca Odevaine, accusato di aver orientato le scelte sui flussi di migranti verso le strutture cooperative in mano a Carminati. Quella di Carminati è una figura di primo piano nella malavita romana. Il suo arresto mina alle fondamenta il crimine della Capitale. Grande raccordo criminale di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti, edito da Imprimatur, è un'inchiesta che svela le connivenze, il sangue e la violenza che stringono da tempo la Capitale, ricostruendone i rapporti mafiosi e gli intrecci di potere che oggi sono emersi con l’operazione ‘Mondo di mezzo’. Ne riportiamo alcuni stralci. “«Non ama farsi vedere, tanto meno parlare. Si spiega più con i gesti. Ogni passo è una frustata, ogni movimento una scarica elettrica. Una forza gelida e oscura che ti inchioda a terra e non ti fa alzare lo sguardo». Una vita all’apparenza ordinaria: nessun lusso, nessuna ostentazione, nessuna retorica. «Niente inflessioni dialettali, niente eccessi. Sempre misurato e cortese». Si muove come un’ombra, raccontano. Massimo Carminati, un’ombra che fa tremare. A lui la Roma criminale si rivolgerebbe per le primizie, per avere un’intercessione negli affari che contano. Il suo nome si sussurra. Ed è già troppo farlo. In tanti gli tributano deferenza e rispetto. Tutti ne hanno paura. Non eserciterebbe il potere direttamente, preferirebbe valutare, mediare, e solo dopo decidere. Ma se qualcuno dei suoi è toccato, saprebbe come agire. Non ha amici, solo camerati. La fratellanza politica per lui sarebbe il valore più importante. E quei camerati, come li difendeva allora fisicamente, sembra sia pronto a difenderli anche ora. Sono pochi però, quelli fidati. In nome di quel senso di appartenenza a un gruppo ristretto e a un ideale che dalla gioventù ha portato con sé nell’età adulta. Appartenenza e coraggio. Pochi valori, infrangibili, che non si discutono mai. Carminati, il nero. È stato un terrorista dei Nar e accusato di essere killer al servizio della banda della Magliana. Anello di congiunzione tra la criminalità romana ed i gruppi eversivi di estrema destra. Al centro dei misteri più controversi della Repubblica Italiana, processato per rapine e omicidi, ne è uscito quasi sempre indenne. «Uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Valerio Fioravanti l’ha descritto così. La violenza, un signum distinctionis.” “Potere che pare esplodere quando Gianni Alemanno varca la soglia del Campidoglio. Chi trent’anni fa ha condiviso la militanza nell’estremismo di destra sembra sappia di non potergli dire di no. Una famiglia con un legame più forte della parentela. Il vincolo della militanza politica, degli ideali, delle battaglie condivise, e anche dei segreti da custodire.” Gianni Alemanno oggi indagato per 416 bis. ( …) “Una corte di fedelissimi, tra cui molti ex di quella stagione di piombo, stretti ad Alemanno. Una corte di cui Carminati pare conosca ogni segreto. Le sue frequentazioni di Carminati del resto possono arrivare ovunque, lui vanterebbe sempre ottima accoglienza, da Gennaro Mokbel, prodotto glocal di una Roma oscura, a Lorenzo Cola, superconsulente di Finmeccanica, negoziatore di accordi da miliardi di euro, in rapporto con agenti segreti di tutti i continenti.”

Roma, le mani della mafia nera sulla città. L'operazione "Terra di mezzo" svela l'alleanza fra la politica, l'eversione neofascista e la criminalità comune per gestire gli affari sporchi, scrive “Panorama”. Un'alleanza di ferro fra mafia, politica, frammenti dell'estrema destra eversiva e la criminalità comune. L'ha rivelata l'operazione "Terra di mezzo", condotta ieri dai Ros e guidata dalla Procura di Roma, che ha portato all'arresto di 37 persone e ha coinvolto fra gli indagati anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, che dice: sono estraneo alla faccenda e lo dimostrerò. Obiettivo dell'offensiva la una cupola nera che ha gestito gli affari romani per anni pilotando appalti, riciclando denaro che scotta, alleandosi con i clan emergenti del litorale capitolino, con boss in odore di camorra come Michele Senese e con politici e burocrati spregiudicati e corrotti. Un'inchiesta  che è solo all'inizio ed è destinata a segnare la storia della capitale. Roma appare così come una Capitale della Mafia dove ogni affare veniva gestito dal malaffare. Dove quei personaggi finiti nei libri e nei film, come il "Nero" Massimo Carminati, ex Nar accusato di legami con la Banda della Magliana, in realtà erano attivissimi e contemporanei. L'organizzazione, dicono gli inquirenti, aveva modus operandi e radicamento propri della mafia. Col valore aggiunto criminale di un filo nerissimo che lega molti dei personaggi principali, con trascorsi nell'eversione di destra. Massimo Carminati è dunque il protagonista, guida l'organizzazione, usando minacce e violenza, e manovra il potente di turno, l'imprenditore, il professionista e il manager di Stato. Carminati di fatto gestiva un ecosistema versatile: dagli appalti all'estorsione, dall'usura al recupero crediti. Aveva contatti con manager, politici e col crimine di ogni specie: da Michele Senese, boss in odore di Camorra, alla "batteria" di Ponte Milvio che controlla i locali della movida romana, dalla potente famiglia nomade romana dei Casamonica alla spiccia criminalità di strada. L'organizzazione, secondo l'accusa, ha potuto contare anche su figure di vertice dell'amministrazione capitolina dal 2008 al 2013. Per i magistrati guidati da Giuseppe Pignatone il clan era arrivato anche all'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione a delinquere, e ai suoi uomini. In manette, nell'operazione congiunta di Ros e Guardia di Finanza, sono finiti infatti l'ex amministratore dell'Ente Eur, Riccardo Mancini (da sempre braccio destro di Alemanno) e quello dell'Ama, Franco Panzironi. I due erano "pubblici ufficiali a libro paga" che fornivano "all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". I due manager si sono adoperati anche per "lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale". Di fatto quello presieduto da Carminati è a tutti gli effetti un comitato d'affari che copriva tutti i settori produttivi della Capitale compreso il business dell'accoglienza degli immigrati e quello dei campi nomadi. Tra gli arrestati c'e' anche Luca Odevaine, già capo di gabinetto nel 2006 dell'allora sindaco di Valter Veltroni, che nella sua qualità di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale ha orientato, in cambio di uno "stipendio" mensile di 5 mila euro garantito dal clan, le scelte del tavolo per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da uomini dell'organizzazione. Tra gli indagati anche tre esponenti di punta dell'attuale amministrazione capitolina: l'assessore alla casa Daniele Ozzimo e il presidente dell'assemblea capitolina Mirco Coratti, entrambi del Pd, che si sono gia' dimessi pur dichiarandosi "estranei". Indagato anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano, che domani sarà rimosso dal suo incarico. Oltre a Massimo Carminati,  tra le carte si incontrano altre conoscenze tra eversione nera e crimine. Gennaro Mokbel, ex militante nella gioventù nera romana e Marco Iannilli, commercialista, già coinvolti nella maxi truffa di 2,2 milioni di euro Fastweb-Telecom Italia Sparkle. Il fedele del sindaco Alemanno, anche lui indagato per associazione di stampo mafioso, Riccardo Mancini, ex ad di Ente Eur, già coinvolto nell'inchiesta su una presunta tangente per la fornitura di bus per il corridoio Laurentina a Roma. E poi Franco Panzironi, ex ad di Ama, coinvolto nell'ormai famosa Parentopoli della municipalizzata romana. E nell'ordinanza spunta pure il nome di Lorenzo Alibrandi, fratello dell'ex Nar Alessandro, morto nel 1981 in un conflitto a fuoco. Prima di approdare nella maxi inchiesta, gli intrecci pericolosi tra clan emergenti, politica e affari tutti romani erano emersi di recente soprattutto dalle indagini su un delitto "per caso", ovvero l'omicidio di Silvio Fanella, custode di un vero e proprio tesoro per conto della galassia nera romana. Fanella era il cassiere di Mokbel: un commando nel luglio scorso lo voleva prelevare dalla sua abitazione romana ma qualcosa andò storto e il tentativo di sequestro finì con la morte di Fanella. A capo del commando c'era un ex componente dei Nar, Egidio Giuliani. Un nome non indifferente tra gli addetti ai lavori. Ex compagno di cella del killer Pierluigi Concutelli, (condannato all'ergastolo per l'omicidio del giudice Vittorio Occorsio) e accusato di voler ricostruire gruppi eversivi di destra negli anni '90, Giuliani avrebbe avuto in passato collegamenti anche con la banda della Magliana. E nel gruppo di fuoco anche un ex di Casapound, Giovanni Battista Ceniti. Dopo l'omicidio Fanella fu ritrovato anche il tesoro: 34 sacchetti con diamanti purissimi che si sono lasciati alle spalle anche una scia di sangue fatta di omicidi e ferimenti. I diamanti, uno dei beni di lusso favoriti dal gruppo "nero" di Mokbel - secondo i magistrati - per riciclare i fiumi di denaro frutto di truffe e malaffare.

Mafia, arrestato il re di Roma Massimo Carminati. Indagato Gianni Alemanno. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione all'estorsione, dall'usura al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. E' ciò che emerge dall'inchiesta della procura di Roma che ha portato all'arresto di 28 persone. Indagini sull'ex sindaco e altri politici capitolini, scrive Lirio Abbate su  “L’Espresso”. L'arresto di Carminati Il “re di Roma” Massimo Carminati è stato arrestato nell'ambito di una grande operazione per associazione mafiosa ordinata dai pm della Procura di Roma ed eseguita dai carabinieri del Ros. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione, per aggiudicarsi appalti, all'estorsione, all'usura e al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. Un'organizzazione radicata a Roma con a capo Massimo Carminati. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici. In cella sono finite 28 persone, ma in totale nell'inchiesta coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall'aggiunto Michele Prestipino e dai sostituti Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, sono indagate 37 persone, fra queste anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, accusato di reati collegati alla mafia. Indagati politici di destra e sinistra. E beni per un valore complessivo di 200 milioni di euro sono stati sequestrati agli indagati, in particolare a Carminati, che è risultato di fatto proprietario di immobili e attività commerciali intestati a prestanome. Il momento dell'arresto dell'ex terrorista dei Nar nella maxi operazione a Roma per associazione di stampo mafioso. Tra i 37 finiti in manette anche l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi e Luca Odevaine, a capo della polizia provinciale. I magistrati hanno disposto decine di perquisizioni, in particolare negli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio. I carabinieri del Ros stanno acquisendo documenti presso gli uffici della Presidenza dell'Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio. Perquisizioni negli uffici del consigliere regionale Pd Eugenio Patanè e di quello Pdl Luca Gramazio, e in Comune negli uffici del presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti, il quale in serata si è dimesso dall'incarico, dichiarandosi, tuttavia, «totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini». È un'indagine che non ha precedenti nella storia giudiziaria della Capitale, da cui emerge che Roma non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni, con la complicità di uomini della sinistra. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Per il procuratore Giuseppe Pignatone «a Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato “mafia Capitale”, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso». L'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, e l'ex amministratore di Ama, Franco Panzironi, arrestati entrambi, rappresentano per i pm «pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti». I due manager si adoperavano anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e tra il 2008 e il 2013 come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale». Per quanto riguarda un altro manager, Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell'associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiavi della pubblica amministrazione». Fra i cento indagati c'è anche il nome dell'uomo d'affari Gennaro Mokbel, accusato di tentata estorsione, avrebbe preteso dal commercialista Marco Iannilli la restituzione di circa 7-8 milioni di euro che gli aveva messo a disposizione perchè fosse investita nell'operazione Digint. Secondo i pm Mokbel già condannato a 15 anni di carcere per la truffa ai danni delle compagnie telefoniche Tis e Fastweb, ha desistito dopo l'intervento di Massimo Carminati che ha operato in difesa di Iannilli. «Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo». Lo ha detto il procuratore aggiunto di Michele Prestipino descrivendo «l'incessante attività di lobbying» dell'organizzazione criminale individuata «per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi». Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati - di un uomo fidato poi eletto. Uomini delle forze dell'ordine sono iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento al clan di Carminati. I pm stanno vagliando la loro posizione per comprendere il ruolo che hanno avuto nell'organizzazione di “mafia Capitale”. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. È il “patto corruttivo-collusivo” descritto dal procuratore aggiunto Michele Prestipino. «In cambio di appalti a imprese amiche venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama, municipalizzata romana dei rifiuti, per altri cinque milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. «L'organizzazione scoperta a Roma affonda le sue radici nella criminalità organizzata degli anni Ottanta, ma ha saputo riciclarsi con una duttilità sorprendente». Lo ha spiegato il comandante dei carabinieri del Ros, generale Mario Parente. «Un'evoluzione del sodalizio che però rimane sempre ancorato alle sue radici, ovvero quelle criminali».

Mafia a Roma, 37 arresti per appalti del Comune. Indagato Alemanno. Pignatone: "Gli uomini dell'ex sindaco nell'organizzazione". In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Un centinaio gli indagati, tra cui l'assessore alla Casa, Daniele Ozzimo e Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, entrambi si sono dichiarati "estranei ai fatti" e si sono dimessi. Coinvolto anche Politano, responsabile della direzione Trasparenza e Anticorruzione del Comune di Roma. Perquisizioni alla Pisana e in altre amministrazioni della Capitale. Sequestri per 200 milioni della Guardia di finanza. L'indagine ribattezzata "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi, scrivono Federica Angeli, Valeria Forgnone e Viola Giannoli su La Repubblica”. Massimo Carminati Maxi operazione a Roma per "associazione di stampo mafioso" con 37 arresti, di cui 8 ai domiciliari, e sequestri di beni per 200 milioni. Un "ramificato sistema corruttivo" in vista dell'assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate con interessi, in particolare, anche nella gestione dei rifiuti, dei centri di accoglienza per gli stranieri e campi nomadi e nella manutenzione del verde pubblico: è quanto emerso dalle indagini del Ros che hanno portato alle misure restrittive e ai sequestri da parte del Gico della Finanza. Le accuse vanno dall'associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati. "Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma - ha spiegato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, nel corso della conferenza stampa dopo la maxi-operazione - Nella capitale non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città ma ce ne sono diverse. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato 'Mafia Capitale', romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso". Nello specifico, ha riferito Pignatone, "alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione. Con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato ma Massimo Carminati e Salvatore Buzzi (presidente della cooperativa 29 giugno arrestato oggi) erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni". Gli arresti. A capo dell'organizzazione mafiosa l'ex terrorista dei Nar, Massimo Carminati che, secondo gli investigatori, ''impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti''. L'organizzazione di Carminati è trasversale. Ne è convinto il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone che sull'argomento ha precisato: "Con la nuova consiliatura qualcosa è cambiato, in una conversazione Buzzi e Carminati prima delle elezioni dicevano di essere tranquilli". Carminati diceva a Buzzi, ha spiegato Pignatone: "Noi dobbiamo vendere il prodotto, amico mio, bisogna vendersi come le puttane" e di fronte alle difficoltà presentate da Buzzi, Carminati aggiungeva: "Allora mettiti la minigonna e vai a battere con questi".

Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Ancora da verificare il ruolo che ha avuto nell'ingresso dell'associazione criminale e delle sue aziende di riferimento all'interno degli appalti più importanti assegnati dal Campidoglio.In mattinata è stata perquisita la sua casa nel quartiere Camilluccia a Roma.

Massimo Carminati, da molti considerato il vero capo della criminalità romana. Conosciuto da molti come il "Nero" del libro "Romanzo Criminale", è finito nelle pagine più oscure della storia italiana, dalla strage alla stazione di Bologna fino all'omicidio Pecorelli, processi da cui è uscito assolto.

Franco Panzironi, già indagato per la Parentopoli Ama, ora  sarebbe un altro dei personaggi chiave dell'associazione criminale. Il suo ruolo sarebbe stato quello di ponte con l'Ama e con tutti gli appalti assegnati dall'azienda romana dei rifiuti. Panzironi ha legato la sua storia recente a Gianni Alemanno. E' accusato di associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e turbativa d'asta.

Riccardo Mancini è un altro nome chiave della vicenda. Da sempre legato all'estrema destra romana e in particolare a quella dell'Eur. Ha guidato l'Ente Eur ed è già sotto inchiesta per la tangente pagata da una società legata al Gruppo Finmeccanica per i filobus della Laurentina. E' accusato di associazione di tipo mafioso.

In carcere è finito anche Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. L'accusa parla di corruzione aggravata.

Giovanni Fiscon, attuale direttore generale dell'Ama: è stato arrestato per corruzione aggravata e turbativa d'asta.

Daniele Ozzimo, assessore capitolino alla Casa: è indagato a piede libero per corruzione aggravata. Si è dimesso dall'incarico: "Pur essendo totalmente estraneo allo spaccato inquietante che emerge dagli arresti, rimetto il mio mandato per senso di responsabilità e serietà. Una scelta sofferta perchè sono orgoglioso del lavoro portato avanti in questi mesi".

Mirko Coratti, presidente dell'assemblea capitolina: è indagato a piede libero per corruzione aggravata e illecito finanziamento. Si è immediatamente dimesso dall'ìncarico: "Sono estraneo, ho piena fiducia nel lavoro della magistratura ma mi dimetto per correttezza verso la città e l'amministrazione".

Eugenio Patanè, consigliere regionale del Pd: è indagato a piede libero per turbativa d'asta e illecito finanziamento.

Antonio Lucarelli, capo segreteria di Alemanno durante il suo mandato di sindaco: è accusato di associazione di tipo mafioso.

Luca Gramazio, consigliere regionale Pdl: è indagato a piede libero per associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e finanziamento illecito.

Tra gli arrestati anche altri nomi di spicco come l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini e l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi: per i pm romani "pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". E Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. Gli indagati. Fra gli indagati figura l'ex sindaco della città Gianni Alemanno, la sua abitazione è stata perquisita. "Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza - ha commentato a caldo l'ex primo cittadino - Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta. Sono sicuro che il lavoro della magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti". "L'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso, ma la sua posizione è ancora da vagliare - ha detto il procuratore capo Pignatone - Sugli indagati preferiamo non fare alcuna precisazione''. Pignatone ha inoltre aggiunto che l'inchiesta ''non si chiude oggi'' e che tra gli indagati ci sono anche alcuni esponenti delle forze dell'ordine che hanno agevolato l'organizzazione guidata da Massimo Carminati. Non solo. "Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo - ha spiegato il pm di Roma Michele Prestipino parlando dell''incessante attività di lobbying' dell'organizzazione criminale individuata "per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi". Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati, considerato capo di Mafia Capitale - di un uomo fidato poi eletto. Indagato anche l'ex capo della segreteria di Gianni Alemanno, Antonio Lucarelli. Il procuratore Giuseppe Pignatone ha riferito di un incontro tra uno dei bracci destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Lucarelli. "Buzzi voleva far sbloccare un finanziamento e Lucarelli non lo riceveva - ha detto - dopo la telefonata di Carminati si precita sulla scalinata del Campidoglio da Buzzi che gli dice che è tutto a posto, che ha già parlato con Massimo. Buzzi commentando questo incontro dice 'c'hanno paura di lui'". Coinvolti come indagati anche l'assessore capitolino alla Casa, Daniele Ozzimo, che ha deciso di dimettersi dalla carica pur dichiarandosi "totalmente estraneo allo spaccato inquietante emerso". Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha accettato le sue dimissioni e aggiunto: "Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura. Ci auguriamo sia fatta piena luce su una vicenda inquietante e che sta facendo emergere l'esistenza di un sistema diffuso di illegalità ai danni della città. Questa amministrazione ha improntato il suo lavoro sulla trasparenza. Per questo apprezzo la decisione personale e il coraggio di Daniele Ozzimo che rassegnando le dimissioni, ha agito prima di tutto nell'interesse della città mettendo in secondo piano se stesso", ha detto Marino. Indagati anche il consigliere regionale Pd Eugenio Patanè, quello Pdl Luca Gramazio, e il presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti. Che si è dimesso anche lui, dopo qualche ora: "Con sconcerto ho appreso che nei miei confronti è stata aperta un'indagine giudiziaria nell'ambito di una maxi-inchiesta dai risvolti inquietanti. Nel dichiararmi totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini, per correttezza verso la città e verso l'amministrazione comunale ho deciso di dimettermi dall'incarico che mi onoro di servire, rimetto pertanto da subito a disposizione dell'Assemblea capitolina che mi ha eletto la mia carica. Nell'esprimere piena fiducia nel lavoro della magistratura sono certo che dalle inchieste in corso emergerà con chiarezza la mia totale estraneità ai fatti contestati". Nei loro uffici alla Regione Lazio e in Campidoglio sono scattate le perquisizioni dei militari. Nella lista degli indagati c'è anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano: è accusato di associazione di stampo mafioso. Nominato dal sindaco Ignazio Marino il 15 novembre 2013, Politano è di fatto referente al Comune di Roma del Commissario nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Domani dovrebbe essere rimosso dall'incarico. Ma ci sarebbero un centinaio di nomi negli atti della Procura di Roma. Tra cui quello di Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per l'inchiesta Telecom Sparkle-Fastweb, e tre avvocati penalisti, ai quali i pm contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa: avrebbero concordato con gli associati "la linea difensiva da adottare" in un procedimento in cui era coinvolto Riccardo Mancini, ex amministratore delegato dell'Ente Eur, arrestato in passato per un giro di presunte mazzette legate all'appalto per la fornitura di filobus al Comune di Roma. Tra gli indagati c'è anche Lorenzo Alibrandi, il fratello più piccolo di Alessandro Alibrandi, il terrorista dei Nar, figlio dell'ex giudice istruttore del tribunale di Roma, Antonio Alibrandi. Ci sono anche una ventina di quadri di valore tra gli oggetti sequestrati durante le perquisizioni, come ha riferito il capo dei carabinieri del Ros, il generale Mario Parente. Si tratta di quadri trovati nell'abitazione di uno degli indagati e di proprietà dello stesso Carminati che vanno da opere di Andy Warhol a Jackson Pollock. Le opere verranno ora analizzate dagli esperti. A casa di un altro indagato sono invece stati trovati 570mila euro in contanti. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. E' il "patto corruttivo-collusivo", secondo il pm della Direzione antimafia (Dda) di Roma Michele Prestipino, individuato dall'indagine Mondo di Mezzo. "In cambio di appalti a imprese amiche - ha detto il magistrato - venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo, fino a versamenti di denaro a enti e fondazioni legate alla politica romana". E tra queste "anche la fondazione creata da Alemanno". Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama - municipalizzata romana dei rifiuti - per altri 5 milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. E' infatti un'azione senza precedenti quella che ha messo a soqquadro Roma e il suo hinterland. Coordinata da tre pubblici ministeri  -  Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini  -  sotto la supervisione del procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone ha infatti smantellato un'organizzazione che racchiude almeno dieci anni di malavita. Personaggi che hanno solcato la scena della mala capitolina, come il nero Carminati ex della Banda della Magliana, ma anche politici e amministratori che hanno favorito e consentito a questo malaffare di radicarsi, di mettere le radici, di infilarsi coi suoi tentacoli ovunque. Ribaltando di netto le regole del gioco. Ricostruire la trama e gli intrecci che hanno reso possibile tutto questo malaffare è stata un'impresa titanica. C'è un'intercettazione che spiega il senso dell'organizzazione mafiosa messa su da Massimo Carminati e ha dato il nome all'indagine. "L'intercettazione per noi più significativa è questa - ha spiegato Giuseppe Pignatone - quando Carminati parlando con il suo braccio destro militare, Riccardo Brugia, gli dice 'E' la teoria del mondo di mezzo, ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...'. Carminati parla col 'mondo di sopra', quello della politica e col 'mondo di sotto', quello criminale, e si mette al servizio del primo avvalendosi del secondo al servizio del primo. La caratteristica principale di questa organizzazione sta nei suoi rapporti con la politica e nel fatto che alterna la corruzione alla violenza, preferendo la prima perché fa meno clamore". Le perquisizioni scattate all'alba hanno riguardato boss della malavita, come esponenti di noti clan di Ostia, e politici di elevato spessore a Roma. Il reato ipotizzato nei confronti degli arrestati è il 416 bis, l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Reato per cui sono già indagate 51 persone dei clan Fasciani e Triassi di Ostia, e che a dicembre si concluderà con la sentenza di primo grado. Reato per cui a Roma, nessuno mai è stato condannato. Perché, come in un refrain, per anni si è continuato a dire che la mafia a Roma non esiste. Almeno fino a oggi. "Quello che sta emergendo è un quadro inquietante - ha commentato il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti - E' un bene che la magistratura sia impegnata a fare piena luce. Con sempre più forza bisogna proseguire, ognuno nei propri ambiti, sulla via della legalità senza se e senza ma". "E' un'inchiesta che certifica il profondo inquinamento delle istituzioni, al di là delle vicende dei singoli, e che conferma sempre di più la presenza di una cupola criminale con le mani sulla città. Il sistema mafioso corruttivo svelato oggi impegna subito chi ha responsabilità amministrative e politiche ad assumere urgenti misure nella lotta alla criminalità e alla corruzione - si legge in una nota dell'Ufficio di Presidenza di Libera - Siamo convinti che accanto alla repressione e gli strumenti giudiziari, è necessario il risveglio delle coscienze, l'orgoglio di una comunità che antepone il bene comune alle speculazioni e ai privilegi, contrastando in tutte le sedi la criminalità organizzata e i suoi complici". "Cade il velo di ipocrisia sulla città e Roma diventa Capitale delle mafie", ha commentato l'Associazione dasud che "denuncia dal 2011 gli  affari criminali a Roma con dossier e inchieste, da "Roma città di mafie" all'ebook "Mammamafia". Il welfare lo pagano le mafie". L'indagine di oggi, finalmente racconta di un patto trasversale inquietante che tiene insieme boss, imprenditori, manager, funzionari, amministratori pubblici e politici di destra e sinistra, rappresentanti del mondo dell'associazionismo e del terzo settore e descrive come ha funzionato fino a ieri il sistema degli affari a Roma, quale ruolo le mafie abbiano svolto sul degrado delle periferie,? quanta speculazione sia stata fatta sui migranti e i rom della città,? quale sistema di corruzione abbia regolato i rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, quali relazioni pericolose regolino i rapporti tra politica e pezzi significativi della storica eversione nera e l'estrema destra di oggi. Il sodalizio con a capo Carmati come ha detto il procuratore Pignatone è solo uno dei tanti che opera  su Roma. Il negazionismo e l inerzia della politica e delle classi dirigenti sono serviti solo a farli agire indisturbati. Non è più il tempo dell antimafia di facciata, serve subito un impegno trasversale".

Ecco la "mafia Capitale": 37 arresti per appalti del Comune. Indagato anche Alemanno. Carminati, l'intercettazione che spiega la teoria del "mondo di mezzo". Un centinaio le persone coinvolte nell'operazione "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi. In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Tra gli inquisiti anche Politano, capo dell'anticorruzione in Campidoglio, scrive “La Repubblica”. La mafia a Roma c'è ed è autoctona. Sono le conclusioni del procuratore capo Giuseppe Pignatone che, nell'illustrare la maxi operazione "'Mondo di mezzo" che ha portato all'arresto di 37 persone per associazione mafiosa, ha parlato dell'esistenza di una "mafia capitale, tutta romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso e con cui si confronta alla pari". Una mafia che "non ha una struttura precisa ma ha la capacità essenziale di creare equilibri tra mondi diversissimi tra loro". A Roma dunque in questi ultimi anni ha agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari con imprenditori collusi, con dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici, per il controllo delle attività economiche in città e per la conquista degli appalti pubblici. Ne sono convinti i magistrati della Dda della procura e i carabinieri del Ros che hanno chiesto e ottenuto dal gip Flavia Costantini l'arresto di 37 persone (29 in carcere e otto ai domiciliari) per una molteplicità di reati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione è un volto noto alla giustizia, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti". A disposizione dell'organizzazione, secondo gli investigatori, ci sono, tra gli altri, l'ex capo di Ama Franco Panzironi e l'ex amministratore delegato di Ente Eur Riccardo Mancini, soggetti che per i pm hanno fatto dal 2008 al 2013 da garante o da tramite "dei rapporti del sodalizio con l'amministrazione comunale". La lista, poi, comprende anche il manager Fabrizio Franco Testa accusato di "coordinare le attività corruttive dell'associazione" e di "occuparsi della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Tra gli indagati a piede libero (almeno 100), coinvolti negli accertamenti che porteranno sicuramente a sviluppi importanti nei prossimi mesi, ci sono anche l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il commercialista Marco Iannilli, l'uomo d'affari Gennaro Mokbel e il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio. "Dimostrerò la mia totale estraneità a ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta", ha replicato Alemanno. "Chi mi conosce - ha aggiunto l'ex sindaco - sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza". Pignatone ha detto che quella di Alemanno "è una posizione ancora da vagliare".

"Soldi per le elezioni in cambio di appalti. Così Alemanno favoriva il clan dei camerati". Sindaco della capitale dal 2008 al 2013, "aveva contatti diretti e aiutava il sodalizio mafioso". Tra finanziamenti, accordi politici e nomine ai vertici delle municipalizzate, scrivono Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su “La Repubblica” L'uomo che governava Roma era nelle mani dell'uomo che la derubava. Gianni Alemanno, sindaco dal 2008 al 2013, con la "mafia capitale" di Massimo Carminati aveva "contatti diretti e ne favoriva il sodalizio". Nominando i vertici delle partecipate che la banda decideva. Riservando, a sfregio del già disastrato bilancio del Comune, denaro per alimentare l'appetito di Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative. "Senti, noi qui abbiamo rimediato quindici milioni eh", comunicava personalmente l'allora sindaco al suo capo Dipartimento servizi sociali il 23 novembre del 2012, risolvendo così il problema di finanziare l'ampliamento del campo nomadi di Castel Romano, che tanto interessava al "guercio", l'ex Nar che si è preso Roma. In cambio, ricavandone da Buzzi 75.000 euro in cene elettorali e sostegno economico alla sua fondazione Nuova Italia. Pure una claque elettorale di 50 persone, alla bisogna. Perché tutti al Comune sapevano di che pasta erano fatte le amicizie di Alemanno, ora indagato per associazione per delinquere di stampo mafioso. Carminati aveva un filo diretto con il suo più stretto collaboratore, Antonio Lucarelli, capo della segre- teria. Lo chiama al telefono, ci va a pranzo, si frequentano. Quando Buzzi, in ansia per uno sblocco di 300.000 euro, cerca un contatto, deve passare attraverso Carminati. "Mi dice  -  spiega il manager delle coop in un'intercettazione del 20 aprile 2013  -  "va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene a parlare con te"... Aò alle tre meno cinque scende, dice "ho parlato con Massimo (Carminati, ndr), tutto a posto"... aò tutto a posto veramente! C'hanno paura delui ". "Ero il sindaco di Roma  -  com- menta ora Alemanno con i suoi fedelissimi  -  è facile tirarmi in ballo. C'è molto millantato credito, è in atto un tentativo di attacco politico nei miei confronti". Stando all'ordinanza del gip Flavia Costantini, Alemanno non ha rapporti diretti con Carminati. Ci fa parlare i suoi, Luca Gramazio (ex capogruppo comunale del Pdl, ora alla Regione) e Fabrizio Franco Testa, manager e "testa di ponte" tra l'organizzazione mafiosa e la politica. Sono loro a decidere, insieme a Buzzi e Carminati, chi mettere nel cda dell'Ama, la municipalizzata dei rifiuti che assegnerà infatti alle società di Buzzi tre appalti milionari finiti nell'inchiesta, relativi alla raccolta differenziata, alla raccolta delle foglie e altri lavori per 5 milioni di euro. Così Alemanno nomina Giuseppe Berti nel consiglio di amministrazione e Giovanni Fiscon alla direzione generale, "espressione diretta degli interessi del gruppo" Gente di cui il "guercio" e compagnia si possono fidare. Il 20 aprile del 2013 le microspie dei carabinieri del Ros captano la conversazione in automobile tra Salvatore Buzzi e il suo collaboratore Giovanni Campennì. I due parlano delle imminenti elezioni amministrative di Roma. "Oh l'avevamo comprati tutti ho...  -  dice Buzzi  -  se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine (Giordano, ndr) doveva stà assessore ai Servizi Sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... che cazzo voi di più...". Campennì chiede se pagasse anche l'altra parte politica, il centro sinistra da cui proviene. "No, no questo te lo posso assicurà io che pago tutti, i miei non li pago. Ma lo sai agli altri i soldi che gli do già? Anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi? ". Alemanno ha mai preso soldi dal gruppo di Carminati? Direttamente non risulta. Buzzi racconta dei 75mila euro in cene elettorali che ha sborsato. Ma ci sono anche i bonifici alla fondazione politica di Alemanno, "Nuova Italia". Il 6 dicembre 2012, "a poche settimane dall'approvazione del bilancio che avrebbe stanziato ulteriori fondi in favore del campo nomadi di Castel Fusano  -  annota il gip  -  e in concomitanza con la cena elettorale e l'aggiudicazione della gara Ama", dalle società di Buzzi partivano bonifici a Nuova Italia per 30mila euro divisi in tre assegni. Altri 5mila euro dal Consorzio "Enriches 29" il 28 novembre 2011. E ancora, il 17 aprile 2013, 15mila euro dalla cooperativa "Formula Sociale", riconducibile a Buzzi, in favore del mandatario elettorale di Alemanno, più altri 5mila nel novembre dello stesso anno. A cui si aggiungono i soldi che arrivavano attraverso Franco Panzironi, ex ad di Ama "a libro paga". Oltre al mensile di 15mila euro, lo foraggiavano con finanziamenti "non inferiori a 40mila euro" alla fondazione. Ma Buzzi, per Alemanno, non è soltanto un bancomat. Gli serve anche per mettere in scena entusiasmo elettorale. Il 9 novembre 2013 Panzironi chiama Buzzi e gli chiede di reperire "un po' di gente per fare volume" alla manifestazione organizzata dall'ex sindaco all'Adriano per il suo rientro in politica. E per sostenere la candidatura alle europee, Buzzi ha delle risorse insospettabili. "Devo fare delle telefonate? ", gli chiede Alemanno al telefono. "No, no, tranquillo, manderemo a Milardi (Claudio, fa parte dello staff dell'ex sindaco, ndr ) l'elenco di persone, nostri amici del sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Qualche giorno dopo, Buzzi spiega a sua moglie di chi parlava: "Sono 7-8 mafiosi che c'avemo in cooperativa".

Appalti e criminalità a Roma: nei verbali la mappa di Mafia Capitale. Una rete di contatti, una piovra che controlla la città: appalti, usura, estorsioni, corruzione. Tutto gira intorno a Massimo Carminati, ma tra i 37 arrestati e i centinaia di indagati ci sono nomi eccellenti della politica e para-politica, scrive Fabio Tonacci suLa Repubblica. La banda, la nuova banda di Roma. "La Mafia capitale", per dirla con le parole dei magistrati. Strutturata come una piovra che asfissia la città. Ogni uomo ha un compito, ogni compito ha un prezzo. Appalti, usura, estorsioni, corruzione. Dentro il Comune di Roma, nelle istituzioni, nelle cooperative. Amministratori "a libro paga" come Franco Panzironi, ex presidente Ama, e Carlo Pucci dirigente di Eur spa. Pubblici ufficiali "a disposizione", come Riccardo Mancini, ex presidente di Eur spa, che ha fatto da garante con l'amministrazione di Alemanno dal 2008 al 2013. La collusione con forze di polizia e servizi segreti. Un luogo: il distributore di benzina di Corso Francia, gestito da Roberto Lacopo, "base logistica del sodalizio". E tutto quest'universo criminale che ruota attorno a Massimo Carminati, l'ex nar, 56 anni. Capo, organizzatore, fornitore ai suoi sodali di schede telefoniche dedicate, reclutatore di imprenditori collusi "ai quali fornisce protezione", l'uomo che "mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operante su Roma, nonché esponenti del mondo politico istitutzionale, con esponenti delle forze dell'ordine e dei servizi". La sua villa di Sacrofano, Carminati la intesta fittiziamente a Alessia Marini, acquistandola per 500mila euro, di cui 120 mila in contanti. Accanto a lui c'è sempre Riccardo Brugia, col quale condivide il passato di estremista di destra. Nell'organizzazione di Carminati, armata e di stampo mafioso secondo i pm di Roma, Brugia ha il compito di gestire le estorsioni, "di coordinare le attività nei settori del recupero crediti e dell'estorsione, di custodire le armi in dotazione del sodalizio", scrive il gip Flavia Costantini nelle 1249 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare. Brugia e Carminati, tra le altre cose, sono accusati di estorsione ai danni di Luigi Seccaroni per farsi vendere il terreno in via Cassia. Ogni uomo ha un compito, dunque. Ad esempio Fabrizio Franco Testa, manager, e presidente di Tecnosky (Enav) e uomo di Alemanno ad Ostia. "Lui è la testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordina le attività corruttive dell'associazione, si occupa della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Oppure Salvatore Buzzi, l'uomo della rete di cooperative. Amministratore delle coop riconducibili al gruppo Eriches-29 giugno, affidatarie di appalti da parte di Eur Spa, gestisce per conto della banda Carminati le attività criminali nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico, settori "oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo". Si occupa anche - secondo i pm - della contabilità occulta dell'associazione. Sullo sfondo una pletora di imprenditori collusi, in primo piano, invece Franco Panzironi. Nel suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Ama spa dal 2008 al 2011, ha del tutto "asservito la sua qualità funzionale". Nelle carte ci sono tutti gli addebiti a suo carico: violando il segreto d'ufficio, violando il dovere di imparzialità nell'affidamento dei lavori, ha preso accordi con Buzzi "per il contenuto dei provvedimenti di assegnazione delle gare prima della loro aggiudicazione". Panzironi è accusato anche di averla turbata, quella gara. L'appalto è quello della raccolta delle foglie per il comune di Roma, 5 milioni di euro. Per la sua attività di "agevolazione dell'associazione mafiosa di Carminati" nel tempo ha ricevuto, per sé e per la sua fondazione Nuova Italia, 15.000 euro al mese dal 2008 al 2013, 120.000 euro in una tranche (il 2,5 per cento dell'appalto assegnato da Ama), la rasatura gratuita del prato di casa, e finaziamenti non inferiori a 40.000 euro per la sua fondazione. Per dire come funzionavano le cose al Campidoglio, basta leggere le accuse che vengono fatte a Claudio Turella, funzionario del Comune di Roma e responsabile della programmazione e gestione del Verde Pubblico: per compiere atti contrari ai suoi doveri di ufficio nella assegnazione dei lavori per l'emergenza maltempo, la manutenzione delle piste ciclabili e delle ville storiche, "riceveva da Buzzi, il quale agiva previo concerto con Carminati e in accordo con i suoi collaboratori, 25.000 euro per l'emergenza maltempo, la promessa di 30.000 euro per le piste ciclabili, più la promessa di altre somme di denaro". Nel calderone degli arresti c'è anche Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto di Veltroni. Nella sua qualità di appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza dei rifugiati, dunque pubblico ufficiale, "orientava le scelte del Tavolo al fine di creare le condizioni per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da soggetti economici riconducibilia Buzzi e Coltellacci", "effettuava pressioni finalizzate all'apertura di centri in luoghi graditi al gruppo Buzzi". E per questo "riceveva 5.000 euro mensili in forma diretta e indiretta da Coltellacci e Buzzi". Con l'aggravante di aver agevolato la banda di Carminati. Infine Gennaro Mokbel, che finisce in questa inchiesta con l'accusa di estorsione, perché "mediante violenza e minacce" voleva costringere Marco Iannilli a restituire 8 milioni di euro "comprensiva dell'attesa remunerazione, consegnatagli un anno prima per investirla nell'"operazione Digint"". E qui è intervenuto Carminati il quale, su richiesta della vittima, "la proteggeva da Mokbel". Faceva anche questo, Carminati. Il protettore.

Mafia e politica: perquisizioni, arresti Indagato anche ex sindaco Alemanno. In corso perquisizioni tra uffici di consiglieri della Regione Lazio, uffici del Campidoglio e abitazione dell’ex primo cittadino. Notificati 37 ordini di custodia cautelare, scrivono la Redazione Online, Lavinia Di Gianvito e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Pedinamenti, intercettazioni e verifiche sui flussi di denaro. Si sono mosse su un doppio binario le indagini del Ros dei carabinieri e del Nucleo tributario della Finanza sfociate, mercoledì mattina, in 37 arresti, decine di perquisizioni - comprese la Regione, il Campidoglio e 24 aziende - e la notifica di 39 avvisi di garanzia. È l’inchiesta «Mondo di mezzo», che nel legare gli affari di politici, malavitosi e manager ipotizza l’associazione a delinquere di stampo mafioso, a cui sono da aggiungere altri reati come la corruzione, l’estorsione e il riciclaggio. Sono stati circa 500 i carabinieri del Comando provinciale di Roma impiegati nelle perquisizioni, più i militari del gruppo cacciatori di Calabria, elicotteri e unità cinofile. Le Fiamme gialle, al comando del colonnello Cosimo Di Gesù, hanno controllato 350 posizioni tra persone fisiche e società e hanno bloccato 205 milioni frutto del reimpiego di capitali illeciti, senza calcolare i conti correnti e il contenuto delle cassette di sicurezza. In due abitazioni dell’ex Nar Massimo Carminati, finito in carcere, sono stati sequestrati 50 quadri di enorme valore: fra gli autori Andy Warhol e Jackson Pollock. L’imprevista scoperta potrebbe aprire un nuovo filone d’inchiesta poiché, spiega il comandante del Ros, il colonnello Mario Parente, «possono essere riconducibili a un traffico di opere d’arte». Nella lista dei 37 arrestati compaiono il direttore generale dell’Ama Giovanni Fiscon, gli ex amministratori delegati dell’ Ama Franco Panzironi (coinvolto anche nello lo scandalo Parentopoli) e di Eur spa Riccardo Mancini (già rinviato a giudizio per le tangenti sui filobus), l’ex capo della polizia provinciale Luca Odevaine, che è stato anche a vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni.Tra gli indagati ci sono l’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti (entrambi dimissionari), il responsabile della direzione Trasparenza del Campidoglio Italo Walter Politano (che domani sarà rimosso dal suo incarico), i consiglieri regionali Eugenio Patanè e Luca Gramazio, l’ex sindaco Gianni Alemanno («foraggiata», secondo gli inquirenti, anche la sua fondazione Nuovaitalia) e i suoi fedelissimi Antonio Lucarelli e Stefano Andrini. E poi tre avvocati, fra cui Pierpaolo Dell’Anno, alcuni appartenenti alle forze dell’ordine accusati di favoreggiamento e il faccendiere Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per la truffa a Fastweb e Telecom Sparkle . «Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma. La risposta è che Roma la mafia c’è e dimostra originalità e originarietà», sottolinea il procuratore Giuseppe Pignatone. Lo scorso sabato 30 novembre, all’assemblea dei democratici, Pignatone aveva ammonito: «Corrotti e mafia, patto che fa paura» riferendosi al mondo politico romano. Quel giorno nessuno aveva compreso che gli inquirenti stavano tirando le fila di un’inchiesta durata oltre due anni, che disegna una holding criminale capace di aggiudicarsi gli appalti per i rifiuti, le piste ciclabili, i punti verdi qualità, la raccolta delle foglie, la realizzazione dei villaggi nei campi nomadi, l’assegnazione dei flussi di immigrati. Al vertice dell’organizzazione, secondo la Direzione distrettuale antimafia, c’era Carminati, che con le sue società avrebbe incamerato commesse per decine di milioni. «In cambio - spiega il capo della Dda, Michele Prestipino - sono state pagate per anni tangenti fino a 15 mila euro al mese. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Odevaine, per esempio, avrebbe avuto uno «stipendio» mensile di cinquemila euro. Carminati, sostengono gli inquirenti, «manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti». Il procuratore ricorda una conversazione tra Carminati e il suo braccio destro, Salvatore Buzzi: «Dobbiamo vendere il prodotto amico mio. Bisogna vendersi come le puttane adesso. Mettiti la minigonna e vai a battere con questi amico mio». Dopo le ultime elezioni comunali «qualcosa è cambiato», precisa Pignatone, tuttavia in un’intercettazione «Carminati con i suoi collaboratori dicono: “Siamo tranquilli abbiamo amici”». Nell’ordinanza firmata dal giudice Flavia Costantini si legge: «Allo stato dell’indagine può essere affermato con certezza che vi erano dinamiche relazionali precise, che si intensificavano progressivamente, tra Alemanno e il suo entourage politico e amministrativo da un lato e il gruppo criminale che ruotava intorno a Buzzi e Carminati dall’altro. Dinamiche relazionali che avevano a oggetto specifici aspetti di gestione della cosa pubblica e che certamente non possono inquadrarsi nella fisiologia di rapporti tra amministrazione comunale e stakeholders». Quanto a Mancini e Panzironi, stando all’accusa, rappresentano «i pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all’organizzazione uno stabile contributo per l’aggiudicazione degli appalti». I due manager si sarebbero dati da fare anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all’associazione» e tra il 2008 e il 2013 come «garanti» dei rapporti dell’organizzazione con il Campidoglio. Il manager Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte» del gruppo «nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell’associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiave della pubblica amministrazione». L’ex sindaco di Roma, nel dichiararsi fiducioso nel lavoro della magistratura, precisa in una nota: «Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità». E annuncia: «Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta». Per il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, «quello che sta emergendo è un quadro inquietante». Dopo lo scandalo di Marco Di Stefano (deputato Pd a lungo in Regione Lazio, dove fu anche assessore al Patrimonio) travolto a fine ottobre dall’inchiesta per le tangenti da due milioni di euro nel caso degli affitti pilotati alla Pisana, una nuova «puntata» giudiziaria sembra travolgere le istituzioni della Capitale. Proprio mentre scattavano le perquisizioni, martedì Di Stefano è arrivato a Piazzale Clodio per essere interrogato nell’ambito dell’inchiesta su una presunta tangente da 1,8 milioni di euro che avrebbe ricevuto, quando era assessore alla Regione Lazio nella giunta Marazzo, dai costruttori Antonio e Daniele Pulcini. Di Stefano è indagato per corruzione e falso: per l’accusa la tangente servì per favorire la locazione di due immobili dei Pulcini alla società «Lazio service». Di Stefano sarà sentito anche come testimone sulla scomparsa del suo braccio destro Alfredo Guagnelli.

«Mafia capitale», la strana piovra che avvolge la politica debole di Roma. Lo choc di una città che si ritrova in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, scrive  iovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Nel quadro dipinto dalla Procura antimafia di Roma e dai carabinieri del Ros, l’immagine che traspare è quella di una piovra che ha avvolto la Capitale attraverso i suoi tentacoli, arrivando fino al Campidoglio. Con i politici – l’ex amministrazione di centro-destra, e qualche propaggine che sostiene la nuova – al servizio di un gruppo in grado piegare la politica e l’imprenditoria ai propri interessi. Un gruppo criminale chiamato “Mafia capitale”, perché si avvale del metodo mafioso nell’intimidazione e nel condizionamento dei pubblici poteri. In maniera diversa da come si muovono le cosche dei Cosa nostra in Sicilia o quella della ‘ndrangheta in Calabria e in Lombardia, ma ugualmente pervasiva. Un sistema messo in piedi da un ex militante della destra sovversiva degli anni Settanta, Massimo Carminati, poi passato ai rapporti con la malavita comune, che può contare – secondo l’accusa - anche sul “carisma criminale” guadagnato in decenni di cronache giudiziarie e processi andati per lo più a buon fine (per lui), e da un imprenditore legato al mondo delle cooperative: Salvatore Buzzi, anche lui ex detenuto che proprio in carcere, trent’anni fa, ha cominciato a intessere relazioni con l’esterno grazie alle occasioni di reinserimento offerte ai condannati; e oggi gestisce, stando alle carte degli inquirenti - «le attività economiche» di mafia capitale, occupandosi «della contabilità occulta e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti». Una città in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, insomma. Almeno nel disegno dei pubblici ministeri e del giudice che ha concesso gli arresti. Accuse da provare, ovviamente, ma dalle quali emerge già, con nettezza, la debolezza della politica cittadina e amministrativa che si lascia quantomeno tentare e influenzare, nelle sue scelte, da metodi e interessi poco commendevoli. Nella capitale d’Italia.

«L’ho comprato, gioca per me». La rete che arruolava i politici. I boss cambiavano perfino il bilancio. «Cosentino (Pd) è amico nostro», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. In ogni posto chiave avevano sistemato una persona fidata. Aziende municipalizzate, assessorati, persino il bilancio del Campidoglio erano in grado di modificare. Per riuscire a controllare le commissioni Trasparenza e Anticorruzione hanno fatto carte false, forse convinti che questo li avrebbe salvati. È una rete di potere autentico quella creata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, «inserendo nei ruoli decisionali della pubblica amministrazione uomini che, per ragioni diverse di affiliazione o di subordinazione, rispondono direttamente al sodalizio, non sempre con una piena consapevolezza delle sue caratteristiche». Quando Gianni Alemanno cede la guida di Roma a Ignazio Marino, si concentrano sugli esponenti del Pd che potevano mettersi a disposizione in cambio di favori e tangenti. E riescono ad agganciarli. Nelle intercettazioni che fanno da filo conduttore alle indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente, si parla di appuntamenti chiesti al vicesindaco Luigi Nieri, di incontri con il capo di gabinetto Mattia Stella. Mentre Eugenio Patanè avrebbe preso soldi per «pilotare» appalti alla Regione, del senatore del Pd Lionello Cosentino, segretario della federazione Pd romana, dicono: «È proprio amico nostro». Ad Alemanno, dipinto dalle carte dell’accusa quasi come un burattino nelle loro mani, pagano le cene elettorali oltre ai contanti versati alla sua Fondazione «Nuova Italia» e portano «comparse» per la claque ai comizi. A far da «cerniera» ci pensa spesso l’assessore Luca Gramazio. Ma alla vigilia delle amministrative di giugno 2013, quando lui tentenna sulla concessione di una proroga alle cooperative, il ricatto di Buzzi è esplicito: «Me la proroghi a sei mesi, arrivi a dopo le elezioni... se li famo tutti in santa pace, qui c’hai pure gente che ti vota... così ci costringi a fare le manifestazioni». Riccardo Mancini, amministratore delegato di Eur spa è sempre stato uno dei personaggi di riferimento, «espressione dell’amministrazione comunale avendo gestito le campagne elettorali di Alemanno ed essendo considerato una sorta di plenipotenziario nella gestione dei rapporti con gli imprenditori, soprattutto nel settore trasporti». È quello che «deve passa’ i lavori buoni». Quando finisce sotto inchiesta Buzzi racconta: «Lo semo annati a pija’, gli amo detto cioè “o stai zitto e sei riverito o se parli poi non c’è posto in cui te poi anda’ a nasconde’‘». Regolarmente stipendiato con 15 mila euro mensili è Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama spa, «indicato quale reale dominus della stessa municipalizzata, nonostante non rivestisse più nessun incarico formale». Buzzi è categorico: «M’ha prosciugato tutti i soldi Panzironi... dovevo daje un sacco de soldi, 15 mila euro, gli ultimi glieli do oggi e poi ho finito». Con la giunta Alemanno il controllo dell’Ama è totale. Quando arriva Marino, l’organizzazione si attrezza. E in vista della gara per la raccolta del Multimateriale Buzzi appare sicuro: «I nostri assi nella manica per farci vince la gara dovrebbero essere la Cesaretti per conto di Sel, Coratti che venerdì ce vado a prende un bel caffè e metto in campo anche Cosentino». Parlando del presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, Buzzi dice «me lo so’ comprato, ormai gioca con me», e il 23 gennaio 2014 racconta di avergli «promesso 150 mila euro se fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale». L’8 aprile invia un sms a Mattia Stella: «Sono da Coratti». Lui lo chiama immediatamente: «Oh Salvato’ io sto giù da me». Buzzi è pronto: «Appena finisco da Coratti, scendo giù da te». Del resto con i collaboratori più stretti era stato esplicito: «Sto’ Mattia lo dobbiamo valorizzare, lo dobbiamo lega’ di più a noi». Luca Odevaine, vicecapo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, viene ritenuto un esponente dell’organizzazione e infatti Buzzi conta sulla possibilità che diventi capo di gabinetto di Marino «così ci si infilano tutte le caselle... qualche assessore giusto... ci divertiremo parecchio». L’interesse dell’organizzazione a orientare la politica è palese sin dalla scelta del candidato sindaco. A ottobre 2012 Carminati si informa con Buzzi: «Come siete messi per le primarie?» e lui risponde: «Stiamo a sostene’ tutti e due... avemo dato 140 voti a Giuntella e 80 a Cosentino che è proprio amico nostro». In realtà a novembre Buzzi annuncia: «Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco eh!». Il possibile cambio in giunta era per loro un’ossessione e il 22 gennaio 2013, analizzando ogni possibilità dice: «È vero, se vince il centrosinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene». Marroni diventa deputato del Pd mentre l’altro «amico» Daniele Ozzimo è nominato assessore alla Casa. Tutti restano comunque inseriti nella «rete» che ha continuato a garantire affari e potere.

Carminati, il "Nero" interpretato da Scamarcio, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gioventù bruciata, vecchiaia maledetta. C'è da chiedersi che cosa attragga di più della trasgressione senza rimedio, che cosa porti a decidere un giorno di buttare al macero la tua vita in un bar dell'Eur chiamato il «Fungo». Era lì che Massimo Carminati, il «Nero» di Romanzo criminale interpretato da Riccardo Scamarcio, milanese piombato nella Capitale negli anni Settanta con la famiglia, incontrò il suo destino. Assieme a nomi al pari suo passati alla storia del terrorismo nero, prima Avanguardia nazionale poi Nar, amici di sangue come Valerio Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Lì, in quel fasullo mondo di pulizia medio-altoborghese, e poi al bar Fermi e in quello di via Avicenna, Massimo frequenta gli esponenti più in vista della banda della Magliana, e vi si lega a filo doppio. In quei giardinetti verdi nasce una strategia del terrore che si trasforma via via in malavita ordinaria e quotidiana, scelta che costa a Carminati un occhio, l'uso di una gamba, quella sinistra, il soprannome di «Cecato», quando la mattina del 20 aprile dell'81 sta cercando di fuggire in Svizzera, e di lì in Spagna. Di quella metamorfosi inesorabile che i neofascisti cresciuti nel quartiere di Monteverde subiscono, diventando delinquenti, Carminati diventa snodo centrale e rispettato, anche in virtù dei suoi stretti rapporti con i boss Giuseppucci e Abbruciati. Rapine, omicidi, attentati ai treni, la morte di Pecorelli: negli anni bui d'Italia il nome del Guercio è una certezza: finisce alla sbarra, spesso senza un adeguato impianto accusatorio, ne esce sempre assolto. La condanna a dieci anni arriverà invece solo nel '98 nel processo che vedrà alla sbarra l'intera banda della Magliana. Per il Nero comincia un altro dei suoi tunnel maledetti.

Carminati, dai neri alla Magliana: «Sono il Re, vedi che gli combino». Un imprenditore legato al gruppo dell’ex terrorista: «Io qui sono diventato intoccabile», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Quando lo arrestarono la prima volta mentre tentava di attraversare il confine tra Italia e Svizzera, nel 1981, dopo che un poliziotto gli sparò un colpo di pistola che gli fece perdere un occhio, faticarono a identificarlo. Perché aveva addosso un documento falso, e perché il suo vero nome era uno dei tanti estremisti di destra ricercati, niente più. Oggi, trentatré anni e qualche vita dopo, quello stesso nome è sufficiente a fare paura come l’identità di un boss, utile a incutere timore e rispetto insieme. Al pari dei soprannomi derivati dalla pallottola conficcata nell’occhio: «Il Cecato» o «Il Pirata». È quel che sostengono gli inquirenti a proposito di Massimo Carminati, 56 anni compiuti a maggio, l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari poi transitato armi e bagagli dalle parti della banda della Magliana, rimanendo coinvolto - e riuscendo a uscirne pulito, il più delle volte, o con pochi danni - nelle vicende criminali più clamorose: dall’omicidio del giornalista Mino Pecorelli (assolto in tutti i gradi di giudizio) al furto consumato nel caveau del tribunale di Roma nel 1999 (condanna ridotta a quattro anni), passando per altre vicende più o meno misteriose. Un altro ex sovversivo «nero» degli anni Settanta arrestato nell’operazione di ieri (ce ne sono diversi, anche se ormai l’ideologia e la politica c’entrano poco e niente; sembra più una questione di soldi, e di metodi per accaparrarne) racconta in un colloquio intercettato che quando lo arrestarono per una rapina nel 1994, nella quale era rimasto ferito, appena arrivato a Regina Coeli tutti gli offrirono assistenza e solidarietà in virtù della sua amicizia con Carminati; «anche persone che, non conoscendo, però sapevano». Perfino l’averla quasi sempre scampata nei tribunali, o comunque essersela cavata con pene leggere, secondo gli inquirenti contribuisce ad accrescere il mito dell’impunità e quindi del potere sotterraneo che riesce a esercitare. Il resto l’hanno fatto alcuni articoli di rotocalco dove veniva definito (insieme ad altri) il «Re di Roma», e lui stesso commentava: «Sul nostro lavoro... sono pure cose buone... Se sentono tranquilli», riferito alle persone con cui aveva rapporti. Oppure, quando c’era da sfruttare l’aura di duro con chi doveva adeguarsi alle sue indicazioni: «Sennò viene qua il Re di Roma... tu sei un sottoposto... è il Re di Roma che viene qua... entro dalla porta principale... vede io che gli combino». Sia quando militava nelle file della destra sovversiva, sia nei rapporti con i banditi della Magliana (in particolare Franco Giuseppucci, boss con simpatie neofasciste), Carminati si è mostrato attento a mantenere un ruolo autonomo, amico che non tradisce gli amici e fa valere più il vincolo personale che quello politico o di «batteria». Pronto a usare metodi maneschi e «convincenti», abituato a parlare poco e apprezzare chi parla poco, rispetto a quelli che vantano rapporti altolocati. Consapevole del proprio ruolo e della propria capacità intimidatoria ma anche imprenditoriale, attento agli affari e a nuove forme d’investimento attraverso persone fidate. Come Salvatore Buzzi, l’imprenditore delle cooperative che - nella ricostruzione dell’accusa - gli gestiva buona parte dei soldi ed è divenuto il suo principale socio occulto. «È uno di quelli cattivi -, dice a proposito di Carminati uno degli imprenditori collusi con la presunta associazione mafiosa -. Questi c’hanno i soldi pe’ fà una guerra, ai tempi d’oro hanno fatto quello che hanno fatto... Quando te serve una cosa vai da lui, non è lui che viene da te». E chi poteva godere della sua protezione si sentiva come un altro imprenditore legato al gruppo di Carminati: «Non me può toccare manco Gesù Cristo... cioè qui... io qui a Roma sono diventato intoccabile».

"Li compriamo tutti. Se vinceva Alemanno saremmo stati a posto. Proviamoci con Marino". Salvatore Buzzi come punto di raccordo tra gli interessi di Carminati e la politica. Il suo ruolo chiave emerge dalle intercettazioni a ridosso delle elezioni 2013. L'uomo delle coop autocollocato "a sinistra" si vantava del suo potere di persuasione. Una "vocazione corruttiva" che secondo i magistrati non aveva distinzioni di colore, scrivono Mauro Favale e Giovanna Vitale su “La Repubblica”. "Me li sto a comprà tutti", si vantava al telefono Salvatore Buzzi, uomo chiave dell'inchiesta, figura centrale e di raccordo tra gli interessi di Massimo Carminati e la politica. Era lui, da uomo delle cooperative che si auto-collocava "a sinistra", a gestire le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi, della manutenzione del verde pubblico. Nella sua rete, secondo le indagini, finiscono politici di centrodestra e di centrosinistra, senza particolari distinzioni di colore. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2013, quando le quotazioni di Gianni Alemanno vengono date in discesa, si esprime così al telefono con Emilio Gammuto, figura "tra le più attive  -  scrive la gip Flavia Costantini  -  sul versante della corruzione".

Buzzi: "Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, partivamo fiuuuu (fonetico intendendo partiamo a razzo, ndr.). C'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva stà assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde. Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... Che cazzo voi di più?".

Ma quella che i magistrati definiscono "vocazione corruttiva", per Buzzi non ha barriere politiche. A suo dire è in "trattative corruttive" anche con l'amministrazione Marino. Dall'altra parte del telefono c'è sempre Gammuto.

Buzzi: "E mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino".

Gammuto: "Va bè mò, Marino tramite Luigi Nieri".

Buzzi: "Ma Nieri, è entrato Nieri?".

Gammuto: "Non lo so".

Buzzi: "Cazzo ne sai? Noi c'avemo Ozzimo, quattro: Ozzimo, Duranti, Pastore e Nigro".

L'ex assessore alla Casa della giunta Marino, indagato per corruzione, si è dimesso ieri, dichiarandosi "estraneo ai fatti". Nelle chiacchiere tra gli arrestati contenuti nell'ordinanza del gip viene a più riprese definito "un amico", tanto che Buzzi confessa ad Alemanno di aver dato indicazioni di un voto disgiunto alle elezioni "Ozzimo-Alemanno".

Alemanno: "Pronto?".

Buzzi: "Gianni come stai?".

Alemanno: "Allora? Ma è vera 'sta storia del disgiunto?".

Buzzi: "Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo ed Alemanno". (ride)

Alemanno: "Eh, questo mi onora molto".

Buzzi: "No, ma non se fa più".

Alemanno: "Mi onora molto".

Buzzi: "Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh". (ride).

Alemanno: "Come?"

Buzzi: "Non lo possiamo dire".

Alemanno: "No, no. Vabbè, vabbè. Poi, ma poi si nota. Per cui, vediamo dopo. Però mi raccomando eh! Fate i bravi ragazzi".

Buzzi: "Per me vinci. Per me gliela fai, gliela fai".

Alemanno: "Sì, sì. Penso, penso di sì e siamo in recupero. Poi, ovviamente bisogna vedere, non bisogna mai sottovalutare l'avversario. Va bene".

Sempre per quanto riguarda i legami con l'amministrazione Alemanno, risulta che attraverso alcune sue società, Buzzi avrebbe pagato due cene elettorali all'ex sindaco attraverso la Fondazione Nuova Italia. Non solo: su richiesta di Franco Panzironi, ex ad di Ama, Buzzi recupera 50 uomini per formare una claque elettorale nel corso della campagna elettorale di dell'ex sindaco. L'uomo delle cooperative, inoltre, è in ottimi rapporti anche con Luca Gramazio, attuale capogruppo di Fi in Regione e, all'epoca, presidente dei consigliere comunali del Pdl. Secondo il gip "le indagini hanno delineato un quadro indiziario tale da indurre ad ipotizzare che Gramazio possa essere un collegamento dell'organizzazione con il mondo della politica e degli appalti". Gramazio, oltre ad avere una costante frequentazione direttamente con Massimo Carminati, il leader del gruppo, è anche la figura incaricata di collocare all'interno dell'amministrazione "soggetti che esprimevano gli interessi dell'associazione, quali Berti, Fiscon e Quarzo". Si interessa alle vicende relative agli appalti per il campo nomadi di Castel Romano e, soprattutto, per recuperare le risorse necessarie nonostante l'assenza di fondi nel bilancio comunale 2013. "Una trama di rapporti che, secondo le conversazioni che sono state indicate a proposito della corruzione di Turella, relativa allo stanziamento per le piste ciclabili, lo avrebbe visto remunerato con la somma di almeno 50.000 euro", scrive la gip. Quando l'amministrazione cambia colore, l'organizzazione criminale non si scoraggia e riesce a "reclutare" anche rappresentanti del centrosinistra. In particolar modo l'abboccamento funziona con Mirko Coratti, Pd, presidente dell'Aula Giulio Cesare, anch'egli ieri dimessosi dopo l'avviso di garanzia, accusato di aver intascato una tangente da 150.000 euro. L'intercettazione tra Buzzi e Claudio Caldarelli (suo collaboratore) è esplicativa.

Caldarelli: "Vabbè, ricordate sta cosa: so un milione e 8, è importante. Perché è politica la scelta al di là...".

Buzzi: (a bassa voce:) "Oh, me sò comprato Coratti".

Caldarelli: "Eh, ricordate da diglielo".

Buzzi: "Lui sta con me. Gioca con me ormai".

Caldarelli: "Eh, ricordateglie de questo perché... ".

Buzzi: "Oh ma che sei peggio de lui, ce vado venerdì a pranzo ma che sei rincoglionito. Ma che cazzo, non cambi mai, sempre la stessa cosa".

Caldarelli ride.

Buzzi: "E che cazzo, che me so rincoglionito, poi non tutte riescono però uno ce prova, eh (ride). Gliel'ho detto: "Guarda, lo stesso rapporto che c'abbiamo con Giordano lo possiamo aver con te. M'ha capito subito. Poi però il problema è che lui non so quanto a quanta gente c'ha... mentre con Giordano semo... Quando io gl'ho detto tutto lui non m'ha detto no. M'ha detto ci vediamo a pranzo venerdì. Più de questo, che me deve di'? Al capo segreteria suo noi gli diamo 1000 euro al mese. Sò tutti a stipendio Cla'. Io solo per metteme a sede a parlà con Coratti 10 mila gli ho portato". L'arruolamento di Coratti e del suo capo segreteria, secondo gli inquirenti, ha tre obiettivi: "L'aggiudicazione del bando di gara AMA n. 30/2013 riguardante la raccolta del multimateriale; lo sblocco dei pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma; la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento, in sostituzione della neo incaricata Gabriella Acerbi, ritenuta persona poco disponibile". Per provare a condizionare la giunta Marino, Buzzi stringe i legami anche con Mattia Stella, capo segreteria di Marino, che non risulta indagato ma che gli arrestati provano a blandire. "Eloquente nel senso della costruzione di un rapporto privilegiato con Stella  -  scrive la gip  -  è la conversazione nella quale Buzzi chiamava Carlo Guarany, lo informava che prima sarebbe andato in Ama e successivamente presso il "Gabinetto per incontrare Mattia". In questa conversazione si sottolinea la necessità di "valorizzare Mattia e legarlo di più a noi". Gli interessi di "mafia capitale" si rivolgono anche alla Regione. E lì, col cambio di giunta agganciano Eugenio Patanè, consigliere Pd. Anche lui sarebbe coinvolto, secondo la procura, nell'appalto Ama del 2013 per il quale sarebbe stato pagato con una tangente più bassa rispetto alle richieste. Lo spiega Buzzi intercettato al telefono con la sua compagna Alessandra Garrone.

Buzzi: "Noi dovremmo dare a Patanè per la gara che abbiamo vinto...".

Garrone: "122 euro".

Buzzi: "122 euro e non esiste proprio. Non esiste che quelli hanno chiesto i soldi a Patanè. 120.000 euro, 120 noi e 120... hai capito come funziona?"

Garrone: "Ho capito".

In un'altra intercettazione, questa volta ambientale, Buzzi spiega meglio il sistema ai suoi interlocutori.

Buzzi: "Noi a Panzironi che comandava gli avemo dato 2,5%, 120 mila euro su 5 milioni. Mo damo tutti 'sti soldi a questo?".

A insistere per i soldi a Patanè è Franco Cancelli, della cooperativa Edera, finito ai domiciliari.

Buzzi: "Lui mi dice "ah però bisogna da'" e alla fine dice, "la differenza sarebbero 10 mila euro" perché ne vorrebbe subito 60 e gliene toccherebbero 50, dice. Ho fatto "oh, guarda che il problema però è la tua aggressività. Perché se Patanè garantisce, non c'avemo problemi".

I quattro re di Roma. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici, scrive Lirio Abbate “L’Espresso”. Non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa, conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo Scamarcio. È stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli 007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano, un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere, garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro. Carminati viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de "l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale nonostante sentenze e arresti. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8 in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere: secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss. I processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010, quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con "il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano: non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti. Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi, a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito: un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che scattino vendette. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. È questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche, i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso: negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. È la stessa strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della 'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.

Roma, poltrone ai fascisti. Ex di Avanguardia Nazionale, esponenti di Terza Posizione, perfino naziskin vicini a Mokbel. Così Alemanno ha piazzato nei posti che contano della Capitale i suoi amici estremisti neri, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Boia chi molla, gridava a fine anni Ottanta il giovane Gianni Alemanno, al tempo capo del Fronte della Gioventù e fedelissimo di Pino Rauti, leader dell'ala movimentista dell'Msi e futuro suocero. Vent'anni dopo, nessuno può accusarlo di incoerenza: Gianni, diventato sindaco di Roma, non ha mollato nessuno. Non ha tradito, non ha lasciato per strada i vecchi camerati, nemmeno quelli finiti in galera per banda armata e atti terroristici, neppure i personaggi più discussi della galassia d'estrema destra protagonista degli anni di piombo. Anzi. Nell'anno di grazia 2010 Roma è sempre più nera, con fascisti ed ex fascisti che spuntano dappertutto. Nei posti cardine dell'amministrazione comunale e nell'entourage ristretto del nuovo Dux, nell'assemblea capitolina e nelle società controllate dal Comune, passando per enti regionali e ministeri. Vecchie conoscenze sono comparse anche nella parentopoli che ha investito l'Atac, dove lavorano - come ha scritto Ernesto Menicucci sul "Corriere" - l'ex Nar Francesco Bianco (in passato arrestato e processato per rapine e omicidi insieme ai fratelli Fioravanti, fu scarcerato per decorrenza dei termini) e l'ex di Terza posizione Gianluca Ponzio. Ponzio oggi è a capo del Servizio relazioni industriali della municipalizzata del Comune, negli anni Ottanta fu protagonista di arresti plurimi per rapina e possesso d'armi. La sinistra ha gridato allo scandalo, ma i due sono sono solo la punta dell'iceberg di un gruppo di potere sempre più radicato in città, cementato dagli ideali e dall'antica appartenenza, da interessi (anche economici) e da relazioni amicali e familiari. La lista comprende ex militanti di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari, uomini di Forza nuova, naziskin vicini alla cricca di Gennaro Mokbel, capi storici di Avanguardia nazionale, ultrà e combattenti delle battaglie degli anni Settanta e Ottanta. Battuto a sorpresa Francesco Rutelli, disintegrati i potentati di Forza Italia (già messi a dura prova durante la giunta regionale guidata da Francesco Storace) ora sono nella cabina di controllo e, nella nerissima capitale, comandano loro. I due personaggi più influenti dell'amministrazione non sono assessori, ma due amici del sindaco: Franco Panzironi e Riccardo Mancini. Del primo, a capo dell'Ama, si sa praticamente tutto. Meno noti, invece, sono i trascorsi dell'uomo che Alemanno ha voluto alla guida di Eur spa, società controllata dal Campidoglio e dal ministero dell'Economia che ha nel suo portafoglio immobili per centinaia di milioni. Mancini, classe 1958, ha finanziato la campagna elettorale del 2006 e ha fatto da tesoriere durante quella del 2008. È un imprenditore di successo: erede di parte del patrimonio della famiglia Zanzi (energia e riscaldamento), ha comprato nel 2003 la Treerre, società di bonifiche e riciclaggio che fattura oltre 6 milioni di euro l'anno. Anche lui, che ha sempre vissuto all'Eur, è stato vicino ai camerati di Avanguardia nazionale: nel 1988 è stato processato - insieme ai leader del movimento Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher, che oggi lavora in Regione con Teodoro Buontempo - e la Corte d'Assise lo condannò a un anno e nove mesi per violazione della legge sulle armi. Ora, dopo vent'anni, Alemanno gli ha dato le chiavi di un quartiere che conosce bene, quello del "mitico" bar Fungo, dove un tempo si ritrovavano quelli di Terza posizione, i ragazzi di Massimo Morsello e il gruppo di Giusva Fioravanti. Una curiosità: un socio in affari di Mancini, Ugo Luini (amministratore della holding del gruppo, la Emis) è pure tra i consiglieri della fondazione del sindaco, Nuova Italia. Mancini e Panzironi, ovviamente, si conoscono bene. A novembre il capo dell'Eur Spa ha assunto Dario, il figlio di Franco, già portaborse al Comune e ora funzionario con contratto a tempo indeterminato. La scelta ha fatto gridare allo scandalo il centrosinistra, ma sono altre le indiscrezioni che preoccupano Alemanno. Mancini, l'uomo che dovrebbe gestire la Formula 1, è infatti amico di Massimo Carminati, tra i fondatori dei Nar e leader della sezione dell'Eur, simpatizzante di Avanguardia nazionale e sodale della Banda della Magliana: il personaggio del "Nero" del film "Romanzo Criminale" è ispirato alla sua storia. I due sono spesso insieme, tanto che qualcuno sospettava che l'ex estremista (incriminato per vari delitti efferati ma assolto - quasi sempre - da ogni accusa) fosse stato assunto dalla municipalizzata. «Una sciocchezza» chiosano a "L'espresso" gli uomini del sindaco «Mancini lo vede solo perché si conoscono da anni. Nessun rapporto di lavoro». Un lavoro ben retribuito Alemanno e Panzironi l'avevano invece trovato a Stefano Andrini, assurto agli onori delle cronache perché insieme a un gruppetto di naziskin picchiò selvaggiamente, nell'estate del 1989, due "compagni" davanti al cinema Capranica. Andrini, 40 anni, fa parte di una generazione successiva a quella dei movimenti storici degli anni di piombo. La rissa costò a lui e al fratello gemello una condanna a quattro anni e otto mesi (poi ridotti a tre) per tentato omicidio. La carriera criminale continua anche dopo la reclusione: entrato nell'orbita del gruppo di Delle Chiaie, Stefano nel 1994 viene arrestato per alcuni scontri con gli autonomi. Un passato burrascoso che nel 2009 non gli impedisce di sedersi sulla poltrona di amministratore delegato di Ama Servizi Ambientali. Andrini, ultrà della Lazio, non c'è rimasto molto. Lo scorso febbraio è stato travolto dall'inchiesta sugli affari della banda capeggiata da Gennaro Mokbel. Secondo i magistrati sarebbe stato proprio lui a organizzare - tramite i suoi agganci a Bruxelles - la falsa candidatura di Nicola Di Girolamo, il senatore tanto caro a Mokbel («Sei il mio servo», gli diceva) e alle famiglie 'ndranghetiste di Isola Capo Rizzuto. Il sindaco, si sa, non molla mai nessuno. E perdona tutti, forse perché anche lui è stato sfiorato da vicende giudiziarie, come aggressioni e lancio di bombe molotov (sempre assolto). Non bisogna sorprendersi, così, che abbia provato a sistemare anche altri ex skin protagonisti del pestaggio al cinema Capranica. Così Mario Andrea Vattani (arrestato con gli Andrini ma poi assolto al processo), figlio del potente presidente dell'Ice Umberto, è diventato capo delle relazioni internazionali e del cerimoniale del Campidoglio. Assunto fino al 2013, costerà ai contribuenti 488 mila euro tra stipendio e oneri previdenziali. Anche Demetrio Tullio, pure lui arrestato e prosciolto, ha ottenuto un posto fisso. Stavolta al ministero delle Politiche agricole: è entrato grazie a un concorso bandito nel 2006, quando Alemanno era titolare del dicastero. Tullio lavora alla direzione generale della Pesca marittima, ma nel tempo libero si occupa anche di manifestazioni culturali. Il mensile di Ostia "Zeus" lo indica come «presidente dell'associazione Minas Tirith», dal nome della città assediata del Signore degli Anelli, che qualche giorno fa ha organizzato un convegno intitolato "Serate dannunziane". Secondo il giornale, la tre giorni è stata un successo. Non sappiamo se Alemanno ha perdonato anche Mokbel, che si è vantato di averlo preso a schiaffi durante una manifestazione (era il 1998) in cui Gennaro organizzava il sevizio d'ordine. Di sicuro l'inchiesta sul faccendiere che ha messo in piedi la più colossale truffa dal dopoguerra non gli fa dormire sonni tranquilli. Mokbel (in passato «destinatario», scrive il gip Aldo Morgigni nell'ordinanza, «di provvedimenti cautelari per fatti omicidiari collegati ad azioni di gruppi terroristici di estrema destra unitamente a soggetti - quali ad esempio Carminati Massimo - ancora oggi oggetto di ricerche da parte delle forze di polizia») ha infatti complici assai vicini al mondo di quella che fu Alleanza nazionale. In primis l'avvocato Paolo Colosimo, finito anche lui in galera per associazione a delinquere: fino a qualche tempo fa tra i suoi clienti c'era Nicolò Accame, l'ex portavoce di Francesco Storace alla Regione Lazio. Rampollo della dinastia Accame (il papà Giano, "fascista di sinistra", fu un intellettuale influente, la sorella Barbara è la moglie del leader carismatico di Terza posizione Peppe Dimitri, morto tragicamente nel 2006) è stato condannato per corruzione, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio nell'ambito dell'inchiesta "Lazio-gate". Non solo. Del gruppo Mokbel fa parte anche Silvio Fanella, considerato dagli inquirenti il cassiere della banda. Il suo nome è spuntato a sorpresa nella compravendita di una società, la Mondo Verde, fondata anni fa dal capo della segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, e da due suoi cugini. A "L'espresso" risulta che Fanella rilevi il 50 per cento delle quote nel luglio del 2000, quando Antonio ha già lasciato l'impresa. Dopo pochi mesi, Fanella e il suo socio Teodolo Theodoli vendono le azioni a una ditta amministrata da tal Fabrizio Moro. Sarà un caso, ma Moro è un amico di Lucarelli. Sarà una coincidenza, ma per la Mondo Verde targata Moro lavorerà in alcuni progetti - come ha rivelato "Repubblica" - il cognato di Gennaro Mokbel. Lucarelli, classe 1965, imprenditore, è uno dei fedelissimi di Alemanno. Con l'estrema destra ha sempre avuto grande feeling: il segretario del sindaco nel 2000 era il portavoce romano di Forza Nuova, movimento di estrema destra fondato nel 1997 dai latitanti Massimo Morsello, ex Nar, e Roberto Fiore, ex Terza posizione, che sfuggirono a una retata. Era il 1980, l'anno della strage di Bologna. I due scapparono a Londra, e tornarono solo quando le condanne per banda armata furono prescritte o, nel caso di Morsello gravemente malato, inapplicabili. Lucarelli si dà da fare: con i suoi organizza sit in inneggianti al leader dell'ultradestra austriaca Haider, manifestazioni contro il gay pride (i volantini lo definivano «la saga del pervertito») e risse davanti al Campidoglio (Marcello Fiori, vicecapo di gabinetto di Rutelli, denunciò di essere stato spintonato da Lucarelli). Nel who's who della cerchia di Alemanno ci sono anche altri ex camerati di rango. Vincenzo Piso, ex militante di Terza posizione e di Ordine nuovo, siede oggi in Parlamento ed è coordinatore del Pdl regionale. Venne arrestato nel 1980, restò in carcere per quattro anni con l'accusa di banda armata, venne poi prosciolto. Influente consigliere di Piso e del sindaco è poi Marcello De Angelis, anche lui di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 27Obis, riferimento all'articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo. Fratello del leader di Terza posizione Nanni, morto in circostanze misteriose in carcere, Marcello ora è senatore e direttore di Area, la rivista fondata da Alemanno e Storace. Da un anno al Comune lavora anche Loris Facchinetti (nell'ordinanza del 31 dicembre 2009 si specifica che la collaborazione è «a titolo gratuito»), ex leader di Europa civiltà, un movimento neopagano e paramilitare di estrema destra nato nel 1969 che aveva rapporti pure con la massoneria. Fermato «per reticenza nell'inchiesta di piazza Fontana», come ricorda Ugo Maria Tassinari nel suo libro "Fascisteria", Facchinetti - sposato con la sorella di Fabio Rampelli - oggi è delegato del sindaco di Roma per il Mediterraneo, ed esperto di "Politiche internazionali" della fondazione di Alemanno. Che ha voluto vicino a sé pure Claudio Corbolotti, aiutante di Lucarelli al Comune, arrestato nel 2004 per gli scontri avvenuti fuori l'Olimpico durante il derby Lazio-Roma. A proposito di ultrà, anche Guida Zappavigna, ex dei Boys della Roma ed ex Fuan, arrestato come presunto Nar e prosciolto in istruttoria, ha avuto un incarico dalla Polverini: ora è presidente del parco del Lago Lungo e Ripa. Grande tifoso di Totti e compagni è anche Mirko Giannotta. Le cronache ricordano che è stato arrestato nel 2003 insieme al fratello perché accusato di rapine ai danni di banche e gioiellerie, e che dal 2008 è diventato capoufficio del decoro urbano del gabinetto del sindaco. Già. Alemanno, cuore nero, non molla mai nessuno.

I fasciomafiosi alla conquista di Roma. Ex terroristi e colletti bianchi uniti dall’ideologia e dal denaro. E ormai più forti dei tradizionali clan. Ecco l’inedita rete di potere che oggi controlla la Capitale. E l'arresto per l'omicidio Fanella legato al caso Mokbel è solo l'ultimo tassello di un mosaico più grande, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Una fascio-mafia, che sintetizza la forza perversa di due tradizioni in un’efficacia che gli ha consegnato anni di dominio incontrastato. Persino gli investigatori hanno fatto appello alla sociologia per spiegare il modello romano. Qui si incarna la microfisica del potere teorizzata da Paul Michel Foucault: il potere criminale-mafioso si esercita, si infiltra, «non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare». Si estende in tutte le strutture sociali ed economiche, con dinamiche che cambiano continuamente e costruiscono altri patti e altri affari. Si infiltra, entra nei ministeri, nelle finanziarie, nelle grandi società pubbliche come nei covi dei rapinatori e nelle piazze di spaccio. A Roma non ci sono zone in cui commercianti e imprenditori sono obbligati a pagare il pizzo. Non c’è l’oppressione del boss di quartiere. E gli omicidi sono calibrati con estrema attenzione. Luglio si è aperto con l’assassinio di un pezzo da novanta di questo sistema, Silvio Fanella, nei condomini bene. Agosto si è chiuso con l’esecuzione di un’autista della nettezza urbana, Pietro Pace, nella periferia estrema: il padre ha offerto una taglia di 100 mila euro sui killer. Delitti miratissimi, perché quello che conta è far girare i soldi, che si tratti di gestire immobili, licenze, investimenti o di vendere droga. Gli architetti di questo sistema non si sporcano le mani con il sangue. Sanno a chi affidare il lavoro sporco. E quando devono colpire duro, hanno a disposizione una centuria nera compattata dall’estremismo di destra. Uno dei componenti di questa cupola rivoluzionaria è Massimo Carminati, che sembra avere trasformato il suo personale romanzo criminale in una marcia trionfale. È stato nella banda della Magliana e nelle squadre terroriste dei Nar, con amicizie di rango in Cosa nostra e negli apparati deviati dello Stato. Coinvolto in processi importanti, come quello per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ne è sempre uscito assolto. Ha scontato pochi anni di carcere per episodi minori. Nella Roma nera è un mito: un leader da seguire e ascoltare. E lui da leader si comporta e agisce. Si mostra, a chi non lo conosce, con modi felpati ed educati. Ma quando vuole sa imporsi con la forza, tanto che sodali e rivali lo rispettano con timore. È lui “l’ultimo re di Roma”. I suoi avvocati Ippolita Naso e Rosa Conti respingono questa ricostruzione: «Se tutto ciò rispondesse a verità, più che un uomo di potere sarebbe corretto definirlo uomo dai super poteri, che ha in mano le redini dell’imprenditoria capitolina, in grado di condizionare le vicende della politica romana, capace di passare dal traffico di droga ai vertici degli affari economici controllando, già che c’è, anche il territorio. E il tutto con un occhio solo!». Un riferimento a quella ferita vecchia di trent’anni, l’eredità di un conflitto a fuoco con i carabinieri che gli ha fruttato il soprannome di “er Cecato”. Per i legali però, come scrivono in un atto di citazione per difendere il loro cliente: «Siamo all’apoteosi dei luoghi comuni cinematografici. E di questo strabordare di informazioni neanche l’ombra di un elemento, un indizio, una circostanza oggettiva, una testimonianza, un riscontro, una indicazione di massima, una traccia, un segno che si sforzi di dare una parvenza di verità a quanto riferito». Per gli avvocati, «Carminati non ha più alcun conto in sospeso con la giustizia, è attualmente privo di pendenze penali e soprattutto re-inserito in un contesto sociale e familiare del tutto lecito, nel quale lodevolmente egli sta cercando di recuperare» e poi «si prende cura costantemente del figlio ventenne e convive stabilmente con la compagna, Alessia Marini, con la quale gestisce il negozio di abbigliamento “Blue Marlin”». Le parole degli avvocati sono un punto di partenza per decifrare la pista nera. Il negozio fa capo alla “Amc Industry srl” di cui è amministratore unico Alessia Marini e Carminati non compare come socio. La “Amc industry” dal primo gennaio 2011 ha preso in affitto una villa a Sacrofano, alle porte di Roma, su una collinetta che domina tutta la zona. Si tratta di una bella abitazione, ben rifinita, su due piani, con grande piscina circondata da prato all’inglese e un lungo viale che separa dal cancello. Qui vive Massimo Carminati. La villa risulta di proprietà del commercialista Marco Iannilli, un professionista dalle alte relazioni che negli ultimi quattro anni è diventato protagonista della cronaca giudiziaria. È stato arrestato e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle, che ha fatto girare centinaia di milioni di euro. Ma ha anche un ruolo chiave nelle istruttorie su Enav, l’azienda pubblica che gestisce il traffico aereo, su Digint e su Arc Trade: procedimenti che ruotano intorno a Finmeccanica, il gigante statale degli armamenti hi-tech. È nei guai anche per la vicenda della mazzetta pagata da Breda Menarini, sempre del gruppo Finmeccanica, per aggiudicarsi la fornitura di autobus da Roma Metropolitane, in cui sono indagati anche l’ex sindaco Gianni Alemanno e Riccardo Mancini. Che in passato avevano avuto rapporti con Carminati: un passato forse non così remoto. Solo coincidenze? Quando nel febbraio 2010 i carabinieri del Ros arrestano Iannilli, lo trovano in possesso di una Smart intestata a Carminati. E quando il commercialista a novembre 2011 finisce ancora in cella, i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Roma e i militari del Ros annotano che «immediatamente dopo l’arresto di Iannilli, si recava presso la sua abitazione Massimo Carminati, allertato a tal proposito dalla moglie del commercialista». Perché tanto interesse? Negli atti non c’è risposta. Ma Iannilli per gli inquirenti era un esperto «nell’utilizzo di prestanome» e «per la costituzione o la rilevazione di società italiane ed estere, e la conseguente apertura dei relativi conti correnti, allo scopo di veicolare i profitti illeciti provenienti da operazioni di frode fiscale di notevole entità». Un professionista insomma che gestisce decine di milioni di euro e che sarebbe stato capace di dare copertura pulita ad attività in tutto il mondo, «il tutto per agevolare altri soggetti o organizzazioni criminali, in attività di riciclaggio di denaro». Il commercialista sembra pendere dalle labbra del “Cecato”. E non pare essere l’unico. C’è un altro uomo introdotto nei salotti buoni e di manifesta fede fascista che avrebbe subito il carisma dell’ex terrorista: Lorenzo Cola, tra i principali collaboratori di Pierfrancesco Guarguaglini, fino al 2011 numero uno di Finmeccanica. Per gli investigatori ha controllato un sistema illegale «in grado di influenzare le scelte societarie e commerciali dell’Enav». In questo modo ha creato operazioni di sovrafatturazione fra le aziende di Finmeccanica e società subappaltanti riconducibili a Iannilli: somme trasferite all’estero grazie alla rete del commercialista. Iannilli e Cola erano in affari con un altro estremista duro e puro: Gennaro Mokbel, condannato in primo grado come regista della truffa Fastweb con un riciclaggio da due miliardi. Ma è anche l’uomo che con l’aiuto, da una parte degli amici di Carminati e dall’altra della ’ndrangheta, è riuscito a far eleggere al Senato Nicola Di Girolamo, oggi detenuto ai domiciliari. In ogni indagine condotta dalla magistratura romana che riguardi grandi operazioni finanziarie spunta sempre qualcuno legato all’estrema destra, alla ’ndrangheta, agli 007 deviati, e a boss napoletani trapiantati nella Capitale. E su tutto si allunga l’ombra del “Cecato”. Perché lui vive in una terra di mezzo, perché sa come risolvere i problemi di chi abita negli attici dei Parioli e sa a chi chiedere nei meandri delle periferie più malfamate. L’intreccio di business e crimine, di manager e fasci, è esploso con i proiettili che il 3 luglio scorso in un condominio elegante della Camilluccia hanno ucciso Silvio Fanella. Gli inquirenti lo definiscono “il cassiere di Mokbel” e stava scontando ai domiciliari la condanna a nove anni proprio per l’affaire Fastweb-Telecom Sparkle. Uno degli aggressori è rimasto ferito ed è stato arrestato: Giovanni Battista Ceniti, ex dirigente piemontese di Casa Pound. Non doveva essere un omicidio. In tre, fingendosi militari delle Fiamme Gialle, volevano rapire Fanella e farsi rivelare il nascondiglio di un tesoro da sessanta milioni di euro. Solo una parte è stata poi ritrovata dal Ros: mazzette di denaro e sacchetti pieni di diamanti, sepolti in un casale ciociaro. La caccia a quel forziere è stata un’ossessione, che potrebbe avere incrinato antichi accordi tra i nuovi re di Roma. Già due anni fa avevano provato a rapire Fanella. E proprio le indagini sul primo raid hanno aperto un altro spaccato sui poteri occulti della Capitale. Per quel blitz la procura ha ordinato l’arresto di tre persone. Uno è Roberto Macori, 40 anni, fino al 2011 factotum di Mokbel che poi si è legato ad un altro dei senatori della Roma criminale: Michele Senese, detto “o Pazzo”, il padrone della periferia a Sud del raccordo anulare, dove domina lo spaccio. Anche lui passato dalla banda della Magliana, ma soprattutto boss legato alla camorra e ai casalesi: da un anno è in cella per omicidio. Anche lui abituato a pensare in grande e muoversi nell’imprenditoria, sempre in accordo con Carminati. Prima dell’arresto, assieme a Macori voleva mettere in piedi una truffa da 60 milioni, rilevando un deposito di carburante a Fiumicino. Entrambi erano in stretto contatto e Macori al telefono parlava dell’interesse «dei napoletani» per il tesoro custodito da Fanella. Non sarà un caso se a casa di Macori, dopo l’arresto, i carabinieri hanno sequestrato sei diamanti purissimi che sembrano essere uguali a quelli trovati nel caveau di Fanella. E gli investigatori non credono più alle coincidenze. Stanno ricostruendo un mosaico in cui tanti delitti, tante acrobazie finanziarie in cui compaiono gli stessi nomi e gli stessi metodi. I reduci dei Nar, gli emissari di ’ndrangheta e camorra, la manovalanza a mano armata reclutata tra i neofascisti: l’organigramma della nuova fascio-mafia romana.

Alemanno, il missino che ha scalato il Campidoglio. Per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gianni Alemanno, per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente. Genero di Pino Rauti, ideologo della Destra sociale, il giovane Alemanno è uno degli esponenti di punta della gioventù neofascista. D'origine barese, ricalca il modello dell'«intellettuale tenebroso», spesso vestito di nero, sempre apparentemente cupo, fascinoso per il gruppo che gli va dietro. Finirà implicato in una sola azione violenta, il lancio di una molotov all'ambasciata Usa. Ma siamo già alla fine della stagione incendiaria: Gianni nel frattempo ha conosciuto Isabella Rauti, ne frequenta la casa, di lì a poco sarà deputato con il Msi. La sua esclation politica, il suo «passaggio di grado» avviene soltanto nella terza vita, quando dopo aver accettato di malavoglia la trasformazione del Msi in An, viene lanciato prima come ministro (all'Agricoltura, probabilmente la sua stagione migliore), quindi nella sfida per la poltrona del Campidoglio. Stracciò Rutelli, ex «big» a corto di charme , ma tanto del merito fu anche suo. Luci e ombre nella sua stagione da sindaco, dove un uso assai disinvolto di concorsi e assunzioni per gli amici gli è costata il voltafaccia dei cittadini.

Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma, indagato per associazione mafiosa. Cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Nel suo fu comitato elettorale romano, ex deposito Atac di via della Lega Lombarda, giganteggia ancora lo slogan dell’ultima perdente campagna elettorale per il Campidoglio: “Il coraggio del fare”. Su Twitter, l’ultima foto è quella con “mia zia Maria di oltre 102 anni”, postata esattamente 20 ore prima del diluvio. Adesso che il diluvio è arrivato, quasi con un salto spazio temporale da brividi, Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma e primo ex sindaco ad essere indagato per associazione mafiosa, dirama note e messaggi in cui assicura: “Dimostrerò la mia totale estraneità e ne uscirò a testa alta. Chi mi conosce sa che ho sempre combattuto a viso aperto mafia e criminalità”. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, titolare dell’ inchiesta “Mondo di mezzo” , spiega che “alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione”, ma chiarisce che “la posizione di Alemanno è tutta da vagliare”. Parole che, fuori dalla vicenda giudiziaria s’intende, non stridono con l’adagio politico per cui nei palazzi s’è sempre descritto Alemanno come “un perfetto gregario, non un leader”, che ha fatto di questo “il segreto del suo successo”. Comunque, per la cronaca, a poche ore dalla notizia della procura l’unico a scomodarsi subito per dirsi pubblicamente “certo della sua estraneità alle accuse” è Ignazio La Russa. Il resto, silenzio assoluto. L’accelerazione dentro un romanzo criminale in piena regola, intanto, cade per Alemanno su un percorso di quieta ricostruzione di sé – e magari di una qualche destra possibile – dopo i nefasti fasti del potere: un percorso che fino a ieri aveva accenti gozzaniani. Con l’adorabile zia Maria, le scritte “noi Alemanno duriamo a lungo”, le foto invero tristissime con la pizza a taglio sulla scrivania, le presenze in piazza e a Tor Sapienza, e il tintinnare delle multe sulla panda rossa, e le foto dei temporali romani, gli immigrati, le foto dei Fori imperiali vuoti di macchine (“la grande tristezza”), le iniziative di presentazione a Rieti della “rivoluzione italiana”, i pomeriggi a convegno con “gli amici di Fratelli d’Italia” per il porto di Gioia Tauro, i plausi al ribellismo azzurro di Raffaele Fitto, il figlio che studia l’esame all’università, le trasferte a Orvieto, a Crotone, a Catanzaro, le presentazioni del suo ultimo libro. Insomma, il disegno complessivo di un crepuscolo politico battagliero, tutto sommato ben vissuto, nello stile di un grande avvenire dietro le spalle. Salvo naturalmente il puntuale, reiterato, a tratti ossessivo attacco a Marino, l’uomo che gli soffiò la poltrona in Campidoglio: comprensibile anche questo, in fondo. E non solo per motivi personali. Già, perché adesso che Alemanno è indagato, e il senatore grillino Andrea Cioffoli ne chiede le “dimissioni”, a Montecitorio parlamentari e giornalisti sbottano: “Ma dimissioni da che?”. Con il che chiarendo in che punto fosse precipitata – prima del diluvio appunto – la percezione pubblica di un personaggio che i più avevano salutato nella primavera del 2013, dopo i ballottaggi. Ecco invece Alemanno è sempre rimasto lì, da perdente ai ballottaggi, nel consiglio comunale a Roma. Mancata pure la catapulta delle europee con Fdi, ha continuato ad essere legato a doppio filo col regno che una volta guidò. Cercando anche di far dimenticare i lati peggiori di quei cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, fino alla sublime catastrofe della gestione della neve a Roma. Ombre che parevano sbiadite, consegnate al passato – anche grazie alle disgrazie dell’amministrazione Marino – e che invece ora tornano a brillare.

Buzzi, la mente della coop con le mani in pasta. Salvatore Buzzi, 59 anni, in galera è di casa. Fu lì che gli venne l'idea, e non si trovava in gita di piacere, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Il 29 giugno dell'85, dopo un convegno tenutosi a Rebibbia l'anno prima, fonda la cooperativa sociale per il reinserimento dei detenuti. «Non fu un atto volontario, ero un detenuto in attesa di giudizio», ricorderà con ironia. Nel 2004 la «29 giugno» (la chiamarono proprio così, «per tenere a mente quella giornata che aprì le nostre gabbie mentali») ha già 215 dipendenti. Uno snodo delle politiche ambientali e sociali del Comune. Di lì a poco, secondo gli inquirenti, per Buzzi ci sarebbe stata una seconda «illuminazione», ancora più brillante della prima. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno», dice nelle intercettazioni. Sistema perfetto per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici, il cui crocevia porta il nome di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni. Anche Buzzi godeva di buone entrature : «Solo in quattro sanno quello che succede e sono nell'ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta», dice a Carminati. E questi, senza esitazioni: «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi , amico mio».

Ozzimo, dal volontariato a ras del piano casa. Daniele Ozzimo è un ragazzo di Centocelle, classe '72, uno conosciuto dalle parti della Tiburtina perché s'è fatto largo nel volontariato, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Classico studente «impegnato» di Scienze politiche alla Sapienza, nel '94 s'iscrive al Pds, continua a occuparsi di servizi sociali e disabilità. Nel 2000 è segretario del partito al V Municipio, nel 2008 entra nel Consiglio comunale tra le fila del Pd. Ma è già un altro Daniele, rispetto al ragazzo di Centocelle che si batteva per handicappati e barriere architettoniche. Ora può contare su appoggi importanti e conoscenze influenti, che gli valgono la poltronissima di assessore alla Casa nella giunta Marino. Con deleghe dall'emergenza abitativa al piano casa, ai centri di formazione professionale. Ieri Ozzimo si è dimesso subito, non credendo ai propri occhi e reclamando la totale estraneità ai fatti, «per non arrecare in nessun modo danno all'amministrazione della città». Attestati di stima gli sono arrivati dal sindaco e altri esponenti del Pd cittadino, duramente colpito anche per il coinvolgimento nell'inchiesta di Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, e due consiglieri: Franco Figurelli ed Eugenio Patanè (regionale).

La foto che imbarazza il ministro Poletti, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una foto che sta girando online e che certamente imbarazzerà l'attuale ministro del Lavoro del governo Renzi, Giuliano Poletti. E' uno scatto risalente al 2010, quando Poletti era presidente della Lega Coop. E lo vede a tavola in un ristorante romano assieme ad alcuni dei personaggi che sono stati coinvolti e indagati nell'indagine sulla "cupola romana" che controllava gli appalti nella capitale con modalità di stampo mafioso. Poletti è seduto accanto a Franco Panzironi, ex ad della municipalizzata dei rifiuti Ama (arrestato); il deputato del Pd Umberto Marroni (non indagato); l'ex assessore alla Casa della giunta Alemanno Daniele Ozzimo (indagato);  Angelo Marroni, garante dei detenuti del Lazio (non indagato); Salvatore Buzzi, responsabile della coop "29 giugno" (indagato); l'allora sindaco Gianni Alemanno (indagato). per la cronaca, seduto a un altro tavolo c'è il pregiudicato Luciano Casamonica.

Da Poletti al Pdl tutti a tavola col capo clan Una foto racconta il potere di mafia Capitale. Nel 2010 il braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi organizzò una cena per ringraziare "I politici che ci sono a fianco". Da Rebibbia al Palazzo, l'incredibile carriera di un ex detenuto modello divenuto il dominus di una cooperativa da sessanta milioni, scrive Emiliano Fittipaldi “L’Espresso” C'è una foto che racconta alla perfezione la parabola di Salvatore Buzzi, secondo la procura di Roma capo della nuova Mafia capitolina insieme all'ex fascista Massimo Carminati. Lo scatto risale al 2010, e immortala una cena in un centro di accoglienza organizzata da Buzzi e la sua cooperativa, "29 giugno". Attorno al tavolo ci sono tutti quelli che a Roma contavano qualcosa. Politici di destra e sinistra, assessori e esponenti del clan dei Casamonica, tutti insieme appassionatamente. Buzzi, detenuto negli anni '70 e '80 per omicidio, poteva dirsi più che soddisfatto: era riuscito infatti a far sedere fianco a fianco l'allora sindaco Gianni Alemanno (oggi indagato con Buzzi per associazione mafiosa), l'ex capo dell'Ama Franco Panzironi (arrestato con Buzzi), un esponente del clan dei Casamonica in semilibertà, l'attuale assessore alla Casa Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd e pure lui indagato oggi dai magistrati: si è dimesso ), il portavoce dell'ex sindaco Sveva Belviso e il potente parlamentare del Pd Umberto Marroni, seduto, sorridente, vicino a Panzironi. Marroni (accompagnato dal padre Angiolo, al tempo garante dei detenuti della Regione Lazio) era capogruppo del Partito democratico in Consiglio comunale, sulla carta il capo dell'opposizione ad Alemanno. Oggi è onorevole, e siede alla Camera. «Per due anni - raccontò Buzzi - insieme ad altre nove cooperative abbiamo lottato contro Alemanno che voleva tagliarci i fondi. Abbiamo organizzato sette manifestazioni in Campidoglio. Alla fine abbiamo raggiunto un accordo e perciò c'è stata quella cena. Invitammo i politici che ci erano stati a fianco, per questo c'erano anche esponenti del Pd». Nella cena bipartisan Buzzi era riuscito a infilare anche Giuliano Poletti, attuale ministro del Lavoro e allora gran capo della Lega Coop. Poletti e Buzzi si conoscono bene: il ministro (non indagato e non coinvolto nell'inchiesta) è stato invitato dal braccio destro di Carminati anche all'assemblea della cooperativa 29 giugno per l'approvazione del bilancio 2013. Tanto che, per festeggiare l'arrivo di Giuliano al dicastero del Lavoro, lo scorso maggio Buzzi ha dedicato la copertina del magazine dell'associazione proprio all'ignaro Poletti. Numero del magazine sul quale troviamo le firma di Angiolo Morroni e interviste di Ozzimo e Giovanni Fiscon, dirigente dell'Ama anche lui finito in manette. Buzzi è uno che ci sa fare. La sua carriera ha dell'incredibile. Arrestato per omicidio, condannato a trent'anni, nel 1980 decide di mettersi a studiare e di laurearsi. Tre anni più tardi, risulta a "L'Espresso" riesce a diventare dottore in Lettere Moderne, con una tesi sull'attività giornalistica dell'economista Pareto. Un lavoro eccellente: Buzzi prende 110 e lode, è il primo a laurearsi all'interno delle mura di Rebibbia. Un anno dopo, sempre in carcere, si fa notare prendendo la parola in un convegno su "Misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna". La sua relazione chiede che la riforma carceraria venga applicata rapidamente, in modo da garantire ai carcerati misure alternative alla detenzione. Anche stavolta, applausi a scena aperta, tanto che Stefano Rodotà, allora deputato della sinistra indipendente, secondo l'Ansa dichiara che «la relazione svolta dal detenuto Buzzi rappresenta un documento concreto e di grandissimo interesse per cui d'ora in poi per le istituzioni non ci sono più alibi». Un detenuto modello, insomma. Buzzi due anni dopo corona il suo sogno, ed esce dalla cella. Fonda con altri soci la cooperativa «Rebibbia 29 giugno» e comincia a rifarsi una vita. Partecipa nel 1986 a un convegno sugli anni di piombo a Roma a cui partecipano ex terroristi dissociati che hanno aperto cooperative, e racconta di aver ottenuto - con la sua - alcuni lavori di ristrutturazione sulla Tiberina, persino quelli per la ristrutturazione di una caserma dei carabinieri. «Se non ci saranno altri lavori» spiega dal palco «tutto finirà. Cosa aspetta il comune di Roma a dare una destinazione ai 500 milioni di lire che la Regione Lazio ha attribuito ad ogni comune sede di istituzioni carcerarie?». Non sappiamo quando Buzzi decide si tornare al crimine, né quando conosce Carminati e e i sodali con cui costuira l'associazione mafiosa che - ha spiegato Giuseppe Pignatone - da lustri domina Roma attraverso tangenti, intimidazioni, usura, riciclaggio e corruzione. Sappiamo che di soldi, alla sua cooperativa, ne arriveranno a bizzeffe. Grazie, soprattutto, agli accordi con la politica: spulciando il bilancio 2013, si scopre che i ricavi della galassia presieduta da Buzzi hanno sfiorato i 59 milioni di euro, mentre il patrimonio di gruppo ha superato i 16,4 milioni. Possibile che la politica, in tutti questi anni, non si sia mai accorta che l'ex detenuto modello era tornato dalla parte dei cattivi?

«Ohh ma che... me so’ comprato Coratti» Intercettazioni, imbarazzo nel Pd romano. Secondo gli inquirenti che indagano sulla Mafia Capitale, all'esponente dem Mirko Coratti sarebbero stati promessi "150 mila euro di stecca" qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh capisci». A buon intenditor poche parole. E l'ultimo Re di Roma, Massimo Carminati detto “Er cecato”, le parole sa dosarle con attenzione. Metafore e mezze parole per dire e non dire. I suoi interlocutori però capiscono al volo gli ordini. Mettersi la minigonna e andare a battere è un messaggio preciso che coglie al volo Salvatore Buzzi, il presidente della Cooperativa 29 giugno, legata a Legacoop, imprenditore di riferimento di Carminati e con quest'ultimo finito agli arresti nell'operazione sulla Mafia capitale della procura antimafia di Roma. Quella frase vuol dire che il gruppo, che i pm definiscono Mafia Capitale, ha necessita di trovare nuovi referenti politici nell'era post Alemanno. «A seguito del mutamento nella maggioranza del comune di Roma sortito dalle consultazioni elettorali, investe nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi». All'ordine di Carminati segue una campagna acquisti nella nuova compagine di maggioranza. «La scuderia è pronta», commenta Buzzi, che i pm definiscono come uomo in «indiretta collaborazione con Carminati», riferendosi ad alcuni amici politici che hanno ricevuto incarichi istituzionali. Tra le figure agganciate a sinistra, i magistrati e gli investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo, indicano Mirko Coratti. Esponente del Partito democratico e presidente dell'Assemblea capitolina. Un'insospettabile cui si rivolge Buzzi, il quale sostiene che« solo per metteme a sede a parla’ con Coratti, 10mila gli ho portato». E' sempre il presidente della cooperativa rossa a rivelare altri particolari captati dalle cimici dei detective dell'Arma. A Coratti sarebbero stati promessi 150 mila euro di stecca qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro sul sociale. «Ohh ma che..me so’ comprato Coratti» esclama il manager della 29 giugno. Un ulteriore riferimento al presidente del Consiglio comunale è in una conversazione tra il boss Carminati e lo stesso Buzzi. «Con ste bustine, il libricino nero e bustine qua, eh!» chiede il Re di Roma, «Vedo Coratti, il segretario vediamo ste cose con lui» risponde l'imprenditore riferendosi alle «bustine» sul tavolo. I rapporti diretti con Coratti, scrivono i magistrati, non sono millanteria. «Emerge non solo dalle conversazioni intrattenute con il capo segreteria di costui finalizzate a costruire momenti d’incontro, ma anche da contatti tra Buzzi e Coratti, riconducibili alla gara del multimateriale di Ama e ad altre questioni di rilevanza pubblica», scrive il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza di custodia cautelare. A tirare in ballo il politico del Pd un'altra frase intercettata pronunciata sempre da Buzzi: «Perché Coratti sicuramente me chiede da divide già l’anticipo per cui io glie dò un lotto.. ah gliel’ho detto che il milione già se lo so…possono..». Intercettazioni che hanno fatto luce sul sistema de "Er cecato" e che stanno mettendo in forte imbarazzo il Pd capitolino.

Killer neri e violenti rossi. Il "cupolone" trasversale nel nome degli affari. La strana alleanza tra l'ex Nar Carminati e l'uomo delle cooperative Buzzi. Distanti in politica ma uniti nel mettere in società i loro contatti per far soldi, scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Il Rosso e il Nero, a braccetto, nel nome degli affari. Secondo la procura di Roma, la capitale era coperta da un «cupolone» rigorosamente trasversale, che per i magistrati ha, in pratica, reinventato la mafia. Perquisizioni dei Carabinieri in Campidoglio nell'ambito di un'inchiesta su un'organizzazione di stampo mafioso. Ma se toccherà alle toghe dimostrare la concretezza delle accuse, non può non colpire la «strana coppia» al centro dell'indagine che ha sconvolto la città eterna. Da una parte c'è Massimo Carminati, l'esponente dei Nar legato alla banda della Magliana (è il «Nero» nell'epopea di libri, film e tv sulla banda, ma il suo vero soprannome è il «Cecato»). Dall'altra c'è Salvatore Buzzi, una condanna per omicidio risalente agli anni '80 prima di far carriera come presidente della cooperativa di detenuti ed ex detenuti «29 giugno», legata a Legacoop. Che c'azzeccano Nar e coop rosse? Che ci fanno insieme due tipi così? Fanno soldi, nel «mondo di mezzo». Secondo la procura di Roma, la loro «cupola» pilotava e lucrava su gare e appalti pubblici, dai rifiuti ai campi nomadi, dalla manutenzione del verde pubblico ai centri d'accoglienza. Tutto contando su solidissimi appoggi politici, naturalmente trasversali anch'essi. Tant'è che tra gli indagati c'è l'ex sindaco di centrodestra della capitale, Gianni Alemanno, perché per la procura uomini a lui vicini erano legati all'organizzazione. Ma c'è anche l'assessore alla Casa della giunta Marino targata Pd, Daniele Ozzimo, come pure il presidente dell'assemblea capitolina, Mirko Coratti. E tra i nomi citati a vario titolo nelle mille e passa pagine di ordinanza c'è quasi tutta la politica locale a 360 gradi. Lo slogan, insomma, è che «la politica è una cosa, gli affari so' affari», come riassume, intercettato, proprio Buzzi, rispondendo a chi gli chiede come, lui di sinistra, possa lavorare con Carminati. E se la guida è bicefala, ognuno cura i rapporti con gli «amici» della propria parte politica, nel comune interesse. E bicefale, trasversali, inevitabilmente lo diventano anche le ramificazioni del comitato d'affari. La «mafia capitale», come l'ha battezzata la procura di Roma. O semplicemente la «scuderia», per rubare proprio a Carminati e Buzzi la metafora ippica che i due usano a proposito della nuova giunta di Ignazio Marino, sperando che dei «nove cavalli» alla fine ce ne fossero almeno «sei dentro», così «la scuderia è pronta» - spiega Buzzi - e «poi si cavalcherà», replica Carminati. Diversi, appunto, ma soci, collaborativi, in grado di usare sia le amicizie che le intimidazioni. Tanto che Buzzi racconta a un collaboratore di quella volta in cui, non riuscendo a parlare al capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per lo sblocco di un finanziamento, era intervenuto con una telefonata Carminati: «Aò alle tre meno cinque scende, dice, “ho parlato con Massimo, tutto a posto domani vai”... aò, tutto a posto veramente! C'hanno paura de lui». Intimidazione o amicizia, l'importante è il business. E appunto la vocazione agli affari, annotano gli inquirenti, «non ha barriere politiche». Con Buzzi che, subito dopo le ultime comunali romane, quando Marino al ballottaggio sconfigge Alemanno, si rammarica ma assicura di non essere impreparato. Perché lui, e l'organizzazione, erano già pronti a qualunque evenienza, indipendentemente dall'esito del voto. «Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati», racconta intercettato, «e mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino». Sono i traghettatori e parlano con tutti. Mediatori, sensali, collettori, ricattatori quando serve, portano le tangenti e decidono le assunzioni, definiscono gli affari e spartiscono la torta, raccomandano e suggeriscono, tramano e fanno girare il mondo. Sono le anime del mondo di mezzo, sono i padroni del purgatorio, né vivi né morti. Non esiste più destra e sinistra, ma alto e basso, sopra e sotto. L'obiettivo è sempre lo stesso: denaro e potere. Nessun timore nel mettere le mani su una giunta e nel lavorare per fare il bis con la successiva, di colore opposto. Nessun problema nel trovare gli agganci, a destra prima e a sinistra poi. Il Rosso e il Nero, insieme alla conquista di Roma.

"Bustoni di soldi a tutti, anche a Rifondazione". Nelle carte dell'indagine Carminati descrive la rete di contatti tra criminali e politici. I pm: "Era intoccabile perché foraggiava partiti di ogni genere", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Nel mondo di Massimo Carminati, «il mondo di mezzo» che ha dato il nome all'inchiesta della Procura di Roma, è normale che un ex Nar vada a cena con un politico. È lo stesso Carminati a dirlo al suo braccio destro militare Riccardo Brugia. Per il procuratore Giuseppe Pignatone l'intercettazione più significativa di tutta l'indagine è quella in cui Carminati spiega la teoria del mondo di mezzo, quello dove «ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo...un mondo in cui tutti si incontrano e dove è possibile che un domani io mi trovi a cena con un politico». Perché per i pm la struttura messa in piedi da Carminati era una vera e propria cerniera tra ambienti criminali e settori istituzionali, che traeva il suo potere e la sua forza di intimidazione dai legami storici con la Banda della Magliana e con l'eversione nera e il cui sviluppo criminale si era evoluto al punto da individuare come terreni privilegiati della sua azione, quelli dell'economia e degli appalti. Carminati utilizzava i suoi trascorsi criminali per convincere gli imprenditori ad affiliarsi alla sua organizzazione. Con uno di questi, che incuriosito gli aveva chiesto quale fosse a suo dire la rappresentazione cinematografica più calzante che era stata fatta del suo personaggio, si mette a fare una vera e propria classifica del suo palmares: «Bene Romanzo Criminale , ma solo il film, perché la serie è una buffonata, ma la vera banda della Magliana è quella descritta su History Channel». Per i magistrati sarebbe un errore derubricare il ruolo di Carminati a quello di pensionato del crimine. Piuttosto deve essere considerato un personaggio dalla caratura criminale assoluta, un «intoccabile per aver foraggiato partiti di ogni genere che rende intoccabili quelli che con lui si associano». Nell'ordinanza viene citata un'informativa del Ros in cui Salvatore Buzzi spiegava di aver saputo dallo stesso Carminati del suo coinvolgimento negli affari illeciti in cui era coinvolta Finmeccanica: «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica, bustoni di soldi. A tutti li ha portati Massimo. Non mi dice i nomi perché non me li dice....tutti! Ecco perché ogni tanto adesso...4 milioni dentro le buste...Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l'ho portati a tutti! Pure a Rifondazione!”». I pm citano una conversazione tra Carminati e l'ex direttore commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere, imputato di corruzione per vicende interne alla controllata pubblica, in cui quest'ultimo chiede protezione all'ex Nar: P.:«Chi c'hai te di cose là...per difendermi?» C.:«C'ho il gruppo....so' tosti loro, comunque sono tosti, so' duri insomma, eh. È dura cioè, però capito loro una volta che si liberano del processo una cosa è finita la festa no, che cazzo te ne frega...vuoi mette. A te praticamente l'accusa viene da coso, da Borgogni la tua, l'accusa de Borgogni». Quando sta per cambiare la maggioranza al Comune cominciano le strategie per tessere rapporti con la nuova amministrazione. Carminati dà a Buzzi indicazioni precise: «Mettiti la minigonna, amico mio, e vai a batte co' questi». L'obiettivo è di tessere rapporti con Mirko Coratti, presidente dell'assemblea comunale, e di legare il più possibile a loro il dirigente delle segreteria del nuovo sindaco Marino, Mattia Stella. Dopo la nomina di Giovanni Fiscon a direttore generale dell'Ama, frutto di una pesante attività di lobbying, i pm intercettano una telefonata nel corso della quale il manager informa Buzzi della nomina e questi gli dispensa alcuni consigli tranquillizzandolo nel caso le elezioni comunali le avesse vinte Marino: «Marino viaggia in area Zingaretti, capito? Riusciamo a parlarci, tranquillo». La ricerca di interlocutori nell'amministrazione romana non ha confini nè colori. La mancata vincita di Alemanno, certo, li ha rammaricati («Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva sta' assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno che cazzo voi di più»). Ma si sono presto riorganizzati e le trattative corruttive sono andate avanti anche con l'amministrazione successiva. Buzzi riferisce che Franco Figurelli, capo segreteria dell'assemblea, veniva retribuito con mille euro mensili, oltre a 10mila euro pagati per poter incontrare Coratti, mentre a quest'ultimo venivano promessi 150mila euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Buzzi intercettato spiega quante ruote vanno unte nel suo lavoro: «Pago tutti, anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi?». Poi prosegue: «La cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, eventi, faccio pubblicità, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c'ho una cena da 20mila euro pensa... questo è il momento che paghi di più perché stanno le elezioni comunali...noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune». Cercando sponde anche nei media a proposito di un appalto contestato per un centro rifugiati, salta fuori un sms della parlamentare Pd pugliese Micaela Campana in risposta alla richiesta di Buzzi di presentare un'interrogazione. Il messaggio della deputata, annotano gli investigatori, si chiude con un «bacio grande Capo». Buzzi vanta buoni rapporti anche con il vice di Ignazio Marino, Luigi Nieri di Sel. Tanto da caldeggiare direttamente con lui la nomina di un capo dipartimento che «avesse risposto alle loro esigenze». Dopo sms e chiacchiere, Buzzi conclude: «Dacce una mano perché stamo veramente messi male con la Cutini (assessore alle Politiche sociali che aveva voce in capitolo, ndr)». E Nieri lo rassicurava: «Lo so lo so, come no? Assolutamente...va bene? Poi ce vediamo pure...».

Il business dei migranti e l'asse con le cooperative. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione. Non è solo il centrodestra il terreno di coltura dell'organizzazione criminale guidata da Massimo Carminati. Nel corso di una conversazione intercettata nell'ufficio di Salvatore Buzzi il 15 novembre 2013, Claudio Bolla illustra a tre avvocati la storia delle cooperative costituite dallo stesso Buzzi. Qui di seguito il riassunto dei pubblici ministeri: «Negli anni 1999/2000 la cooperativa (29 Giugno Onlus, ndr) entrava in contatto con la Lega Coop dell'area emiliano-romagnola, con la quale iniziò a collaborare nell'ambito delle pulizie industriali. Ciò faceva compiere un primo salto di qualità alla cooperativa stessa, la quale decideva di interessarsi anche della raccolta dei rifiuti e manutenzione del verde. Bolla spiegava quindi che, nel tempo, la cooperativa 29 Giugno era cresciuta sempre di più, tanto che nel 2010 venne deciso di costituire anche la cooperativa 29 Giugno Servizi, attiva ne settore delle pulizie. (...) A tal proposito, Bolla precisava: «...però nasce e c'ha uno scatto di qualità nel momento in cui ci viene affidata l'emergenza Nord Africa, che riusciamo anche con l'apporto della Lega Coop a contendere al gruppo della Cooperativa cattolica: l'Arciconfraternita.. il rapporto con loro, soprattutto dal punto di vista diciamo delle attività è sempre di l a 5, nel campo dell'accoglienza richiedenti asilo, nel campo dell'accoglienza minori...ai Misna, perché abbiamo anche quel settore... però già essere entrati... contemporaneamente riusciamo con Eriches anche nel campo dell'emergenza alloggiativa». Poi precisava: «...Questo 1 a 5 però ci ha consentito di far si che il consorzio Eriches, diciamo da un consorzio poco significativo che a stento raggiungeva il milione di curo fino al 2010... abbia avuto un fatturato significativo, che stiamo intorno ai 16 milioni di euro».

Rapporti anche con Zingaretti. Il 22 gennaio 2013 Salvatore Buzzi parla nel suo studio con Carlo Guarany, referente dell'organizzazione per i rapporti con la pubblica amministrazione. L'associazione a delinquere è preoccupata di un'eventuale vittoria del centrosinistra alle amministrative, ma i rapporti con alcuni esponenti del Pd non sembrano poi cattivi. In particolare, con l'ex capogruppo dem in consiglio comunale e ora deputato Umberto Marroni (candidato alle primarie ma sconfitto da Ignazio Marino), con Mario Ciarla (attuale presidente della Commissione Agricoltura della Regione Lazio) e con il governatore laziale Nicola Zingaretti.

Buzzi: è vero, è vero se vince il centro sinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene.

Guarany: e chi ci va più dal Sindaco poi..(...)

G: va bene, senti un po' Salvatore, siccome poi oggi pomeriggio devo passare da Marroni per la... siccome mi ridirà di «Ciarla» (fonetico, ndr) ci pensi tu a fissa' con lui?

B: con Ciarla?

G: eh

B: ma si fa una cena, famo un incontro.

G: no, no, ma io pensavo di vederlo io e te, andarlo a trova'... incontrarlo io e te.

B: esatto.

G: si, si, poi magari lo famo venì quando famo la cosa con Zingaretti.

S: esatto..

Tangenti a Patané. Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un'intercettazione del 16 maggio 2014: Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un’intercettazione del 16 maggio 2014: «Buzzi: eh .. se lui riesce .. se Massimo se riesce a piglià quello della destra noi pigliamo (inc) ... sta a loro trovasse co la destra! ... terza cosa .. Patané voleva 120 mila euro a lordo .. allora gli ho detto "scusa ... Caldarelli: de quale? .. parli de? Gauarany: del Multimateriale"».

Altri agganci con il Pd. Nelle conversazioni del sodalizio si accenna a un non megli oprecisato Leonori in riferimento al Pd. Potrebbe trattarsi di Marta Leonori, deputata chiamata da Ignazio Marino nella giunta del Comune di Roma per «liberare» un posto all’inquisito Marco Di Stefano. «Proseguendo nell’analisi degli appalti sui quali focalizzare l’impegno delle proprie risorse, Guarany palesava anche la necessità di trovare un sostegno politico( «madobbiamo sceglie la strada politica pure .. capito .. la strada politica sono 2 ..odentro il Pd.. che sarebbe questa de Leonori.. »). In merito ad una non meglio precisata gara da “60 milioni”,Massimo Carminati ricordava ai presenti che Regione Lazio potevano contare anche sull'appoggio di Luca Gramazio».

Primarie «inquinate». Nell’ottobre 2013 il sodalizio criminale tenta di accreditarsi ulteriormente con il Pd romano sostenendo i principali candidati alla segreteria locale: il senatore Lionello Cosentino, poi vincitore, e Tommaso Giuntella. Nelle intercettazioni compare pure il nome di Daniele Pulcini,l’imprenditore da cui il piddino Marco Di Stefano affittò due immobili a 7 milioni di euro per Lazio service, società della Regione. Il 28 ottobre 2013 «Salvatore Buzzi tentava di effettuare delle chiamate e, non riuscendo a mettersi in contatto, esclamava: “non risponde Daniele!“ (riferendosi a Daniele Pulcini). Alla domanda di Massimo Carminati: “come siete messi per le primarie?“ Buzzi rispondeva: “stiamo a sostene' tutti e due ... avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e 80 a Cosentino“, puntualizzando: “Cosentino è proprio amico nostro“.

Spunta anche il ministro Cancellieri. In una conversazione del1 4novembre 2012 tra gli indagati si fa riferimento anche ad una telefonata di Gianni Alemanno all’ex ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri per ottenere risorse pubbliche per Roma. «Quadrana da Alemanno .. . ha chiamato la Cancellieri(Ministro dell’Interno,ndr), mo domani si sente Salvi con questo del Ministero, intanto vediamo un attimo di riuscire a far partire, anche tramite solo una lettera ... che serve a Salvi per sbloccare gli impegni».Gramazio precisava che la lettera da parte del Ministero ad Alemanno,sarebbe stata sufficiente per sbloccare i fondi.

C’è pure Bettini. Il 9 aprile 2014 Buzzi chiamò Carlo Guarany dicendogli che sarebbe andato lui da Coratti (presidente del consiglio comunale di Roma), quindi gli chiedeva di andare da Bettini (Goffredo Bettini, deus ex machina di Ignazio Marino; ndr).

L’affare «verde». In una intercettazione del novembre 2012 Fabrizio Testa afferma: «perfetto ... importantissimo ... D'Ausilio (verosimilmente Francesco D’Ausilio: Capogruppo PD, ndr) chiama Giovanni Quarzo (Consigliere Roma Capitale-Presidente Commissione Trasparenza, ndr) e gli dice “Sul verde Roma stanno (inc) i soldi“ dice “voi chi c’avete“... allora ha detto “io c’cho Buzzi della 29 giugno è il mio referente per tutto il verde di Roma».

"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro 'imprenditoriale' di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce  ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo  dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha  avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.

Minori come schiavi ai Mercati generali. Bambini egiziani ospiti delle case di accoglienza che lavorano oltre 12 ore al giorno per pochi euro, intimidazioni e ricatti alle famiglie che hanno pagato il viaggio della speranza verso l'Italia. È la realtà del Centro Agroalimentare di Guidonia, alle porte di Roma, il più grande del paese e terzo in Europa come volume d'affari. Malgrado gli sforzi di sorveglianza e le inchieste della magistratura continua a essere preso d'assalto da giovanissimi in cerca di un lavoro che si trasforma spesso in un brutale sfruttamento, scrivono Rosita Fattore e Caterina Grignanisu La Repubblica”.

Caporalato al servizio dei negozi di frutta, scrive Rosita Fattore. Come una prigione il Centro agroalimentare di Roma è circondato da una rete di acciaio alta due metri e mezzo, con sopra 20 centimetri di filo spinato. Tre turni di agenti controllano continuamente l'intera area con cani lupo al guinzaglio, ma non è per non far uscire qualcuno: scoraggiano l'ingresso dei non autorizzati. Ma ogni giorno decine di minori scavalcano le recinzioni e spostano cassette di frutta per 12 ore, guadagnando 20 euro a giornata. Questo prevedeva l'accordo che le loro famiglie hanno sottoscritto in patria, quando li hanno spediti attraverso il mare, a fare fortuna in Italia. Per la legge sono le vittime dell'intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro minorile. Caporalato insomma. Il Centro agroalimentare di Roma, a Guidonia, è il mercato generale più grande d'Italia, il terzo in Europa per volume di affari. Loro, i clandestini che scavalcano, sono ragazzi egiziani fra gli 11 e i 18 anni. "Abbiamo eseguito anche 200 respingimenti al giorno  - racconta Flavio Massimo Pallottini, direttore della Car scpa, società proprietaria dei 140 ettari di via Tenuta del Cavaliere - ma non possiamo fare molto se non accompagnare questi ragazzi fuori dal perimetro del Car. È un fenomeno preoccupante e odioso che riguarda le persone di età minore che alloggiano nelle case famiglia che sono pagate dai contribuenti, e che magari il giorno vanno a fare cose di questo tipo". Sono giovani arrivati in Italia senza adulti che li accompagnassero e quindi non possono essere ricondotti nella nazione di provenienza. "La presenza di minori immigrati irregolari a Roma è rilevantissima - osserva il vicecomandante della Polizia Locale di Roma Capitale, Antonio Di Maggio - Il nostro Nucleo assistenza emarginati (Nae) riceve decine di richieste ogni giorno. I ragazzi arrivano al centro, dicono di essere minori e chiedono assistenza da parte del Comune". L'impressione è che sappiano perfettamente che la legge italiana li tutela e che siano informati perfino degli spostamenti che questo ufficio ha subito negli ultimi tempi, da viale Trastevere e via Goito. "Arrivano al Nae vestiti bene, a volte con dei telefonini - prosegue Di Maggio - È chiaro che dietro a questo fenomeno ci sono sicuramente uno o più gruppi, più o meno strutturati, che gestiscono questa organizzazione". Le indagini sul caporalato diffuso in tutta la Capitale partono dalle frutterie etniche. Il 3 gennaio 2012 proprio Di Maggio diffonde una circolare, in cui chiede a tutti i dirigenti delle unità operative di comunicare al comando centrale "i dati completi delle attività commerciali gestite da persone originarie del Nord Africa". Un documento che trascina Di Maggio nella polemica politica, tacciato da alcuni esponenti del consiglio capitolino di razzismo. In realtà il vicecomandante vuole leggere dentro un fenomeno in cui il comando è inciampato per caso pochi mesi prima. Da alcuni sopralluoghi nei negozi di frutta gestiti da stranieri emerge che in quei locali spesso lavorano, e addirittura vivono, "stranieri che soggiornano illegalmente nel paese". O che da lì si spostano per andare a lavorare altrove. L'intuizione è giusta, bastano pochi mesi e viene a galla lo scandalo del caporalato che dilaga nel Centro agroalimentare di Guidonia. "C'è un fenomeno particolare nell'ortofrutta ed è la crescita di questi negozi gestiti da extracomunitari, in particolare egiziani che hanno creato in questo settore un tessuto e una rete importante - spiega ancora Pallottini che riveste anche la carica di amministratore delegato della Cargest srl, società che gestisce operativamente il centro di Guidonia - ed è egiziana la componente maggiore che riscontriamo tra chi si introduce abusivamente. I minori entrano nel Car in modo illegittimo scavalcando, forzando le recinzioni, nascosti nei camion, risalendo dai campi. Vengono per lavorare e a volte per accaparrarsi gli imballaggi". Gli abusivi nei mercati ci sono sempre stati. Ci sono qui come a Torino, Milano e Napoli o altrove. Ma a Guidonia capita che i ladri di lavoro siano minori, "infra-sedicenni e addirittura bambini", sottolineano i rapporti della Polizia Locale di Roma Capitale che lo scorso 18 dicembre hanno fatto scattare un'operazione nel Car. Quel giorno gli investigatori trovano al lavoro 12 minori e denunciano due operatori del Car. Secondo gli inquirenti, il punto di collegamento tra l'arrivo dei ragazzi in Italia e il loro sfruttamento sarebbero proprio i negozi di ortofrutta gestiti da egiziani che sfruttano vincoli di conoscenza o anche familiari con chi lavora al Car. Sono loro che gestirebbero in modo più o meno diretto la manodopera. Il fenomeno era talmente diffuso che la Cargest ha cercato una soluzione. Qualche mese fa ha riaperto il bando per la movimentazione di merci all'interno del centro. La vecchia azienda che lo faceva non riusciva a garantire efficienza. La Rossi Transworld si è aggiudicata l'appalto e ha iniziato a lavorare a pieno regime. Dopo neanche due settimane, a metà settembre, è scoppiata però una gigantesca rissa proprio tra i banchi dell'ortofrutta. Un gruppo di "abusivi" come sono definiti nei verbali, ragazzi e tutti stranieri, ha aggradito i lavoratori della Transworld. È una vera e propria guerra di territorio. "Il grave episodio di settembre  -  osserva Pallottini - attesta che il lavoro nero a Guidonia sta trasformandosi in qualcosa di simile ad un racket intimidatorio dedito a violenze e pretese egemoniche di tipo criminale". Un gruppo di facchini abusivi ha aggredito lavoratori regolari di un'azienda che opera al Centro Agroalimentare di Roma. La denuncia arriva dall'amministratore delegato della società di gestione del Car Massimo Pallottini. "Evidentemente hanno sentito crollare le loro ambizioni di controllo sulle attività di carico e scarico nei padiglioni ortofrutticoli, così ieri sera una cinquantina di giovani abusivi stranieri ha fatto irruzione nel Padiglione Ovest del Mercato Ortofrutticolo per aggredire i lavoratori regolari di una azienda logistica privata che, da lunedì, ha assunto in concessione i servizi di trasporto e spostamento di pedane e cassette nel Car". Dopo le indagini e la rissa, oggi la situazione è più o meno calma sia dentro che fuori dal centro. I respingimenti sono una quarantina ogni giorno. Una quiete tra una tempesta e l'altra. La Cargest ha potenziato la sicurezza al punto di investire in sorveglianza 80mila euro al mese. "Va da sé che una struttura come questa - dice ancora Pallottini - non può arrivare a spendere 2 milioni di euro, cioè il doppio di quello che c'è ora in bilancio, solo per tutelarsi da questo fenomeno". Dal canto loro, le forze dell'ordine non hanno personale a sufficienza per presidiare l'accesso e il perimetro del mercato e le cose rischiano di aggravarsi ulteriormente quando i soldi finiranno.

Il procuratore: "Fenomeno indecoroso", scrive Rosita Fattore. "Siamo di fronte a un fenomeno indecoroso per il nostro paese". Con queste parole Luigi De Ficchy, procuratore di Tivoli, descrive quello che ogni giorno avviene al di là dei cancelli dei mercati generali di Roma. Un vero e proprio sistema di facchinaggio abusivo che spesso si avvale della manodopera di minori immigrati irregolarmente.

Procuratore, può dirci cosa sta succedendo?

"Polizia e Carabinieri svolgono controlli giornalieri e da settembre una nuova cooperativa di facchini si è stabilita regolarmente all'interno del Centro agroalimentare di Guidonia. Questo ha tolto un po' di spazio agli irregolari e la situazione sta migliorando, ma nel Car rimane un grande interesse dietro allo sfruttamento del lavoro irregolare di adulti e minori".

Quando parla di sfruttamento fa riferimento al caporalato?

"Posso dirle che pensiamo che c'è una rete di attività che cerca di incanalare queste persone sin dalla partenza dal loro paese.  Arrivano qui con l'idea di poter lavorare al Centro agroalimentare, ma al momento non abbiamo elementi sufficienti per andare oltre le ipotesi".

Chi sono i ragazzi che vanno a lavorare a Guidonia, da dove arrivano?

"Quando vengono fermati ovviamente non dicono nulla: non raccontano chi li ha introdotti all'interno del centro né per chi lavorano. Alcuni hanno mostrato dei documenti che dichiaravano che sono nelle case famiglia di Roma e da lì si muovono come possono e vogliono...".

Ma queste strutture non hanno delle responsabilità nei confronti dei minori che ospitano?

"Il loro dovere verso i ragazzi è lo stesso di un genitore o di un tutore. Non c'è obbligo di tenerli all'interno della casa famiglia, o di seguirli una volta fuori".

Quindi vengono lasciati soli?

"Ci sono delle regole riguardo alle attività, ma non è facile sorvegliare questi ragazzi quando escono dalle strutture. Si potrebbe però valutare una sanzione amministrativa, per esempio la revoca delle autorizzazioni per chi non vigila".

E all'interno del Car come funziona la sicurezza?

"E' un centro privato e quindi la vigilanza interna non spetta allo Stato. Certo, ci sono stati dei pattugliamenti sul posto, ma abbiamo enormi problemi di controllo del territorio: un'estensione troppo grande per le risorse che abbiamo. Magari potessimo avere un commissariato solo per gli accessi al Car".

L'avvocato: "Manca una legge ad hoc", scrive Caterina Grignani. Quando arriva un ragazzo che dichiara di essere minorenne, le forze dell'ordine lo portano da un medico che attraverso il rilevamento del polso stabilisce se è al di sopra o al di sotto dei 18 anni. I minori vengono portati nei centri di accoglienza che ne diventano, di fatto, i tutori. Idealmente in queste strutture dovrebbero imparare l'italiano, ricevere informazioni sulla loro condizione legale ed essere avviati a un lavoro che gli consentirà, una volta compiuti i 18 anni, di ottenere il permesso di soggiorno. In realtà questo avviene in poche realtà e la via per sopravvivere si apre fuori dal centro e dalla legalità. L'avvocato Antonello Ciervo, dello studio legale Pernazza-D'Angelo di Roma, è membro dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) che recentemente ha vinto due cause con minori egiziani. Dato che ai minori si applica la legge del paese di provenienza, e in Egitto la maggiore età si raggiunge a 21 anni, questi ragazzi sarebbero potuti restare nel centro di accoglienza altri tre anni.

Quale legge tutela i minori migranti non accompagnati che arrivano in Italia?

"Una legge al momento non esiste. L'Italia ha aderito a diverse convenzioni per tutelare i minori ma una norma specifica non c'è, quindi, in via ordinaria, si applica il Codice civile. Al momento è in discussione alla Camera il progetto di legge Zampa, fortemente voluto da molte associazioni di tutela, in particolare da Save the Chidren. È alla Commissione Affari costituzionali. Non affronta tutti i nodi e soprattutto in generale considera i minori stranieri più stranieri che minori. Così come è stato presentato il progetto di legge sembrerebbe introdurre una normativa speciale per minori all'interno di quella per gli stranieri".

I centri di accoglienza sono tenuti al controllo dei minori durante il giorno? È possibile che i minori possano girare per la città (e di conseguenza lavorare in condizioni di sfruttamento)?

"I centri sono tenuti a controllare gli ospiti all'interno del centro. Ai minori viene affidato come tutore il sindaco del Comune dove il centro si trova. I ragazzi possono uscire, c'è un controllo sugli orari, ma tendenzialmente sono liberi di andare in giro. Se si verificano episodi di lavoro in nero e di sfruttamento e chi gestisce il centro non se ne accorge, questo significa che c'è scarsa diligenza".

Con l'aumento degli arrivi appare evidente che mancano le risorse per affrontare la questione.

"I centri idealmente dovrebbero organizzare un avviamento professionale in modo che i minori una volta diventati maggiorenni abbiano un punto di riferimento lavorativo e quindi maggiori possibilità di ottenere un permesso per lavoro. È vero che i fondi mancano, le strutture sono sempre al limite e si è costretti a ragionare in termini emergenziali. Ma credo che ci sia anche una scelta politica di fondo, basti pensare che praticamente non esistono uffici per l'assistenza legale dei ragazzi".

Dall'Egitto sognando di fare fortuna, scrive Caterina Grignani. "Fashkara" è il nome che in Egitto usano per descrivere chi vive in Italia e a casa ci torna solo per le vacanze. Con vestiti di marca, l'iPhone e soprattutto i racconti. Chi in Egitto ci vive, ascolta e immaginando quella vita migliore inizia a pensare al viaggio. I giovani egiziani sono invidiosi di quelle che in realtà sono favole perché i lavori che gli egiziani svolgono in Italia sono faticosi, malpagati e spesso sconfinano nello sfruttamento. La voglia di lasciare il proprio Paese passa anche attraverso l'osservazione delle famiglie di chi è partito: iniziano a stare meglio, a comprare auto, elettrodomestici e vestiti, a migliorare, con i soldi che gli vengono inviati, la loro condizione. I social network hanno un forte peso: sono racconti ancora più credibili perché corredati di fotografie. Scorrendo i profili si vedono foto di soldi, che magari sono quelli di un affitto in nero da pagare per una casa strapiena, smartphone, lettori mp3 e computer. E poi scarpe e tute come quelle dei calciatori. Sulle bacheche di chi parte ci sono le canzoni dei rapper egiziani ma anche di quelli italiani e le foto dei ragazzi scimmiottano quelle pose da duro, da chi ce l'ha fatta. "Sono venuto qui per prendermi tutto", scrive M. su Facebook. Si alimenta così la visione distorta della vita al di là del mare. Si può migrare regolarmente, ricongiungendosi a un parente già arrivato in Italia. Oppure si migra irregolarmente. Save The Children nel dossier "Percorso migratorio e condizioni di vita dei minori non accompagnati egiziani" frutto del progetto europeo "Providing Alternatives irregular migration for unaccompanied children in Egypt", spiega come la decisione della partenza sia spesso appoggiata e condivisa dalla famiglia. Ma anche nei casi in cui i genitori non approvano, trovare qualcuno che conosca un B'saffar, un intermediario, è facile. Il B'ssafar ha spesso accanto a sé un mandoub, un portavoce. Si tratta di micro organizzazioni composte da circa sei persone che operano nelle città. Il viaggio ha un costo che varia dai 4.000 ai 10.000 euro. Sono cifre alte e se la famiglia non ha il denaro si firma un contratto per un finto acquisto di merce o una cambiale. In questo modo il tribunale potrà far ottenere all'organizzazione il denaro pattuito in caso di mancato pagamento. L'intermediario indica ai minori dove recarsi, solitamente nelle città più grandi. Il viaggio può essere autonomo o organizzato. Prima del 2007 la costa di imbarco era la Libia, ora è più difficile perché per attraversare la frontiera ci vuole un visto che si ottiene solo avendo un lavoro nel paese. Le partenze avvengono quindi sempre più spesso dalle coste egiziane. In attesa del momento giusto per salpare i ragazzi rimangono in capannoni o in case per un periodo variabile tra le due settimane e i due mesi. La maggior parte dei minori egiziani arrivati in Italia ha affrontato il viaggio via mare, sui barconi. Una minoranza ottiene un visto e arriva via aereo. Si tratta di chi proviene da famiglie con più disponibilità economica o con parenti già emigrati che li aiutano una volta arrivati. La partenza via mare avviene da Alessandria, oppure dalle coste tra il Lago di Burullus e Dumyat e dal Porto di Burg Mghizil. Durante il viaggio non si ha alcuna possibilità di ribellarsi o di reagire alla violenza degli scafisti, anche una denuncia in Egitto di queste persone viene percepita dai ragazzi come un atto inutile. Lo sbarco avviene sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Puglia. I minori egiziani poi si spostano e le città in cui si registra una presenza maggiore sono Roma, Milano e Torino. Save the Children ha studiato e approfondito il fenomeno, ha redatto rapporti molto precisi. A Roma inoltre è attivo il centro Civico Zero che oltre all'accoglienza e a diverse attività, offre assistenza legale gratuita ai minori. Secondo Viviana Valastro, responsabile protezione minori per Save the Children, è oggettivamente difficile credere che a quell'età i giovani egiziani si autorganizzino per lavorare, sapendo dove andare e a che ora. L'organizzazione ha adottato iniziative formali per portare le autorità a conoscenza del fenomeno e con il Progetto Egitto ha cercato di informare i minori sui rischi, non per disincentivarne la partenza, ma per fa sì che fosse una decisione consapevole, e si è sforzata di creare alternative in loco. Una delle conclusioni è che i ragazzi hanno una bassissima percezione dello sfruttamento anche perché sono abituati a lavori pesanti anche in Egitto, sin da piccoli. E poi perché con il cambio euro lira egiziana gli sembra comunque di guadagnare una bella somma. Il video cartone "The italianaire" è stato un altro degli strumenti utilizzati durante il progetto per sensibilizzare i minori. È stato ideato insieme ai ragazzi stessi. Anche in questo video il gioco serve a spiegare più chiaramente. E le testimonianze dei coetanei vogliono essere il punto di partenza per riflettere sulle reali condizioni che si trovano una volta sbarcati in Italia.

L'economia dello sfruttamento, scrive Vladimiro Polchi. "Lavoro tutti i giorni, dalle dieci alle dodici ore. A fine mese il padrone mi paga solo 400 euro. Da due anni è così. Sono stanco, la schiena mi fa male. Non voglio più vivere da schiavo". Singh è un bracciante dell'agro pontino: un indiano sikh sfruttato a due passi dalla Capitale. Sì, perché il nostro è ancora il Paese degli schiavi invisibili. Terra di caporali, che non si preoccupano neppure dell'età delle loro vittime. È l'Italia dello sfruttamento: mille norme, qualcuna anche buona, pessime prassi. Si parte dalla sciagurata Bossi-Fini, che tiene sotto ricatto i lavoratori stranieri facendoli dipendere dal "padrone" non solo per lo stipendio, ma anche per il permesso di soggiorno. Perdi il posto? Peggio per te: sei a rischio clandestinità. Una pessima legge che sta lì da 12 anni, nonostante i continui propositi di riforma. Il nostro paese però, nel tempo, si è dotato anche di qualche norma più avanzata. Vediamola. Lo stop al caporalato, innanzitutto, è arrivato col decreto legge 138/2011, che ha introdotto nel codice penale il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nel mirino soprattutto agricoltura e cantieri. Se c'è prova dello sfruttamento del lavoratore con violenza, minaccia o intimidazione scatta una pena da 5 a 8 anni, oltre alla multa da mille a 2mila euro per ciascun lavoratore coinvolto. Non solo. Nel luglio 2012 si è aggiunta la "legge Rosarno": il decreto legislativo che prevede il rilascio del permesso di soggiorno a chi denuncia il datore di lavoro che lo sfrutta. Le nuove norme hanno diversi limiti. Difficile applicarle. Qualcosa comincia comunque a vedersi: dall'introduzione del reato di caporalato sono 355 i caporali arrestati o denunciati, di cui 281 solo nel 2013 (dati Flai-Cgil). Quanto allo specifico caso dei minori stranieri non accompagnati (12.300 quelli sbarcati dall'8 ottobre 2013 a oggi), nel nostro paese nero su bianco non c'è ancora niente. Eppure qualcosa si muove, anche se lentamente: la Commissione Affari costituzionali della Camera a ottobre ha approvato una proposta di legge (prima firmataria la deputata Pd, Sandra Zampa) che promette di rafforzarne la protezione. Vedremo. Intanto lo sfruttamento continua. Stando alla Flai-Cgil, "sono circa 400mila i lavoratori che trovano un impiego tramite i caporali, di cui circa 100mila presentano forme di grave assoggettamento, dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche". Perché? Forse perché c'è "un'economia dello sfruttamento". È questo il punto: "I lavoratori impiegati dai caporali - prosegue la Flai-Cgil - percepiscono un salario giornaliero inferiore di circa il 50% a quello previsto dai contratti nazionali". E se sono immigrati le cose vanno anche peggio. A confermarlo è un'indagine curata dall'economista Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti: gli immigrati, meglio se irregolari, sono funzionali a molte imprese perché lavorano di più e guadagnano di meno. Molto di meno. Non solo. Anche dove non si sfrutta illegalmente la manodopera, i salari vengono comunque ridotti: "Le aziende agricole di piccola dimensione (entro i 15mila euro di fatturato) - scrive l'ong Crocevia - confrontano la crisi economica generale con durezza, tagliando all'osso la remunerazione del lavoro". Insomma, forse non basta il nuovo reato a colpire le sacche di sfruttamento, ma dovrebbero essere sanzionate anche tutte quelle aziende, grandi e piccole, che si avvalgono dei caporali. Come? Escludendole dai fondi europei, per esempio.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui". Molti di questi studi si basano sulla teoria del confronto sociale, l'idea è che quando le persone intorno a noi hanno avuto eventi sfortunati, guardiamo meglio noi stessi. Altri ricercatori hanno scoperto che le persone con una bassa autostima sono più propensi a provare Schadenfreude rispetto a persone che hanno una grande autostima. Schadenfreude. Alzi la mano chi sa che cos’è. Quasi nessuno? Strano. Perché se chiedessi chi l’ha provata, tutti dovremmo alzare non una ma entrambe le mani. Non me la voglio tirare: so che cosa sia la Schadenfreude solo perché ne ho sentito parlare per radio e, ravanando un po’ su Google, sono poi riuscito a risalire alla pagina di Wikipedia che ne parla. Il termine è tedesco, e indica il piacere infame provocato dalla sfortuna altrui. Pensate che occorra essere precisi come i tedeschi per dare un nome a un sentimento così meschino e diffuso? Errorissimo. In lingue diverse ha nomi diversi, dall’arabo al cinese, e compare in numerosi proverbi che spiegano come la Schadenfreude sia l’unica vera gioia, quella che arriva dal più profondo del profondo. Ma perché si gode delle disgrazie degli altri? Studi basati sulla teoria del confronto sociale affermano che se intorno a noi ci sono persone maltrattate dalla sfortuna, si finisce col guardare meglio a se stessi. Ci si sente migliori, in altre parole. Altri ricercatori hanno invece notato che le persone con un’autostima sotto i piedi provano più facilmente la Schadenfreude rispetto a chi ha di sé un’immagine più positiva. Per far capire ancora meglio che cosa sia la Schadenfreude voglio citare un esempio per comporre il quale è stata indispensabile l’enciclopedica conoscenza del calcio del mio amico Luca Ceste. Che, da juventino qual è, specifica che i “cugini” granata son più contenti quando perde la Juve che quando vince il Toro (non che godano spesso, nell’uno o nell’altro caso...). Comunque: al termine del campionato 1999- 2000 il Toro è condannato alla serie B. Ma all’ultima giornata la Juventus è sconfitta nella “piscina di Perugia”, il campo allagato da un violento nubifragio. La Lazio invece vince, sorpassa i bianconeri e acchiappa lo scudetto: sai che Schadenfreude per i torinisti! Ognuno provi a chiedersi quand’è l’ultima volta che ha provato Schadenfreude. E poi se lo tenga per sé, dato che probabilmente non sarà cosa di cui vantarsi. E infatti il filosofo Arthur Schopenhauer ci ricorda che «Provare invidia è umano, godere della Schadenfreude è diabolico». Come opposto voglio invece citare il concetto di mudita che, nel Buddhismo, è la felicità per la buona sorte dell’altro. E’ la forma più perfetta dell’amore: come il marito che è contento per il successo della moglie o il genitore che gioisce per la felicità del figlio. Perciò credo che le cose andrebbero meglio per tutti, se nel nostro quotidiano ci fosse più mudita e meno Schadenfreude.

Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude, scrive Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale. Pensiamo ai blitz della guardia di finanza a Cortina e nei luoghi della movida milanese. Erano utili e necessari, anche dal punto di vista simbolico. Ma quanti di noi, invece di limitarsi ad approvare l’operato dell’Agenzia delle entrate, hanno gongolato? Oppure prendiamo la tragedia della Costa Concordia. Davvero i balbettii di Schettino, mentre veniva strigliato dall’implacabile De Falco, andavano trasmessi e ascoltati tutte quelle volte, morbosamente, fino a diventare uno slogan da t-shirt? E la pioggia dimonetine fuori dal Raphael ai tempi di Tangentopoli, era isterica rivolta morale o linciaggio puro? Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche inmodo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Quando sentiamo piagnucolare un comandante che ha abbandonato la nave per primo, chiunque può pensare: io valgo di più. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiaciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda. Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, appena pubblicato da Orme. Se Otello è il simbolo universale della gelosia, l’invidia ha le sembianze di Iago. È invidioso del potere, delle virtù, della bella moglie del moro di Venezia, ed è invidioso di Cassio che è stato promosso al suo posto. Per salvare l’amor proprio, trasforma la felicità altrui in tragedia. Nella realtà, le dimostrazioni di questo perverso gioco di dolore e piacere possono essere ben più banali: piacciono le foto delle star immortalate senza trucco, piace vedere una multa sul cruscotto di un Suv. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più. Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. E allora diventa facile pensare: quel politico non ha il mio curriculum e guarda dov’è arrivato. Se viene travolto da uno scandalo, non ce ne rammarichiamo più di tanto. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci.

Chi gode delle disgrazie altrui certamente è Marco Travaglio, che ha sempre un giudizio su tutti.

Travaglio dà i voti al 2013: Napolitano, Renzi e Letta, sfottò per tutti. Il vicedirettore del Fatto: "Che emozione questo anno quasi finito, che svolta generazionale. E nel 2014 arrivano le riforme...", scrive “Libero Quotidiano”. Non c'è mai stato anno più bello di questo 2013. Anzi, forse solo il 2014 potrà batterlo. Usa il sarcasmo, Marco Travaglio, per compilare il suo pagellone sull'anno che si sta chiudendo. Naturalmente, insufficienze per tutti tranne che per "quei brubru antipolitici dei 5 Stelle". Il vicedirettore del Fatto quotidiano si mette nei panni di un simpatizzante di Enrico Letta, finge di abboccare alle promesse del premier su "svolte generazionali" e "riforme in arrivo" e parte con la contraerea. Tanti bei finti complimenti al "pischello Napolitano", che ha messo l'Italia "alla pari dello Zimbabwe di Mugabe", al Letta nipote di Gianni ("unico caso di nipote più anziano dello zio"), ad Alfano "maggiordomo di B.", al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ("la colf dei Ligresti"), al "frugoletto Amato alla Consulta", ai presidenti di Camera e Senato Boldrini e Grasso, "pronti a zittire chiunque osi nominare Napo invano". Il sospetto che, tra un'ironia e una velenosa battuta, il 2013 sotto sotto sia un po' piaciuto a Marco Manetta viene quando, naturalmente, si finisce a parlare di Silvio Berlusconi. "Il 1° agosto i soliti giudici che non si fanno mai i cazzi loro han rischiato di far saltare tutto con quell'assurda condanna". E invece, finge di gioire Travaglio, le larghe intese hanno resistito. Risultato: il governo dei favori e delle stangate. "L'Imu non la pagheremo più perché ora si chiama Tasi e ci costa di più". "I concessionari di slot dovevano 98 miliardi al fisco, ma il governo gli farà pagare 400 milioni, così imparano ad evadere. In compenso, un sacco di fondi neri per finanziare la politica, soprattutto dal 2017". E poi arriva Matteo Renzi, che attacca l'articolo 18 come avevano fatto Berlusconi, Monti, Fornero: "Ma loro, quando lo aggredivano, non avevano mica 38 anni". Se il rinnovamento dei quarantenni promesso da Letta è questo, suggerisce Travaglio sfregandosi le mani, ci divertiremo ancora per qualche anno. Gli italiani decisamente meno.

Ed ancora, Travaglio contro Liguori: "Alla tua scuola di giornalismo imparano a leccare". Marco Manetta attacca il master in giornalismo di Mediaset. Ma scorda qualcosa...scrive “Libero Quotidiano”. A poche ore dalla sentenza per il processo Mediaset, gli attacchi di Marco Travaglio al Cav percorrono strade mai battute prima. Marco "Manetta" non risparmia nessuno pur di mettere nel mirino Silvio Berlusconi (e la sua azienda). Nella mattinata di lunedì 29 luglio, Travaglio, con un editoriale tra il serio e il faceto, ha puntato il dito contro la scuola di Giornalismo dell'Università Iulm di Milano che è in consorzio con Mediaset e che ogni anno sforna 15 giornalisti professionisti da inserire nel mercato del lavoro. Travaglio citando un'intervista a Panorama dell'amministratore delegato della scuola, Paolo Liguori,  tra le righe, ma nemmeno troppo, lascia intendere che la scuola di Mediaset-Iulm crea dei giornalisti che sanno "usare la lingua". Imparano "tutto con la lingua", scrive il vicedirettore del Fatto Quotidiano.  Ecco il virgolettato dell'editoriale: "Li(n)guori afferma: 'Un giornalista oggi deve saper fare tutto. Noi formiamo giovani giornalisti 2.0, nella teoria e nella pratica. I partecipanti al master imparano ad adattare la prosa e il linguaggio a seconda del media su cui devono comunicare". Qui arriva la prima bacchettata del professor Travaglio, che sottolinea come al singolare si dica "medium" e non "media". La consueta superbia di chi immaginia di essere infallibile. Non finisce qui. Travaglio prosegue e continua con la citazione di Liguori: "I partecipanti al master imparano a condurre notiziari, montare servizi per la tv, come pure a scrivere per quotidiani, portali internet o uffici stampa". Fin qui le parole di Liguori. A questo punto arriva la stoccata al veleno di Travaglio che aggiunge: "Sì, i ragazzi imparano tutto con la lingua". Per Travaglio chiunque faccia il giornalista dopo aver studiato per due anni alla scuola Mediaset-Iulm sarebbe con un doppio senso, un "lecchino di professione". Peccato che proprio al Fatto Quotidiano, sia alla redazione web sia a quella del cartaceo di Roma, arrivino ogni anno stagisti proprio dalla scuola dello Iulm-Mediaset. Ragazzi che comunque fanno il loro mestiere onestamente e usano la lingua solo per parlare. Ma non è tutto. Alcuni di questi ragazzi - di cui per ovvie ragioni non facciamo i nomi - hanno ottenuto un contratto di collaborazione al sito e all'edizione cartacea del Fatto, e qualcuno addirittura è in lizza per un'opportunità lavorativa a Servizio Pubblico, il quartier generale del giornalismo "travaglino", dove "regna" il comandante Michele Santoro. Il chiodo fisso di attaccare il Cav è storia vecchia per Travaglio. Ma per farlo ormai non guarda in faccia nessuno. Nemmeno qualche ragazzo che ha speso soldi e ha fatto sacrifici per riuscire a scrivere. Magari proprio sul Fatto Quotidiano. Travaglio lo sa, o fa finta di niente?

Il tengo amici di Travaglio continua... Lo “strabismo ammiccante” da Di Pietro ad Ingroia, arrivando a Grillo, scrive l’Ufficio di Presidenza della “Casa della Legalità e della Cultura”. Marco Travaglio continua nella sua pratica di giornalista di parte, piega e mistifica realtà e fatti, non per informare i cittadini ma per tutelare gli amici, quindi, indirizzare l'opinione pubblica nel "credo" da lui amato. Comportamento legittimo, per carità... ma che ben poco ha a che fare con la veste di giornalista indipendente che vorrebbe incarnare. Così c'è la volta che parte alla carica di chi osa toccare i suoi amici, c'è la volta che si sovverte la realtà per giustificare certi comportamenti o atti, c'è la volta che indossa la divisa del pompiere... basterebbe che lo dicesse: tengo amici, e gli amici miei non si devono toccare. Ed invece no... lui che ci ha abituati a dire cose serie su molti protagonisti e misfatti della politica italiana, poi, quando si tratta dei suoi amici, di coloro per cui gode di simpatia politica, si mette a fare propaganda e contropropaganda, a seconda del bisogno, così che in tanti, troppi, ci cascano e pensano che anche in quel caso, di giornalista militante e non quindi di giornalista indipendente, lui parli con obiettività. Ed ora, sulla questione Grillo, ha superato se stesso, oltre ogni limite di decenza, assumendo quella veste di amico avvocato difensore, che non solo non guarda ai fatti, ma che attacca senza freno chi osa guardarli ed indicarli, come avviene con l'editoriale odierno contro Antonio Amorosi ed il Tg3. Ed allora parliamone un attimo...Marco Travaglio è stato, per anni, il miglior ufficio stampa e propaganda (non pagato, bisogna dirlo) di quel che fu l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Quello che se lo facevano gli altri era uno scandalo indecente e intollerabile, quando veniva fatto da Di Pietro ed i suoi era invece irrilevante, giustificabile, una “bazzecola”, quasi quasi un merito. A Di Pietro era sempre tutto da perdonare, agli altri no. Un normale atteggiamento da giornalista schierato politicamente, quello di Travaglio... soltanto che Travaglio faceva (come fa ancora oggi) intendere che lui lo diceva dall'alto della propria indipendenza, così da mascherare e nascondere quello strabismo, dei due pesi e delle due misure, adottato nelle proprie valutazioni. E così se Di Pietro gestiva il partito con moglie ed amica tesoriera, alla faccia della democrazia che deve avere un partito, andava tutto benissimo così... (partiti antidemocratici e familisti lo sono altri, Di Pietro aveva una sorta di lasciapassare per contraddire nei fatti ciò che predicava). E così se massoni e piduisti approdavano nell'Italia dei Valori (benvoluti da Di Pietro, che, come nel caso di De Iorio, si muoveva in prima persona per la difesa assoluta) sono massoni e piduisti buoni, mica come i massoni e piduisti che stanno con gli altri, che sono brutti e cattivi. E così, ancora, quando la 'ndrangheta stringeva patti con esponenti dell'Italia dei Valori (benvoluti da Di Pietro, che, anche in questo caso, scendeva in prima persona nel difendere l'indifendibile) sono cose che capitano, probabilmente – addirittura - ordite proprio per danneggiare il povero Di Pietro, come se gli amici dei mafiosi li selezionasse e sostenesse lui, ma a propria insaputa). E così, inoltre, per fare un altro esempio, quando i suoi uomini (scelti da lui, nel partito personale) finivano in scandali ed inchieste, bisognava lasciare correre, perché i faccendieri degli altri son brutti e cattivi, ma quelli con Tonino erano devoti alla causa, quindi, immuni da critiche e valutazioni etiche e politiche... e certamente vittime di attacchi giudiziario-mediatici. E, in ultimo, se per gli altri partiti (la nota kasta) era scandaloso il prendere e sperperare i noti “rimborsi elettorali”, quelli che prendeva Di Pietro (e che gestiva con moglie ed amica tesoriera), erano soldi santi, necessari, gestiti benissimo... anche quando entrati nelle casse dell'Italia dei Valori venivano girati come affitti alla società personale di Antonio Di Pietro (l'Antocri) che, così, pagava i mutui degli immobili che poi andavano a consolidare il patrimonio immobiliare di Antonio Di Pietro (non dell'Italia dei Valori). Tutto giusto, santo e pure pio secondo Travaglio che, in ogni circostanza difendeva a spada tratta il Di Pietro ed il suo partito, contribuendo, così, nei fatti, alla degenerazione totale di quel partito che alla fine è imploso su se stesso, sotto il peso di quelle contraddizioni di indecenze dilagati che il Travaglio contribuì a minimizzare, giustificare, quando non a negare. Di Pietro, per Travaglio, era solo vittima delle circostanze, del fato... Un fato cinico e baro che valeva, ovviamente, solo per Tonino, perché per gli altri non c'era possibilità di appello, condanna definitiva, anche se, in molti casi, così come la storia dell'Italia dei Valori, di penalmente rilevante vi era ben poco. Un destino cinico e baro che il buon Travaglio, palco dopo palco, uscita dopo uscita, palco dopo palco (pagato dall'IdV nelle grandi mobilitazioni spacciate da "società civile") cercava di esorcizzare facendo incontrare Grillo a Di Pietro, e facendo sì che il primo appoggiasse il secondo, mentre entrambi idolotravano lui, il sommo maestro del giornalismo (di partito, senza giornale di partito). Mai una parola, ad esempio, ancora, da Travaglio, sul fatto che al pool di Milano, quello di Mani Pulite, di fatto, ad un certo punto, “commissariarono” il Di Pietro perché lo stesso aveva una particolare “amicizia” che lo avvertiva pure di ispezioni. Quell'amicizia era quella di Cesare Previti (lo stesso che poi, nel suo studio, ospitava gli incontri tra Di Pietro e Berlusconi)... ma se per altri i contatti con Previti o, faccendieri come Paccini Battaglia, erano ingiustificabili e senza appello, per Di Pietro non contavano nulla... lui era benedetto, più che da Dio, da Travaglio, e scusate se è poco.  Marco Travaglio ha un altro amico, Antonio Ingroia. Così, come per Di Pietro, tutto ciò che è gradito all'amico è giusto, da sostenere, anche quando certi teoremi e certe valutazioni non stanno in piedi. Nel caso di assecondare l'Ingroia pensiero Tavaglio di prodiga su più fronti... perché una difesa semplice gli pare poco, probabilmente, o, sa benissimo, si scioglierebbe come neve al sole. Ed allora eccone una rassegna...
Si parte con l'ultima intervista di Paolo Borsellino, quella ai francesi. Per Travaglio l'intervista vera è quella della videocassetta “sintetica”, poco conta che quella sia una versione “manipolata” dell'intervista di Paolo Borsellino, dove al magistrato di Palermo vengo messe in bocca, con taglia e cuci, parole che non ha mai detto. Con la “manipolazione” a Borsellino viene fatto dire che c'era una telefonata tra Mangano e Dell'Utri, intercettata, in cui parlano di consegna di “cavalli”, cioè droga, in un albergo di Milano. Nella versione reale, integrale, invece, Borsellino non solo non dice quello ma lo smentisce, affermando che in quella telefonata Mangano parla con un'esponente della famiglia Rinzevillo e non, quindi, con Dell'Utri. Arriva una sentenza che accerta che quella della cassetta aveva un contenuto manipolato, ma Travaglio parte in quarta: è uguale! Ma come: è uguale? E poi, come se nulla fosse, pubblica e diffonde con il Fatto (a pagamento) la versione integrale dell'intervista, quella dove Borsellino smentisce, di fatto, con le sue parole, quel “è uguale” di Travaglio, ma il dettaglio sfugge! Si passa all'attacco a Pietro Grasso. Anche qui, con una serie di illazioni e mistificazioni senza ritegno, smentite dai fatti. Come quando, si affretta, Travaglio, ad affermare che quella della “non firma” dell'appello su Andreotti da parte di Grasso perché questi era stato testimone in primo grado, era null'altro che una balla. Peccato che quella di Grasso non fosse una balla ma la verità, comprovata dagli Atti del processo (come abbiamo recentemente documentato). Ma Grasso non condivide i teoremi di Ingroia ed allora per aiutare l'amico occorre attaccare chi non lo asseconda: Grasso. E così giù altre mistificazioni, come quella del far apparire Grasso come quello che “graziò” Cuffaro, quando invece, con la scelta compiuta da Grasso, di contestare i reati provati, senza buttarsi in un campo incerto senza adeguate prove, ed arrivando al risultato di far condannare (si badi: far condannare!) Cuffaro, allora potente Presidente della Regione Sicilia, si dimostra che la tesi di Travaglio non è solo debole, ma ridicola... tanto che, per rinforzare la tesi “Grasso cattivo, Ingroia bravo” deve chiamare in causa uno che la verità (sic) la dispensa a destra e a manca e che, per curriculum, ha sempre avuto a cuore la Giustizia: Marcello Dell'Utri. Si passa alla fabbricazione del nuovo simbolo dell'antimafia: il Ciancimino jr. Un mafioso figlio d'arte, che occulta e ricicla soldi sporchi, di quel tesoretto di papà “don Vito”, che cerca di screditare lo Stato, producendo cosiddette prove tarocche, fa identikit di tal “signor Franco” che però non si trova da nessuna parte, racconta di tutto e di più, in contraddizione con se stesso e con le risultanze certe di altri procedimenti e persino di sentenze definitive, se la ride di aver in mano i pm di Palermo e di riuscire così a salvare il malloppo marchiato Cosa Nostra. Viene smascherato per le calunnie, per i soldini (tanti) occultati e riciclati... gli trovano anche la dinamite, a sua insaputa, nel giardinetto di famiglia... Ma se piace ad Ingroia, Ciancimino jr, piace anche a Travaglio... Se è bocca della verità per il primo, lo diviene anche per il secondo, in automatico, alla faccia dei fatti e delle prove che, dovrebbero essere l'unico elemento per stabilire l'attendibilità di certe dichiarazioni e che, nel caso del figlio di “don Vito”, dimostrano che questi mente con la stessa naturalezza del respirare. Si giunge all'apoteosi del “complottone” per fermare il processo sulla fantomatica “trattativa”. Qui davvero Travaglio ha mostrato di essere capace anche di ciò che appare impossibile. Davanti ad un'indagine che si fonda, come prove, sulle dichiarazioni del già citato Ciancimino jr, e che richiama l'inchiesta “Sistemi Criminali”, che se uno la legge si rende conto che smentisce totalmente i pilastri della c.d. inchiesta sulla “trattativa Stato-Mafia” che ora va a processo a Palermo, Travaglio non ha dubbi: colpevoli. Non ci sono le prove, non conta. Conta che l'indagine, quell'indagine, senza prove, è uno dei prodotti dell'amico Ingroia. Ma se appare impossibile offrire una percezione di realtà così tanto difforme dai fatti reali, Travaglio va oltre e, con una serie di illazioni, di urli al “compottone”, che riesce nel far credere l'opposto della realtà. E siamo, qui, nel capitolo delle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino. Travaglio vuol far credere al popolo che in quelle intercettazioni c'è la prova del “peccato”. E, essendo lì la prova chiave della colpevolezza degli indagati da Ingroia, è evidente che le si vuole distruggere, quelle intercettazioni, per negare la prova-madre. Travaglio quindi indica un complotto che va dal Csm al Parlamento, passando per Corte Costituzionale, Quirinale e Governo. Praticamente il mondo intero è parte di un complotto, tutti tranne Ingroia e chi sostiene il suo teorema. Ed in tanti ci cascano... vedono lì, materializzato il complotto universale disegnato da Travaglio. Peccato che la verità, i fatti, smentiscano – già a priori – questa tesi dell'avvocato difensore dell'amico Ingroia. E, si badi, non fatti prodotti dagli attori e partecipi del presunto “complottone”, ma fatti indicati dalla stessa Procura di Palermo, dove c'è il suo amico Ingroia! Infatti è la stessa Procura di Palermo che, nero su bianco, scrive che quelle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino sono prive di qualsiasi rilievo penale e non rappresentano nemmeno alcuno spunto investigativo! Ecco: questo dice la Procura di Palermo! Non basta. Quella stessa Procura dice che quelle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino potrebbero essere utili solo per la Difesa di Mancino, ovvero il principale imputato! Questi i fatti. Ma Tavaglio li capovolge e fa credere che invece la distruzione di quelle intercettazioni sia un aiuto a Napolitano e Mancino per fermare l'inchiesta! Un delirio totale. Una mistificazione radicale che però, nell'opinione pubblica fa breccia. Così come si vorrebbe capovolgere lo Stato di Diritto e quei principi costituzionali, di cui Travaglio e amici si dichiarano grandi difensori. Infatti ecco lì che si mette in discussione che una regola (per cui il Presidente della Repubblica non possa essere intercettato) bisogna ignorarla e visto che la Corte Costituzionale dice che le norme ed i principi della Costituzione non possono essere calpestati, così, come già aveva abituato Berlusconi, ecco che parte l'urlo, questa volta da Ingroia & C: sentenza politicizzata!  Marco Travaglio ha ora, sullo scacchiere politico, un solo amico, Beppe Grillo. Di Pietro, così come Ingroia, sono rimasti fuori dal Parlamento e quindi gli resta solo il M5S ed il suo amico padre-padrone. Grillo lo ha ospitato con il “passaparola” dandogli un palcoscenico nei momenti di stanca dal piccolo schermo. Grillo, con la Casaleggio, ne ha prodotto i Dvd. La base “grillina” è un buon mercato che, si sa, se osi non chinarti al “verbo” di Grillo (lo chiama “il verbo” da diffondere lui stesso, molto umilmente), sei un traditore e cadi in disgrazia, che se devi vendere giornale e libri non è una bella prospettiva. Ed allora ecco che, ancora una volta, tutto ciò che per gli altri sarebbe “peccato” quando riguarda Grillo e pentastellati diviene un “pregio”, anzi una garanzia!
Travaglio, che ha tanto a cuore la questione “legalità”, non si è nemmeno accorto che nel programma (e nemmeno nelle “stelle”) del movimento del suo amico Grillo, questo punto è latitante! Non c'è una proposta che sia una in materia di anticorruzione, antiricilaggio... nemmeno su prevenzione e contrasto delle mafie, così come nulla sulla necessaria riforma della Giustizia. Il silenzio colpevole degli altri, quando è silenzio di Grillo e dei “5 stelle” diventa un bello... E così un “sacco bello” diventa anche il negazionismo e le sortite deliranti sulla mafia che Grillo dispensa e che i “grillini” assimilano. Anche qui, se mai l'affermazione “La mafia non uccide” l'avesse fatta un Berlusconi o un chicchessia qualsiasi di altri partiti, apriti cielo (giustamente), ma visto che l'ha fatta Grillo ed i “grillini” l'hanno assunta a “verbo” allora va bene, è giusto così, “la mafia non uccide”. Ed ancora se mai un Casini, un Crisafulli o Dell'Utri avessero detto che ormai la mafia non ricicla più nel cemento si sarebbero aperte (giustamente) le critiche più pesanti, ma visto che lo sostiene Grillo allora è vero, la mafia nel cemento non ci azzecca più nulla... anche se la realtà dice l'esatto opposto. E poi, i programmi, la credibilità dei candidati e della loro azione, che tanto sta a cuore in generale a Travaglio, per il movimento di Grillo, sono bazzecole che non occorre valutare. Ed allora, quando ti trovi in realtà dove, ad esempio, la 'ndrangheta condiziona pesantemente economia, politica e pezzi delle istituzioni e pubbliche amministrazioni, e i partiti della “kasta” tacciono, negano o minimizzano, si deve (giustamente) denunciare tale scellerato atteggiamento, ma se a tacere, negare o minimizzare sono Grillo ed il M5S allora va bene così, di certe cose non è poi mica necessario parlare! E, di esempi, ce ne sono. Guardiamo alla terra della Liguria, quella di Grillo. Ebbene qui a Genova, delle collusioni tra 'ndrangheta e pezzi determinanti dell'economia locale, così come della politica e delle pubbliche amministrazioni, ce ne sono quanti se ne vuole, ma il M5S su questo “dettaglio” tace. A Bordighera, Comune la cui amministrazione è stata sciolta per mafia e che vede l'ex sindaco indagato per concorso esterno, si è andati ad elezioni ma sul punto 'ndrangheta dal M5S il silenzio è stato assoluto, anche davanti alle sparate di Vittorio Sgarbi che, nostalgico di Niscemi, è giunto per sostenere che il problema a Bordighera non è la mafia, bensì l'antimafia. E così a Imperia, la città di Scajola e del Porto di Caltaggirone, costruito con le ditte di 'ndrangheta, silenzio sul punto, così come a Sestri Levante dove grande imprenditore e consigliere comunale uscite è il Santo Nucera che, dagli atti, risulta affiliato alla criminalità organizzata calabrese... e poi, ancora più a levante, a Sarzana, dove ha sede uno dei “locali” della 'ndrangheta, di nuovo, sempre, costante, silenzio sul tema! A Grillo ed al suo movimento è perdonato tutto ciò che agli altri non sarebbe lasciato passare nemmeno per sbaglio. Travaglio è così, gli amici sono amici e vanno difesi, a prescindere. Si può modificare la realtà, offrendone una percezione radicalmente difforme, pur di difendere l'ultimo amico sullo scacchiere politico. Ed allora alla propaganda di Travaglio per Grillo, come di prassi, come già accaduto per Di Pietro e per Ingroia, si indossano gli abiti di avvocato difensore che mostra i denti a chi osa toccar l'amico. Già davanti ai risultati elettorali si è potuto assistere al salto mortale del tramutare, da parte di Travaglio, una sonora sconfitta in una gloriosa vittoria, ma visto che non bastava, e visto che occorre serrare le fila nella difesa dell'amico in difficoltà, Travaglio supera, ancora una volta, se stesso con l'ultimo editoriale, quello di oggi. Travaglio attacca Antonio Amorosi reo di aver parlato della nostra articolata e documentata inchiesta sulla gestione dei fondi da parte del M5S. Travaglio si guarda bene dall'entrare nel merito dell'inchiesta che abbiamo pubblicato ed inviato alle Autorità competenti Non lo fa perché sarebbe dura smentire le fonti di questa inchiesta che sono, tutte, una dopo l'altra, tutte fornite dai vari siti del M5S e quindi, ovviamente, non considerabili “ostili” allo stesso. Non lo fa perché Travaglio sa bene che un partito non può gestire i propri fondi (siano quelli derivanti dai rimborsi elettorali, quelli derivanti dai fondi pubblici a cui attinge o quelli derivanti da donazioni e sottoscrizioni) su conti privati di terzi, eludendo ogni contabilizzazione da parte del partito e quindi ogni tracciabilità dei movimenti in entrata ed in uscita. Se si leggesse un articolo di Travaglio che dice “gestire i fondi del partito su miriadi di conti privati, senza iscriverli a bilancio e usandoli facendo fatture intestate ad altri è bello e giusto” è ovvio che si sobbalzerebbe sulla sedia e il strabismo sarebbe evidente ai più... e quindi lui evita di entrare nel merito dell'inchiesta che abbiamo fatto e attacca chi osa parlarne, reo, come detto, di lesa maestà, cioè il portatore del “verbo”, l'amico Beppe Grillo. Travaglio attacca Amorosi che riporta un passaggio della nostra inchiesta (che nemmeno Grillo ed alcuno del M5S ha smentito, né nelle anticipazioni, né nella sua pubblicazione (anche sulle bachece facebook di Grillo, anche se in diversi gli hanno postato sul blog la questione ed i link). Grillo non risponde, il M5S non risponde... anche perché è dura dare smentita ai fatti... ma parte all'attacco Travaglio, così da porre il suo "bollino di qualità" che, senza smentire, fa dire: smentita è fatta!
Travaglio crea, come sempre, il paradosso affermando che si accusa Grillo di “rubare” per esorcizzare e nascondere una verità di fatti documentata: una gestione del M5S, il secondo partito italiano, inquietante e fuori da qualsivoglia norma. Poi per cercare di rappresentare al meglio la sua illazione-difensiva la butta sul “giudiziario”... ovvero se non c'è un'inchiesta della magistratura (e poi chi lo dice, con certezza, che non ci sia?) allora va tutto bene, dimenticando che c'è una questione politica grande come una casa: un politico - il suo amico Grillo - che sbraita di trasparenza, democrazia e di politica senza soldi, e che ha un movimento - il M5S – che di trasparenza non ne ha nemmeno l'ombra, di democrazia non ne parliamo visto che è un partito in mano a Grillo, nipote e commercialista (unici tre soci e dirigenti), in cui ogni decisione è presa da Grillo (e staff, alias Casaleggio), e di soldi ne ha quanti ne servono per le proprie attività, ma gestiti come “fondi neri” (in quanto non contabilizzati e gestiti in entrata ed uscita su conti correnti personali e non quindi del M5S), tanto che pubblica persino un rendiconto falso dello Tsunami Tour. Immaginate se una gestione così l'attuassero gli altri partiti, quelli della “kasta”? Sarebbe il finimondo. Sarebbe un giusto attacco ad una gestione inquietante della democrazia interna, delle scelte e della gestione dei fondi... ma già come fu per il partito familiare dell'amico Di Pietro, anche in questo caso, per Travaglio, essendo in causa l'amico Grillo, non solo propaganda, ma difende a prescindere dai fatti e attacca chi osa criticare il suo ultimo uomo nello scacchiere politico.
Non si chiama come Fede, ma anche lui si dimostra “fido” agli amici... E' ammiccante e accattivante, con il suo sguardo e la sua battura ed il falso detto bene diventa verità, in Italia... vale per gli altri e vale per il popolo fedele di Travaglio che, non guarda ai fatti, ma si affida alla loro libera interpretazione del vendicatore dalla penna pungente. In Italia ci sono le tifoserie, si sà... e non conta la verità, anzi non la si vuole la verità. Si vuole quella percezione di verità che ci fa stare bene, ad ogni tifoseria la propria, quella che avvalla il dogma, il credo, la fiducia nel "salvatore". E Travaglio ha la sua curva di tifosi, non può tradirla e quindi l'asseconda dicendo ciò che vogliono sentire, difendendo l'amico, tanto i fatti non contano, siamo nel campo della propaganda! E' così da tempo, purtroppo e guai a ricordarlo, è molto permaloso, perché per lui la verità è ciò che si presta a darli ragione, ma se una verità lo smentisce allora questa è deve essere cancellata, senza se e senza ma, perché nell'ambito della fede non conta la logica ma solo l'acquiescenza anche alle bufale più conclamate. Non a caso, come il suo maestro Montanelli, anche lui – come ha avuto modo di ricordare anche pubblicamente – votava DC turandosi il naso, perché la DC era il meno peggio... infatti nella DC del meno peggio c'erano persona per bene, come il buon vecchio “don Vito”, papà del nuovo eroe dell'antimafia, e tanti altri personaggi che ben conosciamo, mentre dall'altra parte, quella "del peggio" c'erano gente come Enrico Berlinguer che, per carità, era il demonio.  L'Italia è il Paese del "tengo famiglia", ma anche quello del "tengo amici"... e noi di amici ne abbiamo pochi ed anche con questo pochi, quando c'è qualcosa di dire, la diciamo. Ecco, noi l'opportunismo e la convenienza personale, così come la pratica del piegare i fatti per agevolare qualcuno nello scacchiere politico, non ce l'abbiamo. Altri, come Travaglio, dimostrano, giorno dopo giorno, di stare bene, invece, in questa Italia, del tengo famiglia e del tengo amici... Lui si dice indipendente ma poi ci casca sempre nello smentirsi con le dichiarazioni di voto, lo fa per il popolo che pende dalle sue labbra... per lui informazione è propaganda, non è fornire gli elementi oggettivi perché poi ognuno, in propria coscienza e ragionamento, valuti e decida. E' un Ufficio Stampa gratuito per gli amici, ed in tempo di "crisi" non conosce crisi, anche questa, in Italia, è una "qualità"! P.S. Ma perché Travaglio non dice apertamente di essere un giornalista militante, ovvero uno che fa il giornalista e presta questa sua penna alla difesa degli amici? Sarebbe più corretto del mostrarsi “indipendente” quando questa indipendenza non c'è manco di striscio.

In contrapposizione a Travaglio ci troviamo Grasso. Aldo Grasso: "Per il 2014 meno talk show e più X-Factor". Il critico del Corriere elenca i suoi desiderata per l'anno nuovo: "Basta talk show che non approfondiscono nulla. Meglio Fiorello e il talent per chi canta", scrive “Libero Quotidiano”. "Meno Santoro e più X Factor". E' questa la tv che sogna Aldo Grasso per il 2014. In un editoriale su Oggi, il critico televisivo del Corriere della Sera fa l'elenco dei suoi "dieci desideri per la televisione del 2014". Grasso mette nel mirino subito i talk show che ormai affollano i palinsesti dal lunedì al sabato. Grasso critica soprattutto quelli d'approfondimento politico ed è facile leggere oltre le righe un riferimento a Servizio Pubblico di Michele Santoro e Ballarò di Giovanni Floris: "Mi piacerebbe che ci fossero meno talk di approfondimento, che tanto non approfondiscono più niente, sono solo passerelle per i politici o gente che si vuole mettre in mostra". Insomma Grasso vuole un palinsesto libero dai santorini di turno e spinge per una tv che sappia riscoprire "X Factor e Fiorello": "Verrà mai il giorno in cui la Rai, il Srvizio Pubblico farà un varietà bello come X Factor? Tornerà Fiorello?", scrive Grasso. Infine il critico mette nel mirino Vespa: "Non vorrei più vedere, per fare un esempio, un Matteo Renzi in un programma di Bruno Vespa. Il nuovo esiste solo quando si confronta con il nuovo".

E poi ci sono i giustizieri della rete. Ragazza malata pubblica messaggio a favore della sperimentazione animale, coperta d'insulti: "Dovevi morire bambina". Caterina ha 25 anni e studia Veterinaria. Ma ha 4 malattie genetiche e senza ricerca scientifica sarebbe morta a 9 anni. Ma per il popolo del web questa è una colpa, scrive “Libero Quotidiano”.

"Dovevi morire a 9 anni, meglio gli animali di te, crepa" e giù insulti. Caterina Simonsen, studentessa di Veterinaria a Bologna afflitta da quattro malattie genetiche, è stata raggiunta da oltre 30 auguri di morte e 500 offese personali per aver pubblicato su Facebook un messaggio a favore della sperimentazione animale dei farmaci. Caterina ha avuto la colpa, a giudizio di quelli che lei stessa, con una certo ironia, ha definito i "nazianimalisti", di fotografarsi attaccata a un respiratore e con il cartello: "Io, Caterina S., ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un futuro". Le reazioni - "Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per un’egoista come te" scrive tale Giovanna. "Per me potevi pure morire a 9 anni, non si fanno esperimenti su nessun animale, razza di bestie schifose", rincara la dose un altro utente, "Magari fosse morta a 9 anni, un essere vivente di m... in meno e più animali su questo pianeta" rilancia un terzo. E' questo il tenore dei messaggi ricevuti da Caterina, tutti finiti in un dossier presentato alla Polizia Postale per avere ragione delle violenze verbali subite. Il linciaggio mediatico della ragazza  è partito dopo la sua foto è stata rilanciata sui social dal gruppo "A favore della sperimentazione animale", cosa che le ha dato maggiore visibilità. "Non capisco il perché di tanta cattiveria - si chiede ora che l'incidente è avvenuto -. Loro non sanno chi sia io, cosa faccia io, e probabilmente sono così ingenui da non sapere che tutti i farmaci che prendono, che danno ai loro figli e che danno ai loro animali sono stati testati sugli animali". La Simonsen ora chiede che Partito animalista europeo, Lega antivivisezione (Lav) e l'ex ministro Michela Vittoria Brambilla prendano le distanze e stigmatizzino l'incidente. Nel frattempo si gode i 14mila like che comunque il web le ha tributato.

«Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per un’egoista come te»: firmato Giovanna. E’ solo uno degli oltre 30 auguri di morte e 500 offese ricevuti su Facebook (e denunciati) da Caterina Simonsen, studentessa di Veterinaria all’Università di Bologna, colpita da quattro malattie genetiche rare, e divenuta il bersaglio di estremisti animalisti sul social network dopo avere pubblicato una foto che la ritrae con il respiratore sulla bocca e un foglio in mano, scrive invece “Il Corriere della Sera”. «Io, Caterina S. - recita la scritta - ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un futuro». Il post, rilanciato su Facebook dal gruppo «A favore della sperimentazione animale», ha ricevuto oltre 13mila «mi piace», ma ha suscitato anche una pioggia di «insulti, apprezzamenti, di tutto e di più», spiega la ragazza che con due video risponde a chi la attacca e lancia un appello a Partito animalista europeo, Lega antivivisezione (Lav) e Michela Vittoria Brambilla, affinché si dissocino dagli auguri di morte e prendano provvedimenti. «Se crepavi anche a 9 anni non fregava nulla a nessuno, causare sofferenza a esseri innocenti non lo trovo giusto», è il messaggio di Valentina. Concorda Mauro: «Per me potevi pure morire a 9 anni, non si fanno esperimenti su nessun animale, razza di bestie schifose». Insulti anche da Perry: «Magari fosse morta a 9 anni, un essere vivente di m... in meno e più animali su questo pianeta». Materiale che Caterina ha consegnato alla polizia postale, con nomi e cognomi degli autori dei post. «Non capisco il perché di tanta cattiveria - replica la giovane -. Loro non sanno chi sia io, cosa faccia io, e probabilmente sono così ingenui da non sapere che tutti i farmaci che prendono, che danno ai loro figli e che danno ai loro animali sono stati testati sugli animali». Caterina non mangia carne e il suo sogno è laurearsi in Veterinaria per «salvare gli animali». Seduta sul letto, circondata dalle decine di farmaci che deve assumere e dai macchinari che le permettono di respirare, la ragazza spiega a chi la attacca come trascorre la sua giornata tipo. Una lotta quotidiana contro quattro malattie rare (immunodeficienza primaria, deficit di proteina C e proteina S, deficit di alfa-1 antitripsina, neuropatia dei nervi frenici), abbinate al prolattinoma, un tumore ipofisario, e a reflusso gastroesofageo, asma allergica e tiroidite autoimmune. Per poter sopravvivere passa dalle 16 alle 22 ore al giorno attaccata a un respiratore, deve utilizzare un’apparecchiatura che le fa vibrare i polmoni aiutandola a eliminare muco, assume montagne di medicinali spray, per bocca e in vena. Tra i quali, tiene a evidenziare, anche alcuni indicati per curare cani, gatti, furetti, rettili e uccelli. Quattro volte Caterina è finita in rianimazione, a un passo dalla morte. Solo nell’ultimo anno ha accumulato 12 settimane di ricovero e 20 di terapia endovena, e per poter dare gli esami all’Università segue un programma studiato appositamente per lei. «Mi dicono “meglio 10 topi vivi di te viva”, ma io spero di avervi fatto capire quanto ci tengo a vivere», dice la giovane nei video. Questo è il suo appello: «Invito Brambilla, Lav e Partito animalista europeo a combattere contro l’utilizzo degli animali dove non è fondamentale per l’esistenza umana: la caccia, i macelli, gli allevamenti di pellicce. Anziché fare tanto rumore mediatico, e ostacolare il lavoro dei ricercatori potreste raccogliere fondi e investire soldi per cercare un metodo alternativo valido agli esperimenti sugli animali. Una volta trovati questi metodi, per legge dovranno sostituire i test sugli animali. Vi chiedo di chiedere all’Aifa di mettere grande sulle confezioni dei farmaci che il medicinale è testato sugli animali a norma di legge, così che chi si cura possa fare una scelta consapevole». A chi vorrebbe fosse morta, infine, la ragazza augura «il meglio», e «buona domenica». «È una vergogna quello che sta succedendo a Caterina. Non è ammissibile che persone disinformate e prepotenti si permettano di minacciare e augurare la morte a una persona gravemente malata». Così Dario Padovan, presidente di Pro-Test Italia (associazione non profit per la difesa della ricerca bio-medica), che bolla come «inaccettabili» gli insulti diretti alla ragazza. «Chiediamo che le associazioni animaliste prendano pubblicamente le distanze da questi comportamenti vergognosi e incivili di chi si professa sostenitore della loro stessa causa» conclude.

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

Il moralista spesso è disonesto. Peire Cardenal diceva che gli intellettuali si fanno predicatori morali, assassini che sembrano santi. Il moralista che dice: Ricchi perché disonesti. Ricchi perché spietati. Ricchi in quanto senza morale oppure, peggio, furbi. Il moralista è un comune esemplare appartenente alla fauna urbana che infesta reality show, programmi scandalistici tipo pomeriggio cinque e persino ristoranti di lusso. Pratiche diffuse tra i moralisti sono il rompimento di coglioni, la predica e la sentenza. Chiunque può diventare un moralista. Purtroppo, anche tu dato che sembrerebbe che nessuno di questi sia munito di buon senso e intelletto. Un moralista è uno scrittore che propone, in maniera discontinua, riflessioni sui costumi, le usanze e i modi di essere degli uomini, i loro caratteri e modi di vivere. Il moralista, in senso generico, è anche colui che «per carattere, per educazione o per cultura è portato a esaminare e valutare l’aspetto morale di qualsiasi questione o situazione» o chi, nel senso di "moralizzatore", pretende, attraverso le sue parole, presunti insegnamenti e, più raramente, il suo esempio, di dare lezioni di comportamento morale.

La moda del moralismo, scrive Gianni Pardo. La morale ha come base le necessità fondamentali del genere umano. L'intelligenza della nostra specie ci ha inoltre fatto capire che staremo tutti meglio se osserveremo un numero molto maggiore di regole rispetto a quelle che ci detta la natura: dal non fare rumore la notte per non disturbare i vicini al pagare le tasse; dal fare la coda allo sportello evitando discussioni alla cura dei vecchi, visto che vecchi diventiamo tutti (si spera) una volta o l'altra. Questo affinamento dei doveri consigliati dalla convivenza è molto meno cogente dell'istinto e infatti in questo ambito le società non sono tutte uguali. Si potrebbe dire che esistono società più o meno morali. Mezzo secolo fa chiesi ad una ragazzina, in Francia, che cosa avrebbe pensato di una compagnetta che a scuola avesse copiato il compito. E lei non ebbe dubbi: "Qu'elle est malhonnête", che è disonesta. Da noi invece anche i candidati al concorso per magistrato cercano di copiare. Dunque "la società scolastica francese è (era?) più morale dell'italiana". La morale nasce dalla società ma diviene un fatto individuale. Chi è abituato ad un certo comportamento finisce col considerarlo naturale. Quella bambina non si strapazzò a dichiarare che lei non avrebbe mai copiato come in Italia nessuno oggi si vanta dicendo: "Io non sputo per terra".  Eppure un secolo fa tanta gente lo faceva. L'uomo morale lo è senza proclami, mentre il moralista si considera degno di particolare stima. E questo è preoccupante. Chi dice mai: "Io non rubo" se non chi ha frequentato dei ladri o chi deve lottare contro la tentazione di rubare? Per questo Ernest Renan ha scritto: "Ho conosciuto molte canaglie che non erano moraliste, non ho conosciuto moralisti che non fossero canaglie". L'Italia, per cause remote, è poco morale. Il rispetto della collettività è evanescente; il sentimento religioso è tenue; il senso civico pressoché inesistente; le regole si rispettano se non se ne può fare a meno. In compenso, in passato i costumi erano tolleranti. Gli italiani (e i cinesi) furono sbalorditi quando gli americani pretesero le dimissioni di Richard Nixon solo perché aveva mentito. Dall'alto di una saggezza e di un pessimismo millenari trattavamo con indulgenza gli errori e i peccati altrui. Pensavamo, con Terenzio, che non ci è alieno niente che sia umano. Purtroppo nell'ultimo mezzo secolo noi italiani non siamo diventati più morali ma solo meno tolleranti. Dei vizi altrui. Fra i più accaniti moralisti ci sono coloro che non hanno molte possibilità di comportarsi male: per esempio i professori. Non possono imbrogliare sul peso, emettere fatture false o frodare il fisco e perciò sono più arcigni e severi di Girolamo Savonarola. Nel frattempo non si accorgono che le raccomandazioni sono un atto di disonestà. Non capiscono che, se dànno una lezione privata e non la dichiarano al fisco, sono evasori, come lo sono quando non chiedono la fattura all'idraulico per non pagare l'Iva. "Per somme minime!", esclamano. Come se si fossero volontariamente astenuti dall'ingannare il fisco per milioni di euro. Il moralismo italiano è una moda. Dimentichiamo le lezioni della storia e arriviamo all'assurdo di sostenere che i politici "devono dare l'esempio". Per non interferire col corso della Giustizia (più infallibile di Salomone) devono rinunciare a quella prescrizione cui nessun cittadino rinuncerebbe. A cominciare dai moralisti. Gli statisti non che arricchirsi dovrebbero rimetterci; gli amministratori degli enti pubblici dovrebbero essere impermeabili alle raccomandazioni per gli appalti mentre i privati raccomandano i figli a scuola e gli amici per qualche impiego. Ognuno depreca vivamente i peccati che, per una ragione o per l'altra, non può commettere, e scusa quelli che commette con la solita, imbattibile giustificazione: "Lo fanno tutti". I moralisti sono quelli che vorrebbero imporre a tutti gli altri una virtù sublime mentre usano un diverso metro per sé e per i loro cari. Il mondo dei media è pieno di questa fastidiosa genia. Siamo al punto che coloro che sono sul serio eccezionalmente morali non dovrebbero mai predicare la virtù: nessuno potrebbe distinguerli dai moralisti.

I moralisti che raccomandano agli uomini di soffocare le passioni e di dominare i desideri per essere felici, non conoscono affatto il cammino della felicità. Émilie du Châtelet, Discorso sulla felicità, 1779.

Non c'è un solo moralista che non possa essere convertito in un precursore di Freud. Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973.

Colui che predica la morale limita di solito le sue funzioni a quelle d'un trombettiere di reggimento, che dopo aver sonata la carica e fatto molto rumore, si crede dispensato di pagar di persona. Charles Lemesle, Misophilanthropopanutopies, 1833.

Un moralista è il contrario di un predicatore di morale; è un pensatore che vede la morale come sospetta, dubbiosa, insomma come un problema. Mi spiace di dover aggiungere che il moralista, per questa stessa ragione, è lui stesso una persona sospetta. Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89.

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. Pitigrilli (Dino Segre).

I moralisti han torto. La sessualità non si vince soltanto con l'astinenza ma anche con la lussuria. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

Diventerò moralista il giorno in cui uno mi dimostrerà di aver pensato durante il coito alla generazione futura. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità. Filippo Turati, Discorso parlamentare, 1907.

Un uomo che moraleggia è di solito un ipocrita, una donna che moraleggia è invariabilmente brutta. Oscar Wilde, Il ventaglio di lady Windermere, 1892.

Citazioni sulla morale.

Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. (Indro Montanelli).

Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta [...]. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. (John Stuart Mill).

Fino ad ora, sulla morale ho appreso soltanto che una cosa è morale se ti fa sentire bene dopo averla fatta, e che è immorale se ti fa star male. (Ernest Hemingway).

Ho sempre sentito che avevo delle responsabilità. Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Ma non ero io... era che non c'era niente di più importante nella mia vita, non c'era niente di più grande, sai... sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità, sì. (Tiziano Terzani).

Il moralista borghese è l'uomo della lettera anonima (Mario Mariani).

Il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca. (George Orwell).

Il peso materiale rende prezioso l'oro, quello morale l'uomo. (Baltasar Gracián y Morales).

L'onestà è lo stato allotropico della morale. (Carlo Maria Franzero).

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità! (Filippo Turati).

La loro moralità, i loro principi, sono uno stupido scherzo. Li mollano non appena cominciano i problemi. Sono bravi solo quanto il mondo permette loro di esserlo. Te lo dimostro: quando le cose vanno male, queste... persone "civili" e "perbene", si sbranano tra di loro. Vedi, io non sono un mostro; sono in anticipo sul percorso. (Il cavaliere oscuro).

La morale comune cambia, a seconda di dove si vive. (Allan Prior).

La morale è l'intera scienza del soggettivo e dell'obbiettivo morale. – La conoscenza del dovere per ciò che è dovere senza alcun riguardo a qualsiasi conseguenza. (Victor Cousin).

La morale è la cognizione de' nostri veri e solidi interessi. (Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy).

La morale è la debolezza del cervello. (Arthur Rimbaud).

La morale è semplicemente l'atteggiamento che adottiamo nei confronti di individui che, personalmente, non ci piacciono. (Oscar Wilde).

La morale è sempre la stessa, non si modifica a seconda del suo essere applicata alla sfera pubblica o alla sfera privata. Ma la morale tiene sempre conto dell'oggetto, della realtà a cui si applica. (Georges Marie Martin Cottier).

La morale è un fondo sociale che viene accresciuto lungo il doloroso corso delle epoche. (Jack London).

La morale non è altro che l'arte attiva e pratica di viver bene. (Pierre Gassendi).

La moralità, ciò che la società chiama «morale» di per sé non esiste. (Carlo Maria Franzero).

La moralità consiste nel rispettare le cose con la volontà, secondo il pregio ch'elle hanno. (Augusto Conti).

La moralità è il rapporto tra il gesto e la concezione del tutto in esso implicato. (Luigi Giussani).

La ricerca esclusiva dell'avere diventa un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale. (Papa Paolo VI).

La Rivoluzione sociale sarà morale, oppure non ci sarà. (Charles Péguy).

La vera moralità consiste non già nel seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla coraggiosamente. (Mahatma Gandhi).

La vergogna è un sentimento fondamentale. Vergogna viene da vere orgognam: tempo l'esposizione. Oggi l'esposizione non la si teme più. E allora cosa succede: se io mi comporto in una modalità trasgressiva, bè che male c'è. Vado incontro ai desideri nascosti di ciascuno di noi e li espongo, quanto son bravo. E allora a questo punto non sono più visibili con chiarezza i codici del bene e del male. C'era Kant che diceva che il bene e il male ognuno le sente naturalmente da sé, usava la parola sentimento. Oggi non è più vero. Semplicemente se uno ha il coraggio anche di mostrarsi vizioso, se ha il coraggio anche di mostrarsi trasgressivo è un uomo di valore, almeno lui ha il coraggio, ha interpretato i sentimenti nascosti di ciascuno di noi. Questo ormai significa, non dico il collasso della morale collettiva, ma persino di quella individuale, quella interna, quella psichica. Quindi la fine dei tempi. (Umberto Galimberti).

L'entusiasmo non è altro che ubriachezza morale. (George Gordon Byron).

Le passioni umane si fermano solo dinanzi a una potenza morale che rispettino. Se manca una qualsiasi autorità di questo tipo, la legge del più forte regna e, latente o acuto, lo stato di guerra è necessariamente cronico. (Émile Durkheim).

L'etica è più una questione di opinioni che una scienza. La morale è una consuetudine più che una legge naturale. (Robert Heinlein).

Il cedimento morale di tanti cristiani anzi, la crisi stessa della Chiesa hanno una causa. E questa causa è, per dirla chiara, l'indebolimento della fede. È impossibile vivere la morale cattolica se non si è più convinti, e fino in fondo, che Gesù Cristo è il figlio di Dio e che nel vangelo è contenuto il progetto divino per l'uomo. (Benedetto XVI).

L'indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia. (Vittorio De Sica).

L'intelligenza è una categoria morale. (Theodor Adorno).

Nella morale come nell'arte, nulla è dire, tutto è fare. (Ernest Renan).

Non può esserci agire morale, lì do­ve non ci sia l'altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. (Bruno Forte).

Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti. (Friedrich Nietzsche).

Non si può essere felici finché intorno a noi tutti soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere morali fintantoché il procedere delle cose umane viene deciso da violenza, inganno e ingiustizia; non si può neppure essere saggi fintantoché l'umanità non si sia impegnata nella gara della saggezza e non introduca l'uomo alla vita e al sapere del più saggio dei modi. (Friedrich Nietzsche).

Ogni disordine morale è un atto di guerra. (Carlo Gnocchi).

Ogni moralità trae la sua origine dalla religione, perché la religione è soltanto la formula della moralità. (Fëdor Dostoevskij).

Pensavi che potessimo essere persone per bene in questi tempi in cui tutto è male, ma ti sbagliavi. Il mondo è spietato, e l'unica moralità in un mondo spietato è il caso. Imparziale, senza pregiudizi, equo. (Il cavaliere oscuro).

Per i moralisti, tu sei naturalmente cattivo. La bontà sarà una disciplina imposta dall'esterno. Tu sei un caos e l'ordine deve essere instaurato da loro; saranno loro a portare l'ordine. E hanno fatto del mondo intero un pasticcio, una confusione, un manicomio, perché hanno continuato a fare ordine per secoli e secoli, a disciplinare per secoli e secoli. Hanno insegnato così tanto che coloro cui è stato insegnato sono impazziti. (Osho Rajneesh).

Per mettere in chiaro i veri princìpi della morale, gli uomini non hanno bisogno né di teologia, né di rivelazione, né di divinità: hanno bisogno solamente del buon senso. (Paul Henri Thiry d'Holbach).

Per morale o etica particolare od applicata s'intende quella parte di morale, la quale tratta del sommo bene e dell'onesto, ovvero dei doveri e della virtù in tutte le loro applicazioni e relazioni. Questa parte è la morale veramente pratica, quella che per alcuni forma tutta la scienza dell'etica, appunto perché in essa deve apprendere lo spirito ad operare. (Baldassarre Poli).

Più profittevole al mondo è chi abbia lasciato un solo precetto di morale, una sola sentenza riguardante la vita, che non un geometra, avesse egli pure scoperte le più belle proprietà del triangolo. (François-René de Chateaubriand).

Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio. (Theodor Adorno).

Quando mi trovavo a Motiers andavo a degli incontri mondani dai miei vicini portandomi in tasca sempre un bilboquet per giocarci per tutto il tempo per non parlare quando non avevo niente da dire. Se ognuno facesse altrettanto, gli uomini diventerebbero meno malvagi, i loro commerci diventerebbero più sicuri, e io penso, più agevoli. Infine, che qualcuno rida se vuole, ma io sostengo che la sola morale disponibile nei tempi odierni sia la morale del bilboquet. (Jean Jacques Rousseau).

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. (Pitigrilli).

Quello che diciamo praticamente morale, non è altro da quello che teoricamente diciamo filosofia. La distinzione deriva, a nostro modo di vedere, dal concepire astrattamente il bene, che è oggetto della morale, e la verità, che è oggetto della filosofia. (Giovanni Gentile).

Rivoltatela come più vi pare, | prima viene lo stomaco, poi viene la morale. (Bertolt Brecht).

Se la morale non urtasse, non verrebbe lesa. (Karl Kraus).

Si diventa morali non appena si è infelici. (Marcel Proust).

Tutti noi abbiamo bisogno di un coinvolgimento morale che vada oltre le meschine contingenze della vita quotidiana: dovremmo prepararci a difendere attivamente questi valori ovunque siano scarsamente sviluppati o siano minacciati. Anche la morale cosmopolita deve essere mossa dalla passione; nessuno di noi avrebbe nulla per cui vivere se non avessimo qualcosa per cui valga la pena morire. (Anthony Giddens).

Vilfredo Pareto: I precetti morali sono spesso volti ad assodare il potere della classe dominante, spessissimo a temperarlo. La morale tipo è stata considerata come alcunché di assoluto; rivelata od imposta da Dio, secondo il maggior numero; sorgente dall'indole dell'uomo, secondo alcuni filosofi. Se ci sono popoli i quali non la seguono ed usano, è perché la ignorano, e i missionari hanno l'ufficio di insegnarla ad essi e di aprire gli occhi di quei miseri alla luce del vero; oppure i filosofi si daranno briga di togliere i densi veli che impediscono ai deboli mortali di conoscere il Vero, il Bello, il Bene, assoluti; i quali vocaboli sono spesso usati sebbene nessuno abbia mai saputo cosa significassero, né a quali cose reali corrispondessero. Vi sono certi fenomeni ai quali nelle nostre società si dà il nome di ETICI o MORALI, che tutti credono conoscere perfettamente, e che nessuno ha mai saputo rigorosamente definire. Non sono mai stati studiati da un punto di vista interamente oggettivo. Chi se ne occupa ha una qualche norma che vorrebbe imporre altrui, e da lui stimata superiore ad ogni altra.

Moralisti e manettari. Provare a spiegare a uno straniero che cosa sia il rapporto tra certa magistratura è certa stampa in Italia è impossibile, scrive “Il Giornale”. Come si fa per esempio a raccontargli ciò che sta accadendo in queste ore sul cosiddetto «caso Panama». C'è Valter Lavitola al quale hanno notificato un altro provvedimento di arresto per un tentativo di estorsione ai danni di Impregilo. Ma non è questa la notizia, ovviamente. E la notizia non è neanche un'altra: cioè che lui avrebbe danneggiato Silvio Berlusconi, usato come esca inconsapevole per la grande azienda di costruzioni che voleva fare affari a Panama. No, per i giornali la notizia sarebbero i presunti filmini hard che lo stesso Lavitola avrebbe girato dopo aver procurato - dice lui - delle prostitute a Berlusconi. Così ieri i giornali erano tutti pieni di questa notizia condita con intercettazioni senza alcuna rilevanza processuale e penale che però sono stati sbattuti nell'ordinanza di arresto e che a quel punto sono finiti alle redazioni. È la vergogna che si ripete: le vittime di possibili reati trattate come colpevoli, la privacy e il rispetto stracciati, l'ossessione delle altrui vicende sessuali che porta a spiattellare tutto senza distinguere ciò che è notizia vera da ciò che invece non lo è. La cosa più grave, come sempre, è il silenzio: nel Paese dei moralisti a gettone, dei garantisti a chiamata nessuno che si sia alzato in piedi per dire che questo è uno scandalo. Una vergogna della quale l'Italia si macchia da vent'anni e della quale non si riesce a liberare. I verbali contengono il nulla su Berlusconi, ma non importa. Non appena compare il suo nome in un'inchiesta, anche come vittima, viene trasformato in autore di misfatti dei quali neanche è a conoscenza. Chi li ha letti dovrebbe essere indignato per il solo fatto che quegli atti siano stati pubblicati. Di più: per il fatto che siano stati inseriti nell'inchiesta. Ecco, se quello straniero ha comprato Repubblica o il Fatto Quotidiano avrà pensato che Berlusconi sia stato considerato responsabile di chissà quale nefandezza. Il numero di pagine dedicate dai giornali al fatto è talmente sproporzionato da far dedurre al povero forestiero che la cosa sia grossa e molto importante. Neanche la lettura degli articoli può averlo aiutato, tanta e tale la bile sprigionata dalle gazzette delle procure. Vagli a spiegare che se qualcosa di vero c'è, Berlusconi è la vittima. Non è possibile perché la militanza di magistrati e giornalisti manettari è così forte da uccidere la verità. E poi parlano di giustizia.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

I nuovi moralisti manettari e i frignoni italici .

"Qui piove e gli italiani si lagnano". Vittorio Feltri è una furia contro i piagnoni di casa nostra. Questa volta a far sbottare il fondatore di Libero è il meteo. In un editoriale su il Giornale, Feltri attacca chi si lamenta del freddo e della pioggia sotto le feste. Feltri guarda in Europa e afferma che in altri paesi come Inghilterra, Francia e Germania non c'è nessuno che "piange per il maltempo". "Siamo portati a dare una valenza politica a tutto, perfino ai fenomeni naturali, come se dipendessero dagli umani, in particolare se eletti e seduti in poltrona. Da quando non crediamo più in Dio, crediamo all'onnipotenza degli uomini. Siamo ridicoli", scrive Feltri. Insomma per Vittorio il motto "piove, governo ladro" è roba del secolo scorso. E così rincara la dose sugli italiani: "Per quanto riguarda la tempesta di Natale non si segnalano invece manifestazioni di protesta degli inglesi e dei francesi che hanno fatto i conti con tragedie non certo inferiori a quelle che periodicamente ci toccano". Infine la stoccata: "Vi sarà pure un motivo per cui il nostro popolo è incline a trovare un capro espiatorio al quale addossare la responsabilità di ogni guaio grosso o piccolo che sia. Probabilmente siamo talmente sospettosi nei confronti di qualunque autorità da temere che anche la furia degli elementi sia manovrata dal palazzo allo scopo di dimostrare che siamo ancora sudditi...". 

Politici postdatati vs cittadini retroattivi, scrive Nicola Porro. Per capire l’innesco, la sceneggiatura, di una rivoluzione borghese, o se preferite della classe media impoverita, basta tradurre in pagina il comportamento della nostra classe dirigente. Per se stessa applica il principio del «postdatato», mentre per il resto del mondo quello del «retroattivo». Andiamo al dunque. Si chiede a gran voce la riduzione (non fosse altro che per motivi di sobrietà istituzionale) dei costi della politica. I nostri geni si adeguano, producono una legge che avrà effetti nel prossimo futuro. Con il retropensiero che, passata la nottata, si possa sempre cambiare la norma al momento della sua esecuzione. Si taglia il finanziamento pubblico ai partiti, per dirne una, ma a partire dal 2017. Quando però la norma riguarda la gente comune, l’esecuzione è retroattiva. Altro che postdatata. Si applica una patrimoniale sui conti di deposito, ma a valere da ieri. Quindi è impossibile scappare. Si alzano le aliquote dell’Imu a dicembre, ma riguardano l’anno appena trascorso. Sono riusciti a inventarsi un acconto sulle imposte future superiore al 100 per cento di quanto presumibilmente dovuto. Le norme fiscali, nonostante lo Statuto dei contribuenti, sono spesso retroattive. Inchiodano al passato, senza dare la possibilità ai contribuenti di mutare, anche opportunisticamente, i propri comportamenti. L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui una norma fiscale restrittiva si applica anche per il periodo in cui essa non era ancora vigente. Ecco, non c’è bisogno di scomodare lo scrittore Ballard per capire i motivi dell’insofferenza e della rabbia che ci invade, basta fare una telefonata al commercialista.

I voltagabbana. ''Marco Pannella dice che non andrà in piazza. Ma ci andrà comunque la Bonino, insieme al giustizialista Di Pietro. Se i radicali oggi fossero davvero liberi e capaci di fare una cosa liberale, dovrebbero molto semplicemente rompere l’alleanza (anche nel Lazio) con Di Pietro e con le liste di sinistra comunista e massimalista. Ma non lo faranno. Il resto sono solo chiacchiere e fumisterie, nel vano tentativo di nascondere l’alleanza sempre più strutturale di Bonino e Pannella con forze illiberali, giustizialiste e manettare''. Lo dichiara Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, sottolineando che è un ''triste epilogo della storia radicale: si passa da Sciascia a Travaglio, da Tortora a De Magistris, da Pannunzio a D’Avanzo, da Ernesto Rossi a Gioacchino Genchi. Auguri''.

In politica la tattica è (quasi) tutto, scrive “Libero Quotidiano”. Pertanto, la sterzata manettara di Matteo Renzi non stupisce. Da essa, il rottamatore deriva una triplice utilità nell’immediato: a) vellica i settori di elettorato più buttachiavi presenti sia a destra sia a sinistra; b) picchia sul nervo scoperto del rapporto tra piani alti del Pd e Giorgio Napolitano; c) costruisce un altro tassello della propria persona congressuale di strenuo avversario delle larghe intese (e del Pd che, Enrico Letta in testa, nelle larghe intese sguazza vieppiù apparecchiando le inconfessabili pastette col Caimano). Un politico, specialmente uno attento alla propaganda come Renzi, che non cogliesse al volo un’opportunità tanto evidente sarebbe un politico dalle discutibili abilità e scaltrezza. Detto questo, la giravolta forcaiola di Renzi una certa tristezza riesce comunque a metterla. Prima di tutto perché certifica che il sindaco di Firenze sarà innovatore finché si vuole ma non lo è al punto di sapersi sottrarre alla dittatura dei sondaggi che tanto piagò la seconda repubblica: i contrari a indulto e amnistia sono al 60%? Ebbene, sia dia loro contrarietà a indulto e amnistia, e per pensare al resto il tempo si troverà.

Il motivo vero per cui la folgorazione mozzorecchi del rottamatore arreca il magone, però, è un altro. E cioè il tradimento plateale di uno degli elementi del renzismo primigenio che meglio avevano fatto sperare: la possibilità di dare vita ad una nuova sinistra in grado di fare politica senza sventolare manette e brogliacci di tribunale. Prometteva benissimo, Renzi, al punto da fare intravedere la rivoluzione copernicana persino nei confronti del nemico numero uno (quante volte l’avrà ripetuta la famosa frase su Berlusconi «che va battuto alle elezioni e non nei tribunali»?). E invece niente da fare, tutto buttato alle ortiche in nome della convenienza del momento. Purtroppo per il sindaco, le tracce della piroetta sono ben visibili. Una, bellissima, l’ha trovata ieri Blogo.it: è una schermata dell’account ufficiale di Renzi su Twitter risalente al 18 dicembre 2012. C’è scritto solo «#iostoconMarco». Il Marco in questione era Panella, il quale era impegnato in uno dei periodici scioperi della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inferno delle carceri e chiedere adeguati provvedimenti di clemenza. E Renzi stava con lui.

LA STAMPA ROSSA BRINDA ALL’ODIO.

La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica.
Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera.
Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.

QUANDO IL PCI RICATTO’ IL COLLE PER LA GRAZIA ALL’ERGASTOLANO.

Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate.   

Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati.

Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta.

Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte.

Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo.

Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto.
Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia ndr) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.

I POST COMUNISTI. I POST DELLA VERGOGNA.

Il caso Ilva, che ha portato in carcere Gianni Florido, Presidente Pd della Provincia di Taranto, è solo l’ultimo caso di un annus horribilis.

Il 2013, infatti, ha già visto una ventina di democrat arrestati o indagati. E il futuro non promette niente di buono, con la bomba Mps pronta a scoppiare. Pare così conclusa la definitiva mutazione del Pd in Pdl, anche da un punto di vista giudiziario. Eccoli, allora, tutti gli impresentabili di un partito allo sbando…

Non solo Ilva. L'annus horribilis del Pd, affossato alle Politiche e umiliato durante l'elezione del Capo dello Stato, non è cominciato bene nemmeno per quanto riguarda la questione morale, scrive “L’Infiltrato”. Appena una settimana dopo Capodanno, l'8 gennaio 2013, è Beppe Grillo a ricordare al fu segretario del partito, Pier Luigi Bersani, che gli impresentabili non abitano soltanto nella Casa delle Libertà: "Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d'ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna; Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d'ufficio; Giovanni Lolli, L'Aquila, rinviato a giudizio con l'accusa di favoreggiamento, prescritto; Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta; Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d'ufficio".

Se il leader M5S avesse aspettato ancora un po', avrebbe potuto rimpolpare il suo blog con altri esponenti Pd inguaiati con la giustizia. A partire dai due sottosegretari del governo Letta Vincenzo De Luca (l'ultima indagine a suo carico risale a meno di un mese fa per il progetto urbanistico Crescent) e Filippo Bubbico, indagato per truffa e abuso d'ufficio. Poi, in ordine temporale, il 16 gennaio, a Napoli, viene interrogato Nicola Caputo, consigliere regionale campano indagato nell'inchiesta sui rimborsi erogati per la comunicazione.

Al pm che lo interroga spiega che farsi accreditare direttamente sul conto i rimborsi per le spese della comunicazione non sarà lecito, ma è prassi. Passa un giorno e nell'inchiesta sui lavori per il sottoattraversamento del Tav a Firenze, vengono indagate 31 persone. Tra loro c'è anche Maria Rita Lorenzetti, che nel 2010 l'aveva giurata a Bersani che non la voleva ricandidare per un terzo mandato come presidente della Regione Umbria. All'ex deputata vengono contestati i reati che avrebbe compiuto come presidente di Italferr, del gruppo Ferrovie dello Stato.

Il 17 non porta bene neanche al sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Per il giovane delfino di Nichi Vendola, in quota Sel e appoggiato dal Pd, scatta l'indagine per falso e abuso d'ufficio per presunte irregolarità nella nomina del nuovo sovrintendente del teatro Lirico. Una decina di giorni dopo, il 28 gennaio, è il turno del consigliere della Regione Campania Enrico Fabozzi, eletto nel 2010 nelle liste del Pd e poi passato al Gruppo Misto.

L'ex sindaco di Villa Literno, già arrestato e poi scarcerato nel 2011, è accusato di abuso d'ufficio e falso per una vicenda inerente allo smaltimento dei rifiuti a Caserta. Il 30 gennaio, a Milano, vengono poi iscritti nel registro degli indagati una trentina di rappresentanti di Pd, Idv, Sel e Udc nell'inchiesta sui rimborsi ai gruppi politici al Pirellone (coinvolti anche Pdl e Lega).

Mentre alcuni si dicono certi "di poter dimostrare la regolarità delle spese", come il consigliere regionale Pd Franco Mirabelli, e "tranquilli", perché le risorse sono state "utilizzate per spese inerenti all'attività politica", come giura il capogruppo regionale Pd Luca Gaffuri, per altri la storia è più pesante. Letteralmente: Carlo Spreafico, vicepresidente del consiglio (Pd), ha chiesto che gli venisse rimborsato pure un vasetto di Nutella (scatenando le ironie di chi lo immagina varcare il Pirellone con un barattolo gigante di crema alle nocciole, come in Bianca di Nanni Moretti).

Se il mese di gennaio non fa fare bella figura al partito oggi guidato da Guglielmo Epifani, quello di febbraio lo affossa proprio. Nell'operazione contro la cosca Iamonte, che ha portato in carcere 65 tra capi e gregari, finisce in manette Gesualdo Costantino, sindaco di Melito Porto Salvo (Calabria), che - fascia tricolore addosso - concordava coi boss le sue mosse politiche. Gli inquirenti chiedono l'arresto anche del suo predecessore, Giuseppe Iaria (sempre Pd) ma il gip rigetta e l'ex sindaco è adesso indagato in stato di libertà.

Appendice scandalo Mps: Franco Ceccuzzi, ex parlamentare Pd ed ex sindaco di Siena, viene indagato nell'inchiesta sul fallimento del Pastificio Amato: l'accusa è di concorso in bancarotta. Si parla poi di un'indagine sulla spartizione delle poltrone tra Denis Verdini e lo stesso Ceccuzzi, sempre smentita da quest'ultimo.

L'8 marzo si celebra anche Maria Tindara Gullo, prima delle neodeputate Pd a essere indagata nel 2013 (per falso ideologico: il padre viene direttamente arrestato nella stessa inchiesta). La settimana dopo finisce in prigione anche Alberto Tedesco, primo ex parlamentare (Pd, poi Gruppo Misto) arrestato nel nuovo anno.

Gli ultimi a venire iscritti nel registro degli indagati, ad aprile, sono gli ex consiglieri Pd Stefano Lepri e Mino Taricco e Vito De Filippo, presidente della Regione Basilicata, coinvolto nell'inchiesta sui costi della politica. Rinviato a giudizio invece Stefano Bonaccini, segretario del partito emiliano, per turbata libertà degli incanti e abuso d'ufficio. I democratici impresentabili per ora sono una ventina: ma il 2013 non è neanche a metà, e il Pd ha ancora molto da imparare dai suoi alleati di governo.

Solo pochi anni fa, la notizia che uno dei dirigenti del Pci fosse stato oggetto di indagini della magistratura sarebbe apparsa straordinaria, quasi inverosimile: ciò anche in virtù del fatto che, per lungo tempo, le indagini della magistratura si sono orientate in un’unica direzione e che il silenzio dei tanti compagni G ha fatto da argine alla ricerca della verità in materia di finanziamento illecito dei partiti: finanziamento proveniente anche dall’estero. Oggi, gli avvisi di garanzia o di rinvio a giudizio dei dirigenti degli eredi del vecchio Pci, non fanno più notizia, tanto è elevato e frequente il loro numero, anche se le accuse di illecito hanno cambiato segno: si è infatti passati dal finanziamento illecito dei partiti, attraverso le tangenti provenienti da soggetti privati, all’appropriazione indebita di denaro pubblico per scopi di arricchimento personale, scrive Giuseppe Bianchi. Fra i casi più eclatanti di presunto finanziamento illecito vi è quello che riguarda Filippo Penati: eletto Sindaco del Comune di Sesto San Giovanni nel 1994, nel 2004 è stato eletto presidente della Provincia di Milano, nel 2009 è divenuto capo della segreteria politica di Bersani ed infine, nel 2010, è stato nominato vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia. Nel 2011 è arrivato a Penati il primo avviso di garanzia: è stato infatti indagato dalla Procura della Repubblica di Monza per corruzione e concussione in merito alle presunte tangenti intascate sulla riqualificazione dell’ex area Falk di Sesto San Giovanni.

Questo però non è che l’inizio: nel settembre 2011 Penati è stato indagato per concorso in corruzione sulla base di una inchiesta condotta dai PM di Monza e che riguarda l’acquisto compiuto dalla Provincia di Milano del 15 per cento delle azioni della società autostradale Milano-Serravalle, di proprietà del gruppo Gravio; acquisto avvenuto nel 2005 e che ha consentito alla provincia di Milano di detenere la maggioranza delle azioni. Un acquisto che fece discutere, in quanto le sue motivazioni non apparivano comprensibili, se inquadrate in una logica di puro interesse pubblico. Il 25 luglio 2011 Penati si dimise dalla carica di vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, ma non da quella di Consigliere regionale e solo nel settembre 2011, dopo il secondo avviso di garanzia, il Pd ha deciso di sospenderlo.

Altre indagini della magistratura, ancora in corso, hanno interessato Alberto Tedesco: nel 2005 venne nominato assessore alla Sanità della Regione Puglia dal Presidente Nichi Vendola. In quella occasione qualcuno sollevò perplessità sulla nomina, palesando l’ipotesi di un conflitto di interessi, in quanto la moglie ed i figli di Tedesco avevano partecipazioni azionarie in alcune società che commercializzavano in Puglia prodotti farmaceutici e parafarmaceutici. Nel 2009 Tedesco venne eletto Senatore della Repubblica. Nel febbraio dello stesso anno venne indagato dalla procura antimafia di Bari, con l'ipotesi di reato di associazione per delinquere e corruzione. A seguito dell'indagine, Tedesco si dimise dalla carica di assessore. Il 20 luglio 2011 il Senato negò l’autorizzazione all’arresto di Tedesco che, cinque giorni dopo, rassegnò le dimissioni dal Pd.

Anche il Presidente della Regione Puglia, leader della sinistra rosso-verde Sel, Nichi Vendola, non è sfuggito alle indagini della magistratura. Vendola è stato indagato per abuso d’ufficio: l’accusa e quella di aver favorito la nomina del primario Paolo Sardelli al reparto di chirurgia toracica dell’Ospedale San Paolo di Bari. A chiamare in causa Vendola è stata Lea Cosentino, ex Direttore Generale dell’Asl di Bari. Solo pochi giorni dopo è arrivato a Vendola un secondo avviso di garanzia: è indagato dalla Procura di Bari, insieme agli ex assessori alla Sanità della Regione Puglia, Alberto Tedesco e Tommaso Fiore, per una transazione, non conclusa, tra la Regione Puglia e l’Ospedale ecclesiastico Miulli, di Acquaviva delle Fonti, per un importo di 45 milioni di Euro.

Ai casi di Tedesco e Vendola, in Puglia, si è aggiunto quello dell'ex vicepresidente della Giunta regionale pugliese Sandro Frisullo, esponente importante del Pd pugliese, che è stato arrestato nell'ambito delle indagini sulla gestione della sanità pugliese. L'accusa è di associazione per delinquere e turbativa d'asta.. Secondo l'accusa, Frisullo, numero due della giunta guidata di Nichi Vendola, (sollevato dal suo incarico dal governatore) sarebbe stato "stipendiato" con soldi e favori di vario genere dall'imprenditore Giampaolo Tarantini, in cambio di vantaggi per le sue società nell'aggiudicazione di appalti per cinque milioni di euro presso la Asl di Lecce.

L’elenco degli avvisi di garanzia inviati ad esponenti importanti del Pd, non si conclude però qui: il caso che più ha destato clamore e stato quello che ha interessato il Senatore Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, prima che questo partito desse origine, insieme agli ex comunisti, al Pd. Il senatore Luigi Lusi è indagato per aver sottratto i soldi dei rimborsi elettorali, per un importo complessivo di 23 milioni di euro, in virtù del suo incarico di tesoriere della Margherita, creando una contabilità parallela che sarebbe sfuggita ai controlli dei revisori dei conti, perché prelevati in piccola quantità. Dopodiché i soldi sarebbero stati trasferiti in Canada, frazionati in novanta bonifici, sul conto delle società TTT srl e Paradiso, delle quali era unico proprietario.

Infine, approfittando dello Scudo Fiscale, Lusi avrebbe fatto rientrare il capitale investendo in immobili in Roma e in altre province, usando i parenti come prestanome e depositando il resto sul proprio conto corrente.

Per non dimenticare nessuno, credo vada la pena di ricordare il caso di Franco Pronzato, indagato per corruzione e turbativa d’asta: Pronzato è un manager genovese, uomo del Pd, socio fondatore dell’associazione Maestrale di Claudio Burlando, attuale consigliere di amministrazione dell’Enac, in passato consulente dell’allora ministro dei trasporti Bersani e, fino a poco tempo fa, consigliere dell’aeroporto Colombo di Genova.

Nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva, ma certo tanti indagati, in un partito che amava considerarsi “diverso e migliore” rispetto agli altri partiti, fanno un certo effetto.

"In 67 anni di Repubblica non è mai stato nominato nessun senatore a vita che abbia condotto la propria vita come l'ha condotta Berlusconi. Non credo che debba aggiungere altro". Luigi Zanda, senatore Pd e già nel consiglio d'amministrazione e vicepresidente del Gruppo Espresso, chiude con queste parole ogni possibilità di appoggio da parte del Pd al riconoscimento dell'onorificenza per il Cavaliere. Non solo. Nell'intervista rilasciata ad Avvenire, il capogruppo democratico sostiene che "secondo la legge italiana Silvio Berlusconi, in quanto concessionario, non è eleggibile. Ed è ridicolo che l'ineleggibilità colpisca Confalonieri e non lui". Parole come musica per le orecchie del Movimento 5 Stelle, che dell'ineleggibilità del Cav hanno fatto un cavallo di battaglia in campagna elettorale: "Siamo pronti a sostenere e votare nelle apposite sedi l'ineleggibilità del senatore Berlusconi, così come a contrastare politicamente la sua elezione a senatore a vita. La nomina di Berlusconi senatore a vita sarebbe un affronto al Paese e al rispetto delle leggi", chiarisce il capogruppo al Senato Vito Crimi.  "Sulla ineleggibilità ai sensi di una legge del 1957 collegata alle concessioni - sostiene Anna Maria Bernini - il Presidente dei senatori del Pd non può ignorare che il Parlamento si e più volte pronunciato nel senso della non applicabilità del disposto (parere peraltro ampiamente confermato da insigni costituzionalisti): pertanto riproporre il tema significa solo inseguire con pervicacia e sudditanza di iniziativa politica il fanatismo grillino. Era una questione già anacronistica vent'anni fa, tanto più lo è oggi in un sistema radio-televisivo ma soprattutto di comunicazioni multimediali radicalmente mutato, aperto e non monopolistico".

Dopo l'attacco di Luigi Zanda, capogruppo dei democratici alla Camera, che ha definito Berlusconi "ineleggibile", oggi tocca a Beppe Grillo sparare a zero sui partiti di maggioranza: "Il Pdl è solo Berlusconi, il Pd non si sa cosa sia - dice il leader del M5S in un'intervista all'emittente statunitense Cnbc International - Si proteggono l'un l'altro: Berlusconi non va in galera (perchè dovrebbe andare in galera) e nel Pd non si fanno indagini sulle banche, su Unipol e MpS, i più grandi scandali finanziari degli ultimi 50 anni. Questo non è un governo, è una metafora".

Ci voleva Daniela Santanché, scrive “Libero Quotidiano”, per mettere a nudo il moralismo ipocrita di Marco Travaglio e della sinistra. Nella puntata Del 16 maggio 2013 di Servizio Pubblico Michele Santoro imbastisce l'ennesima, noiosa, puntata sul processo Ruby. Nella bolgia rosso fuoco dei giustizialisti, ospite unico della serata è Daniela Santanché. Parla per primo Travaglio, che elenca, come fa da anni, i motivi della colpevolezza di Silvio Berlusconi, per poi lanciarsi in una difesa all'ultimo sangue di Ilda Boccassini e della sua requisitoria. La Santanché però non ci sta e ribatte a muso duro: "Le cose che ha detto Travaglio non mi stupiscono, ma gli sfugge una cosa: la vittima dov'è? Io sono contenta che lei abbia così tante certezze, io vivo nel dubbio: non c'è una sola ragazza che ha detto di essere stata costretta a fare qualcosa contro la loro volontà". E ancora: "Le sue parole di condanna sono una pulizia etnica contro tutti coloro che non la pensano come lei". Travaglio pare in difficoltà, ma subito giunge il soccorso rosso di Santoro, che spiattella in diretta televisiva alcune intercettazioni telefoniche che riguardano Berlusconi e Nicole Minetti. Dura, la replica della Santanché: "Siete degli uomini, avete conosciuto delle belle ragazze, siete ricchi, ma non vi è mai capitato, essendo ricchi, di fare dei regali a qualche ragazza? Non avete mai conosciuto una donna che vi frequentava per avere vantaggi?". Santoro e Travaglio, che si ritengono per definizione monopolisti della verità, però non si scompongono e ricominciano con la solita tiritera, rievocando tutte le fasi del processo, evadendo però la domande della Santanché. La chiusa della Santanché è fulminante: "Non si può processare uno stile di vita, queste ragazze non si possono definire puttane. Rischiamo di passare dal processo a Berlusconi a quello alle idee. Durante la requisitoria mi ha fatto paura l'accanimento, la voglia di scagliare dentro. Possiamo parlare di scelte di vita, di morale, etica. Ma non di reato". Una lezione di vita. La discussione scivola poi sulla grave affermazione della Boccassini su Ruby ("Furbizia orientale", aveva affermato durante la requisitoria, criticandone quindi i suoi comportamenti). Dichiarazioni che la Santanché bolla senza giri di parole come "razziste".

Questione morale a sinistra. Sottosegretari, deputati, sindaci Ecco gli impresentabili del Pd. Soltanto nel 2013, risultano indagati o arrestati una ventina di democratici, scrive “Libero Quotidiano”. Indagati e arrestati: anche il Pd ha i suoi impresentabili. Nei primi cinque mesi dell'anno sono già una ventina i democratici inguaiati con la giustizia. Il conto e l'elenco l'ha fatto Beatrice Borromeo sul Fatto Quotidiano che parte con i nomi fatti da Beppe Grillo l'8 gennaio 2013 all'ex segretario Bersani quando gli rinfacciava che la questione morale "non riguardava solo la Casa delle Libertà".

Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna", scriveva il leader del Movimento Cinque Stelle sul suo blog all'inizio dell'anno continuando con "Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio; Giovanni Lolli, L’Aquila, rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento, prescritto; Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta; Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d’ufficio”.

A questi il Fatto fa seguire l'elenco di consiglieri regionali, sindaci, capogruppo ed ex parlamentari che ad oggi risultano indagati e arrestati in tutta Italia. A partire dai due sottosegretari del governo Letta: Vincenzo De Luca (l’ultima indagine a suo carico risale a meno di un mese fa per il progetto urbanistico Crescent) e Filippo Bubbico, indagato per truffa e abuso d’ufficio. Poi c'è Nicola Caputo, consigliere regionale campano indagato nell’inchiesta sui rimborsi erogati per la comunicazione, e Maria Rita Lorenzetti, che nel 2010 l’aveva giurata a Bersani che non la voleva ricandidare per un terzo mandato come presidente della Regione Umbria. A lei vengono contestati i reati che avrebbe compiuto come presidente di Italferr, del gruppo Ferrovie dello Stato nell’inchiesta sui lavori per il sottoattraversamento del Tav a Firenze.

Falso e abuso d'ufficio per presunte irregolarità nella nomina del nuovo sovrintendente del teatro Lirico sono i reati per i quali è indagato il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Anche il consigliere della Regione Campania Enrico Fabozzi, eletto nel 2010 nelle liste del Pd e poi passato al Gruppo Misto, già sindaco di Villa Literno, già arrestato e poi scarcerato nel 2011, è accusato di abuso d’ufficio e falso per una vicenda inerente allo smaltimento dei rifiuti a Caserta.

Nell'inchiesta sui rimborsi ai politici del Pirellone, per la quale risultano indagati una trentina tra democratici, Idv, Sel, Udc, Pdl e Lega, ne vengono fuori delle belle proprio riguardo il Pd: agli atti c'è la richiesta di Carlo Spreafico, vicepresidente del consiglio, che voleva che gli venisse rimborsato pure un vasetto di Nutella.

L'elenco della Borromeo continua con Gesualdo Costantino, sindaco di Melito Porto Salvo (Calabria), che concordava coi boss della cosca Iamonte le sue mosse politiche. Gli inquirenti chiedono l’arresto anche del suo predecessore, Giuseppe Iaria (sempre Pd) ma il gip rigetta e l’ex sindaco è adesso indagato in stato di libertà. E ancora: Maria Tindara Gullo, prima delle neodeputate Pd a essere indagata nel 2013 per falso ideologico, e Alberto Tedesco ex parlamentare Pd, poi Gruppo Misto, arrestato. Ad aprile vengono indagati gli ex consiglieri Pd Stefano Lepri e Mino Taricco e Vito De Filippo, presidente della Regione Basilicata, coinvolto nell’inchiesta sui costi della politica. Rinviato a giudizio invece Stefano Bonaccini, segretario del partito emiliano, per turbata libertà degli incanti e abuso d’ufficio.

Ovviamente c'è poi lo scandalo Mps con Franco Ceccuzzi, ex parlamentare Pd ed ex sindaco di Siena, indagato nell’inchiesta sul fallimento del Pastificio Amato: l’accusa è di concorso in bancarotta. Si parla poi di un’indagine sulla spartizione delle poltrone tra Denis Verdini e lo stesso Ceccuzzi, sempre smentita da quest’ultimo.

SCANDALI DALL'EMILIA ALLA CALABRIA.

Scandali dall'Emilia alla Calabria Pd scosso da inchieste e arresti. Bologna indagati i vertici della Provincia, a Cosenza due consiglieri ai domiciliari. A Torino Fassino sotto attacco: "Ha svenduto agli Agnelli una mega-area pubblica", scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Venti di burrasca giudiziaria si abbattono sul Pd a una manciata di giorni dalle primarie, e soffiano anche su quell'Emilia dove i bersaniani avevano appena finito di sospirare per l'assoluzione del presidente regionale Vasco Errani, fedelissimo del segretario. Nei guai, stavolta, finisce Beatrice Draghetti, presidente della Provincia di Bologna, indagata insieme al suo vicepresidente Giacomo Venturi e all'ex assessore al Bilancio Maria Chiusoli. Indagati anche l'ex sindaco di Bologna, Flavio Delbono, e l'ex assessore comunale al Bilancio Villiam Rossi. Tutti, secondo i pm, responsabili di abuso d'ufficio in concorso «per aver procurato al Consorzio cooperative costruzioni (Ccc) un rilevante vantaggio patrimoniale», relativamente a un appalto pubblico da 90 milioni di euro. Gli amministratori del Pd sono accusati di aver permesso alla coop di incassare i finanziamenti per progettare e realizzare il people mover, monorotaia che collegherà stazione e aeroporto, trasferendo il «rischio d'impresa» all'agenzia di trasporto pubblico bolognese, l'Atc. Ma se in Emilia piovono magagne giudiziarie sul partito di Bersani, il tempo è grigio anche in Calabria. A Cosenza ieri sono stati arrestati dalla Dia due consiglieri provinciali del Pd: l'ex sindaco di Rende Umberto Bernaudo e l'ex assessore ai lavori pubblici dello stesso comune Pietro Ruffolo, quest'ultimo già indagato e arrestato nel 2010 nell'ambito di un'altra indagine per la quale, rinviato a giudizio, ha scelto di «autosospendersi» da assessore provinciale. I due esponenti del Pd - considerati vicinissimi al capogruppo regionale del partito, Sandro Principe - secondo la Dda di Catanzaro avevano finanziato e poi capitalizzato con 8 milioni di euro una cooperativa di servizi per «garantire occupazione e pagamento di uno stipendio mensile a soggetti legati da vincoli di parentela o contiguità a esponenti apicali del clan Lanzino». In pratica la coop Rende 2000, ribattezzata Rende Servizi dopo essere divenuta a partecipazione comunale grazie ai due politici e a 8 milioni di fondi pubblici, assicurava uno stipendio al luogotenente del clan, Michele Di Puppo, allo stesso boss della 'ndrangheta Ettore Lanzino e ad altre persone affiliate o vicine all'associazione mafiosa, in cambio dell'appoggio elettorale in occasione delle consultazioni del 2009, vinte appunto dal centrosinistra. A incastrare i due esponenti del Pd una serie di intercettazioni telefoniche dalle quali è emerso anche «l'utilizzo dei dipendenti (della cooperativa, ndr) per lo svolgimento della campagna elettorale di Bernaudo e Ruffolo». Per il gip, che ha escluso l'aggravante del metodo mafioso (la Dda ha impugnato il provvedimento) «l'unica funzione economica» della coop era «assicurare una retribuzione» ai dipendenti vicini al clan Lanzino. Intanto a Torino Piero Fassino è al centro di una polemica, priva al momento di risvolti giudiziari, per la cessione in concessione alla Exor di John Elkann dei 180mila metri quadri della Cascina Continassa per 10,5 milioni di euro, 0,58 euro al metro quadrato. L'area, attigua al nuovo stadio della Juve, dovrebbe diventare il centro d'allenamento della squadra, ma sono previsti anche 33mila metri quadri di metrature destinate all'edilizia: cinema, centro benessere, hotel e case di lusso. Ma il via libera in aula è stato travagliato: tre consiglieri del Pd si sono astenuti, uno ha votato contro. E Oscar Giannino, torinista oltre che giornalista, ha urlato allo scandalo: «Regalo immondo».

ANNA CHE SOGNA IL CSM AZZOPPATA DAL MARITO INQUISITO.

Non solo. Anna, l'ex pm che sogna il Csm azzoppata dal marito inquisito. Costretta a lasciare il Parlamento dopo 25 anni, la Finocchiaro punta alla poltrona prestigiosa, ma la sua foga moralizzatrice è meno credibile dopo i guai del consorte, scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Peggio di così non poteva andare ad Anna Finocchiaro nell'affannosa ricerca di una poltrona sostitutiva di quella che perderà nel 2013. La piacente senatrice del Pd, da sei anni capogruppo a Palazzo Madama, dovrà infatti lasciare il Parlamento nel quale piantò le tende cinque lustri fa. Vi arrivò trentaduenne facendo strage di cuori con la sua prorompente - ma distante - bellezza all'antica, se ne va cinquantasettenne statuaria e severa com'era venuta, ma più furbastra e rotta ai sotterfugi di Palazzo. Con sette legislature alle spalle, Anna ha stracciato il limite di tre fissato dallo statuto del partito. Né può sperare in un'eccezione per i suoi meriti, poiché due calibri più grossi e di pari anzianità parlamentare, Walter Veltroni e Max D'Alema, hanno deciso di ritirarsi, rinunciando a trattamenti di favore. Risoluzione che l'ha spiazzata togliendole ogni illusione di rivestire il laticlavio ancora qualche annetto, giusto per toccare la sessantina, spruzzare di grigio i folti capelli e tornare pacificata nella sua Catania profumata di zagare. L'improvvida alzata d'ingegno dei due dioscuri, è stato il primo ostacolo contro cui ha cozzato la sua ferma volontà di sedere comunque su una bella poltrona nei prossimi anni. Il secondo intoppo è più personale. Sfumata la possibilità di Palazzo Madama, Anna ha pensato di trasmigrare al Csm quale membro eletto dal Parlamento. Si garantirebbe quattro anni di auto blu, un buon appannaggio e il presentat'arm del piantone all'ingresso. Come ex magistrato, ne ha la capacità tecnica; come onorevole di lungo corso, la caratura politica. Per la riuscita del piano, si è affidata a Pier Luigi Bersani, segretario del partito e maestro di trattative sottobanco. È il suo faro da quando, Max D'Alema, l'idolo d'antan, si è sfarinato. Tutto pareva filare liscio finché, a fine ottobre, la magistratura catanese le ha rinviato a giudizio il marito, Melchiorre Fidelbo, per abuso di ufficio e truffa. Inquietante da parte degli ex colleghi l'incriminazione del congiunto in coincidenza con la candidatura al Csm. Segnale di non gradimento o atto dovuto non rinviabile? Chissà. E ancora: è opportuno per una signora che ha sotto processo l'amato consorte (Fidelbo e Finocchiaro sono coppia affettuosa e affiatata) l'ingresso nell'organo di controllo dei giudici o, invece, la nomina rischia di apparire una pesante interferenza nella causa? È un brutto pasticcio, senatrice, e non le sarà facile decidere appropriatamente alla luce della sua storia. Ricordo, da fervido ascoltatore delle sue intemerate in tv, quante volte con la sua voce dalle profonde risonanze baritonali ha condannato a spada tratta chiunque sia stato sfiorato dal sospetto. Ferrigna e impietosa, ha giudicato il ministro Bossi, caduto in disgrazia, «incompatibile col ruolo che ricopre»; ha ingiunto a Tremonti di «dimettersi», per un presunto affitto di favore; su Claudio Scajola, che già si era dimesso, ha voluto egualmente infierire rilevando che la situazione «era insostenibile»; per tacere dei reiterati liscio e busso al Cav, tra epiteti («nano della politica») e anatemi («deve farsi da parte, è incompatibile»). Quindi, per tornare al suo dilemma se insistere o desistere dal Csm, dovrà ora mostrarci se la sua implacabilità, finora applicata ad altri, vale anche per sé. L'imputato Melchiorre è un bravo ginecologo, un ottimo compagno e il primo fan della moglie. Incoraggiò Annuzza a entrare in Parlamento nonostante fosse incinta e ha accudito la prima quanto la seconda bambina mentre lei si faceva strada a Roma. Per un quarto di secolo è rimasto pressoché invisibile finché, un annetto fa, è balzato alle cronache per avere ottenuto - in favore di Solsamb, srl cui è cointeressato - un appalto regionale di 1,7 milioni per informatizzare il presidio sanitario di Giarre. Forse è stato preso di mira a causa della moglie illustre, fatto sta che il giorno dell'inaugurazione dei lavori un tizio inalberò un cartello con la scritta: «Anna Finocchiaro, vergognati». Con un balzo, lei gli fu addosso. «Vergogna di che?», sibilò. La scena fu ripresa, un periodico di Catania pubblicò il video, Finocchiaro minacciò querele e la faccenda divenne pubblica. La Regione mandò ispettori che sentenziarono la violazione delle regole e l'appalto fu revocato. Emerse che, per ottenerlo, Melchiorre avrebbe fatto indebite pressioni e aleggiò il sospetto - maligno e non provato - che la potente consorte ci avesse messo lo zampino. Di qui, il processo e l'antipatica impasse che ora costringe Annuzza a rivedere i programmi futuri. La senatrice è senza dubbio un'ambiziosa carrierista che cela le mire personali col paravento del femminismo. Non rivendica gli onori per sé - sostiene - ma per affermare il diritto della donna a raggiungere i massimi traguardi che la lobby maschile le preclude. «Il fenomeno - ha sostenuto - si chiama soffitto di cristallo: le donne vedono le cariche più alte, ma un soffitto di cristallo impedisce loro di salire». Finocchiaro parla per esperienza. È stata infatti candidata alle supreme sfere, ma poi lasciata con un palmo di naso da un uomo. Nell'aprile 2006, doveva diventare ministro dell'Interno di Prodi. La spuntò invece Giuliano Amato. Il mese successivo, circolava il suo nome come capo dello Stato, dopo che Prodi aveva bofonchiato: «Ci vuole un segno di novità. Magari una donna». Al Quirinale salì invece Napolitano. Lei, che si era illusa, dichiarò indispettita al Corsera: «Un uomo col mio curriculum l'avrebbero già nominato presidente della Repubblica». Esagerava. All'epoca, il suo curriculum erano cinque legislature da ciompo e un ministero senza portafoglio (Pari opportunità) nel 1996. In realtà, è stata più vittima di se stessa che della maschia prepotenza. Esemplare la vicenda della candidatura nel 2007 alla segreteria del nascente Pd. Nell'ultimo congresso dei Ds a Firenze, maggio 2007, Finocchiaro fece un divino discorso, interrotto da ventuno applausi. Aveva il partito in pugno e le vele al vento. D'Alema, suo mentore, la benedisse: «Sei tu la mia candidata» alla guida del futuro Pd. Invidiosetta ma profetica, la collega Livia Turco osservò acidula: «D'accordo su una donna. Ma non strumentalizzata dagli uomini». Annuzza fece spallucce e, poiché su Max avrebbe messo la mano sul fuoco, si cullò nell'attesa dell'incoronazione. Era ancora impalata alla promessa, quando in giugno Fassino e D'Alema, in combutta con l'interessato, si accordarono su Veltroni capo del Pd. Finocchiaro seppe del bidone a cose fatte. Non sbatté il pugno sul tavolo, né sul grugno di D'Alema. Si accucciò all'istante, prona e obbediente, con il tipico riflesso comunista di soggezione al capo. Ecco perché, a furia di inghiottire rospi, è ancora inappagata e tuttora ingorda di pubbliche prebende. A noi pagare il conto delle sue frustrazioni.

SPRECHI ED ABUSI E C’E’ CHI MUORE DI FAME

DISASTRO PD

Quarantatrè milioni per una bonifica che non c'è: indagato Bassolino. Inchiesta sulla più volte annunciata bonifica del litorale flegreo e dell’agro-aversano, che la Regione Campania, la cui giunta all’epoca era presieduta da Antonio Bassolino, affidò alla Jacorossi imprese spa, scrive “Libero Quotidiano”. L'ex governatore della Campania si era assunto degli obblighi cui sapeva fin dall’inizio di non poter far fronte sprecando di fatto il denaro. Assunzioni senza concorso pubblico, segretarie di partito che lavorano a Montecitorio continuando a essere pagate dalla Regione, e ancora governatori sospettati di loschi affari nella sanità regionale. Non c'è giorno che la cronaca giudiziaria non associ i nomi di illustri personaggi del centro sinistra a reati quali l'abuso di ufficio o lo spreco di denaro pubblico. Zaia Veronesi, segretaria storica di Pierluigi Bersani, era dipendente in regione Emilia Romagna fino al 2010, ma aveva ricevuto un incarico per tenere i rapporti con le istituzioni centrali e con il Parlamento: secondo l'ipotesi accusatoria non vi sarebbero prove delle prestazioni lavorative per la Regione da parte della donna per circa un anno e mezzo nel periodo compreso tra il 2008 e il 2009. L'ex sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino è stata indagata per 215 assunzioni senza pubblico concorso nella società in house del Comune "Napoli Sociale". Il Pm ha chiesto oggi 20 mesi di carcere per Vendola che sarebbe intervenuto, in qualità di presidente della Puglia, sulla dirigente della Asl premendo per la riapertura dei termini di un concorso a primario ospedaliero. Ultima in ordine cronologico la notizia che anche l'ex governatore Antonio Bassolino è indagato per danni per le casse dello Stato per complessivi 43 milioni di euro. Tanto è costata ai cittadini la più volte annunciata bonifica del litorale flegreo e dell’agro-aversano, che la Regione Campania, la cui giunta all’epoca era presieduta da Antonio Bassolino, affidò alla Jacorossi imprese spa. L’operazione "Nimby" - acronimo inglese a significare "non nel mio giardino" - ha portato alla luce un caso di spreco di denaro pubblico legato al contratto stipulato nel 2002 tra la società Jacorossi, Regione e il Commissariato di Governo per l’emergenza bonifiche e tutela delle acque della Regione Campania per la realizzazione del progetto "piano per la gestione degli interventi di bonifica e rinaturalizzazione dei siti inquinati del litorale domizio-flegreo e agro versano". Il vice procuratore generale della Corte dei Conti campana Pierpaolo Grasso ha potuto rilevare che l’affidamento dell’appalto era intervenuto non solo senza gara pubblica e in assenza della prevista certificazione Soa - necessaria a comprovare la capacità tecnica ed economica dell’impresa per l’esecuzione dell’appalto pubblico - ma anche senza tener conto dei pareri negativi espressi dai competenti uffici ministeriali e dall’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, per i quali il progetto presentato dalla Jacorossi risultava carente di informazioni necessarie. L'appalto del valore complessivo di oltre 117 milioni di euro per la progettazione e l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti del litorale domitio flegreo e dell’agro aversano attraverso l'impiego di 380 lavoratori socialmente utili fu comunque affidato a questa società. Inoltre Commissariato di Governo e Regione, committenti del contratto, secondo l’indagine della procura della Corte dei Conti regionale si erano assunti obblighi cui sapevano fin dall’inizio di non poter far fronte, sia per i tempi di esecuzione troppo stretti, sia per le proteste delle comunità locali all’apertura di nuovi siti. Il mancato rispetto degli obblighi contrattuali ha comportato conseguenze negative per i profili finanziari, costringendo il committente a sostenere costi non preventivati per lo smaltimento dei rifiuti presso impianti di imprese terze e a non utilizzare i lavoratori socialmente utili, ai quali, tuttavia, ha continuato a erogare retribuzioni. Diversi contenziosi sorti in sede civile tra Jacorossi Spa, il Commissariato alle Bonifiche e la Regione Campania si sono conclusi nel 2007 con la stipula di un accordo aggiuntivo-transattivo al contratto originario, nel quale, oltre a dover riconoscere, per le proprie inadempienze, la somma di 21,8 milioni di euro quale risarcimento dei danni subiti dalla Spa, è stato inspiegabilmente disposto un ulteriore affidamento alla stessa società dei servizi di asporto rifiuti e bonifica. Nel danno erariale quantificato, dalla procura contabile, circa 22 milioni di euro sono proprio il corrispettivo del risarcimento danni riconosciuto alla Jacorossi Spa, 17 milioni circa i maggiori costi sostenuti per lo smaltimento dei rifiuti presso terzi e circa 4 milioni di euro per quanto pagato dall’Inps a titolo di cassa integrazione ai 380 lsu nei periodi di fermo delle attività di bonifica.

La Faccenda vista da sinistra.

Nei guai in tutto 17 tra politici e tecnici: tra questi anche l'ex ministro Bordon e l'intera giunta dell'epoca. L'inchiesta della Corte dei Conti ha fatto emergere alcune irregolarità nelle procedure per la bonifica del litorale domizio ed agro. Così scrive "Il Fatto Quotidiano". Ci sono anche l’ex governatore della Campania Antonio Bassolino, l’ex ministro dell’Ambiente Willer Bordon e l’ex sottosegretario al Lavoro Raffaele Morese tra i 17 politici e tecnici ai quali la Corte dei conti della Campania chiede la restituzione di oltre 43 milioni di euro di danno erariale. La vicenda è quella delle bonifiche del litorale domizio ed agro aversano affidate nel 2002 alla Jacorossi Imprese spa attraverso un accordo stipulato tra l’azienda, la Regione Campania ed il commissariato di Governo per l’emergenza bonifiche e tutela delle acque. L’invito a dedurre della Corte dei Conti è stato inviato anche agli ex sub commissari per l’emergenza rifiuti Angelo Vanoli e Arcangelo Cesarano e all’intera giunta all’epoca dei fatti: l’ex vice presidente della Regione Campania Antonio Valiante e gli ex assessori Adriana Buffardi, Vincenzo Aita, Gianfranco Alois, Luigi Gesù Anzalone, Teresa Armato (attualmente parlamentare del Pd), Ennio Cascetta, Maria Fortuna Incostante (anche lei parlamentare del Pd), Federico Simoncelli, Marco Di Lello, Luigi Nicolais (oggi presidente del Cnr) e Rosalba Tufano. Le indagini condotte dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Napoli, confluite nel procedimento del vice procuratore generale della Corte dei conti Pierpaolo Grasso, hanno fatto emergere anomalie e incongruenze nei contratti, nelle liquidazioni economiche, nell’impiego degli ex lavoratori socialmente utili. Irregolarità che si sarebbero tradotte in un salasso per le casse pubbliche. L’affidamento dell’appalto avvenne senza gara pubblica e in assenza della certificazione Soa, necessaria a comprovare la capacità tecnica ed economica dell’impresa per l’esecuzione dell’appalto pubblico. Inoltre il contratto sarebbe stato concluso nonostante i pareri negativi degli uffici ministeriali e dell’Anpa (l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente), perplessa sulle carenze del progetto. Alla Jacorossi venne affidato un appalto di 117 milioni di euro per la progettazione e l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti del litorale domitio flegreo e dell’agro aversano attraverso l’impiego di 380 lavoratori socialmente utili. Ma secondo gli inquirenti era lampante sin dal momento della sottoscrizione che le condizioni del contratto erano impossibili da rispettare: tempi di esecuzione troppo ristretti, forti opposizioni delle comunità locali all’apertura di nuovi siti. Il commissariato contestava all’impresa i continui ritardi, l’impresa li imputava al mancato reperimento da parte del commissariato delle discariche necessarie allo smaltimento dei rifiuti speciali. Così sono stati sostenuti costi non preventivati per lo smaltimento dei rifiuti presso impianti di imprese terze e non sono stati utilizzati gli “lsu”, che però hanno continuato a riscuotere gli stipendi. Prima di finire in cassa integrazione. I contenzioni sorti in sede civile tra la Jacorossi, il Commissariato alle Bonifiche e la Regione Campania si sono conclusi nel 2007 con la stipula di un accordo aggiuntivo-transattivo al contratto originario. La Jacorossi ha riscosso un risarcimento danni di quasi 22 milioni di euro e persino un ulteriore affidamento dei servizi di asporto rifiuti e bonifica. Alla cifra di 43 milioni di danno erariale si arriva sommando a questi 22 milioni di euro, altri 17 milioni circa quali maggiori costi sostenuti per lo smaltimento dei rifiuti in altre aziende e circa 4 milioni di euro per quanto pagato dall’Inps a titolo di cassa integrazione ai 380 lsu nei periodi di fermo delle attività di bonifica. Negli anni scorsi la vicenda Jacorossi fu oggetto anche di un’inchiesta della Procura di Napoli che accese un faro sulle infiltrazioni camorristiche nei subappalti delle bonifiche. Il 12 ottobre 2009 i carabinieri del Noe guidati da Sergio De Caprio, il “capitano Ultimo” che catturò Toto Riina, sentirono a Napoli il pentito Gaetano Vassallo, l’imprenditore che dal 1987 al 2005 ha smaltito scorie tossiche sul territorio campano per conto dei clan. Il “ministro dei rifiuti” del boss Francesco Bidognetti affermò di sapere “che la Jacorossi aveva ottenuto la grande commessa pubblica grazie ad aderenze politiche. Di suo so per certo che non effettuava alcun lavoro ma si limitava a distribuire i lavori tra più ditte. In sede locale (omissis) la distribuzione avveniva sulla scorta delle conoscenze e del vincolo camorristico”. L’inchiesta penale, che coinvolse tra gli altri Bassolino e l’ex prefetto di Napoli Alessandro Pansa, entrambi in qualità di ex commissari all’emergenza rifiuti, oltre ai vertici romani della Jacorossi, si concluse con l’archiviazione. Mentre quella contabile, che ha toccato altri soggetti e ha contestato altri tipi di responsabilità, è andata avanti sino alla citazione in giudizio per 43 milioni di euro.

Bassolino. Non è la prima volta che succede.

Inchiesta rifiuti a Napoli, indagato Bassolino. Arrestati prefetto ed ex vice di Bertolaso. Le misure cautelari sono state prescritte per 14 persone, tra cui Marta Di Gennaro, ex vice del capo della Protezione Civile e il prefetto Corrado Catenacci. L'accusa è di aver consentito lo sversamento di percolato in mare scrive “ Il Fatto Quotidiano” Sono nomi di spicco quelli coinvolti nell’inchiesta sui rifiuti a Napoli che in mattinata ha portato all’arresto di Marta Di Gennaro, ex vice di Guido Bertolaso alla Protezione Civile, e del prefetto Corrado Catenacci, ex commissario ai rifiuti della Regione Campania. E tra le 38 persone indagate risultano pure l’ ex presidente della Regione Antonio Bassolino, l’ex assessore regionale Luigi Nocera e l’ex capo della segreteria politica di Bassolino, Gianfranco Nappi. L’operazione per reati ambientali è stata eseguita in varie zone d’Italia dai carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico) e dalla Guardia di Finanza di Napoli, coordinata dalla procura della Repubblica di Napoli. A Di Gennaro e Catenacci è stato concesso il beneficio degli arresti domiciliari. Nella stessa operazione sono state arrestate altre 12 persone. Le accuse sono di associazione per delinquere, truffa e reati ambientali. Sequestri di documentazione sono stati messi in atto in diverse sedi istituzionali, come la Prefettura di Napoli, la Regione Campania ma anche la Protezione civile di Roma e in sedi di aziende di rilievo nazionale. Nel corso delle indagini è stata accertata l’esistenza di un accordo illecito tra pubblici funzionari e gestori di impianti di depurazione campani che ha consentito, per anni, lo sversamento in mare del percolato (rifiuto liquido prodotto dalle discariche di rifiuti solidi urbani), in violazione delle norme a tutela dell’ambiente. Il percolato veniva immesso senza alcun trattamento nei depuratori dai quali finiva direttamente in mare, contribuendo ad inquinare un lunghissimo tratto di costa della Campania, dal Salernitano fino al Casertano. Le ordinanze di custodia cautelare (otto in carcere e sei ai domiciliari) sono state eseguite a Napoli, Roma, Caserta e Parma. L’indagine, durata fino al luglio 2010 e prosecuzione di quella conclusa nel maggio 2008 (nota con il nome di ‘Operazione Rompiballe’, che ha portato all’arresto di 25 indagati per traffico illecito di rifiuti) è stata sviluppata mediante attività tecniche, nonché riscontri documentali, che hanno permesso di acquisire gravi indizi di colpevolezza nei confronti di ex uomini politici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione e tecnici delle strutture commissariali che si sono avvicendati al Commissariato per l’emergenza rifiuti della Regione Campania dal 2006 al 2008.

Magna magna tutto rosso.

Zoia, il ritratto della segretaria su cui è scivolato il buon Bersani: la sacrestana della chiesa rossa. La signora Veronesi è da vent'anni al fianco del segretario del Partito Democratico. Talmente "fedele" da seguirlo ovunque (a spese della Regione Emilia Romagna), scrive Andrea Morigi su “Libero Quotidiano”. Altro che partiti liquidi o di plastica. Finché resisteranno donne d’apparato come la sessantenne Zoia Veronesi, le strutture politiche sopravvivranno anche ai terremoti giudiziari. Mai vista a perdere tempo alla buvette o a chiacchierare in giro per i corridoi della Regione Emilia Romagna. Anche chi lavora da decenni nei palazzi di viale Aldo Moro, a Bologna, l’avrà incrociata sì e no una decina di volte. Si era fatta le ossa per nove anni al seguito del segretario degli allora Ds, Mauro Zani, un “duro” che si è ritirato dalla politica rifiutando perfino di iscriversi al Pd, considerandolo troppo socialdemocratico. Lei invece è gentile, simpatica, per niente burbera e arrogante. Minuta, capelli rosso tiziano, qualche lentiggine, non si presenta certo con l’aria della pasionaria trinariciuta. Eppure, la sua dedizione alla causa nasce da una scelta di vita, quasi da sacrestana della chiesa rossa. Obbediente fino in fondo, quando all’inizio degli anni Novanta il partito la affida alla stella nascente Pier Luigi Bersani, “la Zoia” porta tutta la propria esperienza e le proprie conoscenze. Da allora, fra il 1993 e il 1996, per accedere al neo-presidente della Regione Emilia Romagna si deve passare obbligatoriamente da lei. Del segretario del Pd, lei sa tutto. Non è mica una che sta lì a pettinare le bambole, direbbe il suo superiore diretto. Tiene lei l’agenda, anche quella personale, cioè privata. Ne sa più lei, sull’uomo di Bettola, di chiunque altro, compresi i familiari. Se scegliesse di parlare, insomma, verrebbe giù tutto il sistema, a partire dagli intrecci fra il settore pubblico e il mondo delle cooperative. Perciò la trattano tutti con i guanti. Tranne qualche magistrato che, magari con il segreto intento di scardinare l’omertà degli ex comunisti, decide di entrare senza tanti complimenti nel bel mezzo della cruciale battaglia per le prossime primarie del Pd. Finora, il caso Greganti insegna, i compagni avevano attivato gli anticorpi e così si erano salvati dalle indagini che li hanno lambiti da Tangentopoli in avanti. Poi, proprio a partire dalla cerchia di stretta fiducia di Bersani, si sono staccati i primi pezzi con il caso Penati. E ora arrivano le picconate propria sulla fidatissima Zoia, indagata dalla procura di Bologna con l’ipotesi di reato di truffa aggravata ai danni della Regione Emilia Romagna. In realtà, così avevano inteso tutelarla. Basta verificare il suo curriculum. Da dipendente della Regione, fra il 1996 e il 2001, all’epoca dei governi dell’Ulivo, le viene concessa l’aspettativa per seguire Bersani al ministero delle Attività produttive prima e ai Trasporti poi, dove sarà assunta come collaboratrice esterna nello staff del ministro. Con la sconfitta elettorale del centrosinistra, torna in Regione, dove nel frattempo, dal 1999, si è insediato Vasco Errani. La inquadrano come dirigente, anche se non risulta in possesso di una laurea. Nel frattempo, libero da gravosi impegni istituzionali, Bersani fonda con l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco l’associazione Nens, acronimo di “Nuova economia nuova società”. All’organizzazione viene chiamata la signora Veronesi, che si conferma affidabile e precisa, visto che attualmente continua a ricoprire lo stesso incarico. L’unico incidente di percorso càpita nel 2010, quando il parlamentare bolognese Enzo Raisi solleva il caso: come mai nonostante l’incarico di «raccordo con le istituzioni centrali e con il Parlamento» nel gabinetto del Governatore emiliano, la signora Veronesi è sempre a Roma, ufficialmente alla sede di rappresentanza della Regione presso la Capitale? Così la Zoia si dimette. Subito la assumono al Pd. Pensano di aver sistemato tutto. E comunque di averla protetta. Perché è una specie in estinzione. Come lei, ormai, non ce ne sono mica più. Nemmeno a Bologna.

Bologna, indagata per truffa segretaria storica di Bersani. La donna è accusata di truffa ai danni dell' Emilia-Romagna: è stata trasferita nel 2010 a Roma per tenere i rapporti istituzionali tra Regione e Parlamento, ma per la procura di Bologna del suo lavoro non c'è traccia. La difesa: "Nessuna irregolarità". Il finiano Raisi, che presentò l'esposto: "Feci il mio dovere. Persino Berlusconi mi disse che avevo fatto male a presentarlo", scrive Luigi Spezia su “La Repubblica”. L'esposto che ha inguaiato la segretaria di Bersani

Zoia Veronesi, ex storica segretaria di Pierluigi Bersani quando era ministro dello Sviluppo Economico e prima ancora quando era presidente della Regione Emilia-Romagna, dal ‘93 al ‘96, risulta indagata per truffa aggravata nell’inchiesta del pm Giuseppe Di Giorgio, iniziata nel marzo 2010 dopo un esposto dell’onorevole Enzo Raisi, Fli, e del consigliere comunale di Bologna Michele Facci (Pdl). Il reato, secondo l’ipotesi di accusa, è stato commesso nei confronti della stessa Regione Emilia-Romagna. L’ex funzionaria regionale, che lavora ancora nello staff del segretario ma assunta dal Pd, è stata chiamata a rendere un interrogatorio in Procura per spiegare che lavoro abbia svolto a Roma in circa un anno e mezzo, dal giugno del 2008 al gennaio 2010, inquadrata in una nuova posizione dirigenziale per tenere il "raccordo con le istituzioni centrali e con il Parlamento". Secondo quanto emerso nell’indagine, non risultano tracce di questa sua funzione ed ecco quindi spiegata l’accusa di truffa: avrebbe percepito per circa un anno e mezzo stipendio e indennità da parte della Regione senza prestare in effetti la sua opera.

Bersani: "Giusto che magistratura accerti". "Visto che c'è un esposto, ancorchè di Raisi, è giusto che la magistratura accerti. Io sono sicuro che le cose siano state fatte per bene". Così il segretario del Pd Pier Luigi Bersani commenta il caso dell'informazione di garanzia a Zoia Veronesi. Quella nuova posizione venne istituita dalla Regione (a firma del capo di gabinetto Bruno Solaroli, ex parlamentare Pci) il 27 maggio 2008, poco dopo la caduta del governo Prodi (il 7 maggio). Nei due anni del governo Prodi, Zoia Veronesi, prese un’aspettativa dalla Regione Emilia Romagna e a Roma fu la segretaria di Bersani ministro. Nell’esposto del deputato Raisi, si chiede se "è solo una coincidenza il fatto che la Regione abbia istituito una nuova posizione dirigenziale nel maggio 2008, cioè subito dopo la formazione e il cambio del nuovo governo nazionale per permettere alla signora Veronesi di rimanere a Roma, anche dopo il venire meno dell’incarico al Ministero?". Ciò che l’esposto vuol suggerire è che quella figura sia stata creata ad hoc per fare in modo che Veronesi continuasse a rimanere a Roma e a svolgere l’attività di segretaria dell’ex ministro Bersani. Lei aveva già spiegato di essere in realtà una dipendente regionale a tutti gli effetti: "Lavoro 36 ore e nel tempo libero e nei week-end faccio ciò che mi aggrada". Zoia Veronesi si è poi dimessa dalla Regione il 28 gennaio 2010 e dall’aprile successivo ha accettato di lavorare di nuovo con Bersani diventato segretario del Pd nell’ottobre 2009.

Il procuratore Giovannini. "Le indagini allo stato sono circoscritte alla signora Veronesi. Ovviamente sono stati acquisiti ed esaminati tutti i documenti sull'iter burocratico relativo al distacco a Roma". Lo dichiara il procuratore aggiunto Valter Giovannini, portavoce della procura di Bologna.

La difesa. L’avvocato Paolo Trombetti che la difende, dichiara che tutto sarà chiarito: "Abbiamo interessa a chiarire in questo interrogatorio che non c’è stata nessuna irregolarità da parte di chicchessia, tantomeno della signora Veronesi". E ha concluso: "Non avremo problemi a dimostrare che in realtà Zoia Veronesi è stata funzionaria al 100 per cento della Regione anche in quel periodo e porteremo tutte le prove al magistrato".

Raisi: "Ho fatto il mio dovere". "Nel 2010 feci cinque esposti. Uno di questi riguardava la Veronesi. Avevo avuto dei documenti e delle carte dove si configuravano dei reati a suo carico. Ho verificato la loro veridicità, presentandoli alla magistratura". Così Enzo Raisi, ex deputato Pdl ora di Fli, commenta la notizia di Zoia Veronesi. "Io sono un garantista nato - dice all'Adnkronos Raisi- finchè non interviene una sentenza di condanna, sono tutti innocenti. Ma sono confortato dal fatto che avevo visto bene e ho fatto fino in fondo il mio dovere istituzionale. Ricordo ancora che mi criticarono e presero in giro per questi cinque esposti. Persino Berlusconi, quando venne a Bologna, mi disse che avevo fatto male a presentarli", rivela il coordinatore regionale di Fli in Emilia Romagna.

Il Pd: "Assoluta serenità". Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha accolto con "assoluta serenità" la notizia di una informazione di garanzia alla sua storica segretaria zoia veronesi, a seguito di un esposto del deputato finiano Enzo Raisi. Il leader del Pd, apprende la dire, non ha nascosto lo stupore per una contestazione del tutto infondata. A Largo del Nazareno fanno notare che "a onor del vero, per il partito, Zoia ha fatto per molto tempo del volontariato". E quanto all'iniziativa di Raisi, commentano i vertici Pd: "Raisi tira fuori questa storia a ogni elezione".

Truffa e abuso su appalto da 1,7 milioni, rinviato a giudizio il marito della Finocchiaro. Nell'udienza preliminare di stamattina il giudice Marina Rizza ha rinviato a giudizio il marito della senatrice e altri quattro indagati per una presunta truffa sull'appalto da 1,7 milioni per informatizzare il Pta di Giarre, che venne assegnato senza gara pubblica. Secondo l'accusa il marito della senatrice avrebbe fatto pressioni sui dirigenti dell'Asp, scrive Salvo Catalano su “La Repubblica”. Quattro rinvii a giudizio nell'ambito dell'inchiesta sulla procedura amministrativa che aveva portato, a Catania, all'affidamento senza gara dell'appalto per l'informatizzazione del Presidio territoriale di assistenza (Pta) di Giarre, assegnato alla Solsamb srl, società guidata da Melchiorre Fidelbo, marito della senatrice del Pd Anna Finocchiaro. Tra loro lo stesso Fidelbo, il manager dell'Asp etnea Antonio Scavone, l'ex direttore amministrativo dell'Azienda sanitaria provinciale di Catania Giuseppe Calaciura, e il direttore amministrativo dell'Asp Giovanni Puglisi. Non luogo a procedere per la responsabile del procedimento, Elisabetta Caponetto. I quattro devono rispondere di abuso d'ufficio e di truffa su un appalto da 1,7 milioni di euro per l'informatizzazione del sistema ospedaliero affidato senza gara d'appalto alla società di Melchiorre Fidelbo. Il Gip ha accolto la richiesta del pubblico ministero Alessandro La Rosa, che aveva chiesto il rinvio a giudizio per Fidelbo e gli altri quattro indagati: Giuseppe Calaciura, attuale direttore del Parco dell'Etna, all'epoca dei fatti direttore amministrativo dell'Asp di Catania; Giovanni Puglisi, direttore amministrativo ed Elisabetta Caponetto, responsabile del procedimento. Quest'ultima è stata prosciolta. A loro si è aggiunto all'inizio dell'estate, su richiesta dello stesso Gip Rizza che ne ha chiesto l'iscrizione nel registro degli indagati, anche Antonio Scavone, ex manager dell'Asp di Catania. Per tutti, i reati contestati sono abuso d'ufficio e truffa aggravata. Oggi il pubblico ministero ha ripercorso le tappe che hanno portato alla richiesta di rinvio a giudizio. Un appalto da 1,7 milioni di euro per l'informatizzazione del Presidio territoriale giarrese assegnato dall'Asp di Catania alla società Solsamb, di proprietà di Fidelbo, senza nessuna gara d'appalto e quindi non considerando il divieto di affidare incarichi esterni senza bando di evidenza pubblica. Secondo l'accusa Fidelbo avrebbe fatto pressioni sui dirigenti dell'Asp. Un ruolo importante, in tal senso, avrebbe assunto sull'asse Catania-Palermo anche Scavone, che avrebbe favorito con alcune delibere l'affidamento dell'appalto alla Solsamb. "Non esiste né la truffa, né l'abuso d'ufficio - ha sostenuto Carmelo Galati, legale di Scavone - perché l'impostazione accusatoria manca dei presupposti di legge. Quale sarebbe la norma violata? Non c'è stato un rapporto diretto tra l'azienda e la Regione, ma tra lo Stato e la Regione". La sentenza del giudice Rizza, lo stesso che a giugno ha chiesto al pm l'imputazione per Scalone e l'aggravamento del capo di accusa, è attesa a breve.

Vedova Fortugno. Condannata l'eroina antimafia Pd: il tramonto di "Lady legalità". Maria Grazia Laganà, parlamentare del Partito Democratico, condannata in primo grado: nei guai per le forniture ospedaliere. In imbarazzo tutto il partito scrive Andrea Scaglia su “Libero Quotidiano”. Condannata, sia pur in primo grado. Per truffa, falso e abuso. Due anni di carcere, pena sospesa. Certo la notizia è clamorosa, e non solo perché trattasi di parlamentare del Partito Democratico, dunque ennesima tegola giudiziaria per Bersani e compagnia. A essere giudicata colpevole dal Tribunale di Locri è stata infatti Maria Grazia Laganà. Vedova oggi 53enne di quel Francesco Fortugno che, all’epoca vicepresidente del Consiglio regionale calabrese in quota Margherita, venne assassinato il 16 ottobre 2005. Giusto l’altro giorno la Cassazione ha confermato in via definitiva gli ergastoli per un mandante - Giuseppe Marianò - e due esecutori. In qualche modo sconfessando la pista politico-mafiosa, e invece confermando la ricostruzione incardinata su una vicenda di rancori e gelosie professional-elettorali ambientata proprio all’ospedale di Locri - dove lavorava lo stesso Marianò e anche la moglie di Fortugno. Per anni Maria Grazia Laganà ha ripetuto che i veri mandanti andavano cercati più in alto. E dopo l’elezione al Parlamento nel 2006 - sponsorizzata da Walter Veltroni e ripescata dopo i solito complicato gioco di rinunce e recuperi - ha rappresentato un punto di riferimento per quanto riguarda le manifestazioni di sensibilizzazione contro lo strapotere della ‘ndrangheta in Calabria. Per questo la condanna della Laganà fa sensazione: perché ha sempre fatto della legalità un punto fermo del suo impegno politico. Peraltro, lei ha sempre ripetuto - anche nelle dichiarazioni spontanee in aula prima del verdetto - di essere innocente. Si è autosospesa dal partito, «per evitare qualsiasi speculazione politica». La vicenda che ha portato alla condanna della Laganà risale proprio a quando rivestiva il ruolo di vicedirettore sanitario dell’ospedale di Locri. Un’inchiesta cominciata dopo l’omicidio di Fortugno, in seguito allo scioglimento dell’Asl in questione e dopo la relazione compilata al commissario straordinario subentrato, il prefetto Paola Basitone, poi divenuta vice capo della Polizia. E comunque, le accuse si basano sulle dichiarazioni - che evidentemente la Corte ha ritenuto essere sufficientemente riscontrate - di un’ex dirigente dello stesso ospedale, Albina Micheletti - assolta nel processo. La quale ha raccontato d’essere stata convocata nell’estate del 2005 dalla Laganà. E questa, alla presenza dello stesso Fortugno, avrebbe caldeggiato l’approvazione di una fornitura per il pronto soccorso da parte della ditta Medinex di Reggio Calabria. Dunque mascherine, divise, set universali per pazienti, supporti per terapia infusionale, borse di ghiaccio e quant’altro. Il commissario in carica in quel periodo, Benito Stanti, riferì poi in tribunale che arrivarono effettivamente in ospedale tre forniture di materiale ospedaliero per un valore di poco inferiore a 800mila euro, e di essersi insospettito perché la fornitura pareva eccessiva - un magazziniere gli confermò che di articoli del genere già ce n’erano a sufficienza, e comunque la Medinex si riprese parte del materiale, per circa 130mila euro. In ogni caso, per falso e abuso sono stati condannati a un anno e quattro mesi anche un altro ex dirigente dell’Asl, Maurizio Marchese, e Pasquale Rappoccio, che della Medinex era il titolare. Rappoccio venne poi arrestato nell’ottobre 2011 dall’Antimafia con l'accusa di intestazione fittizia di beni e connivenze con la cosca Condello, e anche coinvolto nelle inchieste sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia. Il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, chiede a Bersani: che fai ora, la cacci? O dato che non è del Pdl continuerai con il doppiopesismo di sinistra?

Generalmente si dice che i partiti rubano soldi ai cittadini con il finanziamento pubblico mascherato da rimborso elettorale. Mai si era sentito che i partiti fossero derubati essi stessi dai loro componenti. Bene. E’ successo anche questo.

Luigi Lusi, l'ex tesoriere della Margherita indagato per appropriazione indebita per aver preso dalle casse del partito 13 milioni di euro, prova a difendersi. Dice: "avevo bisogno di quei soldi e li ho presi. Ho lavorato dieci anni come amministratore...". Il senatore Pd si dice pronto a patteggiare la condanna. Ai magistrati si è detto pronto a restituire il maltolto. Ma la proposta di fidjussione che è già stata depositata - secondo quanto scrive il Corriere - copre 5 milioni di euro. Una cifra di gran lunga inferiore rispetto a quello che sarebbe l'importo del maltolto. Lusi ha spiegato che il resto dei soldi è servito a pagare le tasse, ma non è apparso convincente e bisognerà effettuare nuove verifiche. Il partito accetterà l'offerta di Lusi per la restituzione di soli 5 milioni. Nell'attesa i magistrati stanno valutando l'eventualità di disporre il sequestro cautelativo dei beni immobili ma anche di convocare quei dirigenti di Democrazia e Libertà che sostengono di aver chiesto una verifica dei bilanci già nei mesi scorsi, ma di non aver ottenuto nessuna risposta.

Da “Panorama”  si apprende che la Margherita era stata già sciolta ma i soldi fluivano ancora dalle casse del partito che non era più, dissolto petalo dopo petalo e innestato nella Quercia, a quelle del suo tesoriere vivo, vegeto e sempre più florido. Dal conto corrente del (fu) partito di Rutelli e Parisi a quelli personalmente collegati all’ex capo dei Boy Scout e senatore del PD alla seconda legislatura, Luigi Lusi. Certo, la prima legge che ha infranto Lusi è proprio quella dei benemeriti Scout. Con l’aggravante grottesca di succhiare linfa a un ramo morto, un partito zomby che aveva perso la sua funzione politica ma continuava a svolgere una funzione reale di drenaggio fondi (pubblici) e relativa redistribuzione (privata). All’insaputa anche di chi di quel conto era cointestatario, cioè l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli.

Regola numero 8: “Lo Scout sorride e fischietta in tutte le difficoltà”.

Regola numero 9: “Lo Scout è economo”. Non sappiamo se Lusi, accusato di aver dirottato su società e conti propri o della famiglia quasi 13 milioni di euro di finanziamento pubblico a Democrazia e Libertà, abbia l’animo di fischiettare, come non fosse stato colto con le dita nella marmellata. Certo, “un economo” lo era. Probabile che sia rimasto ligio anche ad altre regole: essere cortese, amico degli animali, ubbidiente verso i genitori e il Capo Pattuglia, amico di tutti e fratello di ogni altro Scout. Ma ha inciampato, magari sorridendo, sulla regola numero 1 della Legge dello Scout (“L’onore di uno Scout è di esser creduto”), la 2, sulla fedeltà alla Patria e ai datori di lavoro, e la 10: “Lo Scout è pulito nel pensiero, nella parola e nell’azione”.

Rutelli oggi è parte lesa, degli intrallazzi del suo tesoriere non sapeva né aveva sospettato nulla. Chi, invece, aveva subodorato la truffa e protestato e chiesto lumi nelle riunioni da zombi della Buonanima Margherita è il professor Arturo Parisi. Una voce di bilancio fantasma di 4 milioni di euro, per esempio, Lusi l’avrebbe giustificata come obolo per Dario Franceschini nelle primarie contro Bersani. Ma Franceschini nega. Gli altri, da Gentiloni a Fioroni, da Bianco a Santagata, per arrivare ai confluenti della Quercia con in testa lo stesso Bersani, dicono che nulla sapevano e nulla si immaginavano. Il bilancio era stato pubblicato sull’organo della Margherita, Europa. Per quel che vale. Ma la cosa più incredibile è che i soldi erano veri, e infatti si sono trasformati al tocco della bacchetta magica di Lusi in una villa a Genzano e un appartamento milionario in una delle più eleganti vie del centro di Roma, dietro Campo de’ Fiori, e in flussi milionari in più tranche (per non dare nell’occhio) verso una società collegata a Lusi in cambio di consulenze di facciata.

Vizi privati e pubbliche virtù: quando il Tribunale di Milano decise di non ammettere il patteggiamento per gli imputati nel fallimento Parmalat, Lusi, che oggi sembra voglia chiedere il patteggiamento, esultò perché erano state “riconosciute le ragioni di decine di migliaia di italiani che hanno visto azzerati i loro risparmi in uno degli scandali finanziari più catastrofici della storia d’Italia. Una decisione che conforta chi crede che nel nostro Paese le leggi ci siano e vadano rispettate”. Inquieta pensare che uno come lui abbia ricoperto nella sua carriera incarichi da consigliere giuridico del Comune di Roma per le politiche della casa e della sicurezza, delegato del sindaco, poi nelle municipalizzate Metroferro e Trambus, tesoriere nella campagna elettorale del 2001 di Rutelli per Palazzo Chigi, infine “cassiere” della Margherita. Che già era un fossile della politica. Ma un fossile d’oro.

Luigi Lusi ha ammesso di aver sottratto 13 milioni di euro dai bilanci della Margherita. Come hanno reagito alla vicenda gli ex dirigenti di quel partito? E che cos'hanno detto al “L’Espresso” i colleghi di Lusi di oggi, cioè i vertici di del Pd? Ecco qua:

«Lusi? Affari suoi. Io non commento la storia di uno che ha già ammesso di essersi preso i soldi per farsi la casetta piccolina in Canadà.» (Rosy Bindi).

«Mi sembra che si stia parlando di una persona diversa da quella che conosco.» (Roberto Giachetti).

«Io non do mai giudizi prima di aver letto le carte ma di certo Lusi riscuoteva la fiducia di tutti, erano riconosciute le sue capacità di tesoriere.» (Giuseppe Fioroni).

«Siamo incazzati e addolorati. La Margherita intende recuperare tutto il maltolto.» (Francesco Rutelli, ex leader Margherita).

«C'erano alcune voci opache. Somme consistenti in uscita che non convincevano. Per questo chiesi di sospendere l'assemblea per avere tempo di leggere meglio il bilancio. Ma eravamo in scadenza dei termini per l'approvazione del bilancio e quindi si andò avanti. Ma ottenni che si istituisse un organismo di verifica. Però questa commissione non veniva mai convocata. Alla fine si decise una data. Era novembre. Io tornai da un viaggio in Cina per partecipare. Ma la riunione andò deserta. Non venne nessuno». (Arturo Parisi).

«Noi non ne sapevamo niente». (Pierluigi Bersani).

«Le voci del bilancio erano troppo riassuntive e chiesi chiarimenti. Infatti l'assemblea di fine giugno andò per le lunghe e alla fine il bilancio preventivo 2011 non fu votato e il chiarimento rinviato a un organismo ad hoc. Sono molto turbato, è un'accusa che addolora.» (Pier Luigi Castagnetti).

«Questa storia meno si commenta e meglio è»; «In passato ho contestato in più di un'occasione l'integrità dei processi di rendicontazione e la trasparenza dei bilanci»; «E' da tre anni che non ci è consentito di vedere i bilanci e, conseguentemente, di approvarli»; «E' una storia strana. Va bè che Lusi gestiva con abbondante autonomia i bilanci, ma c'è un revisore dei conti. Un comitato di tesoreria politico, composto da tante persone, mica da uno solo. Sono troppi soldi, la cosa non si spiega...»; «Mi sembra sia riuscito a bypassare troppi controlli.» (Renzo Lusetti).

«Ho chiesto più volte le carte e non me le hanno date. Le cose che so le dirò ai giudici, se mi chiameranno.» (Giulio Santagata. In seguito ha precisato: «Era solo una conversazione scherzosa»).

«Il potere amministrativo, in base allo Statuto, era interamente nelle mani del senatore Luigi Lusi: persona da tutti stimata.» (dalla nota diffusa dalla Margherita dopo lo scoppio dello scandalo).

I “comunisti” con i loro alleati ex avversari: i democristiani. Si considerano da sempre i migliori dal punto di vista intellettuale: o sei con loro o sei nulla. Invece sono ignoranti perché si nutrono solo con cultura sinistroide. Efficienti dal punto di vista amministrativo per favorire al meglio i loro amici a scapito degli altri, creando consenso. Gli avversari non li combattono, li distruggono con la violenza, spesso giudiziaria. Inquadrati ed omologati ad un “Kapo” e alla sua idea conforme e retrograda, che non si discute, ma si impone agli altri. Con le primarie, spesso, l’ala più oltranzista, fondamentalista ed organizzata si impone con il solo 10% di tutto l’elettorato di sinistra.

Non parliamo di questione morale, per carità. Quelli lì - quelli del Pd - mica ne vogliono sentire parlare. A partire dal leader Pier Luigi Bersani che si appiglia alle querele per far passare i giornalisti come una macchina del fango messa in moto per minare la superiorità dei democratici. Perché, dal sistema di tangenti che avrebbe orchestrato Filippo Penati, dall'amministrazione della sanità pugliese targata Alberto Tedesco e dall'affaire Enac che ha fatto scattare le manette per l'ex consigliere al ministero dei Trasporti di Bersani, Franco Pronzato (tanto per fare qualche esempio, solo gli ultimi in ordine cronologico), non si evince mica che in via del Nazareno qualche problema con la giustizia esiste. Macchè! Quelli lì - quelli del Pd - sono diversi, sempre e comunque. Diversamente ladri, magari, ma diversi, dice il Giornale.

Guai a parlare di questione morale, guai a dare il nome giusto alle cose: la parola "mazzetta" è off limit. Eppure, secondo una inchiesta di Panorama, dal Piemonte alla Sicilia sono oltre cento i membri del Partito democratico finiti nelle maglie della giustizia per i reati più diversi. "Una contabilità devastante - si legge - per il partito che ha sempre affermato la propria diversità e cha fatto della questione morale il proprio cavallo di battaglia".

Vallo a spiegare al Partito democratico che i reati non sono mai diversi a seconda di chi sia a infrangere la legge, che aver votato a favore della carcerazione del pdl Alfonso Papa e contro quella di Tedesco, che a negare sempre e comunque l'esistenza di una questione morale non giova affatto al dibattito.

«Il Partito Democratico? Premetto che ormai è una vicenda estranea ai miei interessi politici perchè ho ormai preso le distanze dopo alcune reazioni assolutamente smodate». Lo dice il senatore Alberto Tedesco in un'intervista a Radio Ies in cui spara a zero su Rosy Bindi.

«La Bindi parla di carcere da sette mesi, ma la stagione del '92 che l'ha resa protagonista non tornerà più. Rosy Bindi ricevette, come reso noto in un libro di Pomicino mai smentito, un finanziamento di 50 milioni dalla corrente andreottiana, nonchè dell'appoggio di Andreotti che la fecero salire al Parlamento europeo. Era il 1989. Prima era una sconosciuta. Nonostante ciò non si fece nessuno scrupolo nel condannare Andreotti, anche prima della conclusione del procedimento».

La lettura di Panorama dell’estate 2011 sotto l’ombrellone per i vertici del Partito democratico rischia di diventare il codice etico approvato nel 2008 e in particolare l’articolo 5, quello sulle «condizioni ostative alla candidatura e obbligo di dimissioni». Infatti l’elenco di uomini del Pd coinvolti in inchieste della magistratura sembra un bollettino di guerra da aggiornare giorno per giorno.

I dirigenti di via Nazionale hanno tirato un sospiro di sollievo quando, martedì 26 luglio 2011, è arrivata l’ultima infornata di arresti in provincia di Pescara: tra i fermati anche l’ex presidente del consiglio regionale Mario Roselli e il sindaco di Spoltore, Franco Ranghelli, entrambi recentemente fuoriusciti dal Pd (Ranghelli è stato espulso). In ogni caso c’è poco da stare allegri: il 21 luglio 2011 sono stati perquisiti uffici e abitazione del vicepresidente del consiglio regionale lombardo ed ex capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani, Filippo Penati, nell’ambito di un’inchiesta su presunte tangenti milionarie, mentre il 28 giugno sono scattate le manette per Franco Pronzato, ex consigliere al ministero dei Trasporti di Bersani e di Claudio Burlando. In questa inchiesta i pm romani contestano le presunte mazzette pagate dagli imprenditori Viscardo e Riccardo Paganelli per agevolare il proprio lavoro in diverse regioni «rosse», dalla Toscana all’Umbria fino alle Marche. Una giaculatoria di nomi che turba i piani alti del Pd. L’ordine di scuderia è quello di dimettersi una volta colti con le mani nel sacco. Ma qualcuno resiste. O, se si dimette, viene richiamato all’ovile. Come è successo a Michele Mazzarano, ex dirigente del Pd pugliese, candidato alle elezioni comunali nella sua Massafra (Taranto), a cui il segretario regionale Sergio Blasi ha chiesto di riprendere il proprio posto. Il senatore Alberto Tedesco, invece, si è dimesso, dopo che i compagni di partito lo avevano salvato a Palazzo Madama dalla richiesta di arresto.

Esattamente 30 anni fa, il 28 luglio 1981, uno dei padri nobili del partito, Enrico Berlinguer, lanciava un anatema che oggi suona beffardo, quasi una profezia al contrario: «La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti» disse in una celebre intervista a Repubblica, «fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». Per l’allora segretario del Pci «ladri, corrotti, concussori delle alte sfere della politica e dell’amministrazione» andavano «scovati», «denunciati», «messi in galera».

All’epoca Massimo D’Alema era segretario pugliese dei comunisti e la sua affettuosa biografia su Wikipedia ci informa che dopo l’intervista di Berlinguer «si attestò sulla stessa posizione e cominciò una dura battaglia per impedire al Psi di fare della Puglia una solida base politica e di potere». Oggi, però, sono le marachelle dei suoi amici e sostenitori a creare il maggiore imbarazzo al Pd. Soprattutto in Puglia, dove, per esempio, è stato recentemente condannato e rinviato a giudizio l’ex sindaco di Gallipoli, quel Flavio Fasano di cui D’Alema è stato pure «compare» di nozze.

In verità le vicissitudini giudiziarie del Pd attraversano tutte le correnti e quasi tutte le regioni. Sono ormai decine, se non centinaia, i casi di malaffare o furberia di cui sono protagonisti personaggi e amministratori del partitone della sinistra. Panorama ha fatto un piccolo censimento e ha contato oltre cento casi di uomini (molti) e donne (poche) che avrebbero violato la legge e tradito gli elettori. I reati più contestati sono corruzione, abuso d’ufficio e turbativa d’asta. Non abbiamo inserito nell’elenco il presidente di circolo stupratore seriale o il killer di camorra (tra l’altro assassino e vittima erano entrambi iscritti al Pd), così come l’assessore spacciatore. Non sono stati conteggiati gli indagati per calunnia o diffamazione.

Ci siamo concentrati su corrotti e concussori (presunti o già condannati), quelli che Berlinguer voleva mandare in galera: allignano nei circoli del Pd quanto o più che in altri partiti. Un fenomeno che, come dimostra l’inchiesta di Panorama, è particolarmente allarmante al Sud, dalla Campania alla Puglia, passando per Calabria e Sicilia, tutte regioni dove il Pd governa o ha governato. Qui hanno problemi con la giustizia molti big del Pd dall’ex governatore calabrese Agazio Loiero, agli ex sindaci di Napoli Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino, alla sbarra per la cattiva gestione dell’emergenza rifiuti.

Iniziano a preoccupare anche le regioni del cosiddetto «buongoverno», dalla Toscana all’Emilia-Romagna, all’Umbria. Qui la politica sembra diventata un ufficio di collocamento, come dimostra l’indagine condotta a Perugia dal pm Sergio Sottani, che da mesi scava sul voto di scambio e su gare d’appalto. In questo fascicolo è stata iscritta sul registro degli indagati l’ex presidente della regione Maria Rita Lorenzetti, attuale presidente di una partecipata delle Ferrovie dello Stato, accusata di abuso d’ufficio. Per la procura avrebbe tenuto in caldo un posto da quadro di settimo livello in una asl perugina per la sua ex capogabinetto. Che in un’intercettazione si lamentava del possibile ritorno al vecchio posto di lavoro: «Con 1.500 euro al mese poi non so cosa mangiare». Più o meno lo stipendio di una buona fetta degli elettori del Pd.

Il virus della corruzione sembrerebbe meno diffuso al Nord, però qui il Pd è spesso all’opposizione, mentre dove amministra, per esempio in Liguria, i problemi non mancano. Ora l’inchiesta della procura di Monza su Penati sembra aprire una pericolosa voragine. E comunque i rapporti tra politica e affari sono sempre più evidenti. Una stagione inaugurata da D’Alema premier con quella che l’economista Guido Rossi battezzò la «merchant bank» di Palazzo Chigi. L’ex premier sostenne la scalata alla Telecom di Roberto Colaninno e prese una sbandata per la razza padana di Emilio Gnutti, poi condannato per insider trading.

Anche Gianpiero Fiorani e Stefano Ricucci, prima dei guai giudiziari, ebbero rapporti e interessi convergenti con gli allora Ds. Nel 2007 i giornali pubblicarono le telefonate trionfanti registrate dai finanzieri due anni prima di Piero Fassino e D’Alema con Giovanni Consorte, ex presidente Unipol impegnato nella conquista della Bnl. «Abbiamo una banca!», «Facci sognare!» esultavano i due politici al telefono. Il gip milanese Clementina Forleo, che voleva approfondire quei rapporti e utilizzare le intercettazioni, venne costretta a fare i bagagli e a trasferirsi in un altro tribunale. Ma questo non è bastato a evitare problemi a molti finanzieri rossi, compagni di cene e di barca di svariati politici del Pd: sono finiti nei guai lo stesso Consorte, condannato a 3 anni per aggiotaggio, e Vittorio Casale, immobiliarista arrestato a giugno per bancarotta fraudolenta, Piero Collina, potente presidente del Consorzio cooperative costruttori indagato per corruzione a Bologna, come Vincenzo Morichini, intermediario di affari, procacciatore di finanziamenti per la fondazione Italianieuropei di D’Alema; Giovanni Errani, fratello del presidente della Regione Emilia-Romagna Vasco, è finito invece sotto inchiesta per finanziamento illecito ai partiti con la sua cooperativa.

Con questi esempi non deve essere facile per quadri e amministratori del partito stare a guardare senza approfittare. Come dimostra la nostra inchiesta. E chissà se oggi Berlinguer si iscriverebbe al Pd.

L’elenco pubblicato da Panorama è aggiornato al 2011.

Legenda:
P patteggiamento o condannato

A arrestato

I indagato

R rinviato a giudizio o imputato

Piemonte 8

A P Bartolomeo Valentino ex assessore di Collegno (Torino): 2 anni per concussione.

P Antonio Tenace assessore della Provincia di Novara: 2 mesi e 20 giorni per violazione del segreto d’ufficio.

R Michele Cressano consigliere comunale a Vercelli: falso ideologico e abuso d’ufficio.

P Giusi La Ganga candidato alle ultime elezioni comunali del Pd: 20 mesi di reclusione e multa di 500 milioni di lire per finanziamento illecito ai partiti.

I Giuseppe Catizone sindaco di Nichelino: abuso edilizio.
R Andrea Oddone sindaco di Ovada: omicidio colposo.

I Franco De Amicis ex segretario Pd Basso Canavese: bancarotta fraudolenta.

Liguria 8

A Franco Pronzato ex consigliere di Claudio Burlando e Bersani: corruzione.

A Franco Bonanini presidente del Parco delle Cinque Terre e parlamentare europeo: truffa e associazione a delinquere.

A Roberto Drocchi funzionario, ex candidato di Savona: truffa continuata e falso in atti pubblici.

I Vito Vattuone consigliere regionale: associazione per delinquere, corruzione e altri reati.

I Giancarlo Cassini assessore regionale all’Agricoltura: associazione a delinquere, corruzione e altri reati.

P Massimo Casagrande ex consigliere comunale di Genova: 1 anno e 6 mesi per corruzione.

P Claudio Fedrazzoni ex consigliere comunale di Genova: 1 anno e 6 mesi per turbativa d’asta.

P Stefano Francesca ex portavoce del sindaco di Genova: 1 anno e 4 mesi per corruzione.

Lombardia 2

I Filippo Penati ex presidente della Provincia di Milano: corruzione, concussione e finanziamento illecito.

A Tiziano Butturini ex sindaco di Trezzano sul Naviglio: 2 anni e 5 mesi per corruzione.

Emilia-Romagna 9

I Luigi Ralenti sindaco di Serramazzoni (Modena): corruzione e turbativa d’asta.

I Alberto Caldana ex assessore della Provincia di Modena: peculato.

P I Flavio Delbono ex sindaco di Bologna: 1 anno e 7 mesi per truffa aggravata, peculato, intralcio alla giustizia.

I Alberto Ravaioli sindaco di Rimini: abuso d’ufficio.

I Aldo Preda, ex senatore, Cinzia Ghirardelli, membro coordinamento provinciale, Cesare Marucci, ex consigliere comunale di Ravenna, Gianluca Dradi ex assessore di Ravenna: tutti per falso in bilancio.

I Nerio Marchesini attivista: trasferimento fraudolento di valori di una ‘ndrina calabrese.

Toscana 15

R Alberto Formigli ex capogruppo in comune a Firenze: associazione per delinquere, corruzione e altri reati.

R Salvatore Scino vicepresidente del consiglio comunale: falso ideologico.

I Andrea Vignini sindaco di Cortona (Arezzo): abuso d’ufficio.

I Graziano Cioni ex assessore di Firenze: corruzione e violenza privata.

I Gianni Biagi ex assessore all’Urbanistica di Firenze: corruzione.

I Gianluca Parrini consigliere regionale: abuso d’ufficio.

I Gian Piero Luchi ex sindaco di Barberino del Mugello: abuso d’ufficio.

I Alberto Lotti ex vicesindaco di Barberino del Mugello: corruzione e abuso d’ufficio.

I Paolo Cocchi ex assessore regionale: abuso d’ufficio.
I Daniele Giovannini ex assessore comunale di Barberino del Mugello: abuso d’ufficio.

I Giovanni Guerrisi consigliere comunale di Barberino del Mugello: falso ideologico.

I Marzio Flavio Morini sindaco di Scansano (Grosseto): corruzione.

I Fabrizio Agnorelli sindaco di Piancastagnaio (Siena): truffa aggravata e falso.

R Fabrizio Neri ex sindaco di Massa-Carrara: abuso d’ufficio.

I Antonella Chiavacci ex sindaco di Montespertoli: omissione di controllo.

Umbria 7

I Eros Brega presidente del consiglio regionale: peculato e concussione.

I Maria Rita Lorenzetti ex presidente della regione: abuso d’ufficio.

I Maurizio Rosi ex assessore regionale alla Sanità: abuso d’ufficio.

I Luca Barberini consigliere regionale: peculato.

I Nando Misnetti sindaco di Foligno: peculato.

I Sandra Santoni ex capo di gabinetto di Lorenzetti: peculato.

R Giacomo Porrazzini ex sindaco di Terni ed ex deputato europeo: disastro ambientale e truffa.

Marche 1

P Fabio Sturani ex sindaco di Ancona: 1 anno e 9 mesi e interdizione dai pubblici uffici per 5 anni per concussione.

Puglia 7

P Domenico Gatti sindaco di Modugno (Bari): falso ideologico.

I Alberto Tedesco senatore: associazione per delinquere, corruzione, concussione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio e falso.

I Michele Mazzarano ex segretario organizzativo del partito: finanziamento illecito ai partiti.

R P Flavio Fasano ex sindaco di Gallipoli (Lecce) ed ex assessore provinciale ai Lavori pubblici: 2 anni per falso e rinviato a giudizio per turbativa d’asta.

A I Sandro Frisullo ex vicepresidente della regione: associazione a delinquere e turbativa d’asta.

I Antonio De Caro capogruppo al consiglio regionale ed ex assessore di Bari alla Mobilità e al traffico: tentativo d’abuso d’ufficio.

I Adolfo Schiraldi ex presidente consiglio comunale di Triggiano (Bari): concussione.

Calabria 4

R I Agazio Loiero ex governatore regionale: associazione per delinquere, falso e abuso d’ufficio e imputato per abuso d’ufficio.

R Nicola Adamo ex vicepresidente della giunta regionale: associazione per delinquere, falso e abuso d’ufficio e imputato per associazione per delinquere, concussione, abuso d’ufficio.

A I Pietro Ruffolo assessore comunale di Cosenza: associazione per delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio, e arrestato per detenzione abusiva d’armi.

P Giuseppe Mercurio ex capogruppo al Comune di Crotone, 4 anni per voto di scambio.

Veneto 2

P Statis Tsuroplis imprenditore iscritto al partito ed ex consigliere del sindaco di Venezia: 1 anno e 9 mesi per corruzione.

P Tullio Cambruzzi, tesserato pd e manager pubblico: corruzione, ha patteggiato 2 anni.

Lazio 5

Piero Marrazzo ex presidente della regione dimessosi dopo una vicenda di cocaina e trans.

R Francesco Paolo Posa ex sindaco di Frascati e consigliere provinciale: truffa, falso e indebita percezione di erogazioni pubbliche.

I Guido Milana eurodeputato ed ex presidente del consiglio regionale: truffa, falso e indebita percezione di erogazioni pubbliche.

I Ruggero Ruggeri consigliere provinciale: truffa, falso e indebita percezione di erogazioni pubbliche.

R Valdo Napoli ex assessore all’Ambiente di Montefiascone: corruzione.

Campania 13

R I Antonio Bassolino ex presidente della regione: epidemia colposa e omissione d’atti d’ufficio, sotto processo per truffa aggravata ai danni dello Stato e frodi in pubbliche forniture e per peculato.

I Rosa Russo Iervolino ex sindaco di Napoli: epidemia colposa e omissione in atti d’ufficio.

I Andrea Lettieri ex sindaco di Gricignano d’Aversa (Caserta): concorso esterno in associazione mafiosa.

I R Vincenzo De Luca ex senatore e sindaco di Salerno: abuso d’ufficio, concussione, associazione per delinquere finalizzata a truffa e falso.

P Corrado Gabriele consigliere regionale ed ex assessore regionale: 4 anni e 3 mesi per pedofilia.

A R Aniello Cimitile presidente della Provincia di Benevento: falso.

I Enrico Fabozzi sindaco Villa Literno: concorso esterno in associazione mafiosa.

A I Fabio Solano componente direttivo cittadino pd di Benevento: truffa.

I Giuseppe Russo cons. regionale: truffa. Carlo Nastelli ex consigliere comunale di Castellammare: tentata estorsione.

R Carlo Nastelli, Nino Longobardi, Antonio Cinque ex consiglieri comunali di Castellammare di Stabia: truffa ai danni dello Stato e concorso in falso.

Sardegna 3

I Renato Soru, ex presidente regione, consigliere regionale e membro della segreteria nazionale: aggiotaggio, assolto in primo grado per abuso d’ufficio e turbativa d’asta.

P Graziano Milia presidente Provincia di Cagliari: 1 anno e 4 mesi per abuso d’ufficio.

I Roberto Deriu, presidente Provincia di Nuoro: abuso d’ufficio.

Abruzzo 7

R Ottaviano Del Turco ex presidente della regione: associazione per delinquere, concussione, corruzione e altri reati.

R Antonio Boschetti ex assessore regionale alle Attività produttive: associazione per delinquere, concussione e altri reati.

R Bernardo Mazzocca ex assessore regionale alla Sanità. associazione per delinquere, concussione e abuso d’ufficio.

R Camillo Cesarone ex capogruppo alla regione: associazione per delinquere, concussione e corruzione.

P Luciano D’Alfonso ex sindaco di Pescara: 4 mesi per abuso d’ufficio.

I Massimo Cialente sindaco dell’Aquila: rifiuto in atti d’ufficio.
I Fabio Ranieri consigliere comunale dell’Aquila: truffa.

Basilicata 4

I Franco Stella presidente Provincia Matera: indagato per abuso d’ufficio.

R Prospero De Franchi ex presidente del consiglio regionale: rinviato a giudizio per falso e truffa.

R Pasquale Robortella consigliere regionale e sindaco di San Martino d’Agri: rinviato a giudizio per truffa ai danni dell’Ue.

I Nicola Montesano consigliere comunale di Policoro (Matera): indagato per falso e turbativa d’asta.

Sicilia 7

A Gaspare Vitrano deputato regionale: concussione.

I Elio Galvagno consigliere regionale: falso in bilancio.

I Salvatore Termine consigliere regionale: falso in bilancio.

I Vladimiro Crisafulli senatore: falso in bilancio, rinviato a giudizio per abuso d’ufficio.

I Giuseppe Picciolo deputato regionale: calunnia.
P Vittorio Gambino funzionario: falso in atto pubblico.

P Giuseppe Palermo funzionario: falso in atto pubblico.

LE GRANE GIUDIZIARIE.

La nascita del Partito Democratico ha creato le condizioni per una svolta, non soltanto politica, ma anche culturale e morale, nella vicenda italiana. [..] Si è creato così un vuoto politico molto pericoloso, che ha dato spazio alla demagogia populistica, all’arroganza di ristrette oligarchie e anche a poteri opachi che tendono a sottrarsi al controllo della legge e delle istituzioni democratiche. […] Il Partito Democratico sa bene che anche la conquista di nuovi diritti può rivelarsi effimera, se non si afferma un’etica pubblica condivisa, che consenta agli italiani di nutrire un senso più alto dei loro doveri.

Questo è quello che potete leggere sfogliando le 11 pagine del Manifesto dei valori del Partito Democratico, mentre di tutt’altro tenore sono le notizie che arrivano da tutta la Penisola. A Firenze, Napoli, Roma, Genova e Perugia, in Abruzzo, Campania, Toscana e Calabria, nelle carte dell’inchiesta Why Not di Luigi De Magistris, emergono fatti e misfatti molto imbarazzanti per un partito che vorrebbe rilanciare l’etica della politica.

Caso Marrazzo, Del Turco. Inchieste. Arresti. Appalti. Finto tesseramento. Scandali, corruzioni,persino delitti (a Castellammare di Stabia, omicidio di Gino Tommasino, consigliere Pd ucciso da un camorrista iscritto al partito).

Cose dell'altro mondo?

In merito all’arresto di Luigi Bianchini, già coordinatore di un circolo del Pd di Roma e accusato di essere l'autore di diversi stupri nella capitale, "E' incredibile - osserva Marino - che un criminale già coinvolto in odiosi reati possa essere arrivato a coordinare un circolo del Pd". Questo proverebbe "che nel Pd abbiamo una questione morale grande come una montagna, che non può essere ignorata". Il senatore si interroga sui criteri con cui vengono individuati i coordinatori dei circoli. "E' chiaro che non sono scelti liberamente ma imposti - dice - per rispondere agli equilibri delle correnti e senza nemmeno sapere chi siano, che cosa hanno fatto nella vita, se davvero in grado di guidare un circolo, anche dal punto di vista morale".

Le primarie del Pd sono un esaltante esercizio di democrazia partecipata o un'operazione manipolata della volontà dei capibastone? Ognuno può pensarla come meglio crede ed è lecito essere certi che i grandi numeri sbandierati dai responsabili del partito sull'affluenza alle primarie (3 milioni di elettori hanno votato su internet o presso i gazebo autotassandosi con 2 euro) siano realistici, anche perché probabilmente è vero. Bersani, che pur essendo una pedina di D'Alema ha lasciato un ottimo ricordo da Ministro dello Sviluppo Economico, ha vinto abbastanza nettamente ma siamo sicuri che sia andato tutto liscio?

Già in fase precongressuale sono stati sferrati duri attacchi, soprattutto da parte dei sostenitori della mozione Marino, alle procedure di tesseramento e voto nei circoli, in particolare della Campania e della Calabria, ma i tanti casi sono arrivate molte testimonianze di brogli.

A Omnibus (il talk show politico della mattina su La7) è stato dimostrato come una giornalista a Castellammare di Stabia abbia votato addirittura 4 volte nell'arco della stessa giornata.

Alcune perplessità poi ci sono state segnalate anche per la velocità di comunicazione dei dati ufficiali. In un paese in cui i risultati elettorali giungono solitamente con molte ore di ritardo rispetto alla chiusura dei seggi, in questo caso i risultati ufficiosi (frutto di exit poll? Mistero a riguardo) sono giunti pochi minuti dopo la chiusura dei seggi e, incredibilmente, rispecchiano perfettamente lo scrutinio ancora in corso. Incredibile in un paese in cui i sondaggisti fanno solitamente sondaggi avventati e imprecisi.

«La verità è che il pesce puzza dalla testa», sparava a zero in un’intervista Achille Occhetto su Pd e dintorni. Titillato sulla questione morale, l’ex capo della Quercia ammetteva che l’olezzo che emana il suo vecchio partito è forte e proviene da capo, corpo e coda. Prima ancora che il Pd andasse definitivamente in trance col caso Marrazzo, da mesi ombre ben più cupe si allungano sul Partito democratico. Inchieste giudiziarie, sospetti, mala politica e scandali stanno travolgendo gli eredi di Berlinguer dalla Calabria alla Puglia, dalla Basilicata alla Campania, passando per il Lazio. La supposta superiorità morale della sinistra s’è così sciolta come neve al sole in moltissime regioni da loro amministrate.

In Campania il Pd è praticamente finito in una discarica. Qui il governatore Antonio Bassolino è stato rinviato a giudizio su richiesta della Procura di Napoli con ipotesi di reato che vanno dalla frode in pubbliche forniture, alla truffa ai danni dello Stato, abuso d’ufficio, falso e reati ambientali, nel periodo in cui era commissario straordinario per l’emergenza rifiuti. Immondizia che ha infestato la regione per mesi, fino all’intervento col pugno di ferro del governo Berlusconi. Pressato dai suoi affinché lasciasse, Bassolino è rimasto però incollato alla poltrona ripetendo a macchinetta di «avere le mani pulite».

Situazione imbarazzante pure a Napoli dove la giunta guidata da Rossa Russo Iervolino è stata decapitata dall’inchiesta sulla delibera della Global Service, società in gara per aggiudicarsi un mega appalto per una serie consistente di lavori pubblici e manutenzioni di competenza del Comune. Qui in manette sono finiti due assessori e due ex componenti della squadra del sindaco. La quale, di fronte alle accuse e alle relative richieste di farsi da parte, ha avuto lo stesso atteggiamento del suo collega di partito: «Sono una persona per bene, non me ne vado». Grumi di collusione con la camorra a Castellammare di Stabia dove un consigliere comunale del Pd è stato addirittura ucciso da un compagno di partito che frequentava lo stesso circolo.

Più a sud stessa musica. Il governatore della Calabria Agazio Loiero è finito nella celebre maxi inchiesta «Why Not?» e anche per lui è arrivato un avviso di garanzia con accuse pesanti: corruzione semplice e corruzione elettorale. Imbarazzo nel partito e reazione piccata dell’indagato: «Dimostrerò di essere estraneo ai fatti». Chiacchieratissimo pure l’ex vicepresidente della giunta Loiero, attuale capogruppo regionale del Pd e coordinatore del partito, Nicola Adamo. Anche per lui una richiesta di rinvio a giudizio nella medesima inchiesta, dopo aver avuto guai giudiziari per ipotetici finanziamenti «pilotati» che hanno interessato aziende amministrate dalla moglie.

Una vera e propria bufera giudiziaria s’è invece abbattuta sull’ex assessore alla Salute della Regione Puglia e poi senatore piddino, Alberto Tedesco. L’uomo di Vendola, indagato con una quindicina di persone per presunti abusi relativi alla fornitura di servizi da parte di società private ad alcune Asl della regione, si difende: «Le accuse su di me? Falsità». Di fatto, tutti gli atti della giunta Vendola sono finiti nel mirino dei pm della Procura di Bari. Scandalo sanità e scandalo escort ha provocato l'azzeramento della giunta.

Guai giudiziari anche per il Pd in Basilicata dove, nell’indagine che ha portato all’arresto per tangenti dell’amministratore delegato di Total Italia, Lionel Levha, c’è finito pure il deputato Salvatore Margiotta. Richiesta di arresti domiciliari negata da Montecitorio e Tribunale del riesame che ha recentemente annullato il provvedimento. Beghe giudiziarie anche per il presidente della Regione Vito De Filippo, accusato di favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio. E beghe politiche: la sua giunta s’era dimessa in blocco a fine 2008.

Insomma, grane su grane, che hanno coinvolto sia i vertici che la base del partito. A Roma, per esempio, è finito in manette un presunto stupratore seriale che poi si è scoperto essere coordinatore di un circolo piddino dell’Eur. «C’è una questione morale grande come una montagna», aveva commentato in quell’occasione il candidato alla guida del partito Ignazio Marino. Concetto opposto a quello espresso dal dalemiano Nicola Latorre: «Nel Pd non esiste una questione morale». Il pesce non sembra aver voglia di decapitarsi.

CANDIDATI AL PARLAMENTO: ELEZIONE 13 APRILE 2008

CONDANNATI, PRESCRITTI, INDAGATI, IMPUTATI E RINVIATI A GIUDIZIO

Fonte “Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez

Partito democratico (18)

Benvenuto Romolo: Ex Margherita, condannato in primo grado nel 1999 a 140 mila lire di ammenda per percosse all’ex convivente. I fatti risalgono alla metà degli anni Novanta. Il legame fra i due si era ormai deteriorato. L’uomo politico pensò bene di concluderlo a ceffoni. La donna lo denunciò e ne ottenne la condanna. In appello, poi, Benvenuto chiese scusa e risarcì il danno, ottenendo la rimessione di querela, il «non luogo a procedere» e l’estinzione del reato.

Bubbico Filippo: Ex Ds, rinviato a giudizio e poi assolto in primo grado per abuso d’ufficio nel processo sulla defenestrazione del direttore generale dell’Asl di Venosa (Potenza); indagato a Catanzaro dal pm Luigi De Magistris per truffa aggravata all’Unione europea in un’inchiesta su 20 miliardi di lire di fondi comunitari stanziati per un progetto di bachicoltura in Basilicata mai decollato; indagato ancora a Catanzaro nell’inchiesta «Toghe lucane» del pm De Magistris con le accuse di associazione per delinquere, abuso e truffa in relazione a diverse operazioni del presunto «comitato d’affari» lucano nella sanità e nei finanziamenti europei a villaggi turistici in Basilicata.

Carra Enzo: Ex Dc ed ex Margherita, condannato in via definitiva a 1 anno e 4 mesi per false dichiarazioni al pubblico ministero. Per i giudici, Carra è un falso testimone che, con il suo «comportamento omertoso» e la sua «grave condotta antigiuridica», ha giurato il falso dinanzi al pool di Milano nel 1993, tentando di «assicurare l’impunità a colpevoli di corruzione, falso in bilancio e finanziamento illecito» nella maxitangente Enimont.

Castagnetti Pierluigi: Ex Dc ed ex Margherita, ha una prescrizione per corruzione. Il 5 dicembre 2002 il pm di Ancona Paolo Gubinelli ha chiesto il suo rinvio a giudizio per corruzione, accusandolo di aver ricevuto una tangente di 15 milioni di lire nel 1991-92 dall’imprenditore anconetano Luigi Marrino in cambio del decreto di concessione dell’Istituto vendite giudiziarie. Secondo l’accusa, Castagnetti – all’epoca capo della segreteria politica del segretario Dc Mino Martinazzoli – avrebbe accettato quel denaro «per compiere atti contrari ai doveri del suo ufficio rivestito» nell’interesse non solo di Marrino, ma anche di un monsignore di Reggio Emilia, Pietro Iotti, che aspirava a ottenere una quota dell’Ivg. Ma il 15 aprile 2003 il gup Sante Bascucci gli concede le attenuanti generiche e dichiara così prescritto il reato. Cocilovo Luigi: Ex Dc ed ex Margherita, rinviato a giudizio a Palermo per corruzione, viene assolto nel 2002 pur essendo ritenuto responsabile del reato, cioè di una mazzetta di 350 milioni versatagli da un imprenditore edile del Ragusano, Domenico Mollica, in cambio della “pace sindacale” nei suoi cantieri. Colpevole, ma assolto: com’è possibile? Semplice. Il Tribunale e poi la Corte d’appello di Palermo, in base alla cosiddetta legge costituzionale del «giusto processo», sono costretti a cestinare la confessione dell’imprenditore che l’aveva corrotto: utilizzata per condannare Mollica per aver corrotto Cocilovo, non può essere usata per condannare Cocilovo per essere stato corrotto da Mollica. Motivo: è stata resa dinanzi al pm, ma non ripetuta in tribunale, dunque inutilizzabile nei confronti di terze persone. Che però Cocilovo si sia fatto corrompere, i giudici del Tribunale lo ritengono più che assodato, tant’è che lo definiscono «collettore di tangenti... disposto a concedere favori sindacali». Crisafulli Vladimiro: Ex Ds, ha visto finire in archivio l’indagine a suo carico per concorso esterno in associazione mafiosa alla Procura di Caltanissetta, nata dal del filmato dei carabinieri che lo ritraeva in un hotel di Pergusa mentre abbracciava e baciava il boss di Enna, Raffaele Bevilacqua, e discuteva con lui di appalti pubblici, assunzioni e favori vari; in un’altra indagine, aperta per rivelazione di segreti d’ufficio dalla Procura di Messina, la sua posizione è stata stralciata con richiesta di archiviazione al gip, che non s’è ancora pronunciato.

Cusumano Stefano: Ex Dc, nel 1999 quand’era sottosegretario al Tesoro per l’Udeur nel governo D’Alema, ma non parlamentare, fu arrestato a Catania per concorso esterno in associazione mafiosa e turbativa d’asta nell’indagine sugli appalti truccati da 120 miliardi di lire per la costruzione dell’ospedale Garibaldi; il 13 aprile 2007 è stato assolto dall’accusa di mafia, mentre la turbativa d’asta è caduta in prescrizione.

D’Alema Massimo: Ex Ds, s’è salvato per prescrizione del reato (accertato) di finanziamento illecito nel processo a proposito di 20 milioni di lire in nero versatigli nel corso di una cena, negli anni 80, dal boss delle cliniche Francesco Cavallari, legato alla Sacra corona unita; ha poi avuto un’archiviazione a Reggio Emilia per i presunti fondi neri incamerati dal Pci-Pds; archiviata a Roma anche l’inchiesta per finanziamento illecito nata a Venezia, che lo vedeva indagato con Achille Occhetto e con Bettino Craxi; a Parma invece, dove Calisto Tanzi sosteneva di averlo finanziato con inserzioni pubblicitarie sulla rivista della sua fondazione Italianieuropei, D’Alema è rimasto un semplice testimone; infine la Procura di Milano sta ancora vagliando la sua posizione nell’ambito delle indagini sulla scalata dell’Unipol alla Bnl di Consorte nell’estate del 2005: il gip Clementina Forleo, che ipotizzava un suo concorso nell’aggiotaggio di Consorte, ha trasmesso gli atti alla Procura, sostenendo che non è necessario il permesso del Parlamento europeo per usare nei suoi confronti le famose intercettazioni telefoniche.

De Filippo Vito: Ex Margherita, indagato e arrestato nel 2002 nell’inchiesta del pm Woodcock, che chiedeva di condannarlo a 1 anno e 6 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d’asta (presunte mazzette pagate dalla ditta De Sio per vincere appalti da enti come Inail ed Eni-Agip in Val d’Agri), De Filippo viene assolto alla fine del 2004 insieme ad altri politici coinvolti (mentre vengono rinviati a giudizio gli imprenditori presunti corruttori); indagato nel 2004, sempre a Potenza, per associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, corruzione e turbativa d’asta per presunti rapporti con esponenti della cosche della ’ndrangheta e poi archiviato in fase d’indagine; rinviato a giudizio e assolto dall’accusa di abuso d’ufficio per uno scandalo della sanità. A quest’ultimo proposito, come per il suo coimputato Bubbico, il pm chiede la condanna sua (e di altri 10 imputati) a 1 anno e 8 mesi per aver cacciato nel 2001 dalla direzione generale dell’Asl 1 di Venosa (Potenza) Giuseppe Panio e averlo sostituito a Giancarlo Vainieri, gradito alla giunta e in particolare ai Ds, sebbene i giudici del lavoro avessero reintegrato al suo posto il dirigente defenestrato. Ma nella tarda serata del 3 marzo 2008, proprio mentre a Roma i vertici del Pd lo inseriscono nelle liste per le elezioni politiche, il Tribunale assolve lui e gli altri imputati perché «il fatto non costituisce reato». Forse perché, dopo la controriforma dell’abuso del 1996, il reato scatta solo se è dimostrato l’interesse patrimoniale di chi fa e di chi riceve il favore e la volontà specifica di agevolare qualcuno e sfavorire qualcun altro. C’è infine un’indagine sulle pressioni politiche per alcune nomine ai vertici delle aziende ospedaliere lucane. Il pm Woodcock, nel 2007, chiede al Gip di inoltrare al Parlamento la richiesta di usare le intercettazioni telefoniche «indirette», in cui alcuni indagati chiacchierano con 9 parlamentari (tra i quali il governatore De Filippo e l’allora ministro Mastella, che parlano della rimozione del direttore generale dell’ospedale San Carlo di Potenza, Michele Cannizzaro, dopo il coinvolgimento di quest’ultimo nell’inchiesta «toghe lucane» a Catanzaro). Il gip respinge la richiesta, perché nel frattempo la Consulta ha demolito la legge Boato, sostenendo che non occorre il permesso delle Camere per usare telefonate in cui compaia la voce di un parlamentare nei confronti di persone intercettate, ma non indagate. Dunque il pm potrà proseguire il suo lavoro senza chiedere nulla al Parlamento. In questa indagine, secondo un quotidiano locale della Basilicata, è inquisito anche De Filippo. Ma questi smentisce e la Procura tace.

Gozi Sandro: Fedelissimo di Romano Prodi, è indagato – secondo «Panorama» – per associazione per delinquere, truffa e violazione della legge Anselmi sulle logge segrete dalla Procura di Catanzaro, nell’ambito dell’inchiesta «Why Not» sui fondi pubblici succhiati da consulenze fittizie e società create da politici calabresi (e non) di destra e di sinistra. «Why Not» è una società di lavoro interinale (appartenente al consorzio Clic) che fa capo al ciellino Antonio Saladino, leader calabrese della Compagnia delle Opere, che nel 2006 avrebbe promesso e forse anche raccolto voti per il centrosinistra.

Laganà Fortugno Maria Grazia: Ex Margherita, la vedova di Franco Fortugno – il medico e vicepresidente del Consiglio regionale calabrese assassinato in un agguato mafioso il 16 ottobre 2005 davanti al seggio dove si vota per le primarie dell’Unione – è indagata in una delle inchieste della Procura di Reggio Calabria sulla malasanità nell’ospedale di Locri, dove il marito era primario in aspettativa e la signora vicedirettrice sanitaria. Ipotesi di reato: truffa ai danni dello Stato, per presunte forniture sanitarie irregolari.

Latorre Nicola: Ex Ds, è stato indagato a Potenza per favoreggiamento, poi ha visto la sua posizione finire in archivio: ascoltando alcune telefonate di un gruppo di uomini d’affari in rapporti con lui e con l’ex presidente del Perugia Calcio, Luciano Gaucci, i magistrati avevano ipotizzato che fosse stato Latorre ad avvertire l’imprenditore dell’indagine a suo carico. Altre intercettazioni telefoniche l’hanno portato Latorre a un passo dal finire indagato a Milano per le scalate bancarie dei furbetti del quartierino. La sua voce è stata infatti registrata più volte, mentre discuteva con il numero uno di Unipol, Giovanni Consorte, dell’assalto alla Bnl, e addirittura con Stefano Ricucci, impegnato nella scalata al Corriere. Il gip Forleo, quando si è trattato di trasmettere le conversazioni al Parlamento per ottenere l’autorizzazione al loro utilizzo, ha scritto che almeno otto telefonate di Latorre (e D’Alema) attestano «i ruoli attivi ricoperti» nella scalata Unipol a Bnl, «contrassegnati all’evidenza da consapevole contributo causale» all’aggiotaggio addebitato a Consorte. Ora la sua posizione è al vaglio della Procura di Milano, a cui il gip Forleo ha trasmesso gli atti, dopo che il Senato ha negato l’ok all’uso delle intercettazioni a suo carico.

Lolli Giovanni: Ex Ds, è imputato in udienza preliminare a Bari per favoreggiamento nell’inchiesta sui presunti abusi della Missione Arcobaleno. Nel 1999 il governo D’Alema lancia l’operazione umanitaria «Arcobaleno» per sostenere i profughi kosovari fuggiti in Albania durante la guerra civile. Secondo l’accusa, durante e dopo la Missione, la Protezione civile allora presieduta da Franco Barberi, grazie a una fitta rete di complicità e amicizie con «esponenti apicali della politica», mise in piedi una «associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la Pubblica amministrazione» (peculato, concussione, corruzione, abuso d’ufficio) e «ogni altro reato necessario o utile per i perseguimento degli scopi illeciti». In pratica la magistratura ritiene di aver scoperto enormi ruberie, tangenti e dirottamenti degli ingenti fondi pubblici stanziati per i profughi, ma in realtà rimasti in Italia. Per questo la Procura barese ha chiesto nel febbraio del 2007 il rinvio a giudizio di 26 persone, a cominciare da Barberi, giù giù fino a Lolli. Nel 1999, quand’era responsabile nazionale Associazionismo e Sport dei Ds, Lolli avrebbe informato due indagati che il loro telefono era sotto controllo, facendo così saltare gli accertamenti in corso da parte degli investigatori. Di qui l’accusa di favoreggiamento. L’udienza preliminare è in corso dal 10 maggio 2007. I reati, a tale distanza dai fatti (l’indagine partì nel gennaio del 2000), rischiano la prescrizione.

Lusetti Renzo: Ex Dc, ex Margherita, già pupillo di De Mita, già assessore a Roma nella giunta Rutelli, in quest’ultima veste nel 2001 è stato condannato dalla Corte dei conti a risarcire il Comune di Roma oltre 2 miliardi di lire per consulenze ingiustificate. In appello l’importo è stato ridotto di un quinto.

Margiotta Salvatore: Ex Margherita, è indagato a Potenza per falso ideologico e a Catanzaro, secondo l’Ansa, per abuso d’ufficio. La prima inchiesta è condotta dal pm Henry John Woodcock, che nel luglio del 2006 ha proposto al gip Alberto Iannuzzi di chiedere alla Camera l’autorizzazione a utilizzare conversazioni telefoniche in cui compare anche la voce di Margiotta. Il caso – dov’è indagata anche la signora Margiotta, cioè il capo della Mobile di Potenza, Luisa Fasano, per abuso d’ufficio – nasce dalle indagini che il 6 maggio 2006 portarono all’arresto del faccendiere Massimo Pizza, accusato di aver messo in piedi un’organizzazione specializzata in grosse truffe ai danni di imprenditori. Dalle intercettazioni telefoniche saltò fuori che Fasano e Margiotta parlavano di una contravvenzione per eccesso di velocità fatta all’autista del deputato e, secondo l’accusa, si interessavano per farla annullare. Margiotta avrebbe addirittura stilato una dichiarazione ufficiale, su carta intestata della Camera dei Deputati, per attestare che il suo autista correva perché lui doveva assolutamente arrivare in tempo a una riunione con un importante ministro della Margherita. Di qui l’accusa di falso ideologico. Ma dalle conversazioni della Fasano – sia con il marito, sia con altre persone – emergerebbe anche una fitta rete di rapporti con uomini politici (soprattutto del centrosinistra), amministratori locali, alti magistrati di Potenza (in particolare il sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi) e uomini delle forze dell’ordine, finalizzati a interessi personali e di carriera. Di qui l’ipotesi di peculato e rivelazione di segreto d’ufficio. L’inchiesta di Catanzaro, che riguarda anche i coniugi Margiotta, è quella denominata «Toghe lucane» e condotta dal pm Luigi De Magistris: l’episodio per cui sarebbe indagato Margiotta per abuso d’ufficio è il suo presunto ruolo nella nomina di Michele Cannizzaro (marito della pm potentina Felicia Genovese, indagata e trasferita a Roma) a direttore generale dell’ospedale San Carlo di Potenza. Nella stessa inchiesta è indagata certamente per abuso d’ufficio anche la moglie Luisa Fasano, che il 7 giugno 2007 ha subito anche una perquisizione a casa e in ufficio: in quel momento si è appreso che è accusata di aver «influenzato» – dalla postazione privilegiata di capo della Mobile di Potenza – varie indagini aperte dalla Procura, «insabbiandone» alcune, ostacolando l’attività di magistrati e investigatori, operando per «non garantire il genuino andamento dei procedimenti», cercando di «influire sul loro corretto andamento», «insabbiandone» alcuni e favorendo «il ruolo politico del marito» deputato. Letta la notizia sull’Ansa, Margiotta ha smentito di essere sotto inchiesta («non mi risulta essere indagato e comunque che non ho ricevuto alcun avviso di garanzia»), confermando che invece lo è la sua signora.

Papania Antonio: Ex Margherita, il 24 gennaio 2002 ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. La vicenda risale al 1998. Papania, all’epoca assessore regionale al Lavoro, venne coinvolto in un’inchiesta condotta dalla Procura di Palermo su una compravendita di posti di lavoro. Secondo i magistrati, alcuni esponenti di un sindacato, il Failea, avevano promesso assunzioni a quindici ex detenuti in cerca di lavoro in cambio di somme di denaro che arrivavano fino a 3 milioni di lire. Per le assunzioni i sindacalisti si sarebbero rivolti a pubblici ufficiali e politici. A Papania, che aveva dato lavoro a disoccupati privi dei titoli richiesti dalla legge, i pm avevano contestato il concorso esterno in associazione a delinquere e l’abuso d’ufficio. La prima accusa è stata però archiviata dal gip. Secondo gli investigatori, Papania era stato contattato dall’organizzazione, guidata da Francesco Paolo Alaimo, arrestato, per ottenere l’inserimento dei disoccupati. In un’intercettazione ambientale Alaimo parlava con un altro indagato di una percentuale del 3 per cento da pagare a Papania solo quando fosse riuscito «a far traghettare i soldi gestiti dalla Regione a un’associazione costituita appositamente suggerita dal politico». Secondo Papania però non vi fu mai nessuna promessa di tangente. L’indagine ha riguardato piani di inserimento professionale, cantieri di lavoro, lavoratori socialmente utili, precari tante volte scesi in piazza per sollecitare assunzioni, scatenando proteste con incidenti.

Rigoni Andrea: Ex Margherita, è stato condannato a 8 mesi di reclusione in primo grado per un abuso edilizio sul monte di Porto Azzurro, all’isola d’Elba, insieme alla madre, alla sorella e al direttore dei lavori. In appello, poi, si è salvato grazie alla prescrizione del reato.

Vitrano Gaspare: Ex Margherita, è stato condannato dalla Corte d’appello di Palermo a 9 mesi di reclusione per falso in atto pubblico e imputato in Tribunale per abuso d’ufficio. Secondo l’accusa, per sanare una irregolarità che lo avrebbe fatto decadere da deputato regionale della Sicilia per aver presentato in ritardo la domanda di aspettativa, avrebbe falsificato i registri di presenza nel suo ufficio di dipendente dell’ente Regione, con la complicità di altri due funzionari.

DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO E DELLA SOCIETA' CIVILE.

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.

La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.

Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.

L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.

Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.

Consiglieri, commessi e segretari. Ecco il Parlamento dei parenti. La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. i Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?  

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

Repubblica inetta, nazione corrotta, scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi. Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes? Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti. E quando una repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’“occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”. Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere - è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta. Ma quando questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna - appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano. Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica. Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai. Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.

ALL’INIZIO FU TANGENTOPOLI. L’ultimo bilancio dell’inchiesta mani pulite, condotta dal pool di magistrati della procura di Milano, risale al febbraio del 1999. Anche perché da allora la stessa inchiesta mani pulite può dirsi morta, mentre Tangentopoli continua ad imperare. A sette anni dall’avvio delle indagini sulla corruzione politica e finanziaria che va sotto il nome di Tangentopoli, cominciate il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il solo pool di Milano aveva indagato 3.200 persone, aveva chiesto 2.575 rinvii a giudizio e aveva ottenuto 577 condanne, di cui 153 con sentenza passata in giudicato. Le statistiche ci dicono ancora che fino alla fine 1997 la guardia di finanza aveva accertato reati fiscali legati a Tangentopoli per un importo di 3.609 miliardi. Sono cifre che bastano da sole a dare un’idea della diffusione in Italia del sistema della corruzione che ha riguardato arricchimenti personali, ma anche e soprattutto maniere illecite di finanziamento dei partiti mediante il sistema delle tangenti, le cosiddette bustarelle, pagate da imprenditori ad esponenti politici. Quello che le statistiche non possono però raccontarci riguarda i criteri in base ai quali, non solo il pool di Milano, ha portato avanti queste inchieste. Anche perché, pur essendo – per ammissione degli stessi magistrati inquirenti - la corruzione estesa a tutti i partiti, nessuno escluso, decapitando di fatto solo una parte della classe politica e permettendo ad un’altra di salire al potere, l’inchiesta giudiziaria mani pulite ha avuto un notevole impatto sugli assetti istituzionali del Paese.

Mose, ultimo capitolo della tangentopoli della Seconda Repubblica. Da Bertolaso a Galan, passando per Penati, scrive Pietro Salvatori su “L’Huffingtonpost” All’inizio fu Tangentopoli. Una purga benefica per il sistema, dicevano. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto se vent’anni dopo un pubblico ministero come Carlo Nordio presenzia ad una conferenza stampa snocciolando parole come queste: “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato". Punto. Si riparte da Expo, Mose, la cricca del G8, gli scandali milanesi, il “colpo di culo” del terremoto abruzzese. Se è vero, come sosteneva Honoré de Balzac, che “la corruzione è l’arma della mediocrità”, la grande aspirazione della classe politica emersa nel post-Tangentopoli sarebbe dovuta essere quella di elevare la schiera dei mediocri spazzati via dalle procure in un giardino di ottimati dai saldi principi e dalla retta condotta. Non sembra essere andata così. Perché nel pieno di una crisi economica di portata storica il ricorso alle Grandi opere salvifiche è stata spesso la bandiera sotto la quale combattere per creare occupazione, sviluppo e rivitalizzare una filiera produttiva in debito d’ossigeno. Ma è indubbio che quella dei “big deal all’amatriciana” è sovente stata un’etichetta latrice di operazioni opache, appalti pilotati, se non di corruttele. Gli ultimi sono gli episodi che hanno visto trentacinque arresti nell’ambito della realizzazione del Mose, il gigantesco sistema di paratoie mobili che dovrebbe isolare Venezia dai rovesci delle maree. Trentacinque paia di manette sono scattate ai polsi di altrettanti indagati. Tra questi figurano l’azzurro Renato Chisso, assessore regionale ai Trasporti, il democratico Giampietro Marchese, collega di Chisso in Regione, ma soprattutto Giorgio Orsoni, sindaco Pd della città lagunare. I provvedimenti di custodia cautelare sarebbero stati trentasei, se non che il berlusconiano Giancarlo Galan siede tra i banchi della Camera, e per lui bisognerà attendere l’autorizzazione a procedere da parte di Montecitorio. Quello delle fila di Forza Italia è uno sfarinamento che va avanti da tempo. Per tacer del leader, le inchieste che coinvolgono i fedelissimi dell’ex Cavaliere occupano da mesi le pagine della cronaca giudiziaria: da Denis Verdini (sotto botta per la gestione del Credito cooperativo fiorentino) a Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), passando per Claudio Scajola, arrestato per aver favorito la latitanza dell’ex collega onorevole Amedeo Matacena. La vecchia guardia, si dirà. Vero, ma solo in parte. Perché, a molte delle figure riemerse da un’epoca che fu, si affiancano volti nuovi di una classe dirigente maturata dopo il 1994. Prendiamo Orsoni. Fino alla metà degli anni zero ha guidato la società ingegneristica dell’aeroporto di Venezia ed è stato consigliere di amministrazione alla Biennale. La sua frequentazione con gli ambienti della politica è tutto sommato residuale (tecnico al ministero dei Lavori pubblici dal ’96 al ’98, un’esperienza da assessore del capoluogo lagunare terminata nel 2005) fino al 2010. È quando la svolta fusionista veltroniana si è consumata da tempo che viene individuato come volto nuovo, profilo da grand commis tecnico, da presentare sul palcoscenico nazionale, lanciato nel 2010 verso la polverizzazione dell’avversario di centrodestra, Renato Brunetta, e da innalzare a guida Democratica di uno dei patrimoni storici dell’umanità. Sorte condivisa da Giampietro Marchese, che, forte di una prima elezione in consiglio regionale nel 2005, non ha ancora festeggiato il primo decennio con una targhetta di un certo rilievo sulla porta dell’ufficio. Orsoni avrebbe ricevuto soldi per finanziare la propria campagna elettorale, in cambio di “agevolazioni” ai suoi co-imputati una volta eletto. Proprio da questo punto di vista, sono stati i magistrati che indagano sull’altro grande scandalo delle ultime settimane, quello che riguarda l’Expo 2015, a mettere in luce un paradigma delle inchieste che hanno terremotato la politica del post-Tangentopoli. Mentre vent’anni fa ci si sporcava le mani avendo come scopo principale quello di apportare benefici al proprio partito, oggi a muoversi sono cupole ramificate che sì coltivano rapporti con la politica o che ne fanno parte, ma che si mettono in moto per tornaconto personale. Così se alla metà degli anni ’90 si poteva dare a Primo Greganti il beneficio del dubbio che i soldi in nero fossero transitati per un suo conto avendo come destinazione finale il sol dell’avvenire, oggi l’accusa è quella che si sia mosso per intascarsi una bustarella degli appalti che tentava di pilotare. Così come i suoi sodali tripartisan nella cricca che sguazzava nelle ricche commesse dell’esposizione universale: l’ex democristiano Gianstefano Frigerio, e l’ex senatore berlusconiano Luigi Grillo. Anche qui un miscuglio di protagonisti datati di un’epoca che sembrava archiviata si unisce senza soluzione di continuità a rampanti arrivisti dell’ultima ora, come il responsabile dell’ufficio contratti Angelo Paris, che ha ammesso di aver commesso alcuni dei presunti illeciti contestatigli “per la promessa di una futura carriera”. La primogenitura della lunga serie di mani sporcatesi nel tentativo di drenare parte del fiume di denaro diretto verso le grandi opere è dell’uomo nuovo per eccellenza dell’epoca d’oro di Silvio Berlusconi, quel Guido Bertolaso che ha guidato le sorti di mezza Italia da capo della Protezione civile e sottosegretario della presidenza del Consiglio. Una carriera folgorante, rimasta invischiata in un “sistema gelatinoso” che lo ha visto coinvolto insieme ad Anemone e Balducci, accusati di aver distratto soldi dall’organizzazione del G8 della Maddalena, dai cantieri messi in piedi per i 150 anni d’Italia e dall’allestimento dei mondiali di nuoto. Vecchi sistemi, uomini e fini nuovi. Il trait d’union delle due epoche è quel Filippo Penati che non ha conosciuto il carcere forse solamente perché la prescrizione è intervenuta a estinguerne i reati. Anche il “sistema Sesto” era imperniato su opere pubbliche. Da un lato due aree industriali (le cosidette Falck e Marelli) per la cui riqualificazione, secondo gli inquirenti, girarono una serie di mazzette. Dall’altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Penati ha un cursus honorum nel corpaccione dei partiti della Prima repubblica simile a quello di Greganti. Ma i fatti contestatigli risalgono a quando, da semplice assessore di Sesto San Giovanni, arrivò a toccare con mano il potere vero, come presidente della Provincia meneghina, un incarico che lo fece incamminare verso la grande sfida (persa) per la guida del Pirellone contro Roberto Formigoni. Da semplice quadro di partito negli anni nei quali l’Italia veniva sconvolta dalle inchieste del pool di Milano, è nella Seconda Repubblica che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni si proiettò sul panorama nazionale. Prima da presidente provinciale, nel 2004, poi da membro del coordinamento del Pd veltroniano, infine da capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani una volta che questi vinse le primarie per la segreteria del 2009. Insomma, per le mele marce della politica dalla metà degli anni ’90 a oggi, le grandi opere sono spesso “una botta di culo”. Così Ermanno Lisi, assessore della giunta di centrosinistra de L’Aquila, definiva il terremoto che provocò 309 vittime nel capoluogo abruzzese. In barba alle bare e alle migliaia di sfollati, Lisi vedeva nelle montagne di soldi che sarebbero arrivati per la ricostruzione una grande opportunità di business. Dello stesso parere sembrerebbero altri tre amministratori aquilani: il vicesindaco Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30mila euro, un ex consigliere comunale con delega, Pierluigi Tancredi del Pdl, accusato di corruzione, e un altro ex assessore, Vladimiro Placidi. Solo punte dell’iceberg in un sistema che ha portato l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici a trasmettere negli ultimi anni alle procure e alla Corte dei Conti più di settanta indagini e quasi mille denunce per false dichiarazioni nelle gare di appalto. Tante, troppe, per la voracità di quella classe politico-imprenditoriale che si doveva affrancare dalla mediocritas dei propri padri. E che, al contrario, a dar retta a Nordio, insieme ai suoi predecessori rischia di trasmettere sugli schermi degli italiani il brutto film di una nuova Tangentopoli.

Tangenti Mose, Massimo Carlotto: «Il Nord è più criminale del Sud». Tangentopoli in Veneto. Lo scrittore Carlotto: «All'estero ci studiano come laboratorio della nuova malavita economica». Intervista di Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Chi ha letto i suoi libri, probabilmente, nella mattinata di mercoledì 4 giugno 2014 è rimasto meno stupito di altri. Di intrecci tra criminalità e politica in Veneto, Massimo Carlotto ne aveva parlato anni prima che lo scandalo Mose scoppiasse coinvolgendo il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l'assessore regionale alla Infrastrutture Renato Chisso e l'ex governatore, ora deputato di Forza Italia, Giancarlo Galan. «NORD PIÙ CRIMINALE DEL SUD». Nessuna sorpresa dunque per Carlotto, che a Lettera43.it spiega come questo sistema fosse «evidente da tempo», e racconta come, ormai, «il Nord è ben più criminale del Sud» e viene studiato nelle università straniere «come il laboratorio della nuova criminalità economica». Una situazione riemersa con prepotenza dalle acque torbide dei canali veneziani. Massimo Carlotto, scrittore nato a Padova.

DOMANDA. Politica, malaffare, criminalità. Quello scoppiato a Venezia sembra un romanzo di Carlotto.

RISPOSTA. Devo dire che questo l'avevo raccontato in Alla fine di un giorno noioso.

D. Sapeva già tutto?

R. In Veneto si aspettava da tempo questa azione della magistratura, il sistema era evidente, era stato messo a nudo dai comitati sul territorio.

D. Come si sapeva?

R. Le denunce sono state fatte nel corso degli anni in un silenzio assordante e nella protervia con cui i politici coinvolti rispondevano alle domande dei comitati. La battaglia è stata gestita da una minoranza forte e agguerrita del Veneto. Ora, finalmente, il territorio può tirare un sospiro di sollievo.

D. Corruzione e politica. Cosa sta succedendo al Veneto?

R. Nulla di nuovo. Questo è un sistema che ha governato la Regione per moltissimi anni. Ci sarà un motivo per cui nelle università straniere il Nord Est italiano è studiato come il laboratorio della nuova criminalità economica. Si è creata una connessione tra la criminalità e tre ambienti fondamentali della società: imprenditoria, politica e finanza.

D. E da questa unione cosa è nato?

R. Un sistema che ha permesso nel passato grandi accumulazioni di capitale che poi si sono riversate in tutti questi agganci nel mondo dei grandi appalti. Ma si tratta di una situazione definita ormai da tempo.

D. Quello del Nord Est virtuoso e motore dell'economia italiana è un falso mito, dunque?

R. Il mito è dovuto anche al fatto che ci sono stati moltissimi imprenditori onesti che hanno creato un sistema economico vincente. Poi si sono infilati anche quelli che hanno accumulato grandi ricchezze evadendo sistematicamente le tasse, con il lavoro nero, con lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.

D. La superiorità morale del Nord vantata dalla Lega non esiste?

R. Lo dico da moltissimo tempo che il Nord è ben più criminale del Sud, perché i veri affari avvengono qui. Bisogna dire la verità anche sui tempi in cui le mafie si sono insediate in Settentrione. La 'ndrangheta è arrivata a Torino nel 1964. È l'Italia nel suo complesso che ha un sistema criminale di cui bisogna liberarsi al più presto.

D. L'inchiesta sul Mose andava avanti da anni, ma si aspettava uno scandalo di tali proporzioni?

R. Mi sorprende solo il coinvolgimento del sindaco di Venezia. Gli altri nomi circolavano da tempo nell'ambito delle indagini e tra coloro che si occupavano di queste cose.

D. Il sindaco di Venezia, un assessore regionale, l'ex presidente della Regione. Uno scandalo bipartisan. La politica veneta è tutta da rottamare?

R. Esiste anche una parte della politica onesta, anche in senso bipartisan. C'è però un sistema che ha governato il Veneto per tantissimi anni e che ora deve essere debellato completamente. Ma poteva essere fatto prima.

D. In che senso?

R. Si sta facendo ora un'opera di pulizia che prima della magistratura toccava alla politica. Agli elettori. Il sistema politico era evidente, ma si è preferito mantenerlo perché era fortemente ancorato a quello economico.

D. Come si spiega il ritorno forte della magistratura sugli appalti?

R. Credo che siano cambiati anche gli equilibri politici, in particolare per quanto riguarda il Veneto. Pensare che il lavoro dei magistrati non sia influenzato da queste cose significa non essere ancorati alla realtà. D'altra parte gli appalti sono diventati un'occasione di riciclaggio del denaro sporco per la criminalità organizzata.

D. Come mai proprio gli appalti?

R. Quando la criminalità ricicla su attività normali non c'è guadagno, c'è una perdita che la guardia di finanza calcola intorno al 30%. Investendo in attività pubbliche, invece, la criminalità riesce anche a guadagnare sui soldi che investe, oltre a riciclarli.

D. Per Galan c'è una richiesta d'arresto. Pensa che il parlamento darà l'ok?

R. Questo non lo so ed è difficile dirlo. Quello che secondo me è politicamente importante è la dimensione complessiva dell'inchiesta per cui il sistema nel suo complesso è stato messo a nudo.

D. Sembra anche qualcosa che va oltre Tangentopoli. Tra gli indagati ci sono magistrati, ex generali della guardia di finanza. La criminalità si insinua ovunque.

R. Questo è il dato della mutazione antropologica di questa società. La dimensione dell'agire criminale è di una illegalità diffusa che ha contagiato nel suo complesso la società.

D. Cioè?

R. Non c'è aspetto che non sia toccato o influenzato da queste forme illegali. Niente di cui stupirsi in un Paese in cui la corruzione aumenta del 100% ogni anno.

D. Se fosse un libro di Carlotto come andrebbe a finire?

R. Arriverebbe qualcuno che mette tutto a tacere, come successo con Tangentopoli. Si sono accordati sul 10% di tangente e tutto è continuato nella normalità, fino allo scandalo successivo. In questo Paese gli scandali sono serviti spesso a sanare le contraddizioni. Questo è un po' diverso, ma non bisogna abbassare la guardia per il futuro.

D. Insomma, il lieto fine c'è solo per i cattivi della storia.

R. Esattamente.

Basta sdegno e chiacchiere. Trentuno anni e costi quadriplicati. Quando diremo basta alle mazzette? Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta. L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva... Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?

Dopo i «100 motivi per amare l’Italia». Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna. L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili. Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.

1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.

2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.

3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?

4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.

5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.

6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.

7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.

8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.

9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.

10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.

Corruzione, la Grande Ipocrisia. L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male, scrive Massimo Giannini su “La Repubblica”. Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali? Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione". Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale. Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan. Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva. Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto. La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro. Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più. Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata. È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio". Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione". La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese? Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.

Democratici divisi anche sulle mazzette. Fassino: "Orsoni uomo onesto". Ma i renziani non vogliono scandali. Moretti: "Nuova classe dirigente per mettere fine alla corruzione", scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. È sempre così. Quando succedono queste cose è tutto un fuggi fuggi. Quello non c'entra, quell'altro è innocente, ci auguriamo che la magistratura faccia chiarezza al più presto, bla bla bla. A una settimana dai sorrisoni a trentadue denti mostrati al Nazareno, dopo la schiacciante vittoria di Renzi alle Europee, da ieri mattina il Pd si è improvvisamente ammutolito. Anzi no, di chiacchiere se ne sono sentite sin troppe, ma del fiume di parole sgorgate dalle bocche dei dirigentoni e esponentoni del partito, qualcuna non solo era dissonante, ma in certi casi contrastante. Nordisti contro sudisti. Veneti contro il resto del mondo. Soprattutto la nuova contro la vecchia guardia. Ex comunisti contro neo demo-renziani. C'è da capirli ahiloro. Il loro cristallino sindaco di Venezia, di specchiata moralità e ineccepibile levatura, è finito in manette. E si levò nell'aria un unico attestato di stima: «Chiunque conosca Orsoni non può dubitare della sua correttezza e della sua onestà». Parola di Piero Fassino, sindaco di Torino. Virginio Merola gli fa eco da Bologna. Ma loro appartengono al vecchio, due che Renzi, se fosse il rottamatore, avrebbe già rottamato (per motivi anagrafici). Uno ad uno hanno fatto capolino i nuovi, o quelli rivestiti di nuovo, come la ex bersaniana, poi ultrà renziana, Alessandra Moretti, che da ex vicesindaco di Vicenza scarica tutte le colpe sui vecchi compagni con una frase che i politici di razza definirebbero «concreta»: «È arrivato il tempo che una nuova generazione di politici si prenda la responsabilità di scommettere sul futuro». Parole sacrosante. L'altra conterranea, Laura Puppato, ex sindaco di Montebelluna in provincia di Treviso, salita a forza sullo stipato carro renziano, dà la colpa di tutto questo marciume a quei vecchi bacucchi del suo partito, in via di rottamazione: «Dall'inchiesta sul Mose viene fuori la parte peggiore della politica del passato», mentre «noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». E pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, si smarca dalla puzza che fuoriesce dalla laguna, tirando fuori un evergreen: «Siamo il governo del cambiamento». Quel discolo di Pippo Civati non ci casca e pretende «una maggiore selezione della classe dirigente». Il filosofo ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari aveva la soluzione in tasca ma, guarda caso, nessuno l'ha ascoltato: «Da sindaco, durante i governi Prodi e Berlusconi ebbi modo di ripetere che le procedure assunte non permettevano alcun controllo da parte degli enti locali e che il Mose si poteva fare a condizioni più vantaggiose. L'ho ripetuto milioni di volte». L'eurodeputato rieletto David Sassoli s'improvvisa spazzino e si augura che si faccia «pulizia rapidamente» con un pizzico di retorica: «Voglio una Repubblica fondata sul lavoro non sulle mazzette». Sarà il prossimo ad essere rottamato.

Quella verità inconfessabile: "Niente affari senza tangenti". Dall’interrogatorio dell’imprenditore Maltauro emerge la fotografia di un Paese in via di decomposizione. "Ho quasi settant’anni, mettiamo fine a questo sistema", scrivono Luca Fazzo Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. È come nel '92, è come Mani Pulite. No, «è peggio». È l'Italia delle tangenti vista con gli occhi di chi, le tangenti, le paga. Enrico Maltauro è un imprenditore. Un mese fa finisce in carcere perché - sostengono i pm di Milano - ha versato stecche per avere i lavori di Expo. «Tutto vero», conferma Maltauro davanti al giudice. «Ammetto», dice l'imprenditore all'inizio dell'interrogatorio di garanzia. Ma a Maltauro non basta, e chiede al gip Fabio Antezza di poter fare «una premessa». È la fotografia di un Paese in via di decomposizione. Così eccola, la metastasi della corruzione. «Questa vicenda - mette a verbale l'imprenditore - è collegata alla vicenda del '92. Perché io lo chiamo, lo definisco stato di necessità da parte di un professionista che svolge e gestisce la mia attività, di avere la necessità della sua presenza sul mercato delle opere pubbliche e dei lavori banditi dallo Stato (...). Una persona che fa il mio mestiere ha l'assoluta necessità di avere un contatto, un'interlocuzione, un rapporto con la... diciamo con le stazioni appaltanti». È una consapevolezza antica. «Parlo dalla metà degli anni '80». «Mi sono perfettamente reso conto - insiste Maltauro - che esiste una totale e assoluta invadenza e una totale e assoluta dominanza della... chiamiamola politica, con le sue varie diramazioni. Con il sottogoverno, con la politica, con le espressioni amministrative periferiche, rispetto alla gestione di questo mercato. Per cui in qualche modo, in modo assoluto e in modo assolutamente forte, in modo assolutamente in certi casi patologico, viene a essere necessitato un collegamento e un contatto di questo genere». L'imprenditore vicentino scava nel passato. «Io avevo avuto un'esperienza molto negativa negli anni '90 (ha patteggiato una pena a un anno per le tangenti sugli appalti di Malpensa 2000, ndr), dopodiché decisi sostanzialmente non dico di cambiare mestiere, ma di ritirarmi in un altro tipo di attività». Maltauro racconta di aver lavorato in Libia, e dopo qualche anno di essere tornato in Italia. «Nell'ambito di questa mia rientrata nel sistema italiano, mi sono assolutamente reso conto che la situazione che avevo lasciato tanti anni prima non solo non era cambiata, ma forse sotto un certo aspetto era anche peggiorata». E in che modo l'Italia di oggi è peggio di quella di vent'anni fa? «Il sistema dei partiti - spiega ancora Maltauro - che fino agli anni '90, '92, '93 comunque sia aveva un suo ordinamento, una sua gerarchia, aveva una sua logica, bella, brutta, sbagliata, giusta, questo è un altro ragionamento, però c'era una sorta di gerarchia, di ordine, di riferimento, di definizione. Negli ultimi anni qui la situazione si era sfarinata, prendendo delle caratteristiche assolutamente personalizzate. Gruppi di potere, gruppi di influenza, gruppi di lobby, gruppi di gestione di attività/nomine/conseguenze delle nomine». Quindi, che fare? «O lavoriamo all'estero, cosa che peraltro abbiamo fatto, oppure vendiamo l'attività, cosa che io ho pensato moltissime volte». Maltauro racconta di aver provato a cercare dei partner stranieri, vendendo quote della propria società. «Abbiamo fatto un preliminare con un'importante azienda austriaca (...). Era un'operazione di grande qualità e di grande livello, anche perché è una delle grandi società europee, per cui era una cosa che mi rendeva molto contento». Ma «non riuscimmo a concludere quell'operazione». Motivo? «Il consiglio di amministrazione della multinazionale austriaca prese paura, molto semplicemente detto, della situazione italiana. E vennero a dirci: Guardate, tutto a posto dal punto di vista dei numeri, però noi non ce la sentiamo di approfondire». E così, sfumati i capitali stranieri, Maltauro ritiene di non avere avuto altre alternative. «Siamo una società che ha mille e ottocento dipendenti a libro paga (...), è un'azienda che ha quasi cent'anni». E per «trovare delle soluzioni dal punto di vista anche dell'acquisizione del lavoro (...), ho avuto la necessità, diciamo così, di aumentare o impostare un mio livello di comunicazione con la... chiamiamola politica, con la para-politica, con le lobby della politica, chiamiamole come vogliamo. E rispetto a questo, a questo che io definisco stato di necessità, si incardina il procedimento che mi vede in questo momento protagonista. Io non contesto minimamente i fatti. (...) Ho quasi settant'anni e questo momento mi mette nella volontà e nell'assoluta decisione di porre una censura definitiva con questo tipo di situazione».

Siamo un popolo di corrotti? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di malaffare, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Ma una risposta negativa, pur ineccepibile, non soddisfa più, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. Se si abbattessero le ville che hanno distrutto le nostre coste, tanti italiani sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati Testo: C’è qualcosa, nel modo d’essere e di agire degli italiani, che ci rende più inclini di altri popoli a infrangere regole e norme, o quanto meno ci spinge a tollerare con disinvoltura che altri lo facciano? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di corruzione seriale, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Per dirla in modo brutalmente sintetico, siamo un popolo di corrotti? Il fatto è che una risposta negativa, pur ineccepibile (a intascare od offrire tangenti non sono «tutti», ma sempre persone con un nome e un cognome), non soddisfa più. Non allontana la sensazione che certi fenomeni di corruzione, se effettivamente sono presenti in tutte le democrazie sviluppate, in Italia appaiono non solo più diffusi ma anche radicati nella cultura del Paese, quasi fossero parte dell’identità della nazione, ne caratterizzassero l’anima profonda. E neppure funziona più, di fronte a una sequenza di scandali che pare ininterrotta, la consolatoria spiegazione che attribuisce il malaffare diffuso a un certo numero di politici e imprenditori disonesti, aiutati da qualche pubblico funzionario senza scrupoli. Non perché queste responsabilità non ci siano davvero tutte, come mostrano le cronache di questi giorni. Ma perché da tempo quelle stesse cronache danno regolarmente notizia di piccole e grandi ruberie, truffe, imbrogli (dai falsi permessi per disabili all’alterazione delle autocertificazioni sul reddito) che coinvolgono una platea di cittadini non proprio ristretta e segnalano la sostanziale accettazione di fenomeni di illegalità di massa. Insomma, al mito della società civile onesta, che si contrappone alle varie cricche politico-affaristiche, non crede ormai più nessuno. Del resto, l’idea che il nostro Paese abbia qualche serio problema nel rapporto con la legge circola da secoli. Era proprio questo che tra Sette e Ottocento (l’epoca del Grand Tour, che aveva l’Italia tra le sue mete obbligate) sostenevano tanti osservatori stranieri: convinti che ogni popolo avesse un suo «carattere nazionale», vedevano negli italiani una grande vitalità e creatività, bilanciate però da una scarsa o nulla inclinazione a rispettare le leggi, a guardare oltre il proprio interesse individuale concepito nell’accezione più egoistica del termine. In anni più vicini a noi, le scienze sociali non hanno fatto altro, in fondo, che dare una veste scientifica a quella diagnosi, evocando il «familismo amorale» o la scarsa «cultura civica» degli italiani. Si è trattato di spiegazioni suggestive, anche se mai interamente convincenti. In ogni caso, il deficit di etica pubblica e privata di cui soffre il Paese sembra innegabile. Ma questo riconoscimento dovrebbe portare a qualcosa di più efficace del solito auspicio di trasformazioni culturali profonde, che vedranno semmai i nostri nipoti. Dovrebbe indurre a dare un qualche riconoscimento a quella parte del Paese che tutto sommato le leggi le rispetta, ma che non si sente adeguatamente valorizzata dalle istituzioni. In attesa, infatti, di una rivoluzione culturale, se verrà e quando verrà, che cambi la mentalità collettiva, i pubblici poteri dovrebbero puntare il loro sguardo, ad esempio, su quegli italiani che abusi edilizi non ne hanno fatti, ma vedono chi invece ne ha compiuti godere in assoluta tranquillità i frutti del proprio comportamento. Sono pur sempre le istituzioni, come sostenne ai suoi tempi Jean-Jacques Rousseau, a formare «il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo». E allora, se - invece di promuovere tanti corsi, giornate, navi della legalità, invece di obbligare ogni università ad avere il suo bel «piano triennale anticorruzione» - si abbattessero un po’ delle ville e villette che hanno distrutto chilometri delle nostre coste, tanti italiani certo insorgerebbero. Ma tanti altri, è probabile, sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati, che punta su di loro per uscire prima o poi dalla palude fatta di una illegalità e una corruzione accettate, più o meno fatalisticamente, come normali.

La mazzetta incurabile, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non riesco più a indignarmi per la corruzione. Troppo seriale, scontata, inestirpabile, trasversale per suscitare ancora rabbia. Il sistema col tempo è peggiorato: si prendono mazzette senza realizzare le opere e poi ieri portava almeno benefici a cascata, oggi resta ai diretti interessati. È stupida la reazione «mandiamoli tutti a casa»; e poi chi subentra, in base a quale sortilegio sarà più affidabile? Sono forse cambiati i criteri di selezione, sono mutate le motivazioni, ci sono differenze «etniche», culturali o religiose che possano farci dire che i nuovi sono diversi? Chi ci dice che i miracolati di Grillo ma anche quelli di Renzi, diventati di colpo classe di potere, siano più affidabili rispetto ai loro predecessori? Vi ricordate cosa fecero i craxiani rispetto ai vecchi marpioni dc & soci? E la soluzione non è nemmeno dare poteri enormi ai giudici o invocare nuove leggi, normative più toste. Non serve e s'è visto. Per arginare la corruzione restano tre vie non ancora intraprese: rendere più semplice il sistema e le sue norme, sfoltendo i passaggi e i poteri di veto, perché più controlli ci sono e più potenziali corrotti ci saranno; selezionare la classe dirigente sulla base di curriculum, competenza, capacità e non in base a criteri cosmetici, demagogici o di affiliazione ai clan e ai capi; scegliere i politici in base alla motivazione che li muove, se sono spinti da molle civili e ideali o no, perché se quel che conta siamo io, i miei e la nostra vita, la corruzione è dietro l'angolo. E si ripeterà in eterno.

Certi sindaci d’Italia tra mazzette, furtarelli e le accuse di spaccio di marijuana. I guai penali e amministravi di (alcuni) amministratori pubblici. I casi degli ultimi sessanta giorni, scrive Alessandro Fulloni il 2 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”.

1. Condanne, arresti e dimissioni. C’è quello (caso classico) che intasca mazzette, l’altro (caso inedito) che si appropria dei risparmi che gli avevano affidato due anziane sorelle decedute. Poi c’è il primo cittadino che potrebbe essere sottoposto (e sarebbe un record) per due volte nel giro di venti mesi alle applicazioni della legge Severino sulla corruzione. C’è anche l’amministratore «sceriffo» - noto alle cronache per aver fatto arrestare tre ladri - che si fa beccare per spaccio. Storie di (alcuni) sindaci italiani: quelli che alla guida di comuni grandi e piccoli (circa 8 mila) talvolta amministrano con eccessiva disinvoltura la cosa pubblica. Ecco, per stare agli ultimi sessanta giorni, le vicende più singolari. Tra condanne, arresti e le attese di pareri della Consulta sull’applicazione della Severino. Il caso più noto di questi giorni è quello del sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino, arrestato lunedì nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Napoli sulle opere di metanizzazione sull’isola e detenuto nel carcere di Poggioreale. Martedì si è dimesso dando mandato al suo legale di consegnare al segretario generale del Comune di Ischia una lettera nella quale comunica la sua decisione, presa «al solo fine di potersi difendere libero da vincoli e ruoli istituzionali». Nella lettera Ferrandino scrive di avere «la serenità di chi è straconvinto della propria innocenza e di chi ritiene di avere sempre operato nell’esclusivo interesse della cittadinanza e di chi crede fermamente nella giustizia italiana».

2. Il sindaco che si appropria dei risparmi delle sorelle morte. Si sarebbe appropriato di una somma di denaro di circa 36 mila euro, i risparmi di una coppia di anziane sorelle che poi sono morte. Per questo motivo è stato arrestato dai carabinieri, con l’accusa di peculato, il sindaco di Santa Maria Salina (nel Messinese), Massimo Lo Schiavo. Le due sorelle, malate e bisognose di assistenza, erano proprietarie di una casa e di vari beni. Nel giugno del 2013 furono trasferite in una casa di riposo di Leni, sull’isola di Salina, per essere curate. La loro abitazione fu sigillata e le anziane chiesero all’amministrazione di custodire i loro risparmi: 36 mila euro, 212 dollari australiani e 180 dollari americani. Il sindaco ha preso il denaro e lo ha sigillato in due buste alla presenza dei vigili urbani. Dopo la morte di una delle donne ed è stato nominato un amministratore di sostegno dell’altra anziana. Poco tempo dopo è deceduta anche la sorella e l’amministratore ha chiesto di avere la somma di denaro e le chiavi dell’abitazione. A questo punto il sindaco avrebbe accampato alcune scuse dicendo che la somma era solo di 25 mila euro e di non sapere dove fossero le buste perché le avrebbe perse durante un trasloco. Ha poi consegnato seimila euro all’amministratore, chiedendogli di aspettare il versamento delle somme restanti. Nel corso delle indagini i carabinieri hanno però trovato a casa del sindaco le buste, che erano state in precedenza sigillate, vuote. Nel corso della perquisizione nell’abitazione del sindaco sono stati trovati anche 12 mila euro, in parte anche in valuta straniera. Sono in corso accertamenti per stabilire la provenienza del denaro.

3. La mazzetta al sindaco dei record. Una mazzetta di 100 mila euro in cambio di un appalto di otto milioni per realizzare alloggi popolari. È la contestazione della Procura di Bari nei confronti di Sergio Povia, sindaco di centrosinistra di Gioia del Colle, arrestato il 6 febbraio dalla Finanza. Arresti poi revocati dal gip. Ma il primo cittadino (più volte alla guida della cittadina pugliese a partire dal 1993: un record) a seguito della bufera giudiziaria, si è dimesso. Con lui erano finiti in carcere anche l’ex vicesindaco e l’imprenditore che aveva allungato la mazzetta. I reati contestati sono corruzione e turbativa d’asta. Secondo il pm Eugenia Pontassuglia, le persone arrestate (sia politici che dipendenti comunali e liberi professionisti) in cambio della tangente avrebbero fatto in modo che l’imprenditore si aggiudicasse la gara per numerosi alloggi. Gli indagati avrebbero tenuto una «molteplicità di condotte collusive sia nella fase concernente la pubblicazione del bando di gara, predisposto dai funzionari comunali seguendo le direttive indicate da Posa e contenute in elaborati tecnici redatti da professionisti di sua fiducia, sia la fase successiva».

4. «Fumo» e bilancino in casa dell’assessore «sceriffo». Droga e un bilancino di precisione all’interno della cassaforte di casa. Con l’accusa detenzione ai fini di spaccio è stato arrestato, giovedì 26 marzo, l’assessore alla sicurezza di Pieve Fissiraga (Lodi) , il leghista Antonio Iannone (soprannominato l’assessore «sceriffo»). I carabinieri che hanno perquisito la sua abitazione, gli hanno intimato di aprire la cassaforte: all’interno c’erano 250 grammi di hashish, uno di marijuana e un bilancino. Il tribunale di Lodi ha convalidato il fermo concedendogli gli arresti domiciliari. Iannone si era fatto la fama di «assessore sceriffo». Nell’autunno scorso, ad esempio, aveva bloccato quasi da solo e fatto arrestare tre romeni sorpresi a rubare rifiuti nella piazzola ecologica del paese.

5. Condanna in Appello per l’ex sindaco di Buccinasco. L’11 febbraio l’ex sindaco di Buccinasco (nel Milanese), Loris Cereda, arrestato nel marzo 2011 per un giro di tangenti legate ad appalti per la nettezza urbana e per il cambio di destinazione d’uso di alcune aree della cittadina, è stato condannato a 3 anni e 6 mesi (e 20.000 euro di provvisionale al Comune) per corruzione dalla seconda Corte d’Appello di Milano. L’accusa imputava a Cereda (che in primo grado aveva avuto 4 anni e 3 mesi) una tangente di 7mila euro per garantire l’approvazione di una convenzione tra il Comune e una società per la concessione d’uso di un’area verde «da destinare a parcheggio». Inoltre l’allora sindaco avrebbe accettato 25mila euro e la messa a disposizione di due Ferrari e una Bentley per garantire l’approvazione di una delibera di «rinnovo del contratto per i servizi di igiene urbana» con «contestuale subappalto».

6. Il Caso Ostia e il «minisindaco» dimissionario. A Ostia, municipio del comune di Roma, il minisindaco (Pd) Andrea Tassone è dimissionario. Un gesto annunciato il 18 marzo dallo stesso Tassone in chiave di allarme antimafia: troppo forti le pressioni della criminalità organizzata, «non ho gli strumenti per andare avanti. Non ho mai chiesto un carrarmato per combattere le mie battaglie ma almeno una piccola mazzafionda l’avrei desiderata». Una vicenda però in chiaroscuro, che mette in imbarazzo il Pd: tra le condizioni per continuare, Tassone (citato nelle carte di Mafia Capitale dal faccendiere Salvatore Buzzi che lo definisce «nostro») ha posto l’allontanamento del comandante dei vigili di Ostia Roberto Stefano. Ma Stefano ha condotto l’inchiesta sui chioschi del lungomare di Ostia, dove «ballano» 300 mila euro per le opere a scomputo, un’indagine per la quale risultano indagati (con elezione di domicilio) lo stesso Tassone e anche l’assessore ai Lavori pubblici Antonio Caliendo (anche se lui nega). Morale: dimissioni (almeno sinora) definitive. Consiglio municipale a un passo dallo scioglimento. E nuove elezioni praticamente certe.

7. Il sindaco che diventa senatore «grazie» a legge Severino. Fosse un calciatore, Domenico Auricchio, detto «Mimì», fedelissimo di Berlusconi, sarebbe un numero 7, genere Franco Causio. Claudio Sala o Bruno Conti, capace di saltare l’avversario con un dribbling secco. Auricchio invece è un sindaco-senatore, e il dribbling lo ha fatto infilandosi in uno di quei «varchi» non previsti dal la legge Severino. Grazie alla quale è arrivato a palazzo Madama, per usare le parole del presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone «dopo una condanna di primo grado» per la quale da sindaco - due anni fa - è stato «sospeso per effetto della Severino». «Epperò può entrare in Parlamento perché era il primo dei non eletti». Ma ora c’è un nuovo caso. Terminata la sospensione di 18 mesi, Auricchio è tornato sindaco in piena regola. Nuova tegola il 18 marzo: quando è stato condannato per abuso d’ufficio. I giudici del tribunale di Nola lo hanno giudicato colpevole dell’installazione di un chiosco abusivo in pieno Parco Nazionale del Vesuvio: una concessione avvenuta, secondo l’accusa, senza passare dall’ufficio tecnico. Ora il sindaco-senatore rischia una nuova applicazione della Severino. La seconda in 20 mesi. E sarebbe record.

8. De Luca, attesa per il parere della Consulta. Vincenzo De Luca, 65 anni, è stato per quattro volte sindaco di Salerno, due volte deputato e sottosegretario ai Trasporti nel governo Letta. Una trafila dal Pci al Pd. Ora per il centrosinistra è il candidato (vincente alle primarie) alle prossime regionali in Campania. Il 21 gennaio è stato condannato ad un anno di reclusione per abuso d’ufficio per la nomina di un ex collaboratore come project manager del termovalorizzatore. Il giorno dopo il prefetto di Salerno ha disposto la sua sospensione in base alla legge Severino che prevede tra le altre misure, la sospensione e decadenza degli amministratori locali in condizione di incandidabilità (appunto come De Luca, condannato per un reato contro la pubblica amministrazione). L’ex sindaco di Salerno attende ora una decisione della Corte costituzionale. Che presto, anche se il ruolo non è ancora stato assegnato a un relatore, dovrà vagliare la costituzionalità della legge anticorruzione varata dal governo Monti. Se venisse eletto governatore della Campania in assenza di una decisione della Corte, De Luca verrebbe immediatamente sospeso su richiesta della presidenza del Consiglio. Però, un minuto dopo De Luca farebbe ricorso al Tar. Poi si vedrà.

Mafia: neri, rossi e boss. Chi comanda a Roma. La ragnatela criminale di Carminati aveva unito politici di destra e sinistra. Il volto nuovo del potere criminale in un saggio-inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo che svela intrecci con vip, calciatori, professionisti e imprenditori, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “L’Espresso”. È l'inchiesta più clamorosa dell'ultima stagione, l'incredibile ragnatela di potere creata intorno al Campidoglio da Massimo Carminati. Adesso quella rete di malaffare viete setacciata da un saggio scritto da Lirio Abbate de "l'Espresso" e da Marco Lillo de "il Fatto". "I Re di Roma" (Chiarelettere, 256 pagine): prende il titolo dall'inchiesta giornalistica del nostro settimanale che nel 2012 svelò la spartizione criminale della metropoli capitolina, prima ancora che le indagini ne ricostruissero l'organizzazione. Ecco in anteprima il capitolo finale, sulla matrice politica di questo scandalo: a comandare era il terrorista mai pentito che dava ordini a uomini di destra e sinistra. In libreria per Chiarelettere il nuovo libro inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo: ''I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale''. Una storia incredibile, che è poi diventata l'inchiesta di Pignatone e che propone al lettore una mappa inquietante e dettagliata di ''un sistema criminale senza precedenti, che ha dominato Roma con la complicità di politica e istituzioni. Un sistema che pesa sui cittadini con disservizi visibili ogni giorno''. E dunque "Mafia Capitale" è di destra o è di sinistra? Massimo Carminati è il capo dell’organizzazione ed è un ex Nar, non certo un ex Br. Poche storie: «mafia Capitale» è di destra. Gaber risponderebbe: eh no, sembra facile. Il Nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che «mafia Capitale» è di sinistra? L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è indagato per associazione mafiosa con Buzzi e Carminati, dunque «mafia Capitale» torna a destra. Sì, ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di «mafia Capitale», Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra. Sì, ma a quella cena c’era pure il manager dell’Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, dunque è di destra. E Ignazio Marino si faceva finanziare la campagna elettorale dalla coop rossa 29 giugno, quella che poi lucrava sugli immigrati, lo vedi che è di sinistra? Peccato che la coop 29 giugno finanziava la fondazione di Gianni Alemanno, mica quella di Renzi, quindi è di destra. Dimentichi che il Rosso finanziava anche le cene elettorali dell’attuale premier, quindi è di sinistra. Sì ma Buzzi faceva il tifo per il centrodestra alle elezioni comunali del 2013 e poi, per cambiare il bilancio del Comune a favore della sua cooperativa, sono intervenuti Massimo Carminati e il segretario del sindaco Alemanno, mica Che Guevara. Quindi è di destra. Il bilancio del Comune con le correzioni a favore della coop amica di Carminati, però, poi lo approvavano anche i consiglieri del Pd, quindi «mafia Capitale» è di sinistra. Alla fine forse è più corretto prendere atto che «mafia Capitale» è sia di destra che di sinistra, ma tradisce insieme i valori della destra e quelli della sinistra. Chi fa saltare le regole della concorrenza e del libero mercato, chi usufruisce di sconti e condoni per continuare a violare la legge, come hanno fatto Buzzi e Carminati, è la negazione dei valori della destra economica e sociale. All’opposto, chi usa persino il disagio degli immigrati, dei nomadi e dei senzatetto per gonfiare il proprio portafoglio compie il peggiore tradimento possibile ai valori della sinistra. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Se «mafia Capitale» fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Carminati è socio della coop di Buzzi che con una mano scrive discorsi di ringraziamento al ministro Poletti e al premier Renzi e con l’altra sostiene e finanzia le elezioni di Gianni Alemanno. L’ex collaboratore di Veltroni, Luca Odevaine, è lo sponsor delle cooperative care al Vaticano e a Giulio Andreotti. Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Sono in parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi. Non è un caso se l’opposizione si è rivelata inefficace sia nell’era Veltroni che nell’era Alemanno. Solo il lavoro del Ros dei carabinieri e dei magistrati della Procura di Roma ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori del 2014, dall’Expo al Mose fino a «mafia Capitale», sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e di sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Se il governo Renzi avesse voluto, avrebbe potuto approvare un decreto per intervenire su questi problemi composto di tre articoli: tutti i finanziamenti a una fondazione nella quale figuri un politico in qualsiasi veste, non solo quelli ai partiti, devono essere resi pubblici su internet; i manager delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi che devono gestire soldi pubblici sono scelti con concorso nazionale per titoli, primo dei quali la fedina penale intonsa; le cooperative che sono sorprese a truccare le gare o a corrompere pubblici ufficiali perdono ogni beneficio di legge dal punto di vista fiscale. In pochi giorni l’ampia maggioranza destra-sinistra che ha dominato la scena della politica italiana negli ultimi anni avrebbe potuto risolvere i tre problemi posti dall’indagine su «mafia Capitale». Non ci sarebbero stati più i finanziamenti «segreti» della coop rossa a Gianni Alemanno né le nomine di soggetti condannati per ricettazione come Riccardo Mancini a capo dell’Eur Spa. Le cooperative rosse sarebbero state più accorte ad assumere un tipo come Massimo Carminati. Invece il governo Renzi ha preferito proporre l’ennesimo pacchetto di grida manzoniane che aumentano le pene minime senza sfiorare i veri nodi delle fondazioni, delle municipalizzate e del sistema cooperativo. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? All’indomani della scoperta di «mafia Capitale», l’animo dei politici è confuso, molto confuso. E non solo a livello locale. Il presidente del Consiglio Renzi difende il suo ministro Poletti, fotografato quando era responsabile delle coop, insieme a Buzzi, e dice: «È un galantuomo». E annuncia il commissariamento del Pd romano con Matteo Orfini. Il premier è «sconvolto, perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Vale per tutti il principio di presunzione di innocenza e il governo ha scelto Raffaele Cantone per l’anticorruzione. Certe vicende fanno rabbia, serve una riflessione profonda». E ancora: «Certo, l’epicentro è l’amministrazione di Alemanno, ma alcuni nel Pd romano non possono tirare un sospiro di sollievo». E così il presidente di Dem annuncia che il partito a Roma è «da rifondare e ricostruire su basi nuove». Ci sono un assessore e il presidente del consiglio comunale indagati e dimissionari e altri esponenti sotto inchiesta. E il sindaco Ignazio Marino parla di «pressioni» sulla sua amministrazione e assicura che «ha sbarrato le porte a chiunque volesse influenzarla in qualsiasi modo». E dell’ormai ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato e dimessosi, che nel rimpasto di giunta era in predicato per assumere le deleghe al sociale, dice: «L’ho conosciuto per la sua forza nell’imporre la legalità». Il ciclone giudiziario soffia anche su quello che è stato il partito di Silvio Berlusconi a Roma, il Pdl. A cominciare da Gianni Alemanno, ex sindaco, indagato per associazione mafiosa, che appena ricevuto l’avviso di garanzia si autosospende dagli incarichi in Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e afferma su “Libero” e “la Repubblica”: «Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo de “l’Espresso” sui “quattro re di Roma”, tra cui Carminati, che io non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no». La scena che descrive l’ex sindaco potrebbe essere quella di una commedia. Ma la storia è seria per poterci ridere sopra. E Alemanno ribadisce la propria innocenza: «Due cose non rifarei. La prima: trascurare la composizione della squadra. Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con Odevaine, che era il suo vicecapo di gabinetto e che io ho allontanato appena arrivato in Campidoglio. La seconda: non aver agito in totale discontinuità con il passato». «Salvatore Buzzi – aggiunge Alemanno – il patron della cooperativa 29 giugno, io l’ho trovato ed è cresciuto sotto le amministrazioni di sinistra. Non volevo fare la figura del sindaco di destra che caccia tutti quelli di sinistra». Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Fra intercettazioni e sviluppi investigativi, nell’inchiesta finiscono nomi di politici, non solo quelli indagati ma anche altri che, pur non essendo stati colpiti da provvedimenti giudiziari, vengono trascinati in questa storia dai protagonisti dell’indagine. Nelle lunghe conversazioni spunta anche il nome di un altro politico di destra, l’ex ministro Ignazio La Russa. Di lui parlano Pozzessere e Carminati: «Ignazio doveva mette’ a pareggia’ all’interno... i conti di Ligresti... Ignazio faceva... fa il capo bene lui... me lo ricordo, da ragazzini era così, eh, io quando andavo a Milano... la federazione del Mis erano solo loro, lui, Romano, er padre... vanno ai congressi e gli rompono sempre il cazzo al padre, gli dicono che era mafioso perché era amico di Ligresti ... è Ligresti che viene da me, no io che vado da lui». E c’è anche Gianni Letta, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Buzzi punta alla gestione del Cara di Castelnuovo e ottiene un incontro con Letta per tentare di sensibilizzare il prefetto di Roma. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?

LA SINISTRA: IERI DIVERSI. OGGI CATTIVI E DANNOSI...OSSIA UGUALI.

Ieri diversi, oggi cattivi dannosi e pericolosi, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso”. Duecento tesserati in due ore. Falso un iscritto su cinque. Il rapporto sul Pd romano fa impressione. Ma sarebbe bene farne altri simili in tutto il paese. Cattivo. Dannoso. Pericoloso. No, non è un virus. Si parla di Pd, la Ditta, l’ex Pci della diversità berlingueriana. Secondo la lettura choc di Fabrizio Barca. E non è una battuta scappata in tv, ma il punto d’arrivo di un’analisi minuziosa svolta su 110 circoli romani del Pd, durata finora sei mesi, ricca di documentazione e di testimonianze dei militanti (è tutto sul blog di Barca assieme al resoconto del suo precedente “Viaggio in Italia”, personale inchiesta alla scoperta del partito condotta nel 2013 provincia per provincia). Dunque, un lavoro serio. Confesso che non mi era mai capitato di leggere parole così dure, precise e taglienti sulla realtà interna di un partito, scritte per di più da qualcuno che in quel partito milita convintamente. Che siano poi firmate da Barca, uomo colto, scrupoloso, rigoroso servitore dello Stato, è una garanzia in più di fedeltà e qualità. E però, nonostante questo, il rapporto non ha avuto finora l’eco che merita. Forse perché riguarda solo il Pd romano; o perché nei giorni in cui è stato diffuso un primo documento (il lavoro continua), giornali e tv erano presi dalla strage di Tunisi e dal pasticciaccio Lupi-Incalza. Ma nemmeno nei giorni successivi il dibattito è decollato, anzi tutto è ricominciato stancamente come prima, con le minacce di scissione a sinistra, le battutine sferzanti di questo contro quello e la sempiterna ricerca di un anti-leader, stavolta individuato nell’ottimo Giuliano Pisapia che non ha fatto a tempo ad annunciare di non volersi ripresentare a sindaco di Milano per essere candidato a sua volta a capo di una cosa che non c’è. Certo, Roma è stata colpita da Mafia Capitale, l’inchiesta che ha investito anche frange di Pd, spinto Matteo Renzi a commissariare il partito e a sua volta il commissario Matteo Orfini a incaricare Barca dell’indagine. Ma quando si legge di assenza di trasparenza, di deformazioni clientelari, di scorribande dei capibastone, di - testuale - carne da cannone da tesseramento (si citano casi di “duecento tessere in due ore”, e si scopre che un tesserato su cinque è falso), sale il timore che la malattia non si fermi all’ombra del Cupolone. Del resto, quando il Pd ha chiamato a raccolta i suoi elettori, penso alle primarie, ne sono capitate di tutti i colori, e non solo nel 2012 (una per tutte, i cinesi in fila a Napoli). E alzi la mano chi non ha pensato subito a infiltrati, brogli, tessere false. Renzi ha provato a evitare in Campania lo scontro Vincenzo De Luca-Andrea Cozzolino, ma invano: si è dovuto beccare De Luca con tutto il seguito di legge Severino e dintorni. Non era andata meglio in Emilia dove i due candidati Stefano Bonaccini, caro al premier, e Matteo Richetti sono finiti in una delle mille inchieste della magistratura. In Liguria è finita con Sergio Cofferati che denuncia brogli. E l’altro giorno, mentre Massimo D’Alema scaldava animi scissionisti, Renzi cercava di scongiurare la candidatura a sindaco di Enna di Vladimiro Crisafulli, ieri giudicato “impresentabile” alle politiche e oggi sponsorizzato dal Pd locale. Intanto ad Agrigento le primarie del centrosinistra vedevano in testa Riccardo Gallo Afflitto, vicesegretario regionale di Forza Italia, promotore di una lista civica. Molte cose non tornano. E non c’è da meravigliarsi se alle ultime regionali il Pd ha dimezzato i voti nella sua Emilia e a Livorno, storica roccaforte rossa, ha conservato sì un sontuoso 52 per cento, ma è stato punito alle contemporanee comunali nelle quali gli elettori hanno preferito il grillino Nogarin. Intendiamoci, nel suo viaggio Barca ha incontrato anche un robusto Pd né cattivo né dannoso né pericoloso, anzi, ma che spesso fatica a imporsi sull’altro. Là dove ce la fa, ecco i “luoghi ideali”, simili a quelli dove in questi mesi sono stati avviati significativi progetti pilota. Mi permetto di suggerirne un altro: che almeno un circolo in ogni città chieda a Renzi di estendere il metodo Barca in tutta Italia così che l’indagine sullo stato del Pd conquisti il primo posto nel programma del partito. Sì, forse ne vedremo delle belle. Ma lo sforzo di trasparenza e di pulizia aiuterebbe a riprendere quella fiducia in se stessi che in tanti è andata dispersa.

A D’Alema bonifici per 87 mila euro. Vino e fondazione, i versamenti all’ex premier. I pm potrebbero sentirlo Nelle intercettazioni i timori dei dirigenti della coop Cpl: siamo ascoltati, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Erano forniture annuali quelle che la «Cpl Concordia» ordinò all’azienda «La Madeleine» di Massimo D’Alema. Spumante e vino rosso per 22.500 euro. Complessivamente i versamenti ammontano dunque a 87mila euro in tre anni. Soldi che i vertici della cooperativa sostenevano di aver elargito «perché è molto più utile investire negli “Italianieuropei”». E di questo si parlerà domani nel corso degli interrogatori di garanzia di Francesco Simone, che curava le pubbliche relazioni dell’azienda, e del presidente Roberto Casari, entrambi arrestati per dall’associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà degli incanti, riciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti. E chiarimenti sulla natura di questi rapporti potrebbero essere chiesti allo stesso D’Alema: i magistrati stanno valutando la sua convocazione dopo aver ascoltato la versione degli indagati. Non sarà l’unico. L’inchiesta che ha portato in carcere il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino per le tangenti che avrebbe preso per affidare la metanizzazione dell’isola alla «Cpl» si allargano ai rapporti della cooperativa con le altre Fondazioni create dai politici. E inseguono i soldi all’estero: a San Marino, dove Simone dice di poter muovere fondi, ma soprattutto in Tunisia. È lo stesso manager, in passato fedelissimo di Bettino Craxi, a vantarsi con il presidente del consiglio di amministrazione Maurizio Rinaldi, della propria capacità di muoversi nel Paese africano: «Se tu vuoi vieni una volta con me in Tunisia che è una cosa più sicura, ti apri il tuo conto oppure fai un’altra società che costa duecento euro... Tunisia, offshore, dove tu sei socio unico e garante, nella mia stessa banca, così è più veloce l’operazione». Lui faceva la spola continuamente e quando si trattava di nascondere i soldi da far rientrare in Italia li nascondeva nei posti più strani, compreso il passeggino del figlio. Nelle conversazioni intercettate nel marzo del 2014 Simone parla con una dipendente di «Italianieuropei» per l’acquisto di 500 libri di D’Alema da presentare a Ischia. Specifica di essere «disposto a pagare cifra piena se i soldi vanno alla Fondazione», altrimenti chiede uno sconto del 10 per cento. La donna lo rassicura che il pagamento sarà diretto e così si accordano per la fornitura dei volumi «ma anche del vino, uniamo l’utile al dilettevole».
In realtà quelle bottiglie non sono le uniche acquistate. Secondo una nota dei carabinieri del Noe, delegati alle indagini, «nel 2013 sono state comprate 1.000 bottiglie di spumante per 14.600 euro e nel 2014 altre 1.000 bottiglie di vino rosso per 7.900 euro». Uniti a tre bonifici da 20.000 euro l’uno elargiti alla Fondazione e alle centinaia volume «Non solo euro» fanno 87.300 euro. Quando decidono quali Fondazioni devono finanziare i vertici di «Cpl» sono molto espliciti, come spiega il responsabile commerciale in un colloquio del maggio scorso. Verrini : «Il mio problema però è questo, queste persone poi quando è ora, le mani nella merda ce le mettono o no?». Simone : «...dobbiamo pagarlo perché ci porta questo e chiudiamo questo, no venti ma anche duecento...». Non si sa a chi si riferiscano, gli atti sono coperti da omissis «per ragioni investigative». Certo è che un filone dell’indagine, come scrive il giudice, si concentra sui versamenti «al mondo politico-istituzionale, ovvero a quelle fondazioni o associazioni che in qualche modo sono espressione di tale mondo». E infatti sottolinea come «il tenore e il contenuto della conversazione appaiono fondamentali anche per la valutazione delle esigenze cautelari, e in particolare della pericolosità sociale dei protagonisti della vicenda, rappresentando lo “specchio” della strategia aziendale di tale cooperativa, con particolare riferimento ai rapporti e alle relazioni “patologiche” esistenti tra gli uomini espressione di tale cooperativa da una parte ed esponenti politici (e più in generale della pubblica amministrazione) dall’altra, rapporti sovente “schermati” attraverso triangolazioni con fondazioni varie e di varia natura». Accertamenti che riguardano anche i rapporti diretti con chi si sarebbe mostrato disponibile ad agevolarli, come il sottosegretario Simona Vicari, vera promotrice dello sblocco di 140 milioni di euro nella legge di stabilità come loro avevano sollecitato e sul conto della quale sono tuttora in corso nuove verifiche. Dalle intercettazioni raccolte dagli investigatori si capisce che alla Cpl c’era la consapevolezza di essere al centro di una indagine. «Siamo ascoltati», dice Simone a Verrini. In un’altra conversazione Simone fa riferimento al generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi (già coinvolto in altre inchieste) e parla della necessità di ricercare microspie negli uffici della cooperativa: «Ho parlato con un assistente di Adinolfi... Serve fare una bonifica, Nicò! Quando mi autorizzi chiamo il generale, ce la facciamo fare, però ovviamente ci farà un prezzo di riguardo. Però facciamola».

A SINISTRA: DA ACCUSATORI AD ACCUSATI LE COSE CAMBIANO.

D’Alema e il caso Ischia: «Così la magistratura si delegittima da sola. Il Csm e l’Anm devono intervenire». L’ex premier: «Non ritengo legittimo l’uso di intercettazioni come quello nei miei confronti. Abolito il finanziamento pubblico ai partiti, ora si criminalizza quello privato», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Il giorno dopo, Massimo D’Alema è ancora «indignato e offeso».

Davvero non ha trovato una ragione a giustificazione dei magistrati che hanno inserito il suo nome nell’ordine d’arresto per le presunte tangenti a Ischia?

«E quale potrei trovare? Si parla di un’ipotesi di reato, tutta da dimostrare, in cui io non c’entro. Non c’era alcuna necessità di utilizzare intercettazioni fra terze persone, senza valore probatorio, dove si parla di me de relato. Allora mi viene il sospetto che ci sia un motivo, per così dire, extra-processuale».

Sarebbe a dire?

«Dubito che la notizia dell’arresto del sindaco di Ischia e qualche suo presunto complice sarebbe finita sulle prime pagine dei giornali, se nell’ordinanza non fossero stati citati D’Alema, Tremonti, Lotti o qualche altro personaggio di richiamo. Ma se questa fosse la logica che ha ispirato i magistrati, ci sarebbe da preoccuparsi. Non per me, ma per il funzionamento della giustizia. Anche perché negli ultimi tempi si sono susseguite diverse assoluzioni che hanno sconfessato le indagini, soprattutto nei confronti di amministratori locali addirittura arrestati. Se le inchieste avessero l’obiettivo di una più efficace ricerca delle prove, anziché di qualche forma di pubblicità, credo sarebbe più utile alla giustizia e alla moralità pubblica».

Che fa, delegittima anche lei la magistratura solo perché stavolta è stato toccato dal «pubblico ludibrio» delle intercettazioni?

«Io non delegittimo nessuno. Sono stato a lungo indagato e sempre prosciolto, anche quando avevo responsabilità di governo. Un pm ha dovuto risarcirmi per i tempi troppo lunghi di accertamento della verità, a spese dei contribuenti, come credo che per altre ragioni sia capitato pure al pm di Napoli titolare di questa indagine. Credo però che l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, ma anche l’Associazione magistrati, dovrebbero esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola. Non ritengo legittimo un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti».

Ha riforme da suggerire?

«No, dico che serve maggiore autocontrollo tenendo presente che i magistrati devono accertare fatti e reati, senza attribuirsi funzioni politiche o pubblicistiche di altro genere. Proprio per mantenere integro il rispetto che si deve alla funzione giudiziaria e che io conservo: sono un garantista, ma anche un legalitario».

Nelle intercettazioni gli indagati dicono che lei era disponibile a «mettere le mani nella merda» per loro, e che già gli «aveva dato delle cose»; parole che per pm e giudice non sono affatto irrilevanti. Non è questo suo presunto ruolo che dovrebbe indignarla e offenderla?

«Io ho solo aderito agli inviti a partecipare a iniziative pubbliche. Non ho fatto niente per queste persone, che sono state interrogate: immagino che se i magistrati avessero ritenuto di dovermi contestare dei reati lo avrebbero fatto. D’altra parte, se hai motivo di ritenere che ci sia stato un illecito, me lo contesti e io mi difendo. Insomma, compito del magistrato è provare a verificare il contenuto di quelle parole, che possono essere millanterie, frasi in libertà o qualunque altra cosa, prima di darle in pasto al pubblico».

Lei che rapporti aveva con le persone arrestate?

«Il sindaco di Ischia Ferrandino l’ho conosciuto nel 2014, quindi quando il presunto reato era, eventualmente, già stato consumato. Con i responsabili della Cpl, Roberto Casari e Francesco Simone, avevo rapporti più risalenti nel tempo, ma non ho mai fatto alcunché di illecito, né me l’hanno chiesto. Del resto se in due anni di intercettazioni non c’è la mia voce qualcosa vorrà dire...».

Dunque non sa perché dicessero quelle frasi?

«Io no. Mi auguro che i magistrati lo chiedano a loro».

E l’acquisto dei suoi libri e dei suoi vini?

«L’acquisto dei libri, legato a una presentazione in concomitanza con un’iniziativa elettorale a favore di Ferrandino candidato alle elezioni europee del 2014, rientra nei finanziamenti che noi raccogliamo per la fondazione Italianieuropei , un’associazione culturale che pubblica una rivista prestigiosa e svolge molte iniziative importanti. Tutto alla luce de sole, così come le donazioni, regolarmente messe a bilancio. Quando abbiamo cominciato, sedici anni fa, abbiamo ricevuto sostegno da Pirelli, dalla Fiat, da De Benedetti e molte altre imprese. Quanto al vino, mi scusi ma mi viene da sorridere: se i pm vogliono acquisire agli atti una buona guida enologica scopriranno che i nostri spumanti sono segnalati tra i migliori, ed è notorio che in occasione delle festività le aziende ne acquistano in quantità per regalarli. Li abbiamo venduti e fatturati, concedendo la possibilità di pagare quattro mesi dopo: siamo noi che abbiamo fatto il favore alla cooperativa, non viceversa».

L’acquirente dice che fu lei a chiedere di comprare...

«Nel particolare non mi ricordo. Ma in generale consiglio a tutti di comprare il nostro vino. Spero non sia un reato grave... Ho sentito anche dire che siccome io sono una persona nota c’è chi compra per simpatia e dunque questa sarebbe concorrenza sleale, ma vale anche il contrario: c’è chi non compra per antipatia, come è ovvio e lecito che sia. Dov’è il reato?».

Reati a parte, ci sono questioni di opportunità politica che emergono dalle indagini e hanno un loro peso. Come è capitato all’ex ministro Lupi.

«Premessa la mia totale solidarietà nei suoi confronti, credo che ci sia un po’ di differenza tra l’avere la responsabilità di un ministero e contemporaneamente rapporti con chi ottiene appalti e commesse, lavorando proprio con quel ministero, e chi, senza incarichi istituzionali, continua a fare politica da privato cittadino».

E raccoglie fondi per la sua fondazione, come faceva quando era parlamentare...

«Prima è stato abolito il finanziamento pubblico dei partiti, ora si criminalizza il finanziamento privato della politica. E dopo che resterà? Lo chiedo in generale, perché Italianieuropei non ha mai beneficiato di finanziamenti pubblici, ma ha sempre vissuto con il sostegno di semplici cittadini e imprenditori. Sono favorevole a regole di maggiore trasparenza nel finanziamento delle fondazioni, magari accompagnate con qualche serio incentivo fiscale. Ma episodi come quello di cui stiamo parlando spaventano le persone e le allontanano anche da legittime attività di sostegno. Per questo io sono preoccupato: non per l’azienda di famiglia, ché anzi, gli ordini dei vini stanno aumentando in segno di solidarietà, bensì per il futuro di Italianieuropei».

E per il futuro del Pd? I fatti emersi negli ultimi tempi non sono sintomo di una «questione morale» nel partito e nella sua classe dirigente?

«Il Pd è un partito di governo a tutti i livelli. E questo, naturalmente, lo espone a rischi di compromissione e inquinamento, che non debbono essere sottovalutati. È evidente che ci vuole maggiore vigilanza».

La vera storia del vino di D'Alema. Presto interrogato dai giudici, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questa storia è tutto rosso o per lo meno rosé: le Coop, le presunte tangenti e pure il vino. Infatti nell’inchiesta della procura di Napoli che indaga sui fondi neri e le presunte mazzetta pagate dalla Cpl Concordia, spunta il nome dell’azienda vitivinicola della famiglia di Massimo D’Alema, La Madeleine, adagiata sulle colline umbre tra Otricoli e Narni (Terni). Nei giorni scorsi l’ex premier è stato avvistato nello stand dei produttori umbri del Vinitaly, intento a vendere personalmente le sue etichette. Ma dalle nuove carte giudiziarie apprendiamo che per piazzare i suoi “rossi” Baffino preferisce andare sul sicuro e rivolgersi ai vecchi compagni. Uno degli arrestati di ieri, il barese Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Cpl Concordia, il 6 novembre aveva dichiarato agli inquirenti: «Confermo che la Cpl ha acquistato 2.000 bottiglie di vino prodotte dall’azienda della moglie di D’Alema, tuttavia posso rapprsentarvi che fu Massimo D’Alema in persona, in occasione di un incontro casuale tra me, lui, il suo autista e il presidente Casari a proporre l’acquisto dei suoi vini». Il giudice Amelia Primavera nell’ordinanza chiosa con una certa perfidia: «Visto il prezzo pagato dalla Cpl Concordia per ciascuna delle 2.000 bottiglie di vino acquistate (non si tratta di un prodotto da somministrare in una mensa aziendale) si tratta evidentemente di un’altra delle "eccezioni" cui faceva riferimento lo stesso Simone per parlare dell’acquisto dei libri». Ma quanto valgono 2 mila bottiglie di nettare rosso dalemiano? L’ordinanza non lo svela. La moglie di Massimo D’Alema, Linda Giuva, procuratore speciale dell’azienda, si limita a farci sapere che i prodotti sono stati inviati in tre momenti diversi (novembre 2013, aprile 2014 e ottobre 2014) e che «gli acquisti sono stati fatti in occasione delle festività». Tre le etichette vendute: il prodotto base, in vendita a 9,50 euro, il Cabernet Franc "Sfide"; lo spumante Nerosé (17,50 euro) e il pinot nero Narnot, (29 euro, 70 il magnum). Tutte ideazioni dell’enologo dei vip Riccardo Cottarella. «I pagamenti sono avvenuti tramite bonifico bancario che hanno seguito le fatture di circa mediamente 130 giorni (…) i prezzi sono stati quelli di listino». La signora sottolinea che la Cpl il regalo non lo ha fatto a loro, ma ai propri clienti, visto che i vini della Madeleine piacciono e «un’etichetta è esaurita da più di tre mesi». Forse per questo la coop si è anche preoccupata di organizzare la presentazione dell’ambrosia di casa D’Alema nell’isola di Ischia. Il solito Simone ne discute al telefono con la segretaria della Fondazione Italianieuropei dello stesso D’Alema: «Io ho poi parlato con (…) la Linda (…) perché siccome noi come Cpl abbiamo preso anche alla signora del vino (…) volevamo fare un’iniziativa di presentazione del vino suo loro a Ischia con tutti i ristoratori e gli albergatori una cosa bella… l’utile al dilettevole: presenteremo il libro (di D’Alema ndr) e…». Il vino. Simone ha le idee chiare: «Volevo organizzare un fine settimana a Ischia per presentare il libro e poi a latere senza ovviamente nessuna evidenza pubblica mentre il libro sarebbe una manifestazione pubblica».  Quindi in piena campagna elettorale per le Europee del 2014 "il compagno D’Alema" come lo chiamano un po’ ironicamente gli indagati, promuove la sua ultima impresa editoriale e la moglie, a rimorchio, le bottiglie. La coppia nel luglio scorso ha avuto l’onore di ricevere praticamente sotto casa, a Gallipoli, (storico buen retiro dalemiano) il premio Barocco, «condotto con sobrietà da Alba Parietti» si legge sul sito della Madeleine. Nella motivazione si ricorda «che la nuova avventura imprenditoriale rappresenta una delle tante "Sfide" che Linda Giuva ha portato avanti nella sua vita, ricordando così il nome di uno dei prodotti della Madeleine». La Parietti che premia l’amica Linda è la metafora perfetta di una "sfida" solo immaginaria, la vendita del proprio vino nel circuito delle coop rosse più riconoscenti e disponibili. Nella Madeleine non mancano altri incroci curiosi. Per esempio il socio dei figli di D’Alema è l’imprenditore barese Francesco Nettis, conosciuto attraverso Roberto De Santis, sodale da quasi 40 anni di Baffino e già armatore della sua barca a vela. De Santis è stato recentemente perquisito nell’inchiesta sulle Grandi opere di Firenze e con Nettis ha usufruito di una vacanza in barca a Saint Tropez con belle fanciulle al seguito a spese di Giampaolo Tarantini, il presunto procacciatore di escort per Silvio Berlusconi. L’esclusiva crociera doveva servire a «ricompensarlo (De Santis ndr) delle conoscenze (D’Alema compreso ndr) che mi aveva fatto fare» ha detto Tarantini a verbale. E gli intrecci non sono finiti. Nel 2009 Francesco D’Alema, erede non ancora diciannovenne dell’ex premier, ha acquistato il 40 per cento dell’azienda agricola da un prestanome dell’avvocato Sergio Melpignano, fiscalista noto alle cronache anche per alcune traversie giudiziarie oltre che proprietario di un esclusivo resort molto amato dal fu Lìder Maximo. Per dieci mesi questo professionista è stato il socio "occulto" del cadetto di casa D’Alema. Poi l’ex segretario dei Ds ha acquistato l’intero pacchetto. Non prima di aver indicato a Melpignano, il nome del "compagno" Adolfo Orsini, ex dipendente di Asl e sindaco di Città di Castello (Perugia), per l’incarico di «rappresentante delegato della società agricola» nell’acquisto dei «diritti di reimpianto» di viti presso diversi agricoltori locali. Orsini nel 2010 diventa così l’amministratore unico dell’Agenzia regionale umbra per lo sviluppo e l’innovazione in agricoltura ed è probabilmente anche grazie alla sua esperienza che la Madeleine ottiene 57mila euro di finanziamenti regionali. Orsini è stato socio anche nella Soluzioni di business (Sdb) di Vincenzo Morichini, pure lui umbro, ex socio di D’Alema nella barca a vela Ikarus e suo fundraiser per la fondazione Italianieuropei. Quando nel 2011 Morichini viene coinvolto in una vicenda di appalti e mazzette, legati all’Enac, l’ente dell’aviazione civile, il nome di Orsini finisce in un pizzino con un elenco di presunti contributi sospetti a politici, ma la sua posizione viene subito chiarita. Il 27 settembre 2013, con un decreto del ministero delle Politiche agricole, è nominato consigliere dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare (Ismea), poltrona su cui è stato riconfermato l’estate scorsa. Ecco la morale della favola: per le sue “Sfide” D’Alema preferisce affidarsi a un rodato circuito di amici e compagni. Che, miracolosamente, ottengono incarichi ed appalti. Per poi brindare, magari, con un Nerosé della real casa.

"Non sono come Lupi". D'Alema passa nel torto pure quando ha ragione. Nel difendersi dalle insinuazioni cade nella solita superiorità morale della sinistra. E così la vigliaccata su di lui finisce in secondo piano, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. È stato sputtanato a sangue, anzi a vino, merda e libri, con un cocktail di intercettazioni micidiali fornito dalla ditta Woodcock. Nessuna indagine su di lui, ma citazioni perfette per annegarlo a testa in giù nel cabernet della sua cantina. Una vigliaccata, non si fa. A nessuno. E lo abbiamo scritto. Come reagisce, Massimo D'Alema? È inutile, è più forte di lui: crede di essere il primo e unico essere superiore vittima di questo trattamento di immersione nella fossa dei coccodrilli. Siccome però vede che c'è un altro tizio arrivato lì poco fa tra le fauci degli alligatori, precipitato anche lui con al collo le intercettazioni senza essere indagato, che fa D'Alema? Come un Conte Ugolino lo morde sulla nuca. In prima pagina, Il Mattino di Napoli titola: «Io, offeso e indignato non sono come Lupi». È un messaggio destinato al popolo comunista, ma se possibile diretto anche a Zeus che poteva tirargli fulmini, inviargli come a Prometeo un'aquila a squarciargli il petto e a divorargli il fegato: però solo a lui. Cos'è questa confusione? Cosa ci fa lì, anche Maurizio Lupi? No, questo per D'Alema è insopportabile. Persino quando ha ragione, Massimo D'Alema riesce ad aver torto, a manifestarsi per quella creatura umana sì, ma diversa, tipicamente figlia dell'educazione comunista, per cui lui, gettato a terra da mosse schifose dell'avversario, riesce a rivoltarsi e per prima cosa sputazza sui compagni di sventura. È superiore moralmente anche nelle intercettazioni. Guai ad accomunarlo alla genia degli esseri che non sono stati introdotti da piccoli alla visione estatica di Palmiro Togliatti. Nello specifico. Dove sta la differenza con Lupi? Abbiamo provato a scavare. In effetti. La storia dei vini firmati D'Alema acquistati dalla cooperativa Concordia, nel numero di duemila bottiglie, sono cose normali, normalissime. Ad esempio. A Predappio si produce il vino del Duce, un sangiovese ovviamente nero, e i nostalgici lo acquistano non per le recensioni del Veronelli e del Gambero Rosso, ma poiché credono di rinvenirvi sentori residui di olio di ricino e di palmizi imperiali per la gloria dell'idea fascista. Immaginiamo accada la stessa cosa con le etichette di casa D'Alema: sono un segno di appartenenza, le Coop rosse si specchiano in quei riflessi e così i loro clienti, se mai avessero un dubbio, capiscono chi è il loro santo in Paradiso, e nella vigna. Ovvio. In fondo, anche se con finali diversi, sono entrambi, Benito e Massimo, ex primi ministri. Siamo assolutamente certi che per decidere la commessa (i prezzi per i privati, comprensivi di Iva, partono dalle 9,50 euro del Cabernet Franc Sfide alle 17,50 del Nerosè) abbiano nominato una commissione di enologi che hanno assaggiato alla cieca trenta diverse bottiglie di rosso, scegliendo il migliore. O no? Così per i cinquecento libri prodotti coi grappoli ubertosi cresciuti nella testa del medesimo D'Alema, Non solo euro. Anche lì ordinati si suppone previa consultazione di una severa e imparziale giuria della Fondazione Gramsci. O no? Ciascuno ha le sue idee. Ma perché caro D'Alema ci tieni così tanto a stabilire le distanze da Lupi, implicitamente dandogli del disonesto? Sostieni di essere un «pensionato», mentre Lupi era un ministro, dunque è diverso, molto diverso. Le intercettazioni fanno presente tuttavia che in realtà D'Alema vi è rappresentato come un pensionato piuttosto vispo e in carriera. Siamo costretti alla citazione da D'Alema, se no come si fa il paragone? «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Insomma: comprano per imbonirsi uno molto bravo a interessarsi delle cose, e che presto diventerà super-ministro. E com'è nato l'acquisto della partita di vini dalemiani? Stralcio di verbale d'interrogatorio dell'acquirente: «Posso rappresentarvi che fu D'Alema in persona in occasione di un incontro casuale, a proporre l'acquisto dei suoi vini». Si noti poi il particolare fornito dal compratore per conto della Coop Concordia: i vini sono dell'«azienda della moglie di D'Alema». Secondo noi ha ragione D'Alema. Non è come Lupi. Lupi è meglio.

Giuliano Ferrara a Massimo D'Alema: scrivi un libro. Un consiglio, quasi un'esortazione quella che Giuliano Ferrara fa a Massimo D'Alema su Il Foglio, scrive “Libero Quotidiano”. Un consiglio elargito sotto forma di una lettera che comincia così: "Gentile D'Alema che lei si senta "indignato e offeso". Una cooperativa amica può comprare derrate di suoi libri ed ettolitri del suo vino senza che il venditore debba sentirsi infamato da un reato penale, magari per accostamento a pratiche corruttive del sindaco di Ischia (da provare) o addirittura al clan dei Casalesi specie se l'accostamento sia ricavato da intercettazioni in cui se ne dicono delle brutte". Ferrara spiega come anche lui sia "schifato" dall'uso che ne viene fatto dalle intercettazioni. E evidenzia come Il Foglio si sia sempre "indignato e offeso" "di fronte a questa manomissione del diritto e della verità storia e dell'autonomia della politica".  Fatta questa premessa, l'ex direttore dà un consiglio all'ex premier: scrivere un libro. Un libro-verità "che metta definitivamente le cose a posto". Sarebbe un caso editoriale. E poi la battuta finale: "Ne acquisteremmo tre, quattrocento copie, e poi faremmo un brindisi con il suo buon vino di Umbria". 

Arrestato il vino di D'Alema. Milioni, mazzette e bottiglie: manette nel Pd e nella super coop, scrive Salvatore Tramontano su Il Giornale”. Dopo Lupi, D'Alema. I malpensanti diranno che chi attraversa la strada di Renzi si ritrova con la faccia nel fango. È la teoria del gatto nero, che si specchia con quella governativa dei gufi. La realtà è meno scaramantica e forse anche un po' più preoccupante. Lupi e D'Alema non sono indagati, ma la condanna delle intercettazioni vale più di una sentenza. Sono le frasi a effetto che fanno la differenza, i simboli. A Maurizio Lupi sono stati fatali la mezza raccomandazione a favore del figlio e l'orologio superlusso, per D'Alema il vino comprato dalla Coop coinvolta nello scandalo e il dialogo «rubato» tra due esponenti della stessa cooperativa. Ecco cosa si sono detti: «Ci sono politici che mettono le mani nella merda e quelli che non lo fanno. D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi. Ci ha dato delle cose». Quello che un tempo era l'uomo forte del Pd urla tutta la sua rabbia contro questo gioco di ventilatori. Si chiede come sia possibile che queste intercettazioni del tutto irrilevanti ai fini dell'inchiesta finiscano su stampa e tv. Perché? Con quale obiettivo? Secondo quale legge ed etica? Benvenuto a giustiziopoli. D'Alema ha fatto conoscenza con il metodo Woodcock, il pm acchiappavip, che da Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele, da vallettopoli alla famiglia Mastella si è specializzato nel tanto rumore per nulla. Solo che le risposte alle sue domande sono tutte a sinistra. Le procure da almeno vent'anni i processi li fanno prima. Le intercettazioni da strumento utile per le indagini sono ormai una gogna politica. Ed è certo che le carte non escano da sole dagli uffici giudiziari per accomodarsi nelle pagine dei giornali. C'è qualcuno che le passa e spesso sceglie i tempi dell'uscita. L'indignazione di D'Alema è arrivata con decenni di ritardo. Non era lui quello della scossa sulla testa di Berlusconi? Ma peggio di D'Alema stanno le Coop rosse. Non c'è inchiesta che negli ultimi tempi non le veda protagoniste. È la caduta buzziana di Mafia capitale, è l'affare delle grandi opere, e questa volta a Ischia finisce nella polvere la Cpl Concordia, re del metano e una delle cooperative più antiche d'Italia. Sembra la fine di un sogno, di un'utopia. C'era una volta la coop sei tu, il sogno padano della terza via tra capitalismo e comunismo. La coop riconosciuta e protetta dalla Costituzione. C'è da chiedersi invece come la ragnatela delle Coop rosse sia diventata una fabbrica di appalti sospetti, in una zona grigia di politica e affari. Una cooperazione a delinquere.

D'Alema minaccia il giornalista: "Mi dica il nome, la denuncio". Il giornalista di Virus gli chiede del vino acquistato dalla coop finita nell'inchiesta per mazzette. D'Alema sbotta: "La querelo". Nicola Porro: "Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi", scrive Sergio Rame Mer, 01/04/2015, su “Il Giornale”. "Gli acquisti (del vino, ndr) sono avvenuti nel corso di due anni non in una convention del Pd, sono stati regolarmente fatturati e sono avvenuti in prossimità delle festività, evidentemente per fare regali come fanno molte imprese". Massimo D'Alema perde le staffe e sbotta. Non riesce proprio a sopportare la domanda di un giornalista di Virus che gli chiede delle bottiglie di vino acquistate dalla CPL Concordia, la cooperativa rossa finita nell'inchiesta per mazzette a Ischia. "Io la querelo - tuona l'ex premier davanti a tutti - non sarebbe il primo oggi". Poi minaccia: "Mi dia il suo nome, le arriverà una denuncia". All'Università di Bari, dove partecipa al convegno Sprofondo Sud sull’ultimo numero della rivista Italianieuropei, D'Alema si scontra duramente con Filippo Barone, giornalista della trasmissione Virus che domani sera torna su Rai 2 con Nicola Porro. Barone interroga l'ex premier proprio sull'opportunità di mischiare una convention del Pd alla vendita di vini. "Come risulta chiaramente dalle fatture - replica, secco, l'ex Ds - quegli acquisti sono avvenuti nel corso di due anni, in prossimità di festività, evidentemente per fare regali, come fanno molte imprese e sono stati fatturati ad un trattamento di favore, con pagamenti a quattro mesi e non in una convention del Pd". Come ricostruisce lo stesso D'Alema, si è trattato di "acquisti avvenuti nel corso di due anni, regolarmente fatturati e non certo nel corso di una convention del Pd, non c’entra nulla". Poi, rivolgendosi al giornalista di Virus che gli ha posto la domanda, aggiunge: "E siccome sto denunciando diversi giornali, denuncerò anche lei, lei dice cose sciocche". In una intervista al Corriere della Sera, poi, D'Alema invita il Csm e l’Associazione nazionale magistrati a "esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola". "Non ritengo legittimo - conclude - un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti". Ogni volta che l'abuso delle intercettazioni va a colpire un democrat, si apre un caso nazionale. Quando tocca a un esponente del centrodestra, allora tutto passa sotto silenzio. "Si risparmi le querele - scrive Nicola Porro su Facebook - si adoperi piuttosto per cambiare le leggi". Il caso D'Alema sarà tra i temi della puntata di Virus di domani. "Sono convinto, per quello che conta, che queste intercettazioni sono una schifezza - continua Porro - per di più il metodo Woodcock che ben conosco, si basa su intercettazioni a strascico". Il conduttore di Virus è d’accordo con D'Alema sul fatto che se non lo avessero tirato in ballo, tutta l’inchiesta avrebbe avuto minore rilevanza mediatica. "Detto questo - chiosa - mi chiedo per quale dannato motivo quando si è parlato delle intercettazioni e delle leggi che le volevano regolamentare il nostro Leader maximo non si è adoperato per farle passare anzi in un caso le ha esplicitamente affossate. E mi chiedo per quale motivo la sinistra fino a quando non è toccata direttamente fischietta facendo finta che non ci sia un problema con la giustizia spettacolo". Poi Porro incalza: "Ci spieghino, cosa dobbiamo fare allora? le intercettazioni del Cav, dei suoi amici, di oscuri consiglieri regionali, di faccendieri vari; favolette come la culona della Merkel o regali di Rolex possono finire in tv, diventare miti e quelle che riguardano Dalema no? Domani - conclude Porro - Virus ha intenzione di parlare anche di queste cose e delle inchieste di Woodcock il cui stile di intercettazione e di inchieste viene improvvisamente scoperto dalla sinistra. Ben arrivata e si risparmi le querele. Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi".

D’Alema: «Tutelare non indagati». Denuncerò chi dice il falso». In mattinata sfuriata contro un giornalista sulla questione dei vini alle coop. In serata replica dell’Anm: «Pensare ai reati». Gratteri: punire pubblicazione arbitraria, scrive “Il Corriere della Sera”. «Che noi abbiamo venduto dei vini alla cooperativa Cpl è vero, però non ho capito perché questo debba essere contenuto in un atto giudiziario dal momento che non è un reato». Massimo D’Alema non usa mezzi termini riguardo alla vicenda che lo vede coinvolto, intercettato nell’ambito di un’indagine per presunte tangenti a Ischia. «Non sono indagato per nessun reato - ha detto con fermezza da Bari, dove si trovava per un convegno della Fondazione che presiede Italiani Europei. Allora - ha continuato - perché si devono rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone, tra l’altro in questo caso si tratta di mia moglie, che non sono indagate, che non hanno compiuto alcun reato. E che vengono semplicemente gettate in pasto così all’opinione pubblica per poter essere diffamate. Occorre - ha concluso - una tutela delle persone che non sono indagate». Concetti che aveva già ribadito in un’intervista al Corriere,sostenendo che, così facendo, «la magistratura si delegittima da sola». E in serata arriva la reazione dell’Anm: «Fermare l’attenzione sui fatti gravi di corruzione che stanno emergendo, non sulle polemiche»: è l’invito alla stampa dell’Anm. .La riservatezza «va tutelata», ma «non si mettano in discussione le intercettazioni come strumento di indagine». A proposito del diritto di difesa e riservatezza delle comunicazioni, nel frattempo, una nuova fattispecie di reato di «pubblicazione arbitraria di intercettazioni» viene proposta dalla commissione Gratteri. Il nuovo reato si accompagnerebbe, tra l’altro, alla previsione dell’«inedito divieto» all’autorità giudiziaria a inserire il testo integrale delle intercettazioni. Quest’ultima disposizione - è scritto nella proposta - «mira a una tutela rafforzata del diritto di privacy, eliminando il fenomeno negativo della divulgazione, proprio tramite gli atti dell’autorità giudiziaria, del contenuto di informazioni che esulano l’accertamento processuale. Si vuole così porre uno deciso e serio sbarramento alla possibilità che la lesione alla sfera riservata degli intercettati possa trovare la sua origine nell’ attività di impiego procedimentale o processuale dei risultati delle intercettazioni». Intanto, a margine del convegno, è scoppiata una lite tra D’Alema e un giornalista del programma tv Virus. «Lei ha detto -si è infuriato l’ex premier - che ho venduto il vino durante una convention del Pd, come si chiama lei, scusi? Devo trasmettere al mio avvocato questa informazione. La prego di mandare questa registrazione, avrà una denuncia». Un’intemerata che si è svolta sotto gli occhi delle telecamere: «Quegli acquisti sono avvenuti nel corso di due anni non in una convention del Pd. Lei dice delle cose sciocche perché quegli acquisti, come risulta chiaramente dalle fatture sono avvenuti nel corso di due anni, sono stati regolarmente fatturati, sono avvenuti in prossimità delle festività evidentemente per fare molti regali come fanno molte imprese e sono stati fatturati con trattamento di favore, diciamo, perché con fatture a 4 mesi», ha spiegato, ribadendo: le bottiglie «non sono state vendute nel corso di una convention del Pd, quindi la pregherei, siccome sto denunciando, oggi, diversi giornali, denuncio anche lei, con l’occasione». «Ben arrivata» alla sinistra sulla questione intercettazioni e «si risparmi le querele. Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi», scriveva qualche ora dopo sulla sua pagina Facebook Nicola Porro, conduttore di Virus, criticando l’uscita dell’esponente Pd. «Mi dispiace di essermi arrabbiato con un collega - si è giustificato poco dopo D’Alema - ma metterei in guardia i giornalisti dal dichiarare o scrivere simili e palesi sciocchezze». E che all’ex premier la faccenda non sia andata giù lo rivela la nota dei suoi legali, che dicono di aver «ricevuto mandato di tutelare la sua onorabilità in sede sia civile che penale da ricostruzioni evidentemente errate e strumentali che compaiono oggi su alcuni organi di stampa». Sono sempre gli avvocati a ricostruire: «L’on. D’Alema - sottolineano - non ha personalmente ricevuto alcunché dalla cooperativa CPL Concordia, né direttamente né indirettamente. La CPL Concordia ha acquistato copie del libro `Non solo euro´ in occasione di una manifestazione politica in vista delle consultazioni elettorali europee del 2014 e, nell’arco di un biennio, circa 2.000 bottiglie di vino dell’azienda agricola della famiglia del Presidente D’Alema, regolarmente fatturate e pagate con bonifici a quattro mesi di distanza dalla fornitura. Infine la CPL Concordia ha effettuato, in tre diverse annualità, finanziamenti del tutto leciti alla Fondazione Italiani Europei, che notoriamente non è una fondazione personale dell’on. D’Alema ma un istituto che egli presiede e dirige, politicamente e culturalmente, a titolo del tutto volontario, senza beneficiare né direttamente né indirettamente dei contributi che la stessa riceve per la sua attività». Il caso D’Alema riporta così alla ribalta il tema delle intercettazioni, che spesso coinvolgono anche non indagati all’interno di inchieste delicate (vedi recentemente il caso Lupi, costretto a dimettersi da ministro).«Un intervento del legislatore sarebbe opportuno, non limitando l’intervento della magistratura e non mettendo il bavaglio alla stampa, ma tutelando l’onorabilità e la riservatezza delle persone non indagate», dice il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, a margine di un convegno su «Economia e legalità» a Roma. «Il presidente D’Alema pone un tema serio, quello della riservatezza e dell’onorabilità delle persone non indagate - ha commentato Legnini - Il Csm però non è munito di poteri d’intervento d’ufficio, può intervenire se investito dal pg o dal ministro». Il tema della fuga di notizie, quindi, «meriterebbe un intervento legislativo appropriato».

Massimo D'Alema: "Una legge per tutelare chi non è indagato", scrive “Libero Quotidiano”. "Non sono indagato per nessun reato, perché rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone come mia moglie?". Massimo D’Alema non ci sta a vedere il suo nome negli atti dell'inchiesta sulle tangenti a Ischia e, dal foyer del teatro Petruzzelli di Bari, invoca una legge che avrebbe evitato anche le dimissioni dell'ex ministro Lupi che si è fatto da parte dopo essere stato coinvolto, pur non essendo indagato, nello scandalo "Grandi Opere". Una legge ad hoc - "Serve un intervento legislativo per tutelare l'onorabilità delle persone non indagate, per proteggerle da campagne diffamatorie come questa che mi vede protagonista, me e la mia famiglia", ha tuonato l'ex presidente del Copasir ribadendo la sua difesa: "E' falso che ho ricevuto bonifici per 87mila euro, per questo a partire da oggi abbiamo cominciato a muovere la carta bollata e a intraprendere azioni legali contro quanti hanno avviato questa campagna scandalistica priva di qualsiasi fondamento". Diffamazione - "Ho già avuto modo di esprimere tutta la mia indignazione - ha proseguito D'Alema - per la divulgazione di notizie che riguardano persone a me vicine che non sono indagate, messe in collegamento con un'indagine con cui non hanno nessuna attinenza. Questo episodio conferma quanto affermato oggi dal vicepresidente del Csm, ossia che occorrono delle norme per tutelare i non indagati. Perché rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone come mia moglie?". Quanto alla Fondazione di cui è presidente, ha precisato: "Definirmi beneficiario dei contributi raccolti dalla Fondazione ItalianiEuropei di cui risulto essere presidente protempore a titolo gratuito è un'affermazione falsa che ha solo carattere diffamatorio". 

Massimo D'Alema, parla la moglie Linda Giuva: "Il vigneto? Lo abbiamo acquistato per i nostri figli", scrive “Libero Quotidiano”. Travolto dal suo vino, Massimo D'Alema perde le staffe. Un uomo nel mirino, Baffino. E ora, in suo "soccorso", scende in campo niente meno che la moglie, la riservatissima Linda Giuva, che da sette anni gestisce il vigneto di famiglia, intestato ai figli Giulia e Francesco. Rompe il silenzio, la signora, e lo fa in un'intervista concessa a Repubblica dove parla dei 15 ettari di terreno dei quali 6,5 sono impegnati dal vigneto. "Vorrei fare il mio lavoro - si sfoga -, la produttrice di vino, onesta e laboriosa, senza dover essere inseguita da insulti e basse insinuazioni". Ma non è tutta pubblicità? Sì, lo è, la signora D'Alema conferma: "Abbiamo avuto in queste ore un'impennata di ordini inimmaginabile". La signora racconta che il vigneto, quando fu acquistato, era un allevamento di bovini. Poi spiega perché lo comprarono: per la prole, "con lo sguardo rivolto al futuro dei figli". I vini dei D'Alema, insomma, come una "garanzia" per il futuro dei loro pargoli. Parla il macellaio - Nell'articolo, in cui la signora Linda Giuva si sbottona ben poco, Repubblica si spende poi nell'elogio di D'Alema, citando voci che da Narni, in provincia di Terni, assicurano come "Massimo qui ha portato un po' di benessere". Nell'articolo si dà la parola anche a Fabrizio Nunzi, il macellaio del Paese, che presenta le bottiglie e spiega che un tempo votava per Silvio Berlusconi, ma ora con D'Alema si dà del tu. "Lui mi chiama e io gli preparo il filetto, la coppa di testa o il capocollo, di cui è ghiottissimo". E' forse arrogante, Baffino? Il Macellaio ovviamente rassicura tutti: "Lo pensavo anche io prima di conoscerlo, invece è un uomo senza spocchia. Doveva vederlo ad agosto alla sagra, il Vinotricolando, sembrava uno di noi: era lì con il suo banchetto, fermava le persone". L'inchiesta? "Non ci credo - taglia corto il macellaio -. Il suo vino davvero è buono, lo vogliono in tanti, e dopo questo polverone ancora di più".

Caro Massimo, benvenuto tra i perseguitati, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Negli Stati Uniti il magistrato si tiene le intercettazioni ben strette nel proprio cassetto”. Così il giornalista Federico Rampini nella trasmissione Piazza pulita, ricorda, dal Paese in cui vive e lavora, l’anomalia italiana paragonata a un sistema, come quello americano, dove in uno spazio dieci volte più grande, il numero complessivo delle intercettazioni è pari alla metà di quelle italiano. E del resto, non occorre andare lontano per avere l’esempio di un magistrato che di recente è stato capace di “tenere ben strette nel proprio cassetto” le intercettazioni che lui stesso aveva disposto. Parliamo del Procuratore aggiungo di Venezia Carlo Nordio, che è riuscito a condurre un’inchiesta colossale come quella sul Mose senza che neppure una riga fosse sfuggita dalle maglie del segreto investigativo, intercettazioni comprese. Il che significa che è possibile evitare lo “sputtanamento”, soprattutto di persone non indagate, purché il magistrato, che è il custode naturale della riservatezza delle indagini, lo voglia. E quindi, a contrario, ogni volta che la notizia scappa, significa che il magistrato, prima di tutto ( e con lui le forze dell’ordine che dipendono dal Pm ) lo ha voluto. Intercettazioni depositate in edicola, si dice, con ammiccamento complice, tra giornalisti. E’ capitato, buon ultimo, a un esponente del Pd, Massimo D’Alema, non uno qualunque, ma che ha il torto di non essere sull’inginocchiatoio davanti a San Matteo. Sadicamente, e con un po’ di malizia, avremmo preferito che la vittima dell’ennesimo circo mediatico-giudiziario fosse un amico del premier Renzi, secondo il detto del “chi la fa l’aspetti”. Perché questo problema delle intercettazioni in edicola in genere viene preso a cuore solo da chi lo subisce e dai propri amici. Inoltre gli argomenti usati per lo “sputtanamento”, soprattutto del personaggio politico, sono sempre quelli più adatti a suscitare invidia sociale, dal posto di lavoro per il figlio o l’orologio di valore simbolico come il Rolex ( se così non fosse non esisterebbero i falsi ), come nel caso di Maurizio Lupi, o le bottiglie di vino pregiato come nel caso di Massimo D’Alema. Lo “sputtanamento” è costruito ad hoc per istigare i cittadini all’odio e all’invidia. Il personaggio individuato serve da cappello su inchieste che spesso non conquisterebbero le prime pagine (con conseguente tam tam televisivo e sui social ) senza “il nome” del politico da rosolare. E qui si apre un problema di politica giudiziaria molto serio. Da un po’ di tempo i magistrati delle indagini preliminari hanno introdotto il costume di allegare all’ordinanza di custodia cautelare il testo delle intercettazioni. Il documento complessivo è “a disposizione delle parti”, il che non vuol dire che siano atti pubblici. Ma ormai è come se lo fossero, perché magistrati e forze dell’ordine li distribuiscono a piene mani ai giornalisti dietro l’alibi che i responsabili di queste propalazioni potrebbero anche essere gli avvocati. Ma quale difensore avrebbe interesse a rendere pubbliche intere pagine che danneggiano il loro assistito? La risposta è ovvia. Inoltre, in mezzo alle intercettazioni, ne viene allegata abilmente qualcuna che riguarda un uomo politico famoso, che non è indagato, che spesso non è neppure intercettato (come nel caso di D’Alema ), ma di cui parlano altri. Che cosa si imputa, con titoloni e strilli, al non-indagato che diviene immediatamente un imputato al Tribunale del popolo? Il “comportamento”. Il re dei cattivi comportamenti resta sempre Silvio Berlusconi, e giù moralismi a palate. Ma insomma, anche Lupi e D’Alema: era opportuno che…..e giù moraleggiando. A nessuno ( o quasi ) viene in mente di considerare che il magistrato dovrebbe limitarsi, se proprio deve, ad allegare all’ordinanza solo le intercettazioni relative alla commissione di reati, e non ai comportamenti, soprattutto se di persone estranee. E comunque che dovrebbe tenerle ben strette nel proprio cassetto, come Nordio e tutti i magistrati Usa insegnano. Purtroppo queste questioni non riguardano più solo il mondo della politica, come insegna tutto quanto il processo a Massimo Bossetti, che è già diventato il processo della pubblica moralità, di cui sono diventate vittime, oltre all’imputato, tutte le donne della sua famiglia, nella cui vita affettiva e sessuale si fruga con rara morbosità, in modo che tutti noi “spettatori” possiamo sentirci più virtuosi. Il problema delle intercettazioni (una volta erano i verbali d’interrogatorio ) in edicola non ha soluzione, purtroppo. Perché ogni volta che il Parlamento o un Governo cercano di metterci mano, partono sempre con il cercare di erogare sanzioni all’utilizzatore finale, il giornalista, arrivando persino a tentare di punirlo con il carcere. Si sa già come va poi a finire, con i sindacati, gli articoli ventuno, le senonoraquando, tutti a protestare con il bavaglio sulla bocca e la cosa finisce in niente. Del resto una parte ( ma solo una parte ) di ragione i giornalisti l’hanno, perché il cane cui viene dato l’osso, come fa a non rosicchiarlo? L’unica punizione che veramente meriterebbero certi giornalisti è di essere intercettati, non solo al telefono, anche in camera da letto o sulla Comasina, che è una strada abitualmente popolata da prostitute. Per il resto, l’unico che dovrebbe essere sanzionato ( ma da chi? Dai suoi colleghi?) è il naturale custode della notizia, colui che l’ha prodotta e che dovrebbe tenerla “ben stretta nel proprio cassetto”.  Ecco perché il problema non ha soluzione, ecco perché è inutile lamentarsi, caro compagno D’Alema. Benvenuto tra noi.

Arrangiatevi, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Riassunto. Nel 2005 ci fu una convergenza tra Berlusconi e i Ds per una legge sulle intercettazioni, ma nel 2006 i Ds bocciarono la proposta (Castelli) perché c'era la campagna elettorale. Dopo la diffusione delle intercettazioni su Antonveneta, poi, i Ds ricambiarono idea e nel 2007 ci fu la legge proposta da Clemente Mastella: fu votata da Ds, Margherita, Verdi e Rifondazione comunista, ma poi - tra polemiche arroventate - si arenò al Senato. Nel 2008, durante la campagna elettorale, Walter Veltroni promise di riesumare la proposta, ma poi ricambiò idea e, in giugno, si accodò alla posizione di Di Pietro e dell'Associazione nazionale magistrati, anche se nel programma Pd restava scritto che pubblicare intercettazioni durante le indagini andava espressamente proibito. Nel 2010 il governo Berlusconi cercò di blindare finalmente una legge, ma fioccarono manifestazioni (anche un'assemblea di direttori di giornale) e il provvedimento si sfarinò, con Massimo D'Alema che definì la norma "ostruzionistica per le indagini". Nel 2013 i "saggi" nominati da Napolitano dissero che l'uso delle intercettazioni andava ridotto, ma il Pd, in Commissione giustizia, rispose che "il tema non è una priorità". Ora D'Alema non è indagato come non lo era Maurizio Lupi, tuttavia "io non do gli appalti" specifica il Migliore. Il quale è stato sputtanato dalle intercettazioni come Maurizio Lupi, tuttavia "D'Alema non è ministro" specifica l'altro Migliore, il piddino Gennaro. Insomma, D'Alema: vedi titolo.

SPUTTANATI E SPUTTANANDI.

Pd, scandali e risse: la deriva che Matteo Renzi non riesce a fermare. Travolto dalle inchieste. Infiltrato da affaristi e mafiosi. Con gli iscritti in fuga. Il partito democratico è in crisi. E il segretario e premier non sembra poterla controllare, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito buttato», travolto da indagini giudiziarie e da minacce di scissione. È il Pd che si avvia alle elezioni regionali di fine maggio raccontato nell'inchiesta dell'“Espresso” di questa settimana. Un viaggio da Nord a Sud in quello che l'ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano definisce «un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». Con il più importante dei suoi leader storici, Massimo D'Alema, in guerra con la magistratura e con la stampa dopo intercettazioni e notizie senza rilevanza penale che accostano la sua fondazione ai dirigenti della cooperativa Cpl Concordia arrestati da pm napoletani. A Roma e a Ostia il Pd è chiamato a liberarsi dai condizionamenti della mafia. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta quattro mesi fa. In Campania c’è il caso di Vincenzo De Luca e l'arresto a Eboli di funzionari accusati di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi che in realtà è di Forza Italia. Nelle Marche, al contrario, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca guiderà una lista civica di centrodestra con gli uomini di Berlusconi. In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Decisionista da capo del governo, da segretario del Pd Renzi si rivela immobilista. Nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro di lui c’è il deserto. «vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente», dice Antonio Bassolino. E sulla scissione, avverte il grande vecchio Alfredo Reichlin, «vedo in Renzi una preoccupazione. Lui sa che non si fa un partito del 40 per cento che vuole rappresentare il Paese nel profondo senza un rapporto con l’elettorato di sinistra e le sue rappresentanze». Ma anche per questo il Pd renziano rischia di apparire un'occasione perduta. Un partito buttato.

Ma che razza di partito è diventato il Pd? Scosso dagli scandali, da nord a sud. Succube dei vecchi apparati. In calo drammatico di iscritti. Diviso fino al rischio di scissione. Si avvicinano le elezioni regionali e il Pd è del tutto fuori controllo. E Renzi sembra incapace di agire, continua Marco Damilano. Vecchia pietra/per costruzioni nuove/vecchio legname/per nuovi fuochi...». Il senatore del Pd Mario Tronti quasi sussurra i versi di Thomas Stearns Eliot per festeggiare i cento anni di Pietro Ingrao, l’ultimo comunista, il sopravvissuto del secolo delle ideologie. Nell’auletta dei gruppi parlamentari applaudono le prime file, il capo dello Stato in carica (Sergio Mattarella) e il presidente emerito (Giorgio Napolitano), Pier Luigi Bersani e Achille Occhetto, Anna Finocchiaro e Luciano Violante, Emanuele Macaluso e Aldo Tortorella, antichi più che anziani. Vecchie pietre, vecchio legname. Le nuove costruzioni, il Pd di Matteo Renzi, non si vedono in sala. Non c’è un ministro a testimoniare la presenza del nuovo corso, neppure un vice-segretario. «Il governo? E chi è?». Massimo D’Alema, seduto a due posti di distanza dall’ex rivale Occhetto, sfodera l’acidità dei momenti peggiori. Il giorno prima il suo nome è rimbalzato nell’inchiesta giudiziaria che ha portato   ll’arresto del sindaco Pd di Ischia Giosi Ferrandino , candidato alle europee. Notizie non rilevanti ai fini penali sull’acquisto di bottiglie di vino di produzione dalemiana e di cinquecento copie del suo libro, più finanziamenti di 60mila euro (registrati) della cooperativa Cpl Concordia alla fondazione Italianieuropei, corredate da intercettazioni («D’Alema è uno che mette le mani nella m...»), ma che bastano a far infuriare l’ex premier. Galeotto fu il libro: “Non solo euro”, il testo in questione, fu presentato a Roma da Renzi il 18 marzo 2014, quel giorno Matteo assicurò che per la futura Commissione europea il governo avrebbe scelto «le persone più forti che abbiamo». D’Alema si era riconosciuto nell’identikit, invece Renzi designò Federica Mogherini. È anche da quella promessa che parte la guerra che oggi dilania il Pd. Il fantasma di una mini-scissione che agita il partito del 41 per cento alle elezioni europee, con la minoranza interna che minaccia di non votare la legge elettorale Italicum quando a fine mese approderà alla Camera. Un atto che segnerebbe una rottura irreparabile. «Operazione 27 aprile», la chiama Pippo Civati. Ma la vera guerra contro il passato che preoccupa Renzi non è quella contro i leader della minoranza (Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Rosy Bindi, Pippo Civati), divisi tra loro. È la difficoltà a far cambiare verso al Pd, dopo quasi un anno e mezzo di segreteria. Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», ha scritto l’ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano, in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». A Roma il centrosinistra governa dal 1993, salvo la parentesi di Gianni Alemanno dal 2008 al 2013, l’inchiesta Mafia Capitale sta sfiorando le amministrazioni del Pd e i suoi uomini-chiave. L’ultimo indagato, il cinquantenne Maurizio Venafro, era il capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla presidenza della regione Lazio. Nato e cresciuto nella Fgci di Goffredo Bettini e nelle sezioni di borgata del Pci, nessuno ha mai messo in discussione la sua correttezza ma è il modello Roma fatto persona, per più di venti anni nelle stanze del potere romano: capo staff di Francesco Rutelli in Campidoglio, affiancandolo nella candidatura a premier nel 2001, capo del dipartimento comunicazione con Enrico Gasbarra alla Provincia di Roma, capo delle relazioni esterne della giunta Marrazzo e infine braccio destro di Zingaretti. Negli stessi giorni è stato sciolto il municipio di Ostia, governato dal Pd, per collusioni con la mafia. Roma è l’unica situazione locale in cui Renzi si è mosso con rapidità, nominando commissario il presidente del partito Matteo Orfini. Che non è un estraneo alle beghe correntizie, è stato in cordata per anni con il deputato Umberto Marroni (uno dei commensali, tra l’altro, nella cena in cui il futuro ministro Giuliano Poletti sedeva a tavola con Gianni Alemanno e con il socio del boss Massimo Carminati Salvatore Buzzi). Nel partito li chiamavano i Dalemerrimi o i Dalebani, per sottolineare la fedeltà al loro capo di allora, D’Alema. In minoranza a Roma, dove dominavano Bettini, Zingaretti, i veltroniani. Oggi Orfini sta con Renzi, ha impugnato la bandiera del rinnovamento: azzeramento delle commissioni in Campidoglio, inchiesta sui circoli, invito ai consiglieri comunali ad andare in Procura a denunciare le situazioni sospette. In altre situazioni, invece, il Pd nazionale stenta a intervenire. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta il 23 novembre, quattro mesi fa. E non si può neppure dare la colpa all’inesperienza, dato che il nuovo presidente è entrato per la prima volta nel consiglio regionale calabrese nel 1985, quando Renzi aveva dieci anni. In Campania c’è il volo del calabrone Vincenzo De Luca su cui pesa una condanna in primo grado per abuso di ufficio e che per la legge Severino potrebbe essere costretto a sospendersi dalla sua funzione in caso di elezione. Ma ha vinto le primarie e si presenta come l’uomo di Renzi in regione. Intanto a Eboli un funzionario del Comune e un imprenditore sono stati arrestati con l’accusa di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è lo scambio delle identità. Nella pirandelliana Agrigento il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi in realtà è di Forza Italia, sponsorizzato dal presidente del Pd isolano Marco Zambuto (ex cuffariano, ex alfaniano, oggi faraoniano, nel senso di Davide Faraone, il sottosegretario all’Istruzione capo dei renziani in Sicilia) che è andato in visita ad Arcore da Silvio Berlusconi. Nelle Marche, dopo dieci anni di governo, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca si è buttato dalla parte opposta e guiderà una lista civica di centrodestra aperta a Forza Italia. In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Il leader egemone a Roma, che strapazza e umilia gli avversari, nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro il leader c’è il deserto. I renziani, per ora, non esprimono una classe dirigente, un’organizzazione, una cultura politica. Faticano a darsi un nome. Una settimana fa i renziani della Lombardia si sono riuniti per la prima volta tutti insieme con il segretario regionale Alessandro Alfieri e con il numero due del Pd nazionale Lorenzo Guerini. E hanno deciso di chiamarsi “maggioranza del Pd”, così, senza altri aggettivi. Qualunque altra definizione, tipo quella dei catto-renziani vagheggiata dagli amici di Graziano Delrio, avrebbe fatto infuriare il premier. Di riforma del Pd si stanno occupando due ex avversari del leader, Orfini e il bolognese Andrea De Maria, incaricato di preparare un evento a Cortona. Sul tesseramento è stato chiamato a lavorare il deputato di Arezzo Marco Donati, renziano della prima ora. Compito delicato. Nel 2014 a Bologna, la città rossa per eccellenza, nell’anno del boom elettorale renziano, si sono persi per strada un quarto degli iscritti. I circoli chiudono: erano tre a Sasso Marconi, ne è rimasto uno e il nuovo segretario cittadino è stato votato da cinquanta irriducibili (su 400 iscritti). Altrove è il contrario, c’è il tesseramento gonfiato di anime morte. L’ex deputato di Sel Gennaro Migliore, ora renziano, spedito da Orfini a monitorare il municipio romano di Tor Bella Monaca, non si separa mai da una cartellina rossa che contiene i primi risultati dell’indagine: almeno un quarto delle tessere è di provenienza incerta, sospetta. «Ho votato per Renzi alle primarie e lui è un politico di razza», osserva un padre nobile del Pd come Antonio Bassolino, «ma vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente, una questione che continua a restare irrisolta e che è sempre più urgente. È una difficoltà quasi tecnica: con l’attività di governo che assorbe ogni energia dove può trovare Renzi il tempo di affrontare le tante questioni locali?». Le elezioni regionali sono ormai vicine. Un nuovo test per il Pd renziano dopo le trionfali europee del 2014 e le regioni conquistate negli ultimi mesi (l’Emilia confermata nonostante inchieste e astensioni e Sardegna, Piemonte, Abruzzo e Calabria strappate al centro-destra). Se sulla legge elettorale dovesse arrivare lo strappo della minoranza le conseguenze sul voto sarebbero imprevedibili. Ma ancora più imprevedibile è che il premier decisionista sul rinnovamento del partito si riveli immobile. Abbandonando il Pd al vecchio legname. Senza costruzioni nuove.

La Ditta del Pd si rottama da sola. Ischia, Roma, le cooperative. Nuovi scandali che coinvolgono soprattutto uomini ex Pci. Ma con un partito così Renzi non può rinnovare il Paese, scrive Luigi Vicinanza su “L’Espresso”. C'è dell'umorismo involontario nel titolo dell’ultimo libro di Massimo D’Alema, “Non solo euro”, cinquecento copie del quale sono state acquistate dalla cooperativa rossa Cpl Concordia, quella che trafficava con il sindaco d’Ischia. E già, non solo euro. Ma anche vino. Duemila bottiglie di rosso. Dalemiano, rigorosamente. Acquistate sempre dalla stessa coop. Saperi & sapori: la via rivoluzionaria per la conservazione del potere. Nulla di illegale, è stato ripetuto. Ed è bene ribadirlo. Come nel caso del Rolex regalato al figlio dell’ex ministro Maurizio Lupi. Così si usa a Roma e dintorni. D’altra parte è tutto ancora da verificare il fondamento dell’inchiesta condotta da un pm napoletano famoso non certo per i risultati processuali. Intanto però le carte giudiziarie, prima di un reato, ci parlano di una diffusa spregiudicatezza nei comportamenti. Non è roba da codice penale, ma da codici di stile. Ecco dunque sempre dalla Cpl Concordia un versamento di 60mila euro alla fondazione che fa capo a D’Alema, Italianieuropei. Con tre distinti bonifici negli anni. Dunque verosimilmente fatturati. Ma rimasti finora riservati. Difficile credere a una donazione disinteressata. L’associazione dalemiana, interpellata da “l’Espresso” tre mesi fa in occasione di una preveggente copertina, “Le casseforti dei politici”, disse di preferire la segretezza dei conti alla trasparenza sui nomi dei donatori. Perché quel tipo di finanziamento non ha regole. Ognuno fa come gli pare. Leader nazionali e capetti di periferia si sono intestati la loro fondazione. Di destra come di sinistra. Promuovono convegni, riviste e vino quando serve. Senza vergogna. Una onorevole tradizione politica, tramandata dal Pci di Berlinguer, si spappola definitivamente in affarucci di bottega o in tangenti d’oro. Con le cooperative rosse sempre più spesso al centro di inconfessabili patti scellerati. Peggio del peggior capitalismo. Corruttori delle regole di mercato in nome di una solidarietà sociale perduta e umiliata. Appare dunque come una beffa della storia l’accusa rivolta a Matteo Renzi dalle agitate minoranze interne del Pd: non sei di sinistra. Riducendo l’essere di sinistra a un’etichetta, a una rendita di posizione, senza valori e contenuti. La “ditta” di bersaniana memoria si è disintegrata per colpa dei suoi troppi difetti, prima ancora che per la rottamazione renziana. Da Ischia a Venezia, lungo tutto lo stivale, è un festival di pasticci. Tale da mettere a rischio la stessa sopravvivenza del Partito democratico, con tutta l’arroganza della “vecchia guardia”. È il tema della nostra inchiesta di copertina di questa settimana. Al premier-segretario questo partito sta stretto più di quanto dica Massimo D’Alema che ancora pochi giorni fa evocava manovre di scissione. Fuori da Palazzo Chigi e dalla stanze del Nazareno è evidente l’assenza di controllo. Il rinnovamento non si intravede oltre il perimetro degli studi tv. Non è necessario spingersi nel profondo Sud, basta restare a Roma. Il rapporto stilato da Fabrizio Barca, dirigente rigoroso, studioso di valore, racconta di un’organizzazione inquinata, dannosa (vedi “l’Espresso” n. 13): un iscritto su cinque è fasullo; la compromissione con i clan di Mafia Capitale inquietante. Il contenitore è corrotto. C’è ancora del contenuto da salvare? Con buona pace di quegli onesti e generosi militanti resistenti a ogni choc. Per lo stesso Matteo Renzi è difficile liberarsi di notabili e capifazione quando questi controllano ingenti pacchetti di voti. Giosi Ferrandino, il sindaco di Ischia arrestato, alle europee del maggio scorso ha rastrellato in tutto il Sud oltre 80mila preferenze. Sì, quelle stesse preferenze che, secondo convenienza, vengono sbandierate come strumento di democrazia e partecipazione per la selezione dei gruppi dirigenti. E i risultati si vedono. Negativi. La narrazione renziana è lontana dalla realtà. Non basta rottamare. Quel che resta del Pd va rifondato. È in gioco la stessa credibilità del segretario e del suo progetto politico. Se non rinnova in casa, come può rinnovare l’Italia?

Finché incassate soldi di nascosto, scrive Alessandro Gilioli su L'Espresso". «Restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica nel nostro paese». E poi: «Avere dati dettagliati sui finanziamenti che i partiti hanno ottenuto dai privati sarebbe stato interessante. Sfortunatamente, questi dati sono risultati non recuperabili». E ancora: «Il nostro lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi (…). L’esigenza della trasparenza e della massima fruibilità dei dati rappresenta ancora un obiettivo da raggiungere». Queste parole testuali appaiono nel report ufficiale sui costi della politica rilasciato dall'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, finalmente reso pubblico: e ora si capisce anche meglio perché Cottarelli non è più lì. Non sarà un eroe dei due mondi, ma ha detto l'indicibile: e cioè che i partiti prendono soldi in mille modi che noi non sappiamo, che quando uno (nominato dal governo!) cerca di scoprirlo gli mettono i bastoni tra le ruote e che infine la trasparenza sui finanziamenti veri alla politica, in questo Paese, è lontanissima. È curioso come la cannonata ad alzo zero di Cottarelli sia apparsa on line proprio mentre D'Alema abbaiava e querelava in giro perché sui giornali era uscita l'intercettazione che riguardava lui e la sua fondazione. Nell'intercettazione, lo ricordo, il regista degli affari sporchi della cooperativa Cpl Francesco Simone dice: «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo... D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Lo stesso Simone parla poi con un’impiegata della Fondazione «dell’acquisto da parte di “Cpl” di alcune centinaia di copie dell’ultimo libro del politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un’azienda agricola riconducibile allo stesso D’Alema». Nella perquisizione alla Cpl sono stati infine trovati «tre dispositivi di bonifici effettuati da “Cpl” in favore della Fondazione Italianieuropei ciascuno per l’importo di 20 mila euro nonché un ulteriore dispositivo di bonifico per l’importo di 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo “Non solo euro”». Come noto, D'Alema si è incazzato come un puma perché sono usciti quei verbali: «È incredibile diffondere intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’indagine, la giustizia non può avere come fine quello di sputtanare le persone, ma deve avere come fine la ricerca dei responsabili dei reati». Poi ha pure perso un po' la calma. Le fondazioni dei politici in Italia sono prevalentemente macchine per finanziare i politici stessi e soprattutto non rivelano a nessuno i nomi dei loro finanziatori: «Ottengono i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto e sono fuori da ogni possibilità di controllo», come ha detto il presidente dell'Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone. In particolare, quando nel dicembre scorso "l'Espresso" ha chiesto a ItalianiEuropei chi la finanziava, ha ottenuto un secco diniego con la seguente spiegazione: «Preferiamo la privacy alla trasparenza. I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite». Quindi quei verbali che tanto hanno fatto infuriare D'Alema sono stati sostanzialmente un (pur minuscolo) squarcio di verità sui finanziatori segreti della sua Fondazione. E allora, il problema in questo Paese è un verbale processuale depositato che restituisce ai cittadini una piccolissima porzione di un loro diritto sacrosanto - sapere chi finanzia privatamente la politica - o è il fatto che la politica si faccia finanziare in modo torbido e segreto? Ecco: con permesso, finché i partiti e i politici incassano i soldi di nascosto dai cittadini, tramite le loro fondazioni, credo che qualsiasi loro lamentela sulla pubblicazione dei verbali "sputtananti" abbia davvero scarsa credibilità, scarsa autorevolezza, ma soprattutto scarsissima ragion d'essere.

"D'Alema attacca i cronisti ma ce l'ha con Woodcock". Il suo braccio destro a Palazzo Chigi: "Coi giornali ha un rapporto morboso. Per lui bisogna 'lasciarli in edicola'. Anche sua madre non li sopporta. Ma da premier rimise tutte le querele", scrive Andrea Cuomo su "Il Giornale". «Massimo è un antico professore di liceo. Uno di quelli che quando ti interroga va a fondo, non si accontenta di risposte abborracciate. Per questo non sopporta la superficialità del giornalismo attuale». Fabrizio Rondolino ride quando gli chiediamo del D'Alema che minaccia di querele i giornalisti, lui che ne è stato responsabile della comunicazione, lui che ne è stato amico (spesso) e nemico (talvolta), lui che l'altro ieri si è preso anche la briga di ordinargli, per solidarietà, due casse di vino Madeleine («una di NarnOt e una di Sfide»).

Rondolino, va bene che noi giornalisti siamo spesso degli adorabili cialtroni. Ma lui non se la prende troppo?

«Ma lui sbaglia, perché se il sistema informativo è questo, la battuta di agenzia che dà il titolo, bisogna essere furbi e cavalcarlo. O ignorarlo, come fa Renzi, che non considera i giornali, per lui sono già morti, lo bastonano e fa finta di nulla, lui punta su tv e social network».

Proprio un bel quadretto...

«Lo aveva detto lo stesso D'Alema a Prima Comunicazion e negli anni Novanta: i giornali bisogna lasciarli in edicola».

Ecco, la profezia si avvera.

«Sì, ma per altri motivi».

Torniamo a D'Alema. Si ricorda qualche episodio?

«Sì, ma non d'ira, semmai di sarcasmo. Ricordo una giornalista che gli si avvicinò col microfono sguainato: Segretario, posso farle una domanda? E lui, gelido: L'ha già fatta. E si allontanò lasciando la collega con un palmo di naso».

Si racconta anche di una fatwah nei confronti di Augusto Minzolini quando era notista politico della Stampa.

«Io già non lavoravo più con D'Alema. Peraltro a me il Minzo sta simpatico. Ma quella volta avrà scritto qualcosa di antipatico o di terribilmente vero».

Un rapporto insanabile tra Baffino e l'informazione.

«Sì, ma nato da un amore tradito. D'Alema, da vecchio comunista, ha sempre avuto un rapporto morboso con la carta stampata. Antonio Gramsci fondò prima i giornali e poi il Pci. E non era Marx che diceva che il giornale è la preghiera mattutina dell'uomo moderno? No, mi sa che era Hegel».

Sì, Hegel.

«Che poi anche la mamma di D'Alema ce l'aveva con i giornalisti. La incontrai solo una volta e mi trattò come una persona poco affidabile».

Magari aveva ragione la signora. Ma scatti di ira mai?

«Non ricordo urla o porte sbattute. Non voglio fare psicoanalisi da bar, ma questo è uno dei suoi problemi. Lui è un vecchio illuminista, pensa davvero che la ragione sovrasti tutto. Da qui l'estremo autocontrollo, che si manifesta in quella postura sempre contratta. La mente controlla le passioni. Punto».

Una persona fredda.

«Ma no, poi non è affatto freddo. È timido, legato alla famiglia, ama la moglie. Ma questa sfera affettiva è sepolta dentro la corazza dell'illuminista».

Sa perdonare?

«Mettiamola così. Una delle cose che mi ha insegnato è che la battaglia politica non è mai personale. Lui le ha prese e le ha date non dico con fair play ma con l'atteggiamento del giocatore di scacchi che se perde non cerca scuse e pensa alla rivincita. Infatti quando diventò presidente del Consiglio, nel 1998, rimise tutte le querele, primo e unico a farlo. Da leader di una parte politica era diventato il presidente di tutti gli italiani e pensò a un gesto distensivo».

Ne rimise una anche a me.

«Che poi, lui, ora, mica ce l'ha con i giornalisti ma con la magistratura. Se la prende con la stampa perché non può prendersela con Woodcock che lo ha gettato in una vicenda in cui non è nemmeno indagato».

Con lei si è mai arrabbiato?

«Quando fallì la scalata alla poltrona di commissario europeo, per Europa scrissi un pezzo affettuoso in cui sostenevo che era la fine della sua carriera politica. Qualcuno glielo fece notare e lui: Non mi occupo di giornali clandestini».

Alla faccia dell'affetto. E in che rapporti siete ora?

«Ma dài, buoni; gli voglio bene, gli compro anche il vino».

Chieda lo sconto. Col caldo i rossi non si vendono più.

«Allora lo pretendo».

Michele Santoro attacca i dalemiani: "Siete dei miserabili". Il conduttore attacca anche "Baffino" e i suoi vini acquistati dalle Coop, scrive Mario Valenza su "Il Giornale". Dopo le intercettazioni e le polemniche sul caso Ischia piovute addosso a Massimo D'Alema, Michele Santoro attacca "Baffino" nel suo monologo iniziale a Servizio Pubblico. In apertura di puntata, Santoro si è rivolto direttamente all'ex presidente del Consiglio sfottendolo sui tanti ruoli che ha ricoperto finora, da politico a presidente della fondazione Italianierupei fino al vignaiolo. "C'è chi ha parlato malissimo dei suoi vini, come l'ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, candidato Pd alla presidenza 'Ha detto che il tuo vino è una schifezza, lo ha fatto per far piacere a Renzi e per i titoli sui giornali - ha detto Santoro - così come fanno i miserabili ex amici di D'Alema che non perdono occasione per sputargli in faccia. Oppure - aggiunge il conduttore - come i soci della Coop Concordia che apprezzano il fatto che D'Alema è uno capace di mettere 'le mani nella m...'".

Michele Santoro attacca Massimo D'Alema: "Grazie a te il prossimo leader maximo sarà Matteo Salvini", scrive “Libero Quotidiano”. Non vedeva l'ora Michele Santoro di togliersi altri sassi delle scarpe contro Massimo D'Alema. E tutto il caos sulle intercettazioni che riguardano il Baffino a proposito dell'inchiesta sulle tangenti al comune di Ischia è stata l'occasione ghiotta per il tribuno di La7. In apertura a Servizio Pubblico si è rivolto direttamente all'ex presidente del Consiglio sfottendolo sui tanti ruoli che ha ricoperto finora, da politico a presidente della fondazione Italianierupei fino al vignaiolo. C'è chi ha parlato malissimo dei suoi vini, come l'ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, candidato Pd alla presidenza della Campania: "Ha detto che il tuo vino è una schifezza, lo ha fatto per far piacere a Renzi e per i titoli sui giornali - ha detto Santoro - così come fanno i miserabili ex amici di D'Alema che non perdono occasione per sputargli in faccia. Oppure - aggiunge il conduttore - come i soci della Coop Concordia che apprezzano il fatto che D'Alema è uno capace di mettere 'le mani nella m...'". Secondo Santoro il grande vincitore rimane ancora una volta Matteo Renzi e quasi si intravede una nuova sfavillante ossessione dopo Berlusconi. "D'Alema non sarà condannato perché non ha fatto niente di illecito - dice Santoro - lo saranno però quelli che hanno creduto in lui, condannati a tifare Renzi per evitare il trionfo della Destra". E poi c'è un altro merito di Baffino, cioè quello di aver fatto scappare gli elettori delle periferie, i lavoratori: "Che continueranno a non credere più nel socialismo e voteranno Matteo Salvini. Uno - aggiunge Santoro - che sa solo ripetere 'a casa, a casa' oppure 'Santoro a casa'. Uno così originale - ha concluso un infiacchito Santoro - corre il rischio di diventare il leader maximo, altro che D'Alema".

Istituzioni, coop e imprese: chi finanzia Italianieuropei. Italianieuropei può contare su un fatturato di 1,2 milioni di euro. Nonostante i fondi stiano calando, la fondazione si sostenta attraverso finanziamenti diretti e inserzioni pubblicitarie di garndi imprese: ecco chi sostiene economicamente la fondazione di Baffino, scrive Sergio Rame su Il Giornale. "... È molto più utile investire negli Italiani Europei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo, capito... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose...". È il brano di un dialogo intercettato tra Francesco Simone e Nicola Verrini, due degli arrestati nell'ambito dell'inchiesta sulle opere di metanizzazione che hanno interessato i comuni dell'isola di Ischia. È la prima conversazione, riportata nell'ordinanza di custodia, nella quale si fa riferimento a Massimo D'Alema. Ed è il gip Amelia Primavera a sottolineare come per "comprendere fino in fondo e per delineare in maniera completa il sistema affaristico organizzato e gestito dalla Cpl Concordia, appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti tra i vertici della cooperativa e l'esponente politico che è stato per anni il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl Concordia, che è tra le più antiche cosiddette cooperative rosse". Rapporti che passano anche attraverso la fondazione dell'ex premier: Italianieuropei. Che peso ha economicamente e politicamente la fondazione di D'Alema? Difficile a dirlo con esattezza. Come riporta la Stampa, Italianieuropei può contare su un fatto di 1,2 milioni di euro. La maggior parte di questo bottino viene portato a casa dalla pubblicità che, nonostante la crisi dell'editoria e gli appena mille abbonati alla rivista di riferimento della fondazione, tiene botta. Come aveva spiegato il segretario Andrea Peruzy, agli inserzionisti vengono proposti pacchetti da 30mila euro. Tra questi troviamo Mps, Enel, Eni, Unicredit, Rai e Aeroporti di Roma. Tanto per citarne alcuni. La lista è lunga. La struttura, però, costa. Nell'ultimo triennio, per esempio, la Solaris, la srl che pubblica i libri e le riviste della fondazione, ha chiuso in negativo: meno 115mila euro nel 2011, meno 214mila euro nel 2012 e meno 154mila euro nel 2013. Ogni volta il buco è stato ripianato dalla fondazione. Negli ultimi giorni sono crescite le pressioni su D'Alema per capire da dove arrivano i soldi che "gonfiano" le casse di Italianieuropei. "D'Alema faccia i nomi di tutti i suoi donatori - tuona il piddì Fabrizio Barca - così si potrebbe tramutare una cosa sgradevolissima in una grande sfida". Di questi nomi si sa poco è niente. Come ricostruisce la Stampa, i primi finanziatori furono poco più di una ventina. Misero insieme un miliardo di lire: 103mila euro dalla Lega delle Coop guidata da Ivano Barberini, 100mila euro dalla Cooperativa estense, 50mila euro dall'Associazione nazionale delle cooperative e dalla Lega coop di Modena, 25mila euro dalla Lega coop di Imola. E ancora: la Romed di Carlo De Benedetti, la Fiat e la Pirelli. Cifre che variavano dai 25 agli 80mila euro. Non mancavano certo imprenditori come Guidalberto Guidi, gli Angelucci, Francesco Micheli, Vittorio Merloni, Alfio Marchini, Claudio Cavazza e Giuseppe Clementi. Italianieuropei non è una fondazione ad appannaggio di D'Alema. Nel comitato di indirizzo siedono infatti politici come Gianni Cuperlo, Anna Finocchiaro, Ignazio Marino e Franco Marini. Negli ultimi anni i finanziamenti si sono ridotti. Ma, stando a quanto riportato dalla Stampa, ancora nel 2012 veniva finanziata da Finmeccanica e Poste con cifre oltre i 25mila euro. Tra gli inserzionisti della rivista, invece, troviamo ancora Piaggio, Fs, British american tocacco e, appunto, Finmeccanica. "Stiamo valutando le modalità con cui rendere noti i nomi dei nostri sostenitori - ha spiegato nei giorni scorsi la portavoce Daniela Reggiani - naturalmente nel rispetto della normativa e della loro privacy".

La Coop finanziava anche Renzi, Bersani e Meloni, scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Massimo D’Alema. Emergono sempre nuovi particolari dalle carte dell'inchiesta di Napoli  sui finanziamenti della cooperativa Cpl Concordia. Secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano avrebbe finanziato una cena elettorale di Matteo Renzi, ha versato 17.000 euro al Pd di Roma e ha dato contributi elettorali un po’ a tutti: a Ugo Sposetti ed Eugenio Patané del Pd, al comitato "Per Ignazio Marino sindaco di Roma", alla lista civica Zingaretti e al Pd marchigiano. Ma le elargizioni erano bipartisan perché dalle carte dell’inchiesta spunta il nome dell’esponente di Fratelli d' Italia Antonio Paravia e al comitato "Io sto con Giorgia Meloni". Il Fatto riporta l’interrogatorio del direttore generale affari esteri Cpl Fabrizio Tondelli che diece: "Io non darei soldi a nessun politico e infatti anche quando si è parlato di partecipare alla cena di Renzi io ero in disaccordo, non trovavo alcuna utilità. Tuttavia il cda per motivi commerciali e di opportunità ha poi stabilito diversamente e quindi ha erogato il contributo". L’elargizione era sempre dichiarata. E quello che colpisce è proprio la trasversalità di queste donazioni: nel novembre 2014, la cooperativa registra 5.000 euro in uscita per i democratici. Matteo Renzi ha organizzato due cene di raccolta fondi, il 6 a Milano e la replica il 7 a Roma. Ma la cooperativa ha finanziato le campagne elettorali anche in precedenza, quando c’erano ancora di Ds. Nel 2011 il candidato sindaco di Bologna Virgilio Merola ha ricevuto un assegno di 20.000 euro. “ Lo stesso periodo spediva 10.000 ciascuno ai dem di Pesaro, di Ferrara, il doppio a Urbino, un obolo (2.000) a Foggia e Frosinone.”, scrive ancora il Fatto. E poi soldi al comitato di Bersani. Tra il 2013 e il 2014 sono emerse altre donazioni: 10.000 per il senatore Ugo Sposetti (Pd); 5.000 per il deputato Alfredo D' Attorre; 10.000 per la lista civica Zingaretti e altri 10.000 per il comitato Zingaretti; 6.000 per una cena elettorale di coppia Zingaretti-Marino; 2.000 per il comitato "io sto con Giorgia Meloni" e 3.000 per Antonio Paravia di Fratelli d' Italia; 2.500 per Ignazio Marino sindaco di Roma e 5.000 per Antonio Decaro sindaco di Bari; 2.000 per il mandato a Strasburgo di Cecile Kyenge e 4.000 per l' ex ministro Flavio Zanonato; 1.000 per Antonella Forattini in Lombardia e 10.000 per Eugenio Patané, consigliere regionale poi indagato a Roma nell' ambito di Mafia Capitale; 17.000 per il Partito democratico della provincia di Roma. Non solo politici, Ma anche solidarietà: centinaia di euro, sono state versate per le associazioni locali, per un progetto a Chernobyl, per i genitori con figli disabili, per un omaggio alla fondazione di Umberto Veronesi. Un investimento maggiore per la beatificazione di Giovanni Paolo II vale uno sforzo in più, 25.000 euro.

Tangenti, ecco come la Coop rossa riusciva a cancellare le multe e ottenere onorificenze, scrive “Libero Quotidiano”. L'interrogatorio per Francesco Simone, definito dai magistrati "l'uomo-chiave" dell'inchiesta sulle tangenti a Ischia, è fissato per oggi. Nel frattempo emergono nuovi elementi sulla cooperativa Cpl di Modena che dimostrano come il responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo abbia tessuto una rete con molteplici fili annodati con la Fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema, ma anche con la fondazione Big Bang che ha sostenuto Matteo Renzi. Una rete che riusciva ad ottenere qualsiasi cosa chiedesse, persino delle onorificenze per il presidente della CPL, Roberto Casari.

Le onorificenze - Casari, infatti, nel 2011 era stato nominato cavaliere del lavoro, ma non bastava. Simone, rivela il Messaggero, si da da fare per averne una anche da Palazzo Chigi. Lo dimostra una telefonata tra lui e un funzionario della prefettura di Modena, Daniele Lambertucci, a cui ha delegato la partita. "Io ho scritto e ho parlato con il capo della segreteria di Poletti che però è stato incasinato tra Germania Parigi con Renzi quindi non mi ha ancora risposto", dice Simone a Lambertucci. "Nel frattempo ho incrociato la responsabile dell' ufficio onoreficenze di Palazzo Chigi e mi diceva di proporlo come Grande Ufficiale o Commendatore". Il funzionario conferma e Simone incalza: "Eh come si può fare in questo caso deve arrivare dalla Prefettura su segnalazione di qualche cittadino...". Lambertucci gli spiega che "sempre su segnalazione deve arrivare". Alle preoccupazioni di Simone, il funzionario replica: «"Sta andando tutto velocemente a noi fa fede il nostro riferimento la teniamo monitorata noi sotto controllo già è partita a velocità supersonica".

Le multe - La solerzia di Lambertucci per accontentare Francesco Simone è documentata anche da altre intercettazioni. Come quelle per far annullare delle multe di Roberto Casari in cambio di biglietti per la partita del Modena, o per accelerare l'attribuzione di un certificato antimafia che potrebbe servire alla Coop per ottenere un appalto in Sicilia. "Te l'ho girata due minuti fa", dice il funzionario a Simone in base agli atti pubblicati dal Messagero, "l'ho messa a posto, la situazione con il verbale lì è definitiva per sempre... Dì al presidente di pensare al Modena che ci servono tre punti alla Spezia". Poco dopo, a Lambertucci arrivano i biglietti per la partita del Modena e le magliette dei calciatori. E lo stesso fa per l'inserimento della Cpl Concordia nella white list antimafia: "L' inserimento nella white list era stata un po' rallentata visto alcune vicissitudini passate, senza parlarne abbondantemente a telefono...".

Berlusconi intercettato: vogliono arrestarmi su ordine Napolitano. Nelle carte dell’inchiesta spunta anche il nome dell’ex Cavaliere, scrive “Il Corriere della Sera”. Anche il nome dell’ex premier Silvio Berlusconi spunta tra le migliaia di intercettazioni dell’inchiesta sulle tangenti a Ischia. Sono le 11.31 dell’11 maggio dello scorso anno. È Silvio Berlusconi, tramite la sua segreteria - annotano i carabinieri del Noe - a chiamare Amedeo Laboccetta, ex parlamentare del Pdl. È lui ad essere intercettato, perché gli inquirenti intendono chiarire soprattutto la natura dei suoi contatti con Francesco Simone, il responsabile delle relazioni istituzionali della cooperativa CPL, arrestato nei giorni scorsi. Con Laboccetta il Cavaliere «parla, tra l’altro, della situazione di crisi sociale. Berlusconi dice inoltre - scrivono ancora i carabinieri - che i giudici, anche su ordine del Capo dello Stato, aspettano soltanto un suo passo falso per avere la scusa ed arrestarlo». Nell’atto giudiziario in questione, che è una richiesta di proroga delle intercettazioni nei confronti di Labocetta datato 5 giugno 2014, non c’è la trascrizione testuale della telefonata ma solo il sunto della conversazione. Stessa cosa in molti altri atti in cui lo stesso il passaggio viene riportato, sempre in forma sintetica. Gli investigatori si occupano di Laboccetta in quanto ritenuto una delle persone della «rete relazione» di tom-tom Simone, il consulente della Cpl che «arrivava dovunque».
In particolare, al di là del lavoro svolto per conto della cooperativa rossa, Simone aveva stretto rapporti con Alessandro Clementi, della Wave Investment partners di Roma, una società che si occupa di gestione e recupero del credito al quale segnalava aziende che vantavano dei crediti, anche con la pubblica amministrazione, disposte a cederli alla Wave. E Laboccetta era stato da poco nominato presidente della società campana Gori che vantava qualcosa come 170 milioni di crediti nei confronti sia dei privati che della Pa. «Laboccetta - scrivono i carabinieri, dando conto dell’esito di una intercettazione - dice che sarebbe opportuno fare una manifestazione d’interesse perché una gara avrebbe tempi più lunghi, ma Simone si raccomanda di non spargere la voce sulla questione che stanno trattando, trovando d’accordo il suo interlocutore». In un successivo colloquio intercettato tra Simone e Clementi «si parla del nuovo Decreto che è stato emanato e che stabilisce che solo le banche possono acquistare e scegliere i crediti relativi alla pubblica amministrazione». In questo contesto Clementi «fa presente che `quella roba lì´ vista con Laboccetta non può farla con il decreto legge in questione. In conclusione Simone dice però a Clementi di andare avanti con Laboccetta e company rassicurandolo che probabilmente il decreto decadra’». È in questo scenario che i carabinieri del Noe annotano i «contatti frequenti» di Laboccetta «sia con l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che con l’ex deputato Marco Milanese», in passato consigliere dell’ex ministro Giulio Tremonti e coinvolto in diverse inchieste. Viene citata in particolare la telefonata dell’11 maggio, nella quale Berlusconi e e Laboccetta «commentano la situazione di crisi che c’è in giro...disoccupazione giovanile e problema immigrati e l’Europa che non prende posizioni». Segue la considerazione di Berlusconi sui giudici che «aspettano solo un suo passo falso» per arrestarlo. La conversazione chiude con la proposta di Labocetta di far incontrare al Cavaliere, di lì a poco, «l’amico Marco», riferendosi a Milanese. Berlusconi acconsente, ma poi di fatto l’incontro salta. Alcuni giorni prima, emerge sempre dagli atti dell’inchiesta, Laboccetta era stato a cena con Milanese e la compagna di questi, la quale aveva incontrato Berlusconi a Palazzo Grazioli quello stesso pomeriggio. «È stata una cena molto, molto interessante», riferisce alle 23.58 Laboccetta a Berlusconi, aggiungendo che martedì avrà «..un promemoria analitico, preciso e puntuale che è veramente interessantissimo».

CON LO SPUTTANAMENTO C'E' LA GALERA...ANCHE PER I MAGISTRATI.

Marcello Sorgi: "Lo Stato mi passo le intercettazioni del ministro", scrive Enrico Paoli su “Libero Quotidiano”. Benevento, metà gennaio del 2008. Al centro del tavolo della grande sala c'è lui, Clemente Mastella da Ceppaloni. Anzi il ministro della Giustizia Clemente Mastella, sempre da Ceppaloni. L’aria è tesa, come arroventato è il clima politico nazionale. Un governo sta per cadere e un ministro è appena finito nel tritacarne per colpa delle solite intercettazioni. Clemente ha appena confermato le dimissioni da Guardasigilli. Nella conferenza stampa convocata a Benevento ribadisce la decisione comunicata il giorno prima alla Camera, con un accorato intervento in Aula. «Ho parlato con il presidente Prodi e confermo le mie dimissioni per la mia dignità, onorabilità, perché non voglio sentirmi uno della casta, ma essere cittadino comune». Già, un cittadino comune. Riponiamo il nastro della storia e torniamo al presente, perché a quel «cittadino comune», allora ministro, fu riservato un trattamento fuori dal comune. Di quelli che mettono in discussione un intero sistema, non solo quello giudiziario, da cui tutto è partito e dove tutto dovrebbe finire. «Sono davvero inquietanti le rivelazioni del dottor Marcello Sorgi, editorialista de La Stampa, ascoltate nel corso della puntata di Porta a Porta», spiega l'ex ministro della Giustizia, «nella quale si è parlato di intercettazioni». «Sorgi ha fatto riferimento alle mie vicende giudiziarie, ricordando che, da inviato a Napoli per seguire proprio queste vicende», spiega ancora Mastella, «si ritrovò al caffè Gambrinus in compagnia di 4 colleghi giornalisti». Cose che capitano a chi fa questo mestiere, un po' meno tutto il resto. Sorgi ha raccontato che, dopo una telefonata giunta a uno dei suoi 4 colleghi, si presentò al loro tavolo un funzionario della Prefettura che gli consegnò una chiavetta contenente i file di tutte le intercettazioni che riguardavano il ministro della Giustizia e i membri della sua famiglia. «Marcello Sorgi nel ricordare l’episodio», afferma Mastella, «si è detto sconcertato per il fatto che, mentre cadeva il Governo Prodi, un funzionario dello Stato si era apprestato in modo solerte, senza che ne avesse alcun dovere istituzionale, a fornire in anteprima i contenuti di intercettazioni, alcune delle quali, in quanto riferite a Mastella ministro, la Corte Costituzionale ha ritenuto non utilizzabili ai fini processuali». Roba fuori dal comune dunque. Mastella si è detto «sconcertato», per non dire altro, dal racconto fatto da Sorgi, preso forse da «crisi del settimo anno (da quando i fatti da lui raccontati si svolsero, nel gennaio del 2008, ndr)». «A maggior ragione resto allibito ed esterrefatto io», dice ancora l’ex leader dell’Udeur, «resto sempre più convinto che in quella circostanza si mossero poteri che lentamente spero di decifrare, poteri che concorsero in maniera violenta ad umiliare la mia persona, la mia famiglia, e che determinarono la caduta del governo Prodi». Poteri forti o poteri deboli poco importa. Conta il fatto che questa, tutta la storia, testimonia l’esistenza di un vero mercato delle intercettazioni per far cadere a comando questo o quello. Ovviamente a distanza di otto anni dai fatti raccontati da Sorgi e appresi da Mastella poco importa stabilire il cui prodest politico (destra, sinistra, centro?). Conta capire come sia possibile che un pezzo dello Stato, trattandosi un funzionario della Prefettura, abbia potuto agire in quel modo. In barba a tutte le regole del gioco. Ovviamente l’intera storia di Mastella rimanda al caso D’Alema e alle polemiche che ne sono scaturite. L’ex presidente del Consiglio è stato investito in pieno dalla divulgazione delle intercettazioni connesse alla vicenda giudiziaria che ha il suo punto di riferimento nel sindaco di Ischia. Tentare similitudini è pressoché impossibile, però i dubbi restano. Se non gli stessi, certamente simili. Chi pilota il gioco?

D’Alema il garantista, scrive Francesco Ghidetti su “Quotidiano Nazionale”. Massimo D’Alema guarda le agenzie nel suo studio alla Farnesina: «Che monnezza. Che imbarbarimento», mormora. Sono i giorni della pubblicazione delle intercettazioni con Giovanni Consorte (sì, quelle del celebre «facci sognare») durante la cosiddetta ‘scalata Bnl’. L’allora ministro degli Esteri è disgustato. Pubblicare così significa – ripete l’allora fedelissimo (ora renzianissimo) Nicola Latorre – «metterci alla berlina» con frasi fuori contesto. Una vicenda riaffiorata anche nei dispacci dell’ambasciata statunitense diffusi da Wikileaks. Il cablogramma è del 3 luglio 2008, le parole di D’Alema risalgono al 2007 (balbettante secondo governo Prodi in carica): «La magistratura è la più grande minaccia per lo Stato italiano». Vengono dette all’ambasciatore Usa di stanza nella Capitale, Richard Spogli. Scoppia il caos. E il Nostro precisa: «Accanto a osservazioni ovvie su fughe di notizie e intercettazioni viene riportato un giudizio abnorme sulla magistratura che non ho mai pronunciato, che non corrisponde al mio pensiero e che evidentemente all’epoca è stato frutto di fraintendimento tra l’ambasciatore Spogli e me».E potremmo continuare. D’Alema, di sé, ama dare un’immagine di garantista («e legalitario», tiene a precisare) che, chissà, sarebbe bene applicasse a tutti i casi. Tralasciando la sfuriata di ieri – la domanda era volutamente provocatoria e lui, diciamo, c’è cascato – secondo alcuni scrittori di cose giudiziarie l’ex premier definiva Mani Pulite «Soviet di Milano». Oppure, in occasione dell’indagine (1993) di Carlo Nordio, esprimeva pensoso timore: «Questo avviso colpisce la credibilità di chi lo ha inviato. È un episodio che mi preoccupa, perché in questo modo finisce per creare un generale discredito delle istituzioni e c’è anche un rischio di delegittimazione della magistratura. Quell’avviso è un teorema». Per la cronaca D’Alema uscì dalla maxi inchiesta sulle coop rosse senza un graffio e, anzi, riuscì anche a essere risarcito dal ministero della Giustizia per il ritardo nell’archiviazione per circa 9mila euro. E così sempre. O prosciolto o archiviato o prescritto. Oppure, vista la mala parata, deciso a rimediare alla gaffe. Come nel caso dell’appartamento dalle parti di viale Trastevere a Roma. Quasi 150 metri quadri affittati a equo canone. Nessun reato, ma quel milione (di lire) e poco più pagato dall’allora nastro nascente della politica italiana parve un privilegio. Dopo aver denunciato una violentissima campagna mediatica – furono «sbattuti in prima pagina», parole sue, «nomi, cognomi, indirizzi, numero civico e nome sulla targhetta» – decise di lasciare. Comprò un appartamento nella zona Nord della Capitale (pieno di libri e molto bello, dicono, a due passi da uno storico liceo ‘rosso’). Lo annunciò in tv. Ecco, per sommi capi, il garantista D’Alema. Sicuro come pochi che il sistema tangentizio riguardasse solo Dc e Psi, ma guarda un po’. E che il «compagno G» (Primo Greganti, quello che, in manette nel 1993, negò di aver preso tangenti per il partito tenendo testa agli agguerriti inquirenti milanesi), di recente tornato agli onori (diciamo) della cronaca, sia degno di essere considerato innocente sino a sentenza: «Ho imparato che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Ah. Ma vale per tutti? Legittimo sospetto...

Intercettazioni, legalità, giustizia e ipocrisia: la lezione del “caso” D’Alema, scrive Bepi Lima su Sicilia News. Saranno i mucchi di rifiuti accatastati ai bordi delle strade; sarà il letame figurato che esce dalle conversazioni “private” di politici e amministratori; saranno gli alti lai del viticoltore D’Alema contro la pubblicazione delle intercettazioni che riguardano i non indagati; sarà l’ipocrisia di chi punta il dito su quelli che vengono gettati in pasto all’opinione pubblica, sperando di non essere il prossimo nella lista, ma qualcosa di chiaro e di vero, ogni tanto, bisogna dirla. Il nostro sistema politico, burocratico, amministrativo e giudiziario, per dirla eufemisticamente, fa acqua da tutte le parti. In principio furono i dollari di Washington e i rubli di Mosca, che foraggiavano le rispettive parti politiche per tenere l’Italia al di qua o al di là della cortina di ferro: la pioggia di soldi veniva utilizzata per costruire solidi apparati di partito (DC e PCI), i leader (De Gasperi, Togliatti, Nenni, Ingrao, Amendola, La Malfa etc.) erano persone integerrime che conoscevano l’esistenza dei fondi neri ma “non si sporcavano le mani”. Lo stesso Andreotti, il cui soprannome “Belzebù” era indicativo delle nefandezze vere o presunte che gli venivano attribuite, si svegliava ogni mattina alle 5, andava a messa, lavorava 18 ore al giorno e conduceva una vita monacale. Quelli che rubavano in proprio (i mariuoli li avrebbe definiti Craxi nel 92) erano pochi e non rivestivano posizioni di vertice. Certo la Chiesa raccoglieva soldi e voti per la DC, le Coop rosse facevano lo stesso per il PCI, ma un’idea di “bene comune” esisteva ancora. Poi il Partito Socialista scivolò da Nenni e Pertini ai nani e alle ballerine che circondavano il sunnominato Craxi: la prima crepa visibile della morale pubblica, perché come vizi privati anche la Prima Repubblica non si faceva mancare niente: nelle segrete stanze si narrava di illustri politici che praticavano la pedofilia, non con 17enni sviluppate alla Ruby, ma con bambini – bambini. Eppure tutto questo restava ermeticamente riservato e nemmeno gli avversari politici si azzardavano a sollevare il velo. Meglio? Peggio? Non sappiamo dirlo. Si preservavano le Istituzioni dalle miserie umane. E siamo a Tangentopoli, la finta operazione di pulizia, che eliminò i Professionisti della politica (con la P maiuscola,) quelli che prima di arrivare al vertice avevano fatto decenni di gavetta, sostituendoli con le terze e quarte file di arrivisti: caduto il muro di Berlino e svanita ogni ideologia, era aperta la caccia a prebende, privilegi e mazzette, per migliorare il tenore di vita personale e delle future generazioni. Partiti politici come taxi, dove si paga la corsa e si scende, alla ricerca di un altro mezzo di locomozione che porti più velocemente alla meta. Così stando le cose, la nostra convinzione è che, se si intercettassero l’80 % degli amministratori pubblici e del loro entourage, il quadro che ne verrebbe fuori sarebbe ben più grave di quello che ha costretto il ministro Lupi a dimettersi. Con la “tremenda” accusa di avere favorito il proprio figlio, laureato con 110 e lode in Ingegneria, nella ricerca di un posto a duemila euro al mese, oltre ad aver ricevuto (udite, udite) anche un abito sartoriale e un orologio di marca. E con la ragionevole certezza che almeno la metà di quelli che lo hanno fatto fuori, hanno scheletri di ben altre dimensioni nei loro armadi. Chiudiamo con il tema delle intercettazioni: noi italiani siamo un popolo veramente strano. Godiamo un mondo nel leggere sui giornali le porcherie che riguardano gli altri, ma gridiamo al colpo di Stato se qualcuno propone di intercettare le mail private per combattere il terrorismo. Mentre le intercettazioni sono diventate un formidabile strumento di potere: per eliminare qualche concorrente politico basta mettere sotto osservazione la sua cerchia di collaboratori, per far uscire paginoni di fango. A giustificazione di questo sistema barbaro, si tira in ballo l’obbligatorietà dell’azione penale: una sorta di favola per bambini poco svegli perché, se io magistrato sono alle prese con migliaia di sviluppi investigativi è chiaro che dovrò scegliere quali portare avanti e così scatta la discrezionalità. Per esempio se Fassino chiede a Consorte: “Abbiamo una banca?” viene considerato una sorta di tifoso dell’Unipol, come quando un fan juventino domanda: “Vinceremo lo scudetto?”. E gli danno pure un risarcimento di 80 mila euro perché la sua frase è stata pubblicata dai giornali, ledendo la sua immagine. Cosa sarebbe successo se, invece, si fosse deciso di intercettare tutto il management Unipol (amanti e segretarie comprese) per capire se e in che modo i soldi della compagnia assicurativa aspirante banca, passavano in parte al PDS, dando un’altra chiave di lettura all’entusiasmo di Fassino? Non lo sapremo mai, così come non conosceremo mai le abitudini sessuali e gli stili di vita di tutti i protagonisti, che sarebbero stati il naturale corollario della pubblicazione delle intercettazioni. Quindi il sistema va rifondato: come, ne parleremo quando si sarà attenuato il senso di nausea.

Sputtanati e sputtanandi. Sarebbe comodo per Panorama cavalcare lo "scandalo" D'Alema. Ma lo scandalo vero, in questa faccenda, è l'uso delle intercettazioni, scrive Giorgio Mulè su Panorama. L’ultima fatica della Procura di Napoli ci consegna l’ennesimo caso di sputtanamento politico e mediatico a uso e consumo dei libidinosi delle intercettazioni. Il metodo è sempre lo stesso, il protagonista pure. Quanto al metodo è quello, solito, d’inserire in un provvedimento giudiziario brandelli di conversazioni assolutamente irrilevanti sul piano penale, ma esplosive su quello politico e giornalistico. Il protagonista, poi, è ancora una volta il sostituto procuratore Henry John Woodcock, cioè il pm che passerà alla storia come protagonista mai punito dei più allucinanti flop giudiziari della Repubblica. In questa giostra impazzita e barbara che sono le intercettazioni, stavolta è salito Massimo D’Alema, ovviamente da non indagato come si usa in questa giungla che vorrebbero contrabbandarci per giustizia. Sarebbe stato molto comodo per Panorama cavalcare lo "scandalo". Perché questo giornale e questo direttore hanno più volte incrociato le lame con l’ex presidente del Consiglio, duramente attaccato per i rapporti che storicamente hanno legato e legano il partito democratico al mondo delle cooperative rosse. Rapporti stretti e consolidati, che i dirigenti del Pd di oggi e di ieri hanno goffamente negato nonostante l’evidenza dei fatti. La coerenza rispetto a una linea che ha sempre indicato come stella polare il rispetto dei diritti e delle garanzie di tutti i cittadini unita allo schifo che proviamo ogni volta che le inchieste si trasformano in una micidiale macchina del fango (vogliamo parlare del processo Ruby e di Silvio Berlusconi, assolto dopo cinque anni di gogna?) ci impongono di stare dalla parte di D’Alema. Ci fa quindi specie che il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, non abbia sentito l’obbligo di pronunciare nell’immediatezza dei fatti, con un tweet o davanti alla direzione del suo partito, parole chiare e nette contro questa barbarie. Sarebbero state parole coraggiose pronunciate da un vero leader. Ma, come sappiamo, coerenza e coraggio sono doti che Renzi contempla unicamente quando ha un tornaconto personale (vedi il caso Lupi). Peggio per lui. Perché è scritto nelle stelle, diciamo così, che sarà solo una questione di tempo: prima o poi anche lui finirà sui giornali, magari da non indagato, come nuovo socio del grande club degli sputtanati a causa di conversazioni telefoniche intercettate. La puzza si sente già in lontananza perché, come ci informa il Fatto quotidiano, esisterebbe almeno un’intercettazione irrilevante ascoltata dai pm di Napoli nell’ambito dell’inchiesta in cui è stato tirato in ballo D’Alema; una conversazione tra Renzi e un generale della Guardia di finanza, un ufficiale abbondantemente sputtanato quattro anni fa dal solito Woodcock e poi regolarmente archiviato. Al pavido Renzi, che non trova le parole per schierarsi contro la barbarie consumata ai danni di D’Alema, suggeriamo allora di darsi una mossa. Conviene anche lui - eccome - sbrigarsi a varare un provvedimento che limiti questa ignominia. Non pensi agli italiani rovinati e sputtanati senza motivo, pensi a se stesso che oggi è nelle vesti dello "sputtanando" prossimo venturo. Statene certi, stavolta la legge la farà.

Toh, ora i compagni scoprono il fetore delle intercettazioni. Le parole rubate al telefono hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Fin dagli anni Cinquanta la sinistra si dà tante arie e suole dividere l'umanità in buoni e cattivi, mettendosi dalla parte dei primi che essa definisce non a caso progressisti. Già. Talmente progressisti da arrivare ultimi in ogni circostanza. Lo abbiamo constatato anche stavolta a proposito delle intercettazioni, da decenni al centro di polemiche, oggetto di numerose proposte di legge dibattute all'infinito eppure rimaste lettera morta poiché prive del nullaosta indovinate di chi? Degli ex o postcomunisti, decida il lettore come chiamarli; tanto, comunisti erano e la loro mentalità settaria è ancora intatta dai tempi che furono. Il problema è semplice. Ai politici col birignao e sedicenti colti in quanto militanti o simpatizzanti di sinistra, le parole rubate al telefono (contenenti millanterie e forzature di ogni genere sul cui significato occorrerebbe detrarre la tara) hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena. Un gioco facile facile. Le Procure inserivano negli atti processuali le registrazioni di colloqui malandrini, compresi quelli penalmente irrilevanti ma giornalisticamente interessanti, piccanti, e a divulgarle provvedeva solerte la stampa, suscitando la curiosità morbosa dell'opinione pubblica. Gli sventurati, vittime delle incursioni nella loro vita privata, venivano infilzati con soddisfazione da chi se ne avvantaggiava. Questo tipo di falli erano e sono impuniti: manca una legge apposita che li sanzioni. Clemente Mastella, quando era guardasigilli, predispose una normativa per arginare il traffico delle intercettazioni (poco giudiziarie e molto gossippare), però la maggioranza progressista che all'epoca reggeva il governo lo mandò al diavolo, creando i presupposti per eliminarlo dalla scena. È chiaro a chiunque che le intercettazioni violano il segreto delle conversazioni private, ma poiché di solito riguardano la gente comune (della quale non importa nulla a nessuno nel Palazzo) oppure «nemici» di partito da sputtanare, ogni iniziativa tesa a disciplinare la materia è stata sistematicamente bocciata. Per lustri il personale politico di destra e centrodestra ne ha fatto le spese, mentre quello di sinistra ne ha tratto dei benefici sotto il profilo elettorale, essendo scontato che dai faldoni dei tribunali non uscisse nemmeno un sospiro delle loro telefonate innocenti o no. Una pacchia per i progressisti durata fin troppo. Infatti la musica sta cambiando. Qualche spiffero velenoso comincia ad ammorbare le sacre stanze degli «intelligenti per antonomasia», i quali, sfiorati dal fetore delle intercettazioni, sono sul punto di cambiare idea; anzi, l'hanno cambiata, tanto è vero che si stanno attrezzando per impedire la fuga di notizie frutto di «furti» negli uffici dei magistrati. Come? Sbattendo in galera i giornalisti «ricettatori» del materiale scottante. Se la stampa aiuta la sinistra, i progressisti predicano in favore del diritto alla libertà della medesima; se, invece, essa si concede un attacco antigauche, allora meditano d'ingabbiare i ficcanaso delle redazioni. Sinché erano i berlusconiani a essere massacrati dai quotidiani con paginate e paginate di chiacchierate intime, non c'era anima bella che suggerisse di porre fine alle gratuite diffamazioni. Al contrario, adesso i progressisti, colpiti dalle indiscrezioni, invocano la Costituzione affinché agli scribi sia tolta la licenza di ferire con la penna riportando il contenuto di nastri registrati su ordine delle Procure. Questa è la storia delle intercettazioni che attendono ancora - per poco, suppongo - una regolamentazione: non per vietarne l'impiego a scopo investigativo (ci mancherebbe), bensì perché si pubblichino soltanto quelle relative all'accertamento di reati. Ci si domanda come sia possibile procedere in questo senso. Visto che siamo tanto cretini da non recuperare in proprio una soluzione che salvi la capra (la dignità delle persone) e i cavoli (giudiziari), sarebbe opportuno dare un'occhiata alle legislazioni di altri Paesi e copiare la migliore. Non è un'operazione complicata, basta alzare i glutei dalla sedia ministeriale e recarsi, per esempio, negli Stati Uniti a verificare come agiscano le autorità americane. Chi avrà l'energia per affrontare la trasferta scoprirà che negli Usa non sfugge una parola dei discorsi intercettati. Motivo? I magistrati statunitensi non mollano ai giornalisti neppure uno spiffero. Sarà perché ignorano l'esistenza di Pulcinella, per loro il segreto è una cosa seria.

Intercettazioni. Piano Gratteri: galera giornalisti che pubblicano le irrilevanti, scrive Redazione Blitz. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nell’ambito della riforma della Giustizia da affrontare con un complicato iter legislativo (due deleghe al Governo), ha bloccato la proposta della commissione istituita a Palazzo Chigi e guidata dal procuratore antimafia Nicola Gratteri in tema di intercettazioni. Nel testo, ne descrive i contenuti Francesco Grignetti de La Stampa, era previsto anche il carcere per i giornalisti che pubblicano quelle irrilevanti. Gratteri ha ipotizzato un nuovo reato: la pubblicazione arbitraria di intercettazioni. Si sanzionerebbe chi pubblica le intercettazioni “acquisite agli atti di un procedimento penale” ma “irrilevanti ai fini della prova”. Per i trasgressori, praticamente si applicherebbe solo ai giornalisti, prevista una sanzione da 2mila a 10mila euro o la detenzione da 2 a 6 anni. Ha spiegato Orlando: “La Commissione Gratteri ha fornito un importante contributo. Chiaramente non tutti i punti diventeranno testo di legge”.

Vi sono molte cose condivisibili nella lenzuolata pubblicata dal “Fatto Quotidiano” dedicata alle riforme presentate dalla commissione guidata dal procuratore Nicola Gratteri, mancato ministro della Giustizia per veto di un malfidato Napolitano, scrive Dagospia. Per esempio, è razionale interrompere la prescrizione con la formulazione dell’imputazione e farla cessare dopo la sentenza di primo grado. Ed è giusto sancire che le prove restino valide anche se cambia il giudice del dibattimento, come è comprensibile lo sforzo di aumentare il ricorso al rito abbreviato e al patteggiamento. Un po’ meno prudente, e garantista, l’ansia di ridurre i ricorsi “inammissibili” e l’idea di punire il voto di scambio mafioso anche senza le intimidazioni. Ma sono vicende sulle quali è lecito e utile discutere. Fa invece letteralmente accapponare la pelle la parte che riguarda le intercettazioni. Gratteri vuole istituire un nuovo reato ad hoc (ne abbiamo troppo pochi…) che si chiama “Pubblicazione arbitraria delle intercettazioni”, dove nell’aggettivo “arbitrario” c’è già tutta la pericolosità di un reato, appunto, “arbitrario”. Il reato consiste in un divieto ai magistrati di utilizzare il testo integrale delle intercettazioni negli atti, “a meno che la riproduzione testuale dell’intera comunicazione intercettata non sia rilevante ai fini della prova”. E poi nel divieto ai cronisti di “divulgare i dati”. Per ora, come si vede, la formulazione del reato è piuttosto vaga ma non meno pericolosa. In compenso ecco le pene: reclusione da due a sei anni e la multa da 2.000 a 10.000 euro. Fermiamoci un attimo e respiriamo: sei anni di carcere per la pubblicazione “arbitraria” di un’intercettazione? Ma non vi sembra un’enormità? Dagospia di intercettazioni ne pubblica pochine, ma il “Fatto” letteralmente ci campa. Solo perché la proposta arriva da un magistrato amico facciamo finta di nulla? Se anziché Gratteri a proporre il carcere fosse stato Carlo Nordio, vicino a Forza Italia, e se al governo ci fosse Silvio Berlusconi non starebbero tutti gridando al bavaglio liberticida?

Intercettazioni: e se anche rischiassi la galera? G. Antonio Stella: "pubblicherei", scrive Ugo Dinello su “Articolo 21”. "Una cosa indecente che va chiamata con il suo nome: censura". L'uomo dall'ironia garbata per antonomasia, Gian Antonio Stella, il giornalista del "Corriere della Sera" che riesce a mettere alla berlina i potenti senza mai farli urlare al complotto, dopo aver letto cosa prevede il disegno di legge Alfano, lascia il fioretto e afferra la clava. Quel disegno che mente anche nel nome (parla di "tutela della privacy" quando invece mira a impedire alla stampa di seguire qualsiasi "attività d'indagine" cioè qualsiasi tipo di notizia, soprattutto quelle sgradite ai potenti) gli fa perdere, solo per un istante, il consueto aplomb. Non l'ironia. E soprattutto non la voglia di opporvisi.

"Una cosa indecente. Se fanno una legge in cui si stabilisce che il magistrato, o il brigadiere, o il cancelliere o l'avvocato che passa le notizie ai giornalisti - se non lo può fare, perchè mica è detto che l'avvocato non lo possa fare - e ammesso che vengano incastrati con prove ritenute "inoppugnabili", perfino per l'avvocato Ghedini, perfino per l'avvocato Longo, o per l'avvocato Previti, o per l'avvocato Sammanco (tutti legali di Berlusconi ndr), se fosse incastrato persino per queste persone e decidessero di dargli 10 anni di galera, facciano. Perché se c'è una legge che stabilisce che non si possono diffondere le notizie per tutelare il segreto istruttorio è giusto che ci sia una punizione. Ma che vengano puniti dei giornalisti perché pubblicano delle notizie che riescono a procurarsi, beh, questo è indecente. E se questo disegno passasse è l'anticamera della censura. Bisogna chiamare le cose con il loro nome e allora lo chiamino "disegno di legge sulla censura". E a quel punto anche chi come me è sempre stato molto, ma molto, ma molto riottoso a fare paragoni fra Silvio Berlusconi e il duce - e secondo me sono paragoni per ora improponibili - beh, se passasse questa legge l'unico precedente che avrebbe nella storia sarebbe proprio la censura fascista".

Brutale. E a te? Cioè, se dopo questa legge capitasse di avere per le mani...

"Pubblicherei.."

... una notizia che..

"...pubblicherei..."

... ti fa andare in galera se...

"... pubblicherei..."

E se il tuo editore ti dicesse: "Caro Gian Antonio, scusa ma io di pagare un milione di euro di multa per raccontare la verità agli italiani non ho proprio l'intenzione". Perché sarà questa una delle armi della censura. Multare gli editori "disobbedienti". Che fai?

"Beh, in quel caso si aprirà un contenzioso tra me e il mio editore. Sarebbe la prima volta".

Perchè quello degli editori è un bel capitolo...

"Su questo bisogna essere molto chiari. La storia di questi anni ci ha dimostrato che i giornali e le tivù del gruppo Berlusconi sono stati molto, mooolto generosi di intercettazioni fornite ai loro lettori. Diciamo la verità: quando ha potuto usare le intercettazioni tutto il gruppo che ruota intorno al presidente del Consiglio Berlusconi altroché se le ha usate. Caspita se le ha usate. Vogliamo ricordarci le campagne di stampa su Fassino intercettato sulla banca?".

E pure intercettazioni abusive....

"Appunto, vogliamo ricordarci tutti gli altri casi? Ma ce ne sono stati decine. Tanto è vero che quando sono venute fuori le prime voci sul giro di vite in questo settore, persino Vittorio Feltri fece dei pezzi durissimi contro quest'ipotesi. Difatti io sono sicuro che Vittorio Feltri, se uomo d'onore come credo sia, tornerà su questo tema opponendosi a questo disegno di legge. Perché è un tema che lui ha già affrontato duramente e lo ha detto in modo molto chiaro. Ricordo una polemica tra lui e la dirigente di Mediaset passata alla Rai e intercettata, Deborah Bergamini, fu una polemica durissima. Io condivido totalmente quello che ha scritto Vittorio Feltri quella volta. Quindi condivido totalmente ciò che pensava il direttore scelto da Silvio Berlusconi per il giornale di suo fratello".

Ricominci a divertirti...

"Sì, perché è molto divertente vivere in un Paese in cui il garantismo vale solo per Berlusconi e non per i ragazzi di Emergency e le "intercettazioni infami" sono solo quelle che riguardano lui e non quelle che riguardano gli avversari. E' davvero molto divertente questo paese. C'è un'idea dell'uguaglianza dei cittadini che è assai bizzarra".

Caso Escort, l’ira di Sgarbi sulle intercettazioni: “Magistrati criminali, vadano in galera”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Furia incontenibile di Vittorio Sgarbi ai microfoni de La Zanzara (Radio24) sulle intercettazioni delle conversazioni tra Berlusconi e Tarantini: “Sono intercettazioni abusive. Questa magistratura criminale usa i soldi nostri per occuparsi dei cazzi degli altri. Si usa troppa tolleranza nei confronti di gente infame che usa la giustizia per scopi politici e di affermazione. Vadano a fare in culo questi magistrati che si occupano di pettegolezzi e di stronzate coi soldi nostri”. Con il suo noto linguaggio sopra le righe, il critico d’arte aggiunge: “Berlusconi è un comico da cinepanettone, quello che dice nelle telefonate è una cosa da conte Mascetti, da gagà di Dapporto. E’ puro varietà. E noi paghiamo le tasse per questa gentaglia, che continua a inondare i giornali di schifezze. Soldi dello Stato per queste puttanate. Ma intercettino il buco del culo questi incapaci di Bari che non sanno che cazzo fare se non pettegolezzi. Hanno rotto i coglioni”. E continua: “Mattarella li mandi in galera, dica a questa gente che non deve diffondere merda inutile. Dica: ‘Archiviate tutto’ per carità di patria, non se ne può più. D’altra parte, tutto il mondo è pieno di ricchi che pagano le donne. Si pensi a Kennedy o a Clinton, che si è fatto fare pompini da tutti gli Usa, o a Fidel Castro, che ha avuto 35mila donne. E poi quanti soldi Berlusconi dà a sua moglie? Lei viene mantenuta perché non lavora”. Su Tarantini Sgarbi afferma: “L’ho conosciuto assieme alla moglie e a Checco Zalone in un posto bellissimo in Puglia, vicino a Monopoli. Tarantini è come Lavitola e Corona, cioè gente che non ha fatto niente in vita sua. Processi su questa roba, quando l’Italia è in miseria, l’economia non funziona, si buttano soldi in stronzate, cadono i monumenti. Vadano in galera questi magistrati” di Gisella Ruccia.

Intercettazioni telefoniche: cosa dice la legge, scrive Zeus News. Cosa sono realmente le intercettazioni telefoniche, che cosa permettono di scoprire, come vengono eseguite e perché finiscono sui giornali. Ormai è diventata un'abitudine consolidata: succeda quel che succeda là fuori, ogni due mesi in Parlamento si deve discutere di intercettazioni telefoniche. Ma cosa sono realmente le intercettazioni telefoniche? Che cosa permettono di scoprire? Come vengono eseguite? E come mai finiscono sui giornali?

La legge. A differenza di quello che avviene in molti altri paesi, in Italia le forze dell'ordine (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Postale, etc.) godono di pochissimo potere discrezionale e, salvo rari casi, non possono avviare o gestire un indagine di propria iniziativa. Le indagini di polizia vengono avviate e coordinate dalla Procura della Repubblica, nella figura del Procuratore Generale o di un Sostituto Procuratore. In entrambi i casi si tratta di un Magistrato Inquirente, non di un poliziotto. Il Procuratore, a sua volta, non ha assolutamente nessun potere discrezionale riguardo alle indagini: nel momento in cui viene a conoscenza di un reato è tenuto, per legge, ad avviare un'indagine. Diversamente finisce in galera per omissione di atti d'ufficio. Questa è la famosa "obbligatorietà dell'azione penale". Durante l'indagine il Procuratore agisce sotto il controllo del Giudice per le Indagini Preliminari e al termine dell'indagine presenta le sue tesi al Giudice per l'Udienza Preliminare, che decide se rinviare l'imputato a giudizio o se archiviare il caso. Se la tesi del Procuratore viene considerata abbastanza solida, il caso viene passato al Pubblico Ministero che rappresenterà l'accusa (lo Stato) in tribunale. Salvo rari casi, tutti i processi penali (quelli in cui si rischia la galera) si celebrano davanti ad un collegio giudicante formato da un giudice titolare e da due giudici "a latere". Per i casi di omicidio e cose simili si celebrano addirittura davanti alla famosa "corte d'assise" formata da due giudici "togati" (due magistrati di professione) e da sei "giudici popolari" (semplici cittadini scelti a caso nelle liste elettorali). In Italia, una sentenza diventa "esecutiva", e quindi si può finalmente mettere in galera il malfattore, solo al termine del terzo e ultimo grado di giudizio (la Corte di Cassazione). Se questo vi sembra un sistema bizantino e iper-garantista, siete in buona compagnia. Praticamente tutti gli studiosi di diritto ritengono che il sistema giudiziario italiano sia tra i primi al mondo per livello di garantismo e per complessità, soprattutto per quanto riguarda la parte penale. All'interno di questo schema, le intercettazioni entrano in gioco solo quando esiste un fondato sospetto che una persona possa utilizzare il telefono, la posta elettronica o altri mezzi di comunicazione per portare a termine il suo piano criminoso. In altri termini, in Italia non si possono fare intercettazioni "a caso". Non si possono nemmeno fare "monitoraggi" generici nella speranza di "beccare" qualcuno mentre organizza una rapina. Si può procedere a una intercettazione solo quando esistono delle fondate ragioni per pensare che l'Indagato usi il telefono per il proprio "business" criminale e solo quando il reato ipotizzato è di una certa gravità. Per avviare una intercettazione è necessario l'ordine del Giudice per le Indagini Preliminari, che solitamente agisce su richiesta del Procuratore della Repubblica o di un suo Sostituto. L'intercettazione iniziale può avvenire solo sullo specifico numero telefonico per cui è stata richiesta e non può durare più di 15 giorni. Se durante questo periodo vengono raccolte delle "notizie di reato" o degli "indizi di reato" di un certo valore, allora l'intercettazione può essere protratta per altri 15 giorni (e poi altri 15, ad infinitum) ed allargata ad altre utenze telefoniche, diversamente viene terminata. Il materiale raccolto durante le intercettazioni è coperto da segreto istruttorio fino al momento in cui viene depositato presso la Cancelleria del Tribunale insieme al resto delle prove a carico e insieme alla richiesta di rinvio a giudizio. A quel punto diventa pubblico. Sia gli avvocati della Difesa che qualunque privato cittadino (o giornalista) possono richiederne una copia. Il fatto che tutto il materiale raccolto dall'Accusa sia di pubblico dominio è la conseguenza di un principio di Diritto universalmente riconosciuto e che serve a proteggere l'Imputato. Se così non fosse, si potrebbero celebrare processi farsa "a porte chiuse" alla maniera di Stalin. In questo modo, invece, l'Imputato può sapere di cosa viene accusato e può difendersi pubblicamente.  Questa situazione è molto diversa da quanto avviene in molti altri paesi. Ad esempio, negli Stati Uniti (e in quasi tutti i paesi di lingua inglese) la Polizia può avviare un'indagine di sua iniziativa e può mettere in atto una intercettazione telefonica senza nessun mandato di un Giudice. Può tranquillamente fare intercettazioni "a caso" e può svolgere "monitoraggi" di vario tipo. Addirittura, in alcuni casi, possono eseguire delle intercettazioni telefoniche anche moltissimi altri "enti" che non hanno nulla a che fare con la Polizia. Ecco come Antonio Ingroia spiega nel suo libro la situazione che esiste in USA e UK: "Ebbene, negli Stati Uniti, le intercettazioni sono consentite non solo per i reati più gravi, di competenza dell'FBI, ma anche per i reati previsti dai singoli stati, per cui le intercettazioni possono essere disposte dal procuratore federale, dal procuratore di ciascuno stato, dalle polizie locali e persino dalle polizie municipali (che corrispondono ai nostri vigili urbani!). Per non parlare dei corpi antiterrorismo e persino dalle autorità di controllo della Borsa!"."In Gran Bretagna, poi, il potere di ordinare delle intercettazioni, senza che sia necessaria l'autorizzazione di un Giudice, è riconosciuto ai Servizi Segreti, a tutte le articolazioni della Polizia e a una selva di enti pubblici che vanno dagli istituti finanziari, ai direttori degli istituti di pena, fino addirittura ad uffici postali e pompieri!" Quello che si vede in telefilm come NCIS o CSI è effettivamente la pratica quotidiana in molti paesi di lingua inglese ma, in qualunque paese europeo, porterebbe i poliziotti dritto in galera per abuso di potere. Tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere l'Europa un "faro nella notte" per quello che riguarda la protezione del cittadino dalle intercettazioni e l'Italia viene da sempre considerato il paese più garantista d'Europa da questo punto di vista. Questo avviene già da molto, molto prima che si iniziasse a parlare di riforma della legge sulle intercettazioni. Un'ultima parola sulle intercettazioni dei parlamentari. In Italia è vietato porre sotto intercettazione il telefono di un parlamentare (e quindi anche quello di un Ministro o di un altro esponente del Governo e delle Istituzioni, come il Presidente della Repubblica). Nemmeno un Giudice può ordinare una intercettazione di questo tipo. Ma, allora, com'è possibile che appaiano sui giornali le intercettazioni del Presidente del Consiglio, dei suoi Ministri e di altri Parlamentari? Questo avviene perché questi parlamentari si intrattengono in conversazioni compromettenti con loschi figuri che non godono della loro stessa prerogativa. Quando questi malviventi vengono rinviati a giudizio, i materiali raccolti a loro carico devono essere resi pubblici per permettere loro di difendersi pubblicamente. Il Giudice non potrebbe fare diversamente nemmeno se lo volesse. Si noti che solo in Italia è vietato intercettare i parlamentari. In tutto il resto d'Europa, ed in gran parte del mondo (USA, Canada, Australia, Giappone, persino in Russia, etc.), un parlamentare è un semplice cittadino agli occhi della Magistratura e quindi non gode di nessuna protezione in più rispetto al normale "Signor Rossi". La famosa "immunità parlamentare", inoltre, salva il parlamentare solo dalle conseguenze delle azioni che compie nello svolgimento delle sue funzioni, non dalle conseguenze delle sue azioni criminali. Si noti anche che il contenuto delle intercettazioni telefoniche (che siano rilevanti o meno ai fini dell'indagine, che riguardino privati cittadini o parlamentari) viene considerato di pubblico dominio in praticamente tutti i paesi del mondo alla sola condizione che le intercettazioni siano state depositate come atti in un processo.

REATO IMPUNITO: LA FUGA DI NOTIZIE.

Non solo “sti signori” sono impuniti per motivi di colleganza e di casta, ma, addirittura è impedito parlarne. Su “Panorama” e su “Il Giornale” la testimonianza di una giornalista. “Non sono ancora le 9 quando in casa di Anna Maria Greco, la cronista de "Il Giornale" «colpevole» di aver scritto un articolo intitolato La doppia morale della Boccassini, suonano alla porta. Tranne la figlia che si sta preparando per uscire, gli altri dormono tutti. Ad alzarsi è il marito. L’uomo non fa in tempo ad aprire, che in un attimo quelli hanno già imboccato la strada per la camera da letto. Manco si trattasse di dover scovare un pericoloso latitante pluricondannato, i carabinieri si presentano in cinque. Devono subito localizzare la giornalista e notificarle l’ordine di perquisizione disposto dal procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani nell’ambito dell’indagine a carico del membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura Matteo Brigandì, accusato di abuso d’ufficio per aver passato, proprio a lei, un fascicolo riservato. Anna Maria non è indagata di nulla. Ha solo scritto un articolo riguardante un procedimento disciplinare a carico di Ilda Boccassini risalente al 1982 quando, la principale accusatrice di Silvio Berlusconi per il caso Ruby, fu costretta a difendersi davanti al Csm dopo essere stata beccata in atteggiamenti amorosi con un giornalista di "Lotta continua". Anna Maria non è indagata, eppure le rivoltano la casa: setacciano stanza per stanza, smontano cassetto per cassetto, controllano foglio per foglio. Alla fine della perquisizione le porteranno via il suo pc personale, le agende, i documenti, ogni singolo foglio con la sigla “Csm”, come se non fosse normale trovarne nella casa di una cronista che da vent’anni si occupa di giudiziaria. «La cosa più grave – racconta Anna Maria a "Panorama.it" mentre è ancora in attesa di firmare il verbale della perquisizione assistita dal suo avvocato – è che si sono portati via pure il pc di mio figlio, al quale io non ho mai nemmeno avuto accesso. Speriamo che almeno quello ce lo restituiscano in fretta». Eh già, perché magari è proprio nel computer del figlio 24enne che Anna Maria avrebbe potuto nascondere il fascicolo incriminato, a meno che non l’abbia occultato nella redazione romana del Giornale perquisita anch’essa in mattinata. «Io quel fascicolo l’ho visto, ma non ce l’ho. E comunque non sapevo che si trattasse di carte segrete dal momento che riguardano un procedimento risalente all’’82 conclusosi, come ho anche scritto nel mio articolo, con un’assoluzione per la Boccassini. Dov’è il segreto?» . La Greco, che in tutta la sua carriera non ha mai subito una perquisizione domiciliare, non nasconde rabbia e sorpresa. Da una parte è ancora scossa per quanto accaduto poche ore prima in casa sua, dall’altra si sente delusa e amareggiata perché a “denunciarla” su un giornale è stata proprio una che fa il suo stesso mestiere. Anna Maria non fa nomi, ma è semplice capire a chi alluda. Il giorno dopo la pubblicazione del suo articolo, infatti, su "Repubblica" Liana Milella svela la presunta fonte dello scoop del Giornale sulla Boccassini, ossia lo stesso Brigandì oggi accusato d’abuso d’ufficio. «Qui siamo davanti a un fatto clamoroso: una giornalista che, invece di tutelare un principio cardine del nostro lavoro come la copertura delle fonti, arriva a fare una cosa del genere. Dovrebbe vergognarsi». Nessun attestato di solidarietà, dunque, da chi per mesi si è battuto contro il bavaglio alla libera informazione? «Macché solidarietà! Da altri sì, non certo dai colleghi di Repubblica». A parte scovare il fascicolo che le avrebbe passato Brigandì, secondo la Greco, dietro la doppia perquisizione ordinata oggi in casa sua e al Giornale, c’è una chiara intenzione intimidatoria nei confronti di chi esercita questa professione. «Da oggi il mio lavoro diventerà ancora più difficile di quello che è normalmente, – spiega la cronista - occuparsi di giustizia, e in particolare della condotta dei magistrati, è sempre più rischioso. Anche quando hai in mano fatti e documenti certi che comprovano delle responsabilità a loro carico, devi muoverti in punta di piedi». Secondo la Greco, invece di essere una casa di vetro, trasparente agli occhi dei cittadini, la giustizia è sempre più una casa di piombo, «se nemmeno dopo 30 anni dalla chiusura di un procedimento a suo carico, la gente ha diritto di sapere cosa ha fatto un magistrato, che democrazia è? Perché non si dovrebbe parlare oggi di un fatto che può essere d’interesse per l’opinione pubblica dal momento che quel magistrato si sta occupando di un’indagine che riguarda la privacy di una persona? Perché – si chiede ancora Anna Maria mentre aspetta solo che la lascino andare a casa e riprendere il suo lavoro – i cittadini non dovrebbero sapere certe cose?».” «I carabinieri - ha spiegato la giornalista - mi hanno detto che dovevano procedere a una perquisizione personale e, di fronte a una donna carabiniere, ho dovuto spogliarmi integralmente. Non si tratta quindi semplicemente di una consegna degli abiti, come sostenuto dalla procura, ma di una procedura molto imbarazzante. Confermo altresì, come scritto nel mio articolo, di non essere stata toccata. Mi chiedo - ha concluso - se sia normale che una giornalista venga costretta a rimanere nuda di fronte a un'esponente delle forze dell'ordine senza nemmeno essere indagata. Lascio il giudizio ai lettori».

Fughe di notizie. Fughe inarrestabili. Fughe senza colpevole. È così che va la giustizia italiana da quando la giustizia fa notizia. Dal primo ciak di Mani pulite. Certo, allora gli arresti si susseguivano sul nastro della procura, al quarto piano, e qualche volta il Gabibbo arrivava sotto casa prima dei carabinieri e prima delle manette. Oggi gli spifferi portano sui giornali frammenti di verbali in tempo reale, notizie che servono a far discutere, ma non aggiungono un grammo all’inchiesta, intercettazioni che poi, a bocce ferme, riservano sorprendenti riletture. La contabilità degli incendi mediatici, quella non la tiene più nessuno. Figurarsi. Già nell’ormai lontanissimo 1995, un’epoca fa, gli avvocati del Cavaliere, contestavano 130 fughe non ortodosse. Numeri che oggi, se aggiornati, verrebbero polverizzati. Numeri che, naturalmente, nessuno dentro i palazzi di giustizia ha mai preso sul serio. Perché le Procure spesso considerano la fuga un episodio deplorevole, ma non un reato, così come invece è, specie se commesso da un loro collega. E perché le poche indagini aperte sono davvero, per dirla con il linguaggio della magistratura, atti dovuti. Atti dovuti e nulla più. Atti senza futuro. Gli avvocati del Cavaliere, ma non solo loro, hanno depositato nel tempo diverse denunce, a Milano, e anche a Brescia, competente per i reati compiuti dalla magistratura di rito ambrosiano. In un caso e nell’altro i risultati sono stati nulli.

Ed è inutile contestare, tanto il potere in Italia è nelle mani della magistratura, non nelle mani del popolo. Ed infatti, a seguito della perquisizione del 1 febbraio 2011 presso l’abitazione di Anna Maria Greco e presso la redazione de "Il Giornale" disposta dalla procura di Roma attinente alla pubblicazione di documenti interni al Csm riguardanti il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, la Federazione nazionale della stampa aveva commentato in una nota: “Oggettivamente, non se ne può più. Nello scontro politica-magistratura non possono essere chiamati a pagare i giornalisti se danno notizie, ancorché su di esse e sulla loro valenza in termini di interesse pubblico, ciascuno possa avere opinioni diverse. La perquisizione di oggi a carico della collega de 'Il Giornale' Anna Maria Greco appare, allo stato, assolutamente incomprensibile, oltreché, nei fatti, pesantemente invasiva". "Le notizie 'riservate', non escono mai con le proprie gambe. - aggiungeva la nota FNSI - Ma se si volesse prendere a prestito una espressione del moderno linguaggio politico-giudiziario, si potrebbe dire che si va a cercare presunte colpe, neanche meglio precisate, nell''utilizzatore finale'. Cosi non si può andare avanti. Ai giornalisti è chiesto, tanto più in questa fase di scontro politico e istituzionale dai toni esasperati, di alzare l’asticella della responsabilità, per non fare la fine dei vasi di coccio. Ma occorre misura e rispetto, da parte di tutti". Critica sulla vicenda, per altri profili, anche l'Unione Camere Penali. "Si possono esprimere ampie riserve, non solo estetiche, in merito allo 'scoop', strumentale e bacchettone, del 'Giornale' sulla dottoressa Ilda Boccassini, che segna l'ennesimo episodio di imbarbarimento dello scontro in atto, cosi come si possono anche avanzare fondati interrogativi - afferma una nota della Giunta UCPI - sulla necessita di custodire come il terzo segreto di Fatima gli atti dei procedimenti disciplinari dei magistrati risalenti a trenta anni fa, ma non ci si può esimere dal registrare anche l'inusitato spiegamento di mezzi processuali con cui, ancora una volta, la magistratura reagisce quando viene coinvolto un collega". "Mentre tante Procure leggono sonnacchiose sui quotidiani gli atti dei propri processi, di cui per legge e vietata la pubblicazione, quando viene interessato un magistrato scattano prontamente i sigilli alle stanze di un organo costituzionale e si perquisiscono con altrettanta solerzia quelle di un giornale, anch'esso avamposto del diritto di manifestazione e diffusione del pensiero, difeso dalla Costituzione", commentano i penalisti. "Se ce ne fosse stato ancora bisogno, abbiamo avuto la riprova", conclude la nota UCPI, "di quanto sia discrezionale non solo l'esercizio dell'azione penale, ma anche le sue stesse modalità, con buona pace del principio di eguaglianza che tutti invocano".

LE COOP ED IL SISTEMA SCOPPIATO.

Un sistema sCOOPpiato: i vantaggi fiscali non hanno più senso, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Alcune note a margine della vicenda che ha visto il sindaco Pd di Ischia finire in galera. Lo accusano di aver preso mazzette dalla cooperativa che eseguì i lavori per la metanizzazione dell'isola. Fin qui niente di straordinario: è ciò che capita spesso - anche tra i progressisti - quando ci sono di mezzo opere pubbliche e dunque i soldi dei contribuenti. Siccome chi paga sono appunto gli italiani, le imprese pagano con generosità, assecondando ogni desiderio di politici e funzionari. Siamo alla solita corruzione. Ciò che è meno solito è il susseguirsi di inchieste che vedono al centro le cooperative. Cambiano i nomi, cambiano i vertici, ma il sistema è lo stesso. Le coop, ossia delle società che dovrebbero ispirarsi a criteri etici e di solidarietà fra i lavoratori, in realtà si comportano come qualsiasi impresa, anzi peggio di qualsiasi impresa, usando metodi spicci e spregiudicati degni di una gang e soprattutto "oliando" a suon di tangenti la pubblica amministrazione. Già alcune cooperative sono un'anomalia, perché pur essendo colossi in grado di fare concorrenza a primarie ditte private godono di una fiscalità di vantaggio, che consente loro di risparmiare su tasse e contributi. Ma visto che oltre a comportarsi come qualsiasi azienda del settore, si muovono anche come i più disinvolti corruttori, la cosa si fa insopportabile. Eppure, da Mafia capitale al Mose si capisce che queste coop sono abituate a ottenere gli appalti pubblici ad ogni costo, anche violando la legge. Ha senso dunque favorirle abbassando solo a loro le imposte? Non si distorce il mercato più di quanto già non lo distorcano le bustarelle? Altro che sostenere la necessità di rivedere il sistema degli appalti, come l'altro ieri ha dichiarato il presidente di Lega Coop Mauro Lusetti, qui bisogna rivedere il sistema delle coop, soprattutto di quelle collaterali alla politica, che, guarda caso, sono di sinistra.

Cooperazione a delinquere: ormai è pioggia di inchieste. Dall'ultimo caso di Ischia fino alle tre coop coinvolte nel "sistema Incalza" per realizzare le grandi opere. Quei soldi all'ex ministro Kyenge, Zingaretti e Sposetti, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Se si volesse scherzare con il codice penale (ma solo per ironia, giacché la materia è serissima), si potrebbe inventare un nuovo reato: la «cooperazione a delinquere». Un po' per celia e un po' perché tutti gli ultimi grandi scandali legati a fenomeni corruttivi che hanno interessato le Procure di mezza Italia vedono quasi sempre tra gli indagati esponenti di spicco delle coop, soprattutto di quelle «rosse». Insomma, la storica gemmazione del vecchio Pci, la terza via del fare impresa - né capitalismo né comunismo ma socialità - non è poi così diversa da quella tradizionale. Il viaggio a ritroso non può non partire dalla fine. Con la coop rossa Cpl Concordia, gigante modenese della distribuzione del gas, che avrebbe «unto» numerose ruote, in particolare quelle del sindaco di Ischia Giosi Ferrandino e dell'ex premier Massimo D'Alema, per garantirsi l'appalto per la metanizzazione dell'isola campana. Un contratto da 160mila euro all'albergo del primo cittadino ischitano, tre bonifici da 20mila euro a ItalianiEuropei (ma «nel Pd – giura il presidente Matteo Orfini – non credo ci sia questione morale»). Poi si contano i 2mila euro all'ex ministro Cécile Kyenge, altri 10mila nel 2013 per la Lista Civica Nicola Zingaretti, 10mila euro nel 2013 per l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Non trascurabili altri 6mila euro al Pd Comitato Provvisorio Roma che, sempre nel 2013, aveva ottenuto un finanziamento da 10mila euro dalla 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Basta tornare a due settimane fa ed è la Procura di Firenze a salire in cattedra denunciando il «sistema Incalza», cioè il potere del super dirigente del ministero delle Infrastrutture di indirizzare appalti e commesse. Nell'occhio del ciclone tre Coop rosse: la Cmc di Ravenna, partecipante al consorzio Cavet che ha realizzato la Tav Firenze-Bologna, è accusata di aver versato oltre 500mila euro a Incalza tra il 1998 e il 2008. Le fanno compagnia la reggiana Coopsette («favori» in cambio della nomina dell'imprenditore Perotti alla direzione di alcuni lavori) e la Cmb di Carpi. Ancora un po' indietro e si palesa la corruzione di Mafia Capitale. Al centro c'è sempre una cooperativa rossa, la 29 giugno di Salvatore Buzzi: una piccola grande holding di servizi da 59 milioni di fatturato. Dalle pulizie alla nettezza urbana, dai centri di accoglienza ai campi rom. Gestita da un dominus in grado di far sedere al proprio tavolo il presidente della LegaCoop, Giuliano Poletti (oggi ministro), e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «I classici risolutori di problemi, che vanno a mette' 'e mani nella merda». È il braccio destro di Buzzi, l'ex Nar Massimo Carminati, parlando proprio delle Coop a introdurre quel vocabolo triviale che si ritroverà anche nelle intercettazioni napoletane su D'Alema. Nell'inchiesta milanese sugli appalti Expo, invece, si ritrova il colosso Manutencoop e anche un protagonista della prima Tangentopoli, il «compagno G.», ossia Primo Greganti, che aveva un contratto di consulenza con la Cmc di Ravenna. Cambiano città e temi, ma i protagonisti sono sempre le coop che, tra un «favore» e l'altro ai politici amici, riescono ad ottenere commesse pubbliche importanti. E anche il Mose di Venezia non è esente dal sistema. «Il 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle cooperative rosse», raccontò al pm Nordio un dirigente Italstat circa trent'anni fa. L'inchiesta dell'anno scorso ha dimostrato che l'impostazione non è cambiata molto. Le coop presenti nei consorzi che dovevano realizzare il sistema di barriere mobili «finanziavano» la politica per garantirsi la prosecuzione del sistema. E che dire dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati che impose la Ccc di Bologna per la riqualificazione dell'area Falck di Sesto San Giovanni? E poiché le coop rosse sono nate e cresciute all'interno della «famiglia» Pci-Pds-Ds-Pd, occorre interrogarsi sulla natura di questo rapporto. In alcuni casi, i risvolti penali sono spariti per prescrizione, causa ridefinizione del reato di concussione da parte del governo Monti (con incluso salvataggio delle grandi coop). Ma c'è anche un sostanzioso profilo politico: Cpl Concordia, 29 giugno, Cmb, Ccc, Manutencoop e compagnia cantante sono spesso comparse nell'elenco dei finanziatori (leciti, per carità) del partito: sia di quello tinto di rosso dei vecchi Bersani, D'Alema e Veltroni sia quello più sbiadito di Renzi. I Comuni di Roma, Venezia e Ischia, la Provincia di Milano, se guidati dal centrosinistra, avevano, tra gli altri, un interlocutore privilegiato che, a sua volta, compariva tra gli sponsor del partito. E quando si parla di grandi appalti, il «sistema» non trascura mai o quasi mai le Coop. Forse non c'è nemmeno corruzione o concussione, è solo familiarità.

«Il sistema criminale» della Coop rossa. Dopo il caso Incalza & Co, la corruzione scuote di nuovo il Paese. Questa volta a finire nel mirino degli inquirenti è la storica cooperativa modenese Cpl Concordia. Sotto accusa l'ex presidente, vari mananger e il sindaco Pd di Ischia, Giuseppe Ferrandino. E tra i contatti politici nelle carte spuntano i nomi di D'Alema e Bobo Craxi, scrivono Giovanni Tizian e Nello Trocchia su “L’Espresso” Ombre rosse sugli appalti in Campania. C'è la storica cooperativa emiliana, la Cpl Concordia, c'è il primo cittadino dell'isola verde, ci sono faccendieri e imprenditori e compaiono i nomi di politici di rango, come Massimo D'Alema, che non è indagato. Il gip lo definisce un «sistema criminale». Un altro. L'ennesimo. Dopo Incalza & Co: ecco il nuovo capitolo del romanzo criminale italiano. I vertici della cooperativa Cpl concordia - arrestati l'ex presidente Roberto Casari, l'ex socialista Francesco Simone (relazioni esterne), Nicola Verrini (area commerciale) - avevano messo in piedi un 'protocollo criminale'. Corrompevano funzionari e politici per accaparrarsi gli appalti nel settore della realizzazione di impianti energetici, in Campania, e emettevano false fatture per “pagare tangenti e altre utilità”. Non badavano a costi e la corruzione non si fermava a politici e funzionari: se serviva, a libro paga, finivano pure gli uomini del clan. Un meccanismo rodato. In provincia di Caserta, infatti, i vertici di Cpl si erano accordati anche con esponenti della criminalità organizzata e con i politici conniventi con gli ambienti camorristici. Tutto è ben definito nell'intercettazione tra Simone e Verrini quando distinguono i politici in due categorie, quelli che 'mettono le mani nella merda' e gli altri. Loro hanno fatto sempre affidamento sui primi. C'è un particolare inedito che l'Espresso ha scovato. L'inchiesta nasce dalle intercettazioni disposte nei confronti di Giuseppe Incarnato: «Dal monitoraggio degli ascolti emergevano – scrive il Gip – preziosi spunti investigativi». Incarnato, che non risulta indagato, è protagonista già di una indagine relativa all'indebitamento della clinica del Vaticano, l'Idi di Roma. Al telefono parla con Francesco Simone, personaggio chiave del sistema, discutendo di alcune gare bandite dalla regione Campania. Quella di oggi, considerando anche gli omissis, è solo la prima tappa dell'inchiesta sul sistema della Cpl Concordia.  Otto sono finiti in carcere, Simone Arcamone, responsabile tecnico del comune di Ischia, è finito ai domiciliari, per due è scattato l'obbligo di dimora. Tutto parte dall'esigenza di metanizzare l'isola. La storica cooperativa modenese, in cambio dei «favori» di Ferrandino per l'assegnazione dei lavori - avrebbe stipulato due «fittizie convenzioni» (ciascuna da 165 mila euro) con l'Hotel Le Querce di Ischia, di proprietà della famiglia del sindaco, ciascuna da 165 mila euro, a fronte della «messa a disposizione» di alcune stanze durante le stagioni estive 2013 e 2014 per i dipendenti della società modenese. Il sindaco, al secondo mandato, era diventato 'un factotum al soldo della Cpl”. E pensare che si definiva campione di legalità, che 'andava inculcata ai giovani', e aveva fondato anche un osservatorio coinvolgendo magistrati ed esponenti istituzionali. Oggi è in carcere con l'accusa di corruzione. Sarebbe lui l'articolazione politica di quello che viene definito dagli inquirenti «un vero e proprio sistema». Altre utilità ottenute dal sindaco sarebbero state l'assunzione del fratello, Massimo Ferrandino, come consulente della Cpl  e almeno un viaggio tutto pagato in Tunisia. Secondo l'accusa l'amministrazione avrebbe favorito l'azienda emiliana, che a sua volta avrebbe pagato tangenti grazie ai fondi neri costituiti in Tunisia con la società Tunita Sarl, riconducibile a Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Cpl Concordia, definito dagli inquirenti «personaggio chiave» della vicenda. Simone è un vecchio socialista di scuola craxiana. «Nasce socialista come segretario di Bobo Craxi che fu una delle prime persone che mi fece conoscere, e all'inizio Simone spese questa sua conoscenza per introdurre la Cpl in Tunisia, nazione nella quale i Craxi avevano forti entrature. Non so se Bobo Craxi sia mai stato legato da rapporti formali (consulenze, contratti ... ) con la Cpl» racconta ai pm un testimone. Un paragrafo dell'ordinanza è dedicato ai rapporti della Cpl Concordia con esponenti politici, in particolare con Massimo D'Alema che è estraneo all'indagine. Relazioni tra la storica cooperativa rossa e "il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl”. Simone parla al telefono con Nicola Verrini nel marzo 2014: “ Preferisco investire negli ItalianiEuropei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo”. E più avanti: “D'Alema mette le mani nella merda come ha fià fatto con noi ci ha dato delle cose”. Poi a proposito dei rapporti con D'Alema si evidenzia nell'ordinanza “l'acquisto da parte della Cpl di alcune centinaia di copie dell'ultimo libro del predetto politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un'azienda agricola riconducibile allo stesso D'Alema”. Il numero delle copie è pari a 500, le bottiglie, invece, duemila. Così come l'11 maggio la presentazione del libro di D'Alema ad Ischia viene curata dalla Cpl Concordia e si tiene nell'albergo 'Le Querce' della famiglia Ferrandino. Ci sono poi, nell'ultima parte del paragrafo, i finanziamenti erogati dalla Cpl alla fondazione Italianieuropei.  Vengono ritrovati nella perquisizione nella sede di Cpl Concordia, tre bonifici da 20 mila euro (periodo 2012-2014). Non solo i libri di D'Alema, la Cpl ha acquistato anche copie del libro dell'ex ministro Giulio Tremonti. Vengono acquisite due fatture rispettivamente di 7440 euro e di 4464 euro. Massimo D'Alema ha chiarito subito: «Rapporti trasparenti, non ho avuto alcun regalo e alcun beneficio personale. L'acquisto delle bottiglie di vino è stato fatturato e pagato con bonifici». Ferrandino è stato il primo dei non eletti alle utlime Europee. E se Andrea Cozzolino, eurodeputato, avesse vinto le primarie contro Vincenzo De Luca e poi le regionali avrebbe dovuto lasciare il posto proprio al sindaco di Ischia. Ferrandino in quella campagna elettorale si è dato molto da fare. Nelle intercettazioni, mentre parla di voti da raccogliere in Campania, fa riferimento anche a un fedelissimo di Matteo Renzi, Luca Lotti (sottosegretario alla presidenza del Consiglio), con il quale avrebbe dovuto parlare, senza specificarne il motivo.

Coop Adriatica: 60 mila copie del libro di Landini per far breccia nel cuore dei soci. Il segretario della Fiom ha scritto "I miei primi Primo Maggio" per spiegare il senso della festa ai bambini. E il colosso della grande distribuzione lo regalerà a tutti i clienti, scrive Natascia Ronchetti su “L’Espresso”. Maurizio Landini Sulla festa dei lavoratori sono davvero sulla stessa lunghezza d’onda. Anzi, il feeling è così forte da valere 60 mila copie. Il libro di Maurizio Landini e del giuslavorista Umberto Romagnoli, “I miei primi Primo Maggio”, sarà il cadeau di Coop Adriatica per i suoi soci e clienti. Decisione presa in prima persona dal presidente del colosso della grande distribuzione di area Legacoop, Adriano Turrini, che dell’ultima opera del segretario della Fiom vuole riempire gli scaffali dei suoi 195 punti vendita, tra Veneto, Emilia Romagna, Marche e Abruzzo, tra ipermercati, supermercati, minimarket. L’idea l’aveva in serbo da tempo. E l’ha realizzata senza badare a spese, visto che il libro – rivolto ai bambini e pubblicato dalla piccola casa editrice “L’io e il mondo di TJ”, in vendita dall’1 aprile in tutte le librerie della rete Coop a 5 euro – sarà regalato nella settimana che precede il Primo maggio a tutti coloro che entreranno in un negozio della rete commerciale, nelle quattro regioni, per fare la spesa. Fino ad esaurimento di tutte quelle 60mila copie già comprate e pronte per essere distribuite a tappeto. “Conosco da tempo Turrini – dice Landini -. Ci stimiamo, ma non c’è un vero e proprio legame di amicizia. Però io non mi occupo di distribuzione anche se penso che l’idea di donarlo alle famiglie con bimbi sia un’idea molto intelligente. E poi ogni merito va a chi ha pensato il libro: Iaia Pasquini e lo psichiatra Emilio Rebecchi. Sia chiaro che né io né la Fiom prendiamo un euro”. Quanto a Turrini, prima ancora di decidere di farne incetta per omaggiare i consumatori, ha firmato anche la prefazione. Riservandosi, in seconda battuta, di giocare in casa anche per la presentazione ufficiale del libro, a Bologna, il 23 aprile all’Ambasciatori: la libreria che nel centro della città, grazie alla partnership tra Coop Adriatica e Oscar Farinetti, ha proposto (con successo) il mix tra lettura e buona tavola. Sarà sempre Turrini, infatti, a introdurre la presentazione del libro. Una questione di affinità elettive. Anche se la politica, giura, in questo caso non c’entra nulla. Tutto si ferma al tema del lavoro: “Per molti aspetti non condivido le opinioni e le proposte di Landini – spiega Turrini -. Ma sui valori del Primo maggio e sul lavoro come diritto delle persone, fondamentale per la dignità e la vita di ciascuno, abbiamo sicuramente un punto di vista comune”. Se la casa editrice – specializzata in libri per l’infanzia – è davvero micro altrettanto non si può dire dello sponsor, visto il peso di Coop Adriatica. Un big da oltre due miliardi di fatturato capace di spalancare a Landini le porte della cooperazione nella sua roccaforte. E di aiutarlo a far breccia nel cuore di quasi tre milioni di soci.

TANGENTOPOLI ED IL POTERE DELLE FONDAZIONI.

Tangentopoli di Ischia: il vero potere adesso passa per le Fondazioni. Da mafia Capitale allo scandalo Penati, tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscono per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader di tutti gli schieramenti: da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Mafia Capitale, lo scandalo Penati e adesso anche la tangentopoli ischitana. Non è un caso se tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscano per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader e persino per i gregari di tutti gli schieramenti, da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno. E, di fatto, oggi questi organismi hanno rimpiazzato le vecchie correnti. «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha detto il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone, il primo a porre la questione in un'intervista a “l'Espresso” nello scorso dicembre. L'indagine sulle mazzette a Ischia accende i riflettori sulla prima di queste creature, ItalianiEuropei, nata nel 1998 per volontà dell'allora premier Massimo D'Alema. Al di fuori della rilevanza penale, l'invito dell'uomo della coop Concordia a «investire in ItalianiEuropei» si traduce in tre bonifici da 20 mila euro ciascuno. Soldi motivati nelle intercettazioni dal loquace Francesco Simone, perché «D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi... ci ha dato delle cose». Sessantamila euro sono poca cosa, forse, rispetto alle somme che girano nei circuiti del malaffare. E un versamento attraverso bonifici sembra rispettare tutte le forme della legalità. Ma quanti altri contributi ha ricevuto ItalianiEuropei? Impossibile saperlo. «Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ha spiegato la portavoce di D'Alema Daniela Reggiani a Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi, autori tre mesi fa di un'inchiesta de “l'Espresso” sulla questione: «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». Correttezza verso chi paga, non certo verso i cittadini. Questo è il cuore del problema. Fondazioni e associazioni simili sono lo snodo della vita politica ma sfuggono a qualunque controllo. Salvo rare eccezioni, non c'è trasparenza: non devono spiegare chi le finanzia, né come usano le risorse. Le regole contabili sono minime, senza nessuno di quegli obblighi a cui devono sottostare i finanziamenti ai partiti e ai parlamentari. Eppure si tratta di organismi con sedi prestigiose e uffici nel centro storico di Roma, che editano riviste patinate e organizzano convegni di alto livello. Ad esempio «ItalianiEuropei», come scrisse Marco Damilano su “l'Espresso”, ha sede in piazza Farnese, di fronte all'ambasciata francese: nel 2012 aveva un patrimonio di un milione e 600 mila euro, una rivista mensile da appena mille abbonati e da 582 mila euro di pubblicità, a consultare il bilancio della società editrice Solaris (tra gli inserzionisti: Eni, Enel, British American Tobacco, Finmeccanica, Trenitalia, Monte dei Paschi). Già l'indagine romana sulla ragnatela di Massimo Carminati aveva evidenziato il fiume di cash che affluiva nei conti di diverse fondazioni. C'era Gianni Alemanno con la sua “Italia Futura”, sulla quale è stata dirottata gran parte dei 285 mila euro pagati da Salvatore Buzzi, reuccio delle cooperative romane e braccio destro dell'ultimo re criminale della capitale. E c'era persino l'associazione intitolata alla memoria di Alcide De Gasperi a cui vanno 30 mila euro: è presieduta da Angelino Alfano, a cui invano “l'Espresso” ha chiesto lumi su tutti gli sponsor. Ma non sono solo i big a usare questi circoli come bancomat. Luca Odevaine, il funzionario che arbitrava lo smistamento dei profughi diventato l'ultimo grande business, nelle intercettazioni sembra alterare le attività di “Integra Azione” a suo piacimento, sfruttandone i bilanci per mascherare i quattrini ottenuti dalla rete di Carminati. Una ricerca dell'università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti ne ha censite ben 105: il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Negli anni duemila ogni politico di spicco ne ha creata una. E sono protagoniste sempre più frequenti delle cronache giudiziarie. Dalle vicende di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, sono spuntati i fondi a “Centro per il futuro sostenibile”, sigla con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta, che secondo l'Ansa sarebbe indagato per i rincari della Metro C, notizia da lui smentita. Invece la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Altero Matteoli, ex ministro sotto inchiesta per la tangentopoli del Mose, è stata chiamata in causa nello scandalo Enac. La trasparenza, quando c'è, è sempre parziale. “Open” di Matteo Renzi indica parte degli sponsor, ma non fa luce su chi partecipa a caro prezzo alle cene elettorali, né all'impiego delle disponibilità. «A livello di percezione questa situazione ha raggiunto limiti di indecenza», ha dichiarato Cantone, chiedendo una legge che stabilisca criteri rigorosi anche per questo settore. Perché ormai il merchandising usato per finanziare la politica sembra senza confini. La cooperativa Concordia compra duemila bottiglie di vino dalle cantine di D'Alema e si assicura cinquecento copie del suo saggio “Non solo Euro” per 4800 euro. Ma, in omaggio alla trasversalità imperante, ne paga quasi 12 mila per due diverse opere letterarie di Giulio Tremonti. Un investimento in cultura che forse può spiegare la frenesia editoriale di tanti politici.

Il trucchetto delle fondazioni per nascondere le mazzette. I think tank legati ai politici non sono tenuti a dichiarare chi li finanzia o a depositare un bilancio. Ormai è boom di "pensatoi": sono oltre 100 e spesso finiscono nelle inchieste, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. L'ultima stima ne conta più di cento, 105 per la precisione. Per tutti i gusti, da destra a sinistra, da leader a presunti tali, nessuno si fa mancare una fondazione. Se lievitano a vista d'occhio è perché offrono diversi vantaggi, soprattutto in tempi di magra per il finanziamento pubblico ai partiti. Le fondazioni ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - ma il grosso delle risorse arriva da tasche private, ed è qui il principale vantaggio dei think tank : non sono tenute a dichiarare chi le finanzia, neppure a depositare un bilancio, tutto al riparo da sguardi indiscreti. «Non siamo neppure obbligati a tenere una contabilità ufficiale delle erogazioni che riceviamo» racconta il presidente di un'importante fondazione politica, legata ad un ex ministro. Così negli ultimi anni il flusso di denaro si è spostato dalle segreterie di partito alle segrete stanze delle fondazioni, che puntualmente spuntano in miriadi di inchieste per corruzione, da Mafia capitale con la «Nuova Italia» di Alemanno, fino a quella sulla coop Cpl. Il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone ha segnalato ancora il problema: «È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni». In questo campo Massimo D'Alema è un precursore, perché la sua fondazione Italianieuropei , prestigiosa sede in piazza Farnese a Roma, festeggiava già nel 2008 i dieci anni di vita. Il volume celebrativo edito per l'occasione riporta anche un po' di cifre e di nomi. Circa 350mila euro di donazioni, arrivati da big come la Glaxo, multinazionali del tabacco come Philip Morris, aziende di elettrodomestici come Merloni, e poi Pirelli, Ericcson, e una serie di coop: Coop Estense, Legacoop Imola, Lega Nazionale Coop e Mutue, Lega Ligure delle Coop... Chi la finanzi adesso non si sa (anche se basta comprare la rivista bimestrale e vedere chi sono gli inserzionisti di pubblicità, a botte di decine di migliaia di euro, tutte grosse aziende con tanta voglia di buone relazioni con la politica), perché alla richiesta la fondazione dalemiana risponde che i nomi non si fanno, per la privacy («Dai finanziamenti si potrebbe desumere l'orientamento politico di chi ha elargito il contributo» ha spiegato lo stesso D'Alema). Privacy che altrove, come in Germania, dove le fondazioni sono ampiamente finanziate dallo Stato, non esiste, perché si devono seguire precise e severe regole di trasparenza. Anche a Bruxelles è così, e D'Alema lo sa bene, visto che presiede un'altra fondazione, la Foundation for European Progressive Studies (espressione del Partito socialista europeo di cui fa parte il Pd), che nell'ultimo hanno si è presa 3 milioni di euro di fondi dalla Ue. Dietro le carriere politiche c'è spesso l'attivismo di una fondazione. Tosi è arrivato alla rottura con la Lega proprio per la sua fondazione «Ricostruiamo il Paese», 57 sedi in tutta Italia, finanziatori ignoti. Enrico Letta, appena diventato premier, ha chiuso la sua VeDrò, appena visitata dalla Guardia di finanza, ma l'associazione politica è servita a preparare la strada di premier di larghe intese (tutti invitati a Vedrò). Quella di Renzi, prima la Big Bang e poi la Fondazione Open, guidate dal braccio destro Carrai, sono stati i motori della repentina ascesa del sindaco di Firenze, concentrando finanziamenti, sponsor, amicizie. Renzi, in piena guerra di primarie Pd (coi bersaniani che lo accusavano di ricevere soldi persino da Usa e Israele...), ha pubblicato una lista di finanziatori. Ma sugli sponsor di Renzi e sui partecipanti alle cene di fund raising resta un'ampia zona di mistero. Come in tutte le altre. Sarà per questo che piacciono tanto?

Fondazioni, così i politici ora fanno cassa. I finanziamenti ai leader piccoli e grandi ora passano attraverso questi enti, che possono operare senza alcun controllo. Ecco come la fine dei fondi pubblici cambia il rapporto tra il Parlamento e le lobby, scrivono Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Il palazzo delle fontane all'Eur di Roma illuminato per la cena del Pd Doveva essere un anticipo di futuro. Il partito all’americana. Il fund raising, la raccolta fondi, limpida e trasparente come un ruscello di montagna. Venerdì 7 novembre la prima cena di auto-finanziamento del Pd a Roma (dopo quella di Milano) era stata un successone. Ottocento tavoli, mille euro a testa, il presidente del Consiglio Matteo Renzi festeggiato come uno sposo. «Esperimento riuscito, da ripetere». Il mondo nuovo della politica finanziata dai privati. Che si è rivelato invece, tre settimane dopo, il solito mondo di mezzo. Il confine sottile e buio che separa la vetrina del potere dalle bande criminali scoperte dall’operazione Mafia Criminale. Alla cena con il premier c’era anche Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno”, arrestato con l’accusa di essere il cassiere della banda romana guidata da “Er Cecato”, come ha raccontato il suo vice Claudio Bolla: «Il tavolo alla cena di Renzi è costato 10 mila euro, ha pagato tutto la cooperativa e, tra i nostri soci, c’è anche Massimo Carminati». Si realizza la profezia del boss ex Nar intercettato: «Tutto è possibile, che ne so, che un domani io posso stare a cena con Berlusconi». O con il suo giovane successore a Palazzo Chigi, ignaro. «I nomi si vedono. Sono tutti pubblici e registrati. Chiedete al tesoriere del partito Francesco Bonifazi», ha garantito il premier in tv il 3 dicembre. A due settimane di distanza, però, la lista degli invitati e dei contributi non è saltata fuori. Nell’attesa, l’inchiesta “Mafia Capitale” e le regalie dei presunti criminali alla politica arrivano proprio mentre i leader provano faticosamente a costruire un nuovo modello di approvvigionamento, dopo che l’abolizione del finanziamento pubblico (che entrerà a regime nel 2017) sta già dissanguando le casse dei partiti. Dunque, l’antica domanda resta più attuale che mai. Chi finanzia la politica? E perché? «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha denunciato una settimana fa a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone. «Le fondazioni ottengono, spesso attraverso altre mediazioni, i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto. Oggi sono fuori da ogni possibilità di controllo». Le fondazioni politiche sono un punto di intersezione tra interessi pubblici e privati, legali e inconfessabili, di lobby e di cordate che si incrociano e si incontrano, senza nessun obbligo di trasparenza dei bilanci e dei finanziatori. Una terra di mezzo, appunto. E sono il fantasma che si aggira tra le pagine dell’inchiesta su “Mafia Capitale”. Spulciando tra le migliaia di documenti e intercettazioni si scopre, infatti, che gli enti finiti nell’ordinanza (alcuni solo di striscio) sono ben cinque. Come il magistrato Cantone, anche l’ex Nar Carminati e il compare Buzzi avevano capito che i think-tank possono essere scatole vuote. Da riempire di soldi e tangenti. Matteo Renzi alla cena di finanziamento del Pd Anche se dei pensosi convegni sull’economia e delle conferenze sul Mediterraneo ai boss fregava nulla, non è un caso che nell’ordinanza d’arresto la parola “fondazione” venga pronunciata dagli indagati 45 volte. Sono i soggetti giuridici spuntati come funghi negli ultimi dieci anni, enti dove la trasparenza è un accessorio e il lobbismo spinto è l’unico, vero core business. Pronti a degenerare in una macchina per corrompere dirigenti pubblici, ungere i facilitatori, riciclare e fare ottimi affari. Dal think-tank all’americana al think-“tanke” all’amatriciana. “Il Tanke” era il soprannome che “Er Cecato” dava a Franco Panzironi, in testa all’elenco degli arrestati, ex amministratore delegato dell’Ama, la municipalizzata romana dei rifiuti, e segretario della fondazione di Gianni Alemanno “Nuova Italia”. La onlus che il “Tanke” usava come una sorta di bancomat. Secondo i pm, infatti, i padrini di “Mafia Capitale” avrebbero finanziato il club di Gianni per almeno tre anni, da gennaio 2012 allo scorso settembre, versando centinaia di migliaia di euro: al pensatoio dell’ex sindaco di Roma, tra bonifici e bustarelle, secondo i pm sarebbero arrivati dalle cooperative dei boss contributi per 265 mila euro. In cambio, l’organizzazione avrebbe ottenuto appalti pubblici e utilità di ogni tipo. «Quello è ’na cambiale, l’ho messo a 15 mila al mese», ride Buzzi al telefono, facendo riferimento all’affitto della sede della centralissima via San Lorenzo in Lucina, nello stesso palazzo in cui c’è la sede nazionale di Forza Italia. Panzironi dai presunti mafiosi otteneva di tutto e di più: da orologi di lusso alla «rasatura del prato di zone di sua proprietà». Ma il “Tanke” era direttore operativo anche di un’altra prestigiosa associazione, la “Fondazione per la pace e la cooperazione internazionale Alcide De Gasperi”, presieduta per decenni da Giulio Andreotti, con ottime entrature in Vaticano e nella finanza bianca (tra i consiglieri spicca Giovanni Bazoli accanto a Vito Bonsignore, condannato per corruzione). Buzzi gira 30 mila euro anche a loro, e incontra Panzironi negli eleganti uffici di Via Gregoriana. Al tempo l’ente era presieduto dall’ex berlusconiano Franco Frattini, ma dal luglio 2013 è stato sostituito dal numero uno del Viminale, Alfano. Anche sul sito della “De Gasperi”, come su quello di “Nuova Italia” manco a dirlo, non c’è alcuna sezione “trasparenza”. Abbiamo provato a contattare per giorni il segretario generale Lorenzo Malagola per chiedere lumi sui finanziatori privati, ma non ci ha mai richiamato. Anche Alfano non ha voluto rispondere alle nostre domande. «Sottolineiamo però», tiene a far sapere il suo staff, «che la fondazione non è di un politico, esiste da trent’anni, e che presidente onorario è la figlia di De Gasperi». Andiamo avanti. Se nel paragrafo dell’ordinanza dedicata alle «frequentazioni di Carminati» spunta Erasmo Cinque, costruttore coinvolto nelle inchieste sul Mose e sull’Expo nonché autorevole membro del cda della “Fondazione della liberà per il Bene comune” dell’amico ex ministro di An (oggi in Forza Italia) Altero Matteoli, un uomo del “Cecato” aveva messo piede anche in altre due associazioni, stavolta di tendenza democrat. Stefano Bravo, per gli inquirenti lo “spallone” del clan, il commercialista che portava i denari oltreconfine, è stato tra i promotori della “Human Foundation”, una creatura dell’ex ministro Pd Giovanna Melandri. Ma era - ha scoperto “l’Espresso” - anche presidente del collegio dei revisori della Fondazione “Integra Azione”, fondata da Legambiente. L’ente, che ha un logo profetico in cui una mano rossa ne stringe una nera, era presieduto da Luca Odevaine (l’ex vice-capo di gabinetto di Walter Veltroni al soldo di Buzzi finito in galera) e da Francesco Ferrante, ex senatore del Pd. «È un paradosso, noi di Human foundation siamo nati proprio perché crediamo nella trasparenza assoluta di stampo anglosassone», spiega furiosa la Melandri, che solo pochi giorni fa ha scoperto che uno dei fondatori del suo circolo (nell’elenco spiccano anche il viceministro all’Economia Carlo Calenda e il filosofo Sebastiano Maffettone) è considerato dai pm uno dei complici dell’ex terrorista nero. «Noi siamo parte lesa. Se il dottor Bravo sarà condannato ammetteremo di aver sbagliato a scegliere un collaboratore, ma con “Mafia Capitale” non abbiamo nulla a che spartire». È un fatto che la Human sia tra le pochissime onlus a indicare sul sito le aziende che sponsorizzano i suoi progetti: si va da Unicredit e Telecom, passando per Banca Mediolanum a Sorgenia, che hanno versato liberalità da un minimo di 10 mila (contributore “bronze”) a un massimo di 50 mila euro l’anno (contributore “platinum”). «Solo Vodafone ha messo di più per un master alla Cattolica», chiosa la Melandri, che sostiene l’apoliticità della sua creatura. Presentata al mondo però con una lettera di Giorgio Napolitano, l’intervento dell’allora premier Mario Monti, i saluti dell’allora ad Enel Fulvio Conti e le conclusioni di Giuliano Amato. Il commercialista oggi indagato lavorava anche in un’altra fondazione di sinistra, “Integra Azione”, un ente creato nel 2010 per favorire «l’integrazione tra i popoli». «Abbiamo fatto progetti di cui sono orgoglioso, con fondi europei, all’ospedale Pertini di Roma, la Coca-Cola ha contribuito per un progetto a Rosarno», interviene Ferrante, che l’anno scorso ha lanciato il nuovo partito ambientalista “Green Italia”. «Il centro per gli immigrati di Mineo, in Sicilia? È vero, nelle intercettazioni ne parlavano Odevaine e Buzzi, ma “Integra” non c’entra nulla, era un affare personale di Luca». Comunque, la onlus ha organizzato dei corsi per mediatori culturali, proprio per il centro vicino Catania che Buzzi sognava di trasformare in un nuovo business della banda. Con l’abolizione del finanziamento pubblico e con la ricerca di sponsor privati che potranno contribuire al massimo per 100 mila euro, le fondazioni avranno un peso sempre più rilevante nella politica. Come avviene in Francia, Usa, Gran Bretagna. Ma se lì i controlli sono stringenti (in Germania, ad esempio, le fondazioni sono una per partito, finanziate quasi interamente dallo Stato, controllate dalla Corte dei conti e obbligate alla pubblicità e alla trasparenza dei bilanci) il modello italiano è più simile al far west. Prendiamo la più famosa delle fondazioni politiche, a lungo considerata la più influente di tutte, la fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema, con elegante sede in piazza Farnese a Roma, di fronte all’ambasciata francese. Se chiedi la lista dei finanziatori rispondono a muso duro che loro, finché la legge non cambierà, non divulgheranno un bel nulla. «Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ragiona Daniela Reggiani, portavoce del fondatore del pensatoio. «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». In linea con quanto affermato dallo stesso D’Alema nel 2011: «Dai finanziamenti si potrebbe desumere l’orientamento di chi ha elargito il contributo». L’ex premier lo dichiarò tre anni fa, quando la sua fondazione finì nella bufera per il coinvolgimento di Vincenzo Morichini nello scandalo degli appalti truccati dell’Enac (l’imprenditore amico di D’Alema era il procacciatore di finanziamenti della fondazione, ha patteggiato un anno e sei mesi per corruzione e frode fiscale). Tra le onlus vicine al centro-sinistra non sempre la trasparenza è stata considerata una virtù. Nel 2012 l’allora tesoriere della Margherita Luigi Lusi fu arrestato per appropriazione indebita dei rimborsi elettorali del suo partito. Poco dopo un’inchiesta de “l’Espresso” scoprì che Lusi, nel 2009, aveva girato oltre un milione di euro al “Centro per il futuro sostenibile”, fondazione con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta. Lusi aveva bonificato il denaro quando Rutelli aveva già fondato un altro partito, l’Api. Lo stesso “Cfs”, poi, versò decine di migliaia di euro alla nuova formazione politica: nessuno di questi contributi fu mai dichiarato, né dall’Api né da Rutelli. Due vicende con gli stessi protagonisti, ma che corrono separate. Per il furto dei rimborsi elettorali Lusi è stato l’unico condannato. Anche la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Matteoli è stata tirata in ballo nella vicenda delle tangenti Enac. L’ex ministro delle Infrastrutture ha sempre smentito qualsiasi coinvolgimento, ma oggi non può certo negare di conoscere bene Erasmo Cinque, l’imprenditore a cui Carminati ha fatto visita nel maggio del 2013. I nomi di Matteoli e di Cinque - che è nel cda della fondazione con l’ex deputato Marcello De Angelis, ex di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 270bis, riferimento all’articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo - sono finiti anche nelle inchieste sul Mose e dell’Expo. Il boom delle fondazioni è stato raggiunto nel 2012-2013, quando la crisi dei partiti ha toccato l’apice. Secondo una recente ricerca dell’università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti sono oggi 105, in crescita esponenziale: erano appena 33 nel 1993, anno di passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Nell’ultimo decennio, in pratica, ognuno si è fatto la sua, con nomi immaginifici (Claudio Scajola con la “Cristoforo Colombo”) o banalotti (“Fare Futuro”, “Futuro Sostenibile”, “Costruiamo il Futuro”). L’ultima arrivata è “Ricostruire il Paese” del sindaco di Verona Flavio Tosi, leghista in rotta di collisione con Matteo Salvini: tesserarsi costa dieci euro, nell’agenda degli eventi dell’ultimo mese c’è la partecipazione di Tosi a “Un giorno da pecora” e a “Virus”, i comitati locali si chiamano “fari” (accendiamo un faro...) ma sui donatori non c’è illuminazione. Così come nulla si sa di preciso su “Costruiamo il futuro”, la fondazione del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, oggi gettonatissima, perché il destino degli enti e le loro fortune economiche segue la parabola dei loro promotori. Vice-presidente è l’ingegnere valtellinese Lino Iemi, legato alla Compagnia delle Opere, immobiliarista con il pallino dei centri commerciali e degli shopping center, edificatore di una controversa città-mercato in Sardegna. Chi meglio di lui, per costruire il futuro? L’unica associazione che ha messo on line i bilanci dettagliati e l’elenco dei suoi finanziatori è anche la più in voga del momento. La fondazione “Open”, un tempo chiamata “Big Bang”, organizza gli incontri annuali della stazione Leopolda e fa riferimento diretto al premier Renzi. Tra i donatori ci sono i deputati e i senatori renziani al gran completo, compreso il tesoriere del Pd Bonifazi che ha elargito 12 mila euro. Ma anche l’ex presidente della Fiat Paolo Fresco (25 mila euro), l’ex presidente della cassa di risparmio di Firenze Jacopo Mazzei (10 mila), il finanziere Davide Serra (125 mila euro) di casa a Palazzo Chigi (era a pranzo da Renzi una settimana fa). Tutto regolare. Eppure sulla trasparenza resta ancora molto da fare. In occasione dell’ultima Leopolda Open, con una nota ufficiale, ha fatto sapere che in due anni di vita ha raccolto due milioni in donazioni, e che ogni kermesse costa circa 300 mila euro: il resto è stato speso «in due elezioni primarie, il sito della Fondazione e tantissimi eventi e incontri socio-culturali in tutta Italia», di cui però non si hanno evidenze. Incuriosisce, inoltre, che Renzi da un lato come segretario del Pd partecipi alle cene di auto-finanziamento per il partito e dall’altro promuova una fondazione privata affidata ai suoi fedelissimi. Ancor più curioso che il board sia composto da sole quattro persone: Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e il presidente Alberto Bianchi. Rispettivamente il ministro delle Riforme, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il più fedele consigliere del premier e l’avvocato di Matteo, presidente di Open nominato a primavera anche membro del cda dell’Enel. Le fondazioni, dicono gli esperti, saranno la prossima frontiera della politica “all’americana”. In realtà le onlus hanno preso la solita declinazione: all’italiana. Nella ricerca della Sapienza emerge che a fare da padrone nelle sponsorizzazioni sono i più importanti enti pubblici e le principali banche: Eni, Enel, Finmeccanica, Autostrade, Telecom, Edison, Unicredit, Intesa-SanPaolo, Ferrovie. Le nove sorelle che fanno girare l’economia italiana. Talmente inserite nel meccanismo che Enrico Letta, da premier, si sentì in dovere di sciogliere la sua associazione VeDrò per non finire stritolato in un circuito di pressioni e di lobbying. Molti ex VeDrò sono però confluiti tra i renziani della Leopolda: i deputati Ernesto Carbone e Lorenza Bonaccorsi, Simonetta Giordani, passata da Autostrade al governo Letta come sottosegretaria alla Cultura e infine nominata da Renzi nel cda di Ferrovie. Nei prossimi anni, quando il finanziamento pubblico sarà interamente cancellato, i soldi arriveranno da lì. Imprenditori ed enti pubblici che foraggiano fondazioni, guidate da politici che decidono gli aiuti alle aziende e nominano i vertici delle stesse partecipate. Un bel circuito di interessi, lasciamo perdere il conflitto, roba fuori moda. I think tank sono destinati a evolversi: da struttura personale a disposizione del capocorrente di turno a società di consulenza da cui attingere per personale, risorse, classe dirigente. Un passo ulteriore verso la destrutturazione della politica. Perché dopo la grande torta del finanziamento pubblico, in assenza di trasparenza e certezza su chi versa soldi alle fondazioni, non finiremo in una nuova casa di cristallo, come si auguravano in tanti, ma in un territorio ancora più oscuro. E pericoloso.

La selva oscura delle fondazioni e quel controllo che non c’è, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Che una cooperativa finanzi una fondazione politica, come sembrava essere nei progetti della Cpl Concordia finita nell’inchiesta sulle mazzette al sindaco pd di Ischia, non è affatto uno scandalo. Nelle democrazie occidentali è questa la forma con cui i privati contribuiscono anche alla formazione della classe dirigente dei partiti. Ma in piena trasparenza. Proprio quella che invece in Italia manca: alimentando il sospetto che la funzione principale di queste fondazioni, moltiplicatesi in modo esponenziale negli ultimi anni proprio mentre l’opinione pubblica premeva per imporre ai partiti regole più stringenti, sia decisamente più prosaica. Ai magistrati che indagano su Mafia capitale Franco Panzironi, ex segretario generale della Nuova Italia di Gianni Alemanno e insieme collaboratore della Alcide De Gasperi di Franco Frattini, ha raccontato che le fondazioni politiche sono un comodo salvadanaio dove gli imprenditori mettono soldi in cambio dell’accesso a un sistema di relazioni. Lungi da chi scrive il voler fare di tutta l’erba un fascio. Ma il problema esiste, e lo sanno bene i partiti. Che però di metterci mano seriamente non ne hanno alcuna intenzione. Nel 2012, mentre si discuteva alla Camera il taglio dei rimborsi elettorali, un emendamento pensato da Linda Lanzillotta e Salvatore Vassallo che mirava a imporre le stesse regole di trasparenza previste per i partiti anche alle fondazioni, fu impallinato da destra e da sinistra. Due anni più tardi, nella legge sulla presunta abolizione del finanziamento pubblico, ecco spuntare finalmente quell’obbligo. Peccato che sia inapplicabile. La norma di cui parliamo dice che sono soggette agli obblighi di trasparenza validi per i partiti le fondazioni i cui «organi direttivi» siano nominati «in tutto o in parte» dai partiti medesimi. Neppure una di quelle esistenti ricade in questa fattispecie. E siccome chi l’ha scritta non ha l’anello al naso, la norma aggiunge che le regole di trasparenza, (per esempio la pubblicazione online di tutti i contributi di entità superiore a 5.000 euro) si applicano anche a quelle fondazioni che destinano più del 10 per cento dei proventi al finanziamento di attività politiche. Si tratta soltanto di stabilire come e chi controlla che quel limite non venga superato. Ma di questo non si fa cenno. Fatta la legge, non si deve neppure fare la fatica di trovare l’inganno. Quante fondazioni resterebbero in vita se le regole della trasparenza venissero correttamente applicate e fatte rispettare, non possiamo dirlo. Ma sul fatto che sia ormai necessario intervenire senza furbizie ci sono pochi dubbi. Lo sostiene con fermezza anche il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che per questo si è beccato una punzecchiatura dalemiana dalla Velina rossa con l’invito a far pubblicare tutti i contributi alle fondazioni,«anche a quelle di Firenze». Bersaglio: Matteo Renzi. Ma forse Pasquale Laurito, autore della Velina, non aveva consultato il sito della renziana Fondazione Open. Avrebbe trovato una lunga lista di finanziatori. Dai 175 mila euro del patron del fondo Algebris Davide Serra ai 50 mila dell’ex presidente Fiat Paolo Fresco e della sua consorte Marie Edmée Jacqueline, ai 60 mila della Isvafim di Alfredo Romeo, ai 62 mila del finanziere molisano Vincenzo Manes... Va però detto che non compaiano i nomi di chi non ha dato l’assenso alla pubblicazione. Come se la privacy possa valere per i finanziamenti a una fondazione che fa riferimento al premier e con un consiglio direttivo nel quale accanto al suo amico del cuore Marco Carrai ci sono il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, il sottosegretario alla presidenza Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazione dell’Enel. Nessuna lista abbiamo trovato invece nel sito della Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema, di cui Claudio Gatti e Ferruccio Sansa ricordano nel loro libro «Il sottobosco» alcuni finanziatori: gli imprenditori Alfio Marchini e Claudio Cavazza, i gruppi Pirelli e Asea Brown Boveri, nonché le immancabili Coop, queste ultime per 103.291 euro. Per la sinistra Italianieuropei è stata un formidabile rompighiaccio. Da allora è stato un fiorire di fondazioni, associazioni, centri studi, think tank. Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco hanno messo su Nuova economia nuova società. Anna Finocchiaro la Fondazione Cloe. Walter Veltroni la scuola di politica Democratica, che ha cambiato nome in Idemlab. Impossibile poi non citare Astrid di Franco Bassanini e Glocus di Linda Lanzillotta. Come pure le associazioni Riformismo e solidarietà dell’attuale sottosegretario (all’Economia) Pier Paolo Baretta e Libertà Eguale del viceministro (stesso ministero) Enrico Morando. E il network trasversale di Enrico Letta e Angelino Alfano, Vedrò. La destra non è stata certo da meno. Ecco allora la Free Foundation di Renato Brunetta. Poi la già citata Nuova Italia di Alemanno, adesso orfana di quel Panzironi finito nella bufera giudiziaria romana: al suo posto Claudio Ferrazza, avvocato dell’ex sindaco di Roma. Orfana del medesimo soggetto pure la Alcide De Gasperi di Frattini, dove Panzironi, ha raccontato l’ex ministro degli Esteri, era arrivato dietro consiglio di Alessandro Falez, imprenditore della sanità con solidissimi rapporti vaticani. Quindi la Cristoforo Colombo per le Libertà di Claudio Scajola, con un comitato politico presieduto dall’ex ministro Mario Baccini: il quale a sua volta ha una propria fondazione, la Foedus. Ecco poi la Fondazione della Libertà per il Bene Comune: presidente l’ex ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, al suo fianco il costruttore suo braccio destro Erasmo Cinque insieme a Roberto Serrentino e Giovan Battista Papello, entrambi già piazzati all’Anas dalla destra. Ecco ancora Italia Protagonista di Maurizio Gasparri. E Riformismo e Libertà di Fabrizio Cicchitto. Mentre si chiama Europa e civiltà la fondazione di cui è presidente onorario Roberto Formigoni. Per non parlare di Magna Carta di Gaetano Quagliariello, che ha il merito di esporre gli stemmi (ma non i contributi) dei soci fondatori, fra cui Erg e Mediaset: mentre non troviamo più l’elenco dei soci aderenti, dove tre anni fa figurava anche la holding pubblica Finmeccanica. Esiste ancora il Movimento delle Libertà dell’ex parlamentare di Forza Italia Massimo Romagnoli. Come Città Nuove, embrione di quello che poteva essere il partito della ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini. E sopravvive pure Costruiamo il futuro, forse un tantino abbacchiata dopo quello che è successo al suo presidente (autosospeso) Maurizio Lupi.

TANGENTOPOLI E LE CONSULENZE TRUCCATE.

"Mose, un miliardo bruciato in tangenti e consulenze". L'inchiesta di Venezia. Il costruttore Baita: un euro su cinque sprecato per le spese extra. Le risorse dissipate anche in assunzioni di favore e studi tecnici inutili per realizzare l'opera, scrivono Giuseppe Caporale e Corrado Zunino su “La Repubblica”. C'è un miliardo di troppo nel prezzo del Mose, cantiere costato ad oggi 5,6 miliardi pubblici. Quel miliardo di troppo lo ha evidenziato il più importante tra i costruttori, Piergiorgio Baita che ha guidato la Mantovani spa fino al suo arresto, 28 febbraio 2013. Quel miliardo non è servito a far crescere la mastodontica opera idraulica, ad assumere i progettisti più qualificati, a pagare macchinari, bonifiche, straordinari. È servito solo ad alimentare il Consorzio Nuova Venezia, appaltatore unico della diga da trenta chilometri. Fin qui la magistratura ha certificato 22,5 milioni di tangenti consegnate dal consorzio a sindaci e presidenti di Regione, magistrati delle acque e della Corte dei conti, consiglieri regionali, finanzieri, spioni. A questo bottino minimo (il 4 per mille del valore dell'opera, ben al di sotto della media delle mazzette italiane) vanno però aggiunti i costi delle "utilità" certificate: le ville ristrutturate a carico della pubblica comunità, i soggiorni in grand hotel di Venezia e Cortina, i voli privati, le vacanze in Toscana pagate alla famiglia di Paolo Emilio Signorini, funzionario della Presidenza del Consiglio. E, ancora, i contratti a progetto offerti nelle "aziende Mose" a figli e fratelli di magistrati, le molte assunzioni precisamente inutili: la figlia di Paolo Splendore, direttore dei servizi segreti del Triveneto, la figlia di Giovanni Artico, importante funzionario della Regione Veneto, quindi Giancarlo Ruscitti, ex funzionario della sanità utile per ottenere l'appalto dell'ospedale di Padova. Il conto del malaffare s'impenna, infine, contabilizzando le consulenze inutili, gli studi idrogeologici commissionati e neppure letti. "Tutti insieme noi costruttori abbiamo girato al consorzio cento milioni l'anno", dice l'ingegner Baita, maggior azionista Cnv da undici stagioni. Fanno un miliardo, qualcosa in più, lasciando fuori i venti precedenti anni di vita del raggruppamento Nuova Venezia. È una tangente globale pari al 20 per cento dell'opera: i conti iniziano a tornare. Nelle 437 pagine delle richieste di arresto della procura veneziana si trovano molte conferme a quella cifra sprecata, un miliardo di euro, in illecite "pubbliche relazioni". Le regole della tangente collettiva - i costruttori dovevano fare una colletta ogni volta che veniva richiesto - le impose il capo supremo Giovanni Mazzacurati quando prese in mano le redini del consorzio monopolista in Laguna. Nel 2002. "La mia azienda aveva appena rilevato le quote del Consorzio appartenute a Impregilo, un investimento da 70 milioni che ci trasformava negli azionisti più importanti", ha messo a verbale l'amministratore della Mantovani, Piergiorgio Baita. "L'ingegner Mazzacurati mi convocò e, in sede, mi precisò una serie di regole non scritte che vigevano tra i soci. La più importante era questa: dovevamo impegnarci tutti a retrocedere al consorzio, in nero, le somme concordate". Il secondo obbligo era che "nessuna delle singole imprese, salvo ordine supremo, poteva permettersi di pagare direttamente politici e funzionari: le tangenti dovevano sempre passare attraverso il consorzio". Mazzacurati, che pretendeva di essere l'unico a gestire i rapporti politici più alti - incontrò diverse volte a Roma Silvio Berlusconi e Gianni Letta "per spiegare come stavano i lavori del Mose e farli procedere più velocemente" - riceveva le buste di denari personalmente dai costruttori. Altre volte mandava uno dei suoi collaboratori: Luciano Neri o Federico Sutto. Raccoglievano e consegnavano al presidente. "Era Mazzacurati a decidere il fabbisogno di fondi extracontabili, a scegliere chi doveva anticipare le somme nei momenti di crisi. Era lui, durante le campagne elettorali, a dettare gli importi del finanziamento ai partiti. Noi della Mantovani e quelli di Fincosit sostenevamo rappresentanti del Pdl, Condotte e Coveco il Pd. Solo la mia azienda ha retrocesso al consorzio sei milioni di euro". Retrocesso, si dice così. Significa " restituire in nero" parte del denaro pubblico ricevuto per trasformarlo in tangente. Già, nel tempo il collezionista di "rientri" aveva perfezionato il" sistema di retrocessione", come illustra il prospetto recuperato dalla finanza nel novembre 2011. Le quattro aziende più importanti - la Mantovani, la Coedmar, la Fincosit e la cooperativa Coveco - si facevano carico di "ritornare" al loro consorzio il 50-6-0 per cento degli importi indicati nelle "prestazioni di servizio", studi idrogeologici e consulenze tecniche. La stessa aliquota (50-60 per cento dell'appalto) le aziende dovevano riconsegnarla sulla voce "anticipazione di riserve" (fondi messi da parte in attesa di richieste urgenti). Infine, le quattro grandi aziende grandi e le due minori dovevano garantire il 5-6 per cento dei ricavi derivanti dai "lavori in sasso": la gettata di massi fatta per alzare dighe alle quattro bocche del Mose. "Il sospetto che qualcuno di noi costruttori cercasse di barare al gioco della colletta c'era ", confessa Baita. Spiegano i magistrati: "Accettato l'importo richiesto, le imprese stipulavano con il consorzio contratti fittizi per prestazioni sovradimensionate nell'importo. I contratti venivano tutti predisposti dal ragionier Neri". Un esempio? "La coop Coveco riceveva una fattura dalla sua azienda San Martino di 2-00 mila euro e faceva la fattura di200 mila euro al Consorzio Venezia Nuova. Dopo un mese Pio Savioli con la sua macchinetta andava a prendere 1-00 mila euro in contanti dalla San Martino e li portava in Piazzale Roma all'amico Neri ". Che li girava a Mazzacurati, che li distribuiva a Orsoni e Galan. Alla fine di ogni esercizio le singole imprese dovevano taroccare i loro bilanci annuali per spiegare gli esborsi extra Mose. E predisporre relazioni con l'elenco delle riunioni e degli incontri formali. "Attività mai svolte", dicono i magistrati, "che saranno coperte da Valentina Croff, rappresentante legale del Consorzio ". Per telefono, intercettati, si sentono dirigenti di società quantificare il falso: "Per merce sollevabile con i moto pontoni posso mettere trenta tonnellate?... No, è rischioso, metti solo dieci".

Lupi, le consulenze d'oro del suo ministero. Sul sito delle Infrastrutture, 48 pagine e 478 file raccontano dei contratti (e dei rinnovi di anno in anno) degli “esperti” scelti fuori dai ranghi della Pubblica Amministrazione di cui si è avvalso il dicastero. Dai 136 mila euro per Incalza ai 60 mila netti per Girlanda. Con buona pace della spending review, scrive Sonia Oranges su “L’Espresso”. Quarantotto pagine per poco meno di 480 file che, sul sito del ministero della Infrastrutture , raccontano della valanga di consulenze e collaborazioni, spesso ottimamente pagate, di cui si è avvalso in questi anni il dicastero guidato da Maurizio Lupi. Di certo lo era quella di Ercole Incalza, il superdirigente arrestato lunedì scorso per un presunto giro di tangenti sulle grandi opere. Incalza lo scorso anno, ha ricevuto 136mila euro dal ministero per guidare la struttura tecnica di missione: un cococo d’oro, che fa sbiadire la pensione da 60 mila euro annui, pure percepita dal dirigente ora in manette. D’altra parte, la struttura di missione brilla per quantità e consistenza delle consulenze assegnate: circa una Ercole Incalza ventina quelle da 75mila euro annui, destinate a professionisti (soprattutto avvocati e ingegneri) che spesso portano avanti carriere parallele: quelle svolte privatamente, e quelle costruite negli anni all’interno della pubblica amministrazione, con redditi da quadro, senza aver mai vinto alcun concorso. Carriere parallele in cui i confini tra pubblico e privato sono pericolosamente sfumati, almeno a leggere i dettagli dei curriculum. Sergio Mastrangelo è al ministero dal 2011 come esperto, pur essendo presidente di consorzi privati impegnati nella ricostruzione in Abruzzo. Alfredo Cammarano, fino al 2009 è stato dipendente dell’Economia e funzionario apicale del Cipe, poi consulente per il gruppo che doveva costruire una pezzo di autostrada tra l’aeroporto di Grazzanise e la Domitiana, infine consulente delle Infrastrutture. La lista di nomi è lunga. C’è il brindisino Donato Caiulo che da dirigente del porto pugliese finì pure lui in un’inchiesta sul rigassificatore. C’è un manager dell’information technology come Domenico De Rinaldis che contemporaneamente lavora anche con il ministero dello Sviluppo economico, e c’è l’avvocato Massimo Ricchi, pedeegree forense maturato nello studio di Giuseppe Consolo, che si è già sperimentato al Cipe e al ministero della Giustizia. Ma anche negli altri settori del ministero, gli appannaggi dei collaboratori non lasciano a desiderare. Di certo non si lamenta Nicola Bonaduce, consigliere per gli affari regionali di Lupi, già suo capo segreteria alla Camera e con un passato milanese a dirigere le relazioni istituzionali della Compagnia delle Opere: porta a casa un compenso da 90mila euro l’anno, che arrotonda con i 28mila euro provenienti dall’incarico di consigliere di indirizzo dell’Istituto nazionale di Ricovero e Cura degli Anziani. Che nulla hanno a che fare con ponti, strade e porti, ma poco importa nella logica dei giri di poltrone del palazzo. Rocco Girlanda La stessa logica che spiega la permanenza al ministero delle Infrastrutture di Rocco Girlanda, pure lui indagato nell’ultimo scandalo delle opere pubbliche. Nel dicastero era sottosegretario forzista durante il governo Letta, e quando gli azzurri abbandonarono il governo, preferì lasciare gli azzurri ed entrare in Ncd, conservando la poltrona. E se il cambio della guardia a Palazzo Chigi gli è costato il sottogoverno, alle Infrastrutture è rimasto lo stesso. Come consulente “esperto per l'approfondimento delle problematiche inerenti l'autotrasporto ed il trasporto merci e concernenti il miglioramento dell'efficienza del trasporto pubblico locale, nonché per i rapporti con il Cipe”, per un corrispettivo di 60mila euro annui. Netti.

Tangenti grandi opere, Giulio Burchi: "La spartizione delle direzioni lavoro, una delle vergogne di questo paese", scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. Passerà alla storia per quel grido “Ercole, Ercolino (Incalza, ndr), che decide tutto lui, al 100%i” condiviso con l’amico imprenditore al telefono.. Oppure per l’altra: “Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento”. O magari per quella straordinaria ammissione: “I soldi che ho guadagnato a stare in questo Paese di merda deregolarizzato…”. Ogni inchiesta regala uno o più personaggi, una o più frasi destinati ad entrare nella cronaca. E quindi nella storia. Pennellate gergali che hanno il potere di spiegare più di mille pagine di atti giudiziari. Nei faldoni di “Sistema”, l’inchiesta della procura e del Ros di Firenze sulla “Cricca delle Grandi Opere” (o della Struttura tecnica di missione) si ritaglia un ruolo molto particolare Giulio Burchi, imprenditore modenese di 65 anni (li ha compiuti proprio in questi giorni) che forse è azzardato chiamare “compagno” ma certo vanta una buona amicizia con un compagno storico come Ugo Sposetti. Il “compagno” Burchi, dunque. Dal punto di vista giudiziario ha un ruolo abbastanza defilato tra gli oltre cinquanta indagati. E’ indagato per false fatturazioni (200 mila euro) e traffico di influenze (346 bis cp), uno dei nuovi reati contro la corruzione introdotti dalla famosissima legge Severino. Burchi avrebbe cioè utilizzato le proprie conoscenze per ottenere la direzione dei lavori di un tratto (20 km) della Salerno-Reggio Calabria. Eppure, nonostante la marginalità, è quasi un Virgilio che accompagna gli investigatori nella selva oscura della Struttura di missione. Colui che, essendoci dentro da anni, ne rivela nelle intercettazioni presunti meccanismi e segreti. Con una caratteristica: il compagno Burchi odia e ama il sistema. Scrivono i pm fiorentini Turco, Mione e Monferini: “Benchè in numerose conversazioni intercettate Burchi non perda occasione per stigmatizzare il rapporto illecito tra Ercole Incalza e Stefano Perotti, è un soggetto perfettamente inserito nel sistema illecito”. Quando si ha notizia dei primi arresti per Expo tra cui quello di Antonio Acerbo, il sub commissario di Expo, Burchi ammette: “Anch’io ho fatto compromessi ma i soldi che ho guadagnato a stare in questo paese di merda deregolarizzato non li avrei mai potuti guadagnare in Inghilterra o in America”. Una gola profonda. A sua insaputa. Il “compagno” Burchi, ad esempio, è il primo ad indicare agli investigatori il buco nero dell’inchiesta, dove nasce il malaffare nella cricca della Struttura di missione. Il 5 giugno 2014, commentando le notizie sull'indagine della Procura di Venezia sul Mose, afferma: “Ci sono due elementi che sono assolutamente non procrastinabili, togliere dalla Legge Obiettivo il fatto che il general contractor possa nominarsi il direttore dei lavori”. E’ quello che i pm chiameranno “il grimaldello del collaudato sodalizio criminale: “Una direzione dei lavori siffatta, dove il controllore è per contratto anche il controllato, è lo strumento che fa transitare su società e soggetti privati enormi somme di denaro (per compensi non inferiori all’1% dell’importo dei lavori appaltati, ma in molti casi fino addirittura al 3%), prive di sostanziale giustificazione ed inquadrabili nel prezzo di una dazione corruttiva”. Detto in modo ancora più chiaro, “utilità illecite in favore del sodalizio medesimo costituite dal conferimento dell’incarico professionale di direzione lavori e spesso da una miriade di assunzioni o consulenze collaterali alla gestione dell’appalto, del tutto fittizi, in favore di amici degli amici del pubblico ufficiale o di suoi prestanome o accoliti”. Così, in un’intercettazione del 21 ottobre 2014, Burchi dice: “La spartizione fantastica di queste direzioni lavori commissionate dai general contractor è una delle vergogne grandi di questo Paese perché affidando alle stesse imprese la direzione dei lavori hai depotenziato la funzione di controllo dello Stato. Una cosa che se tu la spieghi ad un inglese non ci riesci ... Un mio amico inglese mi ha detto che non era possibile, che mi sbagliavo”. Ecco perché i pm definiscono “ricordo quasi patetico le mazzette” rispetto alla “moderna prassi corruttiva” dove i “professionisti nominati direttori dei lavori (nell’inchiesta Sistema è il caso dell’ingegnere Perotti, ndr) e gli stessi funzionari (l’ingegnere e dirigente generale del ministero Ercole Incalza e suoi sodali, ndr) fanno parte di un’unica compagine criminale che condivide strategie, azioni e proventi illeciti”. Giulio Burchi è un supermanager dai molti incarichi: presidente del consiglio di amministrazione di Italferr spa dal 2004 al 2007, siede in diversi cda (la Autocamionabile della Cisa spa; autostrade lombarde; società di progetto autostrada diretta Brescia Milano; serenissima A4) anche di partecipate miste ed è referente della Siteco s.r.l. (servizi di engineering e di consulenza tecnica), e della “Siteco Informatica s.r.l.”. È stato anche socio dell’invidiatissimo “Perottino”(Stefano Perotti, arrestato con Incalza, Cavallo e Pacella) che definisce “il loro uomo su tutto”, quello che ha preso “diciassette direzioni lavori sempre con lo stesso sistema” ma che è vissuto nell’ambiente come “una spina nell’occhio” perché “Incalza glielo ha fatto digerire in molte situazioni in cui ne avrebbero fatto anche a meno”. Nelle numerose intercettazioni i pm rintracciano il filo rosso di una prassi volta “inequivocabilmente a procurarsi false fatture per abbattere gli utili”. Questo per testimoniare l’originalità e l’affidabilità della gola profonda. Che infatti rivela vari aspetti del sistema. Quello dei figli, ad esempio: il figlio di Acerbo che si scambia incarichi e consulenze con il padre ex numero 2 di Expo; il figlio di Lupi, di alcuni amici del giovane ingegnere e di altri figli di dirigenti del ministero che beneficiano di posti di lavoro. Burchi è una fonte preziosa anche nel raccontare un altro effetto collaterale dell’inchiesta Sistema: la ricerca di posti di lavoro. “Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento” dice al telefono con l’amico Ugo Sposetti (il senatore Pd che a sua volta in questi giorni ha paragonato “alla Caritas” il suo interessamento “per persone che hanno bisogno”). Burchi si attiva spesso per trovare posti e incarichi in favore di persone indicate da Sposetti o dal viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini il quale “scrivono i pm, s’interfaccia con il Burchi tramite l'ex parlamentare Mauro Del Bue”. Il 3 aprile 2014 il supermanager chiede a Del Bue di procurargli un appuntamento con Nencini. Subito dopo Del Bue chiede a Burchi: “Tu potresti dargli qualche contributo di questo tipo anche a Nencini, ci sono delle nomine da fare in giro, ci interessa sistemare due o tre persone in qualche ente”. Altre intercettazioni spiegano che in effetti Burchi ha chiesto a più soggetti, tra cui il viceministro, un intervento per una nomina in Terna. Il 17 maggio 2014 sempre Burchi dice al telefono: “Sistemare uno in un collegio, mi può essere utile, Riccardo Nencini è vice ministro”. Magari sono solo millanterie ma è significativo di come ragionano gli uomini della cricca. Che in certi momenti sembrano non poterne più dello strapotere di Perotti. Il 5 aprile Burchi è al telefono con un altro manager, Giovanni Gaspari. Parlano dell’appalto e delle direzione lavori dell’autostrada in Libia. Perotti vuole e otterrà anche quella. Gaspari auspica qualche intervento di “pulizia”, probabilmente dal governo: “Speriamo che vada avanti, un po’ di pulizia la dovrebbe fare, però non sta pulendo quello che gli altri stanno facendo lì alle Infrastrutture... Lupi & C stanno facendo”.

La Procura di Milano: «Giulio Tremonti corrotto». Ecco le accuse. Richiesta dei pm al Senato: l'ex ministro va processato per corruzione. Nel mirino una tangente da 2,5 milioni su un affare miliardario di Finmeccanica, mascherata da parcella del suo studio professionale. Le ammissioni del suo ex braccio destro, Marco Milanese, e degli altri faccendieri arrestati, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Un grande ministro. Il suo studio professionale privato. E una parcella da due milioni e mezzo di euro. C'è questo triangolo d'oro alla base dell'inchiesta che ha spinto la Procura di Milano a chiedere al Senato l'autorizzazione a procedere contro Giulio Tremonti. L'ex ministro dell'Economia ora rischia di finire sotto processo per corruzione. In Italia l'unico precedente di questa speciale procedura risale agli anni neri dello scandalo Lockheed. Come qualsiasi altro indagato, Tremonti va considerato innocente e lo rimarrà fino a un'eventuale condanna definitiva. Ma rispetto ai normali cittadini ha un'arma in più: grazie a una legge costituzionale del 1989, i suoi colleghi parlamentari hanno il potere di bloccare con un veto politico il processo contro il senatore Tremonti. L'indagine riguarda un affare del gruppo Finmeccanica che si è rivelato disastroso per le casse dello Stato. Ma ha garantito una ricca parcella allo studio fiscale fondato dal professor Tremonti. Nel 2008 l'azienda statale, allora guidata da Pierfrancesco Guarguaglini, acquista il gruppo statunitense Drs, che è un grande fornitore di tecnologie militari, per un prezzo astronomico: 5 miliardi e 200 milioni di dollari, che all'epoca corrispondono a 3,4 miliardi di euro. Oggi il valore del gruppo americano si è quasi dimezzato: lo Stato italiano ci ha rimesso più di due miliardi di dollari. Tra i consulenti fiscali di quell'operazione spicca lo studio Virtax, di cui è socio fondatore Tremonti, che quando diventa ministro lo affida al suo fidato collega Enrico Vitali. Finmeccanica è una grande società controllata dal governo, che ha il potere di nominare gli amministratori. Inoltre il ministero dell'Economia deve sborsare 250 milioni di euro per l'aumento di capitale necessario a garantire gli imponenti prestiti bancari spesi per comprare Drs. Nel 2008, dunque, sembra a tutti impensabile varare un'operazione così costosa senza l'appoggio di Tremonti. Che infatti vede il numero uno di Finmeccanica ancor prima delle elezioni, quando è già sicura la vittoria di Berlusconi: nel suo interrogatorio, però, Tremonti «non ha memoria» di quel primo incontro con Guarguaglini. La richiesta di autorizzazione a procedere cita numerosi testimoni, già sentiti da diverse procure (Roma, Napoli e Milano) nelle indagini su Finmeccanica: tutti confermano che Tremonti all'inizio è contrario a quell'operazione miliardaria dell'azienda statale. Il problema è che l'ostilità del ministro smette di manifestarsi proprio quando lo studio Virtax ottiene quella consulenza da due milioni e 615 mila euro. La data del contratto di assistenza fiscale con Finmeccanica è veramente imbarazzante: 8 maggio 2008, lo stesso giorno in cui Tremonti diventa ministro del quarto governo Berlusconi. L'indagine, come impone l'apposita legge sui reati commessi dai ministri nell'esercizio dei loro poteri, è stata condotta da tre magistrati estratti a sorte. Riuniti nel cosiddetto «tribunale dei ministri», hanno avuto solo solo 90 giorni di tempo per chiudere l'intera inchiesta. Tremonti intanto ha potuto esaminare tutti gli atti d'accusa, presentare prove a discolpa e farsi interrogare. Ma non ha convinto nessuno dei tre giudici istruttori. Il primo pilastro dell'accusa è il rovesciamento della posizione di Tremonti, che sembra avvenire in perfetta coincidenza con la consulenza fiscale milionaria incassata dal suo studio. Lo testimonia perfino il suo ex braccio destro, Marco Milanese, l'ex parlamentare di Forza Italia già protagonista del caso dei soldi in nero per affittare una casa di lusso per il ministro a Roma: l'indagine romana che ha spinto Tremonti a patteggiare la sua prima condanna per finanziamenti illeciti. Riascoltato dal tribunale dei ministri, Milanese spiega di aver assistito personalmente all'incontro tra il ministro e Guarguaglini. E conferma che all'inizio «Tremonti si lamentava che queste società, tra cui Finmeccanica, andassero a investire all'estero e non in Italia». L'ex braccio destro, già inquisito per le tangenti del Mose di Venezia, non vorrebbe dire di più. Ma quando il tribunale dei ministri gli contesta le dichiarazioni che lui stesso aveva già reso in precedenza ai pm, l'ex onorevole Milanese conferma di aver saputo, dall'interno di Finmeccanica, «che l'affare era stato concluso e che al riguardo della contrarietà con Tremonti avevano trovato una strada... attraverso il coinvolgimento dello studio Vitali». Nello stesso interrogatorio Milanese rivela che il ministro Tremonti, per le comunicazioni più riservate, «non usava il suo telefono, ma prendeva il mio o quello della capo-segreteria». Anche Lorenzo Borgogni, ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, dichiara di aver «accompagnato Guarguaglini allo studio a Roma di Tremonti, che gli domandò come mai non investiva in Italia ma negli Stati Uniti». In quel momento Tremonti non era ancora ministro e secondo Borgogni il suo parere «era molto condizionato dalla Lega», preoccupata per la sorte della fabbrica Agusta che ha sede a Varese, la città di Bossi e Maroni. Sul collegamento tra la parcella e il successivo via libera, invece, Borgogni all'inizio sostiene di non ricordare bene: «Può darsi che abbia detto che sicuramente con un coinvolgimento dello studio, anche il ministero.... la posizione di Tremonti sarebbe stata più in difficoltà». Ma quando gli viene contestato un altro verbale, lo stesso Borgogni finisce per confermare che il movente dell'incarico «era certamente quello di inserire lo studio di Vitali, che poi voleva dire anche Tremonti, nell'orbita delle società che lavoravano per Finmeccanica, e soprattutto in un'acquisizione di questo genere». L'accusa più esplicita arriva da Lorenzo Cola, il faccendiere romano di estrema destra che ai tempi di Guarguaglini era incredibilmente diventato il rappresentante di Finmeccanica nella trattativa miliardaria con gli americani. Cola riassume così la posizione iniziale del ministro: «Gurauaglini mi informò che Tremonti gli disse: “Voi andate a investire questi grandi capitali all'estero, quando noi in questo momento avremmo altre emergenze, tipo Alitalia”». Lo stesso Cola aggiunge che in seguito Guarguaglini (che invece nega tutto) gli rivelò che «per avere il consenso di Tremonti e poter fare l'operazione, era stato necessario dare questa consulenza allo studio professionale». Di consulenze per quell'affare, in effetti, Cola se ne intende: lui stesso ha intascato più di 16 milioni di dollari, che Finmeccanica (azienda statale quotata in borsa) gli ha versato su un conto intestato a una società offshore. L'ex titolare dell'Economia è stato attaccato più volte, durante tutto il ventennio berlusconiano, per i presunti conflitti d'interessi tra l'attività pubblica e quella privata, ma ha sempre replicato di non aver mai mescolato il suo ruolo di ministro delle tasse con quello di consulente fiscale delle aziende. Ogni volta che è tornato al potere con Berlusconi, in effetti, Tremonti ha lasciato ai suoi partner tutte le attività dello studio, restandone socio esterno, per ridiventarne titolare solo quando non era più ministro. E così nel 2006, nei due anni di governo Prodi, nella sede centrale di via Crocefisso a Milano è tornata la sigla «studio Tremonti», ma nel 2008, quando è ridiventato ministro, il suo nome è scomparso dall'elenco dei professionisti associati. Anche la consulenza a favore di Finmeccanica, quindi, è stata gestita dal suo socio principale, Enrico Vitali, che aveva fondato lo studio negli anni '80 insieme a Tremonti. Ma i magistrati milanesi ora si sono convinti che quella parcella, benché intestata ad altri, sia stata il prezzo sborsato da Finmeccanica per “comprare” il consenso del ministro. Una tangente ben mascherata con una fattura in apparenza regolare. Il tribunale dei ministri è arrivato a concludere che quella consulenza era fittizia, cioè serviva solo a dare una giustificazione cartacea al passaggio di soldi, anche grazie ad altre deposizioni. Alessandro Pansa, allora direttore generale di Finmeccanica, anche lui ora coinvolto suo malgrado nell'indagine per corruzione, ha dichiarato che fu Guarguaglini a imporgli la scelta dei consulenti fiscali. Ai quali Pansa impose uno sconto: quattro milioni in tutto, anziché i cinque richiesti. A chiudere il cerchio delle testimonianze sono gli altri consulenti di Finmeccanica: i tributaristi italiani della società Ernst & Young. Che confermano di aver dovuto accettare, con imbarazzo, la richiesta di Vitali di incassare la fetta più grande della parcella, cioè due milioni e mezzo. Anche se il lavoro effettivo di consulenza a Finmeccanica l'aveva fatto proprio e soltanto Ernst & Young. Un manager di questa società dichiara testualmente che Vitali e i suoi colleghi «erano puri spettatori», nel senso che «l'intero lavoro» era a carico di Ernst & Young, e quasi si scusa della sua testimonianza, precisando: «Non volevo essere offensivo nei confronti di nessuno, era proprio una constatazione di quello che è veramente accaduto». A questo punto i giudici del tribunale del ministri passano in rassegna tutti i documenti che dovrebbero dimostrare l'effettivo contenuto della consulenza fornita dallo studio fiscale di cui Tremonti è fondatore e comproprietario. Il controllo è possibile perché la Procura di Roma, con il pm Paolo Ielo, ha sequestrato già nel 2010 l'intero dossier Drs nella sede di Finmeccanica. Mentre l'indagato Vitali ha potuto presentare al tribunale tutti gli atti del suo studio. Quindi i giudici milanesi passano in rassegna tutte le carte, una dopo l'altra, ma non trovano neppure un atto dello studio Virtax che possa rappresentare una qualsiasi forma di esecuzione della consulenza contrattata con Finmeccanica. E tantomeno giustificare una parcella da due milioni e mezzo. Ci sono soltanto email, resoconti di riunioni orali e informazioni generiche sulle leggi fiscali americane, scaricabili anche da Internet. Tutti gli atti più importanti sono stati compilati da Ernst & Young: lo studio Virtax, osservano sconsolati i giudici, si è limitato «ad apporre il proprio logo successivamente alla redazione del documento».

Giulio Tremonti: "Mai chiesto nulla a Finmeccanica". La replica dell'ex ministro alla notizia delle indagini avviate dalla procura di MIlano nei sui confronti per presunti reati ministeriali, scrive R.I. su “L’Espresso”. «Non ho mai chiesto o sollecitato nulla ed in nessun modo da Finmeccanica. Anche per questo, come sempre, ho assoluta fiducia nella giustizia». Così l'ex ministro Giulio Tremonti ha replicato alla notizia delle indagini avviate dalla procura di Milano. «Ben prima di entrare nel governo, insediatosi venerdì 8 maggio 2008 - spiega Tremonti in una nota - mi sono cancellato dall'ordine degli avvocati e sono uscito dallo studio in base ad atto notarile e perizia contabile. Ci sono rientrato solo nel 2012, un anno dopo la fine del governo, come prescrive la legge. Nel durante ho interrotto tutti i rapporti con lo studio». «L'operazione DRS-Finmeccanica - prosegue - ha interessato e coinvolto la politica industriale e militare di due Stati. Come risulta dai documenti SEC e Consob, l'operazione è iniziata nell'ottobre 2007 ed è stata conclusa lunedì 12 maggio 2008. Anche seguendo il calendario, si può dunque verificare che, per la sua dinamica irreversibile e per la sua natura internazionale, l'operazione non era da parte mia né influenzabile, né modificabile, né strumentalizzabile. In questi termini, non ho mai chiesto o sollecitato nulla ed in nessun modo da Finmeccanica».

Quanti affari col metodo Tremonti. Tre milioni al “suo” studio per sbloccare un’operazione di Finmeccanica: l’ex ministro indagato per corruzione. Ma per i pm anche altri casi sono sospetti. A partire dal Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Giulio Tremonti Un grande ministro. Il suo studio privato. E una ricca parcella. C’è un triangolo d’oro alla base dell’inchiesta che ha convinto la Procura di Milano a iscrivere nel registro degli indagati il nome di Giulio Tremonti, per la prima volta accusato di corruzione. L’indagine riguarda un affare di Stato: una colossale acquisizione decisa nel 2008 dall’allora vertice del gruppo Finmeccanica, che si è poi rivelata disastrosa per le casse pubbliche. Ma che in compenso ha garantito una parcella invidiabile allo studio tributario fondato dal professor Tremonti. Ricostruendo quell’operazione, i magistrati hanno acceso un faro su un presunto schema corruttivo: il sospetto è che possa aver funzionato anche in altri casi clamorosi. Dall’intrigo fiscale Bell-Telecom ai finanziamenti-scandalo per il Mose di Venezia. Un quadro che ha portato i pm ad approfondire anche altre indagini collegate, per verificare un’ipotesi d’accusa più ampia: una sorta di “sistema Tremonti”. Per ora la Procura di Milano ha fatto partire solo la prima procedura di messa in stato d’accusa davanti al tribunale dei ministri, che riguarda una presunta triangolazione tra l’allora ministro dell’Economia, lo studio professionale da lui fondato e il gruppo Finmeccanica. Nel maggio 2008 quel colosso statale, allora guidato da Pierfrancesco Guarguaglini, acquista la holding statunitense Drs, che è un grande fornitore di tecnologie militari, per un prezzo senza precedenti: 5 miliardi e 200 milioni di dollari. Tra i consulenti di quell’acquisizione compare lo studio Vitali, Romagnoli, Picardi & associati, che ha come socio fondatore proprio Tremonti. Finmeccanica versa a quello studio una parcella netta di due milioni e 400 mila euro, quasi tre con l’Iva. L’azienda statale è controllata dal governo, che nomina i dirigenti, per cui è impensabile varare un’operazione così costosa senza il via libera del ministero dell’Economia. Durante le trattative, secondo la ricostruzione dei magistrati, Tremonti si dichiara contrario. Ma all’improvviso diventa favorevole, proprio alla vigilia dell’accordo. E ora si scopre che, pochissimi giorni prima di questo “ribaltone”, il socio più importante dello studio da lui fondato aveva siglato quella ricca consulenza con Finmeccanica. Per un affare indubbiamente sbagliato: oggi il valore del gruppo americano si è quasi dimezzato. A conti fatti, lo Stato italiano ci ha perso più di due miliardi di dollari. L’accusa di corruzione è stata formalizzata dai pm Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi dopo un vertice con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, che ha esaminato gli atti e autorizzato l’iscrizione. Gli indizi finora raccolti hanno convinto i magistrati, in sostanza, che quella parcella milionaria fosse la vera spiegazione del cambio di linea del ministro Tremonti.  L’ex titolare dell’Economia era stato attaccato più volte, nel ventennio berlusconiano, per gli ipotetici conflitti d’interessi legati al suo studio, ma ha sempre replicato di non aver mai mescolato il suo ruolo di ministro con la sua professione privata. Ogni volta che è tornato al governo, infatti, Tremonti ha sempre rivendicato di aver lasciato ai suoi partner tutte le consulenze dello studio, restandone socio dall’esterno, per ridiventarne titolare solo dopo aver perso la carica. E così nel 2006, durante il governo Prodi, nella sede di via Crocefisso a Milano era ricomparsa la sigla «studio Tremonti», ma nel 2008 il suo nome è sparito dalla lista dei professionisti. La consulenza per Finmeccanica sarebbe stata gestita, in particolare, dal suo socio più fidato, Enrico Vitali, che fondò lo studio insieme a lui negli anni Ottanta. Ma ora i magistrati avanzano l’ipotesi che quella parcella intestata al collega nascondesse il prezzo pagato da Finmeccanica per “comprare” il sì del ministro. Tra gli atti d’accusa ora inviati al tribunale dei ministri, compaiono anche gli interrogatori di Marco Milanese, che è stato il braccio destro di Tremonti per un decennio. Arrestato per corruzione per l’inchiesta sul Mose di Venezia, Milanese ha confermato che Tremonti era contrario all’affare Drs, ma cambiò idea in circostanze poco chiare. Il sospetto di una consulenza fittizia, secondo l’accusa, troverebbe riscontro anche nei tempi strettissimi: Finmeccanica avrebbe affidato l’incarico allo studio dei soci di Tremonti appena cinque giorni prima di siglare l’acquisizione. Le anomalie dell’affare e i dubbi sulla consulenza-lampo verrebbero indirettamente riscontrati anche da altri testimoni d’accusa, come Alessandro Pansa, il manager che sostituì Guarguaglini, e gli altri consulenti di Finmeccanica, soprattutto i tributaristi italiani della Ernst & Young. Ora Tremonti potrà difendersi davanti al cosiddetto tribunale dei ministri, composto da tre giudici estratti a sorte. La procedura è regolata da una legge costituzionale del 1989, che è molto singolare: di fronte a un possibile reato commesso da un ministro, le procure hanno il divieto di trovare prove. «Omessa ogni indagine», come impone quella legge, possono soltanto avvisare l’indagato. È la stessa procedura finora applicata soltanto all’ex ministro Altero Matteoli, accusato di corruzione nell’inchiesta sulle bonifiche-scandalo della Laguna di Venezia. L’inchiesta su Tremonti è nata dalle istruttorie delle Procure di Napoli e Roma sul gruppo Finmeccanica, che avevano svelato il ruolo di Lorenzo Cola, un faccendiere che nell’era di Guarguaglini era diventato un’eminenza grigia. Intercettandolo, si è scoperto che proprio lui gestì la trattativa miliardaria su Drs, fissandone il prezzo senza alcuna verifica indipendente (in gergo, “due diligence”). Per la sua mediazione non ufficiale, pure Cola sarebbe riuscito a farsi pagare da Finmeccanica una consulenza da favola: 16 milioni e mezzo di dollari, che l’azienda statale gli avrebbe versato addirittura su un conto offshore, nascosto al fisco. Nell’aprile scorso, quando “Il Fatto Quotidiano” pubblicò le prime indiscrezioni sull’affare Drs, Tremonti si dichiarò all’oscuro di tutto: «Non so nulla». Ma a questo punto i magistrati stanno valutando se sia necessario trasmettere al tribunale ministeriale anche il fascicolo sulla tangente da mezzo milione che gli industriali del Mose di Venezia hanno ormai confessato di aver versato a Marco Milanese. Quella mazzetta, nella primavera 2010, ebbe il sicuro effetto di sbloccare centinaia di milioni di fondi pubblici in precedenza fermati dal ministro. E l’ordine di pagare Milanese, secondo il manager pentito Piergiorgio Baita, sarebbe venuto dal grande capo del Consorzio, Giovanni Mazzacurati, «dopo un incontro con Tremonti a Roma». Finora l’ex ministro aveva avuto pochissimi guai giudiziari: l’anno scorso ha dovuto patteggiare un’accusa di finanziamento illecito, a Roma, per l’affitto in nero della lussuosa residenza che gli aveva procurato proprio Milanese. Gli stessi pm lombardi del caso Finmeccanica però stanno tenendo aperta anche l’inchiesta sulla Bell, la cassaforte lussemburghese della scalata a Telecom, che era difesa dallo studio Tremonti. I suoi soci italiani furono costretti a pagare le prime tasse in Italia solo nel 2007, dopo il ritorno al governo di Prodi e Visco, versando al fisco ben 156 milioni di euro. Un altro incrocio pericoloso tra Tremonti, il ministero e lo studio tributario su cui ora i magistrati vogliono accendere nuove luci.

TANGENTOPOLI E L’ELUSIONE DELLA GARA CON LA DIVISIONE DEGLI INCARICHI.

Giuseppe Ferrandino era già nel mirino di Raffaele Cantone: affidava lavori senza appalti. L'autority Anticorruzione si era già occupata del comune di Ischia, scoprendo che in modo "ricorrente e praticamente sistematico" eludeva l'obbligo di ricorrere alle gare, spezzettando gli incarichi (e i soldi) in tanti piccoli lotti. "Una procedura in contrasto con la legge", scrisse il presidente sei mesi fa, scrive Susanna Turco su “L’Espresso” il 3 aprile 2015. Lavori affidati evitando le gare d’appalto. Un sistema che lottizzava gli incarichi per le opere pubbliche, distribuendoli a pioggia, senza un disegno unitario e in contrasto con la legge. Scarso rigore nelle procedure, nessuna voglia di animare una sana concorrenza. Già mesi fa, prima che esplodesse l’inchiesta sulla metanizzazione di Ischia, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone aveva avuto modo di occuparsi del comune guidato da Giuseppe Giosi Ferrandino, ora in carcere. E non certo per fargli i complimenti. La lente dell’ex magistrato e del consiglio dell’Anac si è posata sui criteri di affidamento degli incarichi per rifare scuole strade, palestre e altre opere pubbliche di Ischia. Incrociando nomi, cifre e opere, ha scoperto che il comune attuava una sorta di divide et impera: soldi distribuiti a destra e sinistra, affidando direttamente gli incarichi senza passare da gare e concorsi.  Atti e materiale di una certa rilevanza: tanto che Cantone ha doverosamente mandato il fascicolo alla procura di Napoli. Tutto è cominciato  un paio d’anni fa, con la segnalazione alla Prefettura di Napoli da parte del consigliere comunale di Ischia Carmine Bernardo. Da Napoli, hanno poi richiesto all’Avcp (ora inglobata nell’Anac) di fare una valutazione complessiva sulla legittimità delle procedure, tra il 2009 e il 2012. Dall’analisi del dossier, come risulta dall’atto depositato il 29 ottobre 2014,  è venuto fuori che in modo “ricorrente e praticamente sistematico”, il comune ha spacchettato i vari interventi che riguardavano un edificio, impianto sportivo o area urbana, in modo tale che lo stesso “oggetto” risulta affidato più volte, a più imprese, per effettuare lavori leggermente diversi gli uni dagli altri. Per esempio, dicono le carte, il campo sportivo Mazzella è oggetto di cinque diversi affidamenti tra il 2009 e il 2010. Gli incarichi formali differiscono di poco gli uni dagli altri: riguardano tutti, in un modo o nell’altro “l’adeguamento e la messa a norma” (o “in sicurezza”) del campo; solo che in un caso si tratta della “progettazione”, nell’altro della “direzione dei lavori”, in un terzo della “fase di esecuzione”, oppure di “opere di completamento” o ancora di “opere complementari”. Una ricchezza lessicale grazie alla quale gli incarichi risultano tutti diversi, non perfettamente sovrapponibili; eppure riguardano sempre lo stesso campo sportivo. Non si poteva fare un intervento unico? Certo, si poteva. Solo che sarebbe stata necessaria una gara d’appalto, perché la pubblica amministrazione può affidare direttamente un lavoro soltanto se l’importo dell’opera non supera i 40 mila euro complessivi (prima erano 20 mila). E al comune di Ischia non piace superare quel limite. Preferisce di gran lunga dare 19 mila euro a quattro imprese diverse, piuttosto che 80 mila euro a una sola, ma dopo una gara pubblica. Così, si deduce dalle cifre pubblicate, è accaduto per il campo sportivo Mazzella, per il quale l’amministrazione ha speso in cinque tranche un totale di 81 mila euro. Ma non è l’unico esempio che Cantone riporta: per le varie opere di “manutenzione straordinaria e riqualificazione” di via Iasolino, si superano i 40 mila euro (ma gli affidi sono spezzettati in tre); per le “opere di ingegneria” sulla scuola media Scotti si superano i 56 mila euro (ma spezzettati  in cinque affidi). Insomma, conclude l’Anticorruzione: “Tali modalità di affidamento, che appaiono tra l’altro in contrasto con l’esigenza tecnica di un’attività unitaria per la progettazione e conduzione dell’opera, hanno determinato, limitando i corrispettivi per le prestazioni affidate a importi sempre inferiori a 20.000 euro, procedure di affidamento meno rigorose di quanto di fatto richiesto ove si fosse considerato l’intervento unitario”. Meno rigore nelle procedure, e lavori che alla fine rischiano di essere meno coerenti. La stessa passione per la parcellizzazione, nota l’Autorità, il Comune la nutre non solo pre le prestazioni professionali e i relativi lavori, ma pure gli appalti. Tra il 2008 e il 2013, per esempio, sempre per la scuola Scotti ha avviato ben nove procedure d’appalto, per un importo a base d’asta che complessivamente supera di molto il milione di euro. Eppure si tratta, complessivamente, di attuare l’adeguamento normativo (misure antincendio, abbattimento delle barriere architettoniche, manutenzione straordinaria, eccetera) del medesimo complesso architettonico. Nelle sue controdeduzioni di fronte all’Autorità, il comune ha argomentato che si è trattato di “singoli interventi autonomamente finanziati”,  per anni diversi, “in alcuni casi anche da Enti diversi”, e quindi “con modalità e tempi di attuazione differenti”, e che rispondono a “finalità autonome e specifiche derivanti dalle singole leggi”. Insomma: ciascun intervento fa storia a sé, non si sarebbero potuti accorpare, e in alcuni casi “non si potevano assolutamente prevedere”. Motivazioni che però non hanno convinto del tutto Cantone: “Non sono state fornite specifiche e puntuali motivazioni che avrebbero impedito una più razionale visione di insieme delle esigenze di intervento”, scrive  in conclusione il presidente dell’Anticorruzione. “Di contro emerge il carattere ricorrente e praticamente sistematico della fattispecie rilevata, che ha determinato l’assenza di procedure concorsuali”,  un “modus operandi che appare di fatto elusivo di procedure di affidamento più rigorose che sarebbero state, invece necessarie, ove si fosse considerato l’importo complessivo degli incarichi da affidare al medesimo professionista”. Insomma, materiale buono per i magistrati, se riterranno doversene occupare.

SE SGARRI A PARLARE, I MANETTARI TI QUERELANO.

Facci massacra Travaglio: querela tutti (pure un morto) e perde, scrive “Libero Quotidiano”. Mettetevi seduti. Il collega Marco Travaglio e il suo avvocato Caterina Malavenda hanno querelato la bellezza di 49 articoli del Giornale tutti insieme, più altri dei siti Dagospia e Macchianera: e cioè 27 articoli miei, 3 di Gian Marco Chiocci, 3 di Maria Giovanna Maglie, 2 di Alessandro Sallusti, 2 di Mario Giordano, 2 di Paolo Bracalini, 2 di Paolo Granzotto, più 1 a cranio scritti da Vittorio Feltri, Vittorio Sgarbi, Alessandro Caprettini, Francesco Cramer, Renato Farina, Cristiano Gatti, Gianni Pennacchi (che al momento della querela era morto da due anni) più la missiva di un lettore, Renato Niccodemo. Ho scritto «querelato» per comodità, ma era una causa civile (che punta direttamente ai soldi) la quale il 14 febbraio 2011 è stata intentata principalmente al Giornale e che mirava a 400mila euro di risarcimento più la pubblicazione della sentenza su tre quotidiani, a caratteri doppi del normale. I soldi dovevano ristorare la sofferenza di Marco Travaglio in quanto da marzo 2008 a dicembre 2009 - si legge - «con cadenza giornaliera è stato oggetto di attacchi diffamatori, insulti personali e notizie false e denigratorie». La causa-querela per diffamazione vantava 57 allegati e citava il sottoscritto quale «giornalista che si è distinto per numero e gratuità degli attacchi nei confronti di Travaglio... Una vera e propria campagna di stampa, della quale Facci rappresenta la punta di diamante, ma che trova in editorialisti e giornalisti il necessario compendio». In altre parole io avrei rivolto «epiteti offensivi» nonché «false informazioni circa vacanze trascorse con persona indicata come favoreggiatore di mafiosi», oltre ad averlo indicato «quale portavoce di uomini politici e magistrati». Com’è finita? Ci limitiamo ai dati secchi e ci asteniamo dal commentare: anche se la tentazione sarebbe forte. La sentenza ha negato un risarcimento e ha stabilito che anche «la richiesta di pubblicazione della sentenza deve essere rigettata», mentre le spese processuali s’intendono «integralmente compensate tra le parti». La sentenza è passata in giudicato perché sono scaduti i termini per l’impugnazione, ma questo dopo che le parti (gli avvocati) hanno raggiunto un accordo affinché ai querelanti siano rifuse le spese legali. Il giudice Serena Baccolini, il 5 marzo 2014, ha infatti deciso che «la domanda risarcitoria deve essere rigettata» in quanto Travaglio & Malavenda hanno chiesto soldi «senza argomentare in ordine alla sussistenza del pregiudizio patito», giacché «spetta a colui che chiede il risarcimento offrire la prova dell’evento dannoso e dei pregiudizi conseguenti». Cioè: fare una causa semplicemente ammassando articoli scritti contro Travaglio («introdurre un contenzioso caratterizzato da una pluralità di condotte») comportava perlomeno che il giornalista allegasse «l’incidenza lesiva dei singoli scritti...». Insomma, Travaglio doveva anche spiegarli, questi danni patiti, ergo descriverli al giudice: altrimenti qualcuno potrebbe pensare che volesse soltanto lucrare querelando dei suoi colleghi, gente che, oltretutto, non ha mai querelato lui, nonostante il linguaggio che adotta regolarmente. I legali dei querelati, su questo, si sono anche permessi di fare dei chiari esempi «di come Travaglio si rivolge a terzi», in particolare contro Facci, Feltri e Belpietro. Non dispiacerà se omettiamo. Va detto che, tra i 49 articoli descritti nella citazione, il giudice ha intravisto solo tre casi (3) in cui a suo dire è stato «violato il principio della continenza formale»: due sono miei (12 maggio 2008 e 1° maggio 2009) e uno è di Renato Farina (15 dicembre 2009). Eviteremo di ripetere le tre espressioni che il giudice ha ritenuto diffamatorie. Per signorilità, tuttavia, eviteremo di ripetere anche tutte quante le espressioni che, in 46 articoli su 49, non sono state ritenute diffamatorie. Poco importa che sostantivi all’apparenza innocui («fighetta», «scarabeo», «becchino») siano state giudicate «legittimo esercizio del diritto di critica». Altri contenuti però riportano a fatti accaduti o a questioni ricorrenti, e il contenuto della sentenza va comunque registrato: se non altro, anche qui, per legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica, e fermo restando che le sentenze non possono essere, al di là delle abitudini di Travaglio, gli unici parametri a cui guardare. In vari articoli dello scrivente, per esempio, si citava la vacanza trascorsa da Marco Travaglio con il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, inquisito per favoreggiamento di un mafioso: secondo la sentenza, «il fatto è vero per pacifica ammissione anche dell’attore, e non è controverso che Ciuro sia stato arrestato nel novembre 2003 per favoreggiamento nei termini indicati. L’articolo nasce come risposta alle dichiarazioni di Travaglio sulle dedotte frequentazioni dell’on. Schifani... La circostanza riferita da Facci, sempre relativamente alla vacanza trascorsa da Travaglio in una struttura sottoposta ad amministrazione con sottrazione alla proprietà, è vera». E su questo non ci piove. Secondo il giudice, poi, si può scrivere che Travaglio è un «pregiudicato» (16 ottobre 2008: «Facci, accostando genericamente il termine “pregiudicato” a condanne penali e a condanne in sede civile, e con il ricorso del virgolettato, ne fa intendere ai lettori l’uso non tecnico, mentre del tutto irrilevanti risultano le dedotte inesattezze sulla prescrizione del reato in cui avrebbe potuto incorrere Travaglio»). Ma su questo, paradossalmente, non siamo neppure completamente d’accordo col giudice, anche se ci dà ragione: vero è che la sentenza non fa giurisprudenza - perché non ha il sigillo della Cassazione - ma ci lascia perplessi che un giudice possa valutare come meramente «non tecnica» l’adozione del termine «pregiudicato» per un condannato in sede civile, quale era Travaglio. Le condanne di Travaglio in sede penale sono un altro discorso. Ci sono poi, ancora, varie espressioni ritenute lecite dal giudice e che attengono soltanto a «un giudizio di Facci sull’attività di Travaglio nel mondo del giornalismo». Ripetere queste espressioni, ora, sarebbe stucchevole. In futuro, ci si limiterà a riusarle.

POOL MANI PULITE, MAGISTRATURA DEMOCRATICA E COMUNISMO: ATTRAZIONE FATALE PER FAR FUORI AVVERSARI POLITICI E MAGISTRATI SCOMODI!

L'attrazione fatale del Pool per la sinistra, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 10/03/2016, su "Il Giornale". La gente, che correva ad adorarli sotto le finestre del Palazzo di giustizia piacentiniano, gridava «Di Pietro- Davigo-Colombo andate fino in fondo». Missione compiuta: in fondo a sinistra. Fatta a pezzi la Prima repubblica, gli alfieri del Pool hanno preso il posto di quelli che prima ammanettavano. Un'attrazione fatale o, più banalmente, una seconda vita dopo aver esaurito l'adrenalina disponibile per l'esistenza in toga. Chissà. Autorevoli commentatori hanno scritto che questo salto dall'altra parte della barricata autorizza inquietanti letture retrospettive di quell'epopea che, in tre anni, dal 92 al 94, cambiò la storia d'Italia. E lanciò in orbita i post comunisti. Percorsi differenziati, una prospettiva comune, quasi una tendenza irresistibile: l'ultimo ad essere tentato è Gherardo Colombo che peraltro ha già lasciato la magistratura da un pezzo, ha visitato, con le sue lezioni sulla legalità, più scuole di Matteo Renzi, è stato presidente della Garzanti e consigliere d'amministrazione della Rai. Ora potrebbe scendere in campo come bandiera della sinistra-sinistra per il Comune di Milano. Si vedrà. E però il destino sembra compiersi. Cominciò il più scalpitante del gruppo, Antonio Di Pietro: neanche il tempo di togliersi la toga, ammaccata dalle inchieste di Brescia, e via di corsa verso il Parlamento. Fu la destra a corteggiarlo, ma fu poi la sinistra, più strutturata e seducente, a reclutarlo paracadutandolo nel collegio sicuro del Mugello, rosso che più rosso non si può. Il Tonino nazionale, che era arrivato con le sue inchieste fin sulla porta di Botteghe oscure, si ritrovò senatore nel partito di D'Alema e Occhetto che aveva provato, invano, a scandagliare. Cortocircuiti di quell'intreccio perverso fra politica e giustizia. Ministro del governo Prodi, senatore, deputato, ancora ministro, fondatore dell'Italia dei valori. Il curriculum del Di Pietro numero due è chilometrico e pare una smentita su tutta la linea alla predicazione purissima di Piercamillo Davigo, il più intransigente fra gli Intoccabili di Mani pulite, che ripeteva davanti alle continue offerte di poltrone e laticlavi: «Un arbitro non può entrare in campo e giocare la partita». Invece, dopo Di Pietro anche Gerardo D'Ambrosio, il coordinatore del Pool, non seppe resistere alle sirene del Palazzo. E fu eletto senatore, sempre nel Pd. Certo, D'Ambrosio era già in pensione e la brillante carriera da Pm si era conclusa per via anagrafica. Ma anche in questo caso non si può non avvertire un retrogusto di disagio. Lo stesso che scatterebbe se Colombo dovesse buttarsi nella mischia. Una scelta scansata solo da Davigo, ancora oggi in prima linea ma dentro la magistratura, e da Francesco Saverio Borrelli, troppo innamorato della propria posizione per cedere alle lenticchie di una poltrona in Parlamento.

Da «pool» a pollaio, il triste tramonto della Procura. I pm di Mani pulite per la gente erano eroi. Oggi, con la guerra tra il capo e il suo vice, il timore è che le toghe si arrestino tra loro, scrive Vittorio Feltri, Domenica 12/10/2014, su "Il Giornale". I ricordi quando invecchiano si affastellano e confondono. Ma non tutti. Molti di essi rimangono impressi nella memoria, magari non con ogni dettaglio, ma nella sostanza sì. Ci fu un lungo momento, 20 e rotti anni orsono, in cui la Procura di Milano era considerata come una cattedrale, piena di santi e di madonne. La madonna era Antonio Di Pietro. I santi erano Borrelli (il capo carismatico), Davigo, Colombo eccetera. I magistrati, in particolare i rappresentanti della pubblica accusa, furono protagonisti di una svolta assai apprezzata dal popolo, stanco della Balena bianca, dei socialisti (ladri per definizione, allora) e di qualsiasi partito che non fosse tinto di rosso vermiglio. Le toghe avevano buona fama. Chi le indossava con orgoglio e supponenza era guardato con ammirazione, facendo parte attivissima di una sorta di esercito di liberazione. I giudici (pensavano in molti, tra cui io stesso) ci libereranno dai tangentari, dai gaglioffi, dai mariuoli che hanno trasformato la democrazia italiana in una palestra di disonesti, pronti ad arricchirsi alle nostre spalle senza badare all'interesse dei cittadini, sfruttando e mortificando la povera gente oppressa dalle tasse. Un Di Pietro che, infischiandosene della consueta prudenza attribuita agli amministratori della giustizia, procedeva lancia in resta contro i magliari della politica, veniva portato in trionfo. Il suo nome si leggeva sui cavalcavia delle autostrade: «Tonino salvaci tu». Il contadino togato piaceva da matti. In lui identificavamo il vendicatore, colui che avrebbe ripulito anche gli angoli della stalla politica, ormai mefitica, infetta. Le sue prime mosse non erano gradite ai colleghi della Procura, i quali si dichiaravano stupiti e infastiditi dal fatto che costui, da anonimo magistrato, fosse diventato in poche settimane molto popolare, un divo acclamato. Borrelli mi scrisse una lettera all' Indipendente, che allora dirigevo con spirito garibaldino, un po' folle, nella quale raccomandava di non esagerare col giustizialismo. Poi successe una cosa strana ma non troppo. I Pm si resero conto che il dipietrismo era più forte della tradizionale ponderazione cui erano avvezzi i magistrati e mutarono registro. Cavalcarono quasi subito il dipietrismo che in precedenza avevano criticato, consapevoli che esso era foriero di grandi successi e incontrava il consenso delle masse. Se dapprincipio era il solo Di Pietro ad essere applaudito, nel giro di poco tempo il cosiddetto pool di Mani pulite salì in blocco sul palcoscenico, salutato con entusiasmo, e incoraggiato a castigare i mariuoli. I giornali, inizialmente titubanti e restii ad appoggiare la Procura, abbandonarono in fretta ogni timidezza e si prestarono a fare da cassa di risonanza alle inchieste che avevano scoperchiato il malaffare e la corruzione diffusa. Il pentapartito - maggioranza di governo - fu presto sgominato, ogni sua componente ridotta al lumicino. In pratica restarono in piedi soltanto l'ex Pci (cioè il Pds), il Movimento sociale di Gianfranco Fini e la Lega di Umberto Bossi. Ma queste sono cose note, anche se gli italiani più giovani, o meno anziani, le ignorano. Quello che è accaduto nel nostro Paese negli ultimi 20 anni ha dell'incredibile. Poiché la famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, sorprendendo gli addetti ai lavori politici, coincise con la vittoria di Forza Italia, frenando la corsa al potere della sinistra (sconfitta alle elezioni del marzo 1994), l'attenzione del pool milanese si concentrò sul ricco Cavaliere, sospettato di aver brigato - e commesso dei reati - allo scopo di agguantare il potere. Per un paio di decenni la Procura si è così distinta nella caccia grossa con questo obbiettivo: se incastriamo l'erede del Cinghialone torniamo alla regolarità democratica. Come è andata a finire lo sappiamo e non è il caso di ricostruire le fasi che hanno portato alla condanna di Berlusconi, base di lancio di Matteo Renzi, succeduto alle meteore Mario Monti e Enrico Letta. Ciò indispensabilmente premesso, dobbiamo ora registrare che la parziale caduta del fondatore di Forza Italia ha provocato un altro crollo: quello della Procura di Milano, che sta vivendo un periodo orrendo, contrastante con gli anni d'oro inaugurati da Di Pietro e che permisero a Borrelli di candidarsi - regnante Oscar Luigi Scalfaro - alla guida dell'esecutivo (senza fortuna). Oggi il pool sembra un pollaio. Nel senso che le liti interne alla casta dei signori magistrati prevalgono sull'attività dei medesimi. I media non si occupano più delle mirabili (si fa per dire) indagini condotte dai Vip togati, saliti alla ribalta negli anni Novanta e successivi, bensì dei contrasti violenti tra Bruti Liberati - procuratore capo - e Robledo, suo vice. I due da mesi sono in combattimento e non si è ancora capito perché cerchino vicendevolmente di farsi fuori. Lo spettacolo che essi mostrano ai cittadini è desolante. Non sappiamo chi abbia ragione e chi torto, probabilmente sbagliano entrambi a scannarsi senza requie, suscitando nei cittadini un sentimento negativo ai confini dello scandalo. Addirittura qualcuno, con perfida ironia, ha commentato in questo modo la disputa fra gli alti magistrati: avanti di questo passo, in Procura si arresteranno fra loro, in una gara a chi ne fa secchi di più. È solo una battuta, ma esprime una preoccupazione non campata in aria. Il settore giustizia è sotto attacco da alcuni lustri. Per un po' si è pensato che le polemiche con al centro i giudici fossero strumentali, tese a delegittimarli per motivi di bassa bottega politica. Poi però si è constatato che anche negli ambienti tribunalizi (che dovrebbero essere austeri e riservati) ci si mena come disperati per una poltrona, e allora la reputazione di lorsignori ne ha sofferto. I sondaggi sulla credibilità dei magistrati sono crollati rispetto ad altre epoche e dimostrano che la stima di cui essi godevano quando imperversava Mani pulite si è assottigliata paurosamente ed è prossima ad esaurirsi. Qui più che una riforma del sistema giudiziario nel suo complesso, che il legislatore non è stato capace neanche di cominciare ad abbozzare, urge un drastico richiamo alle toghe di non rendersi ridicole. Già. La giustizia può far piangere, ma non deve farsi compatire se desidera conservare un minimo di dignità.

Ecco perché stronco il libro di mio figlio. L'allora direttore de "L'Indipendente" sul saggio scritto dal figlio: "L'inchiesta è finita male ma fu necessaria", scrive Vittorio Feltri, Martedì 19/01/2016, su "Il Giornale". Non avrei mai scritto un rigo sull'ultimo libro di mio figlio Mattia, Novantatré (L'anno del Terrore di Mani pulite), se egli non mi avesse, pur con qualche ragione, scaraventato nella discarica dei reietti che seguirono con passione la cosiddetta Tangentopoli, ricavandone la sensazione che fosse un'operazione di giustizia non sommaria, ma diretta a punire i reati commessi dai politici col pretesto di fare politica. Non voglio impegnarmi in una difesa dalle accuse del mio diletto consanguineo rivolte ai magistrati e ai loro complici, cioè i giornalisti (categoria alla quale non mi onoro di appartenere): sarebbe un esercizio velleitario. Le opinioni si discutono, ma raramente si cambiano. Tu, caro Mattia, narri con efficacia ciò che accadeva nei giorni del 1993 (e anche del 1992): arresti in massa, il tintinnio minaccioso delle manette che era diventato la colonna sonora di quei tempi funesti, le detenzioni tese a strappare confessioni, le delazioni finalizzate a ottenere la libertà (almeno) provvisoria. Racconti con dovizia di particolari le vanterie della Procura di Milano, la paura che serpeggiava nelle segreterie dei partiti (del Caf), le angosce degli indagati, le varie porcherie commesse nelle stanze del Palazzaccio, la disinvoltura acritica dei cronisti giudiziari che si abbeveravano negli uffici dei Pm e compilavano articoli interamente ispirati dalle toghe. Hai ricostruito fedelmente, con autentico pathos, il clima che si respirava in quegli anni tribolati a Milano: Antonio Di Pietro, oscuro manovale del diritto, all'improvviso salito sul piedistallo riservato agli eroi, venerato come la Madonna, invocato quale purificatore, amato dalle folle perché per primo castigava i reprobi. Hai dipinto un quadro in parte abbacinante e in parte fosco. La realtà, d'altronde, non è mai a tinta unita. Hai reso alla perfezione l'atmosfera diurna dell'epoca. Ma hai completamente trascurato cosa accadeva nelle notti della Prima Repubblica. Di notte entrava in azione la Banda Bassotti. Forse te ne sei dimenticato. Forse ti sei lasciato trascinare dalla vena letteraria e ti sei fissato sulle nequizie della famosa e turpe inchiesta. La smemoratezza è una malattia di molte famiglie, figurati se la nostra ne è immune. Di giorno i magistrati facevano strage di mariuoli, di ladri e anche di innocenti: ma al calar delle Tenebre, caro Mattia, si perpetravano furti su furti per decenni impuniti, considerati perdonabile routine. Era diffusa la sensazione che la tangente fosse lecita, una pratica di ordinaria furfanteria. I politici che rubavano per il partito non si sentivano colpevoli, erano persuasi di agire per il bene della Patria e non esitavano a riempirsi le tasche di denaro sporco, confondendolo con il proprio e usandolo in proprio per pagarsi le ville sull'Appia Antica, la cui pigione veniva saldata prelevando l'occorrente dal bottino. Su questo è opportuno sorvolare? Essi spendevano e spandevano senza requie. Vivevano ben oltre le loro disponibilità. Con quali mezzi? Da notare che se fregare per il partito non sembra una grave scorrettezza, in verità è gravissima, perché non c'è neppure l'attenuante dello stato di necessità. Rubavano, i politici, allegramente a livello istituzionale. Autorizzati dal superiore principio secondo il quale la democrazia costa. I partiti organizzavano congressi e riunioni faraoniche, cui seguivano serate in discoteca dove scorrevano fiumi di champagne. Chi saldava il conto? Le aziende che versavano le stecche in cambio di lavoro. Ciò faceva comodo anche agli imprenditori, i quali però, se non si fossero piegati alle richieste delle segreterie, sarebbero stati tagliati fuori dagli appalti. Un'opera pubblica da un milione, finiva così per costare due milioni o tre. La spartizione era assai onerosa. Risultato. Il debito pubblico impazziva. E ne soffriamo ancora gli effetti devastanti. Che dovevano fare Di Pietro e i suoi soci, voltare la testa dall'altra parte, fingere di non vedere? I magistrati hanno sbarellato, ansiosi com'erano di salire alla ribalta. Ed io, come altri cronisti, ho assecondato ciecamente un sistema investigativo pressappochistico e dozzinale che, però, se non giustificabile, era comprensibile dato il momento. Un momento di forti tensioni sociali, influenzato ed alimentato dal desiderio di cancellare una classe dirigente incapace (come quella attuale) di amministrare la cosa pubblica, sacrificandola alla saccoccia. Mattia, ti chiedo per quale motivo il pentapartito, che era al governo, non ha mai pensato a legittimare il finanziamento privato della politica. Era nelle sue facoltà approvare una legge in proposito. Non ha mai provveduto a farlo perché, se tutto fosse stato chiaro e controllato, nessuno avrebbe più distratto una lira in quanto ogni partito sarebbe stato costretto a presentare bilanci verificati. Zero margini per appropriazioni indebite. E con quali soldi sarebbero stati liquidati gli affitti delle ville sull'Appia Antica? E chi avrebbe contribuito ad incrementare i consumi della cosiddetta Milano da bere? Non siamo nati ieri, né tu né io; abbiamo uso di mondo e siamo consapevoli di come girasse il fumo negli ambienti politici. Sono stati trovati conti ricchi all'estero attribuibili a personaggi dei partiti. Ovvio che la magistratura abbia colpito duro, acquisendo poi un potere eccessivo di cui sopportiamo ancora i riflessi. Ti do atto che nel casino generato da Mani pulite, accresciuto dallo sbandamento provocato dalla avanzata della Lega, dal crollo del muro di Berlino, dalla perdita di credibilità dei partiti, si sono compiute nelle indagini delle immonde esagerazioni. Cosicché ha preso piede un giustizialismo che si spiega soltanto con la fregola di spingere la sinistra alla conquista del primato nazionale a spese degli altri partiti. E cara grazia che Berlusconi ha spaccato il giochino degli ex comunisti. Questo è noto a tutti. Ma prima di dire che il dipietrismo è stato solo schifezze occorre riflettere. Tonino non ha violentato un esercito di vergini, ma ha sbaragliato una cosca di ladri che non ebbe il coraggio di varare una legge idonea a porre ordine nella materia. Una classe politica di straccioni. Alcuni dei quali sono stati castigati ingiustamente, ma altri l'hanno fatta franca, per esempio i compagni. E ciò è indigeribile e autorizza a sospettare che le toghe non abbiano agito con troppo zelo. Tuttavia, non sottovalutiamo un fatto: se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70 per cento. Amen. Peccato che un libro sui grassatori non sia mai uscito, completo. Per concludere. Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile in pieno. Su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene. Se il prezzo della democrazia è la disonestà endemica, conviene intervenire col pugno di ferro. Quanto agli errori dei magistrati, non è il caso di enfatizzare quelli a danno dei politici. I cittadini ogni giorno sono vittime di soprusi e angherie in tribunale, e nessun parlamentare di oggi e di ieri ha osato fiatare.

Vent'anni di persecuzione continua. Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca Fazzo, Venerdì 02/08/2013, su "Il Giornale". E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.

Così Berlusconi smaschererà i giudici. L'ex premier spiegherà agli italiani tutte le falle del processo Mediaset e l'assurdità della condanna: ecco cosa dirà, scrive Paolo Guzzanti, Giovedì 22/08/2013, su "Il Giornale". Che dirà agli italiani Silvio Berlusconi all'inizio di settembre? Tutti si arrovellano, molti si chiedono, altri ipotizzano e quanto a me, ho formato il numero di telefono di Arcore e ho avuto fortuna: mi ha risposto dopo un paio di minuti. Quella che segue non è un'intervista, ma quel che resta di una conversazione durata otto minuti e 43 secondi, tanti quanti ne ha contati il mio cellulare. Che cosa farà dunque l'ex presidente del Consiglio? Se ho capito bene, sta preparando una vera lezione di storia. Certo, sarà la sua storia, ma nessuno può negare che la sua storia coincida con una parte della storia collettiva del nostro Paese. Berlusconi traccerà dunque la storia del suo processo e spiegherà ciò che a suo parere documenta la sua innocenza e l'ingiustizia subíta. Spiegherà che cosa avrebbero potuto dire i testimoni che la sua difesa aveva chiesto di udire, ma che sono stati rifiutati dalla Corte. Sosterrà l'assurdità di una condanna penale per un reato fiscale su una vicenda ancora aperta in sede di ricorso per dire ai suoi ascoltatori ed elettori (prima o poi, si dovrà pur andare a votare) di essere stato vittima di un'antica e ben oliata trappola giudiziaria per farlo fuori. Mi ha però particolarmente colpito quel che Berlusconi ha detto a proposito della magistratura. La sua tesi è che il problema non è tanto quello di un'entità astratta (potere? ordine?) come la magistratura, ma di quella specifica parte dei magistrati che fa capo alla corrente politica chiamata Magistratura democratica. Così, mentre ascoltavo mi è venuto un flash: rivedevo me stesso negli anni Sessanta e Settanta, quando ero psiuppino (da Psiup, Partito socialista di unità proletaria) cioè parecchio più a sinistra del Pci, e cominciai a seguire le vicende e le parole dei primi magistrati di sinistra - chi ricorda più i «pretori d'assalto»? - i loro congressi, le pubblicazioni, i dibattiti. Non ne mancavo uno e li trovavo straordinari: vi si diceva, su una vasta scala di tonalità, che in Italia c'è un deficit di democrazia che sarebbe stato colmato soltanto quando la sinistra, allora comunista, sarebbe andata al potere. I magistrati di quella corrente che diventò «Emmedì» (Magistratura democratica, appunto) non facevano mistero della loro missione politica mentre indossavano la toga e dicevano tutti più o meno così: «Noi, in quanto operatori della giustizia, dobbiamo fare tutto quanto in nostro potere per bloccare qualsiasi persona o partito che possa ostacolare l'avanzata della sinistra». A me, allora che avevo quarant'anni meno di oggi, sembravano propositi meravigliosi, rivoluzionari e «in linea» con la nostra linea di allora. Non ce ne fregava assolutamente niente - politicamente parlando - di che cosa fosse vero e che cosa fosse falso, di chi fosse buono e di chi fosse cattivo, purché la linea andasse avanti. Eravamo tutti, allora, «sdraiati sulla linea». Non avevamo, noi giovani rivoluzionari e i giovani magistrati di allora, nulla di liberale: la parola «libertà» la trovavamo utile per le lapidi e le canzoni partigiane che cantavamo a squarciagola, perché venivamo da una scuola di pensiero - comune a tutti i comunisti, ma anche a tutti i fascisti e nazionalsocialisti del secolo scorso - secondo cui l'unica cosa che importa è la presa del potere, possibilmente per vie legali e democratiche (ma senza rinunciare ad altre opzioni che la Storia nella sua generosità può metterti a disposizione) sapendo che questa presa del potere, come ogni parto difficile, ha bisogno di bravi ginecologi, talvolta del forcipe e anche della lama del bisturi. «La rivoluzione non è un pranzo di gala» disse Lenin a Bertrand Russell orripilato per le esecuzioni di massa a Mosca, e neanche la giustizia deve essere tanto ossessionata dalle buone maniere, o semplicemente dall'idea «borghese» del giudice terzo, indipendente, sereno, che appende con il cappotto anche le sue idee sull'attaccapanni. Qualcosa di analogo avveniva in psichiatria. Ero molto amico di Franco Basaglia, padre della psichiatria democratica, che quando era a Roma veniva spesso a prendere un caffè da me. Basaglia mi spiegava con entusiasmo rivoluzionario che non esiste la malattia mentale, ma soltanto la malattia generata dalla classe borghese che con le sue contraddizioni e violenze crea la malattia, schizofrenia e paranoia. Dunque, mi diceva, il disturbo andava trattato come una questione politica: «Non si tratta soltanto di chiudere i manicomi - chiariva - ma di far esplodere il nucleo sorgente della borghesia stessa, ovvero la famiglia borghese». Ne seguì una legge di riforma psichiatrica che ha seguito quelle direttive: i manicomi sono stati chiusi, ma la sofferenza psichiatrica è stata spostata sulla famiglia incriminata con il bel risultato di far accatastare negli anni più di diecimila morti per violenze psichiatriche, come documentò l'indimenticato psicanalista liberale e libertario Luigi De Marchi in un convegno che promovemmo insieme in Senato anni orsono. È sintomatico come due cardini regolatori della stabilità sociale come la psichiatria e la giustizia siano stati mossi dallo stesso impulso ideologico e negli stessi anni. E che da allora seguitino a diffondere le conseguenze di quella distorsione ideologica. Ma torniamo alla chiacchierata con Berlusconi. Quando mi ha riportato alla memoria storica di Emmedì per averne letto - mi ha detto - centinaia di documenti antichi e recentissimi - mi sono suonati parecchi campanelli. Ho ricordato che quando io stesso mi sentivo dalla loro parte mi rendevo conto che non avessero come primo scopo l'esercizio di una giustizia indipendente, tale da garantire ogni cittadino a prescindere dalle sue idee. Volevano, al contrario, garantire la vittoria di chi stava sul carro della presa del potere e procurare la sconfitta di chiunque fossa dalla parte opposta e ostacolasse la sinistra. La fedina penale di Berlusconi diventò subito nerissima appena sfidò «la gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e la ridusse in frantumi. Partirono subito raffiche di avvisi di garanzia che mi ricordavano i killer di Al Capone che, quando andavano a far fuori qualcuno, prima di tirare il grilletto ci tenevano a precisare: «Nothing personal: it's just business». Nulla di personale, è solo una questione di affari, e facevano fuoco. Anche con Berlusconi, e non soltanto con lui molti magistrati sembrano comportarsi come se fossero animati da quell'antico modo di intendere la giustizia. E così quando il Cavaliere mi ha detto che si era messo a studiare i dossier di tutte le dichiarazioni politiche dei magistrati di Emmedì raccolte negli ultimi anni, ho capito perfettamente a che cosa si riferiva. Spesso si leggono delle espressioni sarcastiche sulla questione delle «toghe rosse», come se si trattasse di una tipica panzana berlusconiana, del tutto inventata. Penso che siano sarcasmi difensivi. Penso anche - calendario e fatti alla mano - che la magistratura avesse fin dal 1980, almeno, tutti gli elementi per scatenare una campagna moralizzatrice sulle ruberie della politica, sulla commistione tra affari e politica, come io documentai con la storica e fortunata intervista a Franco Evangelisti passata alla storia delle cronache come «A' Fra' che te serve». La risposta della magistratura fu il silenzio di tomba. Il sistema di approvvigionamento dei partiti, Pci in testa, andava allora benissimo anche a quella parte della magistratura democratica che soltanto quando partì la parola d'ordine di decapitare la prima Repubblica, scattò gridando allo scandalo, alla necessità di fare pulizia, di castigare e demolire. Prima, neanche un fiato. L'operazione Mani pulite annunciò con le trombe e i tamburi la scoperta dell'acqua calda, annunciando che i partiti prendevano il pizzo dagli imprenditori e il Pci, in barba al codice penale e alla Costituzione, lo prendeva dall'Urss. Anzi, il reato commesso dal Pci, che importava capitali in nero su cui non pagava una lira di tasse - a proposito di evasione fiscale! - veniva usato come alibi: poiché i comunisti prendono soldi dai russi, noi per pareggiare il conto li andiamo a prelevare dalle tasche degli imprenditori. La magistratura inquirente usò senza risparmio la detenzione preventiva come forma di tortura che condusse molti al suicidio (penso a Gabriele Cagliari che si ficca in testa un sacchetto di plastica e muore in cella e a Raul Gardini che si ficca una pallottola nella tempia dopo essersi fatto una lunga doccia purificatrice) e tutte le suggestioni mediatiche che indussero gli italiani a credere davvero che la corruzione a favore dei partiti fosse nata con il Psi di Craxi e con la Dc di Andreotti e Forlani. Mentre la memoria mi riportava a quei vecchi fatti - ma come mai il libro The Italian Guillotine di Peter Burnett e Luca Mantovano non è stato mai tradotto in italiano? - Berlusconi sosteneva che è veramente un caso straordinario in Italia che un uomo sia condannato a una pena detentiva per una supposta evasione fiscale per una cifra ancora sottoposta a vari ricorsi. E riflettevo: è vero. Ditemi voi, dica qualcuno più informato di me, quanti imprenditori, evasori, uomini politici e no, sono finiti in galera per evasione. La memoria non mi soccorre. La Guardia di finanza ha appena accertato che 5mila evasori totali, ora identificati, hanno sottratto al fisco ben 17 miliardi di euro «a spese dei contribuenti onesti». Non ricordo di aver letto che una processione di cellulari li abbia trasferiti in galera. Eppure, 17 miliardi sottratti sono più del doppio dei miliardi di ricchezza che le aziende di Berlusconi hanno versato nelle casse dello Stato. Ma Berlusconi è stato condannato alla galera per una supposta evasione dell'1,2 per cento delle sue imposte. Bah, sarà tutto vero, ma non c'è qualcosa che non quadra? Per la cronaca, Berlusconi mi ha confermato che non chiederà la grazia, non chiederà i servizi sociali, non chiederà i domiciliari, non chiederà nulla: c'è in ballo un enorme problema politico e a quello deve pensare chi ha gli strumenti per farlo, dice. Penso alluda al presidente della Repubblica, ma non l'ha detto. Ci siamo salutati e mi sembrava tutt'altro che depresso e rassegnato.

Gli Usa: l'ex Pci voleva rovinare Berlusconi e tutte le sue aziende. Nel maggio '94 l'ambasciatore avvisò la presidenza Clinton: "Il Pds è deciso a distruggere il nuovo premier". Pochi mesi dopo l'agguato dei pm di Milano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 29/02/2016, su "Il Giornale". La sinistra vuole distruggere Silvio Berlusconi. I postcomunisti non accettano la discesa in campo del Cavaliere e hanno deciso di toglierlo di mezzo. Come un abusivo. Le carte della diplomazia Usa, pubblicate oggi per la prima volta dal Giornale, sono un documento straordinario, un'anticipazione di quel che sarebbe puntualmente successo di lì a pochi mesi: l'uscita di scena del premier, azzoppato dall'avviso di garanzia del Pool Mani pulite. L'ambasciatore Usa Reginald «Reg» Bartholomew aveva capito tutto e aveva avvisato Washington e l'amministrazione Clinton. I documenti trovati a Washington al Dipartimento di Stato da Andrea Spiri, professore della Luiss, confermano la previsione dell'accerchiamento e poi dell'attacco letale. È il 4 maggio 1994 quando Bartholomew invia a Washington un documento profetico, chiamato «Profilo del primo ministro incaricato Silvio Berlusconi». Il 4 maggio il governo deve ancora insediarsi, il Cavaliere entrerà a Palazzo Chigi solo il 10 maggio, ma il film è già scritto: il countdown è partito, il Pds non tollera l'idea che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sia stata battuta quando pensava di avere campo libero sulle macerie della Prima Repubblica. A dicembre, ben prima delle elezioni, Bartholomew aveva già incontrato Berlusconi e il Cavaliere gli aveva spiegato che «il suo primo obiettivo, quando ha deciso di entrare in politica, era sconfiggere la sinistra». Il problema è che la sinistra, che verrà presa in contropiede dal clamoroso successo di Forza Italia, ha deciso di far fuori la nascente anomalia in grado di scompaginare i piani di D'Alema e Occhetto. Berlusconi l'ha raccontato subito all'ambasciatore che però ha messo insieme altri indizi e non si fa nessuna illusione su quello che avverrà: «Berlusconi ha riferito, e i contatti giornalistici giurano sia vero, che gli uomini del Pds (e D'Alema in particolare) hanno apertamente fatto sapere che se venissero eletti distruggerebbero economicamente Berlusconi. È stato riferito che D'Alema avrebbe detto (e non l'ha mai smentito) che il suo grande desiderio era quello di vedere Berlusconi elemosinare nel parco. È stato anche riferito che altri esponenti Pds avrebbero detto che lo stesso Berlusconi farebbe bene a lasciare l'Italia in caso di loro vittoria perché l'avrebbero distrutto». Storie note, fra voci e suggestioni, rimbalzate per molti anni nell'arena del bipolarismo italiano. Ma certo, in quel fatale maggio di 22 anni fa, Bartholomew, scomparso nel 2012 a 76 anni, mette in fila gli elementi e prefigura il copione che puntualmente si svolgerà nelle settimane successive: il 10 maggio, solo sei giorni dopo, il Cavaliere giura ma la macchina bellica, per niente gioiosa, è già in moto. I postcomunisti troveranno una sponda decisiva nell'azione della magistratura che il 21 novembre uccide di fatto il governo inviando al premier un invito a comparire per corruzione, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera. Per di più nelle stesse ore in cui Berlusconi è impegnato in una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli. L'effetto è devastante e si somma alle manovre di Palazzo del presidente Oscar Luigi Scalfaro, lo stesso di cui altri report americani, pubblicati ieri in esclusiva dal Giornale, documentano l'ostilità totale verso il Cavaliere. Un intruso da sloggiare prima possibile, come ha svelato agli americani una fonte autorevolissima: l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. «Cossiga - scriverà Bartholomew il 20 dicembre, quando ormai Berlusconi è sull'orlo delle dimissioni - ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Ma il 4 maggio 1994 la breve avventura del Cavaliere deve ancora cominciare. Eppure, con alcuni distinguo e con la necessaria prudenza, l'amministrazione democratica sembra accogliere senza diffidenza l'uomo cresciuto lontano dal Palazzo: «Berlusconi è un uomo che si assume dei rischi... che si è mosso in maniera rapida per colmare il vuoto politico provocato da Tangentopoli». Del resto con straordinaria preveggenza in un altro report, datato addirittura 15 ottobre '92, l'ambasciatore Peter Secchia, a Roma prima di Bartholomew, già aveva battezzato il Cavaliere «come nuovo leader politico», con la benedizione del declinante Craxi. E aveva evidenziato la sua partecipazione a una cena organizzata dal segretario del Pli Renato Altissimo per creare un soggetto politico in grado di raccogliere l'eredità del pentapartito. «Il governo Berlusconi sembra cadere - scrive a dicembre Bartholomew - E poi? Se cade - nota con un affilato giudizio controcorrente - questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro».

Da Scalfaro a Napolitano: le trame anti Cav del Colle nei rapporti segreti Usa. Ecco le carte choc della diplomazia americana che dimostrano il pressing del Quirinale dietro le cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e nel 2011, scrive Stefano Zurlo, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Strategie e complotti. Washington e Silvio Berlusconi. Amministrazioni diverse, repubblicana e poi soprattutto democratica, ma grande attenzione ai volteggi del Cavaliere, alle convulsioni della politica italiana dominata da Berlusconi alle cospirazioni di Palazzo. Un monitoraggio fittissimo e a tratti invasivo lungo un ventennio. Alcune carte inedite, oggi pubblicate per la prima volta dal Giornale, documentano rapporti consolidati e preferenziali con alcune personalità, dubbi e oscillazioni dei presidenti a stelle e strisce e dei loro staff. Una mole di carte che Andrea Spiri, professore a contratto alla Luiss, ha scovato al Dipartimento di Stato di Washington, dopo la progressiva desecretazione dei file fra l'ottobre 2012 e il dicembre 2015. Gli americani mostrano di avere antenne molto sensibili nel nostro Paese e individuano subito, addirittura nell'ottobre '92, in piena tempesta Mani pulite, Silvio Berlusconi come possibile leader di un nuovo partito. Siamo molto prima della discesa in campo, a Washington sono gli ultimi mesi della presidenza di Bush padre, ma i riflettori si accendono subito su un futuro che ancora nessuno conosce. L'ambasciatore Peter Secchia invia un documento classificato come confidential: Le incertezze italiane. La soluzione è un nuovo partito politico? L'ambasciatore ha fatto indagini che riassume con concisione e pragmatismo: «Il segretario del Pli Altissimo ha organizzato una cena di lavoro segreta il 12 ottobre per proporre la formazione di un nuovo partito... La cena si è tenuta il 13 ottobre presso il Grand Hotel. Da quanto viene riferito il gruppo, di cui faceva parte il magnate dei media Berlusconi, così come Francesco Cossiga, ha deciso di chiedere allo stesso Cossiga di formare un nuovo partito... La partecipazione di Berlusconi è di speciale significato, per via della vicinanza di Craxi. La sua apparizione come un nuovo leader politico potrebbe avere la benedizione dello stesso Craxi. Comunque è anche la riprova che la potenza di Craxi, duramente colpito dagli scandali, continua a declinare». In ogni caso, «gli italiani - spiega - sono confusi e cercano il cambiamento». Una discontinuità che porterà a Palazzo Chigi nel '94 proprio Berlusconi. Due anni più tardi, a fine '94, il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew scrive a Washington e descrive con una certa preoccupazione l'agonia del primo esecutivo Berlusconi, minato dall'avviso di garanzia e dalla manovre del presidente Oscar Luigi Scalfaro. «Il governo Berlusconi - nota l'ambasciatore - sembra cadere. E poi? Se cade, questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro verso la politica screditata che ha visto succedersi dalla fine della Seconda guerra mondiale 52 governi. Potrebbe inoltre consolidare la percezione che la politica operi essenzialmente in maniera indipendente e lontana dalla gente». Bartholomew, insomma, ha più di un dubbio sull'operazione in corso a Roma per sloggiare il Cavaliere. Ma non c'è niente da fare. Il 20 dicembre, due giorni prima delle dimissioni, Bartholomew invia una nota a Washington in cui spiega senza tanti giri di parole che il presidente Scalfaro l'ha giurata a Berlusconi e vuole cacciarlo da Palazzo Chigi. A svelargli gli intrighi è stato un testimone eccellente come Francesco Cossiga. «Cossiga - scrive l'ambasciatore rivolgendosi alo staff di Bill Clinton - ha sottolineato che uno dei fattori che stanno incidendo sulla crisi è la rottura irrecuperabile fra Scalfaro e Berlusconi. Cossiga ha riferito che Scalfaro si sentiva profondamente offeso dalle recenti batoste pubbliche ricevute dai berlusconiani, in particolare dal portavoce del governo Ferrara. Cossiga ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Il destino è segnato. Di crisi in crisi si arriva fino all'attualità. E all'ultimo giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. A novembre 2011, con lo spread impazzito e la coppia Merkel-Sarkozy che lo guarda con sorrisetti di scherno, Berlusconi getta la spugna. Il 12 novembre il sottosegretario alla crescita economica Robert Hormats invia una mail a Jacob Sullivan, capo dello staff del segretario di Stato Hillary Clinton. Hormats riprende il report spedito il 9 novembre dall'ambasciatore David Thorne: «Continuano i battibecchi politici, ma la direzione generale è fissata». Segue un misterioso omissis. Quindi Thorne riprende: «Sono anche intervenuti la Merkel e Sarkozy. Lo spread è sotto il picco, ma ancora molto alto. L'Italia sa quello che deve fare. David». «Spero - riprende un per niente galvanizzato Hormats - che Thorne abbia ragione, che l'Italia sappia quello che deve fare. Dovremmo vedere se Monti può farcela con gli insofferenti e se può portare dalla sua parte l'opinione pubblica. Egli è molto brillante, ma le sue capacità politiche e motivazionali andranno verificate». E infatti Monti si rivelerà un disastro. Intanto, Giorgio Napolitano, presunto regista del complotto anti Cav del 2011, annuncia che non risponderà alle domande su quel che successe in quelle settimane. Quel che è accaduto nel 2011 - confida all'Huffington Post - possono ricavarsi da molteplici miei interventi pubblici. Non ritengo ritornarci attraverso mie memorie che al pari dei miei predecessori non scriverò».

Così si decapita la democrazia. Un uomo politico è stato fatto fuori con una sentenza anziché con il voto: i pm hanno un potere illimitato, scrive Vittorio Feltri, Venerdì 02/08/2013, su "Il Giornale". Fino all'ultimo non ci avevamo creduto. Pensavamo fosse impossibile che si potesse far secco un uomo politico con una sentenza anziché col voto popolare. E invece è successo proprio questo: Silvio Berlusconi è stato fatto fuori; non potrà più mettere piede in Parlamento. Non solo perché la pena accessoria (interdizione dai pubblici uffici) glielo vieta per un periodo ancora da stabilirsi, ma anche perché esiste una legge, paradossalmente voluta dal centrodestra, secondo la quale chi ha subìto una condanna superiore a due anni di carcere non ha facoltà di presentarsi candidato alla Camera o al Senato. Peggior disastro era inimmaginabile. Anzi, si supponeva che il terzo grado di giudizio agisse con mano più leggera rispetto all'appello e trovasse il modo per salvare capra e cavoli. Dove per capra si intende la dignità della giustizia, che aveva infierito sull'imputato eccellente, e per cavoli si intende l'equilibrio politico che la maggioranza cosiddetta delle larghe intese garantiva all'Italia, sostenendo il governo guidato da Enrico Letta e tenuto a battesimo dal presidente Giorgio Napolitano. Non è stato così. I giudici della Corte di Cassazione, nonostante la difesa brillante dell'avvocato Franco Coppi, affiancato dal collega Niccolò Ghedini, hanno preferito confermare il verdetto infausto che costringe il fondatore di Forza Italia e del Popolo della libertà ad arrendersi. Non è questa la sede più adatta per entrare nel merito delle accuse rivolte al proprietario di Mediaset nonché capo carismatico del Pdl. Ci limitiamo a valutare le conseguenze della sentenza. Che sono terribili per il nostro Paese. L'eliminazione diremmo fisica di un soggetto politico importante, quale è (era) il Cavaliere, per via giudiziaria, costituisce un precedente che fa venire i brividi: la democrazia è stata per la prima volta decapitata in un tribunale. Un fatto inedito e gravissimo che segna l'inizio, probabilmente, di un'era in cui l'esito della lotta politica non sarà più determinato dal consenso popolare, bensì dalle toghe cui gli stessi politici hanno consegnato poteri illimitati, illudendosi di trarne chissà quali vantaggi. Ci riferiamo alla rinuncia avvenuta vent'anni orsono, da parte dei deputati e dei senatori, dell'immunità parlamentare che i padri costituenti avevano introdotto nella Carta allo scopo di tutelare gli eletti nella loro libertà e indipendenza, anche dalla magistratura. Abolita l'immunità, i parlamentari si sono esposti all'azione penale obbligatoria col risultato che qualunque sostituto procuratore può aprire un'inchiesta e portarla a compimento contro chi sia stato prescelto dai cittadini e ne abbia ricevuto il mandato di rappresentarli alla Camera o in Senato. Se poi aggiungiamo che, nel periodo di Tangentopoli e Mani pulite, si è creata una strana alleanza tra sinistra e alcune toghe, si comprende il motivo per il quale vari magistrati hanno dato l'impressione, col loro lavoro, di favorire un partito danneggiandone altri. Naturalmente, queste sono chiacchiere, il cui senso molti non condividono. Rimane il fatto storico che Berlusconi, da quando ha smesso di fare l'imprenditore e si è gettato nell'agone politico, non ha più avuto pace. I suoi guai giudiziari cominciarono infatti nel 1994, subito dopo aver vinto le elezioni nazionali. Decine di processi, accuse d'ogni tipo, perquisizioni, controlli. Mediaset non ha mai più avuto requie. E il suo principale azionista, il Cavaliere, ha trascorso più tempo a difendersi che non a curare gli interessi degli italiani che governava o che rappresentava all'opposizione. Un fenomeno mai visto, al quale tuttavia ci eravamo abituati. A un certo punto, Berlusconi indagato o processato non faceva più notizia. Era una consuetudine. Tant'è che nessuno immaginava che egli potesse essere condannato. Anche ieri, in attesa del verdetto della Cassazione, eravamo tutti tranquilli: non lo condanneranno mai. La nostra fantasia, pur fervida, non contemplava l'ex premier privato della libertà personale. Viceversa, è successo anche questo: in galera. O ai domiciliari. O ai servizi sociali. Non sono i dettagli che contano ma la liquidazione di un personaggio con le maniere forti. Quelle della legge. Che non si discute. Chissà perché, poi, una sentenza emessa in nome del popolo italiano non può essere discussa, ma solamente rispettata. C'è qualcosa di abnorme, di assurdo. Quale futuro ci attende? Non lo sappiamo. Sappiamo però che stiamo sprofondando. E la chiamano giustizia.

Silvio no, Matteo neppure Non è che il problema sono proprio i magistrati? I magistrati si sentono dei padreterni e rifiutano critiche desiderando continuare a spadroneggiare, scrive Vittorio Feltri, Domenica 25/10/2015, su "Il Giornale". Ieri i giornaloni italiani, Corriere e Repubblica, avevano in prima pagina un titolo dedicato allo scontro tra toghe e governo. Le prime si lagnano con il secondo perché si sentono delegittimate. Cosa vuol dire? Senza perderci in voli pindarici, semplifichiamo: i magistrati, dei quali non voglio parlare male perché li temo (peggio, ne ho una paura fottuta) ce l'hanno a morte con l'esecutivo, lo accusano di essere più attento alle intercettazioni (odiate dai politici) che alla mafia. Il premier Matteo Renzi risponde irritato: i giudici non fanno mai autocritica. Per pura piaggeria sarei tentato di dare ragione ai signori della cosiddetta giustizia allo scopo di tenermeli buoni, però non posso nascondere il sospetto che essi si sentano dei padreterni e rifiutino critiche desiderando continuare a spadroneggiare. Perché dico questo? Quando a menare il torrone era Silvio Berlusconi, notoriamente intenzionato a riformare l'ordine giudiziario, i magistrati hanno fatto il diavolo a quattro per incastrarlo e ci sono riusciti alla grande, vincendo la partita. Tant'è che lo hanno messo fuori gioco conservando i privilegi di cui godono da sempre. Poi è arrivato Renzi a Palazzo Chigi ed è noto com'è andata. Il premier ha cercato di ridurre le loro ferie, ha introdotto un ampliamento della possibilità di ricorso contro di loro in caso di negligenza, senza contare altri ritocchi limitativi. Non entriamo nei dettagli della mini riforma onde non annoiare il lettore che, comunque, avrà capito quanto sia difficile disciplinare il lavoro nei tribunali. Ciò che ci sorprende è il fatto che, a prescindere dal colore della maggioranza da cui dipende la guida del Paese, i magistrati - non tutti, ma quasi - mal sopportino le ingerenze nella loro attività, dando l'impressione di considerarsi intoccabili, al di sopra di ogni autorità, come se costituissero una casta divina, non soggetta ad alcun controllo. Perfino noantri, gente volgare, siamo consapevoli che una Repubblica democratica si regga sull'equilibrio dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma non ignoriamo neppure che esista la legittima possibilità che ciascuno di essi sia soggetto a modifiche tese a migliorare il funzionamento dello Stato. Un esempio. Per quale motivo qualunque lavoratore che commette un errore è chiamato a risponderne in sede penale o civile, tranne colui che indossi una toga? I medici, ai quali la nostra vita è legata, se sbagliano una diagnosi o una terapia, sono processati ed eventualmente obbligati a risarcire, mentre i magistrati sono sollevati da responsabilità? Inoltre, perché i dipendenti pubblici sono costretti a timbrare il cartellino, eccetto lorsignori addetti all'amministrazione della giustizia? Ci sono giudici che si portano a casa fascicoli giudiziari, nei quali chiunque, dai figli alle mogli e alle collaboratrici domestiche, ha facoltà di ficcarvi il naso, quando invece dovrebbero restare segreti? Non sarebbe il caso di rivedere certe norme? Vietato anche solo parlarne senza suscitare reazioni scomposte da parte degli interessati. Noi non siamo tifosi di Renzi, e il lettore se ne sarà accorto, ma nella presente circostanza siamo con lui, che non ha in programma di distruggere l'ordine giudiziario, bensì di renderlo compatibile con gli schemi vigenti in altri settori, non solo pubblici. Suvvia magistrati, siamo nelle vostre mani; vi preghiamo di averle pulite. Vi consigliamo altresì la lettura del libro di un vostro collega aderente a Magistratura democratica, Piero Tony, ex procuratore capo di Prato, ovviamente di sinistra, che ha denunciato le porcherie della propria categoria. Un testo istruttivo, mai smentito, dove si scoprono molti altarini e si dimostra quanto una riforma della corporazione non sia necessaria, bensì indispensabile. Se destra e sinistra sono critiche nei confronti della casta togata forse la casta stessa dovrebbe tacere e cogliere l'occasione per farsi un esame di coscienza. Se ce l'ha. Dimenticavo il titolo del volume: Io non posso tacere.

ECCO COME MD HA IMPEDITO OGNI RIFORMA. Le mosse di Magistratura Democratica per bloccare le riforme della giustizia, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 15/08/2013, su "Il Giornale". Coincidenze. Un ministro della Giustizia, Clemente Mastella, nella te­naglia della magistratura: estate 2007, l’Anm,a trazione Magistratura democratica, minaccia scioperi se la riforma del­la giustizia, ormai in dirittura d’arrivo, non seguirà le indicazioni del partito dei giudi­ci; dall’altra parte lo stesso Mastella, continuamente al telefono con pm e giudici dell’Anm, è indagato a Catanzaro nell’inchie­sta Why Not. Domanda: si può scrivere un testo così importante sotto la doppia pressione del partito dei giudici e di un’inchiesta? Ma questo è lo stato dell’arte su un crinale deci­sivo nei rapporti fra politica e magistratura e più in generale per la definizione del ruo­lo della magistratura in Italia. La sfida è de­cisiva: in quei giorni convulsi di luglio Ma­stella viene bombardato dall’Anm, il cui segretario è Nello Rossi di Md, perché siano recepite le direttive delle toghe. Ma contemporaneamente si svolge una gara con­tro il tempo perché il fallimento di Mastella farebbe scattare inesorabilmente la prece­dente riforma Castelli, che per l’Anm è fumo negli occhi. Roberto Castelli, Guardasigilli del governo Berlusconi, ha partorito un’ambiziosissima legge che prevede, addirittura, la mitica separazione delle carrie­re. O meglio, prevedeva perché i dubbi e qualcosa in più dei dubbi dei centristi hanno finito con l’annacquare lo spirito della norma. La separazione delle carriere, di cui si parla a vuoto da una ventina d’anni,è rimasta in un cassetto, perché per portarla in porto sarebbe stato necessario passare per la cruna dell’ago di una nuova legge costituzionale, figurarsi, ma Castelli ha tenuto duro. E ha licenziato un testo che, in sintesi, colloca i pm da una parte e i giudici dall’altra. È la separazione non delle carriere ma delle funzioni, il massimo che si può fare in Italia, fra debolezze della politica e proteste dei giudici. Il conto alla rovescia va avanti in quelle settimane: Mastella è bersagliato dai vertici dell’Anm e, con il premier Romano Prodi, è sotto inchiesta a Catanzaro dove Luigi De Magistris si avvale dell’opera di un con­sulente discusso, Gioacchi­no Genchi. Mastella a fine mese porta a casa le norme che disinnescheranno quelle targate Castelli. La controriforma Castelli, come l’hanno bollata i signori del­l’Anm. L’Italia, che oggi avrebbe bisogno di cam­biare marcia proprio sulla giustizia, sconta ritardi che sono anche il frutto di quelle giornate. Mastella, pur di non perdere il tre­no, è andato anche a genuflettersi al conve­gno di Md, ma è stato trattato con una certe rudezza. Edmondo Bruti Liberati, oggi pro­curatore a Milano, gli ha risposto per le ri­me: «Attendiamo i fatti» senza rilasciare «cambiali in bianco».E Nello Rossi, segreta­rio dell’Anm, è stato altrettanto chiaro: «Vo­gliamo vedere i fatti e prima non faremo sconti a nessuno». Poi Mastella trova la qua­dra, ovvero vara una riforma che piace ai magistrati e manda su tutte le furie gli avvo­cati che da sempre denunciano lo strapote­re dell’accusa nelle aule di giustizia. Non importa, va be­ne così. Il comitato direttivo centrale dell’Anm - la termi­nologia è ancora sovietica ­approva con i voti decisivi di Md e delle altre correnti di si­nistra il doc­umento che fa re­tromarcia sugli scioperi. Tut­ti al lavoro. «Con la revoca della mia riforma- commen­ta amaro Castelli - emerge la verità vera che avevo previ­sto. L’agitazione è finita». Coincidenze. De Magistris e l’indagine vengono spazzati via dal Csm. Per la cronaca Roma indaga e Rossi seque­stra l’archivio Genchi in cui c’è anche una telefonata fra lo stesso Rossi e Mastella, in­dagato da De Magistris e Genchi ma autore di una riforma non sgradita a Rossi. Sem­bra una filastrocca. La giustizia è passata e passa ancora oggi lungo questi tornanti.

Un campionato truccato. La magistratura di sinistra è realtà: il pm indaga e propone, il suo compagno di corrente giudice dispone. Una anomalia che ormai si è radicata in tutti i livelli di giudizio, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 12/08/2013, su "Il Giornale". La magistratura di sinistra, ideologica e settaria, non è un'invenzione, o addirittura una paranoia, del berlusconismo. Nel corso degli anni le toghe rosse hanno seminato tracce documentali che le configurano come una setta a tratti segreta. Lo ammise anche Massimo Caprara, segretario particolare di Palmiro Togliatti e membro del comitato centrale del Pci. Nel 2005, testimoniando a Trento in un processo per diffamazione, Caprara svelò l'esistenza di un registro segreto di magistrati iscritti al Pci che era custodito a Mosca. Craxi, in tempi non sospetti, confidò di essere venuto a conoscenza di scuole del Pci per formare magistrati organici al partito e Cossiga, nel 1997, ascoltato dalla commissione stragi, sostenne che la magistratura occupava uno dei livelli della Gladio rossa, la struttura paramilitare e clandestina che doveva essere pronta a ribaltare lo Stato democratico. A metà degli anni Sessanta accadde un fatto nuovo, destinato a cambiare per sempre la giustizia italiana. Alcuni magistrati uscirono allo scoperto fondando, cosa senza precedenti in Paesi occidentali, una corrente ideologica di sinistra chiamata Magistratura democratica, alla quale aderì (e aderirà più tardi) la maggior parte dei pm e dei giudici italiani, poi protagonisti delle inchieste che azzerarono tutti i partiti meno il Pci (Tangentopoli) e più di recente della maggior parte dei 42 processi contro Berlusconi. Il Pm indaga e propone, il suo compagno di corrente giudice dispone. Chi è iscritto a Magistratura democratica fa politica, dichiara la sua fede e combatte apertamente le altre, partecipa a convegni e dibattiti per orientare scelte legislative, alcuni si fanno eleggere in Parlamento, ne abbiamo pure visto uno, Ingroia, fondare un partito e candidarsi premier contro i suoi inquisiti di centrodestra. Una anomalia che ormai si è radicata in tutti i livelli di giudizio. Nella corte che ha confermato il carcere per Berlusconi ben due giudici, De Marzo e Aprile, erano di area Md. Può un magistrato che dichiara la sua idea politica, e sostiene di volerla imporre, giudicare serenamente politici di segno opposto? È come se un giocatore arbitrasse la partita della vita della sua squadra. La partita sarebbe truccata a prescindere, come quella che ha visto in campo Berlusconi. E questo lo sa bene anche Napolitano, che da quel mondo viene.

Ecco la vera storia di «Md»: i giudici rossi che fanno politica. Così Magistratura democratica ha acquisito potere e condizionato le scelte dei partiti La regola sin dall'inizio: le toghe devono schierarsi e cercare il consenso della piazza, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 12/08/2013, su "Il Giornale". Sono di sinistra e hanno accompagnato la storia della sinistra italiana. I giudici di Magistratura democratica sono diventati anche uno dei più famosi brand d'Italia da quando il Cavaliere ha dichiarato loro guerra. Forse, ingenuamente, qualche anima bella penserà che chiamarle toghe rosse sia una forzatura del nostro bipolarismo muscolare, ma non è così. O meglio, la storia di questa costola del potere giudiziario è un riassunto delle ideologie, degli ideali, delle ubriacature, dei condizionamenti e delle illusioni che hanno animato il versante della magistratura che da sempre ha coltivato ambizioni progressiste. Risultato: in un sistema malato, in cui le toghe sono divise in correnti e le correnti compongono una sorta di parlamento parallelo, Md è uno degli attori del sistema politico italiano. Inutile scandalizzarsi: in Italia, come ha spiegato a suo tempo Antonio Ingroia al Giornale, «la magistratura si concepisce per metà come corporazione per metà come contropotere». Ecco, Md è o dovrebbe essere, perché poi spesso è diventata il suo esatto contrario, il contropotere che si oppone alla presunta casta, coglie le sensibilità più profonde del Paese, cattura le esigenze e le istanze sociali più avanzate, capovolgendo gli equilibri reali dentro le istituzioni. Si può essere d'accordo o no, ma questo è un po' il senso dei tanti manifesti e proclami e documenti elaborati in questi lunghi anni dalle teste d'uovo della corrente. Citiamo, per esempio, Livio Pepino con il suo articolo Appunti per la storia di Magistratura democratica. Scrive il magistrato: «Che Magistratura democratica sia stata (sia) la sinistra della magistratura è noto e da sempre rivendicato». Questo l'incipit che toglie ogni ambiguità e fraintendimento. Certo, questo non vuol dire che i magistrati siano pedine del sistema dei partiti, dal Pci e dai suoi eredi a Rifondazione, ma indica comunque una precisa collocazione. Ma Pepino va ben oltre, verso la militanza attiva: «La rottura con il passato è radicale e gravida di conseguenze: ad una magistratura longa manus del governo, si addice, infatti, un modello di giudice burocrate e neutrale, mentre ad una magistratura radicata nella società più che nell'istituzione deve corrispondere un giudice consapevole della propria autonomia, attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe». Eccolo qui il magistrato che si afferma come contropotere: questo giudice fugge dal Palazzo, inteso come luogo di conservazione e di stagnazione, e si mette in testa al popolo, ne guida le battaglie, lo conduce verso la liberazione, come nel celebre dipinto di Pellizza da Volpedo Il Quarto Stato. Si dirà che si tratta di suggestioni ma non è non è così. E Pepino, in quel testo, lo spiega fin troppo bene: «Il dogma dell'apoliticità si rovescia nel suo contrario». La magistratura fa politica. Appunto. Md fa politica, da sinistra. Anche se fuori dal parlamento e senza tessere. È tutto scritto e declamato nei sacri testi. Nei comizi. Nei convegni. Nelle controinaugurazioni dell'anno giudiziario. Nei pugni alzati, come al funerale di Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, morto nel gennaio '70. È quasi cinquant'anni ormai che Md cerca la sua bussola nel grande arcipelago della sinistra. Talvolta soffrendo di collateralismo, talvolta cercando di dettare la linea al Pci-Pds e alle altre sigle della sinistra, oppure ancora spaccandosi al suo interno fra ortodossi e movimentisti e fra garantisti e giustizialisti. Se un giudice, per stare ancora a Pepino, fa a pezzi il modello basato sulla neutralità, sceglie «l'opzione di sinistra», testuale, «fa la sua scelta di campo», afferma il suo «sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti», fin dove si può spingere? Siamo su un piano inclinato su cui, sin dall'atto di fondazione del 27 luglio 1964, e poi attraverso la virata del 30 novembre 1969, si sono esercitate almeno due generazioni di toghe, con risultati che è difficile riassumere. Ma certo si tratta di alcuni dei nomi più noti della magistratura italiana: da Gian Carlo Caselli a Gerardo D'Ambrosio e a Gherardo Colombo, per rimanere fra Palermo e Milano, fra i processi alla cupola, ad Andreotti e a Dell'Utri e l'epopea di Mani pulite. E poi Livio Pepino, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Giuseppe Palombarini, autore del fondamentale Giudici a sinistra. Ma l'elenco è chilometrico. E molti i tornanti, le curve, le risse, le divisioni e le ricomposizioni, le diverse sottolineature. Qualcuno, brutalmente, ritiene che la parabola di Md sia quella di un movimento che porta aria fresca nelle ovattate stanze degli ermellini, rompe tabù, distrugge un vecchio e logoro apparato di relazioni elitarie, poi piano piano, di emergenza in emergenza, fra il terrorismo e tangentopoli, si appiattisce sulle posizioni giustizialiste. Quelli di Md, con dietro tutti gli altri, un tempo ribattezzati per la loro furia culturale gli iconoclasti, diventano i picconatori della Prima repubblica e poi del berlusconismo consegnando i santuari del potere ai postcomunisti. E così la sinistra vince in Italia passando per la scorciatoia della via giudiziaria, ma dopo essere stata sconfitta proprio sul piano delle idee, delle ideologie e degli ideali naufragati fra le macerie del Muro di Berlino. È la storia drammatica che Francesco Misiani racconta nel suo bellissimo La toga rossa. Una lunga cavalcata nelle contraddizioni dei magistrati rossi: dall'epoca dei processi popolari, cui il giovane e compiaciuto Misiani assiste in Cina, all'ubriacatura da manette ai tempi di Tangentopoli quando le tentazione di abbattere un sistema marcio entra a piedi uniti anche nelle aule di giustizia. Il matrimonio è arrivato nel grande braciere di Mani pulite, scrive "Il Giornale" il 27/11/2013. Un partito ormai svuotato, senza ideologia, ha sposato un'ideologia senza partito, ovvero Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe italiane. La corporazione ha orientato l'ago della sua bussola sull'antiberlusconismo, la sinistra si è accodata. Non è una fiction, ma il pensiero di un ex di Md, Sergio d'Angelo, oggi in pensione, ma per lunghi anni giudice a Milano. D'Angelo, dopo le tante giravolte e contorsioni dei colleghi, se n'è andato. E oggi consegna al Giornale un memoriale sul rapporto malato fra politica e giustizia.

Primavera '93. Nei lunghi corridoi dechirichiani della Procura di Milano incrocio il capo del Pool Gerardo D'Ambrosio, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 29/11/2013, su "Il Giornale". Lui mi concede al volo un'intervista clamorosa: «Mani pulite è finita». Peccato che in quelle settimane Tiziana Parenti stia indagando sul cosiddetto fronte orientale di Tangentopoli. Impresa difficilissima, fra reticenze, silenzi, difese d'ufficio. Botteghe oscure resiste all'assalto dei pm milanesi. Qualche giorno dopo la Parenti, sempre più emarginata e destinata ad uscire da quel gruppo, me lo dirà apertamente: «La sua intervista mi ha delegittimato. Ho capito che non sarei andata da nessuna parte». Sono passati vent'anni, il Pci-Pds è passato indenne, o quasi, attraverso le forche caudine della magistratura di rito ambrosiano e ha assaporato il potere, salvo poi farselo portare via da un certo Silvio Berlusconi e avviarsi a recuperarlo, giusto l'altro ieri e cambiato ancora il nome, con l'estromissione del Cavaliere dal Senato. La battaglia politico-giudiziaria va avanti intrecciata e confusa. E proprio di quella stagione gloriosa e terribile, ancora oggi controversa, parla Sergio d'Angelo nella terza puntata del memoriale scritto in esclusiva per il Giornale. D'Angelo, che per molti anni è stato fra i membri di Magistratura democratica e Milano e ora è in pensione, lo sguardo critico e anche di più sullo specchietto retrovisore del suo passato, si sofferma proprio su quel periodo e fa scorrere le facce dei magistrati che, fra avvisi di garanzia e tintinnar di manette, hanno scritto un pezzo della nostra storia. Per D'Angelo è proprio in quei mesi che si realizza il matrimonio fra Md, insomma la costola sempre inquieta della sinistra in toga, e gli eredi del Partito comunista. Un partito senza ideologia, smarritosi sotto le macerie del Muro di Berlino, sposa un'ideologia senza partito, quella dei giudici che dagli anni Sessanta hanno elaborato una loro strategia per cambiare i rapporti di forza dentro il potere giudiziario e poi per entrare nei Palazzi della nomenklatura. La lunga marcia di Md, fra bandiere rosse pugni chiusi, si compie secondo d'Angelo, con «l'occupazione» del partito. Contemporaneamente, e se ne parlerà nella parte conclusiva del saggio, l'ideologia forte delle toghe forti -gli iconoclasti per usare un termine allora in voga - inizia a contaminare tutta la magistratura. Compatta conservatori e progressisti. E troverà la sua declinazione, quasi la sua colonna sonora, nell'antiberlusconismo. Fino all'epilogo drammatico di queste ore.

Da vent'anni è in corso una guerra tra magistratura e mondo politico, scrive "Il Giornale" il 01/12/2013. Il cuore del problema è la messe di privilegi cui la casta in toga non vuole rinunciare, grazie soprattutto agli eredi dell'ex Pci cresciuti all'ombra del giustizialismo propagandato dall'ala più massimalista di Magistratura democratica. L'ideologia senza partito di Md, che sogna di essere una delle colonne della lotta di classe, ha sposato un partito senza ideologia come il Pci-Pds-Ds-Pd per combattere chi aveva deciso di ostacolare il loro piano di potere: Bettino Craxi prima, Silvio Berlusconi poi. In mezzo c'è un Paese dilaniato tra le macerie.

Falce, Falcone e martello. Falcone è stato ucciso da Cosa Nostra, o forse no. Mai la giurisprudenza ha seguito la "pista russa". Oggi esce in italia un libro che cerca di fare luce sulla vicenda: "Il viaggio di Falcone a Mosca", scrive Paolo Guzzanti, Sabato 31/10/2015, su "Il Giornale". Nessuno ha mai saputo dire per quale motivo preciso Giovanni Falcone fu assassinato. Leggeremo il libro di Valentin Stepankov, ex procuratore russo e amico di Falcone, e del giornalista Francesco Bigazzi «Il viaggio di Falcone a Mosca» (Mondadori) con nuovi documenti sullo scenario che in sede giudiziaria italiana è stato evitato come la peste. Sostenere che Cosa Nostra abbia ucciso Falcone perché era «il più grande nemico della mafia» è puerile, ma anche fraudolento: Cosa Nostra non dà premi Oscar alla carriera. La mafia è una macchina per fare soldi, non per vendette teatrali. Quando Cosa Nostra uccide, c'è sempre un motivo gravissimo e immediato. Dunque: per schivare quale pericolo imminente fu assassinato Falcone? Quando arrivò a Mosca la notizia della sua morte, il procuratore Valentin Stepankov ebbe un collasso, disse di aver capito l'antifona e lasciò il suo posto, ufficialmente per dissensi politici. Tutti coloro che in Italia dovrebbero sapere, sanno della pista seguita da Falcone «following the money», ovvero seguendo il cammino in Italia del tesoro del Kgb e del Pcus. L'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin supplicò Cossiga di intervenire. Cossiga si rivolse ad Andreotti che suggerì Falcone come investigatore non ufficiale. Non aveva poteri di magistrato inquirente, ma li aveva il suo amico e confidente Paolo Borsellino. Falcone non fece in tempo ad andare a Mosca e il 23 maggio 1992 fu Capaci. Seguì, dopo meno di tre mesi, via D'Amelio.

Rubli, falce e tritolo. Le lunghe ombre russe sulla morte di Falcone. Nuove carte svelano gli intrecci tra mafia dell'Urss, Cremlino e Pci. Il magistrato doveva recarsi a Mosca per indagare sui finanziamenti ai partiti "fratelli". Ma non fece in tempo..,scrive Dario Fertilio, Mercoledì 28/10/2015, su "Il Giornale".  Un secolo e mezzo fa, per Marx, l'ideologia era «la falsa coscienza della classe al potere». Mai l'autore de Il Capitale ne avrebbe immaginato una versione aggiornata così: «l'ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere». Eppure, anche in termini rigorosamente marxiani, questa conclusione pare ineccepibile dopo aver letto Il viaggio di Falcone a Mosca, saggio firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov in uscita per Mondadori (pagg. 156, euro 20). Perché l'immagine degli ultimi giorni dell'Urss e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale Oro da Mosca, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie impressionante: senza nulla di grandioso, e invece percorso da torme di criminali e lezzo di corruzione che soltanto i compartimenti stagni del regime avevano saputo fino all'ultimo dissimulare. Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: qui batte il cuore di tenebra dell'Urss, centro propulsore di una criminalità organizzata prima sotto le insegne della falce e martello e poi, strappate le insegne di partito, alleata dei malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York. I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all'estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli - primo fra tutti il Pci - e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l'ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri - di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello - e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali. E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all'estero. È Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un'affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l'altro il compito di accertare se, nell'ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa», un'organizzazione clandestina tesa al sovvertimento violento della democrazia in Italia. A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'«oro da Mosca», volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Per non perdere tempo, l'intrepido Stepankov inviò anche alla Procura di Roma tutta la documentazione, e una parte dell'istruttoria raccolta per il processo che doveva essere intentato agli autori del fallito golpe. Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.Tutto, o quasi, oggi si conosce sull'identità degli esecutori. Ma l'attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta. E Stepankov, che se ne intende, non manca di farne notare l'effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Aggiunge la sensazione che il collega italiano possa «essere stato danneggiato dalle attività» che stava conducendo al suo fianco. E conclude: gli attentatori hanno raggiunto «l'obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca».La collaborazione italo-russa, in realtà, continuò, ma il vento della politica stava cambiando. Lo stesso Stepankov, dopo aver sfidato il presidente Boris Eltsin condannando il bombardamento della sede dove si erano asserragliati i parlamentari ribelli della Duma, fu costretto a dimettersi. Fine della storia? Non del tutto, anche se l'«oro del Pcus» svanisce nel nulla, in un vorticoso valzer d'investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie. Proprio come - rivelano i documenti - sognava a suo tempo il tesoriere del Pcus, Nikolaj Krucina. E l'insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell'Urss rimasti all'estero - il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici - diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.

I soldi del Pcus e gli omicidi Falcone e Borsellino. Un libro torna sull'indagine che il magistrato ucciso a Capaci stava svolgendo sul denaro che da Mosca arrivava al Pci. Dell'inchiesta non si parlo più, scrive Paolo Guzzanti, Giovedì 12/11/2015, su "Il Giornale". «Chi ha ammazzato il povero Ivan?», titolava un giornale russo dando la notizia della strage di Capaci e della morte di Giovanni (Ivan in russo) Falcone avvenuta il 23 maggio del 1992. «Chi ha ammazzato il povero Ivan» è il verso di una filastrocca popolare russa simile a «Maramao perché sei morto?». Il significato era ironico: tutti avevano capito chi ha ammazzato il povero Ivan. E perché. Giovanni Falcone era molto popolare presso l'opinione pubblica russa ancora stordita dalla fine della dittatura comunista e dell'Unione Sovietica. Lo era diventato ancora di più quando aveva stretto un rapporto di ferro con il procuratore generale russo Valentin Stepankov. «Ivan» era così diventato per i russi non soltanto l'alleato, ma anche il maestro di Stepankov, autore del libro Il viaggio di Falcone a Mosca con Francesco Bigazzi (Mondadori, pagg. 156, euro 20) e già recensito su queste colonne da Dario Fertilio il 28 ottobre scorso. Il viaggio di Falcone a Mosca non ebbe mai luogo: la strage avvenne poche settimane prima della data concordata. Si realizzava così la cinica massima di Stalin: «Dove c'è uomo, c'è problema. Niente più uomo, niente più problema». Quando fu ucciso, Falcone non aveva più poteri da procuratore, confinato dietro la scrivania di Direttore degli affari penali in via Arenula a Roma. Francesco Cossiga mi raccontò che l'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin era venuto a trovarlo agitatissimo. «Si può sapere a che gioco giocano gli italiani? Perché nessuno interviene?». Il presidente della Repubblica apprese così da Adamiscin che fra il 1991 e l'inizio del 1992, la Repubblica Russa ex Sovietica era stata dissanguata dall'esportazione del tesoro del Pcus, dei fondi segreti del Kgb e di molti patrimoni occulti della nomenklatura sovietica. «Adamiscin disse Cossiga parlò della più devastante operazione criminale-finanziaria di tutti i tempi». Secondo l'ambasciatore, il tesoro di Mosca era stato fatto affluire in Italia attraverso canali finanziari già usati per il trasferimento di «aiuti ai partiti fratelli» e alle loro aziende. Cossiga parlò con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che era allora in corsa per il Quirinale, benché l'assassinio del suo proconsole siciliano Salvo Lima, il 12 marzo di quell'anno, l'avesse ormai azzoppato. Andreotti rispose: «Sì, bisogna fare qualcosa. Ma non sono io la persona adatta: se tiro in ballo il Pcus e il Kgb potrei solo irritare i comunisti, mentre i loro voti mi sono indispensabili. Ho un'idea: chiama Giovanni Falcone e chiedigli di dare una mano con discrezione. Gli fornirò la copertura diplomatica». Cossiga convocò così il giudice e gli fece la proposta che, se non era indecente, era almeno stravagante, visto che Falcone non aveva più il potere giudiziario di indagare: «Dobbiamo far capire ai russi che prendiamo sul serio il problema. Sono sicuri che dietro il trasferimento di fondi ci siano entità potenti che vanno oltre la vecchia filiera dei finanziamenti del Pcus al Pci». Falcone accettò e si gettò a capofitto nell'inchiesta che aveva a un capolinea Mosca e all'altro Palermo e Roma. Cercò Stepankov, che lo raggiunse a Roma. I due si piacquero molto. Claudio Martelli, che era stato ministro di Grazia e giustizia all'epoca della strage di Capaci, alla presentazione del libro Oro da Mosca di Valerio Riva e Francesco Bigazzi (Mondadori, 1999) - cui parteciparono lo stesso Valentin Stepankov e Giulio Andreotti - rievocò lo stato d'animo di Falcone: «Un giorno venne in ufficio da me. Era molto eccitato perché aveva avuto un'eccellente impressione di Stepankov (un uomo di prim'ordine) e poi per la materia evidentemente incandescente di cui si stava occupando». «Incandescente» è un aggettivo appropriato. Tre giorni dopo Capaci, il quotidiano russo Izvestia (Notizie, già organo dei soviet dal 1917) pubblicò un articolo subito ripreso dal Corriere della Sera in cui si leggeva che «l'omicidio del magistrato è probabilmente connesso con quel che avviene in Russia, visto che era stato incaricato di coordinare le indagini sul riciclaggio dei fondi del Pcus in Italia, su invito dell'ex presidente Cossiga». Falcone, scriveva Izvestia, «lavorava in coordinazione con la brigata speciale che si occupa della medesima indagine a Mosca sui fondi trafugati dal Pcus e portati all'estero prima del crollo del regime comunista». L'Italia, secondo Izvestia, «faceva parte del ristretto numero di Paesi in cui i soldi del partito e dello Stato sovietico scorrevano a fiumi: solo negli anni Settanta, sei milioni di dollari erano stati trasferiti annualmente dal Politburo come aiuto fraterno. La cosa più probabile è che i soldi del partito e dello Stato fossero pompati nelle strutture occulte italiane. L'Italia non è stata scelta a caso, visti gli investimenti del Partito comunista, le strutture della mafia molto sviluppate, la posizione di forza dei comunisti locali, i solidi contatti stabiliti da tempo: tutto ciò prometteva grandi profitti agli investitori. Già alla fine del 1991 il procuratore generale della Russia, Valentin Stepankov, aveva incontrato Falcone a Roma. E da allora i due si scrivevano costantemente, concordavano incontri di persona e pianificavano azioni comuni dei giudici italiani e russi...». Nello stesso articolo si sostiene che i miliardi trafugati e portati in Italia potessero essere riciclati soprattutto attraverso canali mafiosi. Dirà nel 1999 Stepankov alla presentazione del libro Oro da Mosca: «Ho avuto due incontri con Falcone. Gli ho raccontato dei metodi utilizzati per il trasferimento dei soldi in Italia e lui mi rispose che il presidente della Repubblica gli aveva chiesto di scoprire che fine facevano questi soldi. Quando sono tornato in Russia, lo invitai ufficialmente, ma dopo il telegramma di conferma, abbiamo saputo della sua tragica morte». La divisione dei compiti fra Stepankov e Falcone era chiara: il primo si occupava di indagare su quel che succedeva alla valuta in uscita e Falcone cercava i punti d'arrivo. Lo shock che investì il Parlamento italiano per la strage di Capaci produsse l'elezione accelerata di un presidente istituzionale, Oscar Luigi Scalfaro. Andreotti si era dimesso e gli era succeduto al governo Giuliano Amato, il quale, partecipando il 28 luglio alla trasmissione di Alberto La Volpe Lezioni di mafia, disse: «Una cosa è certa: Cosa Nostra non è soltanto italiana». E poi: «Non c'è più bisogno di infiltrare il Kgb, che forse infiltrava noi. Dobbiamo usare l'intelligence per avere più occhi ed orecchie dentro la mafia».

Paolo Cirino Pomicino pubblicò nel 2000 il libro Strettamente Riservato (Mondadori) in cui scrisse: «Giovanni Falcone avrebbe dovuto incontrare a Mosca il procuratore Valentin Stepankov, che indagava sull'uscita dalla Russia di somme ingenti di denaro nelle disponibilità del Pcus. Stepankov ha detto che dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Come mai Falcone svolgeva indagini non più di sua competenza? Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l'annuncio dato da Scotti e Martelli in tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone». Vincenzo Scotti era allora ministro dell'Interno. Il 18 giugno del 1992 (lo riferì la Repubblica) disse ai corrispondenti della stampa estera: «La decisione di uccidere Giovanni Falcone e l'organizzazione dell'attentato non sono stati soltanto opera della mafia siciliana». Il direttore dell'agenzia spagnola Efe, Nemesio Rodriguez, scrisse una lunga nota in cui riferiva che il ministro degli Interni italiano «si è detto convinto che l'assassinio di Falcone va molto al di là dei confini nazionali...». E poi: «La mafia non può essere considerata soltanto un problema italiano. È invece un problema internazionale perché internazionali sono i rapporti di Cosa Nostra, internazionali i suoi interessi e complicità, su scala internazionale le sue operazioni di riciclaggio». Lo storico Giancarlo Lehner, che è stato per anni mio compagno di banco alla Camera, mi raccontò un retroscena che definire inquietante è poco. Mi disse di aver progettato un libro sulla morte di Falcone e che la notizia era stata pubblicata da un settimanale. Giulio Andreotti gli telefonò: «Mi venga a trovare. Forse posso fornirle dei documenti». Lehner andò nello studio di piazza San Lorenzo in Lucina ed Andreotti gli disse di aver personalmente fornito a Falcone la copertura diplomatica per lavorare con Stepankov e la sua squadra di investigatori sul riciclaggio del tesoro sovietico in Italia: «Al ministero degli Esteri ci sono tutti i dispacci che davano la necessaria copertura diplomatica a Falcone. Posso farglieli avere come prova documentale di quel che cerca». Lehner ringraziò e attese. Ma Andreotti lo chiamò di nuovo nel suo studio: «Se posso darle un consiglio, lasci perdere il suo libro sulla morte di Falcone». Lehner era sbalordito. Andreotti spiegò: «Alla Farnesina, dove non si è mai perso neanche un francobollo, mi hanno detto che i documenti della missione di Falcone non si trovano più. È impossibile. Devo concludere che sono stati eliminati da una entità più forte di noi». Di questa vicenda parlammo insieme un giorno alla Camera Lehner, Andreotti ed io. Andreotti confermò con il suo sorriso enigmatico di chi preferirebbe cambiare discorso. Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso disse il 27 ottobre 2009, davanti alla Commissione Antimafia: «Resta il sospetto che l'attentato non sia stato opera solo di Cosa nostra». Morto Falcone e ucciso Paolo Borsellino, che aveva ereditato l'inchiesta del suo amico, tutto si fermò. La memoria di quel che era successo fu rapidamente resettata e oggi pochi ricordano questi fatti. Nessuno ha scoperto, o voluto scoprire, a quanto ammontasse il tesoro sovietico arrivato in Italia e che molto probabilmente modificò la storia del nostro Paese. Stepankov ha confermato che l'inchiesta avviata con grande slancio fu abbandonata. Diventò obbligatorio da allora negare che la morte di Falcone e Borsellino fosse probabilmente collegata alla storia del tesoro russo inghiottito in Italia. Fu così scelta, per dare un senso alle stragi di Capaci e via D'Amelio, eseguite con una regia e con strumenti che non appartengono all'identità della mafia siciliana, la sacra versione semi-teologica di una mafia che si comporta come un anti-Stato e che quindi colpisce i «simboli» dello Stato, cosa che la mafia non si è mai sognata di fare. Resta dunque aperta la questione: chi ha deciso la morte del povero Ivan e poi di Paolo Borsellino, la cui agenda rossa sparì dalla scena del delitto?

CHI TRADI' LE BRIGATE ROSSE? I ROSSI!

In un libro la storia inedita della lotta alle Brigate Rosse. La scrittrice Fabiola Paterniti ricostruisce l'attività investigativa del Nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante gli Anni di Piombo. Il Pci mise in contatto i carabinieri con un infiltrato che consentì l'arresto dei brigatisti. Ma il Viminale sciolse il gruppo di investigatori poco prima del sequestro Moro, scrive Alberto Custodero il 02 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Il terrorismo brigatista vinto grazie al Pci che, dopo l'omicidio di Guido Rossa, chiamò il generale Dalla Chiesa e lo mise in contatto con un "infiltrato" comunista tra le Bierre. C'è anche un'altra verità sugli Anni di Piombo. Quella raccontata dagli uomini ombra del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso a Palermo dalla mafia 33 anni fa), i carabinieri che sotto copertura facevano parte del "nucleo antiterrorismo". I loro segreti sono stati raccolti dalla giornalista e autrice Fabiola Paterniti nel libro "Tutti gli uomini del generale" - editore Melampo - "la storia inedita della lotta al terrorismo". "Fu Ugo Pecchioli - spiega Paterniti - ministro dell'Interno ombra del Pci, a mettere in contatto il Generale con l'infiltrato che consentì di sgominare le brigate rosse". Un infiltrato il cui nome è ancora oggi coperto dal più totale riserbo. Che cosa faceva quel Nucleo, come si muoveva, che tattiche usava? Tanto si sa sul brigatismo rosso. Ma poco o quasi nulla è emerso negli anni sulla lotta al terrorismo, ovvero sulle modalità operative proprio di quel manipolo di super investigatori "invisibili". Paterniti ci consegna su quei misteri uno squarcio di verità, grazie a una meticolosa ricostruzione fatta intervistando sette di quei carabinieri, e due magistrati, Gian Carlo Caselli che ha coordinato le indagini sulla colonna torinese delle Bierre. E Armando Spataro, sulla colonna di Milano. Raccontano la storia di come funzionasse la macchina investigativa in tutti i suoi ingranaggi, compresi i difficili rapporti con le polizie Oltrecortina, quasi impossibili in quei tempi di Guerra Fredda. Gli uomini di Dalla Chiesa erano la sua famiglia. I suoi angeli custodi. Rischiavano la vita e lavoravano quasi come una sorta di servizio segreto. Vivevano in clandestinità per evitare che le bierre, che avevano un attivissimo servizio di contropedinamento e, per così dire, di controspionaggio, potessero individuarli e ucciderli. Si sottoponevano ad addestramenti estenuanti con tecniche sofisticate per impare anch'essi ad infiltrarsi. Selezionavano il personale presso la scuola sottufficiali di Firenze. Si chiamavano con nomi in codice, Dan, Trucido, Baffo, Ragioniere Severino, Principino. Ancora oggi, per mantenere viva una vecchia abitudine, si chiamano così tra di loro.. Nessuno dei loro congiunti sapeva di quel lavoro segreto. Il Nucleo era espressione diretta della strategia del Generale che faceva un tutt'uno del suo passato di ex partigiano, della sua appartenenza ai ranghi militari e alla sua esperienza di carabiniere. Quegli uomini pedinavano (a volte anche 30 o 40 persone per ogni singolo sospetto), si infiltravano, schedavano, studiavano le tattiche di guerriglia brigatista, elaboravano statistiche, entravano e uscivano dalle carceri svolgendo colloqui riservati coi detenuti, facevano le irruzioni nei covi brigatisti, gestivano i primi pentimenti. L'ufficiale Gian Paolo Sechi fu tra i primi a raccogliere le confessioni del primo pentito, Patrizio Peci (al quale i brigatisti per vendetta e ritorsione trucidarono il fratello Roberto). Ancora oggi, ricorda Sechi, è molto legato all'ex brigatista, che vive in un luogo segreto, tutt'ora sotto protezione. E monitoravano il terrorismo dal punto di vista sociale. Sì, perchè, come ha ricordato l'ex ministro dell'Interno Virginio Rognoni, a preoccupare Dalla Chiesa in quegli anni era soprattutto il sostegno dato al fenomeno brigatista sia da certa popolazione (secondo l'ex bierre Maccari, simpatizzanti e fiancheggiatori erano dai 30 ai 40 mila). Sia da una certa intellighenzia, un mix intellettuali-borghesia-giornalisti. Per il Generale, quella era una vera guerra psicologica, la più difficile da combattere perchè asimmetrica. E per lui ad armi impari. Il libro svela retroscena poco conosciuti, se non inediti, e inquietanti nei rapporti tra la politica e il Generale. Come quando, dopo l'arresto dei big brigatisti Alberto Franceschini e Renato Curcio, il ministero dell'Interno chiuse la struttura di Dalla Chiesa. Inutili le proteste di quegli uomini che, al Capo di Gabinetto del Viminale, fecero presente che i brigatisti avevano in Svizzera armi della Seconda Guerra, che le stavano portando in Italia, in Lazio, a Roma. Non furono ascoltati, nonostante quell'allarme. Il Nucleo fu soppresso. E le bierre tornarono a colpire puntuali e spietate con il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

Vittorio Sgarbi: "Sto pensando di lasciare Salemi, non voglio dare terreno a Libera di don Ciotti", scrive "Marsalaviva" il 27 novembre 2011. Vittorio Sgarbi sta pensando di lasciare la carica di sindaco di Salemi perchè, spiega, ''non ne posso più'' delle polemiche sulla presunta presenza della mafia nel territorio. Il critico d'arte ne ha parlato a Torino nel corso della presentazione di un evento culturale. ''A Salemi - ha affermato - la mafia non c'è, è in letargo''. ''Una cosa è un mafioso, un ex mafioso, un mafioso superstite, un conto è la mafia vera e propria. I Salvo ci sono stati, ora non ci sono più. E' come per il nazismo: oggi come oggi da qualche parte può saltar fuori un nazista, uno che odia gli ebrei e che ha di quelle idee, ma non si può dire che esista il nazismo in quanto tale. Eppure se dico questo mi danno dell'amico dei mafiosi''. Sgarbi ha anche lanciato uno strale contro don Luigi Ciotti: ''C'è una situazione ambientale in cui devo per forza dare un terreno dell'antimafia a Libera di don Ciotti. E io non glielo dò perchè mi stanno sui coglioni i preti, non voglio dare niente ai preti, voglio uno Stato laico dove i preti si occupano delle anime. Ma se penso questo, e se non dò il terreno a Ciotti, dicono che sono amico dei mafiosi''.

Maresca: Libera si muove come la Mafia, scrive il 14 gennaio 2016 “Il Quotidiano Piemontese”. Parole pesanti da parte di Catello Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli, nei confronti di Libera, l’associazione guidata da Don Luigi Ciotti. Per Maresca, in un’intervista a Panorama, Libera ha ormai perso i suoi obiettivi e si muove in regime di monopolio come la Mafia stessa. Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa. […] Per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse.

«No agli estremisti dell’antimafia»: duro attacco del Pm Maresca a don Ciotti, scrive mercoledì 13 gennaio 2016 “Il Secolo d’Italia”. Tempi duri per i troppo “virtuosi”. Il Pm di Napoli Catello Maresca, magistrato della Direzione nazionale antimafia, mette il dito nella piaga della gestione dei beni sequestrati ai mafiosi affidata a Libera di don Ciotti. È durissimo, Maresca, nell’intervista rilasciata a Panorama, in edicola giovedì 14 gennaio.  «Libera è stata un’importante associazione antimafia – dice Maresca – Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». «Oggi» aggiunge Maresca «per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse». Maresca insiste: «Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che “si deve fare sempre così”». E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: «Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale». Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione, scrive il 13 gennaio 2016 “Panorama”. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

Il Pm Maresca critica Libera su Panorama e Don Ciotti si infuria. "Gestisce i beni sequestrati alle mafie in modo anticoncorrenziale". Lo denuncio, risponde il fondatore. A lui la solidarietà di Rosy Bindi e Claudio Fava, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. Giornata convulsa attorno a Libera dopo l'anticipazione di un'intervista al pm antimafia Catello Maresca che Panorama pubblica sul numero in edicola il 14 gennaio. In essa Maresca dice che "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Parole forti. Don Ciotti non ci sta. Lo denunciamo, dice don Ciotti. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi", ha tuonato don Ciotti, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Oggi infatti era il giorno dell'Audizione del fondatore di Libera da parte dell'organismo presieduto da Rosy Bindi. Le parole di Maresca risuonano anche più forti in questi giorni nei quali è alta l'attenzione sul mondo dell'antimafia che ha scosso il tribunale di Palermo con il "caso Saguto". "Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese", aggiunge don Ciotti. Che poi ricorda che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto sulla formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1600 associazioni che la compongono. È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". Il fondatore di Libera ammette tuttavia che "il tema dell'infiltrazione è reale: le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse. Altri problemi vengono dalle cooperative: abbiamo scoperto che alcune situazioni erano mutate, siamo dovuti intervenire. Qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà italiane. Abbiamo allontanato il consorzio Libero Mediterraneo e realtà che non avevano più i requisiti e queste gettano il fango". "Le trappole dell'antimafia sono davanti ai nostri occhi, mai come oggi. Si deve eliminare anche questa parola Antimafia, che è un fatto di coscienza", conclude Ciotti, che respinge anche le accuse di non aver tenuto gli occhi aperti su Roma: "ricordo che nel 2011, alla riapertura del Caffè de Paris, sequestrato a clan calabresi, Libera lanciò l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nell'economia della Capitale e prima dello scoppiare dell'inchiesta su Mafia Capitale, a Corviale, denunciammo ancora questa presenza". Solidarietà a don Ciotti e a Libera è arrivata da Rosy Bindi che ha giudicato le parole del magistrato "gratuite e infondate", dal vicepresidente della Commissione Claudio Fava (Si), che ha parlato di "affermazioni calunniose e ingenerose", dal capogruppo del Pd Franco Mirabelli, che ha sottolineato tuttavia come "serva oggi un ripensamento dell'antimafia" e del Pd Davide Mattiello, che ha espresso "sconcerto per le parole del pm, salvo smentite e chiarimenti". Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, è impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra. Nell'intervista a Panorama aggiunge che "oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli 'estremisti dell’antimafia', i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Il pm Maresca attacca Libera: «C’è chi la sfrutta per suoi fini». Don Ciotti: sconcertante, lo denuncio. Il magistrato: «Ha perso lo spirito iniziale esclusivamente volontaristico e si è affiancata un’altra componente, pseudo imprenditoriale con persone poco affidabili, vedi in Sicilia». La replica del sacerdote: «Chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese», scrive “Il Corriere della Sera” il 13 gennaio 2016.  Don Ciotti contro il pm Catello Maresca. Il fondatore di Libera è andato su tutte le furie leggendo l’anticipazione di un’intervista del magistrato a Panorama, in edicola giovedì. «Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza». Ma cos’ha detto Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli? In pratica ha parlato dell’associazione antimafia in questi termini: «Se un’associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi». E ha aggiunto: «Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale». Don Ciotti vede rosso: «Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese», ha detto il sacerdote parlando davanti alla Commissione parlamentare Antimafia. «Mi fa piacere che il direttore dell’Agenzia per i beni confiscati Umberto Postiglione abbia ribadito che le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono». Maresca, che coordinò le indagini per la cattura del boss dei Casalesi Zagaria, precisa che «Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia. Ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie, affiancandosi alle istituzioni dello Stato, ha contribuito a creare la consapevolezza e la convinzione che si potevano sconfiggere». Però, secondo il pm, «bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali, abbiamo potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Questo ha fatto sì che si snaturasse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale». Secondo Maresca, l’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati non riesce a espletare il compito che le è stato affidato: «A mio parere bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno quindi venduti. Scremando questo mare magnum di beni, se da 15mila diventano mille, questi possono essere distribuiti in maniera più ampia tra le diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le serie organizzazioni antimafia, come Libera». «Le affermazioni del pm Maresca «sono offensive ed era giusto far replicare don Luigi Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate». Lo ha detto la presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, nel corso della seduta odierna nella quale è stato ascoltato il fondatore di Libera. «Questo nostro lavoro, di cui non mi sfugge la difficoltà - ha aggiunto Bindi - lo abbiamo intrapreso nell’ottica di rilanciare l’antimafia, non per delegittimarla. Per fare questo bisogna fare opera di verità, avendo il senso del limite. Credo che sia doveroso smascherare o contribuire a smascherare ambiguità se ci sono e impedire che ci siano processi di delegittimazione». «La mia sensazione è che in atto una campagna per fare terra bruciata su tutto ciò che l’antimafia ha prodotto di utile in questi anni». Lo ha detto il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Claudio Fava (Si), durante l’audizione di don Luigi Ciotti. Fava ha accusato il pm Maresca di «affermazioni calunniose e ingenerose: c’è una falsificazione di ciò che viene descritto in quanto Libera non gestisce i beni. Ma c’è anche un elemento di ingenerosità: va ricordato che in questi 20 anni Libera ha avuto il compito di anticipare scelte che la politica non ha avuto il coraggio di fare». Fava ha domandato a don Ciotti quali tentativi di infiltrazione può aver subito il tessuto delle cooperative di Libera. «Esistono e quali sono gli strumenti per evitare queste infiltrazioni e i loro effetti?», ha concluso.

Antimafia, pm che catturò Zagaria attacca Libera: “Inquinata da intenti economici”. Don Ciotti: “Fango, lo denunciamo”. Catello Maresca, magistrato della Dda di Napoli, punta il dito sulle cooperative che gestiscono i beni confiscati alla criminalità: "C'è chi lo fa per i propri interessi", dice in un'intervista a Panorama. La reazione del fondatore, sentito oggi in Commissione parlamentare: "Le promuoviamo, ma non sono nostre. Così si fa il gioco delle mafie". E denuncia: "La nostra rete sotto attacco". Bindi lo difende: "Commissione vuole rilanciare l'antimafia, non delegittimarla", scrive "Il Fatto Quotidiano il 13 gennaio 2016. “Se un’associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittano del suo nome per fare i propri interessi”. L’attacco arriva da uno stimato pm antimafia, Catello Maresca, il sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che tra l’altro ha coordinato le indagini sui Casalesi e la cattura del boss Michele Zagaria. In un’intervista su Panorama in edicola domani, il magistrato napoletano afferma ancora: “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”. L’affondo arriva proprio nel giorno in cui don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia, che sta svolgendo una serie di audizioni proprio sui temi sollevati da Maresca. Cioè su casi di interessi economici e carriere personali coltivati approfittando della popolare etichetta dei movimenti antimafia, sull’onda di casi di cronaca che hanno coinvolto per esempio Confindustria Sicilia e il magistrato palermitano Silvana Saguto, impegnata appunto sul fronte dei beni confiscati. Libera ha comunque incassato l’immediata solidarietà del presidente della Commissione Rosy Bindi (Pd), secondo la quale le affermazioni di Maresca “sono offensive, assolutamente gratuite e infondate”. Perché il lavoro dei commissari è stato “intrapreso nell’ottica di rilanciare l’antimafia, non per delegittimarla”. Durissima la reazione di Libera, a cominciare dallo stesso don Ciotti, che ha definito le parole di Maresca “sconcertanti”: “Noi lo denunceremo questo signore, se quelle dichiarazioni saranno riportate domani in virgolettato. Quando viene distrutta la dignità di tanti giovani, io credo sia un dovere difenderli”. E ancora: “Non ho rilasciato nessuna intervista neppure quando Panorama e altri giornali ci hanno gettato fango addosso. Le fonti vanno verificate, le parole non devono essere interpretate. I giornalisti che gettano fango fanno il gioco delle mafie”. Il magistrato, però, non retrocede: “Vedremo se sarà della stessa idea quando avrà letto l’intera intervista, che affronta il tema in modo più ampio”, dice Maresca a ilfattoquotidiano.it. “Poi vedremo in che sede dovremo confrontarci”. In un successivo colloquio con l’Ansa, Maresca ha comunque riconosciuto che “Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia” e “svolge un ruolo fondamentale”. Però, secondo il pm, “bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali, abbiamo potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Questo ha fatto sì”, continua Maresca, “che si snaturasse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale”. Il nodo è sempre quello delle cooperative sociali a cui vengono affidati in gestione i beni immobili confiscati alle mafie, tema affrontato anche da don Ciotti in Commissione: “Le cooperative non sono di Libera, Libera le promuove”. E i beni sono assegnati, per la realizzazione di attività sociali, dai Comuni “con un bando pubblico”. Ai parlamentari guidati da Rosy Bindi, il fondatore di Libera ha spiegato: “C’è un equivoco che qualcuno vuole attribuire a don Ciotti: la capacità di concentrare beni e poteri economici. Non è assolutamente così. Libera gestisce solo sei strutture tra cui un piccolissimo appartamento a Roma”. Inoltre “i fondi europei vanno agli enti locali, non a Libera. Che sia chiaro a tutti: per la gestione dei beni confiscati, Libera non riceve contributi pubblici”. Libera non gestisce, ha sottolineato anche Fava, che ha bollato le dichiarazioni di Maresca come “calunniose e ingenerose”. Libera è sotto attacco, ha sostenuto don Ciotti. “Oggi è in atto una semplificazione che mira a demolire con la menzogna il percorso fatto da Libera”. Insomma, “le trappole dell’antimafia le abbiamo ben chiare mai come oggi”. Oggi “è in atto una semplificazione che mira a demolire con la menzogna il percorso fatto da Libera”. “Purtroppo”, ha continuato Ciotti rispondendo alle domande del senatore Pd Giuseppe Lumia e del vicepresidente della Commissione Antimafia Claudio Fava, “il tentativo di infiltrazione c’è ed è trasversale in Italia. Le nostre rogne sono cominciate con 17 processi in cui Libera si è costituita parte civile”. Altri problemi, poi, “sono nati con le cooperative. Ogni sei mesi noi chiediamo alla prefettura di verificare perché cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate e siamo dovuti intervenire noi – ha precisato -. Sono 1600 le associazioni coordinate da Libera, alcune grandi e a livello nazionale”. Il pm Maresca chiede una riforma di tutto il sistema. L’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati, sostiene, non riesce a svolgere il compito: “Bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno quindi venduti. Scremando questo ‘mare magnum’ di beni, se da 15mila diventano mille, questi possono essere distribuiti in maniera più ampia tra le diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le ‘serie’ organizzazioni antimafia, come Libera”.

Il pm Maresca contro Libera: "Non è affidabile". Don Ciotti in Commissione antimafia: "Vogliono demolirci con le menzogne". Il procuratore della dda di Napoli accusa: "Le associazioni antimafia tendono a farsi mafiose loro stesse". Il fondatore di Libera contrattacca: "Lo denuncio", scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica” il 13 gennaio 2016. Accuse pesanti lanciate da un procuratore antimafia contro l'associazione antimafia Libera, risposte altrettanto dure da parte del fondatore don Ciotti che annuncia querele e il tentativo di "demolire" la sua creatura "con le menzogne". Ma don Ciotti ascoltato proprio oggi in Commissione parlamentare antimafia ammette che i problemi di trasparenza di alcune cooperative ci sono stati ma prontamente risolti. Le accuse questa volta vengono da un pm antimafia. Dopo il polemico addio di Franco La Torre, "licenziato" da Don Ciotti via sms in seguito alle critiche mosse nel corso degli stati generali, a sparare a zero contro Libera è il sostituto procuratore della Dda di Napoli Catello Maresca che in una intervista a Panorama dice: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". Libera -  secondo il pm -  "gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale". Il magistrato napoletano accusa Libera di "gestire i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti". Parole dure che scatenano l'ira di don Luigi Ciotti, proprio oggi ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia. Il sacerdote, che preannuncia querele nei confronti del magistrato se qualcuno pubblicherà le sue parole anticipate dal settimanale con un lancio d'agenzia, replica indignato: "Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna. E' fondamentale la verità. Perché va bene le contraddizioni ma non bisogna calpestare la verità". Lo ha detto don Ciotti, presidente di Libera, parlando davanti alla commissione Antimafia. "I nostri bilanci - ha ricordato - sono pubblici, on line. Nessuno - ha ammonito - metta il cappello addosso a Libera. Noi difendiamo la dignità, la libertà e la trasversalità di tutti". "Non si può demolire il percorso di Libera con una menzogna - ha continuato don Ciotti - Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo paese. Libera gestisce solo 6 strutture direttamente. Libera non riceve nessun bene, che invece viene dato ai comuni e poi affidato alle cooperative. Per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve finanziamenti pubblici. I bilanci sono pubblici, da anni. Nessuno, nessuno, nessuno metta il cappello su Libera". "Tanto fango fa il gioco dei mafiosi -  è l'adirata replica di don Ciotti - Domani esce questa intervista. E noi questo signore (il pm napoletano antimafia, Maresca, ndr) domani mattina lo denunciamo perché si tace una, due, tre volte ma quando viene distrutta la dignità del lavoro di tante persone, è un dovere ripristinare la verità". "Il tema dell'infiltrazione è reale - ha proseguito don Ciotti, rispondendo alle domande del senatore Lumia Pd e del vicepresidente della Commissione Antimafia Fava Si - le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate. Di fatto noi siamo dovuti intervenire, abbiamo avuto anche processi di lavoro che sono stati vinti da noi. Ogni 6 mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1600 associazioni e qualche tentativo, qualche ammiccamento c'è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio Libero Mediterraneo delle realtà che non avevano piu i requisiti e queste realtà gettano il fango, sono le prime a farlo. Chiediamo di darci una mano alle autorità". "Le affermazioni del pm Maresca sull'associazione Libera sono offensive ed era giusto far replicare don Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate". Lo ha detto la presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, nel corso della seduta di oggi nella quale è stato ascoltato il fondatore di Libera. "Questo nostro lavoro, di cui non mi sfugge la difficoltà - ha aggiunto Bindi - lo abbiamo intrapreso nell'ottica di rilanciare l'antimafia, non per delegittimarla. Per fare questo bisogna fare opera di verità, avendo il senso del limite. Credo che sia doveroso smascherare o contribuire a smascherare ambiguità se ci sono e impedire che ci siano processi di delegittimazione". "La mia sensazione è che in atto una campagna per fare terra bruciata su tutto ciò che l'antimafia ha prodotto di utile in questi anni", ha aggiunto il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Claudio Fava (Si). "Dobbiamo dare atto a Libera di avere svolto un lavoro importante non solo sui beni confiscati, su cui ha svolto un vero ruolo di supplenza, ma non si può non riconoscere che Libera ha costituito anche uno stimolo legislativo alla politica". Così il capogruppo del Pd in Commissione Antimafia, Franco Mirabelli - Oggi però la mafia è cambiata: si mimetizza, sta nell'economia. Oggi il movimento antimafia deve vivere sul presente e sul futuro e vivere un rapporto sulla percezione che ha l'opinione pubblica delle mafie e che è molto bassa. Oggi forse un ripensamento dell'antimafia va fatto".

"Gli interessi economici hanno snaturato Libera". E Don Ciotti querela il magistrato Catello Maresca, scrive il 13/01/2016 "L'Huffingtonpost.it". Don Luigi Ciotti denuncerà per diffamazione il pm Catello Maresca, il quale in una intervista accusa l'associazione "Libera" di albergare "persone senza scrupoli" e di aver acquisito "interessi di natura economica" simili agli interessi della mafia: "Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Parole pesanti che il fondatore di Libera non intende lasciar passare senza un intervento forte. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo", dichiara don Ciotti, non nuovo a profonde critiche all'associazione antimafia. "Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza". Le parole di Maresca, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che coordinò le indagini e la cattura di un superboss del clan dei Casalesi come Michele Zagaria, sono affidate a una intervista in edicola giovedì sul settimanale Panorama: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale", dichiara Maresca. "Libera è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa", continua il pm. "Oggi, aggiunge Maresca, per combattere la mafia è necessario smascherare gli "estremisti dell'antimafia", i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. "Registro e osservo - continua il pm – che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l'estremismo dei settaristi e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre cosi". "Oggi è in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna", ha detto don Luigi Ciotti davanti alla Commissione parlamentare antimafia. "Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità. Libera gode di buona salute, il movimento giovanile chiede, partecipa, c'è un fermento impressionante di ragazzi che cercano punti di riferimento veri e credibili. Io rappresento un noi non un io". "Il tema dell'infiltrazione è reale - ha proseguito don Ciotti, rispondendo alle domande del senatore Lumia Pd e del vicepresidente della Commissione Antimafia Fava (Sinistra Italiana) - le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate. Di fatto noi siamo dovuti intervenire, abbiamo avuto anche processi di lavoro che sono stati vinti da noi. Ogni 6 mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione c’è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1600 associazioni e qualche tentativo, qualche ammiccamento c'è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio Libero Mediterraneo delle realtà che non avevano piu i requisiti e queste realtà gettano il fango, sono le prime a farlo. Chiediamo di darci una mano alle autorità". "Alcune situazioni creano sconcerto: io non ho rilasciato alcuna intervista, neppure quella che mi è stata attribuita tempo fa su Repubblica", ha concluso don Ciotti. A difendere don Ciotti è intervenuta Rosy Bindi: le affermazioni del pm Maresca "sono offensive ed era giusto far replicare don Luigi Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate", ha detto la presidente della Commissione parlamentare antimafia. Nemmeno Claudio Fava (Si) ha apprezzato le parole del magistrato: "affermazioni calunniose e ingenerose: c'è una falsificazione di ciò che viene descritto in quanto Libera non gestisce i beni. Ma c'è anche un elemento di ingenerosità: va ricordato che in questi 20 anni Libera ha avuto il compito di anticipare scelte che la politica non ha avuto il coraggio di fare". "Per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le convenzioni vengono stipulate solo per lo svolgimento delle attività statutarie" ha specificato il fondatore di Libera contro le mafie. "Tanto fango fa il gioco dei mafiosi", ha aggiunto, anche riferendosi alle parole del pm napoletano antimafia Maresca. E ancora: "Libera non riceve nessun bene, che viene dato ai comuni e da questi affidato alle cooperative". "C'è un equivoco: qualcuno vuole attribuire a don Ciotti la capacità di concentrare beni e poteri economici. Non è assolutamente così: ci sono pochissime cose assegnate direttamente a Libera. Libera è un coordinamento di 1600 associazioni che opera con oltre 5 mila scuole e ha protocolli con 64 facoltà universitarie". "L'antimafia non può essere una carta di identità che uno tira fuori a secondo delle circostanze, è un problema di coscienza", ha aggiunto don Ciotti. "Le trappole dell'antimafia sono davanti agli occhi, mai come oggi. Si deve togliere anche questa parola Antimafia, rischiamo di essere travolti", ha aggiunto, dopo aver ricordato gli allarmi lanciati da Libera sui rischi di infiltrazioni mafiose subito dopo la riapertura del "Caffè de Paris" a Roma nel 2011. "Quando abbiamo avuto elementi, siamo andati dai magistrati a consegnarli: se alcuni processi sono in atto è anche perché abbiamo fornito noi elementi per istruirli", ha concluso, riferendosi anche alle critiche arrivate da alcuni ambienti che li hanno accusati "di non essere intervenuti per tempo e di aver taciuto sulla situazione a Roma".

Franco La Torre: "Don Ciotti irrispettoso e autoritario. L'antimafia di Libera ha fallito alcuni obiettivi", scrive l'1/12/2015 "L'Huffingtonpost.it". "Sono stato cacciato nemmeno con una telefonata ma con un sms di don Luigi Ciotti. Perbacco, ho 60 anni e penso di meritare rispetto e buona educazione". La voce di Franco La Torre è pacata, il fraseggio elegante e misurato. Eppure non si capacita della rottura clamorosa con il fondatore di Libera, che l'ha allontanato dall'associazione e persino dalla cura del premio dedicato al padre Pio La Torre, il politico Pci ucciso nel 1982 a Palermo dalla mafia. Una vicenda che scuote il mondo dell'antimafia perché Franco La Torre è uno dei nomi più altisonanti nella battaglia alla criminalità organizzata: "Don Ciotti è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario, questa cacciata ha il sapore della rabbia di un padre contro il figlio ma io un padre ce l'ho e me lo tengo stretto", dice al telefono con l'HuffPost. Tutto è cominciato con un intervento all'assemblea generale di Libera il 7 novembre ad Assisi. Dal palco, apertamente, La Torre aveva sollevato questioni imbarazzanti come la mancata comprensione di Mafia Capitale o le problematiche di Palermo, dove in pochi mesi un simbolo dell'antimafia come il presidente di Confindustria Sicilia è finito sotto inchiesta per rapporti con Cosa Nostra mentre la giudice Silvana Saguto è indagata per la gestione dei beni confiscati ed è stata intercettata mentre sproloquia contro la famiglia Borsellino. E Libera non si era accorta di nulla, o almeno questa è la lettura di La Torre. Dopo qualche giorno un secco messaggio di don Ciotti: "Si è rotto il rapporto di fiducia". Poi il nulla. La Torre è categorico: "Una modalità impropria e irrispettosa: di quale fiducia parliamo se si può neutralizzare con un messaggio di 140 caratteri?"

Cacciato da Libera. Ha capito il motivo?

«Provo un grande dolore per questa vicenda. Poiché non sono ancora riuscito a parlare direttamente con don Luigi, posso supporre che la ragione del mio brusco allontanamento sia dovuta proprio alle mie parole all'assemblea di Libera. Ma ho 60 anni e pretendo un minimo di educazione. Se don Luigi non la pensa come me, allora dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia. E invece nonostante i miei numerosi tentativi per il momento ho saputo che don Ciotti non desidera parlare con me, o forse lo farà prossimamente. Chissà».

Perché ha mosso critiche a Libera? Cosa non va nell'associazione?

«Libera è cresciuta in maniera straordinaria grazie a don Luigi e alle migliaia di attivisti che lavorano volontariamente a livello locale. Ma anche la mafia è cambiata negli ultimi anni. Le classi dominanti che noi chiamiamo mafia hanno assunto caratteristiche differenti e basti guardare all'inchiesta Mafia Capitale. Ecco, all'interno di Libera eravamo molto concentrati su Ostia, dove avevamo fatto un ottimo lavoro, ma abbiamo perso la visuale d'insieme che invece è stata compresa perfettamente dal procuratore Pignatone. Purtroppo avevamo sottovalutato il fenomeno così come abbiamo sottovalutato i casi della giudice Segato a Palermo. Da quel palco ad Assisi ho detto che dovevamo alzare l'asticella».

Ha accusato Libera di mancanza di democrazia interna. Questa caratteristica è legata alla mancata comprensione della nuova mafia?

«La crescita vertiginosa di Libera non ha permesso il rafforzamento, la formazione e la selezione di una classe dirigente. Non vedo i criteri di alcune nomine dall'alto, poiché penso che una persona debba essere testata sul campo prima di affidarle un compito dirigenziale. Allo stesso tempo se in pochi mesi cinque figure di primo piano si allontanano allora significa che occorre rivedere gli schemi. A don Ciotti forse non è piaciuto che lo dicessi così apertamente: gli riconosco grandi capacità e un enorme carisma ma è un personaggio paternalistico con tratti autoritari».

Libera non è più all'altezza del suo compito?

«L'associazione ha dei meriti enormi, a partire dalla lotta per i beni confiscati. Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Don Luigi proprio a causa di queste inefficienze è costretto a occuparsi in prima persona di assemblee provinciali e regionali e troppi in Libera sono ancora convinti che "tanto c'è don Luigi". Ma fino a quando porterà la croce? Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità».

Si è dimesso anche dal premio intitolato a suo padre, Pio La Torre. Lo lascerà in mano a Libera?

«Il premio Pio La Torre è libero e indipendente ma per comprendere cosa succederà dovrebbe chiederlo ai referenti di Libera».

Se don Ciotti dovesse tornare sulla propria decisione?

Ho raccontato la mia verità e probabilmente devo fare anch'io autocritica. Sulla vicenda della mafia ad Ostia non sono stato presente e avrei dovuto dare una mano. Io mi auguro di parlare presto con don Luigi, queste sono le mie idee e se non siamo d'accordo possiamo anche dividerci ma non capisco perché la discordanza di vedute debba portare a un litigio che ricorda le rabbie famigliari e non certo un'associazione matura come dovrebbe essere questa. Credo che l'antimafia debba compiere un salto ulteriore per continuare a svolgere il suo compito importante. E' una grande opportunità, spero che a Libera sappiano coglierla».

Il pm "arresta" don Ciotti. "Libera? Partito pericoloso". La toga anticamorra Maresca su "Panorama" accusa: "Gestisce i beni mafiosi con coop non affidabili". Il sacerdote: "Fango, quereliamo", scrive Mariateresa Conti Giovedì, 14/01/2016, su "Il Giornale". In principio, a fine estate, è stato il caso Ostia, lo scontro con i grillini che li hanno accusati di essere come le coop poi finite in Mafia Capitale nella gestione dei lidi, altro che garanzia di trasparenza e legalità. Quindi, ai primi di dicembre, c'è stato lo strappo più doloroso, quello con Franco La Torre, il figlio di quel Pio La Torre ucciso dalla mafia nel 1982 e padre della legge che inventò il reato di associazione mafiosa e il sequestro dei beni ai boss. Un addio al vetriolo al consiglio di presidenza, quello di La Torre, che ha accusato il leader e padre di Libera, don Luigi Ciotti, di essere «autoritario e paternalistico». Ma ora l'attacco all'associazione contro le mafie che raccoglie oltre 1500 associazioni di vario genere sotto lo scudo della legalità è se possibile ancora più pesante. Perché a muoverlo è un magistrato. Un giovane pm anticamorra come Catello Maresca, che in un'intervista a Panorama in edicola oggi lancia l'affondo: «Libera dice è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anti-concorrenziale. Personalmente, sono contrario alla sua gestione, la ritengo pericolosa». Parole pesantissime cui don Ciotti, ieri in commissione Antimafia proprio per rispondere ai veleni sulla gestione dei beni sequestrati, replica furibondo annunciando querela. Brutta aria per la creatura di don Ciotti, nata 20 anni fa sulla scia dello sdegno per le stragi del '92 e del '93. Maresca, 43 anni, non è un pm qualunque. A dispetto dell'età è uno dei magistrati di punta dell'antimafia napoletana e vanta una lunga esperienza in prima linea, costatagli anche minacce personali: è lui che ha inchiodato latitanti del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine; è lui che in aula, durante un processo, si è visto apostrofare da un killer dei boss con minacce pesanti all'indirizzo della sua famiglia; è ancora lui che a Ferragosto del 2013 ha subito in casa un raid di strani ladri, che hanno rubato foto con i suoi familiari. Ecco perché l'attacco frontale a Libera di questo pm è più incisivo degli altri: «Libera - dice Maresca a Panorama - gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Per combattere la mafia è necessario smascherare gli estremisti dell'antimafia, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo, insomma l'estremismo dei settaristi, e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che si deve fare sempre così». Un siluro. Cui don Ciotti risponde a muso duro: «Noi questo signore - tuona - lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza. Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti». Don Ciotti davanti all'Antimafia si è difeso a a spada tratta: «Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera che gestisce sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania con tre camere, su 1600 associazioni che la compongono. Tanto fango fa il gioco dei mafiosi. Oggi c'è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna». Con don Ciotti si schiera la presidente Bindi che parla di dichiarazioni «offensive» del pm: «Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse gratuite e infondate».

La maledizione dei beni confiscati. Un pm contro Libera: "Gestione pericolosa", scrive Mercoledì 13 Gennaio 2016 Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Il pubblico ministero di Napoli, Catello Maresca, intervistato da Panorama, parla di "estremisti dell'antimafia" che si anniderebbero nelle “associazioni nate per combattere la mafia che tendono a farsi mafiose loro stesse". Don Luigi Ciotti non ci sta: "Menzogne, lo denuncio per diffamazione". La “maledizione” dei beni confiscati si sposta da Palermo a Roma e Libera torna ad essere bersaglio di polemiche. Stavolta è un magistrato ad attaccare l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, che non ha alcuna intenzione di essere messo all'angolo: denuncerà per diffamazione il pm Catello Maresca. È stato quest'ultimo, sostituto procuratore della Repubblica di Napoli che coordinò le indagini sui clan dei Casalesi, intervistato da Panorama in edicola domani, a spendere parole pesanti contro la più grande delle associazioni antimafia: "Se un'associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l'iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". Ed ancora: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell'antimafia iniziale. Libera è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Vere e proprie bordate quelle lanciate da Maresca, secondo cui, bisogna smascherare gli "estremisti dell'antimafia" che si anniderebbero nelle “associazioni nate per combattere la mafia”, ma che “hanno acquisito l'attrezzatura mentale dell'organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l'estremismo dei settaristi e non di un'associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre cosi". Don Ciotti è partito al contrattacco: "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani è dovere ripristinare verità e chiarezza". Davanti alla commissione antimafia dice che “oggi è in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna. Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità. Libera gode di buona salute, il movimento giovanile chiede, partecipa, c'è un fermento impressionante di ragazzi che cercano punti di riferimento veri e credibili. Io rappresento un noi non un io". Probabilmente il riferimento del sacerdote è alle polemiche sollevate da Franco La Torre a inizio dicembre, all'indomani delle dimissioni da consigliere di amministrazione di Libera. “Mi dicono che a Palermo lo sapevano tutti - aveva detto La Torre a Livesicilia -. Mi sarei aspettato che Libera ponesse il problema visto che sui beni confiscati ha fondato la sua forza. Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. Inaccettabile per La Torre che un'organizzazione come Libera non avesse tenuto le antenne dritte sulla gestione “scandalo” dei beni sottratti ai boss che ha portato all'azzeramento della sezione misure di Prevenzione del Tribunale palermitano. A cominciare dal suo ex presidente Silvana Saguto, finita sotto inchiesta e sospesa dal Csm. Ad inizio di novembre, durante l'assemblea nazionale dell'associazione, ad Assisi, La Torre aveva chiesto a gran voce un confronto perché “Libera è molto cresciuta in questi anni, serve un nuovo modello di organizzazione. Si deve avviare un progetto di formazione della classe dirigente, non si può dirigere tutto da Roma. Il mio discorso non è stato gradito (pochi giorni dopo Ciotti gli comunicò la 'rottura del rapporto di fiducia' via sms ndr'), nonostante l'abbia fatto in un contesto dove è fondamentale la libera espressione del pensiero”. Ora anche il pm di Napoli Maresca affonda la critica contro l'organizzazione e il lavoro di Libera, oggi alla guida un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi, che gestisce 1.400 ettari di terreni, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che sfiora i sei milioni di euro. Maresca e don Ciotti si vedranno in Tribunale, perché il sacerdote lo denuncerà per diffamazione.

Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, scrive "Panorama il 7 ottobre 2015. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama, che lo pubblica nel numero in edicola da giovedì 8 ottobre. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

E finalmente!!! Catello Maresca santo subito. Critiche del Pm a “Libera”, che non è più un santuario di intoccabili. E il vanaglorioso don Ciotti lo querela, scrive Gianluigi Guarino il 14 gennaio 2016 su “Caserta ce”. Ci si sente meno soli quando si leggono dichiarazioni come quelle rilasciate dal Pubblico Ministero della Dda di Napoli. Le “giarretelle” cominciano a rompersi. E, aggiungiamo noi, meglio tardi che mai. Perchè il professionismo dell’anticamorra ha prodotto sicuramente molti più guai di quelli prodotti da coloro che il Corriere della Sera, titolando l’editoriale di Leonardo Sciascia, definì i “professionisti dell’antimafia”. La cosa bella di questa storia è che sono stati proprio i magistrati napoletani della Dda ad accorgersi ultimamente, dragando i mille rivoli che attraversano le loro tante inchieste, che la maggior parte della cosiddetta anticamorra militante non era altro che una furba rappresentazione delle peggiori attitudini clientelari, corruttive, consociative, compromissorie, di questo territorio. Un approccio bello, meravigliosamente laico, intellettualmente onesto, quello dei magistrati Dda, i quali avranno sicuramente avvertito un senso di profonda delusione quando hanno scoperto quello che hanno scoperto, o hanno colto quello che hanno colto, su un Lorenzo Diana o su un Donato Ceglie. Oggi sono disincantati. Al punto che uno di loro, tra i più autorevoli e tra i più esperti di indagini di camorra, stiamo parlando di Catello Maresca, non ha avuto alcun problema a dire quello che le proprie coscienza, scienza e conoscenza hanno maturato negli ultimi tempi, anche a costo di colpire quello che era diventato una sorta di dogma della fede anticamorrista e antigomorrista, cioè “Libera” di don Ciotti. “Se un’associazione come Libera – ha dichiarato Catello Maresca – diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro contribuisce ad inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi”. E non finisce qui: “Libera  aggiunge il magistrato della Dda – gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale. Libera è stata ed è un’importante associazione antimafia. Ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie affiancandosi alle istituzioni dello Stato e ha contribuito a creare la consapevolezza e la convinzione che si potessero sconfiggere”. Insomma, un pensiero articolato, un giudizio in chiaroscuro. Comunque roba veramente grossa rispetto all’intoccabilità, dogmatica appunto e, concedetecelo, anche un po’ settaria, di un passato molto prossimo in cui chi ha osato mettere in discussione ruolo e funzione di don Ciotti e di “Libera” è finito sul rogo del sospetto e della maldicenza calunniosa di una connivenza, almeno morale, con la camorra. Maresca ha dichiarato queste cose proprio nel giorno in cui don Ciotti è stato ascoltato, pardon, audito, dalla più che inutile Commissione Antimafia, altro luogo di chiacchierologia applicata al nulla pneumatico. Una coincidenza? Può darsi, ma può darsi anche di no. Ma torniamo alle parole di Maresca: “Bisogna constatare che, purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire (e definiamola, dottor Maresca, perchè è proprio così, n.d.d.) pseudo-imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del paese come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali abbiano potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi. Ciò ha fatto in modo che si sminuisse, in certi luoghi, il reale valore dell’intervento di Libera per fare posto a soggetti non sempre affidabili. Questa pseudo-antimafia è incompatibile con lo spirito iniziale”. Avete letto bene, amici di Casertace: pseudo-antimafia. Con tutto il rispetto per il dottor Maresca e con l’emozione che ci pervade nell’accogliere la notizia del vero sdoganamento della categoria, a noi ben nota, dei “marpioni dell’antimafia”, queste sono cose che noi scriviamo da almeno cinque anni. Ma ancor più importanti sono le successive dichiarazioni del magistrato. “L’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati non riesce ad espletare il compito che le è stato affidato. A mio parere – consiglia il Pm – bisognerebbe incidere sulla normativa che prevede la destinazione dei beni confiscati, tenendo conto di quelli che possono e che devono avere un valore simbolico nella lotta alla mafia e quelli che invece non lo hanno e che vanno, quindi, venduti. Scremando questo mare magnum di beni, se i medesimi, da 15mila, diventano mille, questi mille potranno essere distribuiti in maniera più ampia tra diverse associazioni e a quel punto avere anche la possibilità di controllarne la gestione e il vero utilizzo sociale. Questo comporterebbe un vantaggio per tutte le serie organizzazioni antimafia, come Libera”. Davanti a queste parole, tutto sommato pacate e anche dense di riconoscimenti nei confronti di “Libera”, che garbatamente e pudicamente Maresca fa apparire come parte lesa, sapete don Ciotti come ha replicato? Con questa frase: “Noi questo signore lo denunciamo domani mattina. Abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto”. Secondo don Ciotti si tratta di dichiarazioni sconcertanti, con cui “viene distrutta la dignità di migliaia di giovani. Libera non riceve alcun bene. Libera promuove e agisce soprattutto nella fase della formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce direttamente 6 strutture”. Come si suol dire, don Ciotti fa finta di non capire e sposta la sua replica su una posizione sorda e inutilmente difensiva. “Libera” è diventata un totem e don Ciotti, ammesso e non concesso che abbia il 100% delle buone intenzioni, non immagina neppure quanti parassiti, a partire dal territorio della provincia di Caserta, abbiano utilizzato questo totem per farsi propaganda, per promuovere se stessi e il loro fariseismo da sepolcri imbiancati. Per cui, noi andiamo al di là di quello che Maresca sostiene, nel momento in cui affronta soprattutto l’aspetto materiale, un po’ deviato, della funzione di “Libera”. Noi diciamo a don Ciotti: lei da sacerdote ha compiuto peccato di vanità, perchè è stata la vanità dei salotti televisivi, che ha frequentato a iosa, a farle perdere di vista lo spirito iniziale della sua missione e della missione di “Libera”. Lei non poteva non comprendere, esimio don Ciotti, che allargare a dismisura il perimetro dell’azione della sua associazione avrebbe comportato come conseguenza la perdita del controllo delle sue attività, svolte nei territori attraverso l’uso e l’abuso di quello che è diventato, suo malgrado riteniamo, in una sorta di sublimazione dell’eterogenesi dei fini, un brand buono solo per fare affari. Gianluigi Guarino

 “L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

Una verità alternativa raccontata da Paolo Guzzanti: fu il Kgb ad uccidere Falcone e Borsellino. Una gigantesca operazione di riciclaggio dei soldi dei servizi segreti e del PCUS. I conti della mafia in Italia come “lavatrice” del tesoro sovietico. Un misterioso finanziere italiano. Il gran rifiuto di D’Alema, ma anche, subito dopo la morte dei due magistrati, l’impegno del Pci-Pds-Ds per alzare un polverone e celare la terribile e scomoda verità. L’ex vicedirettore de “il Giornale” e deputato del Partito Liberale Italiano svela al giornale della politica italiana questo misconosciuto “mistero italiano” (e non solo): una vera e propria operazione di guerra, che non sarebbe stata nelle possibilità e nemmeno nella volontà della mafia siciliana, alla base del martirio, possiamo chiamarlo così, di Falcone e Borsellino, che stavano indagando sulla vicenda. Una storia che sfugge al controllo persino di un protagonista della nostra politica della potenza di Giulio Andreotti, che ad un certo punto ammette di trovarsi di fronte a qualcosa di «più grande di me» e invita Giancarlo Lehner a lasciare perdere il progetto di scrivere un libro-denuncia su tutto questo. A distanza di anni, Guzzanti riapre il caso. Un pezzo da non perdere, solo sul giornale della politica italiana, “Il Politico.it”. «Vi spiego perché hanno ammazzato Falcone e Borsellino, e perché nessuno fiata di fronte alla messa funebre solenne approntata alla svelta dal vecchio PCI per imbalsamarli e santificarli a furor di popolo inquadrato per processioni, prima che qualcuno avesse la malsana idea di indagare sulle vere ragioni della loro inspiegabile morte: “Chi ha ammazzato il povero Ivan?». Ecco la vera storia che nessuno ha il coraggio di raccontare perché ancora oggi si rischia la pelle. L’ambasciatore sovietico, e poi russo Adamishin andò da Cossiga e disse: Fermate questa rapina, i soldi russi del KGB e del PCUS stanno transitando in Italia per essere riciclati. Fate qualcosa. Cossiga chiamò D’Alema e gli chiese: State per caso riciclando per conto del KGB su conti gestiti da Cosa nostra? Ohibò, disse D’Alema, assolutamente non io, ma posso dire che un grandissimo finanziere – che se ti dicessi il nome cadresti dalla sedia – mi ha offerto l’affare del riciclaggio e io ho detto di no. Dunque il fatto esiste, ma non sono io. Allora Cossiga disse ad Andreotti, primo ministro: Volete fermare questa porcheria che sta dissanguando la Russia? E Andreotti rispose: NO, perché un gesto del genere sarebbe vissuto dal PCI come aggressivo nei loro confronti e io devo preservare l’equilibrio nel governo. Ma ho un’idea: chiama Falcone e digli di fare qualche passo informale che soddisfi i russi. Cossiga chiamò Falcone e gli spiegò la situazione. Falcone disse: ma io sono ormai soltanto un direttore generale del ministero della giustizia, che cosa posso fare? E Cossiga: incontra questi russi, tranquillizzali, fai vedere che stiamo facendo qualcosa.

Falcone incontrò i giudici russi e organizzò meeting riservati, coperto dalla Farnesina che gestì l’affare. Poi chiamò Paolo Borsellino e gli spiegò il problema che si era creato. Borsellino, vecchio militante del MSI e anticomunista intransigente disse: tu sei un impiegato al ministero, ma io no. Io posso indagare. Aprirò una mia Agenda Rossa su questa faccenda e discretamente cercherò di capire di più. Bum!! Capaci. Borsellino qualche settimana dopo si dette una manata sulla fronte e disse: cazzo, ho capito chi e perché ha ammazzato Giovanni: BUM! Via D’Amelio. Il PCI che sapeva perfettamente la storia, si avventò come un branco di jene sui due morti santificandoli alla svelta con un rito abbreviato e intenso di processioni popolari mummificandoli nella sua glassa mediatica affinché NESSUNO MAI potesse rivangare la verità. E’ come il “missile” inesistente di Ustica. E’ come la strage “fascista” di Bologna. Quando il partito copre la merda, tutti devono dire: che profumo di violette. Giancarlo Lehner voleva scrivere questa storia avendo una moglie russa che aveva parlato con Stepankov, il procuratore di tutte le Russie che aveva trattato con Falcone e che si era subito dimesso per paura: “Io ho famiglia, ho visto quel che hanno fatto a Giovanni”. Giovanni in russo si dice Ivan, e i giornali russi alla morte di Falcone avevano scherzato su “Chi ha fatto fuori il povero Ivan”, sulla falsariga di una filastrocca popolare. Tutti a Mosca sapevano chi e perché aveva fatto fuori il povero Ivan. In Italia nessuno sapeva spiegare perché fosse stato ucciso il povero Ivan. Non era un pericolo attuale per la mafia. E la mafia non uccide “alla memoria” o per vendetta a posteriori. E allora: perché e chi ha ucciso il povero Ivan. Lehner disse a un settimanale del suo progetto di libro sulla morte di Falcone. Andreotti lo mandò a chiamare nel suo studio di piazza in Lucina e gli disse: Voglio aiutarla, spero di recuperare i fonogrammi riservati con cui la Farnesina ha preparato gli incontri segreti con i giudici russi. Quella è la prova del fatto che Falcone indagava, senza averne un mandato, ma era andato molto più avanti del semplice contatto diplomatico con i russi, tanto per far vedere che in Italia il riciclaggio del tesoro sovietico era tenuto sotto osservazione. Poi Andreotti chiamò il giornalista e gli disse: Caro Lehner, butti nel cestino il suo progetto di libro, se non vuole lasciarci la pelle. Come sarebbe a dire?, fece quello. Sarebbe a dire, disse Andreotti, che dalla Farnesina mi hanno risposto che i dispacci si sono persi e che non si trovano più. Questo vuol dire che l’operazione è stata cancellata e le sue tracce distrutte. Dunque ci troviamo di fronte a un nemico più grande di noi due. Lasci perdere la morte di Falcone, dia retta. Alla Camera, in un giorno di votazioni a Camere congiunte, io Lehner e Andreotti abbiamo rivangato il fatto. Giancarlo parlava, Giulio annuiva con un sorriso tirato. Nessuno avrebbe potuto attivare il pulsante di Capaci con la certezza di fare il botto al momento giusto, se non ci fosse stato un emettitore di impulsi sulla macchina. Le due operazioni Capaci e D’Amelio sono operazioni di guerra condotte con tecniche di guerra, del tutto ignote alla mafia siciliana. Il resto sono chiacchiere da bar dello sport. Parola di Paolo Guzzanti.

Tante piste che andrebbero seguite. Come quel "Grande Gioco" che costò la vita al giudice Falcone. Verità analizzato da Daniela Coli su “L’Occidentale”. Ci si lamenta che non c’è più libertà di stampa, si protesta contro la "legge bavaglio", ma in Italia non esiste più nemmeno l’ombra del giornalismo investigativo. Per i delitti comuni, gli articoli dei quotidiani sono quasi sempre simili: il bravo giornalista di cronaca, un po’ detective, è scomparso e ora tutti si adeguano alle tesi del pm di turno, senza farsi, né fare domande, sbattendo in prima pagina il mostro di turno e soprattutto le intercettazioni, quando c’è di mezzo un politico. I magistrati politicizzati poi procedono a colpi di teoremi. Per l’uccisione di Falcone, prima hanno battuto sul teorema di Giulio Andreotti capo della Cupola (come nel Padrino III di Francis Ford Coppola, uscito nel 1990), per abbattere la prima Repubblica. Fallito il tentativo di trovare il capo della mafia in uno statista sette volte Presidente del Consiglio e cinque volte ministro degli Esteri, hanno ripiegato su Berlusconi, che avrebbe usato la mafia, compiuto le stragi del ’92-’93, per creare un nuovo sistema politico e prendersi l’Italia. L’ostinazione con cui la sinistra ripete la trama del Padrino III di Coppola, dove la mafia sicula diretta dal potente Lucchesi-Andreotti, come una piovra è dappertutto, in politica, nella finanza, in Vaticano, col solito Calvi in fuga per Londra, è una fiction scadente. Veltroni rilancia la tesi del Cav. mente delle stragi del ‘92-‘93 e sostiene che furono fatte per sconfiggere gli ex-comunisti. Veltroni non si rende conto che nel ‘94 votammo tutti Berlusconi perché quella fiction non era credibile e per questo i "progressisti" persero. Per chi è abituato a seguire CSI Miami, dove è presente il tema della mafia e del narcotraffico, oppure NCIS, dove Gibbs e i suoi sono come cane e gatto con Fbi e Cia, sa benissimo che i protagonisti indagano a 360 gradi su ogni omicidio, scoprendo per altro traffici d'armi coperti dai servizi segreti. Mentre lavora sulla morte di un grande trafficante d' armi francese, coperto da Cia e Fbi, la battuta più frequente di Gibbs è: "E poi dicono che non riescono a trovare bin Laden…". Gli americani sono più scafati di noi e conoscono quanti strani affari una grande potenza può essere costretta a fare. L’Irangate o l’Iran-Contras affair nel 1985-86 rivelò che alti funzionari dell’amministrazione Reagan erano coinvolti in un traffico illegale d'armi verso l’Iran, paese formalmente nemico degli Stati Uniti dopo i 52 americani tenuti in ostaggio dal 1979 al 1981, ma, benché l’Iran fosse all’epoca in guerra con l’Iraq e violentemente antiamericana, la vendita delle armi all’Iran fu considerata necessaria per liberare gli ostaggi americani in mano agli Hezbollah libanesi, legati all’Iran. L’affare si complicò ulteriormente, perché i ricavati delle armi vendute all’Iran furono usati per finanziare i Contras che stavano combattendo il governo sandinista del Nicaragua. Nell’85-86 a Washington non si parlava d’altro che del colonnello Oliver North e delle tonnellate di crack (droga dei poveri) che i Contras vendevano negli Stati Uniti. L’affare dell’Iran-Contras era un’operazione clandestina, non approvata dal Congresso e coinvolse North, l’ex capo della Cia Casey e molti alti funzionari governativi. Si chiuse quando il presidente Bush senior garantì il perdono a tutti gli indagati per avere agito nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Una insufficiente cultura investigativa induce alcuni magistrati a costruire teoremi sulle stragi del ‘92-‘93 sullo schema del Padino III e a derubricare la morte di Falcone a "strage di Stato", un concetto che in Italia sembra far luce su qualsiasi mistero e che dimostra solo il disprezzo per lo Stato del quale i giudici si proclamano enfaticamente servitori. I media italiani, diversamente da quelli americani, si limitano a ripetere questi teoremi politici, mettendo in evidenza il degrado del giornalismo. Non c’è più uno Sciascia, né un direttore del Corriere come Piero Ostellino pronto a pubblicarlo. Chissà cosa avrebbe detto Sciascia dei teoremi sulla morte di Falcone. Dal Padrino I (1972), ispirato dal romanzo di Mario Puzo, a La Piovra (1984-2001), si sono riproposti rozzamente i temi della saga del Padrino e non si distingue più tra fiction, letteratura e realtà. È strano come nelle indagini sulla morte di Falcone i magistrati si affidino ai pentiti, alle intercettazioni e non si siano mai soffermati sulle indagini internazionali di Falcone. Sollecitato dal giudice Chinnici, il cui maggiore onore era essere stimato dagli americani, Falcone aveva cominciato ad indagare su Rocco Spatola e, recandosi negli Stati Uniti nel 1980, iniziò a lavorare con Victor Rocco, investigatore del distretto di New York est. Falcone era convinto dell’esistenza di uno stretto rapporto tra mafia americana e siciliana. Lavorava su un traffico di morfina che dalla Siria e l’Afghanistan era approdato tramite un trafficante turco a Palermo nel 1975 e la città era diventata una raffineria che riforniva di eroina gli Stati Uniti. Le indagini si svolsero negli anni dell’occupazione russa dell’Afghanistan, mentre gli Stati Uniti appoggiavano i mujaheddin contro i sovietici, la Cia li riforniva di armi e ai funzionari della Dea (Drug Enforcement Administration) fu chiesto di chiudere un occhio sul traffico di oppio afghano. Prima di morire Falcone si occupava di riciclaggio di denaro in Svizzera. Denaro proveniente dal traffico d'armi e di droga. E proprio i dollari finiti nelle banche svizzere avevano impressionato gli americani, che all’inizio non avevano dato importanza alle sue indagini. Falcone collaborò all’operazione "Pizza Connection" con Louis Freeh, capo del FBI nominato da Clinton. Louis Freeh è finito poi indagato dalla commissione d’indagine sull’11 settembre per non avere tenuto conto delle segnalazioni del controterrorismo e di un agente del Fbi di Phoenix, che nel luglio 2001 fece rapporto su membri di Al Qaeda che frequentavano una scuola di volo: tra loro c’erano alcuni terroristi dell’attacco alle Twin Towers. Il rapporto di Freeh con Clinton, tanto sbandierato dalla sinistra, era tale che, scaduto il mandato al Fbi, Freeh rimase per non dare a Clinton la possibilità di nominare il nuovo capo del Bureau. Il processo di "Pizza Connection" del 1984, dove fu condannato Rosario Gambino, implicato anche nel presunto rapimento Sindona, consolidò il rapporto tra Freeh e Falcone. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto attenzione per la Sicilia. Lo stesso Sindona, come altri mafiosi italo-americani e siciliani, aiutò gli americani a sbarcare in Sicilia, fu arruolato nella Cia, andò negli States e fu per anni un rispettato banchiere. Anche la Sicilia indipendentista di Salvatore Giuliano aveva guardato all’America. Per la posizione geopolitica dell’isola, il rapporto degli Stati Uniti con la Sicilia attraverso gli immigrati siculi e le loro relazioni con amici e parenti siciliani è sempre stato importante. Anche Falcone riteneva fondamentale il rapporto con gli Stati Uniti. Fu grazie ai rapporti stabiliti con l’Fbi con "Pizza connection" che Falcone ottenne il trasferimento di Buscetta in Italia. Boss del narcotraffico, Buscetta fu arrestato in Brasile nel 1983, Falcone andò a trovarlo nelle carceri di San Paolo per chiedergli se era disposto a collaborare con la giustizia italiana. Buscetta fu estradato negli Stati Uniti nel 1984, collaborò con l’Fbi, che gli fornì una nuova identità e nel luglio dello stesso anno fu estradato in Italia. Buscetta, primo mafioso pentito, ebbe un feeling particolare con Falcone e fece rivelazioni esplosive, fino a indicare in Giulio Andreotti il referente principale di Cosa nostra, proprio come nel Padrino III e ne La Piovra. Dopo le dichiarazioni di Buscetta e il maxiprocesso di Palermo, Falcone divenne famoso e fu chiamato a partecipare al talk show di Maurizio Costanzo. Il magistrato aveva rapporti con Carla Dal Ponte, il giudice svizzero amica di Madeleine Albright, e nel 1991 scrisse un libro sulla mafia con Marcelle Padovani, del Nouvel Observateur, la poliedrica giornalista mitterandiana all’occorrenza rivoluzionaria e guerrigliera, amica di Régis Debray. Falcone, che nel suo studio aveva una fotografia insieme a Bush senior e Peter Secchia, era diventato ormai un magistrato di fama internazionale. Fiero di essere stimato da Bush senior, il presidente della prima Guerra del Golfo del ’90-91. Bush dichiarò lutto nazionale il giorno della morte di Falcone l’accademia dell'Fbi a Quantico gli dedicò persino un monumento. Il presidente degli Stati Uniti in visita a Roma nel 1989 volle incontrarlo e gli riservò un’ora di colloquio. L’ambasciatore Secchia non faceva mistero della stima per Falcone a Roma per collaborare con Martelli, lo immaginava come un futuro possibile ministro. Bush, Louis Freeh e Rudy Giuliani lo stimavano e, secondo alcuni, pensavano a lui anche come primo ministro. Si è anche fantasticato di un patto tra Falcone e gli Stati Uniti per sbarazzarsi di Craxi dopo Sigonella e della politica filoaraba di Andreotti e si è sbandierata l’ipotesi che sia stato ucciso a Capaci prima dai soliti Andreotti e Craxi e ora da Berlusconi per impedirgli di essere un protagonista della seconda Repubblica. È nota l’amicizia dei Bush per Silvio Berlusconi, gli inviti alla Casa Bianca, al Congresso americano: se vi fosse stata anche soltanto l’ombra di una qualche implicazione nella strage di Capaci questo speciale rapporto col Cavaliere non vi sarebbe stato. Paradossalmente, coloro che oggi ricordano la stima dei Bush per Falcone, fanno parte della sinistra che manifestava contro la Guerra del Golfo di Bush e dava del fascista a Bush jr per la guerra in Afghanistan e in Iraq. Purtroppo non c’è stato un Gil Grissom, né un Gibbs a indagare a 360 gradi sulla morte di Falcone. Alla sinistra faceva comodo dare la colpa ad Andreotti nel ’92-93 e ora fa comodo creare polveroni su Berlusconi. Forse, invece, proprio Falcone ha dato la chiave del suo assassino. "Si muore generalmente perché si è rimasti soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande". Falcone con le sue indagini era entrato davvero senza volerlo nel Grande Gioco e pare avesse anche temuto l’alleanza di servizi segreti stranieri con la mafia. Invece di fissarsi su teoremi italiani, forse sarebbe il caso di vagliare ipotesi alternative. A uccidere Falcone potrebbe essere stato qualche servizio segreto orientale, qualche gruppo del narcotraffico, ma pure anche chi temeva le indagini sul flusso di rublo-dollari che giungevano in Italia attraverso i canali di vecchi compagni del Pci, soldi che venivano riciclati in tutta Europa. Falcone aveva già incontrato il magistrato russo Valentin Stepankov e doveva incontrarlo nel maggio del ’92, se non fosse stato ucciso. Ad assassinare Falcone potrebbe anche essere stato qualche servizio segreto occidentale che operava in Medio Oriente e non gradiva un giudice troppo attento ai traffici di armi e droga. Falcone potrebbe anche essere stato cinicamente ucciso da chi voleva destabilizzare la politica italiana, aiutato da qualche sinistro cervello italiano. Fu ucciso in maniera spettacolare in Sicilia, non a Roma, dove sarebbe stato più facile colpirlo, per inviare un messaggio chiaro alla Dc, mentre in Parlamento si votava per il Presidente della Repubblica. Il nuovo presidente doveva essere Andreotti e si elesse Scalfaro, un magistrato, due giorni dopo la morte di Falcone. Nel giugno del ’92, in certi ambienti di Londra, si parlava di regime change per l’Italia e di un'imminente rivoluzione dei giudici. Però, la corte d'Assise di Roma, pochi giorni, fa ha preso in considerazione anche l’ipotesi che Roberto Calvi sia stato ucciso dai servizi segreti inglesi, perché aveva venduto armi all’Argentina durante la guerra delle Falkland. Falcone e Calvi erano diversissimi, ma avevano in comune il problema che tanti li volevano morti. Dopo la morte di Falcone si sono scoperti tutti falconiani, pochi però hanno indagato davvero sulla sua morte, limitandosi soltanto a riproporre il vecchio film di Francis Ford Coppola. E’ noto che dopo l’uccisione di Falcone gli agenti del Fbi si precipitarono subito sulla scena del crimine di Capaci, raccolsero mozziconi di sigaretta nel luogo dove fu azionato il pulsante del detonatore che provocò l’esplosione di tritolo, che investì le auto della scorta e di Falcone. Il Dna delle prove raccolte dal Fbi non corrispondeva però a quello di Giovanni Brusca, il pluriomicida pentito, che ha goduto di un trattamento carcerario estremamente leggero. In qualsiasi giallo, questo dato provocherebbe qualche dubbio. Forse, chissà, tra una ventina d’anni sapremo qualcosa di più sulla morte di Giovanni Falcone, un uomo coraggioso che non meritava di essere sepolto sotto la retorica del santino buono per tutte le stagioni.

Un’altra verità la racconta Gennaro Ruggiero. Geronimo, alias Paolo Cirino Pomicino, nel suo libro bomba “Strettamente Riservato”, fa alcune considerazioni. In pratica si sofferma su alcune coincidenze molto preoccupanti. Infatti, pare che Giovanni Falcone, avrebbe dovuto incontrare, qualche giorno dopo la sua morte, il procuratore di Mosca Valentin Stepankov, che indagava sull’uscita dalla Russia di grosse somme di denaro esistenti nelle casse del PCUS. Tutto confermato da Valentin Stepankov, il quale ha detto anche che, dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Eppure Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima. Falcone, venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale. Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Scotti e Martelli in Tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone. Il Giornale il 3 novembre 2003, raccontava che Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia, prima di morire si stava occupando dei finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano: o meglio del riciclaggio di soldi, tanti soldi, che nella fase di dissolvimento dell’Urss lasciavano Mosca attraverso canali riconducibili al Pci. Per questo motivo Falcone si era già incontrato con l’allora procuratore generale russo Valentin Stepankov che su questo stava concentrando tutta la sua attività. Falcone è stato ucciso alla vigilia di un nuovo e decisivo incontro sollecitato dallo stesso Stepankov. Ci sono telegrammi con oggetto: «Finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano».

L’ambasciatore Salleo comunica al Ministero a Roma: “Il Procuratore generale della Federazione russa, Stepankov, mi ha fatto pervenire lettera con cui, facendo riferimento a colloqui da lui a suo tempo avuti con i magistrati Falcone e Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma) mi informa della sua intenzione di effettuare nel periodo 8-20 giugno una missione di cinque giorni a Roma nel quadro della inchiesta sui finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano”. C’era solo un motivo per cui il magistrato russo sollecitava la collaborazione di Giovanni Falcone; dopo averne apprezzato la competenza negli incontri precedenti: Falcone era l’unico in grado di accertare l’eventuale coinvolgimento della «criminalità organizzata internazionale», cioè della mafia (o delle mafie), nel riciclaggio del tesoro sovietico. Falcone, vale la pena ricordarlo, da poco più di un anno ricopriva il ruolo di direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia. Era stato chiamato da Claudio Martelli, allora Guardasigilli. Da quel momento attorno gli era stato fatto il deserto. Quei mesi prima della strage di Capaci, Falcone aveva visto bruciare la sua candidatura a procuratore nazionale anti mafia dai suoi nemici al Palazzo di giustizia di Palermo e dentro la magistratura: al Csm al momento di scegliere il «superprocuratore» tre membri laici del Pds gli preferirono Agostino Cordova. I due governi, vale sempre la pena di ricordare, presieduti da Giulio Andreotti dal ‘90 al ‘92, con il ministro dell’Interno Enzo Scotti e i due ministri socialisti alla Giustizia, prima Giuliano Vassalli e poi Martelli che aveva voluto Falcone al suo fianco, avevano emanato un numero impressionante di provvedimenti contro la mafia. Per ricordarne alcuni: dal mandato di cattura per decreto legge che riportò dietro le sbarre i grandi mafiosi del primo maxi processo istruito a Palermo dallo stesso Falcone, alle norme anti-riciclaggio, al varo della Dna, la Direzione nazionale anti mafia. Curiosamente gli uomini di questi due governi che più si erano esposti nella guerra dichiarata dallo Stato alla mafia, con la sola eccezione di Vassalli, saranno tutti travolti da Tangentopoli, e il premier, Andreotti, addirittura accusato di essere il baciatore di Totò Riina, il puparo della mafia e il mandante di un omicidio (quello di Mino Pecorelli). Da quando Falcone aveva accettato l’incarico al ministero, Martelli si era trovato a sostenere uno scontro pressoché quotidiano con il Consiglio superiore della magistratura. Questo era il clima che ha avvelenato la vita di Falcone, prima di Capaci.

Racconta Enzo Scotti: «Lo aveva visto pochi giorni prima che partisse per Palermo, era giù di tono. Era stanco e avvilito. Finora degli incontri tra Falcone e il giudice Stepankov si era saputo per sentito dire. Il primo a parlarne è stato l’ex ministro dc Cirino Pomicino nel suo libro “Strettamente riservato”. «L’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga » spiega Cirino Pomicino «mi ha raccontato che fu lui a chiedere a Falcone di indagare, su quel flusso di denaro del Pcus che usciva dall’ex Unione sovietica ».

Andreotti ha confermato di aver visto i «telegrammi riservatissimi» giunti alla Farnesina nel maggio del ‘92. Adesso c’è la prova documentale. Nel primo, quello dell’11 maggio, è indicato con precisione il periodo in cui Stepankov intendeva venire in Italia, tra «l’8 il 20 giugno», per indagare su finanziamenti de Pcus, mafia e Pci. Il procuratore generale russo rispondeva positivamente anche alla richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dal magistrati romani che indagavano su Gladio Rossa (inchiesta poi frettolosamente archiviata). Per l’incontro con Falcone non ci sarà tempo, poco prima delle 18,30 del 23 maggio una gigantesca carica di esplosivo lo ha fermato per sempre. Del 27 maggio 1992, quattro giorni dopo la carneficina, è il secondo telegramma «urgentissimo» e «riservatissimo» dall’ambasciata di Mosca alla Farnesina, questa volta firmato da Girardo. Valentin Stepankov non può far altro che esprimere l’«amarezza» e il «profondo dolore », e prega di portare le condoglianze ai parenti delle vittime. Ma tramite la nostra ambasciata, dopo aver sottolineato come fosse stato in programma di lì a poco il loro incontro, Stepankov non rinuncia a ricordare Falcone «quale degno cittadino dell’Italia, uomo di alto impegno professionale e morale». Peccato che i due telegrammi «urgentissimi» non abbiano mai attirato l’attenzione della commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Luciano Violante e Vice presieduta dal democristiano Paolo Cabras: nel ‘93 preferirono mettere sotto processo la Dc e Giulio Andreotti. E oggi si vuole accusare Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi. Ma allora tutta la storia, perché è di storia che stiamo parlando non di leggenda, che fine ha fatto? Allora è vero che c’è una regia politica dietro tutta la vicenda Spatuzza & Co. Purtroppo stavolta non ci sono Falcone e Borsellino, magistrati veri ed imparziali, ci sono solo quelli che come allora accusarono a vuoto Andreotti; ma adesso chi salterà in aria? E chi lo farà, visto che l’unione sovietica è morta? Ma non è morto anche il comunismo? O ci sono i residui bellici ancora vivi? Lascio al lettore analizzare le notizie storiche che mi sono permesso di riportare in questo resoconto.

"Il viaggio di Falcone a Mosca. Indagine su un mistero italiano", il libro di Francesco Bigazzi, Valentin Stepankov. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci (...) Dopo il fallito golpe di Mosca dell'agosto 1991 e l'affidamento a Stepankov della relativa inchiesta, la visita del procuratore russo a Roma nel febbraio 1992 e l'incontro con Falcone costituiscono il primo atto di un'intesa destinata a interessanti sviluppi e formalizzata dalla promessa di un imminente viaggio del magistrato siciliano in Russia. Ma quella data, già appuntata nell'agenda delle due Procure, viene letteralmente cancellata dal più devastante attentato mafioso della storia, attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta... Contributi di Carlo Nordio e Maurizio Tortorella.

I misteri dell'ultimo viaggio di Falcone a Mosca. In un libro-intervista al procuratore della Russia postcomunista, il possibile movente politico-economico per la morte del magistrato: l'oro del Pcus al Pci, scrive il 30 ottobre 2015 Maurizio Tortorella su "Panorama". Il 23 maggio 1992, nella strage di Capaci, sparirono Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Ma anche l'inchiesta internazionale che il magistrato aveva iniziato a seguire sull'Oro di Mosca: rubli e dollari versati segretamente al Pci per un valore di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991. Nel libro Il viaggio di Falcone a Mosca: chi furono davvero i mandanti della strage di Capaci? (Mondadori, 152 pagine, 20 euro), Francesco Bigazzi e l’allora procuratore generale della Federazione russa Valentin Stepankov ricostruiscono quelle indagini e ipotizzano che gli assassini di Falcone, o meglio, i loro mandanti, vadano ricercati tra coloro che guardavano con terrore all’inchiesta più esplosiva del secolo: Pcus, mafia, l’oro di Mosca e i “partiti fratelli”. È stato più volte smentito che il magistrato, in quel momento direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, potesse essere stato incaricato di coordinare le indagini su un colossale riciclaggio dei fondi del Pcus, arrivati segretamente in Italia. Ma Stepankov conferma autorevolmente il fatto. Del resto, anche Il Corriere della Sera del 27 maggio 1992 riportò la notizia: "Tra la fine di maggio e i primi di giugno Falcone sarebbe dovuto venire a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’estero dei soldi del Pcus". Nel libro, la cui uscita è prevista per martedì 3 novembre, Stepankov racconta a Bigazzi di avere avuto subito la sensazione che dopo Capaci le inchieste avviate sarebbero finite su un binario morto. Venuto a mancare Falcone, del resto, nessuno si curò più di collaborare con la Procura russa. Il libro ricostruisce anche come, nel corso del tempo, quattro diversi ministri (Claudio Martelli, Giulio Andreotti, Paolo Cirino Pomicino e Renato Altissimo) abbiano dichiarato pubblicamente che Falcone, nel giugno 1992, avrebbe dovuto recarsi in Russia per confermare una cooperazione giudiziaria sul tema, parlandone (e non era la prima volta) con Stepankov. Tra la metà del 1991 e i primissimi mesi del 1992, sostengono tre di quei quattro ministri, Falcone aveva ricevuto direttamente da Cossiga l’incarico di seguire l'inchiesta dal versante italiano.

Il viaggio di Falcone a Mosca. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci e sul ruolo giocato da mafia internazionale e...

Falce, Falcone e martello. Falcone è stato ucciso da Cosa Nostra, o forse no. Mai la giurisprudenza ha seguito la "pista russa". Oggi esce in Italia un libro che cerca di fare luce sulla vicenda: "Il viaggio di Falcone a Mosca", scrive Paolo Guzzanti su "Il Giornale”. Nessuno ha mai saputo dire per quale motivo preciso Giovanni Falcone fu assassinato. Leggeremo il libro di Valentin Stepankov, ex procuratore russo e amico di Falcone, e del giornalista Francesco Bigazzi «Il viaggio di Falcone a Mosca» (Mondadori) con nuovi documenti sullo scenario che in sede giudiziaria italiana è stato evitato come la peste. Sostenere che Cosa Nostra abbia ucciso Falcone perché era «il più grande nemico della mafia» è puerile, ma anche fraudolento: Cosa Nostra non dà premi Oscar alla carriera. La mafia è una macchina per fare soldi, non per vendette teatrali. Quando Cosa Nostra uccide, c'è sempre un motivo gravissimo e immediato. Dunque: per schivare quale pericolo imminente fu assassinato Falcone? Quando arrivò a Mosca la notizia della sua morte, il procuratore Valentin Stepankov ebbe un collasso, disse di aver capito l'antifona e lasciò il suo posto, ufficialmente per dissensi politici. Tutti coloro che in Italia dovrebbero sapere, sanno della pista seguita da Falcone «following the money», ovvero seguendo il cammino in Italia del tesoro del Kgb e del Pcus. L'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin supplicò Cossiga di intervenire. Cossiga si rivolse ad Andreotti che suggerì Falcone come investigatore non ufficiale. Non aveva poteri di magistrato inquirente, ma li aveva il suo amico e confidente Paolo Borsellino. Falcone non fece in tempo ad andare a Mosca e il 23 maggio 1992 fu Capaci. Seguì, dopo meno di tre mesi, via D'Amelio.

Rubli, falce e tritolo. Le lunghe ombre russe sulla morte di Falcone. Nuove carte svelano gli intrecci tra mafia dell'Urss, Cremlino e Pci. Il magistrato doveva recarsi a Mosca per indagare sui finanziamenti ai partiti "fratelli". Ma non fece in tempo..., scrive Dario Fertilio su “Il Giornale”. Un secolo e mezzo fa, per Marx, l'ideologia era «la falsa coscienza della classe al potere». Mai l'autore de Il Capitale ne avrebbe immaginato una versione aggiornata così: «l'ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere». Eppure, anche in termini rigorosamente marxiani, questa conclusione pare ineccepibile dopo aver letto Il viaggio di Falcone a Mosca, saggio firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov in uscita per Mondadori (pagg. 156, euro 20). Perché l'immagine degli ultimi giorni dell'Urss e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale Oro da Mosca, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie impressionante: senza nulla di grandioso, e invece percorso da torme di criminali e lezzo di corruzione che soltanto i compartimenti stagni del regime avevano saputo fino all'ultimo dissimulare. Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: qui batte il cuore di tenebra dell'Urss, centro propulsore di una criminalità organizzata prima sotto le insegne della falce e martello e poi, strappate le insegne di partito, alleata dei malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York. I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all'estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli - primo fra tutti il Pci - e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l'ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri - di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello - e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali. E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all'estero. È Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un'affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l'altro il compito di accertare se, nell'ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa», un'organizzazione clandestina tesa al sovvertimento violento della democrazia in Italia. A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'«oro da Mosca», volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Per non perdere tempo, l'intrepido Stepankov inviò anche alla Procura di Roma tutta la documentazione, e una parte dell'istruttoria raccolta per il processo che doveva essere intentato agli autori del fallito golpe.Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.Tutto, o quasi, oggi si conosce sull'identità degli esecutori. Ma l'attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta. E Stepankov, che se ne intende, non manca di farne notare l'effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Aggiunge la sensazione che il collega italiano possa «essere stato danneggiato dalle attività» che stava conducendo al suo fianco. E conclude: gli attentatori hanno raggiunto «l'obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca».La collaborazione italo-russa, in realtà, continuò, ma il vento della politica stava cambiando. Lo stesso Stepankov, dopo aver sfidato il presidente Boris Eltsin condannando il bombardamento della sede dove si erano asserragliati i parlamentari ribelli della Duma, fu costretto a dimettersi. Fine della storia? Non del tutto, anche se l'«oro del Pcus» svanisce nel nulla, in un vorticoso valzer d'investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie. Proprio come - rivelano i documenti - sognava a suo tempo il tesoriere del Pcus, Nikolaj Krucina.E l'insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell'Urss rimasti all'estero - il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici - diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.

58 giorni. Cossiga va da Borsellino: “Sei tu l’erede di Falcone”, scrive il 15 giugno 2013 Giovanni Marinetti su “Barbadillo”. 13 giugno 1992. Cossiga incontra Borsellino. L’ex presidente della Repubblica giunge a Palermo per rendere omaggio alle vittime della strage di Capaci. Accompagnato dal prefetto Mario Jovine, Cossiga mostra il suo cordoglio ai parenti delle vittime e prega, inginocchiato, assieme alla moglie di Vito Schifani, Rosaria. «Presidente, preghi forte: voglio sentire cosa dice». È Rosaria a chiederlo a Cossiga, e insieme recitano il De Profundis, un Pater e un’Ave. Nel pomeriggio incontra Paolo Borsellino. Sarà lo stesso Cossiga a ricordarlo: «Glielo dissi chiaro e tondo, è inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone Lei e nessun altro». Sul Corriere della Sera, il ministro Martelli polemizza con i magistrati, che definisce “professionisti dell’Associazionismo”. Mentre il Psi critica la linea politica di Bettino Craxi, iniziando a voltargli le spalle, i giornali riportano la celebrazione che il Wall Street Journal fanno di Antonio Di Pietro. Il Sole 24 Ore, invece, nell’articolo dal titolo “Affari di droga tra mafia e Pcus. Falcone indagava con i russi”, riporta le parole di Teldman Gdlian, ex giudice della Procura generale dell’Urss, che sostiene che il Cremlino ricavava miliardi di lire vendendo in Italia la droga delle repubbliche asiatiche dell’Urss in accordo con la mafia siciliana. Insomma, il viaggio di Falcone a Mosca, dice, non stava bene né alla mafia italiana né a quella russa. 14 giugno 1992. Il governo fatica a vedere la luce, ma i mercati iniziano a “innervosirsi”. Il Giornale: “Traballa anche la lira”. Scrive l’editorialista Giancarlo Mazzuca: «Un superministro per l’economia? Ciampi al governo? Non c’è più tempo, ormai, per i soliti dibattiti: bisogna agire. A cominciare dalle privatizzazioni appena decollate che, anche dal punto di vista psicologico, possono rappresentare il sospirato segnale di svolta». Tutti i quotidiani riportano i risultati di un’indagine sulla criminalità: metà degli italiani vuole la pena di morte contro i boss mafiosi, e nove cittadini su dieci pensano che la mafia sia la più grave delle minacce per il paese. Il clima è questo. E la politica è debolissima, spaventata dalle inchieste milanesi, in continua lite con la magistratura e senza leadership nei partiti.

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

"Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia". Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l'esplosione: "Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi", scrive Raffaella Fanelli su “La Repubblica”. "Sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un'enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri...". Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L'ex uomo d'onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. "Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato... Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l'aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza del bar Johnnie Walker... Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari... Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera... amuninni a mangiari 'na pizza".

Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell'autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi...

"Degli uomini in mimetica non so niente... Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri".

Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra?

"C'era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri... Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato".

Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi?

"In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l'ho mai riconosciuto... Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate".

Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del '93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso?

"Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara".

Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2.

"So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi... che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità".

La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo?

"Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso... Ma è una mia deduzione".

L'omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere?

"Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C'erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino".

L'omicidio Mattarella?

"Per quel che ne so io, fu voluto da politici".

Ci sono delle intercettazioni in casa Guttadauro fra il medico di Altofonte Salvatore Aragona e il boss Giuseppe Guttadauro sulla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla domanda su chi commissionò l'omicidio, il boss risponde: estranei a Cosa Nostra...

"Discorsi da ufficio, non avrebbero potuto sapere. Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove".

La strage di via D'Amelio. Lei sapeva delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino?

"Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all'inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l'avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c'è traccia: sono spariti verbali e registrazioni".

Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò Riina... Ma esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi?

"Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra... Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l'estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un'auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L'auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti".

Ha conosciuto il Capitano Ultimo?

"Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l'arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori".

Il cortocircuito del Fatto su Ultimo. Da fiancheggiatore di Riina a giustiziere contro Renzi. Il quotidiano di Travaglio cambia idea: il Capitano dei Carabinieri, prima vituperato e radiato per la vicenda del covo del boss mafioso, diventa ora l'arma per "scardinare il Palazzo" con le intercettazioni tra il premier e Adinolfi, scrive Luciano Capone l'1 settembre 2015 su "Il Foglio". Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, è tra i pochi eroi viventi del nostro paese. Reso immortale dalla fiction con Raoul Bova, è l’investigatore che si è conquistato l’immensa stima e riconoscenza degli italiani per aver condotto con i suoi metodi innovativi le indagini che hanno portato, dopo la stagione delle stragi, all’arresto di Totò Riina, il Capo dei capi. Questo per la gran parte degli italiani. Per un’altra parte, minoritaria, è considerato una specie di mafioso, una pedina fondamentale della trattativa stato-mafia, il braccio operativo del generale Mario Mori (suo capo al Ros): i due sono stati processati su iniziativa di Antonio Ingroia con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per non aver perquisito il covo di Totò Riina (una strategia investigativa concordata con l’allora procuratore Giancarlo Caselli), accusa da cui sono stati poi assolti. L’assoluzione definitiva non è servita a Ultimo (e a Mori) a evitare che il suo nome venisse accostato a uno scambio di favori con Cosa nostra e alla Trattativa stato-mafia (una teoria, quella della trattativa, che Ultimo ha definito una “pagliacciata”). Tra quelli che a più riprese hanno accusato De Caprio e il suo ruolo definito ambiguo più che eroico c’è sempre stato Marco Travaglio, che ha sempre creduto più alle parole del pentito Massimo Ciancimino che a quelle del carabiniere. Travaglio si è occupato del tema, e in particolare della mancata perquisizione del “covo” di Riina, in tantissimi articoli, libri, programmi televisivi, monologhi e spettacoli teatrali. “Oggi, con tutto quello che è emerso sulla trattativa e sui mandanti esterni alle stragi, è naturale collegare la mancata perquisizione del covo agli accordi fra i trattativisti e Provenzano. Che aiutò i carabinieri a rintracciare Riina e a eliminare l’‘ala stragista’ di Cosa nostra, ma certo non lo fece gratis”, scriveva il direttore del Fatto quotidiano. E ancora, in un altro articolo: “I due ufficiali (Mori e Ultimo, ndr) non perquisirono il covo, lasciandolo svuotare dalla mafia e ingannando la Procura”. È stato quindi sorprendente pochi giorni fa, il 21 agosto 2015, leggere sul giornale diretto da Travaglio un articolo in cui si prendono le parti del colonnello Sergio De Caprio, esautorato dei suoi compiti operativi al Noe (Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri). Ultimo ha condotto diverse indagini delicate, tra le quali quelle in cui compaiono le intercettazioni tra il premier Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, e proprio questo secondo il Fatto sarebbe il motivo della “purga”: “Colpa del suo spirito indipendente, della sua velocità all’iniziativa individuale – scrive il Fatto - di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell’obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto”. Ma come, non erano la sua indipendenza e i suoi metodi un punto cruciale della “Trattativa”? “Fin dai tempi remoti dell’arresto di Totò Riina – gennaio 1993 – che gli valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un processo per “la mancata perquisizione del covo” da cui uscì assolto insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori”, scrive Pino Corrias, cancellando in 4 righe anni di teorie sulla Trattativa del suo direttore. Per Travaglio, Ultimo, insieme al suo amico e capo Mori, ha proprio le caratteristiche del delinquente, del fiancheggiatore della mafia, è uno degli uomini chiave degli indicibili accordi tra politica, mafia, terzi livelli e servizi (deviati, ovviamente): "È chiaro che il Ros ha mentito e ha ingannato la Procura. Ora, delle due l’una: o Mori e Ultimo sono due dilettanti allo sbaraglio; oppure hanno agito di proposito per favorire la mafia, o se stessi, o altri uomini dello Stato", scriveva Travaglio. Insomma, Ultimo avrebbe servito Bernardo Provenzano più che lo Stato, si tratta di un traditore, un delinquente che meriterebbe l’ergastolo, altro che la rimozione della “guida operativa” del Noe! Ma il Fatto non si è occupato del colonnello De Caprio solo in quell’articolo, lunedì gli ha fatto una lunga intervista. Quale migliore occasione per mettere alle strette questo personaggio da sempre visto dal direttore come un criminale? Ecco invece come viene descritto: “È il carabiniere che ha arrestato Riina, inquisito Orsi e Bisignani, aperto il fascicolo sulle Coop e intercettato Renzi col generale Adinolfi. Senza troppa reverenza nei confronti del Palazzo. E l’hanno punito”. E ancora: “È stato il protagonista di una lunga serie di indagini. Quelle scomode, soprattutto, portano la sua firma: lui è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, conosciuto da tutti come il Capitano Ultimo”. E questo è solo l’inizio, ora arrivano le bordate: “Un uomo costretto a non mostrare mai il suo volto, Ultimo ama più la strada che i palazzi del potere. Semplice, pratico ed irrequieto. Pensa ai risultati, non alla burocrazia: per lui il fine è solo l’utile, i mezzi tutti quelli possibili”. Ma come? E la Trattativa? Provenzano, Mori, il favoreggiamento? E il covo? Ah sì, del covo se ne parla: “Il Colonnello Sergio De Caprio ha iniziato questa intervista in quello che ormai è ritenuto il suo “covo”: la casa famiglia Capitano Ultimo "creata per l’esigenza di aiutare chi è in difficoltà". Ma non aiutava la mafia? Non è che nel suo covo ospita il latitante Messina Denaro? Ma è solo l’inizio, ecco che arrivano le domande scomode, quelle che nessuno gli ha mai fatto: “Quale sensazione ha provato quando ha arrestato Totò Riina, per lei era la fine o l’inizio di qualcosa?”, “Quali attività vengono svolte nella Casa Famiglia Ultimo?”, “All’interno della struttura c’è l’allevamento dei falchi da lei personalmente curato. Perché proprio i falchi?”, “Quanto le è costato trascurare la sua vita privata per il lavoro. È riuscito a conciliare tutto?”. Il paginone dedicato a Ultimo è finito, non c’è spazio per le domande sul covo, sull’accordo con Provenzano per arrestare Riina, sul papello, la trattativa, Ciancimino. Niente. Quello che veniva trattato da mafioso quando arrestava Totò Riina diventa un eroe per aver intercettato Renzi, da fiancheggiatore della mafia a uomo “semplice, pratico ed irrequieto” che “ama più la strada che i palazzi del potere”. In realtà Ultimo è sempre lo stesso, è al Fatto che hanno una lingua per i magistrati di Palermo e una per De Caprio. Nella prossima edizione del suo libro “Slurp”, quello sulla leccaculagine dei giornalisti italiani, il direttore del Fatto potrebbe aggiungere un capitolo su una nuova pratica estrema che pare conoscere bene, il bilinguismo.

Da Riina all'inchiesta nissena. Chi è la signora dei beni confiscati, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Dura e pura. Spigolosa e intransigente. A volte scontrosa nei rapporti umani, anche con gli avvocati che ne contestavano spesso i metodi processuali. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Prima il brusio e i sospetti sugli incarichi assegnati dalla sezione Misure di prevenzione da lei presieduta, poi lo scandalo esploso nei giorni scorsi. Perché la Saguto adesso è accusata di avere gestito come se fosse un suo feudo un settore delicato come quello dei sequestri e delle confische dei beni mafiosi. Avrà tempo e modo di difendersi, ma la bomba è scoppiata. La luce propria si è spenta fino al punto che per riaccenderla, sempre secondo i pm nisseni, il magistrato avrebbe fatto filtrare, pochi mesi fa, la notizia che la mafia volesse ucciderla. Anche Livesicilia quella notizia la verificò e la scrisse, avendo saputo che i servizi segreti avevano rilanciato un pericolo segnalato un anno prima. Ora si scopre che, secondo i pm, dietro quell'allarme ci sarebbe stata la regia della Saguto che avrebbe cercato di rispondere alle polemiche che erano esplose attorno alla sua gestione dell'ufficio. Il magistrato, a fine 2013, era già finita su tutti i giornali perché il prefetto aveva deciso di rafforzarle la scorta. Lei stessa aveva preparato un dossier, come riportavano i quotidiani, per raccontare l'escalation di minacce subite assieme ai colleghi della sezione: teste di capretto, telefonate anonime, pedinamenti. Tutto ciò accadeva meno di due anni fa, quando i mugugni sulle Misure di prevenzione erano già forti, eppure sembra che sia passato un secolo. Anche e soprattutto alla luce dell'inchiesta che l'ha travolta. Pesano come un macigno le ipotesi di corruzione e abuso d'ufficio. La gestione dei beni sarebbe divenuta per il magistrato un affare di famiglia visto che sono indagati pure il marito, il padre e il figlio. Nel decreto di sequestro compare anche l'ipotesi di autoriciclaggio forse legata all'anziano genitore. La Saguto oggi siede sul banco dei cattivi. Lo stesso su cui hanno trovato posto coloro che il giudice ha combattuto nel corso di una lunga carriera. Il suo nome è legato ad alcune pagine rimaste nella storia giudiziaria. Ad esempio, non ebbe timore nel 1993, a “sfidare” Totò Riina, quando si sentiva ancora forte l'odore acre del tritolo esploso a Capaci e in via D'Amelio. La Saguto era il giudice a latere - presidente Gioacchino Agnello - nel processo in corte d'assise per gli omicidi di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Durante una pausa le telecamere in aula restarono accese. E così i magistrati, che si erano ritirati, ascoltarono Riina mentre invitava il pentito Gaspare Mutolo a tornare ad essere il “Gasparino” di sempre. “Farai la fine di Matteo Lo Vecchio”, gli disse il padrino corleonese citando uno dei personaggi del libro “I Beati Paoli” che viene ritrovato impiccato a piazza della Vergogna. E così al rientro in aula la Saguto chiese al padrino corleonese: “Che fine ha fatto Matteo Lo Vecchio, mi interessa”. “Ma non lo so c'è un libro che ne parla”. E la Saguto: “Quindi lei legge libri a metà”. Nessuno un ventennio dopo avrebbe immaginato di ritrovare la Saguto indagata per corruzione. Lo stesso giudice inflessibile che in molti hanno conosciuto quando da Giudice per le indagini preliminari firmava decine di ordini di arresto, oppure infliggeva pesanti condanne in Tribunale. Così come inflessibile è stata nel suo incarico alle Misure di Prevenzione sequestrando miliardi di beni tolti ai più importanti gruppi imprenditoriali palermitani. Tra questi, Niceta, Rappa, Virga. È alle Misure di prevenzione, però, che la stella antimafia della Saguto si oscura.

WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.

Riscrivere per dominare, la Storia come arma dei regimi (e non solo). Dalle guerre puniche ai rapporti tra fascismo e Paesi anglosassoni: quante omissioni, reticenze o falsità sono state raccontate Demistificare è dovere di ogni studioso serio, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Non è mai esistito, stando ai documenti e ai testimoni, alcun carteggio segreto fra Mussolini e Churchill (ma i vecchi editori Mondadori e Rizzoli si gettarono a capofitto nel mercato dei falsi diari e dell'inglese maccheronico). La conseguenza di questa realtà è che la vicenda della fucilazione segreta di Mussolini per far sparire il carteggio sarebbe una balla. Ci fu semmai nel 1940 lo scambio di lettere, una di Churchill («Ci ripensi, non ci muova guerra») e una secca risposta di Mussolini che diceva: ormai è fatta. Punto e fine della storia. Non è neppur vero che gli angloamericani lasciavano a secco di rifornimenti le formazioni partigiane a direzione comunista, ma anzi le preferivano perché più combattive. Non è vero che gli ebrei fossero ai tempi di Maometto più filo-cristiani che filo-islamici, ma anzi convissero in modo pacifico e tollerante con gli arabi finché questi rappresentarono una civiltà organizzata, poi tutto cambiò. Ancora: la stampa e i politici anglosassoni si infuriarono contro Israele quando il suo servizio segreto Mossad rapì Adolf Eichmann in Argentina nel 1960 per portarlo davanti ai giudici di Gerusalemme (ci volle Hannah Arendt con le sue corrispondenze sul New Yorker per gettare un po' di luce su ciò che realmente era accaduto). Infine, l'invenzione dei popoli, delle patrie, delle antiche culture, sarebbe poco meno che una prepotente invenzione romantica per giustificare ambizioni politiche e territoriali. Quando l'Impero romano assimilò i primi barbari, sorsero potentati e aggregati che non avevano capo né coda. La storia come arma di suggestione e di distruzione permanente è una conseguenza della nascita della scrittura, benché il software fosse già predisposto nella mente umana: non ci volle molto a capire che i vincitori avrebbero sempre considerato il passato come preda di guerra. Anzi, un diritto: cancello il tuo esercito e cancello con la tua identità anche il tuo passato per essere sicuro di governare il futuro. Il mito di Annibale, caro anche a Sigmund Freud, sta nel mito antiromano e antioccidentale anche perché Roma con lo slogan «delenda Carthago» ridusse letteralmente in polvere la capitale dei Fenici, come aveva fatto Alessandro a Persepoli. Il mito celtico, altro esempio, ha certamente ha le sue radici anche nella ferocia con cui Giulio Cesare sterminò un milione di galli e altrettanti ne rese schiavi. Distruggere il nemico è una costante della guerra ma accanto a quella dei missili e dei cannoni crescono le quotazioni della propaganda e dell'amnesia. Ha fatto banalmente scalpore il caso di non so quale Miss che in un'intervista televisiva non sapeva dove collocare Hitler nel tempo e nello spazio. Del resto le risposte dei giovani e meno giovani, quando interpellati dai media, sono in genere comiche e scandalose. Il vuoto della memoria si allarga e su quel vuoto cresce a cespuglio la propaganda. Il nuovo libro di Paolo Mieli L'arma della memoria ha un sottotitolo etico: Contro la reinvenzione del passato (Rizzoli, pagg. 427, euro 20). Leggerlo, procura un vacillamento e il risultato è di nuovo la non medicabile certezza illustrata da George Orwell: chi controlla il passato controlla il futuro. Mieli ci ha abituato alla cadenza piuttosto regolare dei suoi libri, in parte anticipati per capitoli sul Corriere della Sera, e delle sue trasmissioni televisive oneste, anticonformiste e di qualità. Questo lavoro da storico, e da giornalista, dovrebbe provocare curiosità e contrasti morali e politici. L'impressione però è che sia tardi: pochi vogliono sapere ciò che «realmente» accadde, mentre tutti vogliono sapere come usare politicamente la verità attraverso la reticenza, la manipolazione, l'omissione, le costruzioni abusive.

Quando vivevo a New York una ventina d'anni fa restavo stupìto dall'ingenuità disarmante delle domande della gente sul fascismo, che nella damnatio memoriae nessuno distingueva dal nazionalsocialismo hitleriano. Dunque mi incuriosì molto il successo di un saggio di Jonah Goldberg intitolato Liberal Fascism (più o meno: fascismo di sinistra) in cui si spiegava agli americani la genesi di un movimento nato dall'estremismo rosso del giovane Mussolini amato da Lenin e che aveva influenzato nel bene e nel male la politica occidentale «degli ultimi settantacinque anni e anche il momento presente» come ha scritto Tom Wolfe. Ed ecco che ritrovo oggi in L'arma della memoria di Mieli molti dettagli poco noti, omessi o sottovalutati che formano connessioni importanti ad esempio sui rapporti duraturi e speciali tra il presidente americano Franklin Delano Roosevelt e il duce fascista, che ricordano l'amicizia fra l'illuminista napoletano Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin, padre fondatore americano (e inventore del parafulmine) come ricostruita da Lucio Villari in America amara, storie e miti a stelle e strisce. Giudizi e pregiudizi producono o riducono illusioni e leggendo Mieli si ha un'impressione simile a quella di coloro che dopo aver speso anni per rimuovere croste di cera, fumo e restauri truffaldini alle opere d'arte sono stati aggrediti come revisionisti, distruttori di miti oscuri (il fumo delle candele) per scoprire che Michelangelo nella Cappella Sistina usava gli stessi colori dei cartoni animati di Walt Disney. Cosa questa che ricorda la celebre battuta che Charles Schulz, il creatore di Charlie Brown, presta al suo personaggio Pigpen, il più sudicio bambino del mondo, che rifiuta di lavarsi dicendo: «Chi sono io per togliere la polvere dei secoli?». La storia, come percezione attendibile del passato, sembra ancora nelle mani sporche di Pigpen in attesa di storici non conformisti, pazienti e per questo spesso micidiali.

Quel manipolo di "rossi" che soffoca Wikipedia. Chi propone voci storiche contrarie alla vulgata di sinistra è sbattuto fuori senza troppe cerimonie: alla faccia della conclamata neutralità, scrive Luca Gallesi su “Il Giornale”. Catalogare il mondo e metterlo a disposizione dell'umanità, ecco il sogno che Diderot e gli Illuministi volevano realizzare con l'Encyclopédie, un progetto che avrebbe messo in seria discussione il sapere e le autorità tradizionali. Quasi tre secoli dopo, sono le Enciclopedie a capitolare di fronte ad una nuova sfida, altrettanto ambiziosa e ancora più rivoluzionaria, che affida la catalogazione e la diffusione della conoscenza non più a una ristretta élite di dotti intellettuali, ma a una vasta massa di volonterosi dilettanti. Stiamo ovviamente parlando di Wikipedia, l'enciclopedia virtuale in cui si è imbattuto chiunque abbia un minimo di familiarità con Internet. Più simile alla Biblioteca di Babele immaginata da Borges che alla Enciclopedia Treccani elaborata da Gentile, Wikipedia è una delle poche realtà efficienti e gratuite che da oltre un decennio sono un saldo punto di riferimento nel caotico mare magnum della Rete, che ha inghiottito corazzate che sembravano inaffondabili come Second Life o Myspace e progetti simili come l'enciclopedia multimediale della Microsoft Encarta o quella lanciata da Google chiamata Knol e totalmente dimenticata. Concepita nel 2001 da Jimmy Wales, un utopista smanettone appassionato di Ayn Rand, e da uno scettico dottorando in filosofia all'Università dell'Ohio, Larry Sanger, Wikipedia prende il nome da un termine hawaiano, wiki, che significa veloce; sin dall'inizio si offre come piattaforma di contenuti prodotti e curati da chiunque ne avesse accettato le regole fondamentali, conosciute come i Cinque Pilastri: niente ricerche originali, punto di vista neutrale, verificabilità delle fonti, e due comandamenti che riecheggiano quelli di Steve Jobs: be bold, ovvero «sii audace», e «ignora tutte le regole». In questo caso, la differenza sta nel fine, che non è, come per Apple, il profitto mascherato da raffinatezza, ma la catalogazione e la diffusione di tutto lo scibile umano senza scopo di lucro. Il successo è immediato, e supera ogni rosea previsione: aperta a tutti e con la neutralità dell'informazione come requisito fondante, Wikipedia si diffonde a macchia d'olio, diventando la prima enciclopedia al mondo per mole di informazioni e lettori, mentre progetti di ben altre ambizioni e solidità innalzano bandiera bianca, come l'Encyclopedia Britannica, che nel 2012 ha rinunciato alla versione cartacea, o la nostra Treccani, che ha addirittura abdicato al suo ruolo guida, rimandando i suoi lettori online ad alcune voci di Wikipedia. Oggi, la libera enciclopedia del web è pubblicata in 285 lingue, comprese quelle morte come il latino, o artificiali come l'esperanto e il klingoniano, noto solo agli aficionados di Star Trek. La sola versione in lingua inglese, se stampata, oggi occuperebbe 2000 volumi come quelli di un'enciclopedia classica, con un indice superiore ai quattro milioni di voci, quasi tutte attendibili, grazie al lavoro costante dei collaboratori e degli amministratori, volontari eletti dalla comunità e preposti al controllo delle singole voci. Alla storia di questo progetto è dedicato un brillante saggio: Wikipedia, di Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci, edito da Bietti (pagg. 394, euro 16). Oltre a descrivere accuratamente la storia di Wikipedia, il libro getta qualche ombra sugli amministratori della versione in italiano, che, invece di essere gelosi custodi della neutralità del sapere, sono zelanti vestali del politicamente corretto. Come ha provato sulla propria pelle uno degli autori, chi non si conforma alla vulgata resistenziale, anche se è un ricercatore laborioso e affidabile, viene inesorabilmente espulso dalla comunità dei collaboratori italiani. Un piccolo ma agguerrito manipolo di amministratori fa catenaccio contro le forze oscure della reazione in agguato, vigilando contro la pubblicazione di versioni che possano anche lontanamente mettere in dubbio l'egemonia culturale della sinistra, vedi le voci sull'Attentato di via Rasella (derubricato a Fatti di via Rasella), per non parlare della Guerra civile in Italia 1943-45, realtà inconcepibile per chi conosce soltanto la gloriosa ribellione del popolo italiano contro la sanguinaria tirannide. I gendarmi della memoria agiscono come la psicopolizia descritta da Orwell in 1984, impegnata a riscrivere la storia; ma i nostalgici degli Anni Settanta, che, per fortuna, sopravvivono quasi solo su Internet, non sono gli unici colpevoli, dato che sarebbe facile impegnarsi a contrastarli con successo, come dimostrano i due autori. Purtroppo, anche in Rete, come sui grandi giornali e nelle televisioni nazionali, la cultura, se non è allineata, non interessa quasi a nessuno: è talmente noiosa.

Come taroccare una voce di Wikipedia. Uno degli amministratori italiani racconta come aggirare le regole dell’opera collettiva più influente del pianeta Minare la credibilità dei lemmi sgraditi e pilotare il voto democratico che decide i contenuti? Si può fare così...continua Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Wikipedia è l’enciclopedia più utilizzata al mondo (60 milioni di accessi al giorno al sito). Multilingue, on line e gratuita è nata il 15 gennaio 2001. Si basa sul principio che il contenuto, libero, è generato sul web dagli utenti stessi. Jimmy Wales, uno dei fondatori, la descrive «come uno sforzo per creare e distribuire un’enciclopedia libera della più alta qualità possibile ad ogni singola persona sul pianeta nella sua propria lingua». Grazie a Internet. I colossi di carta, già in difficoltà, sono andati in tilt. Semplicemente non c’è competizione: qui non si spende un centesimo ed è tutto a portata di clic. La versione italiana accoglie oltre 670 mila voci, quella in lingua inglese raggiunge i 3 milioni. Le gerarchie sono ridotte al minimo, per non dire inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La certezza che, nonostante tutto, ciò non arrechi danno all’accuratezza dell’insieme poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma automaticamente in qualità. Molto si è discusso di questi e altri aspetti per così dire «ideologici». Meno noti invece sono i meccanismi che regolano il funzionamento di Wikipedia. Ancora meno note sono le persone che oliano l’ingranaggio e mantengono operativa la macchina. Qualche notizia preliminare. Come abbiamo detto, chiunque può scrivere una voce di Wikipedia. Il contributo deve rispettare alcune caratteristiche, che vanno dalla neutralità al corredo di una documentazione sufficiente ad attestarne la credibilità, se non la veridicità. Una voce ritenuta insufficiente per qualsivoglia motivo può essere proposta per la cancellazione. Se nessuno protesta, dopo sette giorni, la voce scompare. Altrimenti segue dibattito in rete, al termine del quale si vota. Il quorum è di almeno 10 partecipanti. Per procedere all’eliminazione, è necessario il parere favorevole di almeno due terzi dei partecipanti. Come vedremo, centrale è la figura dell’amministratore al quale tocca il compito di «sorvegliare» le voci, segnalare lacune, dirimere le questioni. Per diventare amministratore non è richiesto alcun requisito particolare. È necessario solo candidarsi ed essere votati dagli utenti (il quorum è variabile e dipende dal numero dei votanti alle precedenti elezioni, la maggioranza richiesta per farcela è di 4/5). Un amministratore può decadere in due casi: se latita troppo a lungo oppure se gli utenti lo ritengono inadattato alla funzione e lo «abbattono» con la solita votazione. La versione italiana dell’enciclopedia dispone di 102 amministratori. Solo sei sono donne. La maggioranza ha tra i 18 e i 35 anni circa, benché ci siano alcuni ultracinquantenni. (Amministratori a parte, il decano di Wikipedia.it ha 87 anni, si chiama Antonio Angelo Caria e ha raccontato la guerra nelle pagine dell’enciclopedia: wikipedia.org/wiki/utente:Caria Antonio Angelo/Racconti). Sembra il paradiso della democrazia ma è davvero così? L’enciclopedia è imparziale? È possibile taroccare una voce? Le votazioni sono trasparenti? Le «sentenze» di vita o di morte si possono influenzare? Ci dà una mano a rispondere uno degli amministratori italiani, dal quale siamo stati contattati e del quale rispettiamo la richiesta di rimanere anonimo. Lo chiameremo, per comodità, «Admin». Il primo punto, nonostante le apparenze, è forse il meno interessante. No, l’enciclopedia non è imparziale. Ma quale opera dell’ingegno (individuale o collettivo) è realmente imparziale? Forse nessuna. Per rendersene conto basta fare una rapidissima verifica su voci politicamente sensibili ma non troppo legate all’attualità e quindi non frequentatissime. Difficile «sbarellare» nella voce dedicata a Silvio Berlusconi, presumibilmente molto letta e quindi sottoposta a continua verifica. Facile invece «sbarellare» nelle voci riservate, ad esempio, al liberalismo, al libero mercato, al neoliberismo, a economisti come Milton Friedman e così via. Qui emerge subito, neanche troppo camuffata, l’avversione al capitalismo così radicata nel nostro Paese. Comunismo e dintorni godono di un altro trattamento. «Se si dà un’occhiata ai profili degli amministratori in carica - spiega Admin - si noterà una seria maggioranza di sinistra con molte punte di “laicità” che sfocia spesso e volentieri nell’anticlericalismo». E ancora: «Quando venne eletto un candidato dichiaratamente cattolico, ci fu una pioggia di osservazioni sulla sua fede. Non è l’unico esempio di candidato rifiutato perché cattolico». In un caso la motivazione del voto negativo era questa: «Dichiara (il candidato, ndr) nella pagina utente di adorare uno Stato straniero che io invece respingo come nemico e invasore». Lo Stato nemico, ovviamente, è il Vaticano. «Notare che l’autore di questo commento è una delle figure di punta dell’UAAR (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, ndr), attivo in Wikipedia nella propaganda dell’anticlericalismo. L’UAAR per lungo tempo ha avuto molti utenti naturalmente impegnati a estirpare voci cattoliche o a modificare in senso anticlericale voci storiche sulla Chiesa». Forse è troppo dire che l’enciclopedia è schierata a sinistra: «La maggior parte degli utenti registrati è di sinistra ma per fortuna la nascita di quella porcata nota come ita.anarchopedia.org ha tolto un sacco di gente di torno. Pochi sono gli utenti palesemente schierati con Berlusconi o con il centrodestra, e purtroppo spesso sono dei perfetti imbecilli, talvolta buttati fuori perché utilizzatori di tecniche degne del peggior “troll”». Per i non addetti ai lavori: il “troll” nelle comunità digitali è un tizio che interviene a sproposito e con insulti. Il suo scopo è fomentare l’inimicizia e alla lunga rendere infrequentabile un sito. Al di là di questo, dice Admin, «il problema è che per ottenere di inserire o togliere un pezzo controverso all’interno di una voce, serve il consenso. Ed essendo molti utenti di sinistra, domina una certa vulgata». Comunque l’argomento di maggior dibattito sembra essere un altro: «Essendo italiani, gran parte delle discussioni verte sul calcio. Alcuni utenti insistono a inserire i curricula di calciatori che hanno giocato anche solo cinque minuti di Serie A. In politica credo sia inutile fare un elenco. Ai tempi degli insulti della Guzzanti si è aperta la sagra dell’aggiungere/togliere i riferimenti a Mara Carfagna. Più di recente si è discusso molto del caso Marrazzo. La voce su Noemi Letizia è stata cancellata ma i dipietristi di wiki hanno ottenuto che le discussioni sul caso rimanessero registrate. La religione è un altro argomento scottante, anzi il cattolicesimo dal momento che delle altre religioni pochissimi si occupano. Sempre calda la voce su Pio XII e l’Olocausto». Nessuno come s’è detto ha un reale potere di veto o di censura. «Ufficialmente no, o almeno non è codificato da alcuna parte. In teoria funziona così: se uno trova una voce che non funziona può apporre delle stringhe di testo che spiegano la natura del problema. Ad esempio: non si capisce dove stia l’enciclopedicità; va aiutata, voce troppo smilza e quasi incomprensibile; va controllata, dati o altro non tornano; non ci sono fonti di supporto a quanto scritto. Poi c’è questa stringa: è di parte e quindi va riequilibrata. E qui iniziano i guai. Trovo molto divertente la stringa che introduce la voce “persecuzione dell’omosessualità in URSS”. Si legge: “La voce contiene una serie di informazioni sulla persecuzione degli omosessuali in URSS senza avere nemmeno una fonte a sostegno dei concetti espressi; inoltre i comunisti vengono mostrati come crudeli omofobi”. Poveri cari, questi comunisti. Ma se si va a vedere la pagina utente di chi ha messo la stringa che mina la credibilità della voce, si scopre che si dichiara ateo, anticlericale e... comunista». Già ma poi la democraticità della votazione ripara ogni torto e riporta l’equilibrio... «Le regole sono facilmente aggirabili. Non si può fare “campagna elettorale”, nessuno può andare a chiedere a un altro utente di aiutarlo a salvare o bocciare una voce. È espressamente vietato. Peccato esistano le mail, i blog, i forum, le chat. Di fatto alterare quorum e consenso è facilissimo. Compito dell’amministratore è cassare i voti ottenuti in questo modo. Il problema è chiaro: se i membri dell’UAAR, o viceversa i cattolici, si mobilitassero e facessero gruppo per eliminare le voci che non piacciono loro, addio equilibrio ed enciclopedicità. Qualche tempo fa si aprì la votazione per cancellare la voce No Berlusconi Day, sbilanciata e affetta da “recentismo”, cioè troppo schiacciata sull’attualità per essere enciclopedica. Grazie al tam tam via Facebook ci fu un’impennata di votanti, tutti sfavorevoli alla cancellazione. Alcuni tornavano su Wikipedia dopo mesi di assenza. Altri si registrarono appositamente (e i loro voti furono cassati)». Complessivamente, dal quadro disegnato da Admin appare chiaro che la verità storica non si può decidere per alzata di mano. Wikipedia non si divide per comunità nazionali ma linguistiche. «A Wikipedia.it collaborano anche vari utenti svizzeri del Canton Ticino. Uno dei problemi di Wikipedia.es, quella di lingua spagnola, è che gli utenti vivono su sponde diverse dell’Atlantico, si esprimono in modo diverso e hanno mentalità diverse. Nessuno gestisce ufficialmente i rapporti tra le varie comunità, che spesso seguono principi diversi: quella di lingua inglese è di manica larga e accetta voci di ogni tipo, per questo ne ha tre milioni, quella di lingua tedesca è rigorosa. Esistono però le varie Wikimedia, associazioni no profit che hanno il compito di promuovere la cultura libera e i progetti gestiti dalla Wikimedia Foundation. Progetti sui quali non hanno alcun controllo. Wikimedia è divisa su base nazionale. Comunque non esistono vertici né assoluti né relativi». L’ultima curiosità: qualcuno guadagna attraverso Wikimedia o Wikipedia? «Ufficialmente non è possibile. Ci sono pettegolezzi relativi alla organizzazione di alcuni eventi o convegni ma sono chiacchiere non documentate. Il bilancio delle varie Wikimedia comunque è pubblicato in rete. Nel caso della Wikipedia vera e propria, credo sia difficilissimo guadagnare qualcosa, e non ne ho mai avuto notizia».

L’egemonia culturale della Sinistra, scrive Luciano Atticciati. Il nostro Paese è vissuto per decenni sotto la cosiddetta egemonia culturale della Sinistra, una specie di lunghissimo dopoguerra che ha portato gli uomini di cultura ad assumere posizioni e atteggiamenti anomali e forzati per dimostrare la validità di certe questioni decisamente insostenibili. Per costoro il fascismo era stato molto peggiore del comunismo, nonostante che tutto facesse pensare che il regime totalitario creato da Mussolini non fosse così coercitivo come quello dell’Unione Sovietica o della Cina Popolare, i crimini contro l’umanità commessi dai regimi comunisti erano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, le atrocità commesse dagli Jugoslavi verso il nostro popolo erano decisamente un argomento tabù, così come l’idea che gli uomini della Resistenza avessero commesso degli eccessi. Ovviamente per costoro la classe borghese costituiva qualcosa di spregevole, e aveva gestito il nostro Paese nel peggiore dei modi, il futuro apparteneva ad altre ideologie che avrebbero stabilito un mondo nuovo, decisamente superiore al presente o al recente passato ritenuto di scarso valore. L’egemonia culturale della Sinistra aveva naturalmente il sostegno degli intellettuali, ma trovava un altrettanto forte sostegno nelle istituzioni, che nei loro proclami ricordavano costantemente le nefandezze della Destra. Sebbene il partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana esercitasse il suo potere di governo, nel campo culturale brillava per la sua assenza, o peggio per il suo stato di sudditanza nei confronti dell’agguerrita opposizione comunista. A rileggere oggi certi discorsi c’è da rimanere inorriditi, ma a quei tempi tutto era permesso, e nessuno poteva opporsi ai profeti del mondo migliore. I dibattiti culturali sui mass-media avvenivano rigorosamente fra esponenti di Sinistra, le librerie ospitavano solo libri di Sinistra, le poche voci dissonanti venivano messe a tacere con giudizi pesanti. Due casi sono degni di nota, quello di Montanelli, isolato come un infetto di un terribile morbo, e Renzo De Felice, lo storico che aveva azzardato a parlare del fascismo come fenomeno dei ceti medi e teso alla mobilitazione delle masse. I suoi denigratori coniarono addirittura un termine estremamente infelice per indicare le sue posizioni, «revisionista». I revisionisti erano in precedenza definiti i comunisti non allineati, considerati eretici dai marxisti ortodossi. Gli attacchi contro uno dei maggiori storici italiani da parte di intellettuali e politici furono estremamente pesanti. L’antifascismo dominante non permetteva che si potesse esprimere il minimo giudizio anche vagamente non accusatorio nei confronti di quel regime. Il mondo comunista aveva soppresso qualsiasi forma di libertà e aveva sottratto ai ceti operai di cui si considerava formalmente protettore, gran parte dei loro diritti. Non ci voleva molto a comprendere che il blocco dei Paesi comunisti produceva una eccezionale quantità di armamenti ma teneva la popolazione ad un livello di vita da Terzo Mondo. Nonostante ciò giovani entusiasti ed intellettuali proclamavano che la gente sotto quei regimi disponeva di un benessere, forse diverso dal nostro, ma comunque di una situazione felice. Fino al 1956, cioè fino a quando Kruscev non rivelò i crimini commessi da Stalin, gran parte della cultura marxista proclamava che i gulag non esistevano (vedi anche il caso Kravcenko), che erano una semplice invenzione della propaganda capitalista. Nel periodo successivo si parlò allora di «contraddizioni del mondo comunista», come dire che il terrore di massa era un semplice accidente storico, un limitato e inevitabile male che non pregiudicava la grandezza di quei regimi. Tutto il mondo doveva comunque essere grato all’Unione Sovietica per aver sconfitto, a prezzo di enormi sacrifici, il nazismo, ovviamente si taceva sul «Patto Molotov-Ribbentrop», sulla duplice aggressione alla Polonia, e sull’eccidio di Katyn. Negli anni Cinquanta sorse infine un ambiguo movimento pacifista, i Partigiani della Pace, che nonostante tutte le guerre e le minacce che provenivano dall’Unione Sovietica riteneva il pacifismo coniugabile con il comunismo. Anche personaggi di spicco del mondo europeo ne fecero parte. Non molto tempo dopo si scoprirono i legami dei vertici dell’organizzazione con il blocco sovietico. Uno spazio particolare nella cultura degli anni Sessanta fu dato alla questione Vietnam, vittima non si sa su quali basi di un’aggressione americana. La principale battaglia combattuta in quell’infelice Paese, avvenne nel ’68 a Khe San fra unità regolari nord-vietnamite che erano penetrate nel territorio sud-vietnamita e avevano circondato una base americana, eppure la Sinistra continuava a ripetere che principali protagonisti di quel conflitto erano i Vietcong, cioè comunisti locali insofferenti al regime alleato dell’odiato Paese capitalista. Analogamente si taceva sul fatto che fosse stato Kennedy, uomo della Sinistra, ad iniziare l’impegno americano a difesa del governo sud-vietnamita. Quando dopo il 1975 si scoprì la durezza e la crudeltà del comportamento dei regimi comunisti di quell’area geografica, la questione venne messa presto a tacere. Nello stesso periodo molti vedevano nel comunismo cinese, una forma di autentico comunismo «popolare» contrapposto a quello «burocratico» sovietico. I milioni di morti che avevano accompagnato quella triste rivoluzione, ammesso che potesse avere senso parlare di rivoluzione parlando del regime cinese, costituivano un normale inconveniente tipico di qualsiasi fenomeno storico. Le due questioni si inquadravano all’interno della cosiddetta guerra fredda. Le origini della guerra fredda apparivano decisamente confuse, forse era stato il discorso sulla «cortina di ferro» di Churchill (1946) a scatenarla, o forse «l’accerchiamento capitalista», anche se il mondo comunista appariva un po’ troppo vasto per essere considerato accerchiato. L’umanità si trovava a vivere una guerra in cui era scivolata senza sapere nemmeno il motivo, e il muro di Berlino suo simbolo, era sorto a causa di «reciproche incomprensioni», non dall’attività deliberata di un regime totalitario. Coronamento di tali discorsi era naturalmente l’antiamericanismo, il governo degli Stati Uniti controllava non si sa come, né in che modo le nostre scelte politiche. Se le Sinistre non riuscivano a conquistare il potere nel nostro Paese, ciò era dovuto non al fatto che i ceti medi preferissero altre forme di governo, e che una parte della stessa Sinistra, socialdemocratici e repubblicani avessero scelto il sistema di valori occidentale, ma a invisibili condizionamenti operati nelle forme più incomprensibili. Forse non ci voleva molto a comprendere le assurdità e le palesi falsità di quella cultura, bastava leggere le opere di uno storico come Luigi Salvatorelli sul Novecento, o quelle di Gaetano Salvemini che aveva messo in luce come nell’affermarsi del fascismo avessero pesato le violenze scatenate nel ’19 dall’estrema Sinistra. Anche gli storici fecero la loro parte di confusioni, molti storici di area comunista limitavano lo studio della storia all’esposizione di enunciazioni programmatiche, senza mai arrivare ai comportamenti reali dei governi e delle forze politiche. Un testo ritenuto importante di Enzo Collotti sulla storia della Germania (1968) considerava irrilevante l’assorbimento forzato del partito socialista da parte di quello comunista nella DDR, i Tedeschi sostanzialmente avevano accolto liberamente quel tipo di regime. Lo storico comunista forse più autorevole, Gastone Manacorda, ammetteva esplicitamente le esigenze della politica nello studio storiografico. Sembrava che il mondo dovesse vivere a tempo indeterminato in quella forma di forzatura mentale, ma la storia («l’astuzia della ragione» avrebbe detto Hegel) alla fine operava. A metà degli anni Ottanta il comunismo implodeva non a causa di un attacco militare, o di un oscuro complotto, ma per l’azione di quei popoli che lo vivevano. Il mondo di bugie aveva una falla, e da qui al crollo il passo non era lontano. Alla fine anche gli uomini di cultura di Sinistra più avveduti (tra i quali Giampaolo Pansa) hanno dovuto ammetterlo, i teoremi non stavano in piedi, erano costruzioni fondate sul nulla. Oggi la storiografia marxista è quasi inesistente, solo irriducibili dogmatici ci vengono a proporre le loro tesi un po’ trite, uno di questi è Toni Negri, convinto che il nemico capitalista trami nell’oscurità, alla stessa maniera con cui i nazisti si convincevano dell’esistenza del complotto giudaico-massonico. Dietrologi e complottisti sparano ancora le loro ultime cartucce, e se i fatti storici smentiscono tesi gloriose, per costoro si può ricorrere sempre a fatti non dimostrati né dimostrabili. Se il mondo della cultura oggi ha messo da parte la cappa soffocante dell’egemonia culturale della Sinistra, tuttavia in quella parte della società più portata a credere acriticamente nei grandi illuminati che nelle proprie capacità di discernimento, ancora continua a resistere un modo di pensare decisamente impossibile da comprendere. Le persone che in un certo senso desiderano ingannarsi non sono assolutamente scomparse.

Non se ne può più dell’egemonia culturale della sinistra, ma Berlusconi in 20 anni cos’ha fatto?, Scrive Mattia Feltri su “Tempi”. La superiorità antropologica della sinistra, rappresentata dalla Repubblica delle Idee, ci ha stufato ma la destra non è riuscita ad offrire un’alternativa. Con una spettacolare doppietta, giorni fa il Foglio di Giuliano Ferrara ha introdotto la questione. Da principio Andrea Marcenaro, nella sua rubrica quotidiana, immaginando quella catasta d’intelligenza riunita a Firenze dalla Repubblica delle Idee – naturalmente con la “i” maiuscola – e diciamo Alessandro Baricco, Umberto Eco, Roberto Saviano, Gustavo Zagrebelsky eccetera, eccetera, col formidabile peso della cultura non meno che enciclopedica: tutti a convegno per dire “Berlusconi merda”. Due mattine dopo, nella pagina della posta, il direttore spendeva una trentina di righe nell’esprimere il fastidio e la noia mortale per la dottrina dell’ovvio, del bello e del buono, incontrovertibile come l’espressione “la mafia è cattiva”, un piccolo manicheismo calzante a tutte le taglie, un bell’alibi per dirsi l’Italia migliore, e però – concludeva Ferrara – questa è la Repubblica delle Idee «ma se cominciassimo a imparare qualcosa, da come si sta a tavola a come si legge un buon libro, quello no?». Qui ognuno deve fare i conti con la libreria che ha in casa e le macchie di sugo che ha sulla camicia, ma se si pensa a una colpa collettiva, quella ascrivibile alla destra italiana – a qualsiasi destra imposta dal bipolarismo, post-missina, socialista anticomunista, liberale, democristiana, puramente reduce del pentapartito o leghista – è una colpa totale e senza perdono. Si sono spesi vent’anni, quelli trascorsi dall’appoggio di Silvio Berlusconi alla candidatura di Gianfranco Fini per il Campidoglio (autunno 1993), a contrastare colpo su colpo la cultura progressista nei suoi numerosi ed eterogenei sacerdoti, da Alberto Asor Rosa a Roberto Benigni, da Paolo Flores d’Arcais a Corrado Guzzanti, da Barbara Spinelli a Nanni Moretti. L’Italia descritta dall’utopismo pop di Walter Veltroni o dal moralismo univoco di Michele Santoro, dal femminismo saccente di Natalia Aspesi o dal giustizialismo rancoroso di Marco Travaglio, è l’Italia che sulla pelle di destra faceva spuntare foruncoli. C’era e c’è un’allergia esibita per la superiorità antropologica che la sinistra si è autoattribuita e per la quale si concede un vitalizio di autoassoluzione. Bene, tutto questo è normale, è condivisibile. Orrore per il manicheismo, per l’antipolitica consolatoria, per la mitologia della società civile, per il pacifismo ipocrita, per l’antifascismo eterno e bolso che marchia di filofascimo chiunque non lo abbracci, per il totem della Costituzione, per il puritanesimo febbrile. Orrore per la classificazione sprezzante dell’avversario, che deve giusto scegliersi la casella: mafioso? Tangentaro? Stragista? Razzista? Servo? Ladro? Però. Qualcosa oltre l’antitesi? Però, oltre all’antitesi, la destra che cosa ha proposto? Oltre all’antitesi automatica, immediata, di istintivo riflesso, qual è l’Italia alternativa che si è immaginato e si è cercato di costruire? Berlusconi, i suoi ormai dispersi alleati, i suoi precari luogotenenti, le sue televisioni, le sue case editrici, quale tipo di paese hanno delineato in questi vent’anni? E, evitiamo equivoci, non si sta dicendo il progetto di Italia anche abbastanza preciso venuto fuori da settanta o ottantamila comizi. Quell’Italia lì, di cui Berlusconi parlò da Arcore con la calza sulla telecamera, quella della meritocrazia, della sana competizione, dello Stato leggero, antiburocratica, del riequilibrio dei poteri incrinato da Mani pulite, della riduzione fiscale, anticorporativa, federalista, ecco, quell’Italia è rimasta nelle promesse e nei sogni. Morì nel medesimo istante in cui, vinte le elezioni del 1994, al ministero dell’Economia andò Giulio Tremonti, prelevato dal Patto Segni, e non il liberale Antonio Martino parcheggiato agli Esteri. Traduzione: morì di parto. Si sta dicendo, in venti anni di cui la metà trascorsi al governo del paese, quale altra Italia è venuta fuori? In che cosa è cambiata? Nel conflitto permanente col centrosinistra, il centrodestra quale visione ha opposto, fuori dal recinto del palco? Quale è l’assetto istituzionale a cui si è lavorato per rendere il paese aggiornato alla Seconda repubblica, all’Europa, alla velocità d’esecuzione imposta ai governi? Come sono cambiati i rapporti di forza fra esecutivo e legislativo? E Berlusconi, affranto dalla macchinosità con cui si arriva all’approvazione delle leggi, infine annacquate, quali contromisure ha studiato per accelerare e affilare la pratica? Se la soluzione impercorribile è ottenere il 51 per cento nelle urne, quale disegno diverso ha tratteggiato? Come è stata rimodellata la Costituzione per esempio davanti alla mutata legge elettorale, col referendum per il maggioritario del 1993, e alla mutata prassi? È entrata nella Carta quella correzione minima secondo cui il premier, come è stato di fatto, viene eletto direttamente dal popolo e, caduto lui, si torna a votare? Quale struttura economica si è fatta avanti? Non certo la rivoluzione, ma il riformismo liberale come si è concretizzato? Come si sono combattute le corporazioni? Come si sono affrontati i privilegi di casta? Come si sono liberalizzate le professioni? Come si sono snellite le procedure ministeriali, quelle del credito, quelle della tassazione? Come si è allentata la pressione fiscale? In quale modo si è pensato, se non di contrastare ferocemente l’evasione fiscale, di riconquistare gli evasori alla causa della contribuzione? Come si è ripensata la pubblica amministrazione nel suo complesso, compresa la riduzione dello sterminato personale e l’aumento della produttività? Quali sono stati i provvedimenti strutturali di sostegno all’impresa tanta cara al leader dei conservatori? Come si è inciso sul cuneo fiscale? Come si è agevolato l’export? Che cosa si aveva in testa e come lo si è tradotto nei fatti? Potere politico e giudiziario. Come si è messo mano alla giustizia? Dopo la notte in cui la Costituzione venne modificata con la cancellazione dell’immunità parlamentare, che cosa si è fatto per irrobustire il potere politico indebolito davanti al potere giudiziario? È arrivata la separazione delle carriere? È stato equiparato il ruolo del magistrato dell’accusa e quello dell’avvocato della difesa? Dopo i problemi emersi con Mani pulite, la questione della carcerazione preventiva come è stata affrontata? E quella dell’affollamento delle carceri? L’inappellabilità per i pm? Qual è stato il sistema di giustizia a cui si è lavorato per offrire una proposta più appetibile di quella propagata da Antonio Di Pietro, Giancarlo Caselli, il Fatto quotidiano? Quali studiosi hanno delineato un sistema che andasse oltre le decine di leggi ad personam buttate lì ogni volta che un processo ad personam intentato al sire di Arcore necessitasse di una contromisura? Oggi, rispetto al 1993 e al 1994, su quali ipotesi stiamo ragionando? Qual è la Rai voluta dal centrodestra? Qual è la tv pubblica che Berlusconi intende offrirci? Deve avere ancora tre reti? Deve avere ancora reti di riferimento di un partito o di quell’altro, in base a chi sta al comando e chi all’opposizione? Deve continuare a essere lo specchio di Mediaset – e viceversa – con una rete finto paludata (Rai1 e Canale 5), una rete finto giovane (Rai2 e Italia1), una rete di vera militanza (Rai3 e Retequattro)? Come si è pensato di elevare il concetto di servizio pubblico? Che tipo di palinsesti si ritiene di promuovere per uscire dalla retorica tanto detestata? Che cosa dovrebbe raccontare la Rai per superare gli schemi così esecrati del talk show alla Giovanni Floris e dell’intrattenimento alla Dario Vergassola? Se davvero quello è l’orrore, la cultura dirimpettaia di centrodestra quali giornalisti o comici ha individuato? Chi si è incaricato di raccontare il mondo da un altro punto di vista, e non in forma belligerante, ma dialettica? Quale mondo della cultura è nato in vent’anni attorno all’esperienza politica di Berlusconi? Il Sanremo di Tony Renis? Le canzoni di Van de Sfroos? Le fiction di Renzo Martinelli? Come si sono aiutati i registi che intendevano emergere senza sposare una causa ideologica o di schieramento? E i giovani musicisti? Come si è pensato di liberare energie creative per evitare che restassero prigioniere dell’industria della propaganda di sinistra? Come si è adeguata la politica editoriale? Si sono organizzati festival o premi aperti alle voci non scontate? In sintesi, quali rimedi sono stati adottati all’egemonia culturale di sinistra, che non fosse una reiterata e sguaiata denuncia, o qualche vaga contrapposizione muscolare e dunque sterile? Il modello eccellente della sanità lombarda, come è stato portato nel resto d’Italia? Quale studio ha ricondotto il welfare fuori dall’assistenzialismo? Quale modello di città si è fatto avanti? Quale architettura? Quale urbanistica? Quale politica energetica? Quale tipo di scuola (a parte gli sforzi di Mariastella Gelmini)? Come sono stati introdotti inglese e informatica alle elementari? Come si è affrontato il baronaggio nelle università? E come l’università di destra si è messa alle calcagna dell’università anglosassone? Quale politologia si è sviluppata? Quale storiografia? Quale informazione? Insomma, l’Italia che usciva dal pantano finale della Prima repubblica, e che era l’Italia diversa da quella difesa dai postcomunisti e dai loro alleati, che Italia era? E che Italia è? Dov’è?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un'enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell'ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande, o i suoi 40 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana.

Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande ed inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, proprio perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

Ma tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi.

Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia.

La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile».

Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI. Tutto in famiglia. Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” ha titolato così il suo pezzo: La grande famiglia dei dipendenti SIAE, 4 su 10 legati da parentela. Per far sentire i propri dipendenti come in famiglia la Siae non ha rivali: pensa anche al bucato. Chi va in missione può far lavare e stirare camicie e mutande a spese dell'azienda. Dieci euro e 91 centesimi vale la speciale «indennità lavanderia» quotidiana che scatta in busta paga dopo il quarto giorno passato fuori sede. Quanti lo ritengono un privilegio anacronistico non sanno che la Società degli autori ed editori è anche tecnicamente un gruppo familiare. Al 42 per cento. Nel senso che ben 527 dei 1.257 assunti a tempo indeterminato (il 42 per cento del totale, appunto) vantano legami di famiglia o di conoscenza. Ci sono figli, nipoti, mariti e mogli di dipendenti ed ex dipendenti. Ma anche congiunti di mandatari (cioè gli esattori dei diritti) di sindacalisti e perfino di soci. E poi rampolli di compositori e parolieri, perfino delle guardie incaricate della vigilanza nella sede centrale. La lista è sterminata, con intrecci che attraversano ogni categoria. Dei 559 entrati alla Siae durante gli anni per chiamata diretta, ben 268 sono parenti. Idem 57 dei 128 reclutati tramite il collocamento obbligatorio. E 55 dei 154 che hanno superato le selezioni speciali. Ma perfino 147 dei 416 assunti per concorso hanno rapporti di parentela. I nomi dicono poco o nulla. Ciò che importa è che in questo clan familiare gigantesco finora tutto sia filato liscio, senza bisogno di mettere nulla per iscritto. Ecco spiegato perché alla Siae non esiste nemmeno un contratto di lavoro vero e proprio. I rapporti fra l'azienda e i dipendenti, come hanno toccato con mano il commissario Gian Luigi Rondi, i suoi due vice Mario Stella Richter e Domenico Luca Scordino, nonché i loro collaboratori, sono regolati da micro accordi che hanno determinato condizioni senza alcun paragone in realtà aziendali di questo Paese. Cominciando dallo stipendio: 64 mila euro in media per i dipendenti e 158 mila per i dirigenti. Con un sistema di automatismi che fa lievitare le buste paga a ritmi biennali fra il 7,5 e l'8,5 per cento. Per non parlare della giungla dei benefit che prevede, oltre alla già citata indennità per il bucato, quella che in Siae viene chiamata in modo stravagante «indennità di penna». Altro non è che una somma mensile, da un minimo di 53 a un massimo di 159 euro, riconosciuta a tutto il personale per il passaggio dalla «penna» al computer. C'è poi il «premio di operosità», la gratifica per l'Epifania, tre giorni di franchigia per malattia senza obbligo di certificato medico, 36 giorni di ferie... Le conseguenze? Sono nelle cifre delle perdite operative accusate dalla Siae negli ultimi anni: 21,4 milioni nel 2006, 34,6 nel 2007, 20,1 nel 2008, 20,9 nel 2009, 27,2 nel 2010. Cifre cui dà il suo piccolo contributo anche il costo del contenzioso. Perché si litiga anche nelle migliori famiglie. Nonostante condizioni di favore che non hanno eguali nel panorama degli enti pubblici o parapubblici, negli ultimi cinque anni i dipendenti della Siae hanno attivato 189 cause di lavoro. Con un costo medio per l'azienda di un milione 469 mila euro l'anno. Insomma, un bagno di sangue. Del quale ancora non si vede la fine. I commissari hanno tagliato 2,8 milioni di spese generali e un milione e mezzo di costi della dirigenza, sperando poi di risparmiarne altri 3 rivedendo gli accordi con i mandatari: un groviglio di 605 agenzie disseminate irrazionalmente sul territorio con dimensioni medie ridicole, se si pensa che il ricavo medio di ciascuna è di 128 mila euro l'anno. Ma il vero problema è quello del personale, perché finora tutti tentativi di normalizzare la situazione applicando un qualsiasi contratto di lavoro sono miseramente naufragati nella melma di uno stato d'agitazione proclamato dai sindacati interni. La questione fa il paio con la vicenda del Fondo pensioni, istituito nel 1951, che deve provvedere al pagamento degli assegni di quiescenza del personale ed è una delle cause principali del dissesto che ha portato un anno fa al commissariamento. Ha un patrimonio interamente investito in immobili, con un valore di mercato di 205 milioni. Ma che non rende praticamente nulla. Tanto che finora, per riuscire a pagare le pensioni, la Siae ha dovuto mettere costantemente mano al portafoglio, aggravando non poco il proprio conto economico. Basta dire che il Fondo ha assorbito 130 milioni di contributi aziendali, con la previsione di ingoiarne altri 60 nei prossimi dieci anni. Nel tentativo di rimetterlo in sesto, e anche in conseguenza delle nuove regole sugli investimenti degli enti previdenziali, sono stati istituiti due fondi immobiliari. Il che ha scombinato i piani di vendita di alcuni stabili di proprietà della Siae a condizioni favorevolissime: minimo anticipo e dilazioni di pagamento quarantennali. Parliamo degli immobili a destinazione residenziale occupati fra l'altro dai dipendenti della Società degli autori ed editori. Che hanno una caratteristica comune: su 37 affittuari, 34 sono sindacalisti. Fra di loro figura anche il contabile dello stesso Fondo pensioni. Si tratta di Roberto Belli, responsabile della Slc-Cgil nonché fratello di una dipendente attualmente in servizio e di una ex dipendente Siae (rispettivamente Antonella e Patrizia Belli), destinatario di una recentissima e sorprendente contestazione disciplinare. Il 13 giugno la direzione generale gli ha spedito una lettera dove si dice che una verifica condotta dalla Ria&partners, la società di revisione del bilancio del Fondo, ha fatto saltare fuori alcuni bonifici per un totale di 30 mila euro che insieme ad alcuni assegni e versamenti, c'è scritto, «non risultano autorizzati e non trovano riscontro nelle registrazioni contabili». Denaro, dicono i documenti bancari, trasferito dal conto Bancoposta del Fondo stesso ai conti correnti bancari personali di Belli e della sua compagna. Inevitabile, adesso, la richiesta di spiegazioni convincenti.

Un sito web di promozione turistica dell’Italia.

Serve un sito internet all’altezza dell’Italia, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Antonio Giangrande: il sito web c’è www.telewebitalia.eu , oltretutto senza oneri per lo Stato, ma tutti lo ignorano.

Secondo il giornalista del Corriere cinque mesi abbondanti non sono bastati alla squadra del ministro del Turismo, Piero Gnudi, per rimuovere certe macerie del sito «italia.it», il portale da tempo immemorabile messo in cantiere prima dal governo Berlusconi, poi dal governo Prodi (memorabile lo spot in english-romanesco di Francesco Rutelli di invito agli stranieri: «Pliz, vizit Italy»), poi ancora dal nuovo governo Berlusconi e da Michela Vittoria Brambilla. La quale, dopo avere cambiato il logo scelto dal predecessore perché le pareva un errore la forma della «t» di Italia (titolo del Giornale : «La Brambilla cancella il "cetriolo" di Rutelli») aveva portato a compimento il faticosissimo cammino del sito web, costato ai vari governi nel complesso l'enormità di 35.451.355 euro, con alcune scelte contestate. Basti ricordare la home page della versione cinese dove spiccavano le foto prese col copia-incolla dal sito cinese dell'Emilia Romagna con il risultato che pareva che non solo la capitale fosse Bologna (con tanto di mappa con le freccette e di panoramica della città) ma che l'intero nostro Paese fosse riassumibile così: parmigiano, prosciutto, Ferrari e Ducati. Una «svista» che, dopo le pubbliche denunce, è stata rimossa. «Per favore - dice Stella - vista l'importanza di Internet per il turismo (il solo sito TripAdvisor ha 35 milioni di recensioni e 29 milioni di visitatori al mese ) potremmo una buona volta metterci una pezza?»

«Basterebbe – risponde Antonio Giangrande, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” con decine di libri all’attivo, e presidente di Tele Web Italia – non essere altamente autoreferenziali e prestare maggiore attenzione a ciò che vi è sul web e che non sia a se stessi o al sistema di potere riconducibile. Essere slegati dal sistema editoriale od istituzionale, con oneri per lo Stato, non vuol dire non produrre prodotti di alta qualità. Il nostro portale turistico ha ampi consensi e visite da tutto il mondo. In Italia per essere credibile e pubblicizzato devi per forza allattare dalle mammelle statali».

POVIA ED I MORALIZZATORI.

Saccenti e cattivi. Ecco a voi i sinistroidi.

I moralizzatori della rete prendono di mira Povia. Ovviamente sono quasi tutti utenti fake, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Giuseppe Povia come Red Ronnie. Amaro destino per artisti o personaggi pubblici che non fanno del “politicamente corretto” la loro ragione di vita. Guai a dire qualsiasi cosa che non strizzi l’occhio al pensiero unico e dominante della kultura, ossia al pensiero, se così si può chiamare, della sinistra. Anche un innocente post come “L’Italia va gestito da italiani”, in riferimento alla nomina del ministro italo-congolese Kyenge la “nera”, può scatenare una reazione turbolenta da parte degli evangelizzatori giustizieri della rete. Era già successo a Red Ronnie quando aveva osato andar contro il guru Giuliano Pisapia in piena campagna elettorale per le amministrative di Milano, ora la medesima sorte è riservata a Povia, reo di avere espresso un semplice parere su facebook. La fan page di Povia non è invasa come quella di Red Ronnie ai tempi, ma il cantante riceve quotidianamente messaggi di insulti o disprezzo, a volta dal contenuto palesemente diffamatorio, altre con minacce od inviti a “suicidarsi”. Povia, pazientemente e pacatamente, risponde a tutti. Anche agli utenti con nome e foto palesemente fittizi. Inutile dire che i leoni da tastiera si sottraggono regolarmente alla discussione, preferendo la “toccata e fuga” di insulti.

Da qui l'intervento tramite facebook di Antonio Giangrande in favore di Povia. «Sig. Povia, lei conosce Antonio Giangrande? Basta mettere il suo nome su Google e vedere le pagine web che parlano di me e poi, cliccare su libri. Li si vedranno i titoli di tutti i saggi che ho scritto, ciascuno di 800 pagine circa. Dimostro in fatti, quello che lei, traduce nei suoi testi. Libri che ho scritto dopo 20 anni di ricerche. Sono censurato, come lei, perché scomodo. Le devo dire, però, caro compagno di viaggio, orgogliosi di essere diversi, che a quelli come noi liberi e non omologati alla cultura sinistroide, non rimane che raccontare con i propri libri e con le proprie canzoni la realtà contemporanea ai posteri ed agli stranieri, perché in Italiopolitania, Italiopoli degli italioti, siamo un seme che mai attecchirà.»

«Antonio, grazie, pubblicalo sulla mia bacheca quello che hai scritto, che mi fai sentire meno solo e guardati questi video sennò non capisci bene. Ci vediamo in live Giuse.»

"Chi comanda il mondo": il web si schiera pro e contro sulla canzone di Povia, scrive di Don Ferruccio Bortolotto su “Riviera 24”. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Domanda, denuncia vie di soluzione ed un’aggressiva quanto risanatrice profezia sono nel ritmo della canzone di Povia «Chi comanda il mondo». Ho guardato e riguardato il video, che mi è stato inviato da un amico, con la matita in mano per fermare sulla carta i frammenti della visione del cantautore, che come pugni rompono i muri di pietra degli occhi e della testa. «La musica può arrivare dove le parole non possono» - canta Povia – ed è vero: le sue percussioni e la sua voce scavano un solco che non può lasciare indifferenti. In questo caso la musica riesce a diventare un imperativo ascoltato dalla nostra volontà intorpidita e saccheggiata di dolore e di potere. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Cerco un silenzio che non sia quello che precede ed accompagna il sonno, ma quello di chi con attenzione veglia custodendo il fuoco di un desiderio profondo che tutti abbiamo nel cuore: la voglia di sapere.  Non difendere questo desiderio è acconsentire alla tirannia.

Povia e Assotutela: botte da orbi sul web. L'artista accusato di "istigare l'odio razziale" nel suo ultimo brano "Chi comanda il mondo?", scrive Chiara Rai su “Il Tempo”. Il cantautore Giuseppe Povia e il presidente di Assotutela Michel Emi Maritato danno spettacolo su Facebook. Ad accendere la miccia non è stato l'artista: l'ultima canzone di Povia ha mandato su tutte le furie Maritato il quale non digerisce le parole contenute nell'ultimo brano dell'artista a tal punto da minacciarlo di denuncia per istigazione alla violenza e all'odio razziale. Queste accuse pesanti come macigni sorgono, secondo Maritato, da alcuni passaggi che conterrebbero messaggi subliminali che alimenterebbero l'antisemitismo. Così, sicuro della sua veste di paladino della causa, il presidente di Assotutela non risparmia commenti al vitriolo: "Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia - esordisce Maritato - in questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall'Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina. Il nuovo brano ‘Chi comanda il mondo?’ contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo". E poi minaccia: "Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali - conclude -  stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all'odio razziale, mi meraviglio della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento". In pratica la tesi di Assotutela è questa: dato che Povia sarebbe in decadenza, l'unica forma di promozione è lanciare un pezzo shock per alimentare le polemiche e dunque vendere più dischi. Ma la risposta del cantautore non si è fatta attendere. Povia non ci sta e le canta al presidente Maritato: "Addirittura una denuncia? Invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte". E poi l'artista spiega meglio: "La canzone 'Chi comanda il mondo?' è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto". Povia, rivolgendosi poi direttamente ad AssoTutela commenta: "Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure". Il cantautore infine conclude con un invito invito al dialogo: "Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone: 'siamo divisi dai simboli, noi singoli' ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci". Ma la questione non sembra chiusa qui, a quanto pare le spiegazioni sembrano non essere sufficienti. Soltanto la conclusione del continuo tam tam di messaggi sul social network potranno dirci chi dei due avrà la meglio sull'altro.

Testo - Chi comanda il mondo? – Povia

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

C’è una dittatura di illusionisti finti

economisti equilibristi

terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti

che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti

gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia

fino a portarci all’apatia

creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa

media, oggetti, nomi, colori, simboli

la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli

dormiamo bene sotto le coperte

siamo servi di queste sorridenti merde

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e www.nuovecanzoni.com disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene

La libertà e la lotta contro l’ingiustizia

non sono né di destra né di sinistra

la musica può arrivare nell’essenziale

dove non arrivano le parole da sole

gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati

da Maastricht a Lisbona

siamo tutti indignati perché questi trattati

annullano ogni costituzione

quì bisogna dare un bel colpo di scopa

e spazzare via ogni stato da quest’Europa

se ogni stato uscisse dall’Euro davvero

magari ogni debito andrebbe a zero

perché per tutti c’è un punto d’arrivo

nessuno lascerà questo mondo da vivo

vogliamo una terra sana, sana

meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

Fate la nanna bambini volati nei cieli 

Povia e il coraggio di dire di no: meglio una moneta sovrana che puttana, scrive Gloria Sabatini su “Il Secolo d’Italia”. Chi comanda il mondo? Chi comanda il mondo? È la domanda ossessiva che dà il titolo all’ultimo album di Giuseppe Povia, che, piglio naif e linguaggio scomodo, apre uno squarcio di luce potente sull’attualità mettendo in musica il suo gigantesco no al dominio planetario della grande finanza, di «illusionisti e finti economisti». C’è una dittatura – canta Povia – un dittatura senza volto, fatta di balle e finte illusioni che vorrebbe un popolo inebetito. «Silenzio / fate la nanna bambini / verranno tempi migliori / Chi comanda il mondo? / C’è una dittatura, c’è una dittatura / Non puoi immaginare quanto fa paura / Chi comanda il mondo? / Oltre che il potere /  vuole il tuo dolore / e dovrai soffrire / e sarai costretto ad obbedire…», è l’incipit del brano che farà discutere e solleverà lo sdegno delle anime belle del progressismo planetario, quelle sempre pronte a gridare allo scandalo e al complotto. «C’è una dittatura di illusionisti finti economisti equilibristi, terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti…Ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia fino a portarci all’apatia». La dichiarazione di guerra all’eurocrazia non potrebbe essere più esplicita: «Gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati da Maastricht a Lisbona, siamo tutti indignati perché questi trattati annullano ogni costituzione». Povia conferma la sua verve provocatoria e anti-ideologica quando canta che «la libertà è la lotta contro l’ingiustizia non sono né di destra né di sinistra, la musica può arrivare nell’essenziale dove non arrivano le parole da sole». Un passo avanti a molti politologi e opinionisti. E per finire un appello contro i grand commis di oggi e di ieri: «Qui bisogna dare un bel colpo di scopa e spazzare via ogni Stato da quest’Europa. Se ogni Stato uscisse dall’euro davvero magari ogni debito andrebbe a zero. Vogliamo una terra sana sana, meglio una moneta sovrana che una moneta puttana».

Messo in croce dal web. L’autore de I bambini fanno oh e di Luca era gay non è nuovo ad attacchi e isterie online. Qualche giorno fa Michel Emi Maritato, presidente di Assotutela, ha ingaggiato un derby a distanza dalla sua bacheca Facebook accusando Povia di contenuti antisemiti e arrivando a minacciare denunce «per istigazione alla violenza e all’odio razziale». «In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina».  A dir poco squallida la tesi di Assotutela secondo la quale l’artista   avrebbe lanciato il pezzo shock per  vendere più dischi e risalire dalla “decadenza”. «Addirittura una denuncia – risponde elegantemente Povia – invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte. La canzone Chi comanda il mondo? è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto». Dov’è lo scandalo? «Se vi riferite alla frase “messo sulla croce in Israele”, vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo, che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell’attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi». Geniale.

Povia e la denuncia per Chi Comanda il Mondo?: il Dott. Maritato fa chiarezza su “New Notizie”. Da due giorni circola inarrestabile sul web la notizia secondo la quale Povia rischierebbe di essere denunciato per il suo ultimo brano Chi comanda il mondo?: a detta di diverse fonti sul web, la denuncia potrebbe partire dall’Associazione per la tutela del cittadino AssoTutela, presieduta da Michel Emi Maritato. Ma facciamo una breve cronistoria di quanto accaduto. Il 5 Marzo Povia pubblica sul proprio canale YouTube il brano Chi comanda il mondo?, brano di denuncia che tende a sottolineare le dinamiche di potere – a volte occulte – che governerebbero il mondo e costringerebbero l’umanità ad una sorta di schiavitù. Passa circa una settimana (e giungono alcune decine di migliaia di views per il video, che vi proponiamo in coda) e si diffonde la notizia secondo la quale AssoTutela sarebbe pronta a sporgere denuncia contro il cantante per le tematiche proposte (vedremo che, in realtà, non è esattamente così). Pronta, quindi, giunge la replica di Povia attraverso Facebook. Dal canto nostro, abbiamo avuto modo di sentire telefonicamente il Dottor Michel Emi Maritato che, disponibilissimo, ci ha spiegato la propria personale posizione: “Per Povia ho una grande stima e mi ritengo un suo fan. Condivido le tematiche espresse nel brano; dal canto mio sono un signoraggista, lavoro quotidianamente per combattere contro l’usura bancaria e gli abusi di Equitalia. Ciò che non condivido è un certo tipo di simbologia esoterica, presente all’interno del video. Una simbologia che sottende una lotta al potere ebraico e che rappresenta una scelta quantomeno poco felice in un momento come quello attuale, con l’incombenza della minaccia dell’Isis”. “Il messaggio poteva passare anche senza determinate immagini, in maniera più delicata”. Circa la denuncia, quindi, il Dottor Maritato ha detto: “La denuncia è al vaglio dei legali. Saremmo comunque felici se Povia accettasse un confronto e spiegasse le sue posizioni, magari attraverso i nostri mezzi di comunicazione”. Per poi concludere: “Povia è una grande arista. Un artista anticonformista che con le sue scelte rischia di essere tagliato dai circuiti mainstream. Chi ha confezionato il videoclip, d’altro canto, ha inserito dei simboli che possono incitare all’odio razziale. Ciò magari è stato fatto senza che Povia ne fosse consapevole, ma rimane il fatto che una determinata simbologia si sarebbe potuta evitare”.

AssoTutela contro Povia per il brano ''Chi comanda il mondo'', scrive “Il Mamilio”. Al centro della vicenda il brano ''Chi comanda il mondo''. “Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia”. Lo dichiara in una nota il presidente di AssoTutela Michel Emi Maritato. “In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi ci manca la genialata di Giuseppe Povia benzina sul fuoco. Il nuovo brano Chi comanda il mondo contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo. Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali, stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all’odio razziale, mi meraviglio – conclude Maritato nel comunicato – della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento''. La reazione di Povia, direttamente dal suo profilo Facebook, non  si è fatta attendere: ''La canzone "Chi comanda il mondo" - scrive - è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto. Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme''. ''Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella - continua il cantante -  avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure. Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo,  stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone:  "Siamo divisi dai simboli, noi singoli"  ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci''.

Per la canzone mi dicono: “VENDUTO!! GUADAGNI SOLDI!!” (Leggete dai..non è possibile), scrive Povia sul suo Blog Lunedì, 09 Marzo 2015. Il video della canzone “Chi comanda il mondo” è stato visto in meno di 4 giorni da oltre 40 mila persone senza pubblicità. SONO SOLO LO VOLETE CAPIRE? SOLO! SENZA PUBBLICITA’. Solo con il vostro PASSAPAROLA e vi dico G R A Z I E! Anzi devo ringraziare anche rispettivamente i creatori di Facebook e Youtube che mi permettono di diffondere un minimo la mia musica e ciò che penso. La canzone l’ho prodotta di tasca mia e il video mi è stato concesso da Marco Carlucci, uno dei più grandi registi social-underground che ci sono nel panorama italiano. Neanche lui è un venduto, sennò non avremmo trovato intesa su certi argomenti che toccano la finanza. Lui è lo stesso che mi fece i video di “Luca era gay” e  “La Verità” realizzati soprattutto per ammirazione artistica e intellettuale nei miei confronti. Abbiamo pensato che poteva nascere un video da quest’altra canzone, punto.  Come andava andava. Senza aspettative. (Parlo di “chi comanda il mondo”). VENDUTO? IO? Dai..vi prego.. Non voglio dire parolacce o insulti perchè non servono in questo caso ma vorrei chiarire che non solo non sono un venduto e non lo sono mai stato davvero, ma non guadagno soldi su questo brano per il seguente ed elementare motivo: Non l’ho caricato sui portali a pagamento, E’ GRATIS, lo potete ascoltare e vedere quando e come volete. Lo ripeto QUANDO E COME VOLETE. Scommetto che ce lo avete già sull’I-pod in mp3 vero? E’ GRATIS. E sarei VENDUTO? E DOVE LI GUADAGNEREI I SOLDI SENTIAMO? Bene, la notizia vera però è questa: SONO IN VENDITA!!!  SONO IN VENDITA, CERTO CHE SI! Ma non ho bisogno di qualcuno che mi produca solo un disco, ho bisogno che sposi il mio pensiero, la mia spiritualità, il mio carattere la mia arte e il mio combattere questo ANTISISTEMA che sta degenerando tutte le nuove generazioni vendendo una “Libertà” fatta di troppa devastazione, troppo eccesso di droga, sesso e amore venduto come quello che si vede sui siti porno gratuiti. IO SONO IN VENDITA! MA NON SONO VENDUTO, MAI! AVREI PARTECIPATO ALL’ISOLA DEI FAMOSI, UN PROGRAMMA PER IDIOTI. Non ce l’ho con chi ci partecipa ma con chi lo guarda. Non è l’abbondanza il problema, ma chi se la beve. e si, ho detto che combatto contro L’ANTISISTEMA, avete capito bene! Il problema è proprio L’ANTISISTEMA! Quello che ci fa sentire in colpa se esprimiamo il nostro normalissimo pensiero. Insultate i vostri idoli! Insultate coloro che vi dicono ciò che volete sentirvi dire. Quelli che girano intorno al problema ma non lo centrano come si deve, perchè si cagano addosso. Quelli che rinnegano i loro testi, le loro canzoni, le loro dichiarazioni. Quelli che parlano di un'umiltà che non ha nessuno in questo mondo e che fanno i finti umili. Insultate quelli che vogliono farvi credere che non si vendono ma che invece in quest’ambiente di cani e cagnette in calore tutti messi a pecora, ci sguazzano e ci si ritrovano proprio bene. Quelli sono i veri VENDUTI e voi i loro COMPLICI PERFETTI. Io sono solo, artisticamente solo e non piango: MI CI GIOVO, ME NE VANTO, GODO! SONO LIBERO.

Povia ad Affari: "Il concerto del Primo Maggio? Non ci vado solo perché fa figo". Intervista di Giovanni Bogani Martedì, 11 aprile 2006. Il piccione di Povia? Abitava su un tetto, nel centro di Firenze. Quello che ha ispirato la canzone che ha vinto a Sanremo, quello che si accontentava delle briciole, quello che volava basso, perché il segreto è volare basso. Stava su un tetto fiorentino. “E neanche lo sopportavo”, dice lui, fiorentino per amore, da cinque anni: per amore della sua donna Teresa, che gli ha dato da poco una figlia. “Ogni mattina, a mezzogiorno, io appena sveglio, e questo piccione a tubare, ad amoreggiare e a rumoreggiare, con tutti i suoi rumorini da piccione. E io, piano piano, mi sono chiesto se non avesse ragione lui, con il suo amore così semplice, in qualche modo così assoluto. E ho cominciato a scrivere una canzone su di lui”. Povia, nelle strade medievali di Firenze, tra i vicoli intorno a Ponte Vecchio, ha vissuto anni di bohème. E in questi anni, ha maturato il suo talento. Ha coltivato i suoi sogni, tra un turno e l’altro del suo lavoro di cameriere. Lo incontriamo in un bar. E ci facciamo raccontare i suoi anni anonimi. Quando ancora il successo era un miraggio lontano, da afferrare, semmai, o forse da non raggiungere mai.

Povia, quali erano i luoghi della tua Firenze?

“Piazza Santo Spirito, dove mi ritrovavo con il mio amico Simone Cristicchi, che aveva anche lui una fidanzata a Firenze; il Porto di Mare e l’Eskimo, due locali dove si fa musica dal vivo, ai quali sono molto legato. E piazza della Passera: lì, al caffè degli Artigiani, un piccolo caffè frequentato da turisti americani, nel mezzo del cuore della Firenze antica, ho lavorato per due anni”.

Hai lavorato a lungo come cameriere?

“In tutto, diciotto anni. Di qua e di là, a Milano, a Porto azzurro all’isola d’Elba, e poi a Firenze”.

Che cosa si impara?

“La pazienza, prima di tutto. E poi si impara a riconoscere le brave persone. E anche gli altri, quelli che brave persone non sono”.

Ci sono stati momenti in cui hai pensato di smettere, di mollare tutto?

“Praticamente, in continuazione. Pensavo sempre: basta, adesso smetto. In questo mondo, nessuno ti apre le porte. Stavo male, mi sentivo a mio agio solo con la mia fidanzata…”.

Quando l’hai conosciuta, Teresa?

“L’ho conosciuta in modo classico, in una discoteca all’isola d’Elba. Dodici anni fa. Teresa è di Firenze; ci siamo visti per sette anni attraversando l’Italia da una parte all’altra. Poi, cinque anni fa, sono venuto ad abitare qui”.

E ora chi sei?

“Uno che non si considera un artista, ma uno che vorrebbe scrivere canzoni per tutti. Per comunicare alla gente. Uno che vorrebbe essere semplice, e chiaro, e dare emozioni. Insomma, vorrei essere ‘pop’. E non sono né di destra né di sinistra. Ho cantato per il papa, ma non per vestirmi di una bandiera. Perché ci credo io, e basta”.

Insomma, tu non ti schieri. Ma la religione è importante per te. Da quando?

“Da quando ero depresso, praticamente disperato. Non riuscivo a sfondare con la musica, passavo da un lavoro di cameriere all’altro, non avevo neanche una città di cui potessi dire: è casa mia….E poi, nella sala di aspetto di una stazione, do un euro a un frate cappuccino che chiedeva, con molta discrezione, dei soldi. Lui mi dice: siediti. Come, siediti? Mi sono seduto, perché ho visto che aveva un volto intenso, serio, che aveva qualcosa da dire. Abbiamo parlato. E questo frate cappuccino mi ha cambiato la vita”.

Come è la tua vita adesso?

“Semplicissima. Sto con la mia donna, Teresa, con mia figlia Emma, che ha 15 mesi e comincia a ‘gattonare’. E vado a fare la spesa al supermercato, come tutti”.

E’ più bello scrivere le canzoni o cantarle?

“Per me, scriverle. Mi ci vogliono cinque minuti per avere un’idea, e mesi per finire una canzone. E nel mezzo, c’è il lavoro più bello del mondo. Dare vita a una melodia, a un’armonia, a delle parole. Creare qualcosa che prima non esisteva. A volte mi stupisco ancora, di questo miracolo che accade ogni volta”.

Una curiosità. Ma dove abitava il piccione della canzone con cui hai vinto Sanremo?

“Di fronte alla mansarda dove vivevo io, a Firenze. Mi svegliavo, e vedevo tutti i giorni questo piccione che tubava. Non lo sopportavo: io non amo i piccioni, per niente! Ma poi ho capito che aveva la sua ragione di vita, che aveva il suo diritto alla felicità, all’amore. E che, a suo modo, sui tetti di fronte a casa mia, lui  viveva l’amore in un modo assoluto”.

Quale canzone stai scrivendo?

“Una canzone sull’amicizia. Che sarà più bella di tutte quelle che ho scritto fino ad ora. Ma una canzone non si fa in cinque minuti. Ci vogliono mesi. In cinque minuti ti viene un’idea, un titolo, un ritornello. Il resto è lavoro, è fatica”.

Concerti? Farai quello del Primo Maggio?

“No. Ma non perché ho suonato per il Papa, e non faccio il Primo Maggio. Non lo faccio perché molti suonano in quel concerto per atteggiamento, e non per convinzione. Ci vanno perché fa figo”.

«Preferisco rinunciare sia a consensi, sia a compensi - spiega Povia in un video pubblicato sul suo profilo Facebook il 10 marzo 2015 - Perché tanto so che se dico di sì a uno, poi gli altri se la prendono e storcono il naso. Tanto sempre è andata così. Nel 2005 stavo partecipando con i”I Bambini fanno oh” al concerto del Primo maggio a Roma, ma poi mi dissero: se vieni da noi, poi non devi mai andare con gli altri. Allora risposi: no, grazie. E da lì il mio percorso è quello che conoscete, senza mai nessun appoggio politico o discografico e sempre pieno, pieno di critiche e di insulti che non tarderanno ad arrivare».

POVIA: SE CANTASSI "LUCA E’ TORNATO GAY" DIREBBERO CHE HO SCRITTO UNA CANZONE BELLISSIMA. Intervista di Davide Maggio. Con le sue canzoni ha fatto parlare spesso di sè negli ultimi anni. Prima “I bambini fanno oh” poi “Luca era Gay”, passando per “Vorrei avere il becco”, Giuseppe Povia è un cantautore che sa come colpire l’opinione pubblica. In occasione del suo impegno a I Migliori Anni,  abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui e ne è uscita fuori l’immagine di un cantautore con le idee chiare, che crede molto nel suo lavoro, consapevole del fatto che le critiche siano parte del gioco. L’importante, dice, è essere intellettualmente onesti.

Stai ricevendo consensi di pubblico a I Migliori Anni. Essere popolare ti lusinga o ti infastidisce perché allontana la tua immagine da quella del cantautore di nicchia?

«Quando hai qualcosa da dire devi essere popolare, perché a più persone arrivi e più puoi aiutare, altrimenti è inutile che fai arte, inutile che fai musica. Ci sono invece personaggi di nicchia che vogliono rimanere nella nicchia… ma se la raccontano. Io guardo fissa la telecamera perché la gente deve riconoscere in me uno che canta delle canzoni che possono aiutare a vivere meglio. La musica può cambiare tantissime cose. I bambini fanno oh ha aiutato dei bambini a uscire dal coma».

In Italia esistono dei cantautori di serie A e di serie B?

«Sono gli addetti ai lavori che ti accreditano o screditano. Ogni artista ha un consenso da una parte e poco consenso dall’altra. Io, per esempio, vengo attaccato da varie fazioni per le tematiche che tocco, da altre invece vengo acclamato. E’ chiaro però che mi sento cantautore a 360 gradi e non posso parlare solo d’amore. De Gregori fu attaccato dalla critica velatamente perché lo accusarono di aver offeso le persone obese con La Donna Cannone, oppure De Andrè fu criticato perché istigava alla prostituzione con Bocca di Rosa. Non mi sto paragonando a loro, dico solo che la strada che seguo nella musica è quella del cantautore. Se scrivo “Luca era gay” o “La verità”, ispirata alla storia di Eluana Englaro, ci sono dei motivi che vanno oltre la furbizia per far parlare di me. Ma poi chi non è furbo in questo ambiente? (ride) E meglio esserlo su argomenti intellettualmente onesti che per le movenze o per i vestiti»

Conosci Pierdavide Carone?

«Si, l’ho sentito a Sanremo dove ha portato un pezzo che mi piaceva con Dalla e poi ha cantato “Di Notte”, una canzone che andava su parecchie radio. So che è un autore giovane e gli autori giovani servono in Italia. E poi è uno dei pochi che scrive pure per gli altri e non solo per sé».

Il tuo rapporto con i talent, dunque?

«Non ce l’ho con i talent. Da una parte è positivo perché parla di musica e dall’altra parte è deleterio perchè  su 40 persone che partecipano non ce la possono fare tutti. Se hai una squadra di persone che ti stanno dietro e che fanno un progetto per te come è stato fatto per la Amoroso, Giusy Ferreri o Marco Mengoni può funzionare. Se fai il primo singolo che magari non va tanto bene e ti abbandonano, vai in crisi psicologica».

Sottolinei spesso l’importanza del cantautorato.

«I cantautori, dal dopoguerra in poi, hanno fatto la storia della musica italiana attraverso filosofie di pensiero e emozioni nuove. Attraverso le loro canzoni hanno parlato di satira, di politica e di tante tematiche sociali. La figura del cantautore dovrebbe tornare a essere qualificata perché negli ultimi dieci anni è stata un po’ sorpassata.  Oggi si tende più ad omologare la musica a un unico genere, a un unico suono. Io ho la sensazione di sentire sempre la stessa canzone cantata da cantanti diversi. Il suono deve essere quello, altrimenti radiofonicamente sei penalizzato. Voglio togliermi dalla testa la parola radiofonico».

Hai inaugurato anche una scuola per cantautori.

«Sì, la scuola è il CMM di Grosseto che è aperta dal 1994 e si occupa di musica a 360 gradi. Al suo interno ho aperto la sezione cantautori che non ha la presunzione di insegnare a scrivere le canzoni, perché le emozioni non si insegnano da nessuna parte. Arrivano molti ragazzi giovani che hanno del talento insegno loro quello che Giancarlo Bigazzi, che per tre anni è stato il mio maestro, ha insegnato a me».

Nel tuo inedito, Siamo Italiani, presentato a I Migliori Anni, avresti potuto essere più cattivo con la nostra descrizione. C’è una strofa che avresti voluto inserire ma poi hai preferito tagliare?

«A essere cattivi ci pensano agli altri, io sono il buonista. Dicono che “siamo italiani è populista”.  Populista è un termine nobile, a parte che finisce per ista. Dovrebbe essere populesimo che è ancora più bello. E’ un termine patriottico, popolare e poi in questo caso è un termine che parla al cuore degli italiani. “Siamo italiani” è una canzone che parla dei nostri pregi e dei difetti. Siamo uno stivale al centro del mondo e tutti ci vogliono mettere i piedi dentro, anche se ci criticano».

Una strofa della tua canzone dice: “siamo italiani, ed è ora di cambiare questa storia. ci meritiamo di vivere in un mondo che abbiamo inventato noi”.

«Gli italiani sono positivi, sono quelli che si rialzano. Non è una canzone cattiva, ma positiva. Sono tutti bravi  a fare gli oratori, ma alla fine l’ipocrisia non paga. Se uno riesce a dire le cose che pensa veramente fa più bella figura anche se ci si brucia una parte di pubblico. Quindi “siamo italiani… su le mani”».

Su le mani, perché?

«Qualcuno intende su le mani perché ci stanno puntando una pistola, invece qualcun altro intende su le mani perché possiamo conquistare pure il cielo. E questo è vero».

Già deciso per chi votare?

«Non ancora, non c’è una faccia nuova. Mi piaceva molto Renzi, l’ho conosciuto e avrà tempo per farsi strada. Non è che io sia politicamente disilluso, perché un pensiero ce l’ho, che è quello che va a favore di famiglia, di ricerca, sanità, strutture, di cultura, però alla fine dentro un partito ci sono tre leader che litigano… ti sembra una cosa un po’ una comica e la prendi a ridere. Probabilmente, credo che non andrò a votare perché non mi sento stimolato».

Luca era gay è del 2009.  A cantarla oggi le polemiche sarebbero state le stesse di allora?

«Si, certo. Se cantassi: “Luca non sta più con lei ed è tornato gay” tutti direbbero che ho scritto una canzone bellissima. Io ho cantato “Luca era gay e adesso sta con lei” e sono stato accusato di aver detto che un gay è malato. Io ho rispetto per la parola malattia che credo sia una parola con cui nessuno voglia avere a che fare: nella canzone c’è una strofa che dice “Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia, nessuna guarigione”. Parlavo della storia di una persona che se non si trova in una condizione può cambiare perché – al di là del fatto che la storia sia vera – è vero che si può.  Non ho cantato la parte che avrebbero voluto sentire quelli che fanno i finti paladini difensori. Ho raccontato una storia e non pensavo che succedesse tanto casino. La racconterò tutta la vita. Ad avercene di “Luca era gay”, anche perché è una canzone intellettualmente onesta».

Cosa ne pensi delle adozioni gay?

«Secondo me, un bambino dovrebbe avere una figura paterna e una materna. Questa è pedagogia. Poi da una parte ci sarà la gente che ritiene che sia meglio affidare i bambini a una coppia omosessuale che si vuole bene piuttosto che abbandonarli in un bidone o affidarli ad una casa famiglia. Secondo il mio pensiero personale, e quindi condivisibile o meno, nelle case famiglia lavorano persone preparate e che conoscono i bambini e poi ci sono tantissime coppie eterosessuali in attesa inutilmente che gli venga affidato un bambino».

A differenza che in quello della musica, nel mondo del calcio, l’omosessualità è ancora un argomento tabù.

«Si arriverà anche nel calcio a parlarne. perché il mondo sta andando in quella direzione. Bisogna riuscire ad accettare una persona nella condizione in cui sta bene. Io sono stato scambiato per quello che ce l’ha con i gay, e se fosse così  lo direi. Mi hanno dato dell’ omofobo e adesso quando faccio i concerti spiego cosa significa davvero omofobia. Io non ho paura degli omosessuali. Credo che nessuno ne abbia. Omofobia è un termine politicamente inventato negli ultimi anni. Forse il nuovo termine è “poviafobia.” A Firenze (dove vive, ndDM) non ho nessun problema a entrare in un locale gay, ma in quel momento sento di esser guardato male e allora chi è che discrimina?»

Al posto di Morgan a XFactor o al posto di Grazia Di Michele ad Amici?

«Morgan è uno che giudica e ha il suo carattere, è un cantautore e non ha mai scritto una canzone che ha scalato le classifiche. E’ molto stimato perché ha una grande cultura. Vorrei avere la cultura di Morgan e il buon senso di Grazia Di Michele».

Parliamo di televisione, qual è il programma che proprio non riesci a guardare?

«La pubblicità (ride). Non lo so, non c’è un programma. A parte il calcio, la televisione non la guardo tanto. Guardo Violetta, a cui mi ha fatto appassionare mia figlia Emma. E’ la storia di una ragazzina che canta. Quando verrà in Italia, le ho promesso che la porterò al concerto».

Vasco Rossi o Ligabue?

«Io son cresciuto con Vasco Rossi, con i suoi testi, con il suo stile di vita. Sono stato due anni in comunità perché ho fatto delle cavolate ai tempi in cui avevo venti, ventidue anni. Vasco l’ho ascoltato perché le sue canzoni mi davano la speranza di vivere in una condizione migliore. Cosa che poi è accaduta. Ligabue è molto più preciso. Ha dei testi ultimamente molto più forti..Scrive cose tipo “l’amore conta – conosci un altro modo per fregar la morte” che è una cosa che avrei volto scrivere io».

Devi scegliere un cantante con cui fare un tour. Chi sceglieresti?

«Non sopporto i duetti e queste operazioni discografiche. Forse con Baglioni, ma a cantare i suoi pezzi. Se dovessi  fargli da corista, allora sì».

Il prossimo brano che interpreterai a I Migliori Anni?

«Tanta voglia di lei dei Pooh. E’ la prima canzone che ho cantato…e non è detto che la canti bene».

Sei nella condizione di poter invitare a cena fuori una tua collega de I Migliori Anni, chi scegli?

«Alexia. Non che ci sia qualcosa, per carità (ride). E’ una ragazza intelligente, piacevole, con la quale puoi parlare di tantissime cose.  Ha un cervello, è mamma e a me piacciono le donne mature di testa».

Guarderesti Italia’s Got Talent se non fossi impegnato con I Migliori Anni?

«A me di solito piacciono i programmi di cose inedite. Gli darei un’occhiata per curiosità, ma poi non so».

Hai mai detto in un’intervista qualcosa di cui poi ti sei pentito?

«Si, ma alla fine bisogna dire quello che si pensa. Certo, un cantautore o un personaggio di spettacolo deve stare attento a pesare le parole. Qualunque cosa io dica vengo sempre catalogato in una casella politica. Non mi piace che ogni volta alcuni giornalisti facciano il gioco della collocazione politica dell’editore».

Quando uscirà il tuo disco?

«Esce il 19 novembre che è il giorno del mio compleanno e si chiamerà Cantautore. E poi nel 2014 porterò in giro per i teatri uno spettacolo. Parlerà di tutto, d’amore, di politica, di ironia, di satira, tematiche sociali. Sono 90 minuti di chitarra e voce per rilanciare il concetto del cantautore, far capire, più a me stesso che alla gente, che una canzone resta in piedi anche se è solo chitarra e voce. Una volta fatto questo si può riarrangiarla come vuoi. Oggi invece si fa un po’ il contrario».

Guarderai Sanremo?

«Si. Fazio, bisogna rendergliene merito, ha fatto un Sanremo rischioso, secondo i suoi gusti e con un cast apparentemente di nicchia Con un cast così il rischio è che anche questo Sanremo sarà costruito più sul contorno che  sulla musica. Sono curioso di sentire la canzone di Marco Mengoni che mi piace un sacco. Secondo me potrebbe vincere. E’ uno, che non so come faccia, ma canta come Freddy Mercury».

Hai un look ben distinguibile, all’apparenza sembri uno di quelli che non ci pensa tanto e invece…

«L’abito fa il monaco (ride). Non mi vesto mai in maniera distratta. Sabato scorso ai Miglior Anni ero vestito di bianco, che dà sempre l’idea di pulito… e poi bianco fuori un po’ sporco dentro. Quando mi vesto di nero, metto una collana che fa luce, mi piacciono gli accessori, i capelli lunghi e lo scegliere le scarpe intonate».

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.

Eppure Che Guevara organizzò il primo campo di concentramento per gay, scrive Enrico Oliari su “Quelsi”. Il medico argentino che condusse la rivoluzione cubana organizzò i lager per i dissidenti e gli omosessuali. Questi ultimi furono da lui perseguitati in quanto tali: il “Che” non fu secondo nemmeno ai nazisti. Ecco un ritratto che Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, ha descritto del rivoluzionario. Con la fuga del dittatore Fulgencio Batista e la vittoria di Fidel Castro, nel 1959, il Comandante militare della rivoluzione, Ernesto “Che” Guevara, ricevette l’incarico provvisorio di Procuratore militare. Suo compito è far fuori le resistenze alla rivoluzione. Lasciamo subito la parola a Massimo Caprara (*), ex segretario particolare di Palmiro Togliatti: “Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: ai religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, agli omosessuali, perfino ad adolescenti e bambini”. Nel 1960 il procuratore militare Guevara illustra a Fidel e applica un “Piano generale del carcere”, definendone anche la specializzazione. Tra questi, ci sono quelli dedicati agli omosessuali in quanto tali, soprattutto attori, ballerini, artisti, anche se hanno partecipato alla rivoluzione. Pochi mesi dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale”, ossia di lavoro forzato. È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Poi, sempre quand’era ministro di Castro, approntò e riempì fino all’orlo quattro lager: oltre a Guanaha, dove trovarono la morte migliaia di avversari, quello di Arco Iris, di Nueva Vida (che spiritoso, il “Che”) e di Capitolo, nella zona di Palos, destinato ai bambini sotto ai dieci anni, figli degli oppositori a loro volta incarcerati e uccisi, per essere “rieducati” ai principi del comunismo. È sempre Guevara a decidere della vita e della morte; può graziare e condannare senza processo. “Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino – prosegue Caprara, sottolinenado che Guevara sarebbe legato al giuramento d’Ippocrate – fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e “pericolosi” incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle “quadrillas” di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri”. Sono solo alcune delle sevizie da lui progettate, scrupolosamente applicate ai dissidenti e agli omosessuali. Il “Che” guiderà la stagione dei “terrorismo rosso” fino al 1962, quando l’incarico sarà assunto da altri, tra cui il fratello di Fidel, Raoul Castro. Sulla base del piano del carcere guevarista e delle sue indicazioni riguardo l’atroce trattamento, nacquero le Umap, Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione (vedi il dossier di Massimo Consoli in queste pagine), destinati in particolare agli omosessuali. Degli anni successivi, Caprara scrive: “Sono così organizzate le case di detenzione “Kilo 5,5″ a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite “tostadoras”, ossia tostapane, per il calore che emanano. La prigione “Kilo 7″ è frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di 40 prigionieri. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate “tapiades”, nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere “Tres Racios de Oriente” include celle soffocanti larghe appena un metro, alte 1.8 e lunghe 10 metri, chiamate “gavetas”. La prigione di Santiago “Nueva Vida” ospita 500 adolescenti da rieducare. Quella “Palos”, bambini di dieci anni; quella “Nueva Carceral de la Habana del Est” ospita omosessuali dichiarati o sospettati (in base a semplici delazioni, ndr). Ne parla il film su Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”, di Julian Schnabel uscito nel 2000″. Anni dopo alcuni dissidenti scappati negli Usa descriveranno le condizioni allucinanti riservate ai “corrigendi”, costretti a vivere in celle di 6 metri per 5 con 22 brandine sovrapposte, in tutto 42 persone in una cella. Il “Che” lavora con strategia rivolta al futuro Stato dittatoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, della Sicurezza dello Stato, parecchie migliaia di persone hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Il “Che”, soprannominato “il macellaio del carcere-mattatoio di “La Cabana”, si opporrà sempre con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei “criminali di guerra” (in realtà semplici oppositori politici) che pure veniva richiesta da diversi comunisti cubani. Fidel lo ringrazia pubblicamente con calore per la sua opera repressiva, generalizzando ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori. Secondo Amnesty International, più di 100.000 cubani sono stati nei campi di lavoro; sono state assassinate da parte del regime circa 17.000 mila persone (accertate), più dei desaparecidos del regime cileno di Pinochet, più o meno equivalente a quelli dei militari argentini. La figura del “Che” ricorda da vicino quella del dottor Mengele, il medico nazista che seviziava i prigionieri col pretesto degli esperimenti scientifici.

Perché il mito di Ernesto Che Guevara è immortale. L’icona del rivoluzionario argentino resiste all’usura del tempo e ai mille tentativi di farne un marchio commerciale. Il motivo? È quello che non siamo. Per questo a 50 anni dalla morte l'Espresso ha deciso di pubblicare un libro su di lui, scrive Wlodek Goldkorn il 5 ottobre 2017 su "L'Espresso". I ribelli caduti in campo di battaglia si dividono grosso modo in tre categorie: la prima, coloro che cercano la morte gloriosa perché le generazioni future cantino le loro gesta, un po’ come Ettore, che nella versione omerica non era ribelle, ma comunque da oltre 2.500 anni funziona da modello. Poi ci sono coloro che perdono la vita perché sconfitti in una battaglia che pensavano di poter vincere o che valeva la pena di combattere; e stiamo parlando di migliaia e migliaia di rivoluzionari, partigiani, rivoltosi, da Spartaco in giù. Infine, la terza categoria sono persone che hanno condiviso con il corpo e con la morte una rivolta delle cui ragioni e tempistica non erano convinti, ma l’hanno fatto per lo spirito di lealtà nei confronti dei compagni di lotta e delle proprie biografie; e viene in mente Rosa Luxemburg, assassinata a Berlino nel gennaio 1919. E poi c’è il caso di un medico argentino, Ernesto Guevara, insofferente nei confronti delle ingiustizie del mondo; invaghitosi dell’avvocato cubano Fidel Castro che voleva cacciare dal suo Paese Fulgencio Batista, dittatore al servizio delle mafie statunitensi. Una volta ottenuto lo scopo, il medico, insoddisfatto dei compromessi e privilegi che accompagnano inevitabilmente l’esercizio del potere, era andato a finire i suoi giorni in Bolivia, Paese confinante con il suo. Aggiungiamo un paradosso: del Che esistono due foto considerate iconiche. L’una, scattata dal francese Marc Hutten, lo raffigura da morto, in un modo che richiamava così fortemente l’immaginario archetipico di martire, da indurre milioni di giovani ad appendere invece sulle pareti delle loro abitazioni l’altra foto, fatta dal cubano Alberto Korda, con il corpo di ribelle da vivo, bello, pieno di speranza e con un berretto con la stella rossa sulla testa. A cinquant’anni dalla sua morte questo si può dire: nel bene e nel male il ricordo, la leggenda di Ernesto Che Guevara oltrepassa tutte le categorie (per quanto imperfette e arbitrarie) del ribelle sacrificatosi per una causa nobile. Perfino l’industria culturale, da Hollywood all’editoria, non è riuscita a trasformare il rivoluzionario fatto prigioniero e fucilato all’età di 39 anni da un soldato boliviano, il 9 ottobre 1967 a La Higuera, in puro marchio commerciale. Si dirà, però ci sono le magliette con la faccia del Che e le indossano, indistintamente ragazzi di sinistra e di destra; ci sono perfino tazzine con la sue effigie e borse e borsette e via elencando mercanzia varia. Vero, ma resta il fatto che neanche i commerci sono riusciti a distruggere il mito. Ma a pensarci bene, forse la resistenza all’usura dell’icona del Che e il suo fuoriuscire dalle categorie classificatorie, sono fenomeni dovuti alla nostra insoddisfazione con la modernità che stiamo vivendo. C’è qualcosa di triste e al tempo stesso inquietante nell’anonimo pragmatismo dei capi politici che si stanno imponendo oggi in Europa e un po’ ovunque in Occidente.

Non c’è solo il caso limite, italiano, di un movimento che cominciò col mandare a quel Paese l’intera classe dirigente e che finisce con un capo dalla biografia bianca come una pagina di un libro non ancora pensato; c’è anche il francese Macron che dopo pochi mesi al potere sembra ricoperto dalla patina del vecchio; mentre tutti sperano nell’eterno perpetuarsi del governo di una non brillante signora tedesca. L’emozione, nel presente, la proviamo solo quando muore un grande attore, cantante, scrittore del passato. In quei casi le lacrime, vere e virtuali, sgorgano copiose. Ecco, il Che è il contrario della nostra triste epoca. Un rimpianto di una generazione, quella del ’68, invecchiata senza mai rinunciare alle prerogative dei giovani? No. Il culto del rivoluzionario argentino non è nostalgia di come eravamo belli e pieni di speranza, per due motivi. Il primo perché a Ernesto Guevara si richiamano ragazzi che potrebbero essere suoi bisnipoti; e il secondo, perché nella figura del Che, rivisitata 50 anni dopo e quindi con le ampie conoscenze del caso, rivivono tutte le idealità e tutte le contraddizioni degli uomini in rivolta. In un memorabile saggio che potrebbe essere letto come una critica radicale a tutto quello il Che ha rappresentato, Albert Camus nelle prime righe dice: «Cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi». Il filosofo, in quel testo mette in guardia contro la rivolta metafisica e contro il piegare l’umanità alle esigenze della storia. Ce l’aveva con i nichilisti e con i marxisti-leninisti, Camus. E marxista-leninista si proclamava il Che. Eppure, nonostante l’autocertificazione, Ernesto Guevara ci sembra oggi un ribelle contro quello che i marxisti e i comunisti consideravano le ferree logiche della storia. In parole semplici e per tornare all’inizio. Il Che nasce da adulto come un medico che vuole aiutare i malati, specie se poveri ed esclusi. Curioso del mondo esplora con la motocicletta scassata il Continente. Diventa rivoluzionario perché vuole bene agli umani e non perché convinto delle regole del “socialismo scientifico”. È un uomo che con le proprie mani tenta di rimodellare il destino e che rifiuta il realismo in quanto eterno presente. Certo, era anche un romantico che sacrificò la propria vita. Ma l’immagine che ci accompagna, ripetiamo, è più la foto da vincitore all’apice del successo e del sogno di Korda che non quella di Hutten scattata nella lavanderia dell’ospedale di Vallegrande, dove il cadavere del rivoluzionario venne portato da La Higuera.

Il Che, un pasticcione romantico e sanguinario, scrive il 6 ottobre 2017 Marco Valle su “Il Giornale”. Ammettiamolo, le ricorrenze sono una pesante rotture di scatole. Come i compleanni e gli appuntamenti dal dentista. Del resto, Santa Romana Chiesa da due millenni ci ossessiona con gli onomastici e il calendario dei Santi. Ogni giorno ha il suo patrono, il suo defunto, il suo Santo protettore. Amen. Di peggio vi sono solo le commemorazioni politiche del morto di turno. È una malattia trasversale che puntualmente colpisce sinistra, centro e destra. Una tassa. Puntualmente vi sono i necrofori che ricordano il de cuius designato. Poi vi sono i decennali, i ventennali, i trentennali e avanti così. Il calendario della sfiga. Ovviamente, i laudatores se ne fregano delle volontà del defunto e delle sensibilità dei familiari e, per sentirsi vivi, celebrano e si autocelebrano. Quest’anno tocca al dottor Guevara, morto 50 anni fa a La Higuera, un paesino di merda della Bolivia. L’ultimo posto in cui ogni persona sana di mente vorrebbe vivere e crepare. Ma andiamo con ordine. Il medico argentino era finito in quel buco puzzolente inseguito dalle sue illusioni e, soprattutto, dai tanti rancori che lo attanagliavano.

Un suicidio annunciato. La vita del “Che” assomiglia ad una stramba giostra: nei Cinquanta, questo figlio della buona borghesia di Rosario risalì in sella alla sua moto, la “Poderosa”, l’intera America Latina scoprendo le miserie e le tragedie di un continente sfruttato, umiliato, stremato. Poi il Guatemala, il Messico e l’incontro con Raoul e Fidel e l’avventura a Cuba. Nell’immaginario dei più la “rivoluzione” divenne un fatto epico, ma militarmente fu poca cosa: le truppe battistiane erano un’armata di cartapesta — per capirci, inferiori come combattività ai vigili urbani di Monfalcone o di Vigevano — ma pur sempre superiori alle sparute “colonne” dei due Castro e di Guevara. Dopo un po’ di botte e morti, Fidel comprese che l’unica possibilità per cavarsela dall’impiccio era scatenare una jacquerie contadina contro i piantatori, i contadini “ricchi”, i notabili. La sua classe, la sua gente. Una furbata che trasformò la strampalata spedizione in una vera e propria insurrezione e, poi, in una vittoria. Facile. Battista, oltre che corrotto era anche un codardo: scordandosi gli ultimi fedeli, il 1 gennaio 1959 s’involò, carico di lingotti d’oro, verso la salvezza e l’impunità. Nella gioia dei cubani. Tutti attendevano un cambiamento e tutti aprirono le porte ai “barbudos” sperando nella democrazia. Una volta al potere Castro e i suoi si accorsero però che le elezioni, i sindacati, i partiti, compagni “tiepidi” o critici erano delle gran scocciature, dei fastidi inutili. Da cancellare. Il “leader maximo” affidò il repulisti all’argentino — già sulla Sierra aveva dimostrato una gran passione per le fucilazioni —; il “comandante” si mise all’opera con entusiasmo e dogmatismo e nella prigione della Cabana le mitragliatri crepitarono per mesi. Non pago il dottore aprì a la Guanaha il primo campo di lavoro forzato cubano in cui rinchiuse gli elementi “antisociali”, ovvero oppositori e papponi, preti e omosessuali, professori e ladri, borghesi e poveracci. Un fritto misto di dolore e paura da spadellare con cura nella cucina della “revolution”. Senza alcun rimorso, nessuna pietà. Per la “querida presencia” l’importante era l’odio, quell’ “odio intrasigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”. Tanto ardore fu premiato con la nomina a ministro dell’Industria e la presidenza del Banco Nacional. Un disastro pieno. Per salvare l’agonizzante economia di Cuba il pragmatico Fidel mandò l’ingombrante amico in giro per il mondo sperando che si tranquilizzasse, ma l’uomo era ingestibile e le sue sparate di sapore trozkista sulla “rivoluzione mondiale” lo resero inviso sia agli alleati sovietici che ai callidi cinesi. Pur di levarselo di torno, nel 1965 il dittatore lo spedì in Africa a giocare alla guerriglia. Altro disastro. In Congo i mercenari bianchi si dimostrarono ben più coriacei dei soldatini di Battista e Guevara mestamente dovette fare le valigie. Umiliato ma non domo, il bellicoso Guevara decise d’incendiare la Bolivia e s’infilò con un pugno di fedeli in una trappola fatale. Laggiù nessuno lo attendeva. Mario Monje, segretario del PC locale e fedele a Mosca, lo snobbò rifiutandosi “di partecipare a una farsa” e bloccò ogni appoggio da operai e minatori. I contadini rimasero diffidenti se non ostili e dall’Avana non arrivò più alcun rinforzo. Era ora di ritirarsi, ma lo “stratega da farmacia” — definizione di un comunista serio come Giorgio Amendola — scelse di perseverare, sommando errore su errore, sino alla cattura e la morte.

Fine della storia? No. Paradossalmente fu proprio la catastrofe boliviana a salvare Guevara dall’oblio e dall’irrilevanza, trasformandolo in un’icona, in un simbolo. Quel corpo steso sul tavolo de La Higuera, così simile al Cristo morente del Mantegna, infiammò in Occidente l’immaginazione di milioni di ragazzi pasciuti ma inquieti che innalzarono ovunque canti e slogan in onore del caduto. Un impasto di romanticismo politico ed estetismo militare. Il Che — trasfigurato dalla foto di Korda “pizzicata” da G. Feltrinelli — divenne l’alibi per dimenticare tutto e tutti: il fallimentare tropical-comunismo di Fidel, i gulag sovietici, le follie maoiste, l’imbecillità velleitaria dei gruppetti rossi, il compromesso storico, la caduta del Muro etc. etc.  Finita la sbornia ideologica è subentrato il commercio della nostalgia. Di cattivo gusto ma sicuramente redditizio. Dalle bancarelle ad internet (i “Guevara store”) in tanti il prossimo 9 ottobre dovrebbero ringraziare il dottor Ernesto Guevara de La Serna, morto a 39 anni in culo al mondo per diventare, suo malgrado, un gadget. Sic transit…

Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive “Cumasch”. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc...La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY. Eppure Che Guevara organizzò il primo campo di concentramento per gay, scrive Enrico Oliari su “Quelsi”. Il medico argentino che condusse la rivoluzione cubana organizzò i lager per i dissidenti e gli omosessuali. Questi ultimi furono da lui perseguitati in quanto tali: il “Che” non fu secondo nemmeno ai nazisti. Ecco un ritratto che Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, ha descritto del rivoluzionario. Con la fuga del dittatore Fulgencio Batista e la vittoria di Fidel Castro, nel 1959, il Comandante militare della rivoluzione, Ernesto “Che” Guevara, ricevette l’incarico provvisorio di Procuratore militare. Suo compito è far fuori le resistenze alla rivoluzione. Lasciamo subito la parola a Massimo Caprara (*), ex segretario particolare di Palmiro Togliatti: “Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: ai religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, agli omosessuali, perfino ad adolescenti e bambini”. Nel 1960 il procuratore militare Guevara illustra a Fidel e applica un “Piano generale del carcere”, definendone anche la specializzazione. Tra questi, ci sono quelli dedicati agli omosessuali in quanto tali, soprattutto attori, ballerini, artisti, anche se hanno partecipato alla rivoluzione. Pochi mesi dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale”, ossia di lavoro forzato. È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Poi, sempre quand’era ministro di Castro, approntò e riempì fino all’orlo quattro lager: oltre a Guanaha, dove trovarono la morte migliaia di avversari, quello di Arco Iris, di Nueva Vida (che spiritoso, il “Che”) e di Capitolo, nella zona di Palos, destinato ai bambini sotto ai dieci anni, figli degli oppositori a loro volta incarcerati e uccisi, per essere “rieducati” ai principi del comunismo. È sempre Guevara a decidere della vita e della morte; può graziare e condannare senza processo. “Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino – prosegue Caprara, sottolineando che Guevara sarebbe legato al giuramento d’Ippocrate – fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e “pericolosi” incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle “quadrillas” di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri”. Sono solo alcune delle sevizie da lui progettate, scrupolosamente applicate ai dissidenti e agli omosessuali. Il “Che” guiderà la stagione dei “terrorismo rosso” fino al 1962, quando l’incarico sarà assunto da altri, tra cui il fratello di Fidel, Raoul Castro. Sulla base del piano del carcere guevarista e delle sue indicazioni riguardo l’atroce trattamento, nacquero le Umap, Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione (vedi il dossier di Massimo Consoli in queste pagine), destinati in particolare agli omosessuali. Degli anni successivi, Caprara scrive: “Sono così organizzate le case di detenzione “Kilo 5,5″ a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite “tostadoras”, ossia tostapane, per il calore che emanano. La prigione “Kilo 7″ è frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di 40 prigionieri. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate “tapiades”, nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere “Tres Racios de Oriente” include celle soffocanti larghe appena un metro, alte 1.8 e lunghe 10 metri, chiamate “gavetas”. La prigione di Santiago “Nueva Vida” ospita 500 adolescenti da rieducare. Quella “Palos”, bambini di dieci anni; quella “Nueva Carceral de la Habana del Est” ospita omosessuali dichiarati o sospettati (in base a semplici delazioni, ndr). Ne parla il film su Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”, di Julian Schnabel uscito nel 2000″. Anni dopo alcuni dissidenti scappati negli Usa descriveranno le condizioni allucinanti riservate ai “corrigendi”, costretti a vivere in celle di 6 metri per 5 con 22 brandine sovrapposte, in tutto 42 persone in una cella. Il “Che” lavora con strategia rivolta al futuro Stato dittatoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, della Sicurezza dello Stato, parecchie migliaia di persone hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Il “Che”, soprannominato “il macellaio del carcere-mattatoio di “La Cabana”, si opporrà sempre con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei “criminali di guerra” (in realtà semplici oppositori politici) che pure veniva richiesta da diversi comunisti cubani. Fidel lo ringrazia pubblicamente con calore per la sua opera repressiva, generalizzando ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori. Secondo Amnesty International, più di 100.000 cubani sono stati nei campi di lavoro; sono state assassinate da parte del regime circa 17.000 mila persone (accertate), più dei desaparecidos del regime cileno di Pinochet, più o meno equivalente a quelli dei militari argentini. La figura del “Che” ricorda da vicino quella del dottor Mengele, il medico nazista che seviziava i prigionieri col pretesto degli esperimenti scientifici.

Da Che Guevara a Orlando, tutte le contraddizioni del mondo gay, scrive Adriano Scianca il 14 giugno 2016 su “Il Primato nazionale”. Il 14 giugno 1928 nasceva a Rosario, in Argentina, Ernesto Guevara de la Serna, destinato a passare alla storia, col nomignolo di Che, per l’apporto dato alla rivoluzione comunista cubana e per essere stato, dopo l’instaurazione del regime castrista, uno dei suoi principali esponenti. Di lui si è detto e scritto tutto. Non è neanche una novità sconvolgente quella per cui, nella visione guevarista dell’uomo nuovo, non ci fosse posto per l’omosessualità: che il Che sia stato l’artefice della creazione di veri e propri campi di concentramento per omosessuali, in cui finirono anche molti simpatizzanti per la rivoluzione, è cosa ben documentata. Eppure il brand guevarista va forte proprio in quei settori che vorrebbero fare l’esame del dna a chiunque sia anche solo in odore di “omofobia”. Beninteso, non vogliamo frettolosamente liquidare qui la rivoluzione cubana con un giudizio piccolo-borghese limitato ai suoi “crimini”, ma certo la contraddizione stride, e parecchio. Non è la sola, se restiamo in campo “lgbt”: al recente gay pride di Roma, per esempio, sono stati fotografati dei cartelli che inneggiavano al boicottaggio dei prodotti israeliani e alla libertà della Palestina. Ben fatto, la causa palestinese gode di tutta la nostra simpatia. Ma, anche qui, non si può non ragionare in punta di coerenza: Israele è uno Stato estremamente gay friendly, cosa che è difficile dire della controparte palestinese e del mondo musulmano in genere. È questo il motivo per cui, dopo la strage di Orlando, il pensiero dominante è andato in tilt: un musulmano, figlio di immigrati, che fa strage di gay. Come uscirne? Sel, in Italia, ha risolto la questione, dando la colpa al fascismo, ma questa è patologia psichiatrica e va lasciata quindi agli specialisti. Abbiamo detto del gay pride: non è forse quella una contraddizione ambulante? Uno sfoggio identitario per rivendicare diritti e uguaglianza. L’espressione di una sottocultura trasgressiva per reclamare l’accesso al perbenismo borghese. Un ostentato “siamo diversi da voi” per far capire alla gente “siamo uguali a voi”. Ora, questo micro-viaggio che parte da Che Guevara e arriva non a Madre Teresa, come la Chiesa immaginaria di Jovanotti, ma allo stragista di Orlando passando per i carri chiassosi del gay pride, cosa vorrebbe dimostrare? Nulla, se non che l’ortodossia politicamente corretta, che ha nelle rivendicazioni lgbt la sua punta di lancia più avanzata, è un sistema logico fallace e un sistema etico claudicante. E che la dittatura del pensiero unico è innanzitutto una dittatura del non pensiero. Adriano Scianca

Omofobia sinistra. Era il 1934 quando Klaus Mann, il figlio dello scrittore Thomas che ebbe una vita signorilmente intensa e signorilmente angosciata, scrisse un pamphlet contro la persecuzione dei “pederasti”. Persecuzione degli omosessuali da parte della sinistra. Sì, perché se oggi negli stereotipi c’è l’omofobia di destra e l’omofilia di sinistra, un tempo, e non fu molto tempo fa, c’era l’omofobia di sinistra e l’omofilia di destra. Klaus Mann denuncia “l’avversione nei confronti di tutto quanto è omoerotismo che nella maggior parte degli ambienti antifascisti e in quasi tutti gli ambienti socialisti raggiunge un livello intenso. Non siamo molto lontani dall’arrivare a identificare l’omosessualità con il fascismo. Su questo non è più possibile tacere”, scrive Giulio Meotti il 22 Luglio 2013 su “Il Foglio”. E ancora: “Come mai sui giornali antifascisti leggiamo parole come ‘assassini e pederasti’ abbinate quasi con la stessa frequenza con cui vengono abbinate sui fogli nazisti le parole ‘traditore del popolo ed ebreo’? La parola ‘pederasta’ viene usata come un’ingiuria”. Né in “Arcipelago Gulag” di Alexander Solzenicyn, né nei “Racconti della Kolyma” di Varlam Salamov, c’è una parola per raccontare la sorte degli omosessuali nei campi sovietici. Sono chiamati, semplicemente, “gli infamati”. In un’opera di divulgazione del commissariato sovietico di Pubblica sicurezza del 1923, intitolato “La vita sessuale della gioventù contemporanea”, si legge che l’omosessualità è “una forma di alienazione” che sarebbe scomparsa, naturalmente o meno, con l’avvento del comunismo. La morale sessuale della sinistra ha sempre oscillato fra la critica radicale delle istituzioni borghesi, a cominciare dal matrimonio, e quella delle “degenerazioni” del costume, segno della corruzione che veniva dalle classi dominanti e capitalistiche. Nel 1862 il proclama della “Giovane Russia” postulava l’abolizione del matrimonio “fenomeno altamente immorale e incompatibile con una completa eguaglianza dei sessi”. La critica di Engels (“Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”) indusse la prima generazione di rivoluzionari russi a considerare la famiglia come una “istituzione superata”. August Bebel scriveva che “il soddisfacimento dell’impulso sessuale è un affare privato di ciascuno proprio come il soddisfacimento di ogni altro impulso naturale”. Ma quando una militante bolscevica, nel 1915, stese un pamphlet favorevole al “libero amore”, Lenin rispose che questa era una concezione borghese, non proletaria. Parlando con Klara Zetkin, nel 1920, definì “completamente antimarxista e per di più antisociale la famosa teoria secondo cui, nella società comunista, la soddisfazione dell’istinto sociale e dell’amore è una cosa semplice e insignificante come bere un bicchier d’acqua”. Queste teorie e i conseguenti comportamenti si erano diffusi nella prima fase rivoluzionaria, negli ambienti intellettuali delle grandi metropoli, dominati dallo spirito dissacratore dei futuristi, che consideravano l’omosessualità solo un modo diverso di bere un bicchier d’acqua. A mano a mano che il potere sovietico si estese alle campagne, con la guerra civile e la Nep, la situazione mutò radicalmente. La famiglia tradizionale tornò a essere il modello e ogni “devianza” fu condannata.

Si cominciò con l’attacco di Bucharin alla diffusione fra i giovani di “gruppi decadenti e semiborghesi con nomi come Abbasso l’innocenza, Abbasso il pudore” e si finì con l’inserire nel codice penale la condanna ai lavori forzati per l’omosessualità. Gli intellettuali comunisti occidentali si adeguarono. Uno dei testi più noti di Bertolt Brecht, “Ballade vom 30 Juni”, presenta Hitler e Ernst Röhm come amanti di letto, usando l’accusa di omosessualità per screditare il nazionalsocialismo. Si arriverà, con il giornalista Georges Valensin, a dichiarare che nella Cina di Mao “l’omosessualità non esiste più” (l’Espresso, 20 novembre 1977).

Il Pcf si distinse nell’attacco a “intellettuali degenerati” come André Gide, l’autore di “Si le grain ne meurt”, l’autobiografia dove confessa come in una psicoterapia le “brutte abitudini” di bambino onanista all’Ecole Alsacienne o le crudeltà di adulto libertino inflitte alla madre. “Ce vieux Voltaire de la pédérastie”, scrisse di lui Ernst Jünger, che così sintetizzò il suo nichilismo scettico redento dall’eleganza dello stile. Gide l’alfiere dell’individualismo antiborghese, il custode del classicismo che disse “Je ne suis pas tapette, Monsieur, je suis pédéraste”. Ma anche il militante dell’antifascismo infatuato per breve tempo del comunismo e che, sontuosamente accolto nel 1936 a Mosca, ritornò in occidente per scrivere “Retour de l’Urss” e “Retouches à mon retour de l’Urss”, i libri in cui riferì quello che aveva visto realmente nella Russia staliniana. Divenne così “Gide, il traditore”, “il bieco reazionario”, “il servo dei padroni”, “il nemico della classe operaia”: questo il campionario di epiteti pubblicati a caratteri cubitali contro l’omosessuale antesignano. “Quelle sue calunnie, assurde e ignobili, contro il paese guida del comunismo internazionale, sono la bava avvelenata di un degno figlio della piccola borghesia, di un alleato dei nostalgici nazisti e delle camicie nere”, scrivevano i giornalisti dell’Humanité, il quotidiano del Partito comunista francese. E i loro colleghi della Pravda, organo del Partito comunista sovietico, rivolgendosi ai lettori militanti: “Sapete perché il signor Gide ce l’ha tanto con noi e con i nostri compagni? S’è indignato, poverino, ha provato un disgusto indicibile, quando si è accorto che i comunisti di Mosca non sono pederasti”.

Quando a Stoccolma, nel 1947, diedero al settantottenne Gide il premio Nobel per la Letteratura, Jean Kanapa arriverà a dire che dieci anni prima lo scrittore aveva provato disgusto per i bolscevichi “accorgendosi che essi non erano pederasti”. Nel 1949 Dominique Desanti lo descrisse vecchio di ottantun anni “con già sul viso la maschera della morte”, circondato da giovani ammiratori che avevano trovato nei suoi libri la stessa liberazione che altri trovavano a Place Pigalle. Nel coro di mostrificazione di Gide non mancherà la voce di Palmiro Togliatti, il segretario del Pci che sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, dal giorno del suo ritorno in Italia, nell’ottobre 1943, a quello della sua morte a Jalta, nell’agosto 1964, svolse il suo magistero culturale sulle pagine di Rinascita. Nel maggio 1950, scriverà a proposito di Gide: “Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti fra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e il terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente”.

Il 20 febbraio 1951, all’indomani della scomparsa di Gide, l’Humanité pubblicherà un necrologio intitolato “Un cadavere è morto”. E’ lo stesso Kanapa che nel 1947 riassunse la posizione ufficiale del Partito comunista francese in un saggio intitolato “L’esistenzialismo non è un umanesimo”, in cui si arriva a sostenere che “il significato sociale dell’esistenzialismo è la necessità attuale per la classe sfruttatrice di addormentare i suoi avversari” e che Jean-Paul Sartre era un “pederasta che corrompe la gioventù”. In Italia si seguì un doppio binario. Gli omosessuali non venivano ammessi nel partito e quando venivano scoperti, come nel caso famoso di Pier Paolo Pasolini, venivano espulsi in base alla norma sulla “condotta esemplare” contenuta nello statuto comunista. C’è ad esempio il caso di Pietro Secchia, sul quale cominciarono a circolare voci soltanto dopo che, morto Stalin e fuggito il suo più stretto collaboratore, fu esautorato dal suo ruolo di capo dell’Ufficio quadri, quello che vigilava sulla vita, anche privata, di “compagni e dirigenti”. Sul piano pseudoscientifico pesarono a lungo le teorie biologiche di Andrei Lissenko, che sosteneva una specie di superiorità razziale del proletariato nel quale “fenomeni di devianza”, come l’omosessualità, potevano sussistere solo come il risultato della contaminazione di altre classi. Nel Partito comunista, di omosessualità non si parlerà a lungo. Nel convegno del 1964 dedicato a “Famiglia e società nell’analisi marxista” si accenna polemicamente, lo fa Umberto Cerroni, “alle false alternative teoriche del ribellismo sessuale”, mentre la ricognizione della “esperienza sovietica” di Luciana Castellina arriva a criticare “gli eterodossi, gli innovatori” come sostenitori “del ritorno a una tematica crepuscolare, in difesa del privato e dei suoi tenui sentimenti”. Ancora nel 1979 Antonio Roasio, uno dei fondatori del Partito comunista a Livorno, non trovava di meglio che criticare l’Unità per “l’eccessivo rilievo” dato all’omosessualità in un numero del quotidiano e che “comunque la si giudichi, l’omosessualità non può essere considerata un aspetto della libertà sociale”.

C’è poi la storia, quella vera, del “Che”, Ernesto Guevara. Una storia che in pochi raccontano oggi e che le stesse associazioni omosessuali militanti hanno sempre nascosto. Con il passaggio di poteri da Batista a Castro, nel 1959, Guevara venne nominato procuratore militare con il compito di reprimere “gli oppositori della rivoluzione”. Nei tribunali finiscono per espressa volontà del Che molti religiosi, tra cui l’arcivescovo dell’Avana, e moltissimi “maricones”, gli omosessuali. Il Che realizza campi di lavori forzati ed elabora i regolamenti dentro le galere del regime, che fissano le punizioni corporali per i più facinorosi, come i lavori agricoli eseguiti nudi. Alcuni reduci racconteranno di “maricones” uccisi personalmente, con colpi di pistola alla tempia, dal leggendario guerrigliero. Perché nella Cuba comunista tanto amata in occidente, il castrismo ha perseguitato gli omosessuali chiamandoli “pinguero” (marchetta) e “bugarrón” (uno che cerca sesso spasmodicamente). E se nella Cuba di Batista i gay stavano male e basta, fu tra il 1965 e il 1968, dopo la rivoluzione, che ci fu il trionfo delle Unidades militares de ayuda a la producción, veri e propri lager con guardie armate e filo spinato. Ci finivano dal “poeta finocchio” all’“attore effeminato”, tutti in divisa blu, sottoposti a marce durissime, cibo scarso, ma anche “cure” con gli elettrodi attaccati ai genitali. Il comandante Ernesto Guevara fu lì uno degli aguzzini.

Granma, l’organo ufficiale del Partito comunista cubano, nell’aprile 1971 scriveva per esempio che “il carattere socialmente patologico delle deviazioni omosessuali va decisamente respinto e prevenuto fin dall’inizio. E’ stata condotta un’analisi profonda delle misure di prevenzione e di educazione da rendere efficaci contro i focolai esistenti, inclusi il controllo e la scoperta di casi isolati e i vari gradi di infiltrazione. Non si deve più tollerare che gli omosessuali notori abbiano una qualche influenza nella formazione della nostra gioventù. Siano applicate severe sanzioni contro coloro che corrompono la moralità dei minori, depravati recidivi e irrimediabili elementi antisociali, ecc.”. L’omosessualità è trattata alla stregua di un virus patogeno. Nel 1979 gli atti omosessuali vennero decriminalizzati a Cuba, ma i gay continuarono a venire accusati di essere “oppositori del regime”, sbattuti in galera senza processo, mandati a morte in quell’isola magnifica che descrive Claudio Abbado. Il quotidiano Juventud rebelde pubblica una foto di un impiccato, un “gusano”, un verme, e sui pantaloni c’è scritto “homosexual”. Nel 1984 Néstor Almendroz e Orlando Jiménez Leal producono il documentario “Cattiva condotta”, dove raccontano la persecuzione del regime castrista contro i gay. Racconta lo scrittore Guillermo Cabrera Infante: “La persecuzione degli omosessuali dei due sessi fu una persecuzione di dissidenti. Gli omosessuali deviano dalle norme borghesi. I comunisti sostengono le coppie convenzionali, il matrimonio… L’omosessualità minaccia tutto ciò, perciò gli stati totalitari la temono”. Ancora l’articolo 303 del codice penale del 30 aprile 1988 punisce chi “manifesti pubblicamente” la propria omosessualità con pene che variano tra i tre mesi a un anno di prigione o una multa che va da cento a trecento cuotas per coloro che “infastidiscono in modo persistente gli altri con proposte amorose omosessuali”. In occidente, dove oggi vige l’omofilia militante e avanza la censura antiomofoba, l’omosessualità è stata sempre una questione di emarginazione. Nell’emisfero comunista, e nel pensiero della sinistra europea, l’omosessualità era destinata a scomparire. Assieme ai froci. Una “soluzione finale” contemplata in un articolo che Maksim Gorkij, la bandiera degli scrittori sovietici, l’amico di Lenin, il padre del realismo socialista, pubblicò il 23 maggio 1934 contemporaneamente sulla Pravda e sull’Izvestia, sotto il titolo “Umanesimo proletario”: “Nei paesi fascisti, l’omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce impunemente; nel paese dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l’omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. Eliminate gli omosessuali e il fascismo scomparirà”.

Casapound "celebra" Che Guevara e Castro? Insorgono i Giovani Comunisti. CasaPound, organizzazione notoriamente di estrema destra celebra Fidel Castro e Che Guevara, vale a dire due "miti" dell'estrema sinistra? A denunciarlo sono i Giovani Comunisti che lamentano l'esproprio dei propri punti di riferimento, scrive il 4 giugno 2014 "Forlì Today". CasaPound, organizzazione notoriamente di estrema destra celebra Fidel Castro e Che Guevara, vale a dire due “miti” dell'estrema sinistra? A denunciarlo sono i Giovani Comunisti di Forlì, con una nota in cui lamentano l'esproprio dei propri punti di riferimento. Scrivono i Giovani Comunisti nel comunicato: “Come reso noto tramite la pagina Facebook dello “Spazio Barbanera”, l'associazione neofascista CasaPound Italia di Forlì ha organizzato, nella giornata del 7 giugno, l’ennesimo evento da inserire nel novero del mimetismo politico che quest’organizzazione suole utilizzare per le sue iniziative. Questa volta si tratta della celebrazione delle figure di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro, tramite la presentazione di un libro che collega tali personalità ad una cosiddetta “origine del nazionalismo rivoluzionario”. Come Giovani Comunisti di Forlì non possiamo esimerci dal contestare categoricamente tale evento e tali iniziative, dove spesso e incoerentemente si espropriano personalità appartenenti alla sinistra radicale e rivoluzionaria, le stesse che per tutta la vita hanno combattuto strenuamente il fascismo, in tutte le sue forme”. Precisano i Giovani Comunisti: “Ciò detto, riteniamo che questa nostra contestazione non sia strettamente vincolata e dovuta al senso di appartenenza che noi sentiamo nei confronti di Castro e Guevara, ma sia più urgentemente collegata al dovere di smascherare la vera natura di un’associazione dichiaratamente neofascista che, attraverso la promozione di eventi di questo tipo, produce disinformazione tra la società civile e permette un’ulteriore violazione della nostra cultura e della nostra identità. CasaPound, così come le altre forze xenofobe e reazionarie dell’estrema destra europea, critica il sistema finanziario che i poteri forti impongono alla nostra sovranità, utilizzando questi argomenti come strumento per catalizzare il malcontento della popolazione, cavalcando l’onda del disagio sociale per spostare a destra gli equilibri politici fino ad arrivare ad una vera e propria involuzione in senso autoritario delle istituzioni dello Stato. CasaPound e le destre sopracitate, ritengono di dover rovesciare questo sistema mediante le forme che, come ben sappiamo, hanno soppresso ogni libertà e pluralismo nel nostro continente e nel mondo intero”. Quindi tornano su Castro e Che Guevara: “In relazione ad esigenze di coerenza intellettuale e storica, risulta necessario chiarire pubblicamente l'inesattezza della presente espropriazione delle figure di Guevara e Castro. La Rivoluzione Cubana, così come anche altri tentativi rivoluzionari nei paesi dell'America Latina, non ha niente a che vedere con le nozioni tipiche di “nazionalismo” da cui derivano, invece, i regimi fascisti e nazisti del Novecento. Va precisato, inoltre, che per i rivoluzionari comunisti e socialisti del Sud del mondo, le parole “patria” oppure “indipendenza”, hanno assunto un significato non in senso ideologicamente nazionalistico - dove si concepisce la propria nazione come ente superiore alle altre nazioni e superiore a qualsiasi altro valore esistente - ma, al contrario, come viatici per i percorsi di indipendenza dei paesi colonizzati, che equivalgono proporzionalmente ai processi di liberazione delle nazioni del Sud del mondo dall'imperialismo, sia economico che politico, sistematicamente applicato da parte delle nazioni più avanzate su quei territori. Ed è proprio su questo versante che il fascismo è ulteriormente vulnerabile. Non a caso, l'imperialismo applicato a questi Paesi ha trovato nel fascismo uno strumento di forza per il consolidamento e la perpetuazione di questo sistema. Perciò, riteniamo che l'incoerenza logica che presenta l'esistenza stessa di CasaPound e, conseguentemente, l'irrazionalità assoluta degli eventi organizzati come quello del 7 giugno, trovino la loro spiegazione sempre nelle parole di Palmiro Togliatti che affermava che “non si può sapere ciò che è il fascismo se non si conosce cosa sia in realtà l'imperialismo”. Sempre nell’ambito dell’imperialismo, lo stesso Guevara affermava che “tutta la nostra azione è un grido di guerra contro l’imperialismo”, e sia la Storia italiana che la circostanza cubana pre-rivoluzionaria si configurano come esempi chiari e funzionali a questa specifica analisi. Quindi l'invito a non partecipare: “Ecco perché come Giovani Comunisti di Forlì invitiamo le cittadine e i cittadini tutti non solo a non partecipare a tali eventi. Inoltre, lanciamo nuovamente un appello alle autorità locali e alla popolazione per tentare di combattere queste associazioni facendo chiudere immediatamente le loro sedi. Giù le mani dalla Storia e dalla Rivoluzione Cubana”.

I neo comunisti? Poveri illusi ed ignoranti della storia.

Che Guevara: il mostro dietro il mito. Scritto da Julio Loredo nel marzo 2012. Personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie; favorevole a una guerra nucleare con gli Stati Uniti anche al prezzo di sterminare l’intera popolazione cubana; promotore dei campi di lavoro forzato per “rieducare” i giovani; acerrimo avversario della musica e delle mode moderne. Il vero Che Guevara è anni luce lontano dal mito propagandistico inventato dalla sinistra. La Rivoluzione, lo sappiamo, è largamente costruita sulla menzogna. Dalla presa della Bastiglia nel 1789 (in realtà consegnata dai difensori), al ladro di cavalli tramutato in “Eroe dei due mondi”, al sanguinario dittatore sovietico presentato come “good uncle Joe”. Mai, però, un’operazione di maquillage propagandistica è stata così inverosimile e incurante della realtà storica, come l’invenzione del mito di Ernesto “Che” Guevara, il medico argentino divenuto guerrigliero sotto l’egida di Fidel Castro. Dalla famosa foto dallo sguardo “idealista”, che lo ritrae invece in preda ad una crisi di asma, alla sua morte “eroica”, quando in realtà morì implorando clemenza, praticamente tutto del “Che” Guevara è propaganda. Recenti studi hanno cominciato a smontare, pezzo a pezzo, questo mito prediletto della sinistra. A battere l’ultimo chiodo sulla bara del Che due giovani giornalisti brasiliani, che hanno scritto una divertente quanto ben documentata «Guida politicamente scorretta dell’America Latina». Il primo capitolo, il più lungo, è dedicato proprio a Ernesto Rafael Guevara de la Serna, più noto come Che Guevara. Gli autori vi svelano “flagranti contraddizioni fra la sua vita e l’ammirazione che essa ispira”.

Una prima contraddizione è quella di usare l’immagine del Che come simbolo della libertà giovanile. Prima della rivoluzione, Cuba era una Mecca della cultura. Nel 1950 l’isola contava 1.700 scuole private e 22mila pubbliche, che le garantivano il più alto indice di scolarità nell’America Latina. Il 23% del bilancio era speso nell’educazione. Nel 95% delle abitazioni c’era una radio, attraverso cui ci si poteva sintonizzare su oltre 140 canali. Il Paese contava ben sette case discografiche, alcune multinazionali, 600 cinema e 15mila juke box. Gli artisti cubani erano star a Broadway, come le star americane erano di casa a La Havana. Le TV americane trasmettevano in diretta da Cuba, mentre grandi magazzini come Sears Roebuck si facevano pubblicità sui giornali dell’Isola. C’erano più turisti cubani negli USA che turisti americani a Cuba, serviti da ventotto voli giornalieri e quattro traghetti navetta. Tutto questo all’insegna d’una economia fiorente. Suona strano dirlo, ma gli investimenti cubani negli Stati Uniti, alla vigilia della rivoluzione, superavano il mezzo miliardo di dollari. Tutto finì nel 1959. La maggior parte degli artisti cubani fu costretta all’esilio, e impedito l’ingresso agli artisti stranieri. Le musiche e le mode americane ed europee furono proibite in quanto “imperialiste”. Si finiva in un campo di concentramento solo per il fatto di ascoltare rock ‘n roll a casa, oppure di indossare jeans o di utilizzare vocaboli anglosassoni. Iniziò la caccia nelle strade ai ragazzi “capelloni” e troppo “moderni”. Silvio Rodríguez, direttore dell’Instituto de Radio y Televisión de Cuba, fu indotto alle dimissioni per aver citato i Beatles. I cinema chiusero i battenti. A L’Havana ne restò solo uno. Il Che era il principale istigatore di questa repressione: “Ho giurato davanti al ritratto del vecchio compagno Stalin di non mollare fino a quando non avrò annientato questi polipi capitalisti”. Affermando che “per costruire il comunismo occorre creare l’uomo nuovo”, il Che ammetteva come unica musica permessa ai giovani “i cantici rivoluzionari”, ricordando loro che dovevano “concentrarsi sul lavoro, sullo studio e sul fucile (…) abituandosi a pensare e agire come una massa, seguendo le iniziative (…) dei nostri capi supremi”. Quanti giovani che pure indossano le magliette con il volto del Che sarebbero disposti a seguire un simile programma di vita?

Una seconda contraddizione è quella di presentare il Che come simbolo delle cause democratiche. Tutti sanno che, molto prima che i nazisti li trasformassero in lugubre marchio del loro regime, i campi di concentramento erano già molto diffusi nell’Unione Sovietica. Pochi, però, sanno che fu proprio Che Guevara a introdurli a Cuba. Il primo lager tropicale, personalmente creato dal Che, è il campo di lavori forzati di Guanahacabibes, destinato a “rieducare” le persone refrattarie alla rivoluzione. “A Guanahacabibes inviamo coloro che non devono stare in prigione, coloro che hanno commesso reati contro la morale rivoluzionaria, sia gravi che lievi” – affermava il Che in una riunione del Ministero dell’Industria nel 1962. Questo lager servì poi da modello per le Unidades Militares de Ayuda a la Producción (Umaps), che giunsero a contenere più di 30mila prigionieri. Leggiamo in un rapporto del 1967 della Commissione Interamericana dei Diritti Umani: “I giovani sono reclutati a forza dalla Polizia e rinchiusi in questi campi di lavoro, senza nessun tipo di processo giudiziario né diritto alla difesa. (...) Questo sistema svolge due funzioni: a) facilitare manodopera gratuita allo Stato; b) castigare i giovani che si rifiutano di partecipare alle organizzazioni comuniste”. Il Che fu, inoltre, il principale artefice della svolta comunista del regime di Fidel Castro. “Il Movimento 26 Luglio non era di per sé comunista — ricorda Huber Matos, rivoluzionario della prima ora e poi dissidente in esilio —Furono Fidel e il Che a condurre la rivoluzione per le vie del comunismo sovietico”.

Ed eccoci alla terza contraddizione: quella di presentare il Che come simbolo dell’idealismo e dell’amore, come talvolta succede anche in ambienti cattolici. La famosa immagine del Che che guarda “idealisticamente” verso l’infinito fu scattata da Alberto Korda, fotografo del regime, il 5 marzo 1960 nel corso di un memoriale per le vittime dell'esplosione della nave belga “La Coubre”, ma rimase sconosciuta fino al 1967. Fu l’editore Giangiacomo Feltrinelli a comprarne allora i diritti e a iniziarne la diffusione. L’effige fu utilizzata per la prima volta come simbolo rivoluzionario nel corso di una manifestazione di piazza a Milano nel novembre dello stesso anno. La foto del Che è stata trasformata in icona internazionale di pace, amore e idealismo, quasi alla stregua del Mahatma Gandhi e di Madre Teresa di Calcutta. Ma chi conosce il vero pensiero del guerrigliero castrista? Per rinfrescarci la memoria, i due autori brasiliani citano alcuni brani tratti dai suoi «Testi Politici»:

— “L’odio come fattore di lotta. L’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale”.

— “Amo l’odio, bisogna creare l’odio e l’intolleranza tra gli uomini, perché questo rende gli uomini freddi e selettivi e li trasforma in perfette macchine per uccidere”.

— “La via pacifica è da scordare e la violenza è inevitabile. Per la realizzazione di regimi socialisti dovranno scorrere fiumi di sangue nel segno della liberazione, anche a costo di vittime atomiche”.

Tale esaltazione dell’odio e della violenza non restava confinata al campo delle dichiarazioni idealistiche, ma veniva attuata in modo molto concreto. Il Che era favorevole a scatenare una guerra nucleare contro gli Stati Uniti, qualunque fossero i costi. Nel 1961 egli si recò in Unione Sovietica per firmare un accordo militare che prevedeva, tra l’altro, l’installazione di ogive nucleari sul suolo cubano, giustificando tale mossa con il proposito di lanciare qualche missile sugli Stati Uniti per provocarne la reazione. “Vorrei utilizzare tutti questi missili, puntati contro il cuore degli Stati Uniti, compresa New York”, dichiarava al London Daily Worker, giornale del Partito comunista inglese. Secondo il Che, la causa della Rivoluzione ben valeva il sacrificio della popolazione cubana: “Cuba è l’esempio tremendo di un popolo disposto all’auto-sacrificio nucleare, perché le sue ceneri possano servire da fondamento per una nuova società”. Bisogna sottolineare che l’accordo era ultrasegreto. Appena sei membri del Governo cubano ne erano a conoscenza. Il popolo cubano era in questo modo collocato a sua insaputa sull’altare sacrificale. Il popolo, non certo i dirigenti. In previsione del conflitto nucleare, Fidel e Raul Castro, insieme al compagno Che Guevara, presero contatto con l’Ambasciatore sovietico per ottenere asilo nel bunker antiatomico sotto l’ambasciata...In quest’ottica, la presenza di immagini del Che durante talune Marce per la Pace appare una tragica quanto beffarda ironia...Nel 1980, la fondazione Cuba Archive lanciò il progetto “Verità e Memoria”, allo scopo di raccogliere la documentazione sulle persecuzioni a Cuba. Dagli archivi risulta che, negli anni dal 1957 al 1959, cioè dalla guerriglia nella Sierra Maestra fino al primo anno di governo rivoluzionario, Ernesto Che Guevara è stato personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie, alcune eseguite da lui stesso. Fra le vittime c’erano colleghi guerriglieri non sufficientemente motivati, soldati e poliziotti, giovani e, soprattutto, oppositori politici. È tristemente noto, per esempio, il massacro di decine di civili nella città di Santa Clara, espugnata nel 1958 dalle truppe rivoluzionarie al comando di Che Guevara. Poi, come Procuratore del Tribunal Revolucionario di stanza al Forte La Cabaña, nel solo anno 1959, egli ordinò l’esecuzione di 104 dissidenti. Questo stando ai documenti scritti. I testimoni poi parlano di almeno 800 morti in quel periodo. “Non possiamo ritardare la sentenza —incitava il Che ai suoi collaboratori — Siamo in rivoluzione. Le prove sono secondarie”. Non possiamo, però, negarle al Che una certa coerenza nel suo delirio sanguinario. Già nel 1952, nel famoso «Diario dalla Motocicletta» — raccolta di annotazioni fatte nel corso di un viaggio in moto per l’America del Sud — egli scrisse: “Bagnerò la mia arma nel sangue e, pazzo di furore, taglierò la gola a qualsiasi nemico che mi capiti fra le mani. Sento le mie narici dilatarsi con l’acre odore della polvere da sparo e del sangue dei nemici morti”. Non possiamo nemmeno negargli una rozza franchezza. Dopo il suo famoso discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, il 12 dicembre 1964, egli dichiarò: “Fucilazioni? Certo! Noi abbiamo fucilato, fuciliamo, e continueremo a fucilare finché sarà necessario. La nostra lotta è fino alla morte!”. Via di questo passo, i due giovani giornalisti brasiliani vanno avanti per quasi cinquanta pagine, esibendo ben sessantanove fonti a corredo delle loro affermazioni. A questo punto, però, siamo autorizzati a domandarci: ma coloro che indossano le magliette del Che e, o appiccicano le sue immagini su muri, moto, macchine e qualsiasi superficie serva all’uopo sanno, o ignorano, tutte queste cose? Frivoli? Idioti utili? Giocattoli nelle mani della propaganda comunista? A voi la scelta…

Che Guevara in tv, quando la sconfitta si trasforma in leggenda, scrive il 10 ottobre 2017 "IL Corriere della Sera". La più grande immagine iconica del 900, la celebre foto di Alberto Korda, e, dopo, quella del corpo morto (simile al Cristo del Mantegna), è derivata da una sconfitta. Quasi per contrappasso, sul finire della puntata dedicata a Ernesto «Che» Guevara, Paolo Mieli obbliga Ernesto Galli della Loggia ad ascoltare la famosa canzone: «Aqui se queda la clara,/la entranãble trasparencia/de tu querida presencia,/comandante Che Guevara…» («Passato e presente», Rai3, 13.15 e Rai Storia, 20.30). Verso la metà degli anni 50, Guevara si trasferisce a Cuba e diventa il braccio destro di Fidel Castro. Insieme, guidano e vincono la rivoluzione cubana. Dopo il 1965, il «Che» abbandona l’isola per combattere altre battaglie per la liberazione dei popoli, prima nell’ex Congo Belga e poi in Bolivia. Il 9 ottobre 1967 viene ucciso per mano di un gruppo di militari boliviani assistiti dai ranger americani. Mieli ha chiesto al suo interlocutore, con l’aiuto di tre studenti, come sia nata la leggenda del «Che», come sia possibile che da una sconfitta sia derivata forse la più grande immagine iconica del 900. «Il Che era bello ed era una grande oratore e la sua morte è stata più importante della sua vita» ha risposto Galli della Loggia. Al «Che», instancabile comandante militare, capace di abbandonare le cariche politiche per non trasformarsi in un burocrate, bastavano poche, efficaci frase dirette per catturare i suoi ascoltatori, che trovavano dietro la sua figura carismatica grandi motivazioni e grande impegno. E infatti, dopo la celebre foto di Alberto Korda e dopo quella del corpo morto (simile al Cristo del Mantegna), l’immagine del «Che» è la più riprodotta nella storia della comunicazione. L’effige è rimasta nel tempo il simbolo «puro» della rivoluzione e della ribellione giovanile, nonostante sia stata raffigurata innumerevoli volte su poster, magliette e oggetti kitsch. La «bellezza della sconfitta» (da Ettore in poi) ha fatto in modo che il «Che» diventasse un’icona, cioè l’inserzione cioè di un frammento di eternità nel convulso racconto della nostra esistenza.

Cosa resta oggi del mito di Ernesto Guevara, scrive Jon Lee Anderson, Clarín, Argentina il 13 ottobre 2017 su "Internazionale". Il 9 ottobre 1967, quando i militari boliviani e gli agenti della Cia decisero di uccidere Ernesto “Che” Guevara de la Serna nel villaggio di La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz, erano convinti che la sua morte sarebbe stata la prova del fallimento dell’impresa comunista in America Latina. Non andò così. Contrariamente alle loro aspettative, la scomparsa di Guevara diventò il mito fondativo per le generazioni successive di rivoluzionari, che s’ispirarono al guerrigliero e cercarono d’imitarlo. “Come possono andare dietro a un fallito?”, è la domanda che si fanno sempre gli oppositori di Guevara, di Fidel Castro, della rivoluzione cubana e di tutti quelli che hanno cercato di promuovere una rivoluzione socialista in America Latina negli ultimi cinquant’anni. Escono dai gangheri quando vedono giovani di altri paesi, anche del più potente e capitalista del mondo, gli Stati Uniti, indossare magliette con il volto del Che e, peggio ancora, manifestare la loro simpatia per il “guerrigliero eroico”, com’è ricordato ufficialmente a Cuba. Non capiscono e non hanno mai capito che Guevara diventò un eroe per il modo in cui visse e, soprattutto, in cui morì. Poche altre figure pubbliche contemporanee hanno uguagliato il suo lascito, soprattutto in ambito socialista. Non ci sono magliette con il volto del leader sovietico Leonid Brežnev, dell’albanese Enver Hoxha o del cambogiano Pol Pot.

La faccia del Che è di per sé un marchio e il simbolo globale della ribellione pura. La creazione del mito di Guevara non è il semplice risultato di una campagna pubblicitaria alla Mad men. Se fosse così, anche “gli altri” avrebbero consolidato alcuni dei loro eroi nell’immaginario popolare, perché in fin dei conti furono loro a vincere la grande battaglia della guerra fredda. Ma dove sono le magliette con la faccia degli argentini Jorge Videla e Alfredo Astiz, o del dittatore cileno Augusto Pinochet? Per una serie di ragioni, tra cui l’essere coerente con i propri ideali e pronto a morire per quelle idee, buone o cattive che fossero, Guevara andò oltre la cerchia dei suoi seguaci e diventò il guerrigliero per antonomasia. Una metamorfosi che trasformò il suo innegabile fallimento in Bolivia in una fonte d’ispirazione. Il fatto che Guevara fosse giovane e bello quando morì ha alimentato la sua leggenda. E il fatto che il suo corpo senza vita ricordasse quello di Gesù facilitò la costruzione del mito postumo. Le idee di Guevara, espresse nel saggio Il socialismo e l’uomo a Cuba, probabilmente oggi sono molto meno note ai suoi giovani seguaci rispetto al celebre ritratto di Alberto Korda. La faccia del “Che” è di per sé un marchio e il simbolo globale di una sfida allo status quo, della ribellione pura, soprattutto giovanile, contro le ingiustizie. È il volto dell’indignazione contro un mondo pieno di disuguaglianze in cui – dicono il volto e l’eredità del guerrigliero – bisogna prendere posizione e, se serve, combattere fino alle estreme conseguenze. Ci sono pochi altri volti in grado di esprimere un messaggio simile. In parte è per questo che il mito di Guevara è ancora vivo. Si consolidò nell’epoca in cui la tv sostituiva la radio come mezzo di comunicazione di massa, e nascevano la cultura pop e quella del consumismo, in cui “sei quello che indossi” e non necessariamente quello che fai.

Un paradosso. Eccoci qui, cinquant’anni dopo, in un mondo in cui il brand è tutto: nel Regno Unito se porti vestiti Burberry sei quasi sicuramente un conservatore; negli Stati Uniti se guidi un’auto Subaru sei un elettore del Partito democratico, forse vegano o quantomeno attratto dal cibo biologico. La maglietta di Guevara dice che hai un atteggiamento di sfida nei confronti del mondo, che non comporta un impegno concreto ma presuppone una presa di posizione. C’è di più. In quest’epoca in cui tutti hanno uno smartphone e passano ore sui social network, Guevara rappresenta un paradosso: è il legame con un mondo reale passato, la dimostrazione concreta che due generazioni fa migliaia di uomini e donne, soprattutto giovani, fecero cose reali per esprimere il loro dissenso. Quella generazione forse ha fallito, ma oggi il suo sacrificio ha qualcosa di romantico. Negli ultimi anni alcuni rappresentanti della nuova generazione, chiamiamola generazione smartphone, si sono posti nuove domande su Guevara. Sono attratti dalla sua figura, ma sono preoccupati da tre cose: vogliono sapere se era omofobo, se era razzista e se è vero che fosse “un assassino”. Vent’anni fa quasi nessuno mi faceva domande simili, a riprova del fatto che la politica identitaria si è impossessata del dibattito pubblico, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa. Il cambiamento di prospettiva nei confronti della figura di Guevara m’interessa e mi preoccupa, per l’innocenza espressa da queste nuove inquietudini.

Guevara, per quanto fichi fossero il suo basco e la sua barba, era un guerrigliero. Non era un marchio o un attore. Guevara non era razzista né, che io sappia, omofobo. E se lo fosse stato? Il suo atteggiamento verso la sessualità o l’etnia sono gli elementi più importanti per decidere se ammirarlo o disprezzarlo? Cosa dovremmo pensare di Malcolm X? Lo ammiriamo per il suo coraggio contro il razzismo bianco o lo condanniamo per le sue espressioni di odio verso il “diavolo bianco”? Cosa dovremmo dire dell’epoca che precedette il suo impegno, quando era un delinquente e obbligava le donne a prostituirsi? La preoccupazione più grande espressa dai giovani è quella di “Guevara assassino”. È una domanda che mi è stata fatta molte volte e quindi ho dovuto spiegare che Guevara, per quanto fichi fossero il suo basco e la sua barba, era un guerrigliero. Non era un marchio o un attore che recitava la parte del combattente. Ho spiegato che in quel mondo reale i guerriglieri come lui combattevano davvero e avevano delle armi. Che uccisero, e a volte morirono, per le loro idee. Ho anche spiegato che, secondo me, c’è una differenza tra essere un “assassino” ed essere un guerrigliero. A prescindere da quello che penso io, è vero che Guevara processò e condannò a morte delle persone, sulla Sierra Maestra e all’Avana durante i processi sommari contro i sostenitori di Fulgencio Batista, dopo il trionfo della rivoluzione nel 1959. Che io sappia, le persone condannate a morte e fucilate sulla Sierra erano assassini, stupratori o traditori. I nemici catturati e uccisi all’Avana facevano parte degli squadroni della morte dei servizi segreti di Batista o erano militari che avevano compiuto atti feroci. Che i giovani lo accettino o meno, la dissonanza cognitiva che alcuni di loro vivono nei confronti di un’icona della cultura pop mi sembra indicativa e dimostra che ogni generazione impone le sue definizioni alle figure storiche.

Cosa dobbiamo pensare di Guevara oggi, in un mondo in cui gli Stati Uniti sono mal governati da un miliardario razzista e incompetente come Donald Trump, l’Unione Sovietica non esiste più, ma c’è Vladimir Putin che è a capo di una Russia ultranazionalista, autoritaria ed estremamente corrotta? La Cina non è più il paese di Mao Zedong e ancora meno quella dei battaglioni di contadini e lavoratori, che Guevara ammirava molto. È un paese che vive un capitalismo sfrenato. Gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda, o almeno la battaglia economica. Ventisei anni dopo il crollo del comunismo, i paesi in cui ci furono guerriglie ispirate da Guevara oggi sono quasi tutti capitalistici. In America Latina le eccezioni sono il Venezuela e Cuba, che ancora ostentano il loro socialismo. In Nicaragua c’è il vecchio sandinista Daniel Ortega, che di rivoluzionario ha molto poco. Invece di nascondersi sulle montagne dei loro paesi per inseguire un ideale rivoluzionario, oggi le nuove generazioni di poveri ed emarginati latinoamericani emigrano verso nord per fare il lavoro sporco al posto degli statunitensi. Altri entrano nelle gang criminali. La criminalità organizzata e il narcotraffico sono cresciuti fino a dominare interi territori dell’emisfero. Le battaglie si combattono per questioni di denaro e non più per seguire l’ideale di “un mondo migliore”. In Bolivia, dove fu ucciso Guevara, al governo c’è Evo Morales, che è non solo il primo indigeno eletto presidente in cinquecento anni, in un paese a maggioranza indigena, ma anche un fervente ammiratore del guerrigliero argentino. E nell’anniversario dell’ultima battaglia di Guevara, che per i suoi sostenitori è l’8 ottobre (non il giorno della sua morte, il 9 ottobre), Morales ha dato il via alle celebrazioni per onorare il guerrigliero. Forse in questi cinquant’anni qualcosa è davvero cambiato grazie alla presenza di Ernesto “Che” Guevara in America Latina. (Traduzione di Francesca Rossetti)

Chi era “Che” Guevara? Mini storia di Ernesto Guevara (1928-1967), scrive il 9 ottobre 2017 Roberto Graziosi su Focus, il medico di origine argentina che, divenuto amico di Fidel Castro, partecipò alla rivoluzione cubana contro il dittatore Batista e che morì esattamente 50 anni fa. Ernesto Guevara, detto “il Che”, nacque in Argentina nel 1928 e morì in Bolivia il 9 ottobre del 1967. Le sue spoglie furono traslate a Cuba nel 1997. «Tutti noi che conosciamo il Che sappiamo che non c’è modo di catturarlo vivo, a meno che non sia incosciente, a meno che non sia messo completamente fuori combattimento da qualche ferita, a meno che non gli si rompa l’arma, infine a meno che non abbia nessuna possibilità di evitare di finire prigioniero togliendosi la vita [...]. Arrivati a questo punto la discussione o i dubbi che possono sussistere non si riferiscono più al fatto della morte in sé [...] quanto al modo in cui la morte è avvenuta». Così l’allora primo ministro cubano Fidel Castro dava, il 15 ottobre 1967, la conferma della morte del rivoluzionario (e compagno di lotta) Ernesto “Che” Guevara. Fu con queste parole che il líder máximo raccontò la fine dell’eroe della rivoluzione cubana. Le stesse che, insieme a numerosi altri documenti, sono riportate nel libro firmato dallo stesso Castro, Io e il Che (Mondadori). Il discorso che pronunciò alla televisione di Stato poneva fine al rincorrersi di voci. Da poco meno di una settimana, infatti, dalla Bolivia, il Paese dove il Che si trovava da circa un anno per addestrare i guerriglieri locali, giungevano notizie preoccupanti sulla sua cattura e ferimento in un’imboscata delle truppe governative. Col passare dei giorni, nuove informazioni e alcune foto giunte a Cuba non lasciarono dubbi: il Che era morto, Castro ne diede notizia al Paese e proclamò tre giorni di lutto. IL PRIMO INCONTRO. Ma chi era Guevara Guevara detto "il Che"? Lo spiega Fidel nel suo libro, il racconto di «un’amicizia che ha cambiato il mondo». Dopo la laurea in medicina, nel 1953 l’argentino Ernesto Guevara aveva intrapreso un viaggio attraverso diversi Paesi dell’America Latina. «Anche se non militava in alcun partito, in quell’epoca aveva già idee marxiste» scrive Castro. Mentre si trovava in Guatemala ci fu «l’invasione di quel Paese diretta dalla Cia [...]. I cubani, insieme ad altri latinoamericani che si trovavano lì, furono costretti a lasciare il Paese e si trasferirono in Messico. Alcune settimane dopo arrivammo noi [...] e in calle Emparán (a Città del Messico, ndr) incontrammo il Che. Ci conoscemmo lì». Guevara aderì al movimento rivoluzionario per abbattere il dittatore cubano Fulgencio Batista. Dopo la fuga del despota, all’inizio del 1959, Castro prese il potere a Cuba. E il Che? «Negli anni in cui servì la patria non conobbe un giorno di riposo. Furono molte le responsabilità che gli vennero affidate: presidente della Banca nazionale, direttore della Giunta di pianificazione, ministro dell’Industria, comandante di distretti militari». Del governo di Fidel Castro, Guevara divenne ministro dell’economia nel 1961. Ma al Che premeva soprattutto diffondere negli altri Paesi gli ideali della rivoluzione, tra i quali la riforma agraria, con la quale distribuire la terra a tutta la popolazione togliendola dalle mani di pochi latifondisti, e la nazionalizzazione di tutte le industrie. Guevara lasciò quindi Cuba e partecipò alle rivolte del Congo e della Bolivia. Qui venne catturato dalle forze governative e ucciso. Soltanto dopo molti anni il governo boliviano ha indicato il luogo nel quale il corpo del Che fu sepolto. IL NOME: UN SIMBOLO. Sull’origine di quel soprannome Fidel scrive: «All’inizio era Ernesto. Da argentino aveva l’abitudine di rivolgersi agli altri con la locuzione che, e così iniziammo a chiamarlo noi cubani.

Ernesto Che Guevara. Biografia on line, Hasta la victoria. Figlio della piccola borghesia agiata, Ernesto "Che" Guevara de la Serna, (il nomignolo "Che" gli venne affibbiato per la sua abitudine a pronunciare questa breve parola, una specie di "cioè", in mezzo ad ogni discorso), nasce il 14 giugno 1928 a Rosario de la Fe, in Argentina. Il padre Ernesto è ingegnere civile, la madre Celia una donna colta, grande lettrice, appassionata soprattutto di autori francesi. Sofferente di asma fin da bambino, nel 1932 la famiglia Guevara si trasferisce vicino a Cordoba per consiglio del medico che prescrive per il piccolo Che un clima più secco (ma in seguito, fattosi più grandicello, la malattia non gli impedirà di praticare molto sport). Studia con l'aiuto della madre, che avrà un ruolo determinante nella sua formazione umana e politica. Nel 1936-1939 segue con passione le vicende della guerra civile spagnola, per la quale i genitori si sono impegnati attivamente. A partire dal 1944 le condizioni economiche della famiglia peggiorano, ed Ernesto comincia a lavorare più o meno saltuariamente. Legge moltissimo, senza impegnarsi troppo nello studio scolastico, che lo interessa solo in parte. Si iscrive alla facoltà di Medicina e approfondisce le sue conoscenze lavorando gratuitamente all'istituto di ricerche sulle allergie, a Buenos Aires (dove la famiglia si è trasferita nel 1945). Con l'amico Alberto Granados, nel 1951, parte per il suo primo viaggio in America Latina. Visitano il Cile, il Perù, la Colombia e il Venezuela. A questo punto i due si lasciano, ma Ernesto promette ad Alberto, che lavora in un lebbrosario, di rincontrarsi appena finiti gli studi. Ernesto Guevara nel 1953 si laurea, riparte per mantenere la promessa fatta a Granados. Come mezzo di trasporto usa il treno sul quale a La Paz incontra Ricardo Rojo, un esule Argentino, insieme al quale comincia a studiare il processo rivoluzionario che è in corso nel paese. A questo punto decide di rimandare la sua carriera medica. L'anno successivo il Che giunge a Città di Guatemala dopo un viaggio avventuroso, con tappe a Guajaquil (Ecuador), Panama e San Josè de Costa Rica. Frequenta l'ambiente dei rivoluzionari che sono affluiti in Guatemala da tutta l'America Latina. Conosce una giovane peruviana, Hilda Gadea, che diventerà sua moglie. Il 17 giugno, al momento dell'invasione del Guatemala da parte delle forze mercenarie pagate dall'United Fruit, Guevara tenta di organizzare una resistenza popolare, ma nessuno gli dà ascolto. Il 9 luglio 1955, intorno alle ventidue, al numero 49 di via Emperàn a Città del Messico, nella casa della cubana Maria Antonia Sanchez, Ernesto Che Guevara incontra una figura decisiva per il suo futuro, Fidel Castro. Fra i due scatta subito una forte intesa politica e umana, tanto che si parla di un loro colloquio durato tutta la notte senza alcun dissenso. Oggetto della discussione sarebbe stata l'analisi del continente sudamericano sfruttato dal nemico yankee. All'alba, Fidel propone ad Ernesto di prendere parte alla spedizione per liberare Cuba dal "tiranno" Fulgencio Batista. Ormai esuli politici, partecipano entrambi allo sbarco a Cuba nel novembre 1956. Fiero guerriero dall'animo indomito, il Che si rivela abile stratega e combattente impeccabile. A fianco di una personalità forte come quella di Castro ne assume le direttive teoriche più importanti, assumendo l'incarico della ricostruzione economica di Cuba in qualità di direttore del Banco Nacional e di ministro dell'Industria (1959). Non completamente soddisfatto dei risultati della rivoluzione cubana, però, avverso ad una burocrazia che si andava sclerotizzando malgrado le riforme rivoluzionarie, irrequieto per natura, abbandona Cuba e si avvicina al mondo afro-asiatico, recandosi nel 1964 ad Algeri, in altri paesi africani, in Asia e a Pechino. Nel 1967, coerente con i suoi ideali, riparte per un'altra rivoluzione, quella boliviana, dove, in quell'impossibile terreno, viene tratto in agguato e ucciso dalle forze governative. Non si conosce la data esatta della sua morte, ma sembra ormai accertato con buona approssimazione che il Che sia stato assassinato il 9 ottobre di quell'anno. Diventato in seguito un vero e proprio mito laico, un martire dei "giusti ideali", Guevara ha indubbiamente rappresentato per i giovani della sinistra europea (e non solo) un simbolo dell'impegno politico rivoluzionario, talvolta svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.

Che Guevara, 50 anni fa la morte – La rabbia dei veterani boliviani contro le celebrazioni: “Omaggio alla violenza”. I soldati che mezzo secolo fa lo catturarono e uccisero hanno deciso di disertare i cinque giorni di celebrazioni organizzati dal presidente boliviano, Evo Morales, scegliendo invece di farne una propria, per rendere onore ai soldati che morirono nei combattimenti del 1967, scrive Adele Lapertosa il 9 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Se tutto il mondo ricorda il 50° anniversario della morte di Ernesto Che Guevara, avvenuta in Bolivia il 9 ottobre, e Cuba, Argentina e Bolivia hanno deciso di celebrarlo, c’è qualcuno a cui questo omaggio proprio non va giù. Sono i veterani boliviani, i soldati che mezzo secolo fa lo catturarono e uccisero. Per loro “rendere omaggio a Che Guevara significa rendere omaggio al comunismo, alle idee di violenza, lotta e morte che questa ideologia ha disseminato ovunque”. È per questo che hanno deciso di disertare i cinque giorni di celebrazioni organizzati dal presidente boliviano, Evo Morales, scegliendo invece di farne una propria, per rendere onore ai soldati che morirono nei combattimenti del 1967. Morales, che più volte ha manifestato la sua ammirazione per il Che e la sua lotta fino alla fine contro un governo corrotto, ha fatto le cose in grande, organizzando dal 5 al 9 ottobre a Vallegrande, la città nel sud-est del paese dove furono esibiti i resti di Guevara dopo la sua esecuzione, l’Incontro mondiale per i 50 anni della presenza di Guevara in Bolivia, a cui partecipano anche i vicepresidenti di Cuba e Venezuela e i quattro figli del Che. Ma una parte dei militari, che furono coinvolti sul campo della lotta contro i guerriglieri guidati da Guevara, hanno annunciato chiaramente che non ci saranno. Come il generale ormai in pensione, Gary Prado, che quell’8 ottobre di 50 anni fa era al comando della compagnia che catturò il medico argentino: “Lo faremo per conto nostro, visto che il governo è occupato a far arrivare persone e pagargli il viaggio fino a Vallegrande”. E anche Mario Moreira, presente della Confederazione nazionale dei benemeriti della Campagna controguerrigliera di Ñancahuazú (la zona montuosa vicino a Vallegrande, dove ci fu la guerriglia) ha sottolineato come “solo i difensori della patria meritino omaggi. L’unica celebrazione che si deve fare è a chi come noi ha difeso la patria”. Ecco perché il 6, 8 e 10 ottobre, in tre diverse città della Bolivia (Vallegrande, La Paz e Santa Cruz), i 350 exmilitari sopravvissuti a quei giorni renderanno omaggio ai loro 59 camerati caduti in combattimento. In tutti questi anni gli ex militari boliviani hanno ricevuto l’omaggio dei diversi governi che si sono avvicendati per le operazioni del 1967, ma con l’arrivo di Evo Morales alla presidenza, nel 2006, le cose sono cambiate, e le celebrazioni sono sempre state per il Che e i suoi guerriglieri. La polemica è iniziata dopo che l’annuncio da parte di alti funzionari del governo boliviano del possibile arrivo in quest’occasione di Pombo (Harry Villegas) e Urbano (Leonardo Tamayo), due ex guerriglieri cubani che lottarono insieme a Ernesto Guevara, per riunirsi con i veterani boliviani che combatterono in quei giorni per “sanare le ferite”. Idea bocciata dai diretti interessati. Moreira ha detto infatti che fare la pace con i nemici di un tempo “è fuori luogo”. Pur rispettando le idee politiche delle attuali autorità, per senso civico e patriottico non è d’accordo sul ruolo che Guevara e i suoi seguaci ebbero nel paese. “Nessuno ha il diritto di venire a uccidere per la pretesa di un ideale che non misero mai in pratica. Nella realtà sono venuti a invaderci, senza dirci neppure la loro proposta, causando lutti e dolori”, ha aggiunto Moreira. C’è la volontà di tendere la mano agli ex guerriglieri cubani, ma non all’interno di un omaggio a Guevara, perché questo va reso a “chi se lo merita”, ha concluso. Morales non si è scomposto più di tanto, ma si è detto fiducioso che alla fine le Forze Armate parteciperanno alle celebrazioni. “Non ho parlato con loro, ma sicuramente saranno al mio fianco”, ha detto. E intanto la settimana scorsa il governo boliviano ha approvato un decreto che conferisce “carattere di ufficialità” agli atti commemorativi per la morte del Che, dando il compito ai ministeri dello Stato di organizzarli.

L’uomo che catturò il Che: «Fidel lo spedì in Bolivia per sbarazzarsene», scrive Clare Hargreaves il 9 ottobre 2017 su “Il Sole 24 ore".  L’8 ottobre 1967, Ernesto «Che» Guevara venne catturato in Bolivia. Uno dei protagonisti della rivoluzione cubana del 1959 era venuto in Bolivia nella speranza di trasformarla in uno dei «tanti Vietnam» che aveva invocato nel 1966 nel suo «Messaggio alla Tricontinentale». I resoconti degli eventi che hanno circondato la morte del Che divergono, e alcuni dettagli sono contestati ancora oggi. Cinquant’anni dopo Gary Prado Salmón, l’uomo che catturò il rivoluzionario argentino, rievoca le ultime ore del leader guerrigliero in Bolivia. «L’8 ottobre, i miei soldati stavano controllando il sentiero che portava fuori dalla gola dello Yuro, un’area ricoperta di una fitta boscaglia, con rocce e alberi. All’una circa li sentii gridare che avevano fatto due prigionieri. Salii su di corsa per venti metri e chiesi a uno dei prigionieri di identificarsi. “Che Guevara”, mi disse. L’altro era “Willy” [Simeón Cuba Sarabia, un altro guerrigliero, ndr]. Giravano voci confuse sulla presenza di tre o quattro possibili “Che Guevara” in giro per la regione, perciò era essenziale verificare la sua identità. Chiesi al Che di mostrarmi la mano destra, perché, secondo le informazioni di cui disponevamo, aveva una cicatrice sul dorso. La cicatrice effettivamente c’era. Non assomigliava molto alle foto che avevamo di lui. Aveva un aspetto derelitto, sporco, puzzolente e spossato. Era alla macchia da mesi. I capelli erano lunghi, inzaccherati e arruffati; la barba era ispida. Sopra l’uniforme indossava una giacca blu senza bottoni. Il berretto nero era lurido. Non aveva scarpe ai piedi, solo brandelli di pelli di animali, e indossava calzini spaiati, uno blu e uno rosso. Sembrava uno di quei senzatetto che si vedono mendicare nelle città spingendo un carrello del supermercato. Notai che si portava dietro un tegame di alluminio con dentro sei uova, segno che aveva avuto contatti con la gente del posto. Il Che era stato ferito al polpaccio destro mentre cercava di sfuggire alla cattura correndo giù per la gola. Avevo fatto sistemare una mitragliatrice per coprire la zona, più un mortaio di 60 millimetri a supporto. I miei soldati avevano aperto il fuoco contro il Che, lo avevano ferito al polpaccio, gli avevano fatto un buco nel berretto e avevano spezzato la carabina M2 che portava con sé.

Il guerrigliero depresso. Il Che era depresso, completamente demoralizzato. Vedeva avvicinarsi la fine. Cinque dei suoi erano stati uccisi, e non ne era contento. Mi vide che chiamavo altri uomini per mettere in sicurezza l’area e disse: “Non si preoccupi, capitano, questa è la fine. È finita”. Io dissi: “Forse è finita per lei, e lei ora sarà anche prigioniero, ma ci sono ancora dei combattenti validi nella gola”. Mi chiese un po’ d’acqua. Aveva una borraccia, ma temevo che potesse avere un qualche veleno e cercare di uccidersi, perciò gli diedi quella della mia borraccia, e anche qualche sigaretta. Confiscai tutto quello che aveva nelle tasche e nello zaino, fra cui un po’ di soldi e i suoi diari. Il Che era totalmente rassegnato e non oppose resistenza. Aveva una pistola, ma era priva di caricatore, quindi sostanzialmente era disarmato. Aveva anche due Rolex, uno al polso e uno in tasca: il secondo, a quanto mi disse, era di “Tuma”, un guerrigliero morto un paio di mesi prima. Disse che tutto il gruppo di cubani aveva ricevuto gli orologi come regalo d’addio da Fidel Castro. Alle cinque del pomeriggio cominciava a far buio, perciò decisi di mettere fine all’operazione e riportare tutti i miei morti, feriti e prigionieri a La Higuera, a due chilometri di distanza, e trascorrere la notte lì. La Higuera era un paesino di una ventina di case di mattoni con il tetto di paglia, abitato da contadini poveri che sopravvivevano coltivando i loro appezzamenti di terra intorno al villaggio.

I miei soldati aiutavano il Che a camminare, essendo ferito al polpaccio. Mentre marciavamo, mi disse: “Vi sono più utile da vivo che da morto”. I contadini del posto ci aiutarono a portare tutti a La Higuera: erano ben felici di aiutarci a combattere i guerriglieri, che guardavano con diffidenza perché credevano che stessero cercando di invadere il loro Paese.

Passammo la notte nella minuscola scuola del villaggio. In una stanza mettemmo Willy e i cadaveri e nell’altra il Che, con uno dei miei ufficiali che lo sorvegliava, a turni di due ore. Servimmo ai due prigionieri un pasto a base di carne, patate e riso, più caffè e sigarette. Quella notte non dormii, perché dovevo sorvegliare il villaggio e i prigionieri. Durante la notte conversai con il Che sette o otto volte, e dopo due o tre chiacchierate sembrò riacquistare un po’ d’animo, come se fosse interessato a quello che lo aspettava. Recuperò un po’ della sua personalità.

Quell’ordine venuto da Cuba. Tutti e due cercavamo di capire la situazione. Gli chiesi: “Perché è venuto in Bolivia? Una delle cose che dice nei suoi libri sulla guerriglia è che se un Paese ha un Governo democratico, anche se con qualche problema, è molto difficile fomentare una rivoluzione lì”. (In Bolivia avevamo un Governo democratico – il presidente René Barrientos era stato eletto un anno prima – e avevamo un Parlamento, libertà di stampa e tutto il resto.) Lui non rispose, perciò gli chiesi di nuovo: “Perché è venuto qui?”. Lui disse: “Non è stata solo una decisione mia, è stata una decisione presa ad altri livelli”.

“Quali livelli? Fidel?”, gli chiesi.

“Altri livelli”, rispose lui, e non ne parlammo più. Era chiaro che l’ordine era venuto da Cuba.

Gli chiesi se aveva sentito parlare della rivoluzione nazionalista che avevamo avuto in Bolivia nel 1952, e lui disse: “Sì, ero qui”. Allora gli chiesi: “Perché è venuto qui a offrire terra alla gente quando avevamo già avuto una riforma agraria molto ampia? Per questo nessun contadino si è unito al vostro movimento”. Lui rispose: “Sì, ci siamo sbagliati su questo, avevamo informazioni sbagliate”.

Il Che venne in Bolivia perché non aveva nessun altro posto dove andare. Dopo il suo insuccesso in Africa [non era riuscito a portare la “guerra rivoluzionaria” in Congo], era andato a Praga. Stava cercando di ricucire i rapporti con Fidel, ma aveva rinunciato alla nazionalità cubana e alla sua posizione di comandante dell’esercito cubano. Non poteva tornare a Cuba, perciò tornò alla guerriglia. Parlò con Castro, e fu in quel momento che decisero di puntare sul Sudamerica. Ma secondo me fu semplicemente la soluzione che trovò Fidel per sbarazzarsi di lui, perché a Cuba non gli serviva a nulla. Il Che era un problema per lui, per Cuba e per il Partito comunista cubano, perché sosteneva un’azione rivoluzionaria in una fase in cui Fidel aveva concordato un altro approccio con l’Unione Sovietica. Le due superpotenze si erano accordate sul principio di una coesistenza pacifica e avevano stabilito di non aiutare movimenti guerriglieri in America Latina. Insomma, il Che era un problema e il modo migliore per liberarsi di lui era spedirlo alla ventura in Bolivia senza fornirgli alcun supporto. Una volta arrivato qui, il Che non ricevette il minimo aiuto da Cuba: nessun uomo, nessun contatto, nulla. Mi disse che avevano perso qualsiasi comunicazione [con Cuba] quando avevano lasciato il loro campo base nel Sudest della Bolivia, dopo che l’esercito se ne era impadronito, quindi erano completamente isolati.

Il «processo» mancato. Il Che era chiaramente preoccupato per quello che lo aspettava. Gli dissi che sarebbe stato processato da un tribunale militare, perché in quel momento [il giornalista francese] Régis Debray e altri stranieri erano sotto processo di fronte a una corte marziale a Camiri per aver fatto parte del gruppo rivoluzionario del Che, e davo per scontato che volessero fare la stessa cosa con lui. Cominciammo a parlare di come sarebbe stato il suo processo. Quello di Debray aveva attirato una grande attenzione mediatica, era diventato una sorta di spettacolo, e il Che ne aveva sentito parlare ascoltando la radio boliviana, perciò probabilmente pensava che un processo sarebbe stato una buona opportunità per lui. Parlammo anche della rivoluzione cubana. Tutti e due cercavamo di capire che cosa pensava l’altro. “Lei è stato addestrato dagli americani”, disse lui. “Sì”, risposi, “e lei è stato addestrato dai russi, perciò siamo tutti e due burattini nelle mani delle superpotenze, e dobbiamo trovare la nostra strada”. Mi diede ragione. Durante la notte guardai i diari del Che e gli feci delle domande su alcune delle cose che diceva lì dentro. Poco dopo mi disse che i miei soldati gli avevano preso i Rolex, perciò li chiamai e ordinai di restituirglieli. Glieli diedi, ma lui mi disse: “Domani un altro soldato me li prenderà: li tenga lei per me”. Prese un sassolino da terra e incise una croce sul retro di uno degli orologi. “Questo è il mio”, mi disse porgendomelo. Dopo la morte del Che lo portai al comandante del mio battaglione, ma lui mi disse di tenermelo. Lo conservai fino al 1985, quando in Bolivia venne ristabilita la democrazia e riallacciammo i rapporti diplomatici con Cuba: lo inviai alla sua famiglia attraverso l’ambasciata cubana. All’alba, il comandante dell’ottava divisione, colonnello [Joaquín] Zenteno, arrivò in elicottero da Vallegrande, il capoluogo della provincia 60 chilometri più a nord. Gli feci un rapporto sulla situazione e gli consegnai i prigionieri, compreso il Che, che era calmo e tranquillo. Zenteno era accompagnato dall’agente della Cia Félix Rodríguez.

L’ordine della fucilazione. Lasciai La Higuera e tornai nella gola dello Yuro con truppe fresche, per cercare di catturare il resto del gruppo (ce n’erano ancora cinque nell’area). Quando tornai al villaggio, a mezzogiorno circa, con altri due guerriglieri catturati, trovai il Che morto: il comandante del mio battaglione, il maggiore Ayoroa, mi disse che era stato giustiziato. Il comandante di divisione era ripartito per Vallegrande, ma aveva lasciato istruzioni di mandare il cadavere del Che via elicottero. Perciò, all’una e mezza circa, assicurammo la sua barella ai pattini di un elicottero e quella fu l’ultima volta che lo vidi. L’uomo che sparò al Che, il sottufficiale Mario Terán, più tardi mi raccontò che cos’era successo. Dopo che dal presidente e dall’alto comando delle forze armate era arrivato l’ordine di uccidere il Che, il colonnello Zenteno aveva chiesto volontari fra i sottufficiali – ce n’erano sette – presenti in quel momento [alcuni dei tanti resoconti contrastanti affermano che Prado fosse presente nel momento in cui arrivò l’ordine: lui lo nega recisamente.] Contrariamente al mito che nessuno volesse premere il grilletto, tutti i soldati si offrirono volontari, così Zenteno ne selezionò due a caso, dicendo: “Bene, tu fai quella stanza [dov’era il Che] e tu fai quella [dov’era Willy]”. I due entrarono e fecero fuoco con le loro carabine M2. Successe molto in fretta. Da quello che mi raccontò Terán, il Che morì al primo colpo. Non ci fu nessun discorso, nessun addio, nulla. Quando il corpo del Che arrivò a Vallegrande, fu lavato e ripulito nell’ospedale, secondo le istruzioni dell’esercito. I militari volevano che assomigliasse al Che Guevara che la gente conosceva: se aveste visto il Che con l’aspetto che aveva quando venne catturato, non lo avreste riconosciuto. C’erano altri cadaveri sul pavimento, ma nessuno di loro venne ripulito o altro: il Che fu l’unico che ricevette questo trattamento, perché era importante dimostrare che fosse il vero Che Guevara. Poi lo stesero su un lastrone di cemento nella piccola lavanderia che stava dietro all’ospedale e una trentina di fotoreporter di ogni parte del mondo furono invitati a scattare foto del corpo steso sul cemento. Era importante per il Governo e l’esercito mostrare il cadavere del Che, come ammonimento a chiunque intendesse invadere o minacciare il modo di vivere dei boliviani in futuro.

Il riconoscimento del cadavere. Per dimostrare l’identità del Che ci servivano le impronte digitali e documenti scritti a mano da lui, perciò il Governo boliviano chiese a quello argentino [il Che era nato laggiù] di inviare dei reperti. L’Argentina mandò due esperti della polizia, che portarono le impronte digitali contenute nel suo passaporto del 1952 ed esempi della sua scrittura. I trasporti erano lenti a quei tempi e impiegarono un po’ di tempo per arrivare a destinazione. Nel frattempo il corpo era in stato di decomposizione avanzata: emanava un odore terribile e non c’era nessun posto dove conservarlo, quindi fu presa la decisione di seppellirlo e conservare le mani nella formaldeide. Quando finalmente arrivarono, gli esperti argentini presero le impronte digitali dalle mani e certificarono che si trattava effettivamente del Che, e fecero lo stesso con la sua calligrafia. Le mani furono conservate dal ministro dell’Interno, che in seguito le diede a un suo amico comunista, che a sua volta le inviò a Castro. A quel punto furono restituite alla famiglia del Che.

Lo shock dell’esecuzione. Io rimasi scioccato dall’esecuzione. Non me lo aspettavo. Pensavo che il Che sarebbe stato processato come gli altri prigionieri. Tutta la faccenda fu gestita male. Il Governo boliviano mise in giro l’informazione falsa che il Che era morto in combattimento, ma poi arrivarono notizie che era stato visto vivo a La Higuera, e alla fine il presidente fu costretto a dire la verità. Penso che prese la decisione di far giustiziare il Che perché in caso contrario avrebbe dovuto processarlo, e il processo sarebbe diventato un caso internazionale. Erano già infastiditi dallo spettacolo in cui si era trasformato il processo Debray, e un processo al Che avrebbe attirato migliaia di giornalisti, cosa che volevano evitare a tutti i costi. Inoltre, se lo avessimo processato sarebbe stato condannato a trent’anni di prigione (non abbiamo la pena di morte in Bolivia, e la pena carceraria massima è trent’anni). Ma dove lo avremmo tenuto per trent’anni? Non esistevano prigioni di massima sicurezza in Bolivia, avremmo sempre avuto il problema di impedire che qualcuno lo facesse evadere. Insomma, lo abbiamo giustiziato per liberarci del problema. Ma la cosa fu gestita male. Sarebbe andata bene se fossero riusciti a sostenere l’idea che era morto eroicamente in battaglia, ma la verità – che era stato giustiziato – era diventata pubblica. Quanto ai risultati del Che, qui in Bolivia commise moltissimi errori a capo della guerriglia. Fece il contrario di tutto quello che scriveva nei suoi libri. Fu questo che lo condusse al fallimento. Si vede la sua immagine ovunque sui manifesti, una cosa che probabilmente il Che non avrebbe gradito. Ma la maggior parte delle persone non sa chi era, o cosa ha fatto. Era bravo come teorico, ma quando ebbe l’occasione di mettere in pratica le sue idee [in Bolivia], fallì su tutta la linea». Dopo il suo ruolo come capitano del secondo battaglione delle truppe d’assalto boliviane addestrate dagli Stati Uniti, Gary Prado Salmón divenne ministro del Governo boliviano. Nel 1981 rimase paralizzato e costretto su una sedia a rotelle a causa di un proiettile che lo aveva colpito accidentalmente alla schiena. Ha proseguito la sua carriera come ambasciatore della Bolivia nel Regno Unito e in Messico, e ora insegna in un’università privata a Santa Cruz, in Bolivia. Clare Heargreaves è vissuta in Bolivia (e ha conosciuto Prado) mentre conduceva ricerche per Snowfields, un libro sul traffico di cocaina in Sudamerica. Copyright The Financial Times Limited 2017 (Traduzione di Fabio Galimberti)

Ecco perché Che Guevara non è morto, scrive il 09/10/2017 Alfredo Luís Somoza Presidente ICEI su "L'Uffingtonpost.it". 50 anni fa a La Higuera, un paesino della Bolivia profonda, veniva ucciso Ernesto Guevara, detto il Che, come sono soprannominati gli argentini nel resto dell'America Latina. Medico, rivoluzionario, ministro, rivoluzionario ancora. 39 anni consumati di fretta in tempi in cui le scelte erano radicali, definitive, senza ritorno. Il Che dei primi tempi non era comunista, la sua famiglia aveva origini altoborghesi e lui era cresciuto frequentando l'alta società del suo paese. È un viaggio nell'America Latina della povertà ancestrale a far crescere in lui un misto di rabbia e di voglia di agire che successivamente diventa ideologia. A differenza delle sinistre del suo tempo, il Che non contempla l'ipotesi di sviluppare un lavoro di base, di far crescere un movimento e attendere che le contraddizioni del sistema si manifestino, così da prendere il potere. Per il Che bisogna agire subito, confondere l'imperialismo aprendo uno, cento, mille fronti di scontro diretto, armato. Costituendo avanguardie rivoluzionarie che avranno il compito di aggregare altre forze fino a conquistare una massa critica, come a Cuba, in grado di rovesciare un regime. Ma subito, senza tirare per le lunghe. Ed è proprio questa componente della sua personalità, l'urgenza nell'agire, il non accettare compromessi, che lo fa diventare un simbolo quando è ancora vivo. Guevara era giovane e fotogenico, e incarnava in sé la volontà di cambiamento, spesso cieca, tipica della gioventù. Con la sua lotta dimostrava che le utopie erano possibili, come appunto a Cuba. Difficilmente avrebbe potuto continuare la sua vita da ministro-eroe insieme a Fidel: non era nato per governare ma per sovvertire, per rovesciare. È diventato l'icona della rivoluzione allo stato puro, senza i guasti che il tempo inevitabilmente provoca quando si esercita il potere. Per questo la sua immagine non ci ha mai abbandonato, e nell'immaginario globale il Che è andato oltre la sua origine, la sua lotta, le sue vittorie e le sue sconfitte. Ha accompagnato minatori in lotta nel Galles, oppositori torturati dai regimi mediorientali, studenti europei nelle piazze del '68, leader dell'indipendenza africana in lotta contro il colonialismo. Non importa quanto sia stato davvero capace come comandante, come medico, come ministro: il Che è stato, e ancora è per molti, un simbolo della possibilità di cambiare definitivamente l'ordine delle cose. Quando si estrapolano le persone dal contesto storico, i conti difficilmente quadrano. Che Guevara è stato l'apostolo della rivoluzione o l'efferato criminale di cui parlano i fuorusciti cubani che stavano con Batista? Né l'uno né l'altro, ovviamente. Piuttosto, è stato un uomo che, nel difficile contesto della Guerra Fredda, da una delle periferie dell'Impero è riuscito a comunicare con il mondo intero, senza retorica, con l'esempio della propria vita e arrivando fino alle ultime conseguenze. Ecco perché, giusto o sbagliato che sia, Che Guevara in realtà non è mai morto.

Il generoso disastro politico di Che Guevara. Il suo lascito teorico sta nelle poche pagine della lettera di commiato da Fidel. Datate, serie ma disastrose negli esiti e negli effetti, che ancora durano, scrive Massimo Bordin i 9 Ottobre 2017 su “Il Foglio". “Crear dos, tres, muchos Vietnam” slogan che ebbe fortuna e fu scandito a Berkeley come a Berlino, a Roma come a Parigi, è l’unico lascito serio di Ernesto ‘Che’ Guevara. Datato, certo, e assai discutibile, considerati gli esiti, ma non banale. Era lo slogan conclusivo della lettera a Fidel con cui aveva annunciato la scelta di lasciare Cuba per aprire un “foco guerrillero” in Bolivia. La lettera era intitolata “Da un altro Vietnam” e fu pubblicata in italiano come supplemento a una rivista mensile, “La sinistra”, diretta da Lucio Colletti e redatta da alcuni giovani trotzkisti, alcuni espulsi dal Pci, altri che lo sarebbero stati di lì a poco. L’opuscolo uscì nell’aprile 1967, quando Guevara era già in Bolivia. Lo comprai all’edicola di piazza S. Emerenziana, una zona di Roma non precisamente di sinistra. Mi colpì un ragionamento elementare: si parla tanto di coesistenza pacifica ma la guerra si è semplicemente spostata dall’Europa nelle periferie del mondo. Guevara decise di andare a combatterla. A ottobre era già stato ucciso. Il suo fu un generoso disastro politico, ma quel documento resta importante per spiegare quello che successe dopo in Europa. La sua mitizzazione, “El guerrillero eroico” celebrato a Cuba e le magliette con la famosa foto di Korda vennero dopo. Prima ci fu una celebrazione del personaggio paragonato ai grandi del marxismo. La Feltrinelli pubblicò perfino i suoi scritti economici, ma Guevara non era Bukharin anche se fu ministro dell’Economia a Cuba. Il suo lascito teorico sta nelle poche pagine di quella lettera di commiato da Fidel. Datate, serie ma disastrose negli esiti e negli effetti, che ancora durano.

L'icona sbiadita di Che Guevara. Nel supermercato globale restano i gadget di uno spietato e sanguinario combattente, scrive Marcello Veneziani su “Il Tempo” il 9 Ottobre 2017. Se non l'avessero ucciso il 9 ottobre di cinquant'anni fa, Ernesto Guevara detto il Che sarebbe un rivoluzionario a riposo, un vecchio patriarca in congedo di 86 anni. Morì invece sul campo, circolarono sue foto da Cristo deposto di Mantegna e morì nel fiore degli anni e della fama. Perciò oggi ne celebriamo il mito. Dei vecchi miti della sinistra negli anni passati, l'unico rimasto in piedi è lui, El Che. Perché è il mito di un eroe perdente. «La cosa peggiore che possa accadere a un rivoluzionario è vincere una rivoluzione», scriveva il poeta sudamericano Arzubide. Guevara aveva vinto la rivoluzione, a Cuba, ma fu costretto a fuggire da quella vittoria che stava pesando quanto una disfatta. “Ci sono mille modi di suicidarsi – ha scritto Jean Cau – Balzac scelse il caffè, Verlaine l’assenzio, Rimbaud l’Etiopia, l’Occidente la democrazia e Guevara la giungla”. E’ bello l’eroe ragazzo che viaggia per il sud America in motocicletta, aiuta i malati e s’indigna per i soprusi. E’ bello l’eroe generoso che fa la rivoluzione, una dopo l'altra, e muore in battaglia contro gli yankee. Ma tra le due icone scorre la sua vita di guerrigliero, magari esaltante e un po’ esaltata, ma meno bella. Il mito del Che funziona ancora oggi, ma destoricizzato: tanto più è osannato quanto meno è conosciuto. Oltre il mito, c’è la sua storia. Guevara fu un fanatico rivoluzionario, uno spietato combattente, un fallimentare ministro dell’Industria e governatore della Banca cubana. Introdusse a Cuba i campi di concentramento per i dissidenti, guidò i tribunali speciali che condannavano a morte i nemici, veri e presunti. Predicava la nascita di cento Vietnam nel mondo, la lotta armata per espropriare la terra, non era una Madre Teresa di Calcutta al femminile come vogliono farlo apparire. Come tutti i puri, il Che sarebbe diventato un feroce dittatore se avesse avuto in mano il potere; rispetto a lui Castro era un realista moderato. La sua salvezza fu la cerca della gloria e della purezza che lo condusse, come Garibaldi e gli eroi romantici, a combattere per la causa della libertà di altri popoli. E quel mito in chiave antiyankee colpì anche a destra, fece proseliti magari ricordando José Antonio o Codreanu, mitici condottieri uccisi alla sua età. Il primo a elogiare Guevara alla sua morte fu Peron che lo vide come un eroe nazionalpopolare argentino contro lo strapotere degli Stati Uniti. Poi vennero Regis Débray e Jean Cau. Di Guevara, oltre il mito restano i gadget, al supermercato globale. L’immagine del Che serve a vendere sigari cubani e bustine di zucchero, bottiglie di vino rosso, musica in cd e spartiti che cantano le sue imprese, come i cantastorie di una volta. Il Che è entrato nel mondo dei fumetti e negli orologi che battono l’ora della rivoluzione. Ci sono pellegrinaggi turistico-ideologici sulle tracce del Che; le compagnie aeree trasformano El Che in uno stewart col basco per sogni esotici a prezzi rivoluzionari. Guevara fu usato come testimonial per la compagnia telefonica cubana; vanno a ruba le banconote con la sua effigie e la sua firma. C’è persino un Guevara di cera che sembra rubato ai presepi napoletani. Troviamo il Che anche in versione araba e islamica. El Che Akbar. Ma il suo martirologio è di tipo cristiano. Tra i santini del Che ce n’è uno con la corona di spine, trasformato in Gesù Cristo. E infine il Che usato come testimonial per fumare le erbe e farsi le canne. E’ lui il Padrepio della Revoluciòn. Pubblicai un ironico fotomontaggio, “Viva il Du-Che”. Accompagnai il reportage con foto sconosciute all'iconografia ufficiale dove il top model della Rivoluzione perdeva la bellezza dei suoi famosi ritratti e mostrava i segni delle cure a cui si sottoponeva. Ingrassato, deformato, abbruttito. Oggi le sinistre italiane lo celebrano, ma da vivo il Che subì una truffa dai comunisti italiani. Vi racconto in breve la storia che pubblicai tanti anni fa con quella copertina. Nei primi anni sessanta il Che era ministro dell’industria di Castro e governatore del Banco Nacional di Cuba. Decise di far sorgere a due passi dalla spiaggia di Varadero, a Matanzas, una fabbrica di fertilizzanti. A installare l’impianto fu chiamata una ditta italiana: il suo rappresentante era un imprenditore milanese, Stefano Campitelli, che diventò amico e consulente di Guevara e gli procurava le erbe per curare l’asma; e il parmigiano di cui il Che era ghiotto. Tra la ditta italiana e il Che si intromette però un gruppo di comunisti italiani, che si occupa di garantire il governo castrista dai capitalisti italiani e di fornire tecnici affidabili per compiere l’impresa. Questa società pretende che le sia pagata una doppia mediazione pari al 10%, dal governo di Fidel Castro e dall’azienda italiana. Il Che, ingenuamente, firma cambiali e le paga prima che i lavori siano finiti. Ma dopo aver incassato i dollari, la società italiana lascia incompiuta l’impresa e sparisce. Guevara manda allora un suo vice in Italia che va a bussare alla Coop e a varie porte, compresa la sede del Pci alle Botteghe oscure. Ma non riesce a riavere né i soldi né il completamento dei lavori, poi affidati a un’impresa statale della Germania est. E così il mitico Che e Fidel Castro furono truffati per un milione di dollari da un gruppo di compagni italiani che magari in casa hanno ancora il poster con il volto di Guevara. Alla faccia del Che…La cosa migliore che possa accadere a un rivoluzionario è morire giovane, in battaglia, prima che la sua rivoluzione si realizzi, per restare caro agli uomini e agli dei. Da vinti si riesce meglio in fotografia per i posteri. El Che oggi è solo un’icona. Ma fu vera gloria? Ai poster l’ardua sentenza.

L'altro Che. Ernesto Guevara mito e simbolo della destra militante. Mario La Ferla. Editore: Stampa Alternativa. Anno edizione: 2009. Descrizione. A più di quarant'anni dalla morte, Ernesto Che Guevara sembra essere stato dimenticato dalla sinistra. Un mito esaurito? Niente affatto. Dalla Francia all'Italia gruppi, associazioni, movimenti della destra radicale idolatrano il Che, il rivoluzionario che ha combattuto contro ogni forma di imperialismo a fianco degli umili e degli oppressi. Con una meticolosa e originale documentazione, Mario La Ferla tenta di superare luoghi comuni e pigre falsità. Perché la cronaca, e soprattutto la storia, siano meno incompiute e bugiarde.

Recensione di Romina Arena. Che Guevara come Marinetti. Che Guevara accostato ad Ezra Pound e Gabriele D’Annunzio. Ovvero il mito del Che visto da destra, dai camerati guevaristi, gli innamorati neri del mito più mito dei rossi. Pare essere una storia lunga quella che lega l’eroe argentino ai gruppi ed ai gruppuscoli fascisti scaturiti dall’incenerita Repubblica di Salò. Nato negli anni Settanta tra le fila della cosiddetta destra sociale, quella antimperialista, antiamericana ed antisionista, pro Vietcong e tante altre cose, il mito del Che ha costituito un vero e proprio culto che ha rapito tutti da Terza Posizione in avanti. Gabriele Adinolfi, già fondatore di Terza posizione ed esponente di spicco di una destra rivoluzionaria neofascista, è il più accanito dei sostenitori di questo “camerata Guevara”, che definisce guerriero (che è cosa differente da guerrigliero) secondo l’impostazione gerarchica spartana (guerriero uguale tra i guerrieri, non tra i proletari). Un Che Guevara mito nella trasfigurazione cristiana del martirio; assimilato all’ideologia di destra perché ospitato nella Spagna franchista per intercessione del fascista Peron. Dietro la costruzione di un’immagine destroide, anzi, fascista, del Comandante c’è un lavoro complesso e stratificato per ricreare intorno ad esso un universo ideologico in grado di accoglierlo. Una vasta letteratura di destra che si appropria del Che da Jean Cau (quel Cau ex segretario di Jean-Paul Sartre, approdato all’estrema destra neopagana per “amore di tauromachia e tedio dell’esistenzialismo”) a Marco Bergozzi che tenta di dipingere un Guevara totalmente estraneo alla sinistra con affermazioni tanto convinte quanto audaci. Sostiene un Che più vicino a D’Annunzio o lord Byron piuttosto che a Marx o Gramsci; un “comunista sui generis”. Ad arrembare sul Che “eterodosso comunista che disprezza il potere” ci sono proprio tutti del planisfero fascista, anche quelli della Giovani Italia che aderiscono al Msi e per i quali il Che, uomo e intellettuale, è lontano dal proletario di Marx e invece si avvicina molto di più al superuomo di Nietzsche o all’individualismo aristocratico di Alfredo Oriani. Dietro al mito del Che, poi, ci sono tante altre appropriazioni da Ho Chi Mihn, a Mao, ai Beatles. Una costellazione variegata di miti “a nolo”, di film come “la freccia nera” che ha preso posto nel cuore dei destrorsi con la galeotta sigla furoreggiante “Sibila il vento la notte si appresa/e la cupa foresta minacciosa si fa/il passo trema se senti un fruscio/forse è il segno d’addio che la vita di dà” e poi la spada, la sporca canaglia, la freccia di fuoco (nera, certo, nera). Per arrivare dove? A Pierfrancesco Pingitore. Esattamente, quel Pingitore del Bagaglino, quella compagnia che fa satira “spudoratamente di destra”, il quale preso da un raptus di commozione per aver appreso la morte del guerrillero heroico butta giù una canzonetta, che fa “Addio Che/ la gente/come te/ non muore/ nel suo letto/ non crepa di vecchiaia. Addio Che/ sei morto nella valle/ e non vedrai morire/ la tua rivoluzione”. L’hanno addirittura incisa su un vinile, la canzone. E sul lato B ci hanno messo “Il mercenario di Lucera”, una canzone su un fascista che muore in Katanga… Dove sta la bufala? In una destra povera di miti che vorrebbe riempire il proprio Olimpo senza eroi andandoseli a cercare negli altri Olimpi facendo qua e là forzature tanto evidenti quanto meschine; nella storia raccontata con speciosi tentativi di revisionismo; nell’ossessivo tentare di appiccicare etichette posticce cercando di costruirsi un’identità meno compromessa? Che c’entra Guevara col presupposto della gerarchia spartana (hai voglia a predicare l’uguaglianza, a dividersi anche un cucchiaio di latte, a considerarsi un primus inter pares, ai neofascisti sono cose che non interessano); che c’entra Guevara con Marinetti o col mito del superuomo? Nulla, diremmo. La Ferla ha costruito un libro aberrante su un costrutto fasullo. Che Guevara sembra quasi un pretesto per parlare d’altro. Anzi, lo è. Sarebbe stato più onesto dire che si trattasse di un libro sulla mappa neofascista post-sessantottina, ma come rinunciare al volto fascinoso del Che in copertina? Ogni tanto, per la verità, il Comandante fa capolino in qualche pagina (tra il morto del Katanga e la freccia nera, tra un accenno a Gesù Cristo ed uno al Duce), nella voce non ancora rauca di Gabriella Ferri, nei foglietti scarabocchiati delle avanguardie nazionali, nel fascismo postmoderno di Adinolfi nel quale il Che, assorbito e metabolizzato sembra essere ormai diventato strutturale all’ideologia. E nei dischi di Pingitore. Basta. Guevara è un pretesto affogato tra George Harrison e Francisco Franco per raccontarci la rivoluzione sfumata, le frustrazioni ed i rimpianti delle nuove destre patrie. Non esiste che si parli di un personaggio (qualsiasi esso sia) evidentemente appartenente a certa ideologia (in questo caso quella della galassia di sinistra) senza mettere, almeno per onestà intellettuale, dei paletti tra quello che è e quello che invece altri vorrebbe che fosse Che Guevara, senza distinguere tra destra e sinistra cercando, evidentemente, del basso (ed oggi fin troppo scontato) assimilazionismo storico e politico. Senza questa dovuta premessa il libro, l’inchiesta, la ricerca è un inganno bello e buono.  

Ernesto Guevara mito e simbolo della destra militante? Scrive Davide D'Amario il 22/05/2009 su Arianna editrice. Intervista a Mario La Ferla, autore de L'altro Che, per Stampa Alternativa.

Come è nato il “mito” de “il fascista Che Guevara”? Quali sono state le tappe culturali e militanti che ne hanno definito l’immaginario di certa destra militante?

«Prima di tutto, io penso che non sia né esatto né giusto parlare di un Che Guevara “fascista”. Perché nessuno, nemmeno a destra, salvo qualche caso sporadico e isolato, ha mai parlato del guerrigliero argentino in questi termini. La destra lo ha amato e onorato pensando sempre che il Che fosse un marxista convinto. Le eccezioni ci sono state, anche significative. Alcuni intellettuali hanno pensato di paragonarlo a D’Annunzio e a Lord Byron. Adriano Bolzoni, lo sceneggiatore cinematografico autore della prima biografia italiana del Che, aveva rivendicato l’appartenenza di Guevara alla destra internazionale. Infiammati dall’illuminazione dello scrittore francese Jean Cau, che in “Una passione per il Che” aveva identificato il guerrigliero con Cristo, i ragazzi della Giovane Italia avevano scritto un articolo intitolato “Il fascista Che Guevara”, avvicinandolo al superuomo di Nietzsche o all’individualismo aristocratico di Alfredo Oriani. Ma la maggioranza della destra radicale è su tutt’altre posizioni, anche se è stata forte in molte occasioni la tentazione di portare il Che dalla propria parte. Detto questo, sulla base della documentazione che ho potuto mettere insieme, sono del parere che il mito del Che a destra sia nato ancora prima della data ufficiale del ’68. Intanto, a proposito del ‘68, il Che sbandierato dai militanti dell’estrema destra risale al primo marzo e non dopo il fatidico maggio parigino dal quale tutti ormai fanno nascere il “vero ‘68”. A Valle Giulia, mescolati ai ragazzi di sinistra, c’erano in gran numero di ragazzi delle organizzazioni di destra che tra le varie bandiere e simboli mostravano anche l’immagine del Che. Posso dire, ma credo sia cosa nota, che la nascita del Che come simbolo della destra militante debba essere collocata subito dopo la tragica morte di Guevara, il 9 ottobre 1967. In Italia alcuni esponenti della destra detengono il primato europeo della scoperta del Che come loro mito. E’ ormai un fatto storico che è stato il Bagaglino, il popolare cabaret romano tutto di destra, a onorare per primo il Che pochissimo tempo dopo la morte. Due fondatori del cabaret, Pierfrancesco Pingitore e il maestro Dimitri Gribanovski, composero la ballata “Addio Che”. Ed è stato un altro italiano, proprio Adriano Bolzoni, a scrivere un libro sul Che e a trarne poi la sceneggiatura di un film diretto dal regista Heush raccomandato da Pier Paolo Pasolini. Ma la scintilla per il Che si era già accesa ancora prima, verso la metà degli anni 60. Lo ricorda lo scrittore e storico fiorentino Franco Cardini, allora giovane iscritto al Movimento Sociale e poi alla Giovane Europa di Jean Thiriart. Addirittura il primo omaggio al Che avvenne nel 1961, a Firenze, in occasione dell’occupazione dell’università da parte del Fuan. E l’ammissione di Guevara tra le file dei giovani contestatori di destra venne ufficializzata nel giugno 1965, durante il congresso provinciale del Msi con l’uscita dei giovani amici di Cardini che nel partito ci stavano ormai stretti. Posso citare altri casi che hanno contribuito a fare del Che il simbolo della destra movimentista: la rivista “L’Orologio” di Luciano Lucci Chiarissi, il giornale della federazione nazionale combattenti della Repubblica sociale di Salò “Azimut” e il foglio giovanile “Controcorrente”. Non solo il Che, anche Fidel Castro allora aveva conquistato un posto nel cuore dei giovani di destra. Lo ammette lo stesso Cardini: “In un modo o nell’altro, lo abbiamo amato tutti, Fidel. Posso testimoniarlo appieno, personalmente, perché io allora ero un ragazzo che militava nelle formazioni dell’estrema destra, e contro il parere dei nostri padri e dei nostri fratelli maggiori per i quali era solo un “comunista”, anche noi andavamo pazzi per lui …”. E dopo Jean Thiriart, a consolidare l’ammirazione per il Che contribuirono gli scritti e i discorsi di Alain De Benoist, capofila di “Nouvelle Droite”. Comunque è stato il ‘68 a fare esplodere l’amore per il Che, in maniera vistosa e lampante, e a confermare il culto per il guerrigliero che rappresentava il mito ideale: la figura del perdente coniugata a quella dell’eroe combattente per un ideale al di fuori dei canoni dell’utilitarismo e del carrierismo politico. Il successo del Che presso i giovani della destra radicale è via via aumentato grazie agli interventi di scrittori e intellettuali, non soltanto di destra, che hanno avvicinato Ernesto Guevara a personaggi famosi che facevano già parte dell’immaginario collettivo della destra ribelle. Per esempio, Lawrence d’Arabia, i personaggi di Salgari, Giuseppe Garibaldi, Zorro e Don Chisciotte, insomma la stirpe dei Marinetti e dei Papini, dei Drieu La Rochelle e dei Louis-Ferdinand Céline, Ernst Junger e di Giuseppe Prezzolini».

Quale movimento, o meglio tendenza interna alla destra radicale rivendica con più convinzione il camerata guevarista?

«Lo spunto per scrivere “L’altro Che” mi è stato offerto dalla lettura della “lettera d’amore” per Guevara scritta da Gabriele Adinolfi e pubblicata dal suo quotidiano on line “noreporter.org” il 9 ottobre 2007. Quindi sono tentato di rispondere che tra i movimenti della destra radicale che possono vantare la grande passione per il Che in pole position si schiera Terza Posizione. Proprio il movimento fondato dallo stesso Adinolfi con Roberto Fiore e Giuseppe Dimitri, con la forte collaborazione di Walter Spedicato e Francesco Mangiameli. La passione per il Che dimostrata da Terza Posizione, secondo il mio parere, si fonda su due basi, una politica e un’altra, diciamo, romantica. Le idee di Adinolfi e amici, insieme con alcuni nuclei della destra rivoluzionaria, erano e sono molto chiare: prima di tutto c’è l’avversione per gli Stati Uniti, nata nell’immediato dopoguerra negli ambienti della destra delusi per la fine dei sogni nati con il fascismo e irrobustita con la guerra nel Vietnam. Da questo atteggiamento ostile verso gli Usa, mi sembra che derivino tutte le altre prese di posizione pro e contro della destra cosiddetta movimentista Contro la globalizzazione, contro Israele e contro la Nato, contro il colonialismo, contro il comunismo, contro l’arroganza del potere e del denaro, contro i partiti politici e i sindacati, contro l’immobilità e contro l’arrivismo. E quindi a favore di una terza via (“Né fronte rosso, né reazione!”) come pensavano anche i ‘maestri’ Alain de Benoist e Jean Thiriart, e poi anche a favore degli oppressi di tutto il mondo: gli indiani d’America, gli irlandesi dell’Ira, i palestinesi, con il Chiapas, con il Tibet, e così anche con Mussolini, con Peròn, con l’ “eroe” rumeno Cornelius Codreanu, il maestro Julius Evola, il poeta Ezra Pound, Alessandro Pavolini. Ecco che le posizioni politiche si mescolano con l’anima romantica espressa dalla destra radicale italiana. Il Che è amato sì perché combatteva contro lo strapotere degli Usa e dei suoi alleati, ma anche e soprattutto perché appariva agli occhi dei giovani nazionalrivoluzionari come un personaggio dai contorni passionali. Anche Franco Cardini, scrittore e storico fiorentino di solida fama internazionale, mi appare sulla stessa lunghezza d’onda di Adinolfi. Cultura diversa e origine diversa, però gli ideali sembrano gli stessi. Ancora molto giovane, Cardini era un sostenitore entusiasta di Jean Thiriart, il quale non perdeva occasione per dimostrare ammirazione per Guevara. Ancora prima del ’68, Ernesto Guevara e Fidel Castro erano diventati idoli e simboli di molti ideologi e intellettuali della destra radicale. Tra questi, spiccava proprio Franco Cardini. Il quale, come lo stesso Thiriart e Alain De Benoist, era stato travolto dall’entusiasmo per i due famosi barbudos della rivoluzione cubana soprattutto per l’aspetto avventuristico della loro rivolta contro Batista e i suoi protettori americani. Lo ha spiegato molto chiaramente il celebre medievalista fiorentino: “Fidel era l’uomo della politica tradotta nelle dimensioni della generosità e dell’avventura. Fidel, allievo dei gesuiti, giovane cattolico irrequieto che leggeva Bernanos e si ispirava ai primi eroici e puri falangisti spagnoli, quelli sacrificati dalla furia repubblicana e dal cinismo di Franco, quel Fidel ci piaceva, ci incantava”. Poche, essenziali parole che spiegano l’arcano, quel mistero che mi ha affascinato man mano che leggevo la ricca documentazione che testimonia l’amore per Guevara da parte della destra. E’ vero quello che dicono molti neofascisti: l’amore che la destra ha nutrito per il Comandante è senz’altro superiore a quello sventolato dalla sinistra per molti anni. Per lo meno, quest’amore a destra sembra più genuino, più spontaneo, quasi “puro”, mentre l’altro ha dovuto alimentarsi con slogan e discorsi che hanno finito per ridurre il Che a un fantoccio da tirar fuori quando maggiore se ne sentiva la necessità per dare corpo a teorie ormai vuote e talvolta insensate. Insomma, a sinistra, la rivoluzione di Che Guevara serviva per cogliere l’occasione propizia di imbastire polemiche contro i nemici della classe operaia, contro gli avversari politici del Pci, per sognare l’occupazione del potere. A destra, invece, il rivoluzionario Guevara non è mai stato “sfruttato” per fini politici. Era soltanto un personaggio tutto d’un pezzo, da amare o da odiare, senza però secondi scopi. Anzi, secondo me, la destra radicale europea ha amato il Che sapendo di rischiare molta impopolarità tra molti dei suoi stessi adepti e di farsi nuovi nemici tra quelli che consideravano senza il minimo dubbio il Che “uno dei loro”».

Nota di Ugo Gaudenzi. “Destra radicale” con il “Che”? Una vera e propria falsità. La Ferla prende per buone le “testimonianze a posteriori” di ex ragazzi che, di certo, nella loro giovinezza, non avevano pensato a Guevara come loro “mito unificante”, anzi. La storia, la cronaca di quegli anni, è differente e di molto. La riesumazione ex post del mito del Che per la destra radicale è un falso. Lo dichiara chi scrive, che veniva chiamato (a sproposito) “il Che” anche ai tempi di Valle Giulia. La “destra radicale” di allora era esattamente il contrario da quella descritta da La Ferla. Issava i tricolori per “dis-occupare” le università, compiva raid contro i beatniks, non amava né il Che né, ancora più, Mao o Giap. Era l’altra faccia del Pci: né al Pci “d’ordine”, né alla destra neofascista “d’ordine” erano graditi quegli strani studenti con i capelli lunghi che amavano Kerouac e Nietzsche. Al massimo, alla “Giovane Italia” di quei tempi, ai neo-iscritti veniva dato da leggere qualche libro reazionario, tipo “Il tempo che fu” di Gioacchino Volpe. Un saggio filo-monarchico-fascista. Tutt’al più, per pochi intimi, andavano alla Libreria Europa di Ordine Nuovo, per leggere Evola e l’apologia della reazione. Sempre dichiarando la loro avversione ai rossi, al movimento studentesco “rosso”. Gli unici ad amare il “Che” furono quelli dell’ex Primula, i neogollisti che leggevano Malraux e Kerouac, manifestavano a favore del Viet-Nam libero, contro i colonnelli greci, contro il trattato di non proliferazione nucleare che privava l’Italia e l’Europa della sua sovranità, a favore della scelta di De Gaulle di uscire dalla Nato e di restituire gli eurodollari al mittente… E fu l’incontro di Ferrara tra costoro - che avevano stampato e affisso, unici in Italia, un manifesto su “Che Guevara rivive in tutti noi” - e Jean Thiriart che dichiarava che “il più grande Viet-Nam sarà l’Europa” che aprì la strada alla loro unione su una linea di “sinistra nazionale europea”, con le occupazioni delle università, con i documenti anticapitalistici, per l’autogestione e la socializzazione delle aziende, contro il Vaticano, per la più grande Patria Europa, contro… il fronte rosso e la reazione. Lo slogan di battaglia contro il sistema e quindi contro la sinistra e la destra radicale fu, dappertutto, anche in Belgio, in Francia: ni front rouge, ni reation: avant avec la lutte du peuple. Né fronte rosso, né reazione: Avanti con la lotta di popolo. La Ferla si informi, prima di scrivere libri. Ugo Gaudenzi

Tutti inchinati a Che Guevara, celebre farabutto, scrive Vittorio Feltri il 12 Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano". Non ha suscitato non dico scandalo, ma neppure un involontario tic infastidito, la mia definizione di Cesare Battisti quale «comunista di merda». Lo è. Lo era anche dieci anni fa, allora tuttavia sarei stato colpito da strali disgustati perché l'accostamento tra le due parole era ritenuto una bestemmia. Il tempo è galantuomo, si usa dire. Non sempre e non per tutti, però. Ci sono santuari blindati e consegnati alla menzogna perenne per una sorta di accordo tra compagni e borghesia sognatrice. Me ne frego dell'anatema che non rovinerà la mia vecchiaia già incespicante per conto suo e, siccome la verità è rivoluzionaria, dico: Che Guevara fu un comunista di merda, un rivoluzionario che ammazzava gente innocente. Celebrarne la memoria è un insulto per le vittime e un premio alla vigliaccheria di chi finge e porta fiori al suo mausoleo. In realtà, chi lo ha fucilato nella foresta di Santa Cruz, il 9 ottobre del 1967, ha liberato l'umanità da un assassino. Il torto di chi lo ha liquidato è stato di aver fornito materiale per un mito, costruito con abilità da chi lo considerava un nemico stupido e pericoloso, e lo aveva mandato a crepare solitario in Bolivia, cioè Fidel Castro. Arrivo tardi rispetto al cinquantenario dalla «morte dell'eroe». Non è maleducazione. Volevo prima osservare lo spettacolo delle celebrazioni, e vedere se fosse comparso negli organi deputati a formare il comune sentire degli italiani qualche pensiero meno cloroformizzato. Niente da fare. Le istituzioni civiche e antifasciste, i Tg della Rai e della concorrenza, quelli almeno passatimi davanti agli occhi, oltre che i giornaloni, sono stati monocordi: sul mito di Ernesto Che Guevara è stata data un'altra mano di smalto. Mi fermo al Corriere della Sera e al sindaco di Milano, i quali si sentono espressione della borghesia milanese: di sinistra quel tanto che basta per non avere rotture di scatole dai sindacati interni (via Solferino) e dagli alleati in giunta (Palazzo Marino). Corriere della Sera. Tra tutti i servizi dei dì precedenti, colpisce nel giorno dell'anniversario un articolo da agiografia ottocentesca di Santa Genoveffa. Questo il titolo: «Guevara sapeva sorridere di tutto», dove manca il particolare del profumo di rose, ovviamente selvatiche essendo guerrigliero, ma è solo per pudore. A pag. 48, due signori che devono avere un bel gruzzoletto da parte, viste le tariffe, si fanno pubblicare nella ricorrenza un necrologio a mo' di panegirico del «comandante». In sottofondo, mentre gustavo questa memoria dolente dei due tardi compagni, il Tg2 trasmetteva le commosse note dell'inno imperituro: «De tu querida presencia, comandante Che Guevara».

Beppe Sala, sindaco di Milano, non è da meno. Sotto la sua guida di manager riformista, capace in passato di simpatie persino non di sinistra, la Metropoli s' inchina al criminale acclarato. Il Comune da lui gestito ha deciso infatti di inghirlandare non per un giorno, né una settimana, e neppure un mese, ma per 115 giorni, dal 6 dicembre al primo aprile 2018, la Fabbrica del vapore dedicandola «Alla storia e alla vita del Che "uomo" e "personaggio storico"». Lasciamo perdere qui, ma non tanto, che Guevara fosse un uomo escrementizio, e che in tal modo si sputa addosso a quelli che ha ammazzato di persona, fatto fucilare senza processo e incarcerare per motivi di opinione, religione e sesso. C'è di peggio: quel sito poteva essere usato in questi mesi per eventi redditizi, e invece finisce che i milanesi senza colpa sono costretti a portare un obolo al comunista di merda e ai suoi santificatori impuniti e disonesti. Dico disonesti a ragion veduta. Non c' è bisogno di essere di destra per riconoscere gli errori e correggerli. Da noi è pratica aborrita. Da decenni la documentazione sulla crudeltà del Che (il cui soprannome ha tra l'altro una spiegazione non proprio eroica: intercalava così, con un «cè» come se uno lo chiamassimo «Cioè» per il difetto da oratore sessantottino); la documentazione, dicevo, è inoppugnabile, anche perché è lui stesso a fornirla nei suoi diari e nei discorsi pubblici. Ha scritto saggi poderosi sul tema il Nobel della Letteratura Alvaro Vargas Llosa. Siccome però non è mai stato di sinistra lo si potrebbe prendere sottogamba. Ma nel luglio scorso è toccato al settimanale per eccellenza della gauche francese demolire ad uno ad uno le qualità fasulle del barbudo e disperdere le ceneri dell'illusione gloriosa che quello stesso rotocalco aveva creato. Il Nouvel Observateur, in gergo Obs, ha dedicato infatti una copertina a questa operazione di revisionismo salutare. Si tratta di un'esplorazione meticolosa, sono raccolte testimonianze di compagni di Guevara a proposito di questo squallido capolavoro della macchina propagandistica castrista e feltrinelliana, suo mentore italico e non solo.

A proposito di Feltrinelli. Ben prima di questa presa di distanza ero stato inondato degli orrori perpetrati dalla coppia Castro e Guevara da Valerio Riva, compagno di Giangiacomo ai tempi delle sue visite all' Avana, e che per primo in Italia si strappò di dosso il guano cubano. Orrori, sia chiaro, inferiori per quantità ma non per qualità a quelli di cui è stato autore il nazismo, figuriamoci il fascismo. Il «Che» è infatti nominato subito dopo la presa dell'Avana, procuratore militare, imponendo la condanna a morte di duemila avversari politici. Poi fondò nel 1960 i gulag di Cuba, che guidò - scrive l'Obs - con «mano di ferro», creò prigioni speciali per adolescenti, per omosessuali, ma anche una per bambini di dieci anni (a Palos). Perfetta coerenza. Aveva spiegato ai suoi allievi guerriglieri in Venezuela: «Prendete un fucile e sparate alla testa di qualunque imperialista abbia più di 15 anni». Cito due frasi di Guevara, a proposito del suo essere stato eletto campione del pacifismo: si definiva «alimentato dall' odio come fattore di lotta; l'odio intransigente verso il nemico che spinge l'essere umano al di là dei suoi limiti naturali e ne fa una efficace, violenta e fredda macchina per uccidere».

Bell' autoritratto, non è vero? Era malato di asma, a quanto pare, ma la vera patologia era nella testa. Non sopportava la pace, fino a confessare al poeta cileno Pablo Neruda, fraterno amico suo: «La guerra... La guerra... Noi siamo tutti contro la guerra. Ma quando l'abbiamo fatta, noi non possiamo più vivere senza di essa». Altro che eroe coraggioso. Sparava alla testa di gente disarmata, chiamava «animalitos» (nei suoi diari) i contadini poveri che non aderivano alla sua lotta armata in Bolivia, e li eliminava. Siccome di questi tempi molti cattolici lo onorano come un nuovo Cristo, perché bello, barbuto, e crivellato di colpi, ricordo che una ricerca accurata ha contato i preti che, sotto la sua lungimirante visione del mondo, sono stati eliminati: 131. Di questo comunista di merda, assassino seriale, si vendono le magliette, Milano e il Corriere ne celebrano i fasti. E il pericolo secondo Fiano e il governo sarebbe il fascismo e le bottiglie di vino di Predappio. Fate schifo. Vittorio Feltri.